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il pensiero - Dipartimento di psicologia
IL PENSIERO Katiuscia Sacco Il pensiero è l’attività mentale che ci consente di elaborare le informazioni provenienti dal mondo esterno, metterle in relazione tra loro e con le conoscenze che già possediamo, al fine di risolvere problemi, inferire nuove informazioni, prendere decisioni. E’ dunque il ponte tra percezione e azione, ciò che media il rapporto tra l’uomo e l’ambiente naturale e sociale consentendo risposte non automatiche ma “pensate”; in una parola, il pensiero è ciò che guida l’agire intenzionale. Le ricerche in psicologia si sono concentrate sulle tre principali funzioni a cui assolve il pensiero: la risoluzione di problemi (problem solving), il ragionamento (reasoning), la presa di decisioni (decision making). 1. La risoluzione di proble mi Data una situazione-problema, come arriviamo alla sua soluzione? Tutti i giorni ci troviamo a dover risolvere problemi più o meno complessi. In generale, abbiamo un problema quando dobbiamo raggiungere un certo obiettivo e non sappiamo esattamente come fare, cioè non è immediato come passare dalla situazione in cui ci troviamo alla situazione desiderata. La risoluzione di problemi richiede creatività: oltre a rappresentare appropriatamente i dati del compito e a compiere una serie di inferenze, bisogna saper trovare i legami rilevanti tra gli elementi del problema. Pensiamo per esempio alla scoperta della penicillina. Fleming, un microbiologo che stava lavorando sull’influenza, aveva lasciato una coltura di batteri su una piastra ed era andato in vacanza. Al suo ritorno, notò che sulla piastra c’era una zona in cui i batteri non erano cresciuti: in quella zona era finita una muffa, in seguito identificata come appartenente al genere Penicillium. Probabilmente, altri ricercatori prima di lui avevano osservato in una coltura gli stessi cambiamenti, ma quelle colture andate a male erano state immediatamente gettate via. La creatività di Fleming è consistita nel cogliere il legame tra la presenza della muffa e la mancata crescita dei batteri: egli ipotizzò che quella muffa avesse causato la morte dei batteri e pensò dunque che si potesse utilizzare per combattere quel tipo Questo capitolo è stato realizzato grazie al contributo MURST, cofinanziamento 1999 (9911314534, Processi di ragionamento e modelli Mentali). Ringrazio Francesca M. Bosco, Monica Bucciarelli e Marco Duretti per la lettura di una precedente versione. di batteri. Questa, come la maggior parte delle scoperte scientifiche, è avvenuta grazie ad un’intuizione circa un legame causale fino a quel momento sconosciuto. In questo paragrafo, per prima cosa ripercorreremo le principali correnti teoriche che, a partire dal secolo scorso, hanno studiato in che modo le persone giungano a risolvere problemi; vedremo inoltre cosa delle teorie presentate è ancora valido e come può essere utilizzato negli attuali studi sulla risoluzione di problemi. In seguito, definiremo alcuni concetti fondamentali e vedremo quali sono le questioni ancora aperte, che costituiscono gli attuali ambiti di ricerca in questo campo. 1.1 Teorie sulla risoluzione di problemi La teoria comportamentista (anni Venti) Secondo la teoria comportamentista, i problemi vengono risolti per t e nta t ivi ed erro r i. Consideriamo l’esperimento di Thorndike sui gatti (1905). Thorndike mise dei gatti affamati in una gabbia chiusa, da cui essi potevano vedere una ciotola di cibo collocata all’esterno. La porta della gabbia poteva essere aperta quando un paletto collocato al suo interno veniva colpito. All’inizio i gatti si lanciavano contro le sbarre della gabbia mordendole. Inevitabilmente, ad un certo punto i gatti nella gabbia colpivano anche il paletto interno ed aprivano lo sportello. Dopo ripetute sedute sperimentali i gatti sembravano imparare che colpire il paletto faceva aprire lo sportello della gabbia. Così, quando i gatti venivano chiusi nella gabbia andavano direttamente verso il paletto, lo colpivano, aprivano lo sportello e fuggivano. Si concluse così che i nuovi problemi vengono affrontati con una strategia per tentativi ed errori e che le soluzioni corrette, attuate per caso, vengono riprodotte quando viene presentato lo stimolo appropriato. La teoria della Gestalt (anni Trenta) Secondo la teoria della Gestalt, il processo di soluzione di un problema è più che una semplice riproduzione di risposte apprese: esso implica un processo di riorganizzazione degli elementi del problema. Tale riorganizzazione non avviene per caso, né per tentativi ciechi, né per associazioni, bensì grazie all’ ins ight cioè un’intuizione che si verifica all’improvviso (vedi per esempio Wertheimer, 1945). Per risolvere un problema si deve avere un insight circa 2 la struttura del problema e r ist r ut t urar e il problema in modo diverso. Non sempre l’uso diretto dell’esperienza passata facilita il raggiungimento della soluzione di un problema; a volte può portare a commettere errori. Quando si affronta un problema che è simile ad altri già incontrati in passato, si tende a risolverlo con lo stesso meccanismo che si era applicato in precedenza. Quando l’apprendimento antecedente è applicabile efficacemente al nuovo problema, il trasferimento della strategia utilizzata in precedenza facilita la risoluzione del nuovo problema. Tuttavia, a volte gli apprendimenti precedenti possono impedire di riorganizzare gli elementi del nuovo problema in modo utile alla sua risoluzione. Un esempio ne è la fiss ità funzio na le : il soggetto rimane fissato sulla funzione abituale di un oggetto e non riesce a riconcettualizzarlo in modo diverso. Consideriamo il problema della candela: [Problema della candela] Avete a vostra disposizione una candela, una scatola di puntine da disegno e una bustina di fiammiferi. Il vostro compito è attaccare la candela al muro al di sopra di un tavolo, in modo tale che la cera sciolta non goccioli sopra il tavolo. La risoluzione del problema della candela è il seguente: [Soluzione del problema della candela] Usare la scatola che contiene le puntine come portacandele e attaccarla al muro. I soggetti sottoposti all’esperimento inizialmente non riuscivano a risolvere il problema perché erano “fissati” sulla funzione normale della scatola, quella di contenere le puntine, e questo impediva loro di riconcettualizzarla in modo diverso. Quando lo sperimentatore toglieva le puntine dalla scatola e le disponeva