«Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»: il sogno di
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«Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»: il sogno di
«Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo»: il sogno di Giacobbe Benedizione e croce: attraverso le due figure evocate da Bonhoeffer possiamo rappresentare la storia di Giacobbe come un ponte sostenuto da due piloni: l’incontro con Dio a Betel (Gen 28,1022) da un parte, e la lotta con uno “sconosciuto” al guado dello Jabbok (Gen 35,23-33) dall’altra. In entrambi i casi Giacobbe riceve una benedizione. In mezzo ci stanno vent’anni di esilio a PaddanAram e la prosperità guadagnata con la fatica e l’astuzia. «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». (Genesi 28,16) Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese là una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno: una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa. Ecco, il Signore gli stava davanti e disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo, tuo padre, e il Dio di Isacco. A te e alla tua discendenza darò la terra sulla quale sei coricato. La tua discendenza sarà innumerevole come la polvere della terra; perciò ti espanderai a occidente e a oriente, a settentrione e a mezzogiorno. E si diranno benedette, in te e nella tua discendenza, tutte le famiglie della terra. Ecco, io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai; poi ti farò ritornare in questa terra, perché non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che ti ho detto». Giacobbe si svegliò dal sonno e disse: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo». Ebbe timore e disse: «Quanto è terribile questo luogo! Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo». La mattina Giacobbe si alzò, prese la pietra che si era posta come guanciale, la eresse come una stele e versò olio sulla sua sommità. E chiamò quel luogo Betel, mentre prima di allora la città si chiamava Luz. Giacobbe fece questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà in questo viaggio che sto facendo e mi darà pane da mangiare e vesti per coprirmi, se ritornerò sano e salvo alla casa di mio padre, il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele, sarà una casa di Dio; di quanto mi darai io ti offrirò la decima». (Genesi 28,10-22). Giacobbe giunge a Betel come un viandante sbandato: è in fuga per sottrarsi alla collera del fratello al quale ha carpito con l’inganno l’eredità e la benedizione, senza la protezione della madre Rebecca, e privo di risorse finanziarie. Si sente perso, senza i riferimenti che fin dall’inizio della Bibbia sono costitutivi dell’uomo: Dio, la famiglia e le amicizie, la terra e il lavoro. Questo è quello che vede.. Ma Giacobbe, cieco di giorno, ci vede meglio di notte, dormendo. Nel sogno percepisce dove si trova realmente: attraverso le immagini della scala – che, appoggiata sulla terra tocca il cielo con un vertice - e dei messaggeri di Dio che la percorrono. Il luogo dove la scala appoggia a terra si rivela così come Casa di Dio. Non la dimora celeste, ma la dimora terrestre della divinità, in quanto tale “porta del cielo”. Il Signore - in piedi, in cima alla scala - attraverso un oracolo, gli conferma la promessa – il dono della terra ed una discendenza numerosa - e rinnova la benedizione dei padri. « Betel è il rovescio di Babele (che significa Porta degli dei): ha una struttura che giunge al cielo, perché non è stata costruita da mani umane, non vi si è usato il mattone o il bitume. Non occorre che Dio scenda, perché domina dall’alto e invia i suoi messaggeri che assicurano la comunicazione ». (ALONSO SCHÖKEL, dov’è tuo fratello?). I simboli presenti nel racconto – il sogno, la scala, il luogo consacrato dalla presenza di Dio – possono stimolare la nostra meditazione. Ma vanno usati con discernimento. Madre Ignazia Angelini, badessa del monastero benedettino di Viboldone, ci ammonisce a non immaginare un “cristianesimo dei perfetti”, la salita della “scala di perfezione”, « che porta ad un disprezzo della storia, del mondo, della precarietà e dell’ordinarietà della vita. Invece l’alterità di Dio rappresentata da Gesù è proprio in questo suo essere uomo comune, ma con singolarissimo stile ed evidenza nuova ». Il card. Martini ha sintetizzato l’episodio di Betel nella domanda: dove sono, Signore? Ed ha sviluppato la sua meditazione chiedendosi, e chiedendoci: dove Giacobbe crede di essere? Dove Giacobbe è in realtà? Dove sono io? (cfr. CARLO MARIA MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, edizioni san Paolo, 2009. Il capitolo dove sono, Signore? (p. 21-33), si può trovare sul sito, nella rubrica “materiale scaricabile”). Ci ricorda inoltre che « A Giacobbe non è bastata la prima visione, in cui Dio gli si era rivelato fedele. Viene il momento in cui, misteriosamente Dio lotta con l’uomo e l’uomo con Dio. … Questo brano ha ispirato molti mistici, persone che vivendo in grande intimità con Dio si sono riconosciute in esso e hanno compreso che la fedeltà del Signore si fa notte oscura, lotta terribile nella quale si giunge a poter chiedere solo la divina benedizione »: Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora». Giacobbe rispose: «Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!». Gli domandò: «Come ti chiami?». Rispose: «Giacobbe». Riprese: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!». Giacobbe allora gli chiese: «Svelami il tuo nome». Gli rispose: «Perché mi chiedi il nome?». E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: «Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva». Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca. Per questo gli Israeliti, fino ad oggi, non mangiano il nervo sciatico, che è sopra l’articolazione del femore, perché quell’uomo aveva colpito l’articolazione del femore di Giacobbe nel nervo sciatico. (Genesi 32,23-33)