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Finché sogno vorrà dire che son desto
Anno VI - Numero 1 Gennaio - Febbraio 2012 l’EstroVerso Periodico d’Informazione, Attualità e Cultura - Direttore Responsabile Grazia Calanna Fervet opus Grazia Calanna Certo che “è più facile chiedere ai poveri che ai ricchi” ma, davvero, Čechov converrà, questa non è soluzione della quale abusare ignorando, ostinatamente, come accade, che imboccando miseria agli indigenti la percentuale di povertà (a scapito del pane) arde (lievita) a dismisura con la logica (sicura) conseguenza di ritrovarci tutti, nessuno escluso, dentro al forno (peggio che in grembo al Toro di Falaride). E, frattanto, tra plurimi sos lanciati al Presidente, rammarica (anche) quello per scongiurare la sospensione, o peggio, la chiusura di una cifra crescente di testate. Giustappunto, eccovi la nuova versione del periodico che mi pregio di dirigere. Siate clementi, chi scrive non è un grafico, si è improvvisato tale. Puro spirito di sopravvivenza. Fortuna che (rifuggiamo falsa modestia) è un numero ricco di contenuti (unica cosa importante, giusto?) grazie alla generosità di coloro i quali (il piacere di “scoprire” i nomi alle vostre oculate letture) hanno “dato e fatto con grazia”, offrendo idee, gemme di scritti (preziosi). Del resto, e vi lascio con Albert Camus, la vera generosità verso il futuro non consiste nel donare tutto al presente? Finché sogno vorrà dire che son desto di Luigi Carotenuto L'anno nuovo reclama meraviglia. La richiede la disastrata situazione economica, la pretende il tradimento esistenziale e spirituale per molti di noi, cresciuti nelle illusioni Aris adolescenziali brutalmente freddate. I risarcimenti andranno in prescrizione, come i reati dei politici e gli stipendi che, imprenditori neo-feudatari, succhiando l'osso ai dipendenti-servi della gleba, hanno negato scappando via impuniti e contenti. Cosa importa potersi guardare allo specchio quando mancano gli oboli per comprarlo? Chi ha perso la faccia con la chirurgia e i quattrini può rifarsela. Benvenuti nella società del benavere, altro che benessere, qui l'essere non c'entra proprio un bel nulla (Sartre, pardon). L'approssimazione, l'insipienza, il bieco obbedire a ciechi impulsi di appagamento senza futuro e lungimiranza perseguitano i nostri intelletti e stuzzicano i palati offrendo portate avariate. “E se le cose vanno male è perché la coscienza tutta quanta malata ha un interesse capitale attualmente a non venir fuori dalla sua malattia” vi grida dal fondo dei suoi elettroshock Artaud, non lo udite? Parla anche a voi, ragazzi che affogate l'impegno tra un cocktail e un corso di recitazione, studiando dizione ignari di carne, gemiti, dolore, sangue, martiri non santificati passati e presenti. Per voi Baudelaire, pietoso, ha servito l'alibi dei paradisi artificiali, ma quanta pena fa l'ignoranza della vostra e della mia generazione, l'assenza di interesse civile e sociale, l'implosione di stati d'animo, lo zapping affettivo e le mille compulsività. Lo sento il giudizio di Gaber, “La mia generazione ha perso”, e ditemi ancora, quale insegnante di storia ci ha chiesto un parere su Bresci? Manca l'assolutezza di un Ribelle jungeriano, da infondere alla collettività, i terremoti non fanno tremare l'inerzia individuale, se c'è una Resistenza in Italia è quella dei molluschi, parassiti di vari esemplari e natura nonché raggio d'azione. “La massa abbassa ciò che è alto e innalza ciò che è basso” mi ha bisbigliato prima Goethe, i frutti inquieti di Pasolini qualcuno li ha raccolti? Hollow men da cosa scappate se non avete neppure ombre per proiettarvi un po' più in là. Da cosa scappiamo? Cosa fuggo? Lo stupore, forse. La mirabilia che vi dicevo all'inizio. La grata di un altrove possibile, qui e ora. Non si tratta di mondi paranormali o fantascientifici (la fantascienza ci ha ormai abituati più alla distopia che al sublime). Quanto coraggio serve a reggere le sferzate del vento! Da un lettino lo sguardo clinico di un malato viene in soccorso al mio sconforto, cosa sono i suoi ottant'anni? Quattro ventenni seduti a un tavolo da gioco, schiamazzanti, chi allegro chi pensieroso, mentre le sue pupille ripongono con cura i ricordi come abiti dimessi ai quali è affezionato. Non chiede più assoluzioni o condanne. Guarda. Non impara. La pedagogia la lascia ai maestrini. Ascolta e non giudica. Condivide, sente, patisce e ride. Qui non c'è niente da perdere e tutto è offerta. Sogno? Può darsi. Finché sogno vuol dire che non sto dormendo. Allo Specchio di un quesito Non esiste un vascello veloce come un libro per portarci in terre lontane…», le parole di Emily Dickinson per chiederti qual è il viaggio più importante che hai fatto grazie alla lettura e dove speri di aver condotto il lettore con il tuo libro “Volevo essere una farfalla”? Michela Marzano Il mondo dell‟infanzia e delle sue angosce. Mi ci sono avventurata un po‟ recalcitrante, seguendo con sospetto i primi passi di Peter nella scuola sperimentale di Copenaghen, accanto a August e Katarina. Perché leggendo I quasi adatti di Peter Høeg, ci si ritrova per forza confrontati alle proprie paure e insicurezze. Come si fa, quando si è piccoli, a rendersi conto di cosa sia giusto o sbagliato? Come si può mettere un po‟ d‟ordine nel dolore caotico della propria solitudine? Poi, pian piano, mi sono lasciata trasportare dalle ellissi e dal ritmo sincopato della scrittura di Høeg. Quella che nomina esattamente quello che si provava da bambini, quando ci si ritrovava da soli nel buio della notte. E alla fine ho capito che Peter aveva ragione: “Alla lunga è sfibrante combattere il passato per tenerlo lontano”. Chissà! Forse è per questo che ho deciso di scrivere Volevo essere una farfalla. Per condurre anche io il lettore nel continente oscuro dell‟infanzia. Quando si è troppo piccoli per capire che si ha il diritto di “essere altro” rispetto alle aspettative dei genitori. “Altro” rispetto a quello che si sarebbe dovuto essere. Altro rispetto alle norme e alle ingiunzioni paterne. Semplicemente “altro”… Forse volevo solo farlo viaggiare all‟interno di se stesso. Alla ricerca delle parole perse quando pensava, a torto, che “disubbidire” al padre voleva dire “tradirlo”. Per non combattere più il passato, e cominciare a pensare in modo nuovo il futuro… Brera Incontra il Puškin, collezionismo russo tra Renoir e Matisse di Ombretta Di Bella Alla Pinacoteca di Brera, un evento culturale eccezionale. Dal 22 Novembre sono visionabili dei veri capolavori della pittura, all'Impressionismo francese, al Paul Gauguin Futurismo, al Surrealismo, summa dell‟arte dall‟800 in poi. Questa rassegna è il frutto della collaborazione tra il Ministero delle Belle Arti, la Soprintendenza di Milano, la Federazione Russa e il Museo Puškin. La mostra curata da Sandrina Bandera e Irina Antonova intitolata “Brera Incontra il Puškin: collezionismo russo tra Renoir e Matisse”, aperta fino al 5 Febbraio 2012, crea un parallelo internazionale tra la Russia che accoglie Caravaggio e l‟Italia con le collezioni di Sergei Scukin e Ivan Morozov, collezionisti che si fregiano del possesso di preziose opere della pittura “en plein air”, i saloni e caffè parigini come anche il “Ritratto di Ambroise Vollard” del grande Picasso. Si tratta proprio di una trasferta di celebri nomi dell‟arte in un tempio sacro. Si tratta di un piccolo percorso che a ogni passo produce un balzo al cuore per chi ama, per chi conosce, per chi guarda vedendo oltre la tela il senso di un mondo che traspare tra i colori di un quadro. Immaginate una piccola sala con una luce quasi soffusa, uniche fonti infatti sono i punti luce diretti ai quadri, delle pareti grigie mostrano allo spettatore a portata di sguardo opere come: “Radura nel bosco a Fontainebleau” di Sisley, “Acquedotto” di Cézanne, l'epifania di fronte alla quale un piccolo spettatore piange, “Le ninfee bianche” di Monet. (segue a pag. 4) Società&Sapere 2 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio 2012 Un Paese dilapidato “L’impoverimento oltreché economico è linguistico” FilosoFare Edificare il valore per eccellenza di Fabrizio Bernini Mentre cerchiamo di risollevarci da una crisi che sembra ormai schiantarsi sul nostro paese con la sua forza d’urto più potente, riflettevo come in Italia l’impoverimento della lingua abbia progressivamente accompagnato quello economico. Non è difficile ascoltare come parla la gente, basta passeggiare tranquillamente per strada o salire su qualche mezzo pubblico. Dai quindici anni agli “anta” anni sembra dominare un unico linguaggio stereotipato, figlio della comunicazione appiattita e vuota che televisioni, messaggi pubblicitari, cantanti e modelli di riferimento di successo, sembrano ormai aver spalmato su tutte le generazioni. Non sono da meno, in quanto causa, né giornali, né tantomeno, purtroppo, la scuola. Ma allora, come mai si è arrivati a questo? Il lento e progressivo diminuire di un interesse culturale a favore di un immediato e omologato stile di vita ha fatto sì, che il nostro bel Paese, patria mondiale della poesia e dell’arte per secoli, abbia dilapidato tutto ciò che di buono aveva costruito in passato. Se un grande poeta milanese come Delio Tessa diceva: “riconosco e onoro un solo maestro: il popolo che parla”, si può ben capire come un tempo la lingua viva nascesse proprio dall’invenzione arguta e pratica che la vita faceva fluire nel linguaggio e nell’arte. Una volta l’operaio aveva in casa una copia di Dostoevskij che sebbene non comprendesse appieno, era per lui, comunque, un punto di riferimento alto. Oggi, se gli va bene, la biografia di un calciatore. L’insostenibile pochezza dell’essere Se in un immaginifico viaggio di ascesa ipostatica verso l‟origine prima e infinita del Cosmo, l‟anima venisse accidentalmente risucchiata nei terreni trambusti, credo si verrebbero a creare delle condi- Joseph Mallord William Turner zioni amaramente ironiche. Il riferimento all‟interiorità, lungi dal presentarsi come una stucchevole lezioncina di filosofia, si pone invece come necessario punto di partenza della riscoperta di noi stessi. Troppe volte si rimane ciechi e sordi rispetto agli ammonimenti della nostra coscienza e la consapevolezza di noi stessi subisce delle violente storture che abbassano notevolmente il valore intrinseco di ciascun essere umano. L‟anima peregrina che si affacciasse sui variegati scenari della nostra società rimarrebbe quanto meno stupita dalla facilità con cui l‟essere diviene gregario dell‟avere. L‟opposizione tra i due aspetti non è elemento nuovo, ma la sua ipertrofia offre un quadro desolante e amaro della realtà socio-antropologica attuale. Il primato dell‟avido possesso non conosce battute d‟arresto e non tende a cedere terreno nemmeno in tempi di crisi e di manovre salva euro di matrice vampiresca. Crisi dell‟economia, crisi della moneta, crisi del mercato del lavoro, totale decadimento dei servizi, questo il contesto in cui si muove una popolazione schizofrenicamente spaccata in due. Da un lato, infatti, c‟è chi avverte la precarietà e il senso di vertigine che ne deriva a causa della disoccupazione, dell‟inadeguatezza degli stipendi, della miseria delle pensioni; dall‟altro, in una sorta di universo parallelo, si collocano gli eletti per cui il cielo