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Tra i ricordi di bambino, a mio padre era rimasto vivissimo quello di

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Tra i ricordi di bambino, a mio padre era rimasto vivissimo quello di
Tra i ricordi di bambino, a mio padre era rimasto vivissimo quello di Pasqualon
(Odoardo Giansanti 18.9.1852 - 21.9.1932), il poeta pesarese cieco e zoppo che,
dotato di finanziera (lunga giacca a falde per cerimonia), cappello a cilindro e
bastone, declamava le sue composizioni dialettali, sempre nuove, attorniato da molti
popolani.
Suonava poche note con un malandato organetto che gli serviva da richiamo, specie
nei giorni di mercato e la domenica pomeriggio, tempo permettendo. Quando aveva
finito, dava il cappello alla moglie dicendole : “Va a tò Miclèna !” (Vai a prendere
Michelina !), così racimolava qualche soldo. (1)
(1) Penso sia interessante riportare in appendice notizie in breve sulla vita di Odoardo Giansanti,
tratte dal libro di G. Lisotti.
APPENDICE
I
“Pasqualon” riassunto della sua vita.
Odoardo Giansanti nasce a Pesaro nella attuale Parrocchia di S. Giuseppe, il 18
settembre 1852.
Il padre, Francesco Giansanti, romano, caporale della guardia pontificia, prestava
servizio presso le Carceri di Rocca Costanza.
La madre, Anna Maria Berardi, fanese di Cartoceto, era una giovane vedova che
incontrò a Pesaro il soldato del Papa.
Donna industriosa che amava molto il suo “Duard”, unico sopravvissuto di cinque
figli.
Purtroppo morì quando il ragazzo aveva solo dieci anni.
Pochi mesi dopo il padre si risposò, con una fanese (anche lei di nome Anna Maria)
che ben presto sperperò tutto quello che la prima moglie aveva messo da parte,
affinchè il figlio potesse diventare sacerdote.
Odoardo dovette abbandonare la scuola e andare a lavorare da un ciabattino.
Un giorno, al suo rientro, si trovò improvvisamente senza famiglia e senza casa.
Padre e matrigna lo avevano abbandonato per andare a Roma, lasciandogli i loro
saluti tramite una vicina.
Per tutta l’estate dormì in una stalla “tra un somar e una cavala” con i topi che
facevano le loro scorribande.
Ai primi di ottobre si mise in viaggio a piedi per raggiungere Roma. Qui scovò
l’abitazione del padre, ma fu rifiutato dalla matrigna.
Per sopravvivere nella capitale lavorò come ciabattino e poi come manovale con i
muratori. A causa di una forte febbre, venne ricoverato all’Ospedale Santo Spirito di
Roma.
La vita tranquilla e le premure dei frati celestini (indossavano un saio di questo
colore), lo ristabilirono, facendogli ritrovare quella vocazione alla vita religiosa che
gli aveva inculcato la madre da piccolo. Fu così che diventò frate Ilario a Pasqua del
1874.
Con il suo buonumore e le sue allegre battute, conquistò la simpatia di medici, suore
e pazienti, tanto da suscitare invidia tra i frati.
Uno in particolare insinuò calunnie all’orecchio del Priore.
Fu cacciato dal convento e l’allegria scomparve fra i ricoverati dell’Ospedale.
La fame lo riportò tra i muratori, ma, ben presto, la calce che trasportava
incominciò a rovinargli gli occhi.
Iniziò per lui una vita randagia fatta un po’ di lavori saltuari e un po’ di espedienti.
Nel marzo 1878 finì in carcere con una pena di due mesi da scontare. Con l’amnistia
per l’ascesa al trono del Re Umberto I, fu rispedito a Pesaro in treno con il foglio di
via.
Riprese a fare il ciabattino, prima in città (nella casa natale di Gioacchino Rossini),
poi girando per le campagne in cerca di ciabatte da riparare, ricevendo in cambio
minestra e pane.
