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Finché sogno vorrà dire che son desto

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Finché sogno vorrà dire che son desto
Anno VI - Numero 1
Gennaio - Febbraio 2012
l’EstroVerso
Periodico d’Informazione, Attualità e Cultura - Direttore Responsabile Grazia Calanna
Fervet opus
Grazia Calanna
Certo che “è più
facile chiedere ai poveri
che ai ricchi” ma, davvero,
Čechov converrà, questa
non è soluzione della quale
abusare ignorando, ostinatamente, come accade, che
imboccando miseria agli
indigenti la percentuale di
povertà (a scapito del pane)
arde (lievita) a dismisura
con la logica (sicura) conseguenza di ritrovarci tutti,
nessuno escluso, dentro al
forno (peggio che in grembo
al Toro di Falaride). E,
frattanto, tra plurimi sos
lanciati al Presidente, rammarica (anche) quello per
scongiurare la sospensione,
o peggio, la chiusura di una
cifra crescente di testate.
Giustappunto, eccovi la
nuova versione del periodico
che mi pregio di dirigere.
Siate clementi, chi scrive
non è un grafico, si è improvvisato tale. Puro spirito
di sopravvivenza. Fortuna
che (rifuggiamo falsa modestia) è un numero ricco di
contenuti (unica cosa importante, giusto?) grazie alla
generosità di coloro i quali
(il piacere di “scoprire” i
nomi alle vostre oculate
letture) hanno “dato e fatto
con grazia”, offrendo idee,
gemme di scritti (preziosi).
Del resto, e vi lascio con
Albert Camus, la vera generosità verso il futuro non
consiste nel donare tutto al
presente?
Finché sogno vorrà dire che son desto
di Luigi Carotenuto
L'anno nuovo reclama
meraviglia. La richiede la
disastrata situazione economica, la pretende il
tradimento esistenziale e
spirituale per molti di noi,
cresciuti nelle illusioni
Aris
adolescenziali brutalmente
freddate. I risarcimenti andranno in prescrizione, come i reati dei politici e gli stipendi che,
imprenditori neo-feudatari, succhiando l'osso ai
dipendenti-servi della gleba, hanno negato scappando via impuniti e contenti. Cosa importa
potersi guardare allo specchio quando mancano
gli oboli per comprarlo? Chi ha perso la faccia
con la chirurgia e i quattrini può rifarsela. Benvenuti nella società del benavere, altro che
benessere, qui l'essere non c'entra proprio un
bel nulla (Sartre, pardon). L'approssimazione,
l'insipienza, il bieco obbedire a ciechi impulsi
di appagamento senza futuro e lungimiranza
perseguitano i nostri intelletti e stuzzicano i
palati offrendo portate avariate. “E se le cose
vanno male è perché la coscienza tutta quanta
malata ha un interesse capitale attualmente a
non venir fuori dalla sua malattia” vi grida dal
fondo dei suoi elettroshock Artaud, non lo udite? Parla anche a voi, ragazzi che affogate l'impegno tra un cocktail e un corso di recitazione,
studiando dizione ignari di carne, gemiti, dolore, sangue, martiri non santificati passati e presenti. Per voi Baudelaire, pietoso, ha servito
l'alibi dei paradisi artificiali, ma quanta pena fa
l'ignoranza della vostra e della mia generazione,
l'assenza di interesse civile e sociale, l'implosione di stati d'animo, lo zapping affettivo e le
mille compulsività. Lo sento il giudizio di Gaber, “La mia generazione ha perso”, e ditemi
ancora, quale insegnante di storia ci ha chiesto
un parere su Bresci? Manca l'assolutezza di un
Ribelle jungeriano, da infondere alla collettività, i terremoti non fanno tremare l'inerzia individuale, se c'è una Resistenza in Italia è quella
dei molluschi, parassiti di vari esemplari e natura nonché raggio d'azione. “La massa abbassa
ciò che è alto e innalza ciò che è basso” mi ha bisbigliato prima Goethe, i frutti
inquieti di Pasolini qualcuno li ha raccolti? Hollow men da cosa scappate se
non avete neppure ombre per proiettarvi un po' più in là. Da cosa scappiamo?
Cosa fuggo? Lo stupore, forse. La mirabilia che vi dicevo all'inizio. La grata
di un altrove possibile, qui e ora. Non si tratta di mondi paranormali o fantascientifici (la fantascienza ci ha ormai abituati più alla distopia che al sublime). Quanto coraggio serve a reggere le sferzate del vento! Da un lettino lo
sguardo clinico di un malato viene in soccorso al mio sconforto, cosa sono i
suoi ottant'anni? Quattro ventenni seduti a un tavolo da gioco, schiamazzanti,
chi allegro chi pensieroso, mentre le sue pupille ripongono con cura i ricordi
come abiti dimessi ai quali è affezionato. Non chiede più assoluzioni o condanne. Guarda. Non impara. La pedagogia la lascia ai maestrini. Ascolta e non
giudica. Condivide, sente, patisce e ride. Qui non c'è niente da perdere e tutto è
offerta. Sogno? Può darsi. Finché sogno vuol dire che non sto dormendo.
Allo Specchio di un
quesito
Non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in
terre lontane…», le parole di Emily Dickinson per chiederti
qual è il viaggio più importante che hai fatto grazie alla lettura e dove speri di aver condotto il lettore con il tuo libro
“Volevo essere una farfalla”?
Michela Marzano
Il mondo dell‟infanzia e delle sue angosce. Mi ci sono avventurata un po‟
recalcitrante, seguendo con sospetto i primi passi di Peter nella scuola sperimentale di Copenaghen, accanto a August e Katarina. Perché leggendo I
quasi adatti di Peter Høeg, ci si ritrova per forza confrontati alle proprie
paure e insicurezze. Come si fa, quando si è piccoli, a rendersi conto di cosa
sia giusto o sbagliato? Come si può mettere un po‟ d‟ordine nel dolore caotico della propria solitudine? Poi, pian piano, mi sono lasciata trasportare
dalle ellissi e dal ritmo sincopato della scrittura di Høeg. Quella che nomina
esattamente quello che si provava da bambini, quando ci si ritrovava da soli
nel buio della notte. E alla fine ho capito che Peter aveva ragione: “Alla
lunga è sfibrante combattere il passato per tenerlo lontano”. Chissà! Forse è
per questo che ho deciso di scrivere Volevo essere una farfalla. Per condurre anche io il lettore nel continente oscuro dell‟infanzia. Quando si è troppo
piccoli per capire che si ha il diritto di “essere altro” rispetto alle aspettative
dei genitori. “Altro” rispetto a quello che si sarebbe dovuto essere. Altro
rispetto alle norme e alle ingiunzioni paterne. Semplicemente “altro”…
Forse volevo solo farlo viaggiare all‟interno di se stesso. Alla ricerca delle
parole perse quando pensava, a torto, che “disubbidire” al padre voleva dire
“tradirlo”. Per non combattere più il passato, e cominciare a pensare in modo nuovo il futuro…
Brera Incontra il Puškin, collezionismo russo tra Renoir e Matisse
di Ombretta Di Bella
Alla Pinacoteca di Brera, un evento culturale eccezionale. Dal
22 Novembre sono visionabili dei
veri capolavori della pittura,
all'Impressionismo francese, al
Paul Gauguin
Futurismo, al Surrealismo, summa dell‟arte dall‟800 in poi. Questa rassegna è il frutto della collaborazione tra il Ministero delle Belle Arti, la Soprintendenza di Milano,
la Federazione Russa e il Museo Puškin. La mostra curata da Sandrina Bandera e Irina Antonova intitolata “Brera Incontra il Puškin:
collezionismo russo tra Renoir e Matisse”, aperta fino al 5 Febbraio
2012, crea un parallelo internazionale tra la Russia che accoglie Caravaggio e l‟Italia con le collezioni di Sergei Scukin e Ivan Morozov,
collezionisti che si fregiano del possesso di preziose opere della pittura
“en plein air”, i saloni e caffè parigini come anche il “Ritratto di Ambroise Vollard” del grande Picasso. Si tratta proprio di una trasferta di
celebri nomi dell‟arte in un tempio sacro. Si tratta di un piccolo percorso che a ogni passo produce un balzo al cuore per chi ama, per chi conosce, per chi guarda vedendo oltre la tela il senso di un mondo che
traspare tra i colori di un quadro. Immaginate una piccola sala con una
luce quasi soffusa, uniche fonti infatti sono i punti luce diretti ai quadri, delle pareti grigie mostrano allo spettatore a portata di sguardo
opere come: “Radura nel bosco a Fontainebleau” di Sisley,
“Acquedotto” di Cézanne, l'epifania di fronte alla quale un piccolo
spettatore piange, “Le ninfee bianche” di Monet.
(segue a pag. 4)
Società&Sapere
2 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio 2012
Un Paese dilapidato
“L’impoverimento oltreché economico è linguistico”
FilosoFare
Edificare il valore per eccellenza
di Fabrizio Bernini
Mentre cerchiamo di risollevarci da una crisi che sembra ormai schiantarsi
sul nostro paese con la sua forza d’urto più potente, riflettevo come in Italia
l’impoverimento della lingua abbia progressivamente accompagnato quello
economico. Non è difficile ascoltare come parla la gente, basta passeggiare
tranquillamente per strada o salire su qualche mezzo pubblico. Dai quindici
anni agli “anta” anni sembra dominare un unico linguaggio stereotipato,
figlio della comunicazione appiattita e vuota che televisioni, messaggi pubblicitari, cantanti e modelli di riferimento di successo, sembrano ormai aver spalmato su tutte le generazioni. Non sono da
meno, in quanto causa, né giornali, né tantomeno, purtroppo, la
scuola. Ma allora, come mai si è arrivati a questo? Il lento e
progressivo diminuire di un interesse culturale a favore di un
immediato e omologato stile di vita ha fatto sì, che il nostro bel
Paese, patria mondiale della poesia e dell’arte per secoli, abbia dilapidato tutto ciò che di buono aveva costruito in
passato. Se un grande poeta milanese come Delio Tessa diceva:
“riconosco e onoro un solo maestro: il popolo che parla”, si può ben capire
come un tempo la lingua viva nascesse proprio dall’invenzione arguta e
pratica che la vita faceva fluire nel linguaggio e nell’arte. Una volta
l’operaio aveva in casa una copia di Dostoevskij che sebbene non comprendesse appieno, era per lui, comunque, un punto di riferimento alto. Oggi, se
gli va bene, la biografia di un calciatore.
L’insostenibile
pochezza dell’essere
Se in un immaginifico viaggio di ascesa
ipostatica verso l‟origine prima e infinita
del Cosmo, l‟anima venisse accidentalmente risucchiata nei terreni trambusti,
credo si verrebbero a creare delle condi- Joseph Mallord William Turner
zioni amaramente ironiche. Il riferimento
all‟interiorità, lungi dal presentarsi come una stucchevole lezioncina di filosofia, si pone invece come necessario punto di partenza della riscoperta di noi
stessi. Troppe volte si rimane ciechi e sordi rispetto agli ammonimenti della
nostra coscienza e la consapevolezza di noi stessi subisce delle violente storture che abbassano notevolmente il valore intrinseco di ciascun essere umano.
L‟anima peregrina che si affacciasse sui variegati scenari della nostra società
rimarrebbe quanto meno stupita dalla facilità con cui l‟essere diviene gregario
dell‟avere. L‟opposizione tra i due aspetti non è elemento nuovo, ma la sua
ipertrofia offre un quadro desolante e amaro della realtà socio-antropologica
attuale. Il primato dell‟avido possesso non conosce battute d‟arresto e non
tende a cedere terreno nemmeno in tempi di crisi e di manovre salva euro di
matrice vampiresca. Crisi dell‟economia, crisi della moneta, crisi del mercato
del lavoro, totale decadimento dei servizi, questo il contesto in cui si muove
una popolazione schizofrenicamente spaccata in due. Da un lato, infatti, c‟è
chi avverte la precarietà e il senso di vertigine che ne deriva a causa della
disoccupazione, dell‟inadeguatezza degli stipendi, della miseria delle pensioni; dall‟altro, in una sorta di universo parallelo, si collocano gli eletti per cui il
cielo è sempre terso e il sole splende accecante. Persone che, ridendo in faccia
alla crisi, comprano e sfoggiano, edificano e ristrutturano, primeggiano e
sbeffeggiano. La nostra anima peregrina, in piena crisi d‟identità, avanzerà
tentennando, come un pirandelliano personaggio in cerca d‟autore e si chiederà come tutto questo sia possibile. Poco importa che giornalmente, come in un
tragico bollettino di guerra, ci siano famiglie, pensionati, persino imprenditori
schiacciati dal fisco, che decidono di farla finita togliendo il disturbo con
amara discrezione, ciò che davvero conta è possedere i capi firmati, le Hogan,
le Louboutin, la cintura Gucci e la stola Vuitton. Non ha alcuna importanza se
l‟essenza di ogni individuo non trova il modo di emergere e viene schiacciata
da questa folle e irrazionale corsa all‟ultimo acquisto, all‟ultimo possesso.