è sempre terso e il sole splende accecante. Persone che, ridendo in faccia alla crisi, comprano e sfoggiano, edificano e ristrutturano, primeggiano e sbeffeggiano. La nostra anima peregrina, in piena crisi d‟identità, avanzerà tentennando, come un pirandelliano personaggio in cerca d‟autore e si chiederà come tutto questo sia possibile. Poco importa che giornalmente, come in un tragico bollettino di guerra, ci siano famiglie, pensionati, persino imprenditori schiacciati dal fisco, che decidono di farla finita togliendo il disturbo con amara discrezione, ciò che davvero conta è possedere i capi firmati, le Hogan, le Louboutin, la cintura Gucci e la stola Vuitton. Non ha alcuna importanza se l‟essenza di ogni individuo non trova il modo di emergere e viene schiacciata da questa folle e irrazionale corsa all‟ultimo acquisto, all‟ultimo possesso. Questa è la realtà dei fatti. L‟anima tracolla e cerca disperatamente la strada della risalita verso le ipostasi superiori, desiderando ardentemente lasciarsi alle spalle il caos del mondo terreno. Prima di uscire di scena, però, decide di rendere omaggio alle vestigia dell‟essere, coprendo centinaia di individui senz‟anima con un velo pietoso, facendo attenzione, beninteso, che la firma sia ben visibile da ogni angolazione. Raffaella Belfiore “Io Sono” di Alfio Caltabiano Colgo l’occasione per fare gli auguri a chi con amore, impegno e volontà da vendere, dà l’anima a questo giornale, raccogliendo idee e profezie, dando voce ai muti, visibilità a chi è invisibile; facendo cultura insomma, promuovendo, recensendo libri con abilità e coscienza. Grazie Grazia, grazie Luigi… Detto ciò, lasciate che fruisca della parola che mi si dà, per dire, e perché no: proporre. Siamo a circa otto settimane dall’otto marzo, una data questa che ogni anno è motivo di discussioni e dibattiti sulla condizione femminile. Otto settimane sono poche per organizzare qualcosa di decente, però si potrebbe aprire un dialogo non tanto sull’otto marzo, quanto sulla natura femminile, sulla sua essenza, sul suo progetto, sul suo modo di comunicare attraverso i segni. L’ordine tuttora in auge è la narrazione che dà spirito a tante narrazioni: la condizione del vincere o perdere, conseguenza di una macromolecola conosciuta con l’acronimo DNA in altri termini l’identità (L’identità c’entra col femminile? Noi crediamo di si! Ma su questo si potrà disquisire in seguito). Prima si è accennato a un progetto. Quale progetto? Basta indagare sul ruolo che ha avuto il femminile per edificare l’interesse, e poi su, su, sino al manifestarsi della coscienza, ossia l’umanità. Ma la donna continua ancora a tracciare il solco da seguire, a prefigurare un nuovo ordine, un ordine non più fondato sulla forza bruta, sulla violenza, sul dover vincere. Non mi riferisco a quanto dice o può dire tramite il verbo, ma a quanto sostiene con i fatti, come femmina, col proprio corpo. Prendiamo ad esempio i pesci. Un pesce femmina depone milioni di uova, così come il maschio milioni di spermatozoi. Centinaia di uova faranno subito da pasto, altre centinaia faranno da pasto da pesciolini ed altre centinaia da pesci adulti. La femmina umana ha all’incirca quattrocento ovulazioni, e in media non più di due figli, i quali, non dovranno fare da pasto a nessuno. È questo che si intende per edificio dell’interesse, tutte le strategie dell’incubazione dell’uovo sino al grembo, col fine di cautelare, edificare l’interesse per eccellenza, il valore per eccellenza: l’affetto, il vero “Io Sono”. Ciò nonostante, nel Genesi si narra che il mondo è stato creato per Adamo. Eva, invece, è stata concepita come compagnia, una sorta di epifenomeno, non per il mondo ma per allietare la solitudine di Adamo. Non è per seminare zizzania che cito il Genesi che è tuttora fondamento delle culture monoteiste. Per queste culture la donna è ancora la maggiore responsabile del peccato originale. Che poi, se per peccato si intende l’essere assurti a persone consapevoli, in effetti, è Eva, ossia la natura femminile, che traccia il sentiero verso la consapevolezza. Essere consapevoli vuol dire: essere consapevoli di morire, essere consapevoli che c’è il bene e il male come conseguenza della sensibilità (norma, piacere, dolore…). E allora, dobbiamo punire Eva o è più logico indagare per capire dalle tracce, dai segni, qual è il suo progetto? Ad esempio, a partire dal suo aspetto, il quale non è palesemente l’aspetto di chi si ripropone di entrare in conflitto, di vincere, di sottomettere con la forza. La sua fierezza non è la fierezza del maschio guerriero, ma è la fierezza disarmata, è la bellezza fieramente ancorata all’esserci, che invita, propone ma non impone. L’aspetto maschile invece è perfettamente coerente alla condizione del vincere o perdere, a partire dalla sua genitalità, la quale non prefigura nessun cambiamento di stato, nessun utopico sovvertimento, a parte il decadimento della vecchiaia, esso rimane fertile sino alla fine dei suoi giorni, a differenza della genitalità femminile la quale è a tempo determinato, prefigurando così, un tempo emancipato dalla funzione riproduttiva. Ciò che sino ad oggi è stato interpretato come un difetto è invece una profezia: l’emancipazione dalla funzione, il se per sé, il sogno, la speranza di tutta l’umanità. Società&Sapere 3 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio 2012 Epoca d’incertezza e deboli “potenze” nella stretta di mani sudate Perché mai un uomo dovrebbe urlare? Quest‟uomo forza tali bisogna essere per spingersi a ciò) coperti da capsenz‟altro si sforza di farsi sentire. Qualcuno non potti con stemmi nazionali, compiono per il bene proprio in l‟ascolta. Egli ha sicuramente o un motivo di presunta nome del bene comune. Non sto qui a dire quanto più dei ragione per cui battersi, oppure un motivo di presunto Tedeschi i Nordamericani abbiano alimentato e ancora ora torto e vuole disturbare (interrompere) l‟altrui pensiero. oleato, il quadro culturale alterato di un popolo intero, macQuando al posto di un uomo solo che urla ce ne sono chiato di muffe, di colori marci, scarabocchi di rivoluzioni molti, tutti d‟accordo e questi vogliono urlare qualcosa, mediatiche. Qui non parliamo di leader ma di un intero pocosa usano? Se fossero maggioranza, non avrebbero propolo coinvolto, in opposizione a tutti gli altri popoli della blemi, credo, a farsi ascoltare e tanto più la loro voce terra. Ma perché un popolo dovrebbe servirsi di una simile direbbe cose scabrose, tanto più si dovrebbe fare grossa forza propagandistica? Cos‟ha da nascondere? Perché, lettoper non far pensare e stordire la minoranza. Ammettiamo re, in un celebre caso (ce ne sono stati tanti, di questi disturJacek Yerka che, sciaguratamente, la maggioranza cominci ad essere bi mentali) un uomo si lava continuamente le mani? Passiamo minoranza e che faccia scarsamente (magari per abitudine) attenzione al oltre. Anzi concludiamo. Gli stati potenti del mondo si tendono insicuri le diritto altrui; cosa dovrebbe fare? Dovrebbe alzare la voce? Credo che a mani sudate, in questi anni d‟incertezza. Se mai uno o più dovessero cadere, buon esempio, si possa prendere uno stato, uno qualunque, gli Stati Uniti, le gambe molli degli altri non reggerebbero il colpo, a meno che qualcuno la sua voce grossa, la sua macchina propagandistica e rivolgergli per un abbia le mani fin troppo sudate per reggere la presa. Il paese che guida attimo lo sguardo. Macchina propagandistica, che brutta frase. Ricorda l‟occidente e il mondo, il paese della speranza, si piega da sé. Con le sue tanto la “macchina propagandistica” di un certo impero che doveva durare mani grassocce palpeggia democraticamente l‟intimo dei paesi, polveri e mille anni e poi durò pochi decenni; almeno in Alemannia si dice che i rovine che un tempo gli furono a turno predecessori nella guida del mondo, nazisti sconfissero i nazisti. A noi. Dunque la macchina propagandistica egli cerca una presa. Ecco che il ballerino è colto dal fiatone; la tradizione servirebbe, ad esempio, credo siamo d‟accordo, per confondere, coprire di dice: “sotto un altro!”. Stavolta, però, credo ci sarà un gran finale. lodi e inganni le schifezze, i crimini, che un gruppo di fanatici (perché per Luigi Taibbi L’ANGOLO DEL COMMERCIALISTA Il Nuovo Regime Agevolato dal 2012 a cura di Danilo Lizzio - [email protected] Con il provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate del 22 dicembre 2011 sono state dettate le modalità di applicazione del regime contabile agevolato previsto dall’articolo 27, comma 3 del D.L. 98/2011 convertito con modificazioni dalla Legge 15 luglio 2011 n. 111. I soggetti ammessi al nuovo regime agevolato, a partire dal periodo d’imposta 2012, sono coloro che posseggono i seguenti requisiti: 1) nell’anno 2011: non hanno conseguito ricavi o compensi superiori ad euro 30.000,00; non hanno effettuato cessioni all’esportazione; non hanno sostenuto spese per personale dipendente o collaboratori con qualsiasi contratto; 2) nel triennio 2009 - 2011 non hanno effettuato acquisti di beni strumentali, anche in leasing, per un ammontare superiore ad euro 15.000,00; 3) non si avvalgono di regimi speciali ai fini IVA; 4) risiedono sul territorio nazionale; 5) non sono soci di società di persone (snc o sas) o associazioni o a società a responsabilità limitata trasparenti (art. 116 testo unico imposte sui redditi); 6) non effettuano esclusivamente o in prevalenza cessione di fabbricati o loro porzioni e terreni edificabili o di mezzi di trasporto. I soggetti esclusi da tale regime sono quelli soggetti a particolari disposizioni IVA e/o imposte sui redditi (ad esempio coloro soggetti agli artt. 34, 34 bis e 74 del decreto 633/1972; articolo 25 bis decreto 600/1973; artt. 36 e 40 bis decreto legge 41/1995; art. 5 legge 413/1991). I soggetti che si avvalgono del regime agevolato sono esonerati dalla registrazione e tenuta delle scritture contabili ai fini IRPEF, IVA e IRAP; dalle liquidazioni e dai versamenti periodici IVA; dal versamento dell’acconto IVA; dalla presentazione della dichiarazione ai fini IRAP. Sono, invece, dovuti i seguenti adempimenti: la conservazione dei documenti emessi e ricevuti; la comunicazione annuale dei dati IVA, se il volume d’affari supera la soglia di euro 25.822,84; la presentazione della dichiarazione dei redditi ai fini IRPEF e IVA; il versamento annuale dell’IVA e quelli dell’acconto e del saldo dell’IRPEF e delle relative addizionali; la compilazione del modello degli studi di settore o dei parametri. La determinazione del reddito dei soggetti rientranti nel regime agevolato è regolamentata dagli articoli 54 (lavoro autonomo) e 66 (reddito d’impresa) del testo unico delle imposte sul reddito e successive modificazioni. Tali agevolazioni si aggiungono a quelle riservate ai cosiddetti “nuovi contribuenti minimi”, i quali hanno meno adempimenti fiscali (soprattutto ai fini IVA) e maggiori agevolazioni in termini di determinazione del reddito imponibile (di lavoro autonomo o d’impresa). I “nuovi minimi” applicano al reddito imponibile l’aliquota agevolata del 5% e, se soggetti, non inseriscono la ritenuta in fattura. Infine, essi non sono soggetti agli studi di settore e non versano l’IVA né periodicamente né annualmente, perché non viene riportata in fattura. LIII CONGRESSO