Povero, malandato, nel più grande sconforto, venne consigliato da qualcuno di andare
a Bologna dove, al S. Orsola, c’era un luminare dell’oculistica che operava
gratuitamente gli indigenti.
Fu così che, in pieno inverno, si avviò a piedi verso quella destinazione.
I contadini lo guardavano con sospetto e quasi nessuno la sera gli apriva la porta di
casa. Un giorno perse le forze e rimase a terra finchè un ragazzino dalla finestra lo
vide e spronò la madre ad interessarsi a lui. Rimase in quella famiglia per una
settimana, trattato come un congiunto.
A Bologna il buon medico lo studiò per un mese ma non riuscì a migliorare la sua
vista.
Tornò a fare il ciabattino a Pesaro, prima girovago, poi si stabilì a S. Marina Alta
sul colle S. Bartolo. Mentre lavorava, per sbaglio, incise una tomaia e si disperò tanto
dando in escandescenze che gli causarono il ricovero all’ Ospedale Psichiatrico S.
Benedetto di Pesaro ; era il 10 marzo 1880.
Un anno dopo, durante una passeggiata concessagli dai medici, lungo il porto-canale
cadde riportando la frattura del femore sinistro che lo lasciò claudicante per tutta la
vita.
Durò per cinque anni la sua permanenza in manicomio, dove lavorò come ciabattino.
La sua cecità divenne completa ma, in compenso, scoprì di avere la vena di poeta.
Da allora, questo fu il suo mestiere, anche se poco redditizio, tanto che più volte
dovette tornare a ritemprarsi nell’accogliente “Palazzo d’Inverno”, come lui battezzò
l’Ospedale San Benedetto.
Prima di essere dimesso il 4.9.1885, si era organizzato procurandosi la licenza di
suonatore ambulante.
Nel 1886 il tipografo Giuseppe Terenzi iniziò a stampare le sue poesie in fogli
volanti e, nel 1887, gliene pubblicò una raccolta intitolata “Le Pasqualonejdi”.
Sono storielle da ridere : vicende autobiografiche, scorci di vita cittadina, racconti
contadineschi, storie di beoni, di gatti e topi, oltre che di usanze dei momenti di festa
(matrimoni e battesimi), che declamava nelle fiere e nei mercati a Pesaro, Fano,
Fossombrone, Urbino e in altri centri minori della Provincia.
Il soprannome di “Pasqualon” gli venne dato dalla gente che ascoltava dal
Giansanti le vicende comiche dello sciocco villano Pasqualone, protagonista di
alcune delle sue storie.
Nel 1904, dietro sua richiesta, il Consiglio della Amministrazione Provinciale gli
concesse un sussidio di quindici lire mensili.
Nel 1905 vinse il torneo dialettale marchigiano, promosso dalla Città di Macerata,
con il suo capolavoro dal titolo : “Contrasto storico fra il vino e l’acqua”.
Il 19 agosto 1908, fu il protagonista di una festa notturna organizzata dagli
intellettuali pesaresi agli “Orti Giuli”, dove, tra l’altro, intraprese un dialogo
immaginario con la statua dell’erudito,conte Giulio Perticari.
All’età di cinquantasette anni, sorprese tutti con le sue nozze.
Così annunciava il giornale locale “L’idea Cattolica-Sociale” : “Lunedì 26 luglio
1909 alle 17, Monsignor Vescovo univa in matrimonio il nostro poeta dialettale
Odoardo Giansanti, detto Pasqualon, celibe, con Michelina Capanna, massaia,
nubile”.
Il Vescovo era Monsignor Paolo Marco Tei che resse la Diocesi dal 1904 al 1916.
(Mio padre ricordava la sua statura imponente e l’eloquenza nelle sue omelie).
I due coniugi si stabilirono in una casetta in Via Cassi e la moglie divenne la sua
guida e accompagnatrice.
Ogni domenica pomeriggio, nella buona stagione, andavano in Piazza risalendo il
Corso XI Settembre e, davanti al Palazzo Ducale, il poeta incominciava a declamare
attorniato da un pubblico di popolani e contadini, ai quali la Michlèna (la moglie
Michelina) distribuiva la poesia stampata in cambio di cinque centesimi.