sparse sul tavolo accanto alla scatola vuota, i soggetti avevano un’intuizione improvvisa: i soggetti riconcettualizzano la funzione della scatola (non solo è un contenitore, ma può anche essere usata come sostegno per la candela). Quindi, il raggiungimento di una soluzione creativa avviene attraverso quattro fasi: (a) il problema viene formulato e vengono fatti i primi tentativi per risolverlo (b) il problema viene messo da parte per dedicarsi ad altre attività (c) la soluzione del problema viene in mente come un’illuminazione improvvisa (d) il solutore si accerta che la soluzione trovata funzioni effettivamente. La teoria cognitivista (anni Sessanta) 3 Consideriamo il problema della Torre di Hanoi: [Problema della Torre di Hanoi] Disegnate una tavoletta in cui sono infissi tre pioli. Nel primo piolo sono infilati, in ordine decrescente di diametro, un numero variabile di dischi forati al centro, così che il disco più grande sta sotto tutti gli altri ed il più piccolo sta in cima alla pila. Meta: trasportare tutti i dischi dal primo al terzo piolo, nello stesso ordine. Regole: si può spostare solo un disco alla volta; un disco più grande non può essere collocato sopra un disco più piccolo. Newell e Simon (1972) hanno sviluppato la teoria dello spazio problemico, che presentiamo ora con riferimento al problema della Torre di Hanoi. Quando le persone risolvono un problema si rappresentano mentalmente lo stato iniziale del problema (tutti i dischi sono collocati sul primo piolo) e lo stato finale del problema (tutti i dischi sono infilati sull’ultimo piolo nello stesso ordine). Per passare dallo stato iniziale a quello finale, passano attraverso una serie di stati intermedi grazie all’applicazione di operatori mentali (es. sposta il disco più piccolo dal primo al terzo piolo, sposta il disco intermedio dal primo al secondo piolo, ecc.). Gli operatori mentali specificano le mosse consentite e quelle non consentite (collocare un disco più grande sopra uno più piccolo). Nel passaggio da ciascuno stato al successivo sono possibili numerosi percorsi alternativi, ovvero un grande numero di mosse diverse. Per spostarsi in modo efficiente da uno stato all’altro, cioè per scegliere la mossa che, ad ogni stato, consente di avvicinarsi il più possibile allo stato finale, le persone usano delle strategie o e ur is t ic he. Le euristiche sono procedure approssimate, che non specificano ogni azione, ma guidano la ricerca e la sequenza delle azioni da fare. A differenza degli algoritmi, che sono serie di regole esplicite che, seguite in modo sistematico, portano definitivamente alla soluzione del problema, le euristiche non garantiscono di arrivare alla soluzione, ma se hanno successo implicano un risparmio di tempo e fatica. Uno dei metodi euristici più utilizzati è l’a na lis i me zzi- fini, che consiste nei passi seguenti. (a) Notare le differenze tra stato attuale e stato finale. Ad es. se il solutore del problema della torre di Hanoi si trova al seguente stato: INSERIRE FIGURA 1 rileva che il disco piccolo è sul primo piolo invece di essere sul terzo. 4 (b) Creare una sotto-meta, per ridurre la differenza tra i due stati. In questo caso, spostare il disco piccolo dal primo al terzo piolo. (c) Selezionare un operatore che risolverà questa sotto-meta. In questo caso, prendere il disco piccolo e metterlo sul terzo piolo. L’applicazione di un algoritmo a questo stato del problema comporterebbe di analizzare sistematicamente tutte le mosse consentite: spostare il disco piccolo sul secondo piolo, spostare il disco intermedio sul secondo piolo, spostare il disco piccolo sul terzo piolo. Solo dopo averle analizzate tutte, verrebbe scelta l’ultima di queste mosse perché consente la soluzione. La risoluzione del problema della Torre di Hanoi, richiede un minimo di sette spostamenti o mosse. Essi sono illustrati in figura 2. INSERIRE FIGURA 2 Valutazione delle teorie sulla risoluzione di problemi Rispetto alle teorie illustrate, non possiamo dire che ce ne siano di giuste e di sbagliate. Nel risolvere problemi procediamo talvolta per tentativi ed errori, talvolta grazie ad un insight che ci consente di vedere una soluzione non considerata prima, talvolta attraverso l’uso di strategie euristiche. Il merito della teoria della Gestalt è stato quello di mostrare che nel pensiero umano vi sono aspetti che vanno oltre la riproduzione di soluzioni già note. Anche se il tempo migliore per la scuola della Gestalt è ormai passato, i concetti di fissità funzionale, insight e ristrutturazione continuano a rivestire un ruolo importante nelle moderne teorie cognitiviste sull’elaborazione di informazioni. Queste ultime si sono affermate per la loro capacità di predire in modo adeguato ciò che le persone fanno quando cercano la soluzione di un problema. Esse sono state applicate con successo a problemi ben definiti (vedi il paragrafo seguente) come quello della Torre di Hanoi, ma è necessario ancora molto lavoro per estenderle a problemi mal definiti quali quelli che normalmente si incontrano nel mondo reale. 1.2 Fattori rilevanti nella risoluzione di problemi 5 Nella risoluzione di un problema entrano in gioco numerosi fattori; in particolare risultano rilevanti le caratteristiche del problema, le caratteristiche del solutore e la loro interazione. Consideriamo separatamente questi fattori. Caratteristiche del problema Una prima distinzione riguarda problemi ben definiti e problemi mal definiti. Un problema è be n de finito quando la situazione da cui si parte, la situazione a cui si deve arrivare e le mosse che sono consentite per raggiungere la soluzione sono specificate in modo chiaro. Problemi ben definiti sono i rompicapi: si pensi ai giochi delle riviste di enigmistica, a molti dei problemi usati nei test di ammissione all’università e nella selezione del personale, o più specificamente al problema della Torre di Hanoi presentato nel paragrafo precedente. Al contrario, un problema è ma l de fin ito quando le situazioni iniziali e finali sono incerte o non chiare, e le mosse possibili devono essere scoperte. I problemi che incontriamo nella vita di tutti i giorni sono di solito mal definiti. Supponiamo di aver dimenticato le chiavi del nostro appartamento al suo interno. La situazione iniziale comprenderà senz’altro le chiavi e l’appartamento, ma può comprendere anche il pompiere, il falegname, l’amico muscoloso in grado di sfondare la porta e così via. La situazione finale sarà identificata