FIJET Giornalismo turistico e comunicazione La Fijet, Federazione Internazionale dei Giornalisti e Scrittori del turismo, è stata ospitata in Romania, al Palazzo del Parlamento di Bucharest. Grazie al Ministero del turismo e alla Municipalità di Bucharest, al Presidente internazionale della Fijet Tijani Haddad, che ha voluto il congresso in Romania e, per l‟organizzazione, un grazie al segretario internazionale Jacques Campè, al giornalista Jim Thompson, a Victor Radulescu, Presidente della Fijet in Romania, il LIII Congresso ha ospitato oltre 250 giornalisti provenienti da diversi paesi. Tematica del congresso il compito del giornalista come tramite indispensabile per divulgare il turismo nelle sue più svariate sfaccettature. Il giornalista come veicolo trainante che pubblicizza il turismo descrivendone immagini e costumi e che, attirando il turista, crea economia, cultura e scambio di idee che consentono consapevolezza. Abbiamo appurato come la Romania, oggi, sia diventata una nazione democratica. Siamo stati accolti come “fratelli”, balli e musiche tradizionali facevano da gradevole sottofondo al nostro giro turistico. Il turismo in Romania è a buon mercato e il paese è in grado di offrire interessanti itinerari. A nord della Moldavia si trova Bucovina, la terra di tanti monasteri divenuta patrimonio dell‟umanità Unesco. Vi sono paesaggi stupendi che vanno dai Carpazi alla Transilvania dove si trova il castello di Bran, celebre come castello del conte Dracula. In Romania si possono praticare vari sport come rafting, sci, caccia, pesca. Altra forma di turismo appassionante è l‟esplorazione a cavallo di magnifici sentieri naturali. E inoltre c‟è l‟agriturismo, spesso di stile antico, che offre ai turisti sapori e colori eccezionali. La Romania è conosciuta anche per il buon vino, i cibi genuini e l‟eccellente grappa che i rumeni offrono in ogni occasione. Giovanna Abate Arte&Spettacolo 4 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio Fantarcheologia Ceci n’est pas… Archeologia! di Daniele Cencelli Parafrasando il motto magrittiano, introduco il tema della cosiddetta “fantarcheologia”. Ovvero, “una sorta di archeologia pseudoscientifica che dà una interAnticitera o Antykithera pretazione non conforme al metodo scientifico archeologico”. Il tema, seppur possa sembrare frivolo, ha una qualche importanza, sia perché ci mostra come nei secoli l'uomo si sia rapportato a reperti considerati “particolari” sia perché, oggi, si sente spesso parlare di archeologi improvvisati che, con mirabolanti spiegazioni, illustrano alcuni aspetti non del tutto chiari a chi, invece, è del settore. Il primo approccio a questa pseudoscienza fu quello dello scrittore C. H. Fort, studioso del paranormale, che spiegò manufatti considerati all'epoca “particolari”, siamo a cavallo tra Ottocento e Novecento, come prodotti alieni. Il più noto esempio riguarda la mitica Atlantide, menzionata da Platone, e descritta come un'isola molto potente distrutta poi da un cataclisma. Già dal XVI sec. si iniziò a collegare Atlantide con le civiltà americane, per poi giungere a connettere la stessa con Mu, mitico continente della tradizione maya. Per cercare di validare l'esistenza e la distruzione di Atlantide, le ipotesi si moltiplicarono velocemente durante i secoli, per primi furono “sbattuti” al banco degli imputati gli asteroidi. Nel 1902, sull'isola greca di Anticitera, si rinvennero alcuni resti di un manufatto meccanico di rame. Diverse indagini appurarono che il congegno riproduceva il moto dei pianeti attorno al Sole e anche le fasi lunari. Un meccanismo troppo elaborato, quindi, così pensarono gli stessi eruditi dell'epoca, insistendo che il manufatto fosse troppo complesso per appartenere allo stesso periodo della nave inabissata in cui era stato ritrovato (I sec. a.C). Ma perché sottovalutare la cultura greca? In quel periodo si fecero effettivamente notevoli passi avanti nella scienza, tali da spiegare un'opera del genere. Recentemente è stata ipotizzata la possibilità che il meccanismo abbia, tra l'altro, i natali proprio in terra sicula, a Siracusa. Ultimo fantasioso esempio riguarda noi, o meglio, l'essere umano. Nel 1912 vennero rinvenuti a Piltdown (Sussex) da C. Dawson, avvocato con la passione dell'archeologia, dei frammenti cranici e una mandibola con due molari ancora incastonati. Il tanto ambito anello mancante uomo-scimmia? No, una truffa bella e buona. Solo dopo 40 anni il cosiddetto Eoanthropus dawsoni fu smascherato come essere mitologico piuttosto che anello mancante: infatti, il cranio era di un più che conosciuto Sapiens, mentre la mandibola apparteneva ad un pongo e i denti, appositamente limati, ad uno scimpanzé. Novacula Occami docet. Venezia. Palazzo Cavalli Franchetti La fotografia dal Giappone (1860 - 1910) I Capolavori EscogitArte a cura di Elisa Toscano Yamamoto Masao Frammenti di mondo e onirici istanti Ogawa Kazumasa L‟Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti di Venezia, fino al 1 aprile 2012, al Palazzo Cavalli Franchetti, ospita una mostra che presenta oltre 150 stampe fotografiche originali realizzate dai grandi interpreti giapponesi ed europei, agli albori della storia della fotografia, fra il 1860 ed i primi anni del Novecento. Dal titolo La Fotografia del Giappone (1860-1910). I Capolavori, la mostra è curata da Francesco Paolo Campione (direttore del Museo delle Culture di Lugano) con Marco Fagioli. È prodotta dal Museo delle Culture di Lugano e da Giunti Arte mostre musei, con, in Italia, l‟Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti. Presenta i capolavori di uno dei più importanti capitoli della storia della fotografia - nata in Europa ma subito sperimentata in Giappone - nel periodo in cui il Paese del Sol levante si apriva all‟America e all‟Europa, influenzando con le figurazioni e le rivelazioni della sua creatività il gusto dell‟intero Occidente. Gli appassionati del genere potranno ammirare le opere di alcuni grandi fotografi delle origini, primo fra tutti l‟inglese Felice Beato che, con un piccolo gruppo di artisti giapponesi, diede vita alla Scuola di Yokohama. Il tragitto espositivo suddiviso in sezioni analizza la figurazione del paesaggio, la natura “educata” dalla cultura, il piacere dell‟esotismo e la relazione fra sacro e profano. La mostra si conclude con le opere dei grandi interpreti della fotografia giapponese e straniera, come Kusakabe Kimbei, considerato il maestro nel realizzare sofisticate foto all‟albumina colorate a mano. L‟esposizione è accompagnata da un importante volume, pubblicato da GAmm Giunti. Brera Incontra il Puškin… Nello Calì (segue da pag. 1) Quest'ultimo appare incorniciato con un senso di forte preziosità in un intarsio ligneo dorato, evidenziando in poche pennellate il senso del dinamismo in nuce di un'epoca che scoppia più avanti in un “Autoritratto” di Boccioni. Tra Pisarro e Cézanne campeggiano, contro la tetra monotonia, i rossi di Gauguin con i suoi emblemi “La stanza rossa” , “I pesci rossi”, ecc. Si prospettano ulteriori prestigiosi scambi culturali, è solo l'inizio se si pensa che la mostra deve ai collezionisti italiani Jesi, Jucker, Vitali e Mattioli le opere degli artisti del Novecento come Boccioni, Modigliani, Mafai, De Pisis, Carrà e Morandi. Un'apoteosi sensoriale emotiva da non perdere per lasciarsi sedurre dalla bellezza di vedere la realtà altra di un quadro. Ombretta Di Bella Racconta affascinanti storie tramite la magnificenza della natura che ci circonda. Offrendola come un oggetto da poter portare con sé nella propria mano. L‟artista Yamamoto Masao, ha iniziato i suoi studi come pittore. Da anni ormai utilizza la fotografia per catturare le immagini che evocano ricordi, sebbene non si possa prescindere da un successivo intervento di tipo pittorico. È noto per le dimensioni ridottissime delle sue opere, come egli stesso commenta: “puoi stampare le mie foto della grandezza che preferisci, ma ogni cosa ha la sua giusta dimensione, io le voglio così, piccole, per poterle tenere nel palmo della mia mano, devono divenire oggetti”. Contravvenendo ad ogni convenzione fotografica, Masao non prevede l‟ingrandimento del negativo, sembra voglia costringere l‟occhio altrui ad uno sforzo di attenzione per cogliere i dettagli della sua opera. Realizza installazioni con le sue piccole fotografie per mostrare come ogni stampa è parte di una realtà più grande ed afferma: “le mie installazioni non hanno un inizio, puoi guardarle da qualsiasi stampa, ogni inizio ha una storia diversa”. Sono scatti di immensa bellezza che conducono lo spettatore ad ammirare quei “dettagli che la natura ci regala e che molta gente perde”. Istantanee dai bordi strappati che l‟artista ricolora con gocce di the e/o vernice rossa: il corpo di una donna, un fiore, un paesaggio. Sono frammenti di mondo, istanti di sogni. Arte&Spettacolo 5 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio Adriano Di Stefano “Suoni del cuore”, un inno alla libertà dell’essere “Suoni del cuore” è il titolo del secondo album di Adriano Di Stefano (nella foto), prodotto da “La città vecchia”, libera associazione di promozione musicale, che, dopo i consensi ottenuti con il lavoro d‟esordio, “Distrattamente”, edito da Prova d‟Autore, torna alla ribalta proponendo una raccolta di suoni e testi dettati, con assoluta spontaneità, dall‟animo sensibile del giovane poeta e cantautore catanese. Otto brani inediti, scritti, musicati e cantati dall‟abile Di Stefano, ispirati, come direbbe il sociologo Giovanni Busino, al più raro dei lussi: la libertà. Artista eclettico, accompagnato da Alessio Giordano (chitarra solista) e Andrea Giuseppe Denaro (banjo, basso, bouzouki, flauto traverso), Di Stefano, prosegue con successo la propria tournée. Qual è il messaggio portante del cd? “Lasciarsi andare e ascoltarsi. Lasciare che i sentimenti giusti abbiano più spesso la meglio così da non essere, come spesso accade, sovrastati dalla ragione. Credo sia l‟unico modo per essere più umani”. Qual è, ammesso ci sia, il brano più significativo? “Valzer da solo. L‟ho inserito a conclusione dell‟album come pure in scaletta alla fine di ogni singolo concerto perché lo reputo il modo migliore per salutare chi mi ascolta. Esprimo la mia paura più grande: rimanere da solo per rendermi conto, un giorno, che nessuno ha mostrato attenzione reale per le mie canzoni, per le mie parole”. Quali artisti prediligi? “Ce ne sono parecchi. Oltre ai “soliti noti” cantautori italiani, ho scoperto personalità (non solo artistiche) come quella di John Lennon che mi hanno particolarmente affascinato per la voglia di diffondere messaggi pacifici e di amore, oltre che per la profondità dei testi. Penso che Lennon solista potrebbe divenire il mio punto di riferimento per gli anni futuri”. Quali le fonti ideali di ispirazione? “Ultimamente mi lascio ispirare dal mio stato d‟animo, non faccio riferimento a nessuna particolare musa, cerco solo di capire meglio me stesso per, poi, tirare le somme con i miei motivi”. Istantanee, memorie dal presente Speaker’s Corner di Rosario Leotta 8 3 5 2 9 4 1 6 7 In occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, la storica e blasonata agenzia Magnum ha dato vita ad un Grand Tour fotografico, il cui fine è manifestare il presente visivo del nostro paese per celebrarne la