Nel gennaio del 1910, anche il Comune di Pesaro deliberò di assegnare al poeta un
sussidio di quindici lire mensili, da lui definito :”I sold par el condid” (i soldi per il
condimento).
Ma la sua forza fisica andò calando, insieme alla vena poetica.
Quattro mesi dopo, fu il terremoto del 12 marzo 1916 a fargliela risvegliare :
“...l’ha avud grezia d’mettme in pid
a le quatre dla matèna
arcendend ma me la vena”.
Il terremoto ha fatto bene (ha avuto grazia) a mettermi in piedi alle quattro della
mattina, riaccendendo a me la vena.
Seguitò poi con favole spassose sui vicini abitanti di Fano (12 Km. da Pesaro),
come quella intitolata : “El coragg di Fanès”. (Il coraggio dei Fanesi).
Purtroppo la salute della Michelina cedette per una depressione con tentativi di
suicidio, per cui toccò al marito “matto” farla ricoverare in manicomio il 12 gennaio
1924.
“Duard”, dopo due mesi di solitudine, entrò nella Casa di Riposo “Mazza-ManciniPerticari” di Pesaro (in via Mazza).
Dietro sua insistenza presso il Direttore dell’Ospizio, riuscì a far trasferire lì anche
la moglie, ma il regolamento dell’Istituto non permetteva che uomini e donne
vivessero nella stessa camera.
Dopo circa due mesi si rese necessario un nuovo ricovero per la Michelina che morì
in manicomio l’11 agosto 1928.
Da ragazza aveva lavorato come setaiola nella filanda poi ereditata da Edgardo
Cinotti, al quale il vedovo Pasqualon confidava : “L’ho sposata tardi, eppure mi ha
dato tanto, per vent’anni io ho veduto con i suoi occhi !”.
Nell’ottobre 1928, il poeta detta il suo testamento e anche qualche verso :
“El Padron l’ha ditt ma me :
-Chiud el libre, basta acsè !-“
Il Padrone ha detto a me : - Chiudi il libro, basta così !Il 21 settembre 1932 Pasqualon chiuse la sua esistenza terrena.
Nel 1917, periodo del post-terremoto, Mons. Bonaventura Porta divenne Vescovo
della Diocesi di Pesaro, che resse per trentacinque anni, fino al 1952.
Di lui mio padre diceva che, la sera, si aggirava per i viali del lungomare e quando
vedeva le coppiette appartate le invitava ad andare a casa.
Personalmente ricordo il Vescovo di statura molto piccola, sorridente, avvolto in un
mantello scuro.
Desidero approfondire, in appendice, la sua figura attraverso lo stralcio da un
opuscolo scritto dal Cav. Pio Manzetti.
II
Il Vescovo di Pesaro Mons. Bonaventura Porta.
Bonaventura Porta nasce nel 1866 nella Diocesi di Andria-Rovigo, in una famiglia
molto religiosa : dei cinque figli, tre diventano sacerdoti e due suore.
Il padre Luigi lavorava come custode delle carceri. Un ex detenuto raccontò a Mons.
Gabrielli : “Erano trent’anni che non mi accostavo ai Sacramenti, il carcere fu la mia
redenzione ! La mia redenzione la devo al giovane Bonaventura”.
Fin da giovane Bonaventura dimostra, oltre ad una vivace intelligenza, una
inclinazione profonda al sacerdozio.
Ancora studente al Seminario di Rovigo, gli viene affidato l’insegnamento delle
materie letterarie nel ginnasio del Seminario stesso.
Inoltre sapeva dipingere : l’Accademia dei Concordi a Rovigo conserva la sua prima
opera raffigurante Mons. Giacomo Sichirollo, suo insegnante.