col riuscire ad entrare nell’appartamento, ma questa situazione andrà ulteriormente definita sulla base delle nostre esigenze e possibilità, per esempio possiamo scegliere di entrare senza fare troppi danni, ma ancora si tratta di una definizione che richiede ulteriori specificazioni. Le mosse possibili sono anch’esse numerose e sta a noi decidere quali riteniamo adeguate e quali no; per esempio possiamo decidere che sfondare la porta non è una mossa adeguata per le spese che questo comporta. Una seconda distinzione riguarda problemi che richiedono conoscenza do minio ge ne ra le, cioè conoscenza delle strategie e dei metodi che si applicano a molti tipi di problemi, e problemi che richiedono conoscenza do min io spec ifica, cioè conoscenza relativa al dominio entro cui il problema si applica. I rompicapi di cui sopra richiedono di solito conoscenza dominio generale: per esempio, nel problema della Torre di Hanoi non ci è richiesta alcuna conoscenza specifica rispetto alle torri o a i pioli, ciò che ci serve è ipotizzare spostamenti, prevedere mentalmente le loro conseguenze, trovare la strategia che ci consente di raggiungere la situazione finale il più rapidamente possibile. Si tratta dunque di abilità 6 richieste dalla maggior parte dei problemi, che non hanno a che vedere col contenuto del problema in questione. Al contrario, il gioco degli scacchi o un problema di fisica richiedono conoscenza relativa a quello specifico dominio: per giocare a scacchi bisogna conoscere le possibili configurazioni delle pedine sulla scacchiera e, se si è bravi, ricordare quali sono le mosse migliori a partire da una certa configurazione; per risolvere un problema di fisica occorre avere nozioni circa la massa, la forza, la gravità e le loro relazioni. Caratteristiche del solutore Di fronte a problemi che richiedono solo conoscenza dominio generale, i solutori possono rivelarsi più o meno abili nel raggiungere la conclusione in base alla loro abilità intellettiva. Di fronte a problemi che richiedono conoscenza dominio specifica, invece, la differenza tra un buon solutore e un cattivo solutore dipende dalla quantità di conoscenza che questi possiede rispetto all’area o dominio del problema. Sulla base della conoscenza specifica posseduta, definita expertise, possiamo distinguere solutori no vizi, che hanno poca conoscenza specifica, e solutori esper t i, che, grazie all’esperienza maturata nel dominio in questione, possiedono una notevole conoscenza specifica. Pensiamo per esempio alla differente abilità di un giocatore di scacchi alle prime armi, rispetto ad un giocatore esperto (vedi L’acquisizione di competenze specifiche nel paragrafo seguente). Un’altra variabile relativa al solutore riguarda la sua esper ie nza p recede nt e co n prob le mi ana lo ghi a quello che si trova ad affrontare. Se il solutore ha incontrato in passato problemi che avevano la stessa struttura di quello che si trova ad affrontare, può utilizzare le strategie impiegate in passato per risolvere il problema in corso (vedi La risoluzione di problemi per analogia nel paragrafo seguente). 1.3 Ambiti di ricerca L’acquisizione di competenze specifiche Una domanda che gli studiosi della risoluzione di problemi si sono posti è: come si diventa esperti? Diventare esperti significa acquisire molta conoscenza specifica per il dominio in cui si intende operare. Anderson (1982) ha sviluppato una teoria sullo sviluppo di abilità specifiche, secondo cui l’acquisizione di abilità consiste nel passare dall’uso di 7 conoscenza dichiarativa all’uso di conoscenza procedurale. Supponiamo di esserci appena iscritti alla scuola guida. Nelle prime lezioni l’insegnante di guida ci darà una serie di istruzioni: per accelerare o frenare devi usare il piede destro, per cambiare marcia devi prima premere la frizione col piede sinistro e poi inserire la marcia col cambio manuale, e così via. Durante queste prime esperienze di guida, procederemo pensando a queste istruzioni, e ci capiterà di ripetercele mentalmente prima di applicarle; per esempio, quando dobbiamo cambiare marcia penseremo <<se devo cambiare marcia, allora devo prima premere la frizione e questo si fa col piede sinistro>>. Applicare le istruzioni che ci sono state fornite significa usare co nosce nza d ic hiara t iva. Tuttavia, con il ripetersi delle esperienze alla guida, impareremo a procedere senza dover più ricordare a noi stessi le istruzioni: per esempio, di fronte alla necessità di cambiare marcia, premeremo la frizione senza dover pensare di farlo e a come farlo. Ciò significa che è avvenuta una p roced ura liz za zio ne : l’applicazione ripetuta della conoscenza dichiarativa relativa, in questo caso, al cambiare marcia è stata trasformata in una procedura tale che, ogni volta che ci troviamo nella condizione <<devi cambiare marcia>>, l’azione necessaria a questo scopo verrà eseguita velocemente e in modo automatico, senza più richiedere un pensiero cosciente. Siamo passati ad usare co no sce nza proced ura le. La risoluzione di problemi per analogia Abbiamo detto che se il solutore ha incontrato in precedenza problemi analoghi a quello che si trova ad affrontare, potrebbe far ricorso alle medesime strategie. Due problemi si dicono a na lo ghi quando sono strutturalmente simili, anche se hanno caratteristiche superficiali diverse e appartengono a domini diversi. Un esempio chiarirà la questione. Supponiamo che il nostro ipotetico solutore si sia trovato di fronte al problema seguente: [Problema della fortezza] Al centro di un territorio si trova una fortezza; dalla fortezza si dipartono molte strade. Un generale vuole distruggere la fortezza con il suo esercito. Il problema del generale è questo: per distruggere la fortezza deve usare l’intero esercito, ma poiché tutte le strade di accesso alla fortezza sono minate esse esploderebbero nel momento in cui un intero esercito passasse sopra le mine, e distruggerebbero quindi anche l’esercito e i villaggi vicini; un piccolo gruppo dell’esercito non farebbe esplodere le mine, ma non sarebbe efficace per distruggere la fortezza. Cosa può fare il generale? 