memoria. Nove fotografi per nove tematiche da rappresentare. Richard Kalvar (1) ha ritratto scenari che ci contraddistinguono, dai pranzi in famiglia, alla domenica in chiesa fino alla cultura del rito matrimoniale. Harry Gruyaert (2) si è premurato di sviluppare il tema del progresso industriale puntando i riflettori sugli eccessi dell’urbanizzazione. Alex Majoli (3) ha documentato le classi dei lavoratori e degli artigiani meno noti, come i pescatori di Portopalo o gli operai degli stabilimenti Maserati di Modena. Christopher Anderson (4) si è concentrato sul mare passando anche da Catania, dove ha fotografato i silos per il frumento del porto. Donovan Wyle (5) si è occupato di evidenziare nuove realtà urbane, come i resti delle nostre antiche mura che convivono insieme alla più recente architettura. Paolo Pellegrin (6) si è impegnato a descrivere il “domani” italiano fotografando i primi piani di 150 ragazzi che sorridono speranzosi al futuro della penisola. A Mikhael Subotzky (7) è stato affidato il compito di documentare le contraddizioni insite nella realtà italiana. Ad esempio, una delle sue immagini raffigura i bambini che giocano sulla spiaggia di Cecina mentre un trans prende il sole. Mark Power (8) ha fotografato i luoghi della memoria diventati stereotipi quali il duomo di Milano, mentre infine Bruce Gilden (9) si è preso cura di raffigurare la problematica degli “altri”, girando per carceri, centri d’accoglienza, parchi pubblici e baraccopoli. Spazio e voce alla tua creatività Speaker‟s Corner è il nuovo originale progetto della cooperativa Tribe. Lo "Speaker’s Corner" è un palco, un'opportunità, una bella vetrina, una zona franca, il campo neutro dove esibirsi liberamente senza filtri o selezioni da parte degli addetti ai lavori. Nello spazio allestito all‟interno della Vecchia Dogana di Catania artisti, musicisti, poeti, scrittori, registi, studenti, docenti, dilettanti e professionisti avranno quindici minuti di tempo per far conoscere al pubblico il proprio lavoro, le proprie idee o le proprie iniziative utilizzando video, immagini o semplicemente la propria voce. Ogni martedì, dalle 19 alle 24, sul palco dello Speaker’s Corner, lo “speaker” e il suo “progetto” saranno i protagonisti principali di una serata/show democratica basata sulla condivisione e sulla libera circolazione della creatività. Partecipare è semplice: basta scaricare, compilare e inviare la relativa scheda alla cooperativa Tribe, promotrice della manifestazione, che si occuperà di raccogliere e organizzare le candidature «senza se e senza ma». Per maggiori dettagli e per reperire la scheda di partecipazione e il calendario delle serate in programma (o da programmare) potete consultare il sito www.tribearl.it/speakerscorner. Nello Calì l’EstroVerso Numero 1 - Anno VI Registrazione Tribunale di Catania n. 5 del 9 febbraio 2007 Direttore Responsabile Grazia Calanna Segretario di Redazione Luigi Carotenuto Editore EstroLab www.lestroverso.it Cultura 6 l’EstroVerso L’incontro con Milena Agus di Gabriella Bertizzolo Asiago, 22 agosto 2007. Il tempo promette pioggia così a mezzogiorno l‟altoparlante annuncia che l‟incontro con i finalisti del Premio Campiello, anziché in piazza del Risorgimento, si terrà nella sala del Grillo Parlante. Come d‟abitudine mi reco all‟appuntamento in anticipo. Nella sala semivuota sfoglio i libri letti e riletti e osservo il Milena Agus frenetico lavoro dei tecnici alle prese con audio e microfoni. Mentre la sala si riempie, i magnifici quattro (l‟ottuagenario Fruttero, assente, è ricordato con un lungo applauso) arrivano scortati dall‟Assessore, Andrea Gios, dal Presidente della Confindustria Veneto, Andrea Riello, e dal Presidente del Comitato di Gestione del Premio, Walter Fortuna, che presenterà la conferenza. Mi complimento con tutti gli scrittori, mantenendo segreto - com‟è giustamente richiesto - il mio ruolo di membro della Giuria dei Trecento. La Agus è con un gruppo di amici. Le chiedo cortesemente l‟autografo, mentre iniziamo a parlare, proprio all‟entrata della sala, di “Mal di pietre” (presente anche alla finalissima del Premio Strega). “Mi congratulo per la sua storia che ho letto con interesse, per il linguaggio immediato e la capacità di penetrazione psicologica. Interessanti anche le “posizioni” della nonna col Reduce - dico un po‟scherzando -”. “Prestazioni” - mi corregge prontamente l‟autrice sorridendo con voce pacata ma decisa -. Certo, prestazioni, quella della preda, della schiava, della musa, della donna cagna, della pigra…”. Le avevo lette, mi era piaciuta l‟incisività del linguaggio pur nell‟asciuttezza formale. “Non avrei mai pensato che la storia finisse così, intendo dire che la nonna aveva solo immaginato di avere quella relazione anche fisica col Reduce”. “Nemmeno io, per la verità”. “Comunque, io ho trovato il suo libro poetico”. “Ho scritto parecchie poesie quand‟ero piccola, ma brutte”. “Brutte? Non credo, lei è troppo modesta. Anch‟io ne ho scritte parecchie. E il suo rapporto con la classe dell‟Istituto Superiore dove insegna?”. “Ho sempre tenuto tutto nascosto, non volevo e non voglio che i miei allievi leggano il mio libro, nemmeno la mia famiglia, mio figlio”. “Posso capirla, sono un‟insegnante di Lettere alle medie che ha avuto il coraggio di dare alle stampe sei libri di poesia, da qualche anno sono alle prese con un romanzo che mi rende difficile la vita”. “Auguri, allora!”. “Grazie, ne ho bisogno. Come si sente dopo le varie traduzioni e i lusinghieri risultati ottenuti con „Mal di pietre‟ presente anche nella finalissima del Premio Strega?”. “Mah, per me questo libro è già andato fin troppo avanti. Io non mi ritengo una scrittrice, ma piuttosto „una che scrive‟. Ci ho ripensato mille volte prima di consegnare il manoscritto a Nottetempo, non volevo che venisse pubblicato”. Penso alle consonanze profonde che affiorano dal nostro dialogo: anch‟io non mi sono mai ritenuta, né mi ritengo una “poetessa”, ma “una che scrive poesie”. “È successo anche a me. Comunque io penso che nel momento in cui una persona consegna il suo scritto alla casa editrice, significa che almeno una parte di sé desidera che il testo venga pubblicato, altrimenti lo terrebbe nel cassetto della scrivania. Sembra lapalissiano, ma credo sia così”. Sono io a rompere il silenzio che fa seguito alla mia domanda. “Posso dirle una cosa? Lei il più grande successo l‟ha ottenuto con il suo pudore, pudore che permea di sé tutto il romanzo, anche quando chiama le cose col proprio nome. “Ho sentito che ci sono pagine di sesso sfrenato”, dirà poi, sic et simpliciter, molto simpliciter, Vespa”. “Grazie”, conclude. Tutti si sono già accomodati sul palco ma la gentile professoressa Agus senza fretta finisce di scrivermi sul frontespizio del volumetto “con gratitudine” con una grafia tondeggiante, ordinatissima, di quelle di una volta. Sono io a ricordarle che manca solo lei all‟appello. La rivedo lo scorso primo settembre a Venezia, sul palco della Fenice, ben salda sulle ballerine che non fanno niente per alzarle la statura… Ma l‟alta statura dell‟autrice sarda è quella narrativa. Gennaio - Febbraio SCRITTURA CREATIVA. SUGGERIMENTI IV Ciao a tutti (diamoci del tu), spero che il vostro 2012 sia iniziato bene. Oggi andiamo speditamente, ché parleremo dei personaggi, e le cose da dire sono molte. Dunque. Fondamentale, per ciascun personaggio di una narrazione, è la coerenza: la coerenza con sé stesso e la coerenza relazionale. La coerenza con sé stesso significa che se il personaggio X non si è mai acceso una sigaretta per le prime 243 pagine della mia narrazione, e lo faccio fumare a pagina 244, sto commettendo un errore; a meno che io non espliciti (e motivi) il fatto che egli abbia iniziato a fumare. Come non incorrere in simili incoerenze? Creando, prima di cominciare una narrazione, le schede biografiche dei personaggi, le più dettagliate possibile. Ribadiamo quanto già detto la scorsa volta: più la mia immaginazione (dei personaggi, in questo caso) sarà vivida, o meglio: sarà completa, meno mi esporrò al rischio di incoerenze. Ma Bagnasco, così non si avranno personaggi monolitici, statici? Macché. Nel corso della narrazione, un personaggio può certo mutare atteggiamento, giudizio, ruolo, eccetera: ma - ripeto - qualunque cambiamento dovrà essere frutto di una precisa scelta narrativa, e non di sciatteria d’autore. Cos’è, poi, la coerenza relazionale? Beh, un personaggio esiste solo in rapporto con gli altri. Per cui, ogni narrazione dovrà avere un insieme di personaggi la cui coesistenza sia narrativamente plausibile e funzionale. E ciò ci porta a una riflessione, la quale ci conduce a due avvertenze. La riflessione: i personaggi hanno l’inguaribile tendenza a formare coppie. Da ciò, due avvertenze. Prima: occhio ai doppioni (due personaggi perfidi, o due doppiogiochisti, o due imbranati, in una narrazione sono troppi). Seconda: un certo tipo di personaggio ne prevede quasi obbligatoriamente un altro. Per esempio, se sto scrivendo un noir e inserisco nella mia narrazione una bionda vaporosa sulla trentina, meglio se vedova e incline al whisky, non posso non inserirvi anche un personaggio che prima o dopo cadrà vittima del di lei fascino. Ultimissima avvertenza: i personaggi si muovono all’interno di un determinato spazio, che consente loro di fare e dire alcune cose, e non ne consente altre. Per esempio, se il luogo è buio sarà insensato badare alla mimica dei personaggi; altro esempio, un luogo affollato è perfetto perché A spifferi, quasi distrattamente, qualcosa di cruciale all’orecchio di B; e un vasto luogo aperto è l’ideale per un inseguimento. Dubbi, domande? Se sì, scrivetemi. Vi abbraccio tutti insieme e uno per volta, alla prossima. Claudio Bagnasco [email protected] Cultura l’editore 7 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio racconta... La Casa editrice Prova d’Autore è stata fondata nel 1978. La prima pubblicazione è stata la rivista bimestrale Lunarionuovo diretta da Mario Grasso (www.mariograssoscrittore.it). I primi collaboratori di Lunarionuovo sono stati: Sebastiano Addamo, Giorgio Bàrberi Squarotti, Giovanna Capone, Gilberto Finzi, Giuliano Gramigna, Mario Grasso, Giuseppe Marchetti, Biancamaria Mazzoleni, Giancarlo Pandini, Giuseppe Pontiggia, Giovanni Raboni, Salvatore Rossi, Giuseppe Savoca, Salvatore Scalia, Maria Luisa Spaziani e Leonardo Sciascia, tutti presenti con propri scritti inediti sul primo numero (Cfr. Lunarionuovo n. A.I, n.1 – Giugno/Luglio 1979 – Catania). I libri pubblicati da Prova d’Autore tra il 1979 e il 1987 sono stati siglati Lunarionuovo, compresi quelli editi in collaborazione con la Società di Poesia presso l’Editore Guanda (Cfr. Coedizioni Lunarionuovo - Società di Poesia - CataniaMilano). Dal dicembre 1987, dopo nove anni di attività nella sede originaria, c’è stata l’inaugurazione della nuova e attuale sede in via Leopardi, n. 53, a Catania, (inaugurazione festeggiata con l’intervento di Juri Lotman e di personalità della cultura internazionale e locale - vedi www.provadautore.it), a partire dalla stessa data la produzione editoriale verrà definitivamente siglata con il logo e la ragione sociale Prova d’Autore. Qual è l’aneddoto più curioso legato alla nascita della casa editrice? Quello dello stupore di certi “soliti ignoti” per la