Il 22 marzo 1890 viene ordinato sacerdote. Per 25 anni ha insegnato scienze, filosofia
e teologia. Nel 1913 il Vescovo padovano Carlo Liviero, ora venerabile, lo vuole con
sé a Città di Castello (Perugia) dandogli l’incarico di Vicario generale e rettore del
Seminario diocesano.
Nonostante questi gravosi impegni, il giovane non trascurava il suo talento artistico :
dipinse un quadro della Madonna, soggetti di natura morta, costruì un grande
crocifisso di cartapesta, ornò di pitture e stucchi la stanza che avrebbe dovuto essere
il suo studio se non fosse stato nominato Vescovo di Pesaro nel marzo 1917, sotto il
pontificato di Benedetto XV. Presso una Chiesa parrocchiale di Pesaro si conserva
l’eccellente opera del suo autoritratto.
Bonaventura Porta giunge a Pesaro, come 88° Vescovo, il 23 dicembre 1917, quando
le ferite dello spaventoso terremoto dell’anno precedente erano ancora aperte. Il suo
predecessore, Mons. Paolo Marco Tei, morto nell’aprile del 1916, era una figura
imponente e un oratore famoso, al contrario di Mons. Porta che aveva una
corporatura esile e la voce un po’ stridula ; ciò procurò all’inizio qualche delusione
tra i fedeli. Ma la sua carità, umiltà e cultura ben presto si imposero all’attenzione di
tutti.
Vi erano sempre file di poveri nello scalone del vescovado e nessuno usciva senza
avere ricevuto qualche cosa. La figlia del produttore Canducci, tuttora vivente,
ricorda che il padre portava al Vescovo quintali di legna da ardere, in omaggio, per
riscaldare gli stanzoni del Vescovado. Si veniva a sapere poi che in poco tempo tutto
era distribuito ai bisognosi. Molti studenti che beneficiavano di lezioni gratuite di
filosofia, trovavano Monsignor Porta raggomitolato su se stesso, coperto dal suo
caratteristico mantello liso e con lo scaldino tra le mani.
Don Gianfranco Gaudiano ebbe a testimoniare : “Mi consegnava buste chiuse che
contenevano denaro in contanti ed anche assegni che persone generose gli donavano
per opere di carità”. Il sacerdote lo ricordava anche quando percorreva le strade della
città sempre a piedi, rasente ai muri delle case (non aveva l’automobile).
La perpetua Argia portava a risuolare le sue scarpe tante volte perché il denaro per
acquistarne un paio nuovo doveva servire per i poveri. I Parroci della Diocesi che lo
accoglievano nelle sue visite pastorali non avevano preoccupazioni per preparargli il
pranzo : per lui erano sufficienti un piatto di minestra e una tazza di acqua calda.
In 35 anni di Episcopato nella nostra città, il Vescovo Porta si è recato ogni giorno in
Seminario per celebrare la Messa, anche in pieno inverno, con lo scaldino in mano.
Al mattino era solito alzarsi presto e,durante la giornata, dedicava molte ore alla
preghiera in ginocchio su un genuflessorio posto al lato destro della Cappella del SS.
Sacramento in Cattedrale.
Inoltre attuò, tra l’altro, il I Congresso Eucaristico Diocesano nel 1923 ; celebrò il
centenario di San Francesco d’Assisi nel 1926 ; organizzò la visita nelle Parrocchie
della Diocesi in occasione del 17° centenario del martirio di San Terenzio (Patrono di
Pesato), la peregrinatio Mariae con l’immagine della Madonna delle Grazie; inaugurò
la Cappella del SS. Sacramento in Duomo.
Il 15 Dicembre 1953 giunse la notizia inaspettata della sua morte ; si era spento
tranquillamente, con serenità. Uomini di ogni ceto e di ogni colore politico si
inchinavano riverenti al passaggio della salma. Il Vescovo Porta si era prodigato
assiduamente per il trionfo della verità e del bene. Parlava con dolcezza, ma levava
la voce quando con fermezza richiamava alla coerenza di vita nel rispetto della fede e
dei principi morali.
Alla sua morte si esclamò : “E’ morto un santo !”.
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