8 e poniamo che il solutore abbia raggiunto, o gli sia stata illustrata, una valida conclusione, come la seguente: [Soluzione del problema della fortezza] Il generale divide l’esercito in piccoli gruppi. Dispone ciascun gruppo su una strada diversa. I piccoli gruppi convergono simultaneamente alla fortezza. In tal modo l’esercito distrugge la fortezza. Supponiamo ora che gli venga presentato il problema seguente: [Problema della radiazione] Un paziente ha un tumore inoperabile allo stomaco. Il medico decide di distruggere il tumore usando un fascio di radiazioni. Il problema del medico è questo: per distruggere il tessuto malato deve usare raggi ad alta intensità, ma questi distruggerebbero anche i tessuti sani che circondano il tumore; raggi a bassa intensità non danneggerebbero i tessuti sani, ma il tumore non verrebbe eliminato. Cosa può fare il medico? Il problema della fortezza e quello della radiazione sono superficialmente diversi e appartengono uno al dominio della medicina, l’altro al domino militare; tuttavia, la struttura dei due problemi è la medesima. Infatti, in entrambi i casi si tratta di usare una forza per distruggere un obiettivo centrale, tale forza deve essere sufficientemente intensa, ma non la si può applicare lungo un unico percorso. Pertanto, dato che la meta, le risorse e vincoli dei due problemi sono simili, il solutore che ha già affrontato il problema della fortezza può astrarre il piano di soluzione là adottato (soluzione della <<convergenza >> : applicare forze deboli simultaneamente lungo molti percorsi che convergano sull’obiettivo) e raggiungere così la soluzione del problema della radiazione: [Soluzione del problema della radiazione] Il medico divide i raggi in fasci a bassa intensità. Dispone l’emissione di raggi a bassa intensità lungo varie direzioni intorno al corpo del paziente. I raggi a bassa intensità convergono simultaneamente sul tumore. In tal modo i raggi distruggono il tumore. Ma le persone, normalmente, tendono a risolvere problemi attraverso l’analogia? Tendono, in altre parole, a trasferire l’apprendimento da un dominio ad un altro? Per rispondere a questa domanda sono stati condotti alcuni esperimenti. In uno di questi, i soggetti sperimentali venivano divisi in tre gruppi. Al gruppo 1 veniva presentato il racconto della fortezza (cioè il problema della fortezza e la sua soluzione), e poi il problema della radiazione, 9 e veniva detto che per risolvere il problema della radiazione avrebbero potuto utilizzare il racconto della fortezza. Al gruppo 2 veniva presentato il racconto della fortezza, e poi il problema della radiazione, ma non veniva detto alcunché su un possibile legame tra l’uno e l’altro. Al gruppo 3 veniva presentato solo il problema della radiazione. A tutti i gruppi era richiesto di risolvere il problema della radiazione. I soggetti che hanno raggiunto la soluzione della <<convergenza >> sono stati: il 60% nel gruppo 1; il 20% nel gruppo 2; il 10% nel gruppo 3. Questi risultati mostrano che le persone sono in grado di usare un racconto in modo analogico per risolvere un problema, cioè riescono a confrontare gli aspetti della situazione iniziale del problema con quelli del racconto, e a trasferire la conoscenza da un dominio all’altro (infatti, il 60% dei soggetti a cui era stato suggerito di usare l’analogia per raggiungere la conclusione è riuscito a farlo). E l’uso dell’analogia li aiuta notevolmente nella soluzione di problemi (infatti, il 60% dei soggetti a cui era stato suggerito di usare l’analogia ha raggiunto la soluzione, mentre solo il 10% dei soggetti che non avevano la possibilità di usare l’analogia ha raggiunto la conclusione). Tuttavia, le persone non sembrano usare l’analogia in modo spontaneo, cioè quando non venga loro esplicitamente suggerito; sembrano, cioè, avere difficoltà a riconoscere spontaneamente le somiglianze tra problemi (infatti, solo il 20% dei soggetti a cui non era stata suggerita un’analogia tra i due problemi è riuscito a coglierla). 2. Il ragionamento Dato un insieme di osservazioni o descrizioni del mondo (premesse), in che modo riusciamo a inferire informazioni nuove (conclusioni)? Considereremo prima i due fondamentali tipi di ragionamento, deduttivo e induttivo, e i principali tipi di compito a cui si applicano; vedremo poi le principali correnti teoriche che cercano di spiegare come avvengono i processi di ragionamento. 2.1 Il ragionamento deduttivo 10 Nel ragionamento deduttivo si parte da affermazioni generali ritenute vere per giungere ad una conclusione necessariamente vera. Per esempio: Premessa 1 (affermazione generale): I pesci fuori dall’acqua muoiono Premessa 2 (asserzione categorica): Fishy è un pesce Conclusione (su caso particolare): Fishy fuori dall’acqua muore. Il ragionamento deduttivo fornisce certezze. Dato che la conclusione si limita ad esplicitare informazioni già contenute in modo implicito nelle premesse, se le premesse sono vere ne segue una conclusione necessariamente vera. Nello studio del ragionamento, molte ricerche si sono concentrate sul ragionamento deduttivo: infatti, per la sua caratteristica di fornire conclusioni valide, consente di valutare le conclusioni tratte dai soggetti sottoposti all'esperimento come giuste o sbagliate. L’analisi degli errori compiuti dai soggetti dà utili indicazioni sul loro modo di ragionare. In particolare, gli esperimenti sul ragionamento consistono per la maggior parte nel presentare ai soggetti sperimentali: compiti con sillogismi lineari, compiti con sillogismi categoriali, compiti con proposizioni, il compito di selezione di Wason. Il ragionamento con sillogismi lineari (o ragionamento relazionale) I sillogismi sono argomentazioni che consistono di due premesse e di una conclusione. Nei compiti con sillogismi lineari (o compiti relazionali) le premesse esprimono relazioni lineari tra elementi. Tali relazioni possono essere di tipo spaziale (alla destra/sinistra di; sopra/sotto a…), relative a ordini di altezza (più alto/basso di), relativi a ordini di specifiche qualità (più ricco/povero di; più giovane/vecchio di…), e così via. Per esempio: Premessa 1: Gabriella è alla destra di Francesca Premessa 2: Francesca è alla destra di Rita La conclusione dovrà esplicitare le relazioni contenute solo in modo implicito nelle premesse. In questo caso, la relazione implicita è quella tra Rita e Gabriella: le premesse non dicono nulla di esplicito su tale relazione, ma collegando la prima alla seconda premessa attraverso l’uso del termine medio, cioè quello che ricorre in entrambe le premesse (Francesca), è possibile trarre la conclusione: 11 Conclusione: Rita è alla sinistra di Gabriella. Il ragionamento con sillogismi categoriali Nei compiti con sillogismi categoriali le premesse esprimono l’appartenenza dei termini (persone/oggetti) a categorie. Ad