Questa è la realtà dei fatti. L‟anima tracolla e cerca disperatamente la strada
della risalita verso le ipostasi superiori, desiderando ardentemente lasciarsi
alle spalle il caos del mondo terreno. Prima di uscire di scena, però, decide di
rendere omaggio alle vestigia dell‟essere, coprendo centinaia di individui
senz‟anima con un velo pietoso, facendo attenzione, beninteso, che la firma
sia ben visibile da ogni angolazione.
Raffaella Belfiore
“Io Sono”
di Alfio Caltabiano
Colgo l’occasione per fare gli auguri a chi con amore, impegno e
volontà da vendere, dà l’anima a questo giornale, raccogliendo idee e
profezie, dando voce ai muti, visibilità a chi è invisibile; facendo cultura insomma, promuovendo, recensendo libri con abilità e coscienza. Grazie Grazia, grazie Luigi…
Detto ciò, lasciate che fruisca della parola che mi si dà, per dire,
e perché no: proporre. Siamo a circa otto settimane dall’otto
marzo, una data questa che ogni anno è motivo di discussioni e
dibattiti sulla condizione femminile. Otto settimane sono poche
per organizzare qualcosa di decente, però si potrebbe aprire un
dialogo non tanto sull’otto marzo, quanto sulla natura femminile, sulla sua essenza, sul suo progetto, sul suo modo di comunicare attraverso i segni. L’ordine tuttora in auge è la narrazione che dà spirito a tante narrazioni: la condizione del vincere o
perdere, conseguenza di una macromolecola conosciuta con
l’acronimo DNA in altri termini l’identità (L’identità c’entra
col femminile? Noi crediamo di si! Ma su questo si potrà disquisire in seguito). Prima si è accennato a un progetto. Quale
progetto? Basta indagare sul ruolo che ha avuto il femminile
per edificare l’interesse, e poi su, su, sino al manifestarsi della
coscienza, ossia l’umanità. Ma la donna continua ancora a tracciare il solco da seguire, a prefigurare un nuovo ordine, un ordine non più fondato sulla forza bruta, sulla violenza, sul dover
vincere. Non mi riferisco a quanto dice o può dire tramite il
verbo, ma a quanto sostiene con i fatti, come femmina, col proprio corpo. Prendiamo ad esempio i pesci. Un pesce femmina
depone milioni di uova, così come il maschio milioni di spermatozoi. Centinaia di uova faranno subito da pasto, altre centinaia
faranno da pasto da pesciolini ed altre centinaia da pesci adulti.
La femmina umana ha all’incirca quattrocento ovulazioni, e in
media non più di due figli, i quali, non dovranno fare da pasto
a nessuno. È questo che si intende per edificio dell’interesse,
tutte le strategie dell’incubazione dell’uovo sino al grembo, col
fine di cautelare, edificare l’interesse per eccellenza, il valore
per eccellenza: l’affetto, il vero “Io Sono”. Ciò nonostante, nel
Genesi si narra che il mondo è stato creato per Adamo. Eva,
invece, è stata concepita come compagnia, una sorta di epifenomeno, non per il mondo ma per allietare la solitudine di Adamo. Non è per seminare zizzania che cito il Genesi che è tuttora
fondamento delle culture monoteiste. Per queste culture la donna è ancora la maggiore responsabile del peccato originale. Che
poi, se per peccato si intende l’essere assurti a persone consapevoli, in effetti, è Eva, ossia la natura femminile, che traccia il
sentiero verso la consapevolezza. Essere consapevoli vuol dire:
essere consapevoli di morire, essere consapevoli che c’è il bene
e il male come conseguenza della sensibilità (norma, piacere,
dolore…). E allora, dobbiamo punire Eva o è più logico indagare per capire dalle tracce, dai segni, qual è il suo progetto? Ad
esempio, a partire dal suo aspetto, il quale non è palesemente
l’aspetto di chi si ripropone di entrare in conflitto, di vincere, di
sottomettere con la forza. La sua fierezza non è la fierezza del
maschio guerriero, ma è la fierezza disarmata, è la bellezza
fieramente ancorata all’esserci, che invita, propone ma non
impone. L’aspetto maschile invece è perfettamente coerente
alla condizione del vincere o perdere, a partire dalla sua genitalità, la quale non prefigura nessun cambiamento di stato, nessun utopico sovvertimento, a parte il decadimento della vecchiaia, esso rimane fertile sino alla fine dei suoi giorni, a differenza della genitalità femminile la quale è a tempo determinato, prefigurando così, un tempo emancipato dalla funzione riproduttiva. Ciò che sino ad oggi è stato interpretato come un
difetto è invece una profezia: l’emancipazione dalla funzione, il
se per sé, il sogno, la speranza di tutta l’umanità.
Società&Sapere
3 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio 2012
Epoca d’incertezza e deboli “potenze” nella stretta di mani sudate
Perché mai un uomo dovrebbe urlare? Quest‟uomo
forza tali bisogna essere per spingersi a ciò) coperti da capsenz‟altro si sforza di farsi sentire. Qualcuno non
potti con stemmi nazionali, compiono per il bene proprio in
l‟ascolta. Egli ha sicuramente o un motivo di presunta
nome del bene comune. Non sto qui a dire quanto più dei
ragione per cui battersi, oppure un motivo di presunto
Tedeschi i Nordamericani abbiano alimentato e ancora ora
torto e vuole disturbare (interrompere) l‟altrui pensiero.
oleato, il quadro culturale alterato di un popolo intero, macQuando al posto di un uomo solo che urla ce ne sono
chiato di muffe, di colori marci, scarabocchi di rivoluzioni
molti, tutti d‟accordo e questi vogliono urlare qualcosa,
mediatiche. Qui non parliamo di leader ma di un intero pocosa usano? Se fossero maggioranza, non avrebbero propolo coinvolto, in opposizione a tutti gli altri popoli della
blemi, credo, a farsi ascoltare e tanto più la loro voce
terra. Ma perché un popolo dovrebbe servirsi di una simile
direbbe cose scabrose, tanto più si dovrebbe fare grossa
forza propagandistica? Cos‟ha da nascondere? Perché, lettoper non far pensare e stordire la minoranza. Ammettiamo
re, in un celebre caso (ce ne sono stati tanti, di questi disturJacek Yerka
che, sciaguratamente, la maggioranza cominci ad essere
bi mentali) un uomo si lava continuamente le mani? Passiamo
minoranza e che faccia scarsamente (magari per abitudine) attenzione al oltre. Anzi concludiamo. Gli stati potenti del mondo si tendono insicuri le
diritto altrui; cosa dovrebbe fare? Dovrebbe alzare la voce? Credo che a mani sudate, in questi anni d‟incertezza. Se mai uno o più dovessero cadere,
buon esempio, si possa prendere uno stato, uno qualunque, gli Stati Uniti, le gambe molli degli altri non reggerebbero il colpo, a meno che qualcuno
la sua voce grossa, la sua macchina propagandistica e rivolgergli per un abbia le mani fin troppo sudate per reggere la presa. Il paese che guida
attimo lo sguardo. Macchina propagandistica, che brutta frase. Ricorda l‟occidente e il mondo, il paese della speranza, si piega da sé. Con le sue
tanto la “macchina propagandistica” di un certo impero che doveva durare mani grassocce palpeggia democraticamente l‟intimo dei paesi, polveri e
mille anni e poi durò pochi decenni; almeno in Alemannia si dice che i rovine che un tempo gli furono a turno predecessori nella guida del mondo,
nazisti sconfissero i nazisti. A noi. Dunque la macchina propagandistica egli cerca una presa. Ecco che il ballerino è colto dal fiatone; la tradizione
servirebbe, ad esempio, credo siamo d‟accordo, per confondere, coprire di dice: “sotto un altro!”. Stavolta, però, credo ci sarà un gran finale.
lodi e inganni le schifezze, i crimini, che un gruppo di fanatici (perché per
Luigi Taibbi
L’ANGOLO DEL COMMERCIALISTA
Il Nuovo Regime Agevolato dal 2012
a cura di Danilo Lizzio - [email protected]
Con il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 22
dicembre 2011 sono state dettate le modalità di applicazione del regime contabile agevolato previsto dall’articolo 27, comma 3 del D.L. 98/2011 convertito
con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011 n. 111.
I soggetti ammessi al nuovo regime agevolato, a partire dal periodo d’imposta
2012, sono coloro che posseggono i seguenti requisiti:
1) nell’anno 2011:
non hanno conseguito ricavi o compensi superiori ad euro 30.000,00;
non hanno effettuato cessioni all’esportazione;
non hanno sostenuto spese per personale dipendente o collaboratori
con qualsiasi contratto;
2) nel triennio 2009 - 2011 non hanno effettuato acquisti di beni strumentali,
anche in leasing, per un ammontare superiore ad euro 15.000,00;
3) non si avvalgono di regimi speciali ai fini IVA;
4) risiedono sul territorio nazionale;
5) non sono soci di società di persone (snc o sas) o associazioni o a società a
responsabilità limitata trasparenti (art. 116 testo unico imposte sui redditi);
6) non effettuano esclusivamente o in prevalenza cessione di fabbricati o loro
porzioni e terreni edificabili o di mezzi di trasporto.
I soggetti esclusi da tale regime sono quelli soggetti a particolari disposizioni
IVA e/o imposte sui redditi (ad esempio coloro soggetti agli artt. 34, 34 bis e 74
del decreto 633/1972; articolo 25 bis decreto 600/1973; artt. 36 e 40 bis decreto
legge 41/1995; art. 5 legge 413/1991). I soggetti che si avvalgono del regime
agevolato sono esonerati dalla registrazione e tenuta delle scritture contabili ai
fini IRPEF, IVA e IRAP; dalle liquidazioni e dai versamenti periodici IVA;
dal versamento dell’acconto IVA; dalla presentazione della dichiarazione ai
fini IRAP. Sono, invece, dovuti i seguenti adempimenti: la conservazione dei
documenti emessi e ricevuti; la comunicazione annuale dei dati IVA, se il volume d’affari supera la soglia di euro 25.822,84; la presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini IRPEF e IVA; il versamento annuale dell’IVA e quelli
dell’acconto e del saldo dell’IRPEF e delle relative addizionali; la compilazione del modello degli studi di settore o dei parametri. La determinazione del
reddito dei soggetti rientranti nel regime agevolato è regolamentata dagli articoli 54 (lavoro autonomo) e 66 (reddito d’impresa) del testo unico delle imposte sul reddito e successive modificazioni. Tali agevolazioni si aggiungono a
quelle riservate ai cosiddetti “nuovi contribuenti minimi”, i quali hanno meno
adempimenti fiscali (soprattutto ai fini IVA) e maggiori agevolazioni in termini di determinazione del reddito imponibile (di lavoro autonomo o d’impresa).
I “nuovi minimi” applicano al reddito imponibile l’aliquota agevolata del 5%
e, se soggetti, non inseriscono la ritenuta in fattura. Infine, essi non sono soggetti agli studi di settore e non versano l’IVA né periodicamente né annualmente, perché non viene riportata in fattura.