venuta di Juri Lotman a inaugurarla. I soliti “amici locali”, dispensatori di gratuiti elogi alla rovescia, lo raccontavano assicurando che era tutta una leggenda metropolitana. Per questo motivo abbiamo inserito nei nostri cataloghi le fototestimonianza. Qual è la peculiarità della vostra linea editoriale? Esclusivo interesse per le scienze umanistiche. Prevalente attenzione per la letteratura creativa, Poesia, Narrativa e Pensiero di autori italiani in lingua e in tutti i dialetti d‟Italia. Viviamo nell’epoca delle facili pubblicazioni, in che modo un editore può salvaguardare l’autenticità della cultura? Non certo un singolo editore ma una “politica editoriale” generale, ammesso sia possibile tale utopia. Il singolo editore può proporre il proprio esempio, dimostrando di poter disporre di un comitato scientifico adeguato ai compiti da svolgere, quindi rinunciando a quanto può procurargli lauti guadagni ma non prestigio professionale. La vostra casa editrice non ha eguali in tutto il Meridione in termini di spazio (fiducia) concesso alla poesia. In che modo è possibile riconoscere un vero poeta e, conseguentemente, selezionarlo per la pubblicazione? E, ancora, cosa spinge oggigiorno un editore a pubblicare un poeta considerato anche l’esiguo mercato della poesia? Pubblichiamo due collane di poesia, Centovele e Alisei. In Alisei opere di poeti di chiara fama nazionale, la collana è stata diretta da Maurizio Cucchi e dopo di lui da Mario Grasso. Vi sono state pubblicate opere di Antonio Porta, Giancarlo Majorino, Gregorio Scalise, Daria Menicanti, Junna Moritz e di un paio di dialettali. È in corso di stampa una silloge di liriche in piemontese di Dario Pasero. L‟altra collana, “Centovele” anch‟essa affidata alla direzione di Mario Grasso, pubblica autori esordienti (Luigi Carotenuto, Grazia Calanna, Giuseppe Carracchia, Fabrizio Ferreri, Valeria Spallino, ne sono esempi recentissimi) e conferme selezionatissime. Ma senza superare i cinque/sei libri all‟anno, a fronte delle duecento e passa richieste che giungono. La poesia si fa riconoscere non occorre indagare per conoscerla. La poesia non ha mai avuto mercato. Ma coprire le spese di una edizione non sarà un miracolo. Quali le prossime novità editoriali? Tra febbraio e marzo manderemo in distribuzione un saggio del francesista Gaetano Vincenzo Vicari su Flaubert, un saggio di Nunziella Imbalzano su autori del Novecento italiano, un sorprendente libro di poesie dell‟esordiente Enzo Mellia e uno del noto poeta nisseno Vittorio Stringi; ci sarà un nuovo libro di Alfio Patti, il nostro affabilissimo “aedo dell‟Etna”, l‟esordio di due giovanissimi: Erica Donzella e Luigi Taibbi. Verrà pubblicata la silloge degli interventi sul tema del convegno “Il verso e l’ES” curata da Emilia Musumeci e ci sarà anche una proposta innovativa: il lancio di una collana, “Möbius” dedicata al pensiero filosofico e affidata alla direzione di una studiosa di prim‟ordine, Marina Guerrisi, che sta già curando il primo volume, in uscita a febbraio. Nives Levan (titolare Editrice Prova d’Autore) L’antro della Pizia di Savina Dolores Massa Hiroshima mon amour E’ stato un dvd della settima arte a concludermi una giornata che, fino alle nove della sera, era destinata ad essere tra le dimenticate. Come tante, e me ne cruccio sì e me ne cruccio no. Alle nove di un inizio notturno qualunque entra in casa Hiroshima mon amour, diretto da Alain Resnais cinquant’anni fa più o meno. Soggetto e sceneggiatura di Marguerite Duras. La giornata si sorride, anche se solo sulla coda del finire. E batte molto, la coda. La prima immagine mostra due amanti aggrovigliati, con pelle ricoperta da cenere atomica. La parola entra, ed è subito palpabile la letteratura. Non i volti, ancora, ma solo immagini e parole. E musica. Non amo definire niente, capolavoro. Oppure mi capita per qualcosa che realmente mi lascia sperduta. A volte mi è capitato di incontrare qualcuno che lo era. E mi ha sperduta. Quando la pellicola uscì, in molti la definirono tale: capolavoro; in molti si spaventarono nel momento in cui rappresentò cinematograficamente una totale rottura con gli stili sino ad allora proposti. In molte maniere, fu definita: una delle prime opere della Nouvelle Vague, una delle prime opere ad utilizzare il sistema del flashback; un film di protesta; un film pacifista; e tanto ancora. Ma tutte queste informazioni, se volete, potrete cercarle, da soli. Non sono un’esperta. Io guardo, così, anche senza sapere niente di niente. Prima. Mi ritrovo in una stanza di fronte a una storia e colgo solo quel modo bello di raccontare che raramente trovo in un film. Le parole della Duras, i volti dei due soli protagonisti, un passato di macerie ancora maleodoranti di guerre. Lui è un giapponese, lei una francese. In un incontro d’amore occasionale che poteva essersi concluso lì, in quell’unico giorno, ogni ferita riprende a produrre pus. Niente cicatrizza ciò che ha navigato in spensieratezza stagnante di memoria, alla quale si è imposto, Taci. Per anni. Nessun eroe, in Hiroshima mon amour, ma persone di battaglia, che hanno ingoiato guerra a manciate, e non si sono salvate, no, se incapaci di sostenere un qualsiasi ricordo. Incapaci di ridere di nuova faccia conservano solo la dolorosa capacità di tornare al passato con il desiderio, inutile, di esorcizzarlo. E saranno incubi, visioni, unghie spezzate su un muro, trasportati su un nuovo muro-corpo da graffiare. In deliri d’innamoramenti che si sovrappongono a corpi che si pensavano servissero per dimenticare, invece no. Invece no. Tutto si spezza, mon amour, con dialoghi che avvengono in un bar, ma arrivano da lontano, sinceramente folli, consapevolmente folli. Non si guarisce. Ambientato a Hiroshima, ma ambientato a Nevers, ma ambientato nel dopoguerra dannato di due amanti. Unghie di prigionieri, ancora, inutili per qualsiasi fuga. Ambientato a Nevers e ambientato a Hiroshima, ambientato in una stanza d’albergo o in una strada. Nulla cambia, se si portano pesi mascherati da vite “normali”. Tu non puoi sapere. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene. Tu mi uccidi, tu mi fai del bene. Tu non puoi sapere. Tu mi uccidi, tu. S.D.M. Cultura 8 l’Autore racconta Peccato della ragione di Borgese Le origini intellettuali del fascismo di Dario Consoli Presentare il mio libro di e su Borgese non è facile: ché, superata la prima lusinga, scrivere di sé non è agevole. Ricordo un tardo articolo di Pirandello, “Non parlo di me”, in cui lo scrittore esponeva le ragioni di una allenata e robusta ritrosia. Fino al punto, si sussurra, d‟aver talmente corrisposto a quel titolo da non aggiunger altro e, subappaltato lo scritto al figlio Stefano, d‟averlo soltanto firmato. Però qui è diverso perché un Premio stimola una risposta che, nel mio caso, è doppiamente grata. Il Cultura Alternativa 2011 ha premiato un‟opera da me curata, costata anni di studi e sacrifici, donandomi una cospicua soddisfazione, per la qualità dell‟iniziativa e delle opere premiate e per il fatto che si sia voluto premiare un saggista non accademico, un indipendente; ma ha soprattutto sottolineato – e non è caso unico, in questi anni – l‟urgenza di riprendere l‟opera del più autorevole critico militante del primo Novecento, quel Giuseppe Antonio Borgese (1882-1952) vergognosamente cancellato dal panorama culturale italiano, o meglio rimasto sfigurato, come certe statue della Villa Borghese. Il saggio che ho avuto ventura di scoprire e di „invenire‟, in seguito a un piccolo giallo epistolare che ricostruisco a chiusura della mia introduzione, ha titolo “The Intellectual Origins of Fascism” (1934), e comparve nientemeno che sul primo numero di “Social Research”. Non è che l‟incunabolo del poderoso “Goliath” (1937), il libro fondamentale per capire Borgese – scriveva il di lui appassionato Leonardo Sciascia – e soprattutto il libro che screditò veramente Mussolini in tutto il mondo anglosassone. Un‟apollinea definizione del fascismo, quella di Borgese: del fascismo inteso quale fattore costitutivo della storia contemporanea; il suo momento irrazionale e antiplatonico che, nelle parole da me tradotte, si fa nemico “di ogni meta fissata o di ogni scopo permanente, nella convinzione che il cambiamento è la sostanza, la passione è la virtù, la forza è il diritto; ovvero, per coloro che amano le definizioni brevi, il fascismo consiste nella sostituzione dell‟idea di giustizia con l‟idea di potere.” l’EstroVerso Gennaio - Febbraio I Premio Cultura Alternativa Vincono Barcellona, Consoli e Mangiavillano “La cultura è la passione per la dolcezza e la luce, e, ciò che più conta, la passione di farle prevalere”. Le parole di Matthew Arnold tratteggiano lo spirito del Premio Cultura Alternativa. L‟evento, promosso da un bel sodalizio di artisti, letterati, docenti e pubblicisti, tutti siciliani, come Gino Baglieri, Mario Condorelli, Grazia Dormiente, Michele Giardina, Laura Rizzo, Luisa Salici (ass. Cubalibro) e Gaetano Vicari ai quali si aggiungono Sonia Baglieri, Renata Governali e Marina Guerrisi che hanno stilato le analisi critiche delle opere vincenti, si prefigge di valorizzare, senza sperperi di denaro pubblico, opere meritevoli, fondatamente significative. La cerimonia di premiazione, condotta con eleganza dal cantautore Francesco Foti, affiancato, per le interviste agli autori, dall‟acuta Daniela Saitta, è stata accolta con successo dalla sala consiliare di Riposto (Ct). Per la sezione “Pensiero” ha vinto Pietro Barcellona con il testo “L‟oracolo di Delfi e l‟isola delle capre”, (Marietti). “Il filosofo siciliano - recita la motivazione redatta dalla Guerrisi -, accompagna le questioni fondamentali dell‟uomo contemporaneo sul filo dell‟esperienza vissuta durante un seminario terapeutico immerso nell‟isola greca di Spetses. L‟esperienza di gruppo vissuta in prima persona solleva la riflessione teorica dal piano dell‟analisi referenziale a quello della riconduzione mitico-poetica. Alternando narrazione e “lezione”, Barcellona suggerisce una filosofia d‟avanguardia che, dopo i massimi sistemi e la saggistica da corollario, ottiene le sue conclusioni dai “luoghi” del corpo”. Per la “Saggistica” ha vinto Dario Consoli con “Peccato della ragione. Le origini intellettuali del fascismo”, (Prova d‟Autore). La Governali, ha scelto quattro parole per risaltare il valore di questo saggio. “La prima è amore per la ricerca del giovane professore che ha il merito di aver intercettato il saggio di Borgese, ancora inedito in Italia, e averlo tradotto in un momento di considerevole interesse per gli studi sugli intellettuali italiani in esilio per sfuggire al fascismo. La seconda è giustizia che nasce dal portare in luce la verità. Impegno, sociale e civile, altra parola, poiché ripercorrere le strade della nostra storia, soprattutto quelle che hanno condotto il mondo ai disastri della guerra e dell‟olocausto, è un‟operazione indispensabile in questi tempi bui nei quali si è smarrito il senso di solidarietà, della convivenza civile e della pace tra i popoli. E infine, memoria e appartenenza come dono da offrire alla ricchezza delle conoscenze, alla varietà delle culture, a quella unità del mondo che Borgese vagheggiava”. Per la “Narrativa” si è distinto Sergio Mangiavillano con il romanzo “L‟impostura dellAbate Staropoli”, (Prova