esempio, date le premesse seguenti: Prima premessa: Tutte le Bibite sono Analcoliche Seconda premessa: Tutte le Coca-cola sono Bibite si può derivare la conclusione: Conclusione: Tutte le Coca-cola sono Analcoliche Anche qui, la conclusione indica la relazione non esplicitata nelle premesse, in questo caso la relazione tra le Coca-cola e la proprietà di essere Analcoliche; tale conclusione è raggiunta collegando le due premesse attraverso l’uso del termine medio (quello che, ricorrendo due volte, connette le due premesse), in questo caso Bibite. I sillogismi hanno due caratteristiche fondamentali: il modo e la figura. Il modo di ogni premessa è indicato dal tipo di quantificatore utilizzato. Al posto di usare il quantificatore universale affermativo tutti, si può usare il quantificatore universale negativo nessuno, il quantificatore particolare affermativo alcuni, il quantificatore particolare negativo alcuni non. La figura riguarda invece la posizione dei tre termini all’interno delle premesse. Il termine medio (B) può trovarsi in quattro posizioni diverse, che danno origine alle quattro possibili figure del sillogismo: AB BA AB BA BC CB CB BC Quindi, le due premesse possono dare origine a 64 sillogismi (4 modi della prima premessa x 4 modi della seconda premessa x 4 figure). Di questi, solo 27 hanno una conclusione valida; 12 gli altri si definiscono NVC (no valid conclusion) in quanto non si può dire alcunché sulla relazione tra gli elementi non esplicitamente collegati. Il ragionamento proposizionale Le premesse esprimono relazioni tra proposizioni. Tali relazioni sono espresse attraverso l’uso di connettivi, quali la congiunzione e, la disgiunzione o, il bicondizionale solo se…allora, il condizionale se…allora. Prendiamo ad esempio il condizionale se…allora: Premessa 1 (affermazione condizionale): Se piove, allora Mauro si bagna Premessa 2 (affermazione categorica): Piove Conclusione: Mauro si bagna Questa inferenza è molto semplice e la maggior parte delle persone riesce a trarla senza difficoltà. Ma prendiamo la stessa premessa condizionale “Se piove, allora Mauro si bagna” seguita da “Non piove”. Quale conclusione è possibile trarre? Perché? La conclusione “Mauro non si bagna” non è valida perché la premessa dice “se piove” e non “solo se piove”, cioè la pioggia non è posta come l’unica causa possibile perché Mauro si bagni. Ci possono essere altri eventi, ad esempio la signora che innaffia i fiori distrattamente, a poter bagnare Mauro. Per il condizionale se…allora, come per tutti i connettivi, è possibile costruire una tavola di verità, rappresentazione logica che descrive i casi in cui la proposizione è vera e i casi in cui è falsa. La tavola di verità del condizionale è la seguente: INSERIRE TABELLA 1 Il compito di selezione di Wason Si tratta di un compito ipotetico-deduttivo, dove cioè è necessario non solo fare inferenze deduttive ma anche generare ipotesi e valutarne le conseguenze. Il compito di selezione di Wason (1966) è stato realizzato sia in una versione astratta che in una versione concreta. Presenterò le due versioni del compito (modificate nel contenuto rispetto all’originale): provate a trovare la conclusione corretta; troverete di seguito le risposte corrette e il perché. Nella vers io ne as tra tta ai soggetti vengono mostrate le seguenti quattro carte: 13 E B 4 7 Si dice al soggetto: Ciascuna carta porta stampata una lettera su di una lato e un numero sull’altro lato.Volta le carte che ritieni necessarie e sufficienti per controllare la regola: <<Se da un lato c’è una vocale, dall’altro lato c’è un numero pari >>. Nella vers io ne co ncr eta ai soggetti vengono mostrate le seguenti quattro buste: 800 500 Si dice al soggetto: Ogni busta può essere chiusa o aperta, ed avere un francobollo da 800 lire o da 500 lire. Immagina di lavorare in un ufficio postale e dover scoprire se qualcuna delle buste viola la regola seguente: <<Se una busta è chiusa, deve avere un francobollo da 800 lire>>. Volta le buste che ritieni necessarie e sufficienti per controllare la regola. Nella versione astratta, la risposta corretta è di girare solo due carte: la carta E e la carta 7. Infatti se dietro la carta E c’è un numero dispari, la regola è falsa; così, se dietro la carta 7 c’è una vocale, la regola è falsa: qualunque carta che abbia una vocale su lato e un numero dispari sull’altro viola la regola. Invece, scegliere la carta 4 e la carta B non serve perché la regola dice “se c’è una vocale, allora c’è un numero pari” e non “solo se c’è una vocale”, per cui dietro la carta 4 potrebbe esserci sia una vocale che una consonante, così come dietro la carta B potrebbe esserci sia un numero dispari che un numero pari (vedi tavola di verità del condizionale). Per gli stessi motivi, nella versione concreta, le buste da controllare sono: la busta chiusa e la busta con francobollo da 500 lire. 2.2 Il ragionamento induttivo 14 Nel ragionamento induttivo si parte da osservazioni particolari per trarne un principio generale. Per esempio: Premessa (basata su osservazioni particolari): Tutti gli universitari che ho conosciuto hanno conseguito la laurea Conclusione (principio generale): Tutti gli universitari conseguono la laurea. Il ragionamento induttivo non fornisce certezze. Dato che le premesse si basano su casi specifici, in certe circostanze la conclusione può rivelarsi falsa (infatti, alcuni universitari non si laureano). Le conclusioni quindi non sono necessariamente vere; esse possono essere solo plausibili o implausibili. La plausibilità dipende, da una parte, dalla veridicità, rappresentatività e generalizzabilità delle premesse; dall’altra, dalle conoscenze che chi compie l’inferenza ha relativamente alla situazione su cui sta ragionando. Dire una conclusione è plausibile equivale a dire che è p robab ilme nte vera. Riprendendo la conclusione circa gli universitari, essa dovrebbe quindi essere enunciata non come certa ma come probabile: Conclusione (principio generale): “E’ probabile che tutti gli universitari conseguano la laurea”. In questo senso, il ragionamento induttivo ha natura probabilistica (per una trattazione del ragionamento probabilistico 1 vedi La stima di probabilità nel paragrafo 3). Nonostante l’incertezza insita nel ragionamento induttivo, esso è il tipo di ragionamento più usato nella vita di tutti i giorni. Infatti, consente di fare generalizzazioni sia rispetto a fenomeni naturali che a comportamenti sociali. In particolare, consente