LIII CONGRESSO FIJET
Giornalismo turistico e comunicazione
La Fijet, Federazione Internazionale dei Giornalisti
e Scrittori del turismo, è stata ospitata in Romania,
al Palazzo del Parlamento di Bucharest. Grazie al
Ministero del turismo e alla Municipalità di Bucharest, al Presidente internazionale della Fijet Tijani
Haddad, che ha voluto il congresso in Romania e,
per l‟organizzazione, un grazie al segretario internazionale Jacques Campè, al giornalista Jim Thompson, a Victor Radulescu, Presidente della Fijet in
Romania, il LIII Congresso ha ospitato oltre 250 giornalisti provenienti da diversi paesi. Tematica del congresso il compito del giornalista come tramite indispensabile per divulgare il turismo nelle
sue più svariate sfaccettature. Il giornalista come veicolo trainante
che pubblicizza il turismo descrivendone immagini e costumi e che,
attirando il turista, crea economia, cultura e scambio di idee che
consentono consapevolezza. Abbiamo appurato come la Romania,
oggi, sia diventata una nazione democratica. Siamo stati accolti
come “fratelli”, balli e musiche tradizionali facevano da gradevole
sottofondo al nostro giro turistico. Il turismo in Romania è a buon
mercato e il paese è in grado di offrire interessanti itinerari. A nord
della Moldavia si trova Bucovina, la terra di tanti monasteri divenuta patrimonio dell‟umanità Unesco. Vi sono paesaggi stupendi che
vanno dai Carpazi alla Transilvania dove si trova il castello di Bran,
celebre come castello del conte Dracula. In Romania si possono
praticare vari sport come rafting, sci, caccia, pesca. Altra forma di
turismo appassionante è l‟esplorazione a cavallo di magnifici sentieri naturali. E inoltre c‟è l‟agriturismo, spesso di stile antico, che
offre ai turisti sapori e colori eccezionali. La Romania è conosciuta
anche per il buon vino, i cibi genuini e l‟eccellente grappa che i
rumeni offrono in ogni occasione.
Giovanna Abate
Arte&Spettacolo
4 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio
Fantarcheologia
Ceci n’est pas… Archeologia!
di Daniele Cencelli
Parafrasando il motto magrittiano, introduco il tema della cosiddetta “fantarcheologia”. Ovvero, “una sorta di archeologia pseudoscientifica che dà una interAnticitera o Antykithera
pretazione non conforme al metodo
scientifico archeologico”. Il tema, seppur
possa sembrare frivolo, ha una qualche importanza, sia perché ci
mostra come nei secoli l'uomo si sia rapportato a reperti considerati
“particolari” sia perché, oggi, si sente spesso parlare di archeologi
improvvisati che, con mirabolanti spiegazioni, illustrano alcuni aspetti non del tutto chiari a chi, invece, è del settore. Il primo approccio a questa pseudoscienza fu quello dello scrittore C. H. Fort, studioso del paranormale, che spiegò manufatti considerati all'epoca
“particolari”, siamo a cavallo tra Ottocento e Novecento, come prodotti alieni. Il più noto esempio riguarda la mitica Atlantide, menzionata da Platone, e descritta come un'isola molto potente distrutta poi
da un cataclisma. Già dal XVI sec. si iniziò a collegare Atlantide con
le civiltà americane, per poi giungere a connettere la stessa con Mu,
mitico continente della tradizione maya. Per cercare di validare l'esistenza e la distruzione di Atlantide, le ipotesi si moltiplicarono velocemente durante i secoli, per primi furono “sbattuti” al banco degli
imputati gli asteroidi. Nel 1902, sull'isola greca di Anticitera, si rinvennero alcuni resti di un manufatto meccanico di rame. Diverse
indagini appurarono che il congegno riproduceva il moto dei pianeti
attorno al Sole e anche le fasi lunari. Un meccanismo troppo elaborato, quindi, così pensarono gli stessi eruditi dell'epoca, insistendo che
il manufatto fosse troppo complesso per appartenere allo stesso periodo della nave inabissata in cui era stato ritrovato (I sec. a.C). Ma
perché sottovalutare la cultura greca? In quel periodo si fecero effettivamente notevoli passi avanti nella scienza, tali da spiegare un'opera del genere. Recentemente è stata ipotizzata la possibilità che il
meccanismo abbia, tra l'altro, i natali proprio in terra sicula, a Siracusa. Ultimo fantasioso esempio riguarda noi, o meglio, l'essere
umano. Nel 1912 vennero rinvenuti a Piltdown (Sussex) da C. Dawson, avvocato con la passione dell'archeologia, dei frammenti cranici e una mandibola con due molari ancora incastonati. Il tanto
ambito anello mancante uomo-scimmia? No, una truffa bella e buona. Solo dopo 40 anni il cosiddetto Eoanthropus dawsoni fu smascherato come essere mitologico piuttosto che anello mancante:
infatti, il cranio era di un più che conosciuto Sapiens, mentre la mandibola apparteneva ad un pongo e i denti, appositamente limati, ad
uno scimpanzé. Novacula Occami docet.
Venezia. Palazzo Cavalli Franchetti
La fotografia
dal Giappone (1860 - 1910)
I Capolavori
EscogitArte
a cura di Elisa Toscano
Yamamoto Masao
Frammenti di mondo e onirici istanti
Ogawa Kazumasa
L‟Istituto Veneto di Scienze Lettere e
Arti di Venezia, fino al 1 aprile 2012, al
Palazzo Cavalli Franchetti, ospita una
mostra che presenta oltre 150 stampe
fotografiche originali realizzate dai
grandi interpreti giapponesi ed europei,
agli albori della storia della fotografia,
fra il 1860 ed i primi anni del Novecento. Dal titolo La Fotografia del Giappone (1860-1910). I Capolavori, la mostra
è curata da Francesco Paolo Campione
(direttore del Museo delle Culture di
Lugano) con Marco Fagioli. È prodotta
dal Museo delle Culture di Lugano e da
Giunti Arte mostre musei, con, in Italia,
l‟Istituto Veneto di Scienze Lettere e
Arti. Presenta i capolavori di uno dei
più importanti capitoli della storia della
fotografia - nata in Europa ma subito
sperimentata in Giappone - nel periodo
in cui il Paese del Sol levante si apriva
all‟America e all‟Europa, influenzando
con le figurazioni e le rivelazioni
della sua creatività il gusto dell‟intero
Occidente. Gli appassionati del genere
potranno ammirare le opere di alcuni
grandi fotografi delle origini, primo
fra tutti l‟inglese Felice Beato che,
con un piccolo gruppo di artisti giapponesi, diede vita alla Scuola di Yokohama. Il tragitto espositivo suddiviso
in sezioni analizza la figurazione del
paesaggio, la natura “educata” dalla
cultura, il piacere dell‟esotismo e la
relazione fra sacro e profano. La mostra si conclude con le opere dei grandi interpreti della fotografia giapponese e straniera, come Kusakabe Kimbei, considerato il maestro nel realizzare sofisticate foto all‟albumina colorate a mano. L‟esposizione è accompagnata da un importante volume,
pubblicato da GAmm Giunti.
Brera Incontra il Puškin…
Nello Calì
(segue da pag. 1)
Quest'ultimo appare incorniciato con un senso di forte preziosità in un intarsio
ligneo dorato, evidenziando in poche pennellate il senso del dinamismo in nuce di
un'epoca che scoppia più avanti in un “Autoritratto” di Boccioni. Tra Pisarro e
Cézanne campeggiano, contro la tetra monotonia, i rossi di Gauguin con i suoi
emblemi “La stanza rossa” , “I pesci rossi”, ecc. Si prospettano ulteriori prestigiosi scambi culturali, è solo l'inizio se si pensa che la mostra deve ai collezionisti
italiani Jesi, Jucker, Vitali e Mattioli le opere degli artisti del Novecento come
Boccioni, Modigliani, Mafai, De Pisis, Carrà e Morandi. Un'apoteosi sensoriale
emotiva da non perdere per lasciarsi sedurre dalla bellezza di vedere la realtà altra
di un quadro.
Ombretta Di Bella
Racconta affascinanti storie tramite la magnificenza della natura
che ci circonda. Offrendola come un oggetto da poter portare con
sé nella propria mano. L‟artista Yamamoto Masao, ha iniziato i
suoi studi come pittore. Da anni ormai utilizza la fotografia per
catturare le immagini che evocano ricordi, sebbene non si possa
prescindere da un successivo intervento di tipo pittorico. È noto
per le dimensioni ridottissime delle sue opere, come egli stesso
commenta: “puoi stampare le mie foto della grandezza che preferisci, ma ogni cosa ha la sua giusta dimensione, io le voglio così,
piccole, per poterle tenere nel palmo della mia mano, devono divenire oggetti”. Contravvenendo ad ogni convenzione fotografica,
Masao non prevede l‟ingrandimento del negativo, sembra voglia
costringere l‟occhio altrui ad uno sforzo di attenzione per cogliere
i dettagli della sua opera. Realizza installazioni con le sue piccole
fotografie per mostrare come ogni stampa è parte di una realtà più
grande ed afferma: “le mie
installazioni non hanno un
inizio, puoi guardarle da qualsiasi stampa, ogni inizio ha una
storia diversa”. Sono scatti di
immensa bellezza che conducono lo spettatore ad ammirare
quei “dettagli che la natura ci
regala e che molta gente perde”. Istantanee dai bordi strappati che l‟artista ricolora con
gocce di the e/o vernice rossa: il corpo di una donna, un fiore, un
paesaggio. Sono frammenti di mondo, istanti di sogni.
Arte&Spettacolo
5 l’EstroVerso
Gennaio - Febbraio
Adriano Di Stefano
“Suoni del cuore”, un inno alla libertà dell’essere
“Suoni del cuore” è il titolo del secondo album di Adriano Di Stefano (nella foto), prodotto da “La città vecchia”,
libera associazione di promozione musicale, che, dopo i
consensi ottenuti con il lavoro d‟esordio, “Distrattamente”, edito da Prova d‟Autore, torna alla ribalta proponendo una raccolta di suoni e testi dettati, con assoluta
spontaneità, dall‟animo sensibile del giovane poeta e
cantautore catanese. Otto brani inediti, scritti, musicati e
cantati dall‟abile Di Stefano, ispirati, come direbbe il sociologo Giovanni
Busino, al più raro dei lussi: la libertà. Artista eclettico, accompagnato da
Alessio Giordano (chitarra solista) e Andrea Giuseppe Denaro (banjo,
basso, bouzouki, flauto traverso), Di Stefano, prosegue con successo la
propria tournée.
Qual è il messaggio portante del cd?
“Lasciarsi andare e ascoltarsi. Lasciare che i sentimenti giusti abbiano
più spesso la meglio così da non essere, come spesso accade, sovrastati
dalla ragione. Credo sia l‟unico modo per essere più umani”.
Qual è, ammesso ci sia, il brano più significativo?
“Valzer da solo. L‟ho inserito a conclusione dell‟album come
pure in scaletta alla fine di ogni singolo concerto perché lo
reputo il modo migliore per salutare chi mi ascolta. Esprimo la
mia paura più grande: rimanere da solo per rendermi conto, un
giorno, che nessuno ha mostrato attenzione reale per le mie
canzoni, per le mie parole”.
Quali artisti prediligi?
“Ce ne sono parecchi. Oltre ai “soliti noti” cantautori italiani, ho scoperto
personalità (non solo artistiche) come quella di John Lennon che mi hanno
particolarmente affascinato per la voglia di diffondere messaggi pacifici e di
amore, oltre che per la profondità dei testi. Penso che Lennon solista potrebbe divenire il mio punto di riferimento per gli anni futuri”.
Quali le fonti ideali di ispirazione?
“Ultimamente mi lascio ispirare dal mio stato d‟animo, non faccio riferimento a nessuna particolare musa, cerco solo di capire meglio me stesso per,
poi, tirare le somme con i miei motivi”.
Istantanee, memorie dal presente Speaker’s Corner
di Rosario Leotta
8
3
5
2
9
4
1
6
7
In occasione del 150° anniversario
dell’Unità d’Italia, la storica e blasonata agenzia Magnum ha dato vita ad un
Grand Tour fotografico, il cui fine è
manifestare il presente visivo del nostro
paese per celebrarne la memoria. Nove
fotografi per nove tematiche da rappresentare. Richard Kalvar (1) ha ritratto
scenari che ci contraddistinguono, dai
pranzi in famiglia, alla domenica in
chiesa fino alla cultura del rito matrimoniale. Harry Gruyaert (2) si è premurato di sviluppare il tema del progresso industriale puntando i riflettori
sugli eccessi dell’urbanizzazione. Alex
Majoli (3) ha documentato le classi dei
lavoratori e degli artigiani meno noti,
come i pescatori di Portopalo o gli operai degli stabilimenti Maserati di Modena. Christopher Anderson (4) si è
concentrato sul mare passando anche
da Catania, dove ha fotografato i silos
per il frumento del porto. Donovan
Wyle (5) si è occupato di evidenziare
nuove realtà urbane, come i resti delle
nostre antiche mura che convivono
insieme alla più recente architettura.
Paolo Pellegrin (6) si è impegnato a
descrivere il “domani” italiano fotografando i primi piani di 150 ragazzi che
sorridono speranzosi al futuro della
penisola. A Mikhael Subotzky (7) è
stato affidato il compito di documentare le contraddizioni insite nella realtà
italiana. Ad esempio, una delle sue immagini raffigura i bambini che giocano
sulla spiaggia di Cecina mentre un
trans prende il sole. Mark Power (8) ha
fotografato i luoghi della memoria diventati stereotipi quali il duomo di Milano, mentre infine Bruce Gilden (9) si
è preso cura di raffigurare la problematica degli “altri”, girando per carceri, centri d’accoglienza, parchi pubblici
e baraccopoli.
Spazio e voce alla tua creatività
Speaker‟s Corner è
il nuovo originale
progetto della cooperativa Tribe. Lo
"Speaker’s Corner" è
un palco, un'opportunità, una bella vetrina, una zona franca,
il campo neutro dove
esibirsi liberamente
senza filtri o selezioni da parte degli addetti ai lavori. Nello
spazio allestito all‟interno della Vecchia Dogana di
Catania artisti, musicisti, poeti, scrittori, registi,
studenti, docenti, dilettanti e professionisti avranno
quindici minuti di tempo per far conoscere al pubblico il proprio lavoro, le proprie idee o le proprie
iniziative utilizzando video, immagini o semplicemente la propria voce. Ogni martedì, dalle 19 alle
24, sul palco dello Speaker’s Corner, lo “speaker” e
il suo “progetto” saranno i protagonisti principali di
una serata/show democratica basata sulla condivisione e sulla libera circolazione della creatività.
Partecipare è semplice: basta scaricare, compilare e
inviare la relativa scheda alla cooperativa Tribe,
promotrice della manifestazione, che si occuperà di
raccogliere e organizzare le candidature «senza se e
senza ma». Per maggiori dettagli e per reperire la
scheda di partecipazione e il calendario delle serate
in programma (o da programmare) potete consultare
il sito www.tribearl.it/speakerscorner.
Nello Calì
l’EstroVerso
Numero 1 - Anno VI
Registrazione Tribunale di Catania
n. 5 del 9 febbraio 2007
Direttore Responsabile
Grazia Calanna
Segretario di Redazione
Luigi Carotenuto
Editore EstroLab
www.lestroverso.it
Cultura
6 l’EstroVerso
L’incontro con Milena Agus
di Gabriella Bertizzolo
Asiago, 22 agosto 2007. Il tempo promette
pioggia così a mezzogiorno l‟altoparlante
annuncia che l‟incontro con i finalisti del
Premio Campiello, anziché in piazza del Risorgimento, si terrà nella sala del Grillo Parlante. Come d‟abitudine mi reco
all‟appuntamento in anticipo. Nella sala semivuota sfoglio i libri letti e riletti e osservo il
Milena Agus
frenetico lavoro dei tecnici alle prese con
audio e microfoni. Mentre la sala si riempie, i magnifici quattro (l‟ottuagenario
Fruttero, assente, è ricordato con un lungo applauso) arrivano scortati
dall‟Assessore, Andrea Gios, dal Presidente della Confindustria Veneto, Andrea
Riello, e dal Presidente del Comitato di Gestione del Premio, Walter Fortuna, che
presenterà la conferenza. Mi complimento con tutti gli scrittori, mantenendo segreto - com‟è giustamente richiesto - il mio ruolo di membro della Giuria dei Trecento. La Agus è con un gruppo di amici. Le chiedo cortesemente l‟autografo, mentre
iniziamo a parlare, proprio all‟entrata della sala, di “Mal di pietre” (presente anche
alla finalissima del Premio Strega). “Mi congratulo per la sua storia che ho letto
con interesse, per il linguaggio immediato e la capacità di penetrazione psicologica. Interessanti anche le “posizioni” della nonna col Reduce - dico un
po‟scherzando -”. “Prestazioni” - mi corregge prontamente l‟autrice sorridendo con
voce pacata ma decisa -. Certo, prestazioni, quella della preda, della schiava, della
musa, della donna cagna, della pigra…”. Le avevo lette, mi era piaciuta l‟incisività
del linguaggio pur nell‟asciuttezza formale. “Non avrei mai pensato che la storia
finisse così, intendo dire che la nonna aveva solo immaginato di avere quella relazione anche fisica col Reduce”. “Nemmeno io, per la verità”. “Comunque, io ho
trovato il suo libro poetico”. “Ho scritto parecchie poesie quand‟ero piccola, ma
brutte”. “Brutte? Non credo, lei è troppo modesta. Anch‟io ne ho scritte parecchie.
E il suo rapporto con la classe dell‟Istituto Superiore dove insegna?”. “Ho sempre
tenuto tutto nascosto, non volevo e non voglio che i miei allievi leggano il mio
libro, nemmeno la mia famiglia, mio figlio”. “Posso capirla, sono un‟insegnante di
Lettere alle medie che ha avuto il coraggio di dare alle stampe sei libri di poesia, da
qualche anno sono alle prese con un romanzo che mi rende difficile la vita”.
“Auguri, allora!”. “Grazie, ne ho bisogno. Come si sente dopo le varie traduzioni e
i lusinghieri risultati ottenuti con „Mal di pietre‟ presente anche nella finalissima
del Premio Strega?”. “Mah, per me questo libro è già andato fin troppo avanti. Io
non mi ritengo una scrittrice, ma piuttosto „una che scrive‟. Ci ho ripensato mille
volte prima di consegnare il manoscritto a Nottetempo, non volevo che venisse
pubblicato”. Penso alle consonanze profonde che affiorano dal nostro dialogo:
anch‟io non mi sono mai ritenuta, né mi ritengo una “poetessa”, ma “una che scrive poesie”. “È successo anche a me. Comunque io penso che nel momento in cui
una persona consegna il suo scritto alla casa editrice, significa che almeno una
parte di sé desidera che il testo venga pubblicato, altrimenti lo terrebbe nel cassetto
della scrivania. Sembra lapalissiano, ma credo sia così”. Sono io a rompere il silenzio che fa seguito alla mia domanda. “Posso dirle una cosa? Lei il più grande successo l‟ha ottenuto con il suo pudore, pudore che permea di sé tutto il romanzo,
anche quando chiama le cose col proprio nome. “Ho sentito che ci sono pagine di
sesso sfrenato”, dirà poi, sic et simpliciter, molto simpliciter, Vespa”. “Grazie”,
conclude. Tutti si sono già accomodati sul palco ma la gentile professoressa Agus
senza fretta finisce di scrivermi sul frontespizio del volumetto “con gratitudine”
con una grafia tondeggiante, ordinatissima, di quelle di una volta. Sono io a ricordarle che manca solo lei all‟appello. La rivedo lo scorso primo settembre a Venezia, sul palco della Fenice, ben salda sulle ballerine che non fanno niente per alzarle la statura… Ma l‟alta statura dell‟autrice sarda è quella narrativa.
Gennaio - Febbraio
SCRITTURA CREATIVA.
SUGGERIMENTI
IV
Ciao a tutti (diamoci del tu),
spero che il vostro 2012 sia iniziato bene.
Oggi andiamo speditamente, ché parleremo dei personaggi, e le cose da dire sono molte.
Dunque. Fondamentale, per ciascun personaggio di
una narrazione, è la coerenza: la coerenza con sé stesso e
la coerenza relazionale.
La coerenza con sé stesso significa che se il personaggio X non si è mai acceso una sigaretta per le prime
243 pagine della mia narrazione, e lo faccio fumare a pagina 244, sto commettendo un errore; a meno che io non
espliciti (e motivi) il fatto che egli abbia iniziato a fumare.
Come non incorrere in simili incoerenze? Creando,
prima di cominciare una narrazione, le schede biografiche
dei personaggi, le più dettagliate possibile. Ribadiamo
quanto già detto la scorsa volta: più la mia immaginazione
(dei personaggi, in questo caso) sarà vivida, o meglio: sarà
completa, meno mi esporrò al rischio di incoerenze.
Ma Bagnasco, così non si avranno personaggi monolitici, statici? Macché. Nel corso della narrazione, un personaggio può certo mutare atteggiamento, giudizio, ruolo,
eccetera: ma - ripeto - qualunque cambiamento dovrà
essere frutto di una precisa scelta narrativa, e non di sciatteria d’autore.
Cos’è, poi, la coerenza relazionale? Beh, un personaggio esiste solo in rapporto con gli altri. Per cui, ogni
narrazione dovrà avere un insieme di personaggi la cui
coesistenza sia narrativamente plausibile e funzionale. E
ciò ci porta a una riflessione, la quale ci conduce a due
avvertenze.
La riflessione: i personaggi hanno l’inguaribile tendenza a formare coppie.
Da ciò, due avvertenze. Prima: occhio ai doppioni
(due personaggi perfidi, o due doppiogiochisti, o due
imbranati, in una narrazione sono troppi).
Seconda: un certo tipo di personaggio ne prevede
quasi obbligatoriamente un altro. Per esempio, se sto
scrivendo un noir e inserisco nella mia narrazione una
bionda vaporosa sulla trentina, meglio se vedova e incline
al whisky, non posso non inserirvi anche un personaggio
che prima o dopo cadrà vittima del di lei fascino.
Ultimissima avvertenza: i personaggi si muovono
all’interno di un determinato spazio, che consente loro di
fare e dire alcune cose, e non ne consente altre. Per esempio, se il luogo è buio sarà insensato badare alla mimica
dei personaggi; altro esempio, un luogo affollato è perfetto perché A spifferi, quasi distrattamente, qualcosa di
cruciale all’orecchio di B; e un vasto luogo aperto è
l’ideale per un inseguimento.
Dubbi, domande? Se sì, scrivetemi.
Vi abbraccio tutti insieme e uno per volta,
alla prossima.
Claudio Bagnasco
[email protected]
Cultura
l’editore
7
l’EstroVerso Gennaio - Febbraio
racconta...
La Casa editrice Prova d’Autore è stata fondata nel 1978. La prima
pubblicazione è stata la rivista bimestrale Lunarionuovo diretta da Mario Grasso (www.mariograssoscrittore.it). I primi collaboratori di Lunarionuovo sono stati: Sebastiano Addamo, Giorgio Bàrberi Squarotti,
Giovanna Capone, Gilberto Finzi, Giuliano Gramigna, Mario Grasso,
Giuseppe Marchetti, Biancamaria Mazzoleni, Giancarlo Pandini, Giuseppe Pontiggia, Giovanni Raboni, Salvatore Rossi, Giuseppe Savoca,
Salvatore Scalia, Maria Luisa Spaziani e Leonardo Sciascia, tutti presenti con propri scritti inediti sul primo numero (Cfr. Lunarionuovo n.
A.I, n.1 – Giugno/Luglio 1979 – Catania). I libri pubblicati da Prova
d’Autore tra il 1979 e il 1987 sono stati siglati Lunarionuovo, compresi
quelli editi in collaborazione con la Società di Poesia presso l’Editore
Guanda (Cfr. Coedizioni Lunarionuovo - Società di Poesia - CataniaMilano). Dal dicembre 1987, dopo nove anni di attività nella sede originaria, c’è stata l’inaugurazione della nuova e attuale sede in via Leopardi, n. 53, a Catania, (inaugurazione festeggiata con l’intervento di
Juri Lotman e di personalità della cultura internazionale e locale - vedi
www.provadautore.it), a partire dalla stessa data la produzione editoriale verrà definitivamente siglata con il logo e la ragione sociale Prova
d’Autore.
Qual è l’aneddoto più curioso legato alla nascita della casa editrice?
Quello dello stupore di certi “soliti ignoti” per la venuta di Juri Lotman a
inaugurarla. I soliti “amici locali”, dispensatori di gratuiti elogi alla rovescia, lo raccontavano assicurando che era tutta una leggenda metropolitana. Per questo motivo abbiamo inserito nei nostri cataloghi le fototestimonianza.
Qual è la peculiarità della vostra linea editoriale?
Esclusivo interesse per le scienze umanistiche. Prevalente attenzione per
la letteratura creativa, Poesia, Narrativa e Pensiero di autori italiani in
lingua e in tutti i dialetti d‟Italia.
Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo un editore
può salvaguardare l’autenticità della cultura?
Non certo un singolo editore ma una “politica editoriale” generale, ammesso sia possibile tale utopia. Il singolo editore può proporre il proprio
esempio, dimostrando di poter disporre di un comitato scientifico adeguato ai compiti da svolgere, quindi rinunciando a quanto può procurargli
lauti guadagni ma non prestigio professionale.
La vostra casa editrice non ha eguali in tutto il Meridione in termini di
spazio (fiducia) concesso alla poesia. In che modo è possibile riconoscere un vero poeta e, conseguentemente, selezionarlo per la pubblicazione? E, ancora, cosa spinge oggigiorno un editore a pubblicare un
poeta considerato anche l’esiguo mercato della poesia?
Pubblichiamo due collane di poesia, Centovele e Alisei. In Alisei opere
di poeti di chiara fama nazionale, la collana è stata diretta da Maurizio
Cucchi e dopo di lui da Mario Grasso. Vi sono state pubblicate opere di
Antonio Porta, Giancarlo Majorino, Gregorio Scalise, Daria Menicanti,
Junna Moritz e di un paio di dialettali. È in corso di stampa una silloge di
liriche in piemontese di Dario Pasero. L‟altra collana, “Centovele”
anch‟essa affidata alla direzione di Mario Grasso, pubblica autori esordienti (Luigi Carotenuto, Grazia Calanna, Giuseppe Carracchia, Fabrizio
Ferreri, Valeria Spallino, ne sono esempi recentissimi) e conferme selezionatissime. Ma senza superare i cinque/sei libri all‟anno, a fronte delle
duecento e passa richieste che giungono. La poesia si fa riconoscere non
occorre indagare per conoscerla. La poesia non ha mai avuto mercato.
Ma coprire le spese di una edizione non sarà un miracolo.
Quali le prossime novità editoriali?
Tra febbraio e marzo manderemo in distribuzione un saggio del francesista Gaetano Vincenzo Vicari su Flaubert, un saggio di Nunziella Imbalzano su autori del Novecento italiano, un sorprendente libro di poesie
dell‟esordiente Enzo Mellia e uno del noto poeta nisseno Vittorio Stringi;
ci sarà un nuovo libro di Alfio Patti, il nostro affabilissimo “aedo
dell‟Etna”, l‟esordio di due giovanissimi: Erica Donzella e Luigi Taibbi.
Verrà pubblicata la silloge degli interventi sul tema del convegno “Il
verso e l’ES” curata da Emilia Musumeci e ci sarà anche una proposta
innovativa: il lancio di una collana, “Möbius” dedicata al pensiero filosofico e affidata alla direzione di una studiosa di prim‟ordine, Marina Guerrisi, che sta già curando il primo volume, in uscita a febbraio.
Nives Levan (titolare Editrice Prova d’Autore)
L’antro della Pizia
di Savina Dolores Massa
Hiroshima mon amour
E’ stato un dvd della settima arte a concludermi una giornata che, fino
alle nove della sera, era destinata ad essere tra le dimenticate. Come
tante, e me ne cruccio sì e me ne cruccio no. Alle nove di un inizio notturno qualunque entra in casa Hiroshima mon amour, diretto da Alain
Resnais cinquant’anni fa più o meno. Soggetto e sceneggiatura di Marguerite Duras. La giornata si sorride, anche se solo sulla coda del finire. E batte molto, la coda. La prima immagine mostra due amanti
aggrovigliati, con pelle ricoperta da cenere atomica. La parola entra,
ed è subito palpabile la letteratura. Non i volti, ancora, ma solo immagini e parole. E musica. Non amo definire niente, capolavoro. Oppure
mi capita per qualcosa che realmente mi lascia sperduta. A volte mi è
capitato di incontrare qualcuno che lo era.
E mi ha sperduta.
Quando la pellicola uscì, in molti la definirono tale: capolavoro; in
molti si spaventarono nel momento in cui rappresentò cinematograficamente una totale rottura con gli stili sino ad allora proposti. In molte maniere, fu definita: una delle prime opere della Nouvelle Vague,
una delle prime opere ad utilizzare il sistema del flashback; un film di
protesta; un film pacifista; e tanto ancora. Ma tutte queste informazioni, se volete, potrete cercarle, da soli. Non sono un’esperta. Io guardo,
così, anche senza sapere niente di niente.
Prima. Mi ritrovo in una stanza di fronte a una storia e colgo solo quel
modo bello di raccontare che raramente trovo in un film. Le parole
della Duras, i volti dei due soli protagonisti, un passato di macerie
ancora maleodoranti di guerre. Lui è un giapponese, lei una francese.
In un incontro d’amore occasionale che poteva essersi concluso lì, in
quell’unico giorno, ogni ferita riprende a produrre pus. Niente cicatrizza ciò che ha navigato in spensieratezza stagnante di memoria,
alla quale si è imposto, Taci. Per anni.
Nessun eroe, in Hiroshima mon amour, ma persone di battaglia, che
hanno ingoiato guerra a manciate, e non si sono salvate, no, se incapaci di sostenere un qualsiasi ricordo. Incapaci di ridere di nuova faccia
conservano solo la dolorosa capacità di tornare al passato con il desiderio, inutile, di esorcizzarlo. E saranno incubi, visioni, unghie spezzate su un muro, trasportati su un nuovo muro-corpo da graffiare. In
deliri d’innamoramenti che si sovrappongono a corpi che si pensavano servissero per dimenticare, invece no. Invece no. Tutto si spezza,
mon amour, con dialoghi che avvengono in un bar, ma arrivano da
lontano, sinceramente folli, consapevolmente folli. Non si guarisce.
Ambientato a Hiroshima, ma ambientato a Nevers, ma ambientato
nel dopoguerra dannato di due amanti. Unghie di prigionieri, ancora,
inutili per qualsiasi fuga. Ambientato a Nevers e ambientato a Hiroshima, ambientato in una stanza d’albergo o in una strada. Nulla
cambia, se si portano pesi mascherati da vite “normali”.
Tu non puoi sapere. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene.
Tu mi uccidi, tu mi fai del bene. Tu non puoi sapere.
Tu mi uccidi, tu.
S.D.M.
Cultura
8
l’Autore racconta
Peccato della ragione di Borgese
Le origini intellettuali del fascismo
di Dario Consoli
Presentare il mio libro di e su Borgese non è facile: ché, superata
la prima lusinga, scrivere di sé non è agevole. Ricordo un tardo
articolo di Pirandello, “Non parlo di me”, in cui lo scrittore esponeva le ragioni di una allenata e robusta ritrosia. Fino al punto, si
sussurra, d‟aver talmente corrisposto a
quel titolo da non aggiunger altro e, subappaltato lo scritto al figlio Stefano,
d‟averlo soltanto firmato. Però qui è
diverso perché un Premio stimola una
risposta che, nel mio caso, è doppiamente grata. Il Cultura Alternativa 2011 ha
premiato un‟opera da me curata, costata
anni di studi e sacrifici, donandomi una
cospicua soddisfazione, per la qualità
dell‟iniziativa e delle opere premiate e
per il fatto che si sia voluto premiare
un saggista non accademico, un indipendente; ma ha soprattutto sottolineato – e non è caso unico, in questi anni – l‟urgenza di
riprendere l‟opera del più autorevole critico militante del primo
Novecento, quel Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) vergognosamente cancellato dal panorama culturale italiano, o meglio
rimasto sfigurato, come certe statue della Villa Borghese. Il saggio
che ho avuto ventura di scoprire e di „invenire‟, in seguito a un
piccolo giallo epistolare che ricostruisco a chiusura della mia introduzione, ha titolo “The Intellectual Origins of Fascism” (1934),
e comparve nientemeno che sul primo numero di “Social Research”. Non è che l‟incunabolo del poderoso “Goliath” (1937), il
libro fondamentale per capire Borgese – scriveva il di lui appassionato Leonardo Sciascia – e soprattutto il libro che screditò veramente Mussolini in tutto il mondo anglosassone. Un‟apollinea
definizione del fascismo, quella di Borgese: del fascismo inteso
quale fattore costitutivo della storia contemporanea; il suo momento irrazionale e antiplatonico che, nelle parole da me tradotte,
si fa nemico “di ogni meta fissata o di ogni scopo permanente,
nella convinzione che il cambiamento è la sostanza, la passione è
la virtù, la forza è il diritto; ovvero, per coloro che amano le definizioni brevi, il fascismo consiste nella sostituzione dell‟idea di
giustizia con l‟idea di potere.”
l’EstroVerso Gennaio - Febbraio
I Premio Cultura Alternativa
Vincono Barcellona, Consoli e Mangiavillano
“La cultura è la passione per la dolcezza e la luce, e, ciò che più conta, la passione di farle prevalere”. Le parole di Matthew Arnold tratteggiano lo spirito del
Premio Cultura Alternativa. L‟evento, promosso da un bel sodalizio di artisti,
letterati, docenti e pubblicisti, tutti siciliani, come Gino Baglieri, Mario Condorelli, Grazia Dormiente, Michele Giardina, Laura Rizzo, Luisa Salici (ass. Cubalibro) e Gaetano Vicari ai quali si aggiungono Sonia Baglieri, Renata Governali e
Marina Guerrisi che hanno stilato le analisi critiche delle opere vincenti, si prefigge di valorizzare, senza sperperi di denaro pubblico, opere meritevoli, fondatamente significative. La cerimonia di premiazione, condotta con eleganza dal cantautore Francesco Foti, affiancato, per le interviste agli autori, dall‟acuta Daniela
Saitta, è stata accolta con successo dalla sala consiliare di Riposto (Ct). Per la
sezione “Pensiero” ha vinto Pietro Barcellona con il testo “L‟oracolo di Delfi e
l‟isola delle capre”, (Marietti). “Il filosofo siciliano - recita la motivazione redatta
dalla Guerrisi -, accompagna le questioni fondamentali dell‟uomo contemporaneo
sul filo dell‟esperienza vissuta durante un seminario terapeutico immerso
nell‟isola greca di Spetses. L‟esperienza di gruppo vissuta in prima persona solleva la riflessione teorica dal piano dell‟analisi referenziale a quello della riconduzione mitico-poetica. Alternando narrazione e “lezione”, Barcellona suggerisce
una filosofia d‟avanguardia che, dopo i massimi sistemi e la saggistica da corollario, ottiene le sue conclusioni dai “luoghi” del corpo”. Per la “Saggistica” ha vinto Dario Consoli con “Peccato della ragione. Le origini intellettuali del fascismo”, (Prova d‟Autore). La Governali, ha scelto quattro parole per risaltare il
valore di questo saggio. “La prima è amore per la ricerca del giovane professore
che ha il merito di aver intercettato il saggio di Borgese, ancora inedito in Italia, e
averlo tradotto in un momento di considerevole interesse per gli studi sugli intellettuali italiani in esilio per sfuggire al fascismo. La seconda è giustizia che nasce
dal portare in luce la verità. Impegno, sociale e civile, altra parola, poiché ripercorrere le strade della nostra storia, soprattutto quelle che hanno condotto il mondo ai disastri della guerra e dell‟olocausto, è un‟operazione indispensabile in questi tempi bui nei quali si è smarrito il senso di solidarietà, della convivenza civile
e della pace tra i popoli. E infine, memoria e appartenenza come dono da offrire
alla ricchezza delle conoscenze, alla varietà delle
culture, a quella unità del mondo che Borgese vagheggiava”. Per la “Narrativa” si è distinto Sergio
Mangiavillano con il romanzo “L‟impostura dellAbate Staropoli”, (Prova d'Autore). “Molti - osserva
la Baglieri - i temi affrontati e gli spunti di riflessione: sulla storia del popolo siciliano, dominato e
angariato da arroganti potenze straniere; sul valore
Mangiavillano, Barcellona e Consoli dell‟Arte come simbolo autentico di Libertà; sul
senso tutto umano dello “scendere a compromessi” con la propria fede per una
causa tanto nobile da non lasciare dubbio alcuno sulla via da intraprendere”.
Simona Lo Iacono: “Un romanzo sull’incapacità di amare”
di Alessandra Leone
Quattro storie, quattro destini che inevitabilmente si incontrano (e scontrano). Quattro portavoce delle debolezze degli uomini di oggi.
Anna, moglie tradita e insoddisfatta, anima
pura, ingenua, segnata dalla durezza della vita .
Carlo, marito di Anna, affascinante principe del
foro romano e amante di Elisa. Elisa, giovane e
rampante avvocatessa, femme fatale della situazione (almeno, inizialmente, sembra sia così),
ma che si trova perdutamente innamorata di
Carlo, cercando di “elemosinare amore”, come cantava Mia Martini nel
1973 in “Minuetto”. Infine Giovanni, cugino di Anna a lei legato da un particolare tipo di rapporto, un tipico amore “platonico”(come si scoprirà in seguito). Sono loro i protagonisti di Stasera Anna dorme presto di Simona Lo
Iacono (Cavallo di ferro editore), terzo romanzo del magistrato siracusano,
impegnata da qualche anno con grande successo nello scrivere (con il suo
primo romanzo, Tu non dici parole, ha vinto il Premio Vittorini 2009, sezione opera prima). Punto in comune dei quattro personaggi è l‟incapacità di
comunicare, di capire veramente l'altro, di mostrarsi semplicemente per ciò
che si è. Con coraggio, audacia e, magari, osando anche un po‟. Invece niente. Per i loro limiti caratteriali e per la troppa paura, Anna, Elisa, Carlo e
Giovanni non riescono a esprimersi. Di conseguenza, la loro sarà una storia
di aspettative, di silenzi, di “vediamo se l'altro capisce attraverso uno sguardo cosa vorrei”. Solo al termine del romanzo si potrà arrivare al bandolo
della matassa, alla verità (concetto profondo, sì, e sicuramente complesso).
“E allora sarà come assistere a un processo in cui ogni ruolo è ribaltabile
nell'altro e tutti i punti di vista appaiono legittimi, perché si sa che nella vita
ognuno di noi è insieme vittima e carnefice”. L‟autrice, in tutto questo, è un
narratore super partes, la quale, con estrema sensibilità, non giudica, ma
condivide le gioie e le delusioni delle sue “creature”. Quasi una mamma, che
con dolcezza, lascia sfogare tutta la frustrazione e la rabbia dei figli. Molto
pirandellianamente, ognuno ha la sua verità. In effetti, Pirandello sembra
influenzare molto la scrittura di Simona Lo Iacono. I suoi protagonisti indossano continuamente delle maschere, dei vestiti di una taglia sbagliata, che
risulteranno, inevitabilmente, troppo stretti. Ma come nasce questo romanzo? “Alla fine di Tu non dici parole, ancora prima della sua pubblicazione confida l‟autrice - è nato il personaggio di Anna. Ho ascoltato quella “voce”
dentro di me e, dandole la dovuta attenzione, mi ha spinto a dare vita a questa quarantenne siciliana, trapiantata a Roma per seguire il marito. In realtà
credo sarebbe stato troppo autoreferenziale se fosse stata la sola protagonista. Così sono nati, man mano, Elisa, Carlo e Giovanni. È un romanzo non
sull‟amore, ma sull‟incapacità di amare. C‟è una grande difficoltà di venir
fuori dal proprio io, d‟imporre le proprie idee e sogni. Un grande tema trattato in Stasera Anna dorme presto - continua la scrittrice, che letteralmente
travolge con la sua energia e passione - è il tradimento. Tradimento in primis
verso sé stessi. Ognuno, nell‟altro, è alla ricerca di un significato. È un continuo e forsennato rincorrersi alla ricerca di un quid, che in realtà è semplicemente dentro se stessi”.
Notizie Letterarie
9 l’EstroVerso
Belli da leggere
di Grazia Calanna
Da Moby Dick all’Orsa Bianca
di Anna Maria Ortese
Adelphi
Scritti suadenti, distinti da raffinatezza, levità, trasporto, dolcezza, umorismo,
esplorazione, amore, come quello per la lettura, che si rivela “fra le passioni
più belle della vita, spazio del diletto e del riposo dell‟anima e insieme della
costruzione del senso del suo essere nel mondo e del suo starvi da scrittrice”,
abbracciano, dal 1939 al 1994, un lungo periodo di intensa attività giornalistica. Parliamo del
libro, curato Monica Farnetti, “Da Moby Dick all‟Orsa Bianca” di Anna Maria Ortese, edito da
Adelphi, che si schiude con una deliziosa narrazione inerente il “Pellegrinaggio alla tomba di
Leopardi”, il giovane favoloso, colui che “ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con
esso, lo sgomento della nostra piccolezza, l‟affannato interrogare, il ripiegarsi muto”. Straordinari i capitoli intitolati: a Čechov, leggere una sua pagina, riflette l‟autrice romana, “è come
mettere l‟occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita”; alla ragazzina di Amsterdam, Anna Frank, all‟innata “esigenza di verità”, alla capacità di “resistenza al male” - dovunque esso sia - e al suo “diario esemplare”, custode di “un mondo che dura due anni, ma è
eterno, perché è di tutti i tempi e di tutti i luoghi”; a Eduardo De Filippo, “inimitabile, incantevole evocatore di tutto un mondo e un costume in apparenza piacevole, in realtà cupo e disperato, un mondo e un costume che si dibattono ai margini della vita moderna, della ragione umana,
costruttiva, senza comprenderla né esserne compresi”; a Dino Buzzati, a “quella sua facoltà più
che umana, misteriosa e tranquilla, di avvertire, nella solitudine, la solitudine degli altri; di carpire, solo in apparenza immobile, la paura e il dolore del mondo”. Ancora, singolari gli spunti
offerti dalle letture del “Ritrattino del Dandy” nel quale si ricorda Baudelaire, colui che “ha
lasciato una immagine del dandy superiore a quella suggerita da qualsiasi altro scrittore”, e di
“Cristo e il tempo” dove è rammentato che “siamo appena l‟altra parte dell‟Universo, dov‟è
posto il sigillo, siamo il primo Enigma, che aspetta in eterno - senza porre vere domande - una
risposta già venuta da duemila anni, e che il silenzio, e l‟atrocità del silenzio, vanno ora mutando in giudizio”. Nel contempo esilarante, caustico e meditativo “Il piacere di scrivere” che,
schiettamente, premessa l‟italianissima (pretesa) vocazione, bacchetta “ogni abitante-scrittore”
che se ne sta sul proprio “manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell‟altro: e se quello è più colmo, sono occhiate,
lacrime…”. Un modo per dire che dovremmo cessare di stendere soliloqui per piacere a noi
stessi o, peggio, agli altri. Un‟esortazione a rispolverare il valore autentico della letteratura, “un
richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze”.
Fragmenta
di Giorgia Zuccaro
Giuseppe Maimone Editore
“Fragmenta” di Giorgia Zuccaro, è una silloge (Giuseppe Maimone Editore)
che raccoglie, in linea cronologica, versi fioriti dagli anni della preadolescenza ai nostri giorni. È la storia, meglio, “il romanzo di formazione di
una vita che ricerca il senso prima dentro alle parole dei cari maestri e poi
dentro il Sé”. “La genesi spontanea di queste poesie - afferma il prefatore,
prof. Paolo Bellia - costituisce una cattura di contenuti elevati trasposti verso il basso e l‟ermeneutica corretta dovrebbe tendere alla ricostruzione degli altri significati
ispiratori in un moto di risalita piuttosto che seguire un percorso discendente verso i meandri
dell‟inconscio e del livello terreno-materialistico”. L‟autrice che ha “bruciato incensi d‟amore
all‟equa ragione e alla (propria) razionalità”, “rinasce da se stessa ogni giorno” porgendo un
dettato lirico costantemente pulsante, diversificato da percettibili peculiarità. Scioltezza, “calava
il giorno sulla nicchia di prato ove giacevo trasparente ai tuoi occhi”. Ermetismo, “il tutto non si
scorge in quel limbo, nel tuo altare, tutto appare, tutto dispare e nulla che dia senso a questo faro
intermittente”. Levità, “carpiva il suo silenzio celato in armonie dell‟universo dormendo inginocchiata accanto a lui, cuore a cuore”. Osservazione, “nobili si stagliano i versi della tua quotidianità come agili levrieri in cerca di verità”. Spiritualità, “da un canto ti leggo e da un canto ti
spero, assomigliarti agogno se non nella gloria perlomeno nell‟anima”. Raccoglimento, “è forse
più gratificante temere che godere la luce?”. Un inno colto e lucente all‟indivisibilità dell‟essere,
all‟infinitezza che “nasce con la fine e finisce con l‟inizio”. Un invito, per dirlo pensando alla
sapienza di Lucio Piccolo, vate celebrato dalla Zuccaro assieme a Montale (“ora tuo malgrado
vivi, computo il balzo che una volta temevi, ma non hai lasciato il bandolo della sicurezza”),
Ungaretti (“ora lo sai che è nel tappeto in cui i colori si fondono che la solitudine si stempera in
una dolce armonia di suoni”), Saba (“rimpiangi di tornare su quel, ormai famoso, nuvolo dorato”), Dante (“gli ignavi li sputa anche l‟Inferno”) e Mario Luzi (“nulla di ciò che accade è senza
volto e nulla di ciò che percepisci puro è inganno), a rifugiarci nell‟oscurità di noi stessi per
ritrovare quanto di prezioso abbiamo smarrito. E riflettere, pertanto, sull‟impellente necessità di
prendere (“Avere”) coscienza del mondo. In che modo? Verosimilmente, ascoltando con “cuore
sincero” - senza riserve - per diventare eterni “testimoni d‟Amore” anche quando, sotto oniriche
tolde, “la notte disarma dolcemente la vita”.
Gennaio - Febbraio
Scusate la polvere
di Elvira Seminara
(nottetempo)
La polvere: ciò che rende
opaco ed a volte sudicio
quello che originariamente
è destinato ad essere chiaro
e splendente. Le scorie che
la vita inevitabilmente
sparge sulla nostra anima
in una necessaria metamorfosi per non soccombere. Il
rinunciare sempre più al
nostro vero "io" in un continuo vorace adeguamento ad una realtà che
non ci rappresenta e che non accettiamo. Questo è, in sintesi, ciò che vuole trasmetterci
Elvira Seminara nel suo ultimo romanzo
"Scusate la polvere" (nottetempo). Il tutto
fatto in modo divertente, scorrevole. Tra le
righe si scorge la profondità di un pensiero
che denota una profonda conoscenza di
Freud, del realismo magico e delle culture
orientali che ci trasportano in un mondo dove
la realtà è soltanto un accessorio non indispensabile. Emblematico di ciò sono i nomi
della protagonista e delle sue amiche: Coscienza, Mia ed Alice le quali rappresentano
diverse dimensioni in cui l'essere si sposta
continuamente nel suo procedere, la casualità
diventa predestinazione, la realtà fantastica e
la certezza paradosso. Tutto ciò sapientemente ammannito con scorrevolezza e maestria.
Genny Mangiameli
A Mente Libera
di Max S.P.
(Lulu.com)
“A Mente Libera” di Max
S.P. è il grazioso volumetto dalla copertina plastificata, nonché azzurra, di
un cittadino onesto e coscienzioso, che vive le
contraddizioni della propria epoca non fermandosi
alla superficie delle cose,
ma approfondendo attraverso un‟analisi critica e
lucida il lato oscuro di un sistema giunto al
collasso. Quantunque privo di velleità stilistiche e letterarie - il lettore intelligente non farà
caso a qualche imprecisione ortografica - ma
forte di una scrittura piacevole e diretta, Max
S.P. non esita a denunziare i mali del nostro
tempo: dal precariato al sogno della casa di
proprietà, dalla chimera di una crescita professionale alla responsabilità di diventare
padre e poter garantire un futuro ai propri
figli. Ed è proprio l‟impossibilità di intravedere un futuro che suggerisce a Max S.P. la
stesura di quello che può definirsi un lucido
appello alla coscienza collettiva, sempre più
narcotizzata e incapace del minimo segnale di
risveglio. Una lettura consigliata a patto che
non si fraintenda l‟intenzione dell‟autore,
appunto un ponte tra le idee.