d'Autore). “Molti - osserva la Baglieri - i temi affrontati e gli spunti di riflessione: sulla storia del popolo siciliano, dominato e angariato da arroganti potenze straniere; sul valore Mangiavillano, Barcellona e Consoli dell‟Arte come simbolo autentico di Libertà; sul senso tutto umano dello “scendere a compromessi” con la propria fede per una causa tanto nobile da non lasciare dubbio alcuno sulla via da intraprendere”. Simona Lo Iacono: “Un romanzo sull’incapacità di amare” di Alessandra Leone Quattro storie, quattro destini che inevitabilmente si incontrano (e scontrano). Quattro portavoce delle debolezze degli uomini di oggi. Anna, moglie tradita e insoddisfatta, anima pura, ingenua, segnata dalla durezza della vita . Carlo, marito di Anna, affascinante principe del foro romano e amante di Elisa. Elisa, giovane e rampante avvocatessa, femme fatale della situazione (almeno, inizialmente, sembra sia così), ma che si trova perdutamente innamorata di Carlo, cercando di “elemosinare amore”, come cantava Mia Martini nel 1973 in “Minuetto”. Infine Giovanni, cugino di Anna a lei legato da un particolare tipo di rapporto, un tipico amore “platonico”(come si scoprirà in seguito). Sono loro i protagonisti di Stasera Anna dorme presto di Simona Lo Iacono (Cavallo di ferro editore), terzo romanzo del magistrato siracusano, impegnata da qualche anno con grande successo nello scrivere (con il suo primo romanzo, Tu non dici parole, ha vinto il Premio Vittorini 2009, sezione opera prima). Punto in comune dei quattro personaggi è l‟incapacità di comunicare, di capire veramente l'altro, di mostrarsi semplicemente per ciò che si è. Con coraggio, audacia e, magari, osando anche un po‟. Invece niente. Per i loro limiti caratteriali e per la troppa paura, Anna, Elisa, Carlo e Giovanni non riescono a esprimersi. Di conseguenza, la loro sarà una storia di aspettative, di silenzi, di “vediamo se l'altro capisce attraverso uno sguardo cosa vorrei”. Solo al termine del romanzo si potrà arrivare al bandolo della matassa, alla verità (concetto profondo, sì, e sicuramente complesso). “E allora sarà come assistere a un processo in cui ogni ruolo è ribaltabile nell'altro e tutti i punti di vista appaiono legittimi, perché si sa che nella vita ognuno di noi è insieme vittima e carnefice”. L‟autrice, in tutto questo, è un narratore super partes, la quale, con estrema sensibilità, non giudica, ma condivide le gioie e le delusioni delle sue “creature”. Quasi una mamma, che con dolcezza, lascia sfogare tutta la frustrazione e la rabbia dei figli. Molto pirandellianamente, ognuno ha la sua verità. In effetti, Pirandello sembra influenzare molto la scrittura di Simona Lo Iacono. I suoi protagonisti indossano continuamente delle maschere, dei vestiti di una taglia sbagliata, che risulteranno, inevitabilmente, troppo stretti. Ma come nasce questo romanzo? “Alla fine di Tu non dici parole, ancora prima della sua pubblicazione confida l‟autrice - è nato il personaggio di Anna. Ho ascoltato quella “voce” dentro di me e, dandole la dovuta attenzione, mi ha spinto a dare vita a questa quarantenne siciliana, trapiantata a Roma per seguire il marito. In realtà credo sarebbe stato troppo autoreferenziale se fosse stata la sola protagonista. Così sono nati, man mano, Elisa, Carlo e Giovanni. È un romanzo non sull‟amore, ma sull‟incapacità di amare. C‟è una grande difficoltà di venir fuori dal proprio io, d‟imporre le proprie idee e sogni. Un grande tema trattato in Stasera Anna dorme presto - continua la scrittrice, che letteralmente travolge con la sua energia e passione - è il tradimento. Tradimento in primis verso sé stessi. Ognuno, nell‟altro, è alla ricerca di un significato. È un continuo e forsennato rincorrersi alla ricerca di un quid, che in realtà è semplicemente dentro se stessi”. Notizie Letterarie 9 l’EstroVerso Belli da leggere di Grazia Calanna Da Moby Dick all’Orsa Bianca di Anna Maria Ortese Adelphi Scritti suadenti, distinti da raffinatezza, levità, trasporto, dolcezza, umorismo, esplorazione, amore, come quello per la lettura, che si rivela “fra le passioni più belle della vita, spazio del diletto e del riposo dell‟anima e insieme della costruzione del senso del suo essere nel mondo e del suo starvi da scrittrice”, abbracciano, dal 1939 al 1994, un lungo periodo di intensa attività giornalistica. Parliamo del libro, curato Monica Farnetti, “Da Moby Dick all‟Orsa Bianca” di Anna Maria Ortese, edito da Adelphi, che si schiude con una deliziosa narrazione inerente il “Pellegrinaggio alla tomba di Leopardi”, il giovane favoloso, colui che “ebbe e ci diede il senso dello spazio, del tempo, e, con esso, lo sgomento della nostra piccolezza, l‟affannato interrogare, il ripiegarsi muto”. Straordinari i capitoli intitolati: a Čechov, leggere una sua pagina, riflette l‟autrice romana, “è come mettere l‟occhio su un vetro nitidissimo e guardare sotto scorrere la vita”; alla ragazzina di Amsterdam, Anna Frank, all‟innata “esigenza di verità”, alla capacità di “resistenza al male” - dovunque esso sia - e al suo “diario esemplare”, custode di “un mondo che dura due anni, ma è eterno, perché è di tutti i tempi e di tutti i luoghi”; a Eduardo De Filippo, “inimitabile, incantevole evocatore di tutto un mondo e un costume in apparenza piacevole, in realtà cupo e disperato, un mondo e un costume che si dibattono ai margini della vita moderna, della ragione umana, costruttiva, senza comprenderla né esserne compresi”; a Dino Buzzati, a “quella sua facoltà più che umana, misteriosa e tranquilla, di avvertire, nella solitudine, la solitudine degli altri; di carpire, solo in apparenza immobile, la paura e il dolore del mondo”. Ancora, singolari gli spunti offerti dalle letture del “Ritrattino del Dandy” nel quale si ricorda Baudelaire, colui che “ha lasciato una immagine del dandy superiore a quella suggerita da qualsiasi altro scrittore”, e di “Cristo e il tempo” dove è rammentato che “siamo appena l‟altra parte dell‟Universo, dov‟è posto il sigillo, siamo il primo Enigma, che aspetta in eterno - senza porre vere domande - una risposta già venuta da duemila anni, e che il silenzio, e l‟atrocità del silenzio, vanno ora mutando in giudizio”. Nel contempo esilarante, caustico e meditativo “Il piacere di scrivere” che, schiettamente, premessa l‟italianissima (pretesa) vocazione, bacchetta “ogni abitante-scrittore” che se ne sta sul proprio “manoscritto come il bambino, a tavola, col mento nella scodella, sogguardando la scodella, cioè il manoscritto, dell‟altro: e se quello è più colmo, sono occhiate, lacrime…”. Un modo per dire che dovremmo cessare di stendere soliloqui per piacere a noi stessi o, peggio, agli altri. Un‟esortazione a rispolverare il valore autentico della letteratura, “un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze”. Fragmenta di Giorgia Zuccaro Giuseppe Maimone Editore “Fragmenta” di Giorgia Zuccaro, è una silloge (Giuseppe Maimone Editore) che raccoglie, in linea cronologica, versi fioriti dagli anni della preadolescenza ai nostri giorni. È la storia, meglio, “il romanzo di formazione di una vita che ricerca il senso prima dentro alle parole dei cari maestri e poi dentro il Sé”. “La genesi spontanea di queste poesie - afferma il prefatore, prof. Paolo Bellia - costituisce una cattura di contenuti elevati trasposti verso il basso e l‟ermeneutica corretta dovrebbe tendere alla ricostruzione degli altri significati ispiratori in un moto di risalita piuttosto che seguire un percorso discendente verso i meandri dell‟inconscio e del livello terreno-materialistico”. L‟autrice che ha “bruciato incensi d‟amore all‟equa ragione e alla (propria) razionalità”, “rinasce da se stessa ogni giorno” porgendo un dettato lirico costantemente pulsante, diversificato da percettibili peculiarità. Scioltezza, “calava il giorno sulla nicchia di prato ove giacevo trasparente ai tuoi occhi”. Ermetismo, “il tutto non si scorge in quel limbo, nel tuo altare, tutto appare, tutto dispare e nulla che dia senso a questo faro intermittente”. Levità, “carpiva il suo silenzio celato in armonie dell‟universo dormendo inginocchiata accanto a lui, cuore a cuore”. Osservazione, “nobili si stagliano i versi della tua quotidianità come agili levrieri in cerca di verità”. Spiritualità, “da un canto ti leggo e da un canto ti spero, assomigliarti agogno se non nella gloria perlomeno nell‟anima”. Raccoglimento, “è forse più gratificante temere che godere la luce?”. Un inno colto e lucente all‟indivisibilità dell‟essere, all‟infinitezza che “nasce con la fine e finisce con l‟inizio”. Un invito, per dirlo pensando alla sapienza di Lucio Piccolo, vate celebrato dalla Zuccaro assieme a Montale (“ora tuo malgrado vivi, computo il balzo che una volta temevi, ma non hai lasciato il bandolo della sicurezza”), Ungaretti (“ora lo sai che è nel tappeto in cui i colori si fondono che la solitudine si stempera in una dolce armonia di suoni”), Saba (“rimpiangi di tornare su quel, ormai famoso, nuvolo dorato”), Dante (“gli ignavi li sputa anche l‟Inferno”) e Mario Luzi (“nulla di ciò che accade è senza volto e nulla di ciò che percepisci puro è inganno), a rifugiarci nell‟oscurità di noi stessi per ritrovare quanto di prezioso abbiamo smarrito. E riflettere, pertanto, sull‟impellente necessità di prendere (“Avere”) coscienza del mondo. In che modo? Verosimilmente, ascoltando con “cuore sincero” - senza riserve - per diventare eterni “testimoni d‟Amore” anche quando, sotto oniriche tolde, “la notte disarma dolcemente la vita”. Gennaio - Febbraio Scusate la polvere di Elvira Seminara (nottetempo) La polvere: ciò che rende opaco ed a volte sudicio quello che originariamente è destinato ad essere chiaro e splendente. Le scorie che la vita inevitabilmente sparge sulla nostra anima in una necessaria metamorfosi per non soccombere. Il rinunciare sempre più al nostro vero "io" in un continuo vorace adeguamento ad una realtà che non ci rappresenta e che non accettiamo. Questo è, in sintesi, ciò che vuole trasmetterci Elvira Seminara nel suo ultimo romanzo "Scusate la polvere" (nottetempo). Il tutto fatto in modo divertente, scorrevole. Tra le righe si scorge la profondità di un pensiero che denota una profonda conoscenza di Freud, del realismo magico e delle culture orientali che ci trasportano in un mondo dove la realtà è soltanto un accessorio non indispensabile. Emblematico di ciò sono i nomi della protagonista e delle sue amiche: Coscienza, Mia ed Alice le quali rappresentano diverse dimensioni in cui l'essere si sposta continuamente nel suo procedere, la casualità diventa predestinazione, la realtà fantastica e la certezza paradosso. Tutto ciò sapientemente ammannito con scorrevolezza e maestria. Genny Mangiameli A Mente Libera di Max S.P. (Lulu.com) “A Mente Libera” di Max S.P. è il grazioso volumetto dalla copertina plastificata, nonché azzurra, di un cittadino onesto e coscienzioso, che vive le contraddizioni della propria epoca non fermandosi alla superficie delle cose, ma approfondendo attraverso un‟analisi critica e lucida il lato oscuro di un sistema giunto al collasso. Quantunque privo di velleità stilistiche e letterarie - il lettore intelligente non farà caso a qualche imprecisione ortografica - ma forte di una scrittura piacevole e diretta, Max S.P. non esita a denunziare