di creare descrizioni di stati di cose e, sulla base di queste, di formulare spiegazioni (perché succede una certa cosa? qual è la sua causa?), giudizi (soprattutto nel valutare comportamenti sociali), 1 Una precisazione sul ragionamento probabilistico. Abbiamo detto che le inferenze induttive sono, o dovrebbero essere, sempre formulate in termini probabilistici. D’altra parte, però, le inferenze probabilistiche possono essere sia deduttive che induttive. In generale, i compiti solitamente utilizzati nello studio del ragionamento probabilistico, come per esempio le stime di probabilità, si possono dire a metà strada tra induzione e deduzione. Sono induttivi nel senso che i dati del compito sono costituiti da una serie di eventi specifici che il soggetto deve valutare al fine di estrarre una condizione più generale; tuttavia, i processi attraverso cui il soggetto giunge alla risoluzione del compito possono essere deduttivi, cioè se il soggetto applica le correte strategie di inferenza giunge ad una stima di probabilità necessariamente corretta. 15 previsioni. E’ inoltre alla base della formazione di categorie. Consideriamo più nel dettaglio le generalizzazioni a partire da asserzioni particolari e la formazione di categorie. Il ragionamento su asserzioni particolari Nei compiti sullo studio del ragionamento induttivo, spesso viene richiesto ai soggetti di valutare la plausibilità o implausibilità di generalizzazioni come: 1. Premesse: Thomas è un gatto Thomas ha la coda 2. Conclusione: Tutti i gatti hanno la coda Premesse: Thomas è un gatto Thomas ha un dente rotto Conclusione: Tutti i gatti hanno un dente rotto Tali compiti evidenziano il ruolo della conoscenza generale nel ragionamento induttivo. Infatti, è la nostra conoscenza generale sui gatti che ci permette di valutare la conclusione in (1) come plausibile e la conclusione in (2) come implausibile. La categorizzazione Al fine di organizzare le informazioni che ci provengono dal mondo esterno, tendiamo a formare delle categorie. Una categoria è un insieme di oggetti distinti che vengono raggruppati per somiglianza di struttura o di funzioni; si pensi per esempio a categorie naturali come <<animali>>, a categorie di artefatti come << mobili>>, o a categorie sociali come << il gruppo di volontariato>>. La categorizzazione è un processo induttivo: a partire da una serie di esempi o casi che condividono certe proprietà, formiamo una categoria più generale. Ma quali sono le proprietà che questi elementi devono condividere affinché li si raggruppi nella medesima categoria? Secondo la teoria degli attributi comuni proposta da Bruner e colleghi (1956), gli esseri umani costruiscono le categorie del mondo definendo una serie di attributi necessari e sufficienti per ciascuna di esse. Per esempio, si immagini un bambino alle prese con un librogioco relativo all’apprendimento di forme geometriche. Prima vengono presentate una serie di figure geometriche con i relativi nomi; per esempio: 16 INSERIRE FIGURA 3 Poi vengono presentate altre figure geometriche, come per esempio: INSERIRE FIGURA 4 A questo punto, si chiede al bambino di indicare i triangoli nella fig. 4. Ecco cosa succede nella mente del bambino secondo la teoria degli attributi comuni. Nella fig. 3 il bambino incontra una serie di esemplari diversi di triangolo e da questi estrae le caratteristiche che sono proprie dei triangoli, ovvero che sono formati da tre linee, che queste linee sono rette e che insieme formano una figura chiusa. Egli si crea così la categoria <<triangolo >>, definendola attraverso quelle caratteristiche che sono comuni a tutti i triangoli che ha incontrato e, nel loro insieme, diverse rispetto a quelle delle altre figure. Passando alla figura 4 il bambino valuta le figure geometriche presentate: per ogni figura, decide di farla rientrare nella categoria dei triangoli se essa possiede tutte le caratteristiche specifiche di quella categoria. Secondo la teoria dei prototipi proposta da Rosh (1977), invece, le categorie vengono definite sulla base di una somiglianza di famiglia: i membri di una categoria hanno qualcosa in comune, tale che certe caratteristiche sono presenti in alcuni membri ma possono mancare in altri, che non sono per questo esclusi dalla categoria. Ogni categoria possiede un prototipo, cioè un esemplare tipico che costituisce il migliore esempio della categoria. La probabilità di categorizzare un oggetto come appartenente ad una categoria o ad un’altra dipende dal grado di somiglianza con il prototipo della categoria. Per esempio, se si pensa alla categoria <<uccelli>> vengono immediatamente alla mente il pettirosso, il piccione o l’aquila, in quanto esemplari prototipici della categoria; tuttavia, se ci viene chiesto se il pinguino o lo struzzo siano uccelli siamo in grado di rispondere di sì, anche se non condividono con gli altri uccelli caratteristiche importanti quali la capacità di volare. (Per le teorie sulla categorizzazione confronta il capitolo sulla percezione e quello su linguaggio e comunicazione nel presente libro). I compiti usati nello studio del ragionamento induttivo relativamente alla formazione di categorie spesso consistono nel presentare ai soggetti un insieme di stimoli (di solito figure 17 geometriche o oggetti inesistenti) e nel chiedere loro quale sia la regola che consente di raggruppare tali stimoli. 2.3 Teorie sul ragionamento Nel panorama contemporaneo è possibile individuare alcune principali correnti teoriche che propongono spiegazioni diverse circa il modo in cui le persone passano da un insieme di premesse ad una conclusione: teorie delle regole astratte (o della logica mentale), teorie delle regole concrete, teoria dei modelli mentali. Le teorie delle regole astratte I principali sostenitori sono Braine (1978) e Rips (1983). Secondo questi studiosi, la mente umana è dotata di un set di regole logiche. Quando ci troviamo di fronte alle premesse di un’argomentazione, la regola pertinente si attiva, viene applicata alle premesse in questione così che possiamo trarne una conclusione valida. Le regole della nostra mente sono astratte nel senso che non tengono conto del contenuto delle premesse bensì si limitano a manipolare le premesse in modo sintattico. Ad esempio, supponiamo che ad un soggetto vengano presentate le premesse disgiuntive: Prima premessa: O Roma è la capitale d’Italia, o Torino è la capitale d’Italia Seconda premessa: Torino non è la capitale d’Italia che possiamo rappresentare con la notazione seguente: O Roma è la capitale d’Italia, o Torino è la capitale d’Italia Torino non è la capitale d’Italia x dove la linea orizzontale è la linea di inferenza: al di sopra sono riportate le premesse; al di sotto si riporterà la conclusione, per il momento rappresentata da un’incognita. Vediamo la sequenza di passi necessari a trarre la conclusione. 