Vladimir Di Prima
10 l’EstroVerso
Notizie Letterarie
Biblioteca Birichina
Il mio nipotino Luigi, qualche sera
fa, mentre giocavamo a tombola mi
ha chiesto a bruciapelo. “Ma insomma, zia, mi spieghi bene che cos‟è la
Shoah? La maestra ha detto che in
questo mese ne parleremo ed io non
voglio essere impreparato quando lei
tratterà l‟argomento. Voglio stupirla.
Dai, zia, racconta…”. Son rimasta un
attimo senza parole perché non è
facile parlare ai bambini di temi
difficili, ma ignorare la cattiveria,
Illustrazione di Giordana Galli
dare l‟illusione ai più piccoli che il
mondo sia tutto rosa e oro è sbagliato. Sono convinta che i ragazzini
debbano sapere che orchi, streghe e magie terribili non esistono solo
nel mondo delle fiabe e che, purtroppo, realtà e fantasia spesso hanno
la stessa faccia. A quel punto sono andata sullo scaffale dove ripongo albi per i bambini più piccoli e ne
ho scelti tre. “E‟ sempre difficile, Luigi - ho detto al
mio nipotino prendendolo sulle ginocchia - parlare
della Shoah, ma voglio provare a farlo con l‟aiuto di
questi libri che mi sembrano gli strumenti giusti per
spiegarti l‟argomento”. E così ho cominciato a leggergli Il bambino stella di Hausfater Douïeb Rachel e
Gennaio - Febbraio
di Anna Baccelliere
Latyk Olivier (casa editrice Pisani) delizioso
racconto-metafora sulla vita di un piccolo ebreo e
dei “cacciatori di stelle” dai grandi stivali neri,
sottolineato dai colori forti e decisi dei bellissimi
disegni. Subito dopo ho letto L’albero di Anne
(casa editrice Orecchio Acerbo), di Cohen-Janca
Irène, illustrato splendidamente con pennellate
morbide ed eleganti da Maurizio Quarello. Nel
libro si narra la delicata e commovente storia di un
vecchio ippocastano testimone della prigionia di
Anna Frank. I colori forti e decisi dei disegni di Emanuela Orciari, che
ha illustrato La portinaia Apollonia di Lia Levi (casa editrice Orecchio Acerbo), hanno attirato ben presto la curiosità di Luigi che ha
cominciato a leggere da solo e ad alta voce la storia di un ragazzino
ebreo in una città occupata dai soldati tedeschi. Daniel, il protagonista
della vicenda, teme molto l'arcigna portinaia Apollonia
che
ritiene una strega, finché un giorno scopre che anche
una persona che incute timore come lei, nonostante
tutte le apparenze, può salvare un bambino. Dopo
aver letto e commentato le tre storie insieme a Luigi, lui mi è parso soddisfatto e, con il volto serio, mi
ha chiesto: “Zia, mi presti questi libri? Voglio portarli alla maestra così anche per lei sarà facile spiegare la Shoah”.
librolibri
La Recensione
di M. Gabriella Puglisi
E nemmeno un rimpianto. Il segreto di Chet Baker
di Roberto Cotroneo (Mondadori)
Silenzio e salvezza. Il silenzio della musica che permette di
abitare lo spazio dell‟universo di un accordo. La salvezza
nella comprensione di ogni singola nota e in un‟esistenza
altrove. La musica tutta in testa, quella suonata e quella mai
eseguita. Salvezza dalle droghe e dagli stereotipi. Roberto
Cotroneo racconta “gli anni segreti” della saggezza sufi di
Chet Baker, il trombettista jazz tragicamente scomparso ad
Amsterdam nel 1988. Morto come il mondo si aspettava, da “maledetto” bebop. La finta fine della vita come da prevedibile partitura, per rinascere savio
in un paesino del Salento. Luce da est e mare senza echi, “strade dritte e ulivi
contorti”, per “recuperare le parti dell‟anima” dimenticate e cancellare i
“luoghi comuni” con una “specie di blu”. Indefinitezza di gradazione come la
musica di Chet Baker, imprendibile, come My funny Valentine del 1952, ballata che accompagna il viaggio dell‟autore nel musicista e in se stesso. Ballata
tenuta su dalla tromba di Chet, “una solitudine di note” che divaricano la notte
nell‟errore di un accordo minore ed evocano “spazi silenziosi”, “spazi che
esistevano da prima” che il jazz lascia di luce inalterata.
Due storie sporche
di Alan Bennett (Adelphi)
Due storie dove la protagonista è la bugia. A dispetto del
titolo che lascia presagire pruriginose narrazioni. Il sesso
c‟entra, ma come escamotage per raccontare in maniera
accattivante quanto si può essere lontani da sé. Il caso di Mrs
Donaldson, vedova cinquantenne che, per necessità economiche, si ritrova a lavorare come “paziente simulata” in una
clinica universitaria inglese. Un lavoro che rappresenta la
perfetta “fuga da se stessi”. Una messa in scena di sintomi da
interpretare nel lieto “fingere non proattivo” che è stata la sua vita. Lo scopre
attraverso i suoi “pigionanti”che, come li chiama la spietata figlia Gwen, le
offrono una “cosa sostitutiva” all‟affitto. Non meno mentitori Mrs Forbes e
famiglia. Il figlio Graham, classico bello che sa di esserlo, sposa Betty Greene,
non bella ma furba e intelligente. Duro colpo per Muriel Forbes e per il suo
snobismo che nasconde segreti non confessabili all‟apparenza. Uno snobismo
vacuo, puntellato di dissimulazioni con un loro peso specifico. Alan Bennett,
scrittore e sketchista inglese, smaschera con vaporosa ed “osservante” ironia le
inibizioni, i cliché e l‟incastonatura nei ruoli obbligati dalle convenzioni.
di Anna Vasta
I piaceri della conversazione
di Giuseppe Giglio (Sciascia Editore)
Definire I piaceri della conversazione di Giuseppe
Giglio (Sciascia Editore) un libro di critica letteraria, con tutto il rispetto per la critica letteraria,
mi sembra alquanto riduttivo. Riduttivo è sempre e comunque incasellare un testo in un genere, in una tipologia,
ciò vale in particolar modo per questo libro, che non si lascia etichettare per l'intreccio dei registri di scrittura utilizzati, dalla narrazione, alla riflessione introspettiva, dalla citazione dialogica,
interferente, alla digressione colta, dalla divagazione conviviale,
alla meditazione severa nella tradizione dei grandi moralisti, dagli
classici, ai moderni. Un discorso aperto, a prospettive di lettura in
movimento, che da un itinerario tematico di partenza - la conversazione e i suoi piaceri - divaga verso percorsi eccentrici, per poi
riconfluire nel tema centrale con nuovi apporti. La conversazione
diventa così un cammino di conoscenza e di formazione dove convergono e convivono pensieri, emozioni, affetti, parole ricevuti in
dono dai libri, e ai libri restituiti, accresciuti dei vissuti soggettivi
di chi legge in uno scambio di gioiosa complice reciprocità. In questo delizioso libretto il piacere della lettura si mescola con la gioia
di scrivere, e i due piaceri si rincorrono come in un gioco al rialzo.
“Come se la realtà venisse rimescolata occultamente e di colpo
gettata sulla pagina con l'emozione dell'azzardo” (Sciascia in Nero
su nero). La posta in gioco in questo caso è la letteratura, nel suo
affluire e defluire dalla vita. Un'idea di letteratura stendhaliana,
come “rigorosa avventura morale, sempre aperta a nuove declinazioni della vita, dell'uomo e del mondo”. La letteratura non come
finzione o invenzione, e neppure visione di un reale da reiventare,
da trasfigurare perché possa avere diritto d'asilo nel mondo dello
spirito e delle idee. La letteratura essa stessa vita, non di essa imitazione e copia. Vita non fittizia, autentica, che trae alimento da
soggettivi, personali vissuti di dolore e di gioia, di solitudine e di
pienezza, ma anche da corali, universali vicende. Di tutti gli uomini
di tutti i tempi, di tutte le latitudini. Di quelle “tracce di vita” che
ogni scrittore alla maniera di Stendhal lascia tra le pagine scritte,
va in cerca Giuseppe Giglio nel suo libro, per ricomporre il
“sistema solare” della letteratura, per riannodare i fili di quella
“sintassi” (Borgese) del destino umano che è l'opera letteraria.
Notizie Letterarie
11 l’EstroVerso
Gennaio - Febbraio
Parola d’Autore
Qui si scrive
controvento
di Franco Arminio
Sono nato in un paese ostile. L'ostilità
del clima. L'ostilità delle persone e la
loro sfiducia verso tutto e tutti. Mio
padre non mi stimava particolarmente. Mia madre pensava che
fossi debole di salute. Non ho avuto buoni insegnanti. Dalle suore
dell'asilo ai professori delle magistrali, tutto un corteo di figure
irritanti o scoraggianti. Nel mio paese c'è anche un curioso senso
dell'amicizia. Gli amici sembrano avere la missione di ostacolarci. Veramente non sono stato incoraggiato da niente e da nessuno.
Qui si scrive controvento. Sono rimasto qui perché a un certo
punto la scrittura è diventata il passo della mia vita e qui la vita
fatta apposta per adire alle vie della scrittura. A un certo punto
con la paesologia è come se avessi mescolato le carte. Poesia e prosa, la mia malattia e quella del paesaggio. Le crepe dell'ansia e
Scrivere
per
guardare
al mondo
di Giorgio Fontana
Ho trent'anni (trentuno ad
aprile). Lavoro come caporedattore per un magazine online. Quando torno a casa,
scrivo le mie cose: scrivo praticamente ogni giorno,
anche se difficilmente con gli stessi risultati. Mi piace
lavorare su due-tre progetti diversi insieme, così come
mi piace pensare a più storie, dare loro una chance, e
poi capire quale sarà quella cui non potrò fare a meno
di pensare - quella che mi terrà sveglio di notte. Ho
iniziato a scrivere seriamente attorno ai 18 anni, ma i
miei primi lavori erano pessimi. Ho buttato via quattro
romanzi prima di pubblicare il primo. Mi piace metterla
così - scrivere per me è una condizione, il mio modo
principale (anche se non l'unico) di guardare al mondo.
Ed è una condizione che si porta dietro requisiti severi,
ma indispensabili: onestà intellettuale, dirittura, trasparenza verso il lettore. Cerco sempre di onorarli. Cerco
sempre di fare in modo che le mie parole non siano
buttate lì o non dipendano da
impulsi dell'ego. Non è facile;
ma non c'è scelta. Il mio ultimo
lavoro, Per legge superiore,
parla di un anziano magistrato
milanese messo di fronte a una
scelta molto complessa. È stato
definito un romanzo civile, ma
secondo me il suo fulcro è
molto più intimo, esistenziale.
In un certo senso, credo sia un
Sellerio editore
romanzo di formazione.
quelle del terremoto. Il racconto dei paesi prevede sempre il racconto dell'umore di chi li visita. Arminio un po' sono io, un po' è il personaggio principale della mia letteratura. Il corpo è il cuore di tutto.
Il mio corpo, il corpo del paesaggio. Non c'è figura e sfondo, tutto è
in primo piano, tutto è visto alla luce della sua fine. La mia letteratura lavora sull'emergenza, sull'impazienza. Il pensiero della morte
apre fenditure improvvise nella mia prosa, non mi consente trame
romanzesche. Il giro è lirico o aforistico, prendere la vita che scema
nel laccio di una frase, nell'incertezza che ce ne
possa essere un'altra. La cosa singolare è che questa scrittura maturata su un orlo intimo e periferico
è diventata un pensiero intorno a cui si sta raccogliendo una comunità. Ci sono molte persone che
seguono il mio lavoro non come semplici lettori, ma
è gente che partecipa alle cose che organizzo sul
territorio, alle mie battaglie civili o al turismo della
clemenza. Alla fine anche l'amaro Arminio non può
non riconoscere che la sua fedeltà alla vita non
Mondadori
vissuta lo ha portato non solo a una prosa che molti
considerano perfetta, ma a un imprevedibile ruolo di leader di un
nuovo umanesimo, l'umanesimo delle montagne.
La scrittura
è
un’influenza
di Eva Clesis
Da anni la scrittura influenza la mia vita, nel senso
più morboso del termine. Perché la scrittura non è un hobby, nossignori, è un
malanno molto più grave di un raffreddore. La scrittura è un’influenza, che ti
fa venire la febbre alta con l’ispirazione, ti tramortisce e non ti fa dormire, ti fa
tremare e tramare mentre sei sul tram, spara spore e battute che abbattono la
tua vita sociale, ti confonde e così chiami Jane il tuo capo, Dolores il tuo gatto,
Martin tua madre, Octavia tuo fratello. La scrittura ti butta giù, gli scrittori
hanno tutti un’aria tormentata: logico, perché sono malati. La scrittura non si
impara, ti contamina: gli altri autori ti influenzano, i libri sono fiati, scrittori
non si nasce né si diventa, scrittori si prende. Lo scrittore è un malato immaginario di scrittura: e anche quando gli sembra che le cose vadano bene una
nuova febbre lo porta a spossarsi dietro gli aggettivi, gli avverbi, la consecutio
temporum. Lo scrittore ideale è affetto dai suoi fogli, mutato dalle sue storie,
una colonia di batteri germinanti. Non mi vedete pallida, prostrata, sempre sul
punto di scrivere qualcosa? Ebbene, sono influenzata. Mi alzo ogni mattina
alle sei, lavoro otto ore sui libri (degli altri), spunto virgole, riparo accenti,
catalogo titoli e nei pochi momenti di pausa che faccio? Scrivo le cose mie. E
se non scrivessi? Ci ho provato, ma la scrittura non è stagionale, è permanente. E così scrivo nelle pause e nel tempo libero, e
quando non scrivo leggo. Scrivo e riscrivo romanzi,
l’ultimo si intitola “E intanto Vasco Rossi non sbaglia
un disco”, si legge d’un fiato e vorrei quasi dire che
avendolo pubblicato non ci penso più invece no, anche le
pagine passate sono un segno di contaminazione, superbacilli di cui conservo le cicatrici. So che fa schifo ma è
così, e non c’è soluzione, perché se c’è un vaccino non
datelo allo scrittore: pur se malato rifiuterà una cura, si
infetterà con nuovi libri, nella paura che senza influenza
non si sanerà ma si sentirà morto. Ora devo andare, domani ho da scrivere ma prima di coricarmi devo controlla- Newton Compton
re dieci dialoghi, quattro descrizioni, mezzo raccontino,
sette recensioni. Lo so. Sono un caso patologico.
12 l’EstroVerso
Rimirando
PoeSia
Gennaio - Febbraio
Nulla dies sine linea
di Dario Matteo Gargano
di Luigi Carotenuto
I fiori del male
di Charles Baudelaire
Marsilio
ll pregevolissimo volume Marsilio, curato
egregiamente da Luca Pietromarchi
(esaustivo, appassionato e acuto sguardo
critico), è un'occasione per annusare tutti gli
odori sparsi nell'aria da I fiori del male,
floridissimi ancora oggi, in una introvabile
traduzione del poeta Giorgio Caproni (di cui
ricorre quest'anno il centenario dalla nascita), geniale e sensibile traduttore di Charles Baudelaire. Dalla copertina spiccano
severi gli occhi del poeta francese, l'altrove pare abbia trovato
domicilio nelle sue pupille insieme alle cateratte del vizio.
Rovistando le tenebre egli ha tratto alla luce un'umanità rinnovata, salvata da mano di artista compassionevole. Baudelaire ha
giocato fino in fondo e sul serio la partita di uomo e intellettuale, allargando visioni cognitive e profondendosi in immagini
estremamente vivide, toccanti, incastrate in forme di sonetto o
di rima alternata, slanciandosi dalla tradizione fino “Au fond de
l'Inconnu pour trouver du nouveau!”. Da visivo a visionario, la
scrittura, eccelsa anche trasfusa sui poemi in prosa, gli aforismi
o i commenti d'arte, mette a tu per tu il lettore, ipocrita o no che
sia, così affondata com'è sulle bassezze umane, dunque attuale.
Armandosi di sarcasmi e ironie per difendere il suo nudo cuore
lacerato in una Parigi troppo indaffarata, indifferente al poeta
albatros, manifesta aristocratico disprezzo dandy per la società
borghese, e annota, profetico, nei Journaux intimes (trad. Marco Vignolo Gargini): “[…] periremo per ciò che noi abbiamo
creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzato, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi tutta la parte
spirituale, che nulla tra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe,
o antinaturali degli utopisti potrà essere comparato ai suoi
risultati”.
L’Italia è morta, io sono l'Italia
di Aurelio Picca
Bompiani
“Io, io sono pronto a combattere contro
tutti / come se la guerra potesse medicare le
ferite, / cancellare i peccati, / come se potesse decidere una volta per tutte / il destino di
un popolo servo, / di un mondo che presto
morirà”. E davvero contro tutti, se stesso
compreso, si scaglia il furore lirico e civile
di Aurelio Picca, nel suo poema roventissimo “L'Italia è morta,
io sono l'Italia”. La prima persona utilizzata in questo epicedio
nazionale è la prima persona di ciascun lettore, una chiamata
alle armi della sensibilità e dell'ascolto reale, un drammatico
appello per ritrovare la mancata empatia, risorgere davanti allo
scempio di una nazione che è nostra madre, il nostro sangue,
infine noi. Nel suo furore Picca mostra un amore viscerale per
un Paese girato da cima a fondo, perlustrato nei suoi recessi e
monumenti ancora colmi di bellezza e idea di riscatto, sfregiati
sì ma non annientati, come evidenzia Luca Doninelli nel commovente saggio a fine poemetto. Un foscoliano invito a ricordarci dei morti (“le nostre Ombre ci chiederanno il saldo”), e
portare i bambini in visita al disarmante Sacrario di Redipuglia,
custode dei tantissimi italiani periti nella Grande Guerra. Tra il
“caos di queste ore / che si sfregano alla rinfusa” l'autore, attraverso il ricordo della luce, la stessa che avvolse San Francesco
e Chiara beatamente, ritempra lo spirito affranto, specchiandosi
nei cieli italici d'ogni regione. “Io indosso una camicia bianca /
e ben stirata tutti i giorni / come se stessi seduto in un caffè a
Catania / accanto al Verga che piega la mano / sulle labbra
rosse della Sicilia. E ardo nelle fiamme di Agrigento / come se
le colonne del tempio della Concordia / fossero le donne della
mia vita”. Un'esortazione fiammeggiante, un grido commosso e
disperato, un canto per resuscitare i vivi e risarcire i defunti.
Keep it simple: l‟unico - Graal - noema didascalico di sonorità anglica che
può complicarti la vita sul serio. Rendere il tutto più semplice per iniziare a
scorgere il complesso. Ne ho dette così tante che sento di nuovo il magnetismo alla scadenza al banale. Questo banale che tutti si illudono di poter fuggire in cerca di una Atlantide eidetica deistica dove finalmente si sentiranno
“irrealizzati”: il cretino orbato! La fuga dalla realtà da una presa monoangolare - sempre più temulente - da blefarospasmi per via di quel tuffo al subterracqueo dal quale si rinsavisce con un senso di amnesia anterograda: e ora?
Chi sono? Inizia qui il tuo nuovo intreccio. Si tratta di scegliere, di arbitrare.
Una contingenza con te stesso (un sé necessariamente mobile, non “stesso”,
bada, per l‟amor d‟Iddio!) necessaria per avvezzarti al nuovo contagio: inizi
a smorfiare di più, t‟èlevi, sei meno gaglioffo quando parli, è cambiata la tua
voce, chiunque ti reclama nel suo filtro immaginativo come un “illuminato
salvifico, sei un nuovo frutto ch‟al sapore contamina una trasgressione imminente piacevole all‟altro, ch‟all‟esser morso contamina il sistema trofico
della demiurgia dell‟altro, e finalmente sei Teresa D‟Avila transverberata.
Sei quella puttana che non si vede più Sancho Panza allo specchio ogni mattina”. Devo spiegartelo meglio? Sei Sancho Panza che sa d‟esserlo.
L‟elevazione dall‟alto al basso: un percorso dei confini sconosciuti del tuo
“da-sein” dove, in una balena col cazzo (=leggi: baléno), ti trovi lassù,
nell‟uranos, il cielo flaubertiano che si specchia tutto nel mare con tutte le
sue stelle... Senti la passione, il pathos che scende stillante verso terra con
pieno moto aristocratico incoercibile, premi in fuori le tue labbra orgoglioso,
sei canterino come un sornione uccello solerte che ha depredato le sirene
incantatrici del loro bottino sortilego polifonico: sei alto. E così voli, non sei
più tu. Già non sono io. Sarei stato, sarò stato. Sto muovendo. Starò muovendo. Il guaio è che Dario Matteo Gargano è aisthema puro stocastico, imprevedibile, che sfida le leggi di Xenakis e i teoremi sull‟esistenza di Dio di
Gödel. E senti qua: l‟artista ha il dovere di essere modesto, e il diritto di essere snob. Considerare “l‟uomo l‟altro” senza nobiltà significa farsi pompa
continua, è un barocchismo progettuale sofisticatissimo, è un farsi opera
d‟arte in pragma, in aisthema: è “esserci”. Vodafone dice: life is now. Io
dico: Are you there, for real? E così subito scatta nella visione di quest‟opera
d‟arte che mi sono la reazione dell‟inaccettabile per l‟altro. L‟altro vuole
soltanto mortorio, obitorio creso, sembra non poter accettare minimamente
“una iattanza pennellante”, un dalí che incede nel centro della piazza, uno
spettacolo per gli occhi. Avresti la stessa reazioni di fronte ad una transverberazione berniniana? Lo snobismo è inaccettabile: e io amo l‟inaccettabilità
della vita guidata da solo poche alte coscienze, i grandi capi che s‟elevano
dopo un percorso durissimo fino a diventare una stella già morta guardata
immortale dalla sua distanza in anni luce da quest‟altro. Questo imbecillismo
paraintellettuale che rifugge l‟ovvio il quale è “ciò che mi sta davanti” (=obvideo) manca di questa particolarità d‟osservare l‟ovvio con souplesse. Ma
cos‟è veramente ovvio? Iniziamo da qui: essere modesti. È davvero ovvio. È
ovvio un prossimo film da oscar, è ovvio una prossima coppietta mano nella
mano che risponde al respiro di specie schopenhaueriano. Cosa non è ovvio?
Essere veramente nuovi. Ok, come? Ho fretta rispondo in un prossimo pigolio siderale. Valedizione!
Pellicole riverberanti
di Angelo Umana
Una separazione L‟inquadratura che sembra racchiudere tutto il senso degli avvenimenti familiari raccontati nel film è quella finale: mentre già scorrono i titoli di coda la camera “osserva” i due genitori separandi, seduti l‟una
quasi di fronte all‟altro nell‟anticamera del giudice tutelare a cui, sola, la
figlia adolescente della coppia deve dire con quale dei due ha scelto di vivere. Il regista, Asghar Farhadi, ci ha introdotti - come in “About Elly” - a conoscere un po‟ di più la società iraniana e per farlo costruisce delle vicende
familiari drammatiche, che denunciano le pecche, i costumi imposti da una
società teocratica. La vicenda familiare è pretesto per fornire uno spaccato
della società iraniana: la moglie che chiede il divorzio dal marito lo fa perché
lui non vuole seguirla all‟estero dove la prima ammette di cercare migliori
condizioni di vita, ma una tale affermazione davanti al giudice conciliatore
iraniano è controproducente. La giustizia applicata in modo sommario nei
tribunali iraniani brulicanti d‟anime che ha l‟in-giustizia di tempi lunghissimi. Buon film, una storia avvincente e ottimamente interpretata.
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