i mali del nostro tempo: dal precariato al sogno della casa di proprietà, dalla chimera di una crescita professionale alla responsabilità di diventare padre e poter garantire un futuro ai propri figli. Ed è proprio l‟impossibilità di intravedere un futuro che suggerisce a Max S.P. la stesura di quello che può definirsi un lucido appello alla coscienza collettiva, sempre più narcotizzata e incapace del minimo segnale di risveglio. Una lettura consigliata a patto che non si fraintenda l‟intenzione dell‟autore, appunto un ponte tra le idee. Vladimir Di Prima 10 l’EstroVerso Notizie Letterarie Biblioteca Birichina Il mio nipotino Luigi, qualche sera fa, mentre giocavamo a tombola mi ha chiesto a bruciapelo. “Ma insomma, zia, mi spieghi bene che cos‟è la Shoah? La maestra ha detto che in questo mese ne parleremo ed io non voglio essere impreparato quando lei tratterà l‟argomento. Voglio stupirla. Dai, zia, racconta…”. Son rimasta un attimo senza parole perché non è facile parlare ai bambini di temi difficili, ma ignorare la cattiveria, Illustrazione di Giordana Galli dare l‟illusione ai più piccoli che il mondo sia tutto rosa e oro è sbagliato. Sono convinta che i ragazzini debbano sapere che orchi, streghe e magie terribili non esistono solo nel mondo delle fiabe e che, purtroppo, realtà e fantasia spesso hanno la stessa faccia. A quel punto sono andata sullo scaffale dove ripongo albi per i bambini più piccoli e ne ho scelti tre. “E‟ sempre difficile, Luigi - ho detto al mio nipotino prendendolo sulle ginocchia - parlare della Shoah, ma voglio provare a farlo con l‟aiuto di questi libri che mi sembrano gli strumenti giusti per spiegarti l‟argomento”. E così ho cominciato a leggergli Il bambino stella di Hausfater Douïeb Rachel e Gennaio - Febbraio di Anna Baccelliere Latyk Olivier (casa editrice Pisani) delizioso racconto-metafora sulla vita di un piccolo ebreo e dei “cacciatori di stelle” dai grandi stivali neri, sottolineato dai colori forti e decisi dei bellissimi disegni. Subito dopo ho letto L’albero di Anne (casa editrice Orecchio Acerbo), di Cohen-Janca Irène, illustrato splendidamente con pennellate morbide ed eleganti da Maurizio Quarello. Nel libro si narra la delicata e commovente storia di un vecchio ippocastano testimone della prigionia di Anna Frank. I colori forti e decisi dei disegni di Emanuela Orciari, che ha illustrato La portinaia Apollonia di Lia Levi (casa editrice Orecchio Acerbo), hanno attirato ben presto la curiosità di Luigi che ha cominciato a leggere da solo e ad alta voce la storia di un ragazzino ebreo in una città occupata dai soldati tedeschi. Daniel, il protagonista della vicenda, teme molto l'arcigna portinaia Apollonia che ritiene una strega, finché un giorno scopre che anche una persona che incute timore come lei, nonostante tutte le apparenze, può salvare un bambino. Dopo aver letto e commentato le tre storie insieme a Luigi, lui mi è parso soddisfatto e, con il volto serio, mi ha chiesto: “Zia, mi presti questi libri? Voglio portarli alla maestra così anche per lei sarà facile spiegare la Shoah”. librolibri La Recensione di M. Gabriella Puglisi E nemmeno un rimpianto. Il segreto di Chet Baker di Roberto Cotroneo (Mondadori) Silenzio e salvezza. Il silenzio della musica che permette di abitare lo spazio dell‟universo di un accordo. La salvezza nella comprensione di ogni singola nota e in un‟esistenza altrove. La musica tutta in testa, quella suonata e quella mai eseguita. Salvezza dalle droghe e dagli stereotipi. Roberto Cotroneo racconta “gli anni segreti” della saggezza sufi di Chet Baker, il trombettista jazz tragicamente scomparso ad Amsterdam nel 1988. Morto come il mondo si aspettava, da “maledetto” bebop. La finta fine della vita come da prevedibile partitura, per rinascere savio in un paesino del Salento. Luce da est e mare senza echi, “strade dritte e ulivi contorti”, per “recuperare le parti dell‟anima” dimenticate e cancellare i “luoghi comuni” con una “specie di blu”. Indefinitezza di gradazione come la musica di Chet Baker, imprendibile, come My funny Valentine del 1952, ballata che accompagna il viaggio dell‟autore nel musicista e in se stesso. Ballata tenuta su dalla tromba di Chet, “una solitudine di note” che divaricano la notte nell‟errore di un accordo minore ed evocano “spazi silenziosi”, “spazi che esistevano da prima” che il jazz lascia di luce inalterata. Due storie sporche di Alan Bennett (Adelphi) Due storie dove la protagonista è la bugia. A dispetto del titolo che lascia presagire pruriginose narrazioni. Il sesso c‟entra, ma come escamotage per raccontare in maniera accattivante quanto si può essere lontani da sé. Il caso di Mrs Donaldson, vedova cinquantenne che, per necessità economiche, si ritrova a lavorare come “paziente simulata” in una clinica universitaria inglese. Un lavoro che rappresenta la perfetta “fuga da se stessi”. Una messa in scena di sintomi da interpretare nel lieto “fingere non proattivo” che è stata la sua vita. Lo scopre attraverso i suoi “pigionanti”che, come li chiama la spietata figlia Gwen, le offrono una “cosa sostitutiva” all‟affitto. Non meno mentitori Mrs Forbes e famiglia. Il figlio Graham, classico bello che sa di esserlo, sposa Betty Greene, non bella ma furba e intelligente. Duro colpo per Muriel Forbes e per il suo snobismo che nasconde segreti non confessabili all‟apparenza. Uno snobismo vacuo, puntellato di dissimulazioni con un loro peso specifico. Alan Bennett, scrittore e sketchista inglese, smaschera con vaporosa ed “osservante” ironia le inibizioni, i cliché e l‟incastonatura nei ruoli obbligati dalle convenzioni. di Anna Vasta I piaceri della conversazione di Giuseppe Giglio (Sciascia Editore) Definire I piaceri della conversazione di Giuseppe Giglio (Sciascia Editore) un libro di critica letteraria, con tutto il rispetto per la critica letteraria, mi sembra alquanto riduttivo. Riduttivo è sempre e comunque incasellare un testo in un genere, in una tipologia, ciò vale in particolar modo per questo libro, che non si lascia etichettare per l'intreccio dei registri di scrittura utilizzati, dalla narrazione, alla riflessione introspettiva, dalla citazione dialogica, interferente, alla digressione colta, dalla divagazione conviviale, alla meditazione severa nella tradizione dei grandi moralisti, dagli classici, ai moderni. Un discorso aperto, a prospettive di lettura in movimento, che da un itinerario tematico di partenza - la conversazione e i suoi piaceri - divaga verso percorsi eccentrici, per poi riconfluire nel tema centrale con nuovi apporti. La conversazione diventa così un cammino di conoscenza e di formazione dove convergono e convivono pensieri, emozioni, affetti, parole ricevuti in dono dai libri, e ai libri restituiti, accresciuti dei vissuti soggettivi di chi legge in uno scambio di gioiosa complice reciprocità. In questo delizioso libretto il piacere della lettura si mescola con la gioia di scrivere, e i due piaceri si rincorrono come in un gioco al rialzo. “Come se la realtà venisse rimescolata occultamente e di colpo gettata sulla pagina con l'emozione dell'azzardo” (Sciascia in Nero su nero). La posta in gioco in questo caso è la letteratura, nel suo affluire e defluire dalla vita. Un'idea di letteratura stendhaliana, come “rigorosa avventura morale, sempre aperta a nuove declinazioni della vita, dell'uomo e del mondo”. La letteratura non come finzione o invenzione, e neppure visione di un reale da reiventare, da trasfigurare perché possa avere diritto d'asilo nel mondo dello spirito e delle idee. La letteratura essa stessa vita, non di essa imitazione e copia. Vita non fittizia, autentica, che trae alimento da soggettivi, personali vissuti di dolore e di gioia, di solitudine e di pienezza, ma anche da corali, universali vicende. Di tutti gli uomini di tutti i tempi, di tutte le latitudini. Di quelle “tracce di vita” che ogni scrittore alla maniera di Stendhal lascia tra le pagine scritte, va in cerca Giuseppe Giglio nel suo libro, per ricomporre il “sistema solare” della letteratura, per riannodare i fili di quella “sintassi” (Borgese) del destino umano che è l'opera letteraria. Notizie Letterarie 11 l’EstroVerso Gennaio - Febbraio Parola d’Autore Qui si scrive controvento di Franco Arminio Sono nato in un paese ostile. L'ostilità del clima. L'ostilità delle persone e la loro sfiducia verso tutto e tutti. Mio padre non mi stimava particolarmente. Mia madre pensava che fossi debole di salute. Non ho avuto buoni insegnanti. Dalle suore dell'asilo ai professori delle magistrali, tutto un corteo di figure irritanti o scoraggianti. Nel mio paese c'è anche un curioso senso dell'amicizia. Gli amici sembrano avere la missione di ostacolarci. Veramente non sono stato incoraggiato da niente e da nessuno. Qui si scrive controvento. Sono rimasto qui perché a un certo punto la scrittura è diventata il passo della mia vita e qui la vita fatta apposta per adire alle vie della scrittura. A un certo punto con la paesologia è come se avessi mescolato le carte. Poesia e prosa, la mia malattia e quella del paesaggio. Le crepe dell'ansia e Scrivere per guardare al mondo di Giorgio Fontana Ho trent'anni (trentuno ad aprile). Lavoro come caporedattore per un magazine online. Quando torno a casa, scrivo le mie cose: scrivo praticamente ogni giorno, anche se difficilmente con gli stessi risultati. Mi piace lavorare su due-tre progetti diversi insieme, così come mi piace pensare a più storie, dare loro una chance, e poi capire quale sarà quella cui non potrò fare a meno di pensare - quella che mi terrà sveglio di notte. Ho iniziato a scrivere seriamente attorno ai 18 anni, ma i miei primi lavori erano pessimi. Ho buttato via quattro romanzi prima di pubblicare il primo. Mi piace metterla così - scrivere per me è una condizione, il mio modo principale (anche se non l'unico) di guardare al mondo. Ed è una condizione che si porta dietro requisiti severi, ma indispensabili: onestà intellettuale, dirittura, trasparenza verso il lettore. Cerco sempre di onorarli. Cerco sempre di fare in modo che le mie parole non siano buttate lì o non dipendano da impulsi dell'ego. Non è facile; ma non c'è scelta. Il mio ultimo lavoro, Per legge superiore, parla di un anziano magistrato milanese messo di fronte a una scelta molto complessa. È stato definito un romanzo civile, ma secondo me il suo fulcro è molto più intimo, esistenziale. In un certo senso, credo sia un Sellerio editore romanzo di formazione. quelle del terremoto. Il racconto dei paesi prevede sempre il racconto dell'umore di chi li visita. Arminio un po' sono io, un po' è il personaggio principale della mia letteratura. Il corpo è il cuore di tutto. Il mio corpo, il corpo del paesaggio. Non c'è figura e sfondo, tutto è in primo piano, tutto è visto alla luce della sua fine. La mia letteratura lavora sull'emergenza, sull'impazienza. Il pensiero della morte apre fenditure improvvise nella mia prosa, non mi consente trame romanzesche. Il giro è lirico o aforistico, prendere la vita che scema nel laccio di una frase, nell'incertezza che ce ne possa essere un'altra. La cosa singolare è che questa scrittura maturata su un orlo intimo e periferico è diventata un pensiero intorno a cui si sta raccogliendo una comunità. Ci sono molte persone che seguono il mio lavoro non come