18 (1) Traduzione dal linguaggio naturale al linguaggio logico: le premesse vengono tradotte in uno schema logico sulla base della loro “forma” poq non q x Ciò che è rilevante è il modo in cui le proposizioni sono correlate (forma o sintassi), determinato dal simbolo che le lega (disgiunzione o). Infatti, nello schema non rimane alcuna traccia del contenuto delle proposizioni. (2) Attivazione della regola di inferenza pertinente: lo schema logico della disgiunzione, contenuto nella nostra mente, si attiva poq non q p (3) Raggiungimento della conclusione: la proposizione decodificata come q viene inserita nello schema e così si può stabilire la conclusione Conclusione: Roma è la capitale d’Italia. Secondo le teorie delle regole astratte, per ogni set di premesse esiste una regola logica che consente di compiere inferenze. Vediamo quali sono i problemi di queste teorie. Se nella mente delle persone fossero contenute regole logiche, allora le persone dovrebbero sempre compiere inferenze valide. Ma ciò non avviene: spesso le persone traggono conclusioni sbagliate. Come si spiegano tali deviazioni dalla logica? La risposta dei sostenitori delle teorie delle regole formali è: i soggetti compiono un’interpretazione errata delle premesse. Nel ragionamento quotidiano intervengono fattori estranei alla logica che si configurano come possibili fonti di interferenza: nel processo di comprensione, vengono fatte delle assunzioni ragionevoli ma in contraddizione con la logica che modificano le premesse. 19 Quindi, i vari schemi di ragionamento vengono correttamente attivati ed applicati ma, dato che l’informazione in entrata è sbagliata, anche informazione in uscita sarà sbagliata. Tuttavia, il problema rimane: le teorie delle regole astratte non spiegano come questa incongruenza interpretativa agisca sulla produzione dei risultati. In altre parole, non spiegano come avvenga la comprensione delle premesse. C’è un altro problema con queste teorie: se le persone usassero regole logiche che agiscono sulla forma delle premesse indipendentemente dal contenuto, allora dovrebbero avere le medesime prestazioni quando uno stesso compito viene presentato con contenuti diversi. Ma si è visto, per esempio, nel compito di selezione di Wason che le prestazioni dei soggetti sono influenzate dal contenuto: mentre quasi tutti sbagliano nella versione astratta del compito (lettere alfabetiche e numeri), la maggior parte fornisce le carte corrette nella versione concreta (buste chiuse e aperte con diversa affrancatura). Ciò mette in crisi le teorie delle regole astratte. Infine, queste teorie possono applicarsi solo al ragionamento deduttivo; nel ragionamento induttivo, come abbiamo visto, non bastano regole preconfezionate, bensì è fondamentale anche l’uso della conoscenza generale. Le teorie delle regole concrete I principali sostenitori sono Cheng e Holyoak (1985). Anche secondo questi autori, la mente umana è dotata di un set di regole logiche. Ma queste regole non sono astratte né applicabili a qualsiasi premessa. Esse sono concrete e specifiche per classi di situazioni. Ad esempio, la mente umana è dotata di regole concrete per le situazioni di permesso e di obbligo. Tali regole sono dette schemi pragmatici di ragionamento in quanto vengono attivate dagli aspetti pragmatici delle situazioni, cioè da necessità concrete della vita reale. Per esempio, la regola per le situazioni di permesso ha la forma “Se un individuo esegue l’azione X, allora deve soddisfare la precondizione Y”; essa viene attivata ed applicata ogni volta che la persona deve compiere o valutare un’azione la cui esecuzione richiede il soddisfacimento di una data precondizione. Per portare prove a favore delle teorie delle regole concrete sono stati condotti diversi esperimenti, utilizzando il compito di selezione di Wason e sue varianti. Secondo i sostenitori delle teorie delle regole concrete, il fatto che i soggetti sbaglino nella versione astratta e facciano bene in quella concreta si spiega così. La versione concreta attiva lo schema di 20 permesso: deve essere pagata una tassa postale più alta (precondizione Y) se si vuole spedire una busta chiusa (azione X). L’attivazione dello schema consente di compiere le inferenze corrette. Per la versione astratta, i soggetti non hanno a disposizione alcuno schema mentale e perciò sbagliano. Il problema principale è che questa teoria non è completa: può essere applicata al compito di selezione, ma non spiega nulla sul ragionamento con proposizioni (perché è più facile ragionare su proposizioni contenenti il connettivo e piuttosto che su proposizioni contenenti il connettivo se…allora?) né sul ragionamento con sillogismi (perché alcuni sillogismi sono più facili da risolvere rispetto ad altri?). Non dice nulla sul ragionamento induttivo. La teoria dei modelli mentali E’ stata proposta e sviluppata da Johnson-Laird (1983). Secondo questo autore, nella mente umana non ci sono regole. Piuttosto, la mente umana è in grado di costruire e manipolare rappresentazioni della realtà. Di fronte ad una descrizione/osservazione della realtà, le persone costruiscono uno o più modelli mentali, cioè immagini mentali che rispecchiano gli elementi salienti della situazione e le loro relazioni. Vediamo attraverso quali passi avviene il ragionamento con modelli. Poniamo che ad un soggetto vengano presentate le premesse di un sillogismo, ad esempio: Tutti gli Artisti sono Banditi Tutti i Banditi sono Cuochi. Il soggetto raggiungerà la conclusione attraverso i passi seguenti. (1) Costruisce un modello mentale della prima premessa [A] B … e costruisce un modello mentale della seconda premessa [B] C … 21 in cui A sta per Artisti, B per Banditi e C per Cuochi. Le parentesi quadre indicano elementi esaustivamente rappresentati; per esempio, per la prima premessa, tutti gli artisti sono stati rappresentati in relazione ai banditi e quindi non può esserci un modello diverso in cui vi siano artisti e non vi siano banditi. I puntini indicano una possibilità implicita; per esempio, per la prima premessa, può esistere un bandito che