semplici lettori, ma è gente che partecipa alle cose che organizzo sul territorio, alle mie battaglie civili o al turismo della clemenza. Alla fine anche l'amaro Arminio non può non riconoscere che la sua fedeltà alla vita non Mondadori vissuta lo ha portato non solo a una prosa che molti considerano perfetta, ma a un imprevedibile ruolo di leader di un nuovo umanesimo, l'umanesimo delle montagne. La scrittura è un’influenza di Eva Clesis Da anni la scrittura influenza la mia vita, nel senso più morboso del termine. Perché la scrittura non è un hobby, nossignori, è un malanno molto più grave di un raffreddore. La scrittura è un’influenza, che ti fa venire la febbre alta con l’ispirazione, ti tramortisce e non ti fa dormire, ti fa tremare e tramare mentre sei sul tram, spara spore e battute che abbattono la tua vita sociale, ti confonde e così chiami Jane il tuo capo, Dolores il tuo gatto, Martin tua madre, Octavia tuo fratello. La scrittura ti butta giù, gli scrittori hanno tutti un’aria tormentata: logico, perché sono malati. La scrittura non si impara, ti contamina: gli altri autori ti influenzano, i libri sono fiati, scrittori non si nasce né si diventa, scrittori si prende. Lo scrittore è un malato immaginario di scrittura: e anche quando gli sembra che le cose vadano bene una nuova febbre lo porta a spossarsi dietro gli aggettivi, gli avverbi, la consecutio temporum. Lo scrittore ideale è affetto dai suoi fogli, mutato dalle sue storie, una colonia di batteri germinanti. Non mi vedete pallida, prostrata, sempre sul punto di scrivere qualcosa? Ebbene, sono influenzata. Mi alzo ogni mattina alle sei, lavoro otto ore sui libri (degli altri), spunto virgole, riparo accenti, catalogo titoli e nei pochi momenti di pausa che faccio? Scrivo le cose mie. E se non scrivessi? Ci ho provato, ma la scrittura non è stagionale, è permanente. E così scrivo nelle pause e nel tempo libero, e quando non scrivo leggo. Scrivo e riscrivo romanzi, l’ultimo si intitola “E intanto Vasco Rossi non sbaglia un disco”, si legge d’un fiato e vorrei quasi dire che avendolo pubblicato non ci penso più invece no, anche le pagine passate sono un segno di contaminazione, superbacilli di cui conservo le cicatrici. So che fa schifo ma è così, e non c’è soluzione, perché se c’è un vaccino non datelo allo scrittore: pur se malato rifiuterà una cura, si infetterà con nuovi libri, nella paura che senza influenza non si sanerà ma si sentirà morto. Ora devo andare, domani ho da scrivere ma prima di coricarmi devo controlla- Newton Compton re dieci dialoghi, quattro descrizioni, mezzo raccontino, sette recensioni. Lo so. Sono un caso patologico. 12 l’EstroVerso Rimirando PoeSia Gennaio - Febbraio Nulla dies sine linea di Dario Matteo Gargano di Luigi Carotenuto I fiori del male di Charles Baudelaire Marsilio ll pregevolissimo volume Marsilio, curato egregiamente da Luca Pietromarchi (esaustivo, appassionato e acuto sguardo critico), è un'occasione per annusare tutti gli odori sparsi nell'aria da I fiori del male, floridissimi ancora oggi, in una introvabile traduzione del poeta Giorgio Caproni (di cui ricorre quest'anno il centenario dalla nascita), geniale e sensibile traduttore di Charles Baudelaire. Dalla copertina spiccano severi gli occhi del poeta francese, l'altrove pare abbia trovato domicilio nelle sue pupille insieme alle cateratte del vizio. Rovistando le tenebre egli ha tratto alla luce un'umanità rinnovata, salvata da mano di artista compassionevole. Baudelaire ha giocato fino in fondo e sul serio la partita di uomo e intellettuale, allargando visioni cognitive e profondendosi in immagini estremamente vivide, toccanti, incastrate in forme di sonetto o di rima alternata, slanciandosi dalla tradizione fino “Au fond de l'Inconnu pour trouver du nouveau!”. Da visivo a visionario, la scrittura, eccelsa anche trasfusa sui poemi in prosa, gli aforismi o i commenti d'arte, mette a tu per tu il lettore, ipocrita o no che sia, così affondata com'è sulle bassezze umane, dunque attuale. Armandosi di sarcasmi e ironie per difendere il suo nudo cuore lacerato in una Parigi troppo indaffarata, indifferente al poeta albatros, manifesta aristocratico disprezzo dandy per la società borghese, e annota, profetico, nei Journaux intimes (trad. Marco Vignolo Gargini): “[…] periremo per ciò che noi abbiamo creduto di vivere. La meccanica ci avrà talmente americanizzato, il progresso avrà così bene atrofizzato in noi tutta la parte spirituale, che nulla tra le fantasticherie sanguinarie, sacrileghe, o antinaturali degli utopisti potrà essere comparato ai suoi risultati”. L’Italia è morta, io sono l'Italia di Aurelio Picca Bompiani “Io, io sono pronto a combattere contro tutti / come se la guerra potesse medicare le ferite, / cancellare i peccati, / come se potesse decidere una volta per tutte / il destino di un popolo servo, / di un mondo che presto morirà”. E davvero contro tutti, se stesso compreso, si scaglia il furore lirico e civile di Aurelio Picca, nel suo poema roventissimo “L'Italia è morta, io sono l'Italia”. La prima persona utilizzata in questo epicedio nazionale è la prima persona di ciascun lettore, una chiamata alle armi della sensibilità e dell'ascolto reale, un drammatico appello per ritrovare la mancata empatia, risorgere davanti allo scempio di una nazione che è nostra madre, il nostro sangue, infine noi. Nel suo furore Picca mostra un amore viscerale per un Paese girato da cima a fondo, perlustrato nei suoi recessi e monumenti ancora colmi di bellezza e idea di riscatto, sfregiati sì ma non annientati, come evidenzia Luca Doninelli nel commovente saggio a fine poemetto. Un foscoliano invito a ricordarci dei morti (“le nostre Ombre ci chiederanno il saldo”), e portare i bambini in visita al disarmante Sacrario di Redipuglia, custode dei tantissimi italiani periti nella Grande Guerra. Tra il “caos di queste ore / che si sfregano alla rinfusa” l'autore, attraverso il ricordo della luce, la stessa che avvolse San Francesco e Chiara beatamente, ritempra lo spirito affranto, specchiandosi nei cieli italici d'ogni regione. “Io indosso una camicia bianca / e ben stirata tutti i giorni / come se stessi seduto in un caffè a Catania / accanto al Verga che piega la mano / sulle labbra rosse della Sicilia. E ardo nelle fiamme di Agrigento / come se le colonne del tempio della Concordia / fossero le donne della mia vita”. Un'esortazione fiammeggiante, un grido commosso e disperato, un canto per resuscitare i vivi e risarcire i defunti. Keep it simple: l‟unico - Graal - noema didascalico di sonorità anglica che può complicarti la vita sul serio. Rendere il tutto più semplice per iniziare a scorgere il complesso. Ne ho dette così tante che sento di nuovo il magnetismo alla scadenza al banale. Questo banale che tutti si illudono di poter fuggire in cerca di una Atlantide eidetica deistica dove finalmente si sentiranno “irrealizzati”: il cretino orbato! La fuga dalla realtà da una presa monoangolare - sempre più temulente - da blefarospasmi per via di quel tuffo al subterracqueo dal quale si rinsavisce con un senso di amnesia anterograda: e ora? Chi sono? Inizia qui il tuo nuovo intreccio. Si tratta di scegliere, di arbitrare. Una contingenza con te stesso (un sé necessariamente mobile, non “stesso”, bada, per l‟amor d‟Iddio!) necessaria per avvezzarti al nuovo contagio: inizi a smorfiare di più, t‟èlevi, sei meno gaglioffo quando parli, è cambiata la tua voce, chiunque ti reclama nel suo filtro immaginativo come un “illuminato salvifico, sei un nuovo frutto ch‟al sapore contamina una trasgressione imminente piacevole all‟altro, ch‟all‟esser morso contamina il sistema trofico della demiurgia dell‟altro, e finalmente sei Teresa D‟Avila transverberata. Sei quella puttana che non si vede più Sancho Panza allo specchio ogni mattina”. Devo spiegartelo meglio? Sei Sancho Panza che sa d‟esserlo. L‟elevazione dall‟alto al basso: un percorso dei confini sconosciuti del tuo “da-sein” dove, in una balena col cazzo (=leggi: baléno), ti trovi lassù, nell‟uranos, il cielo flaubertiano che si specchia tutto nel mare con tutte le sue stelle... Senti la passione, il pathos che scende stillante verso terra con pieno moto aristocratico incoercibile, premi in fuori le tue labbra orgoglioso, sei canterino come un sornione uccello solerte che ha depredato le sirene incantatrici del loro bottino sortilego polifonico: sei alto. E così voli, non sei più tu. Già non sono io. Sarei stato, sarò stato. Sto muovendo. Starò muovendo. Il guaio è che Dario Matteo Gargano è aisthema puro stocastico, imprevedibile, che sfida le leggi di Xenakis e i teoremi sull‟esistenza di Dio di Gödel. E senti qua: l‟artista ha il dovere di essere modesto, e il diritto di essere snob. Considerare “l‟uomo l‟altro” senza nobiltà significa farsi pompa continua, è un barocchismo progettuale sofisticatissimo, è un farsi opera d‟arte in pragma, in aisthema: è “esserci”. Vodafone dice: life is now. Io dico: Are you there, for real? E così subito scatta nella visione di quest‟opera d‟arte che mi sono la reazione dell‟inaccettabile per l‟altro. L‟altro vuole soltanto mortorio, obitorio creso, sembra non poter accettare minimamente “una iattanza pennellante”, un dalí che incede nel centro della piazza, uno spettacolo per gli occhi. Avresti la stessa reazioni di fronte ad una transverberazione berniniana? Lo snobismo è inaccettabile: e io amo l‟inaccettabilità della vita guidata da solo poche alte coscienze, i grandi capi che s‟elevano dopo un percorso durissimo fino a diventare una stella già morta guardata immortale dalla sua distanza in anni luce da quest‟altro. Questo imbecillismo paraintellettuale che rifugge l‟ovvio il quale è “ciò che mi sta davanti” (=obvideo) manca di questa particolarità d‟osservare l‟ovvio con souplesse. Ma cos‟è veramente ovvio? Iniziamo da qui: essere modesti. È davvero ovvio. È ovvio un prossimo film da oscar, è ovvio una prossima coppietta mano nella mano che risponde al respiro di specie schopenhaueriano. Cosa non è ovvio? Essere veramente nuovi. Ok, come? Ho fretta rispondo in un prossimo pigolio siderale. Valedizione! Pellicole riverberanti di Angelo Umana Una separazione L‟inquadratura che sembra racchiudere tutto il senso degli avvenimenti familiari raccontati nel film è quella finale: mentre già scorrono i titoli di coda la camera “osserva” i due genitori separandi, seduti l‟una quasi di fronte all‟altro nell‟anticamera del giudice tutelare a cui, sola, la figlia adolescente della coppia deve dire con quale dei due ha scelto di vivere. Il regista, Asghar Farhadi, ci ha introdotti - come in “About Elly” - a conoscere un po‟ di più la società iraniana e per farlo costruisce delle vicende familiari drammatiche, che denunciano le pecche, i costumi imposti da una società teocratica. La vicenda familiare è pretesto per fornire uno spaccato della società iraniana: la moglie che chiede il divorzio dal marito lo fa perché lui non vuole seguirla all‟estero dove la prima ammette di cercare migliori condizioni di vita, ma una tale affermazione davanti al giudice conciliatore iraniano è controproducente. La giustizia applicata in modo sommario nei tribunali iraniani brulicanti d‟anime che ha l‟in-giustizia di tempi lunghissimi. Buon film, una storia avvincente e ottimamente interpretata.