non è artista, ma tale possibilità per il momento non viene esplicitata. (2) Integra i modelli delle due premesse [A] B C … cioè considera una delle due premesse e aggiunge a questa gli elementi dell’altra premessa attraverso l’uso del termine medio (quello che ricorre in entrambe le premesse, cioè Banditi). Per esempio, considera il modello della prima premessa e vede che ci sono dei Banditi; si chiede “considerando la seconda premessa, che relazione c’è tra Banditi e Cuochi?”; osserva che tutti i Banditi sono Cuochi, e quindi aggiunge i Cuochi al modello della prima premessa. (3) Osserva mentalmente il modello integrato per vedere che relazione c’è tra artisti e cuochi (unica relazione su cui le premesse non dicono nulla). Raggiunge così la conclusione Tutti gli artisti sono cuochi (4) Se il nostro soggetto è un buon ragionatore, considera la conclusione raggiunta come provvisoria. Quindi a questo punto controlla che non esistano dei modelli alternativi delle premesse che falsifichino la conclusione tratta. Cioè si chiede: è possibile combinare le premesse in modo diverso? Se sì, il nuovo modello che ne deriva conferma o contraddice la conclusione tratta? In questo caso, non esiste un modello alternativo a quello mostrato che porti a rifiutare la conclusione. Quindi, il ragionatore può enunciare come definitiva la conclusione 22 Tutti gli artisti sono cuochi. Secondo la teoria dei modelli mentali, la maggiore o minore difficoltà di un compito di ragionamento dipende dal numero di modelli mentali che è necessario costruire per raggiungere la conclusione: i compiti (come quello dell’esempio) che richiedono di costruire un solo modello mentale e nessun modello alternativo sono più facili. Invece, i compiti che richiedono di costruire modelli alternativi sono più difficili: in questo caso, le persone spesso sbagliano perché si fermano al passo (3), cioè asseriscono come valida la conclusione provvisoria, non rendendosi conto che una diversa combinazione delle premesse la contraddice. In pratica, le persone sbagliano perché si accontentano del primo modello costruito e quindi non ricercano modelli alternativi. La versione attuale della teoria dei modelli mentali richiede ulteriori revisioni, specialmente per quei processi che richiedono la manipolazione di materiale astratto, etichette o negazioni. Tuttavia, sembra oggi la spiegazione più plausibile di come le persone ragionano. È inoltre la spiegazione più ampia, in quanto è l’unica applicabile a diversi tipi di compiti, sia deduttivi che induttivi. Altre teorie Esistono altre spiegazioni del ragionamento, che tuttavia si applicano a specifici domini. Nel paragrafo 3 vedremo per esempio la teoria delle euristiche di Tversky e Kahneman (1974), che si applica esclusivamente al ragionamento probabilistico. Una variante di questa teoria è stata proposta da Evans (1984) e applicata anche al ragionamento deduttivo. Secondo Evans, le persone si costruiscono una rappresentazione iniziale del compito utilizzando processi euristici come l’eliminazione delle informazioni linguisticamente o pragmaticamente irrilevanti; su questa rappresentazione verrebbero poi applicati processi analitici che richiedono l’uso di regole di inferenza. 3. La presa di decisioni 23 Prendere una decisione significa sce gliere tra due o più alternative in vista di un obiettivo. Al fine di prendere una decisione dobbiamo giud icare le alternative che abbiamo a disposizione, per poter predire quanto l’opzione che sceglieremo ci piacerà e/o quali eventi ne conseguiranno. Pertanto, il giudizio si accompagna sempre alla presa di decisioni. Di solito, la presa di decisione avviene in condizioni di incertezza: spesso non sappiamo con precisione quali esiti futuri avrà ciascuna delle opzioni tra cui dobbiamo scegliere e, nella migliore delle ipotesi, possiamo solo stimare la probabilità degli esiti che ci attendiamo. In questo senso, la presa di decisione è strettamente legata al ra gio na me nto probab il ist ico, cioè all’abilità di fare una stima delle probabilità che gli esiti attesi si verifichino realmente. Inoltre, dato che prendere una decisione implica individuare una serie di azioni adeguate per il raggiungimento di un certa meta, i processi mentali che sottostanno la decisione sono in gran parte simili a quelli coinvolti nella r iso luzio ne d i prob le mi. La differenza è che, mentre nella risoluzione di problemi occorre generare le possibili azioni per il raggiungimento dello scopo, nella presa di decisione occorre selezionare tra le possibili azioni alternative quella che si preferisce. Una domanda che gli studiosi si pongono è: in che modo le persone arrivano a stimare la probabilità di un evento? Come giungono a prendere una decisione? Queste domande riguardano studiosi di campi diversi: lo statistico sarà interessato a costruire formule matematiche che consentano stime di probabilità, l’economista sarà interessato a costruire modelli che consentano di prevedere le scelte individuali e collettive che determinano l’andamento del mercato, lo psicologo sarà interessato a studiare il modo effettivo in cui le persone fanno delle scelte, tenendo conto dei vincoli del sistema cognitivo. Questi studi hanno un ampio risvolto applicativo: per esempio, il pubblicitario necessiterà di sapere su quali fattori puntare la sua campagna al fine di influenzare le scelte dei consumatori su un determinato prodotto; l’amministratore di un’azienda, che quotidianamente compie scelte relative ai prodotti da acquistare, all’organizzazione della struttura aziendale, alla selezione e formazione del personale, trarrà frutto dalla conoscenza sia dei fattori che motivano le proprie scelte sia delle conseguenze che queste potranno avere; ancora, il medico e lo psicoterapeuta, che devono esprimere giudizi in forma di diagnosi e decidere circa la terapia da adottare, dovrebbero disporre di strategie adeguate che consentano loro di operare in maniera efficiente. Data la rilevanza dei processi che sottostanno la presa di decisione, sono state sviluppate numerose teorie al proposito. A grandi linee, possiamo distinguere due tipi di 24 teorie: normative e descrittive. Statistici ed economisti hanno prodotto teorie normative della scelta: esse indicano le strategie che la persona razionale dovrebbe seguire nel stimare la probabilità di un evento e, di conseguenza, nel giudicare opzioni diverse e prendere una decisione; tali teorie dicono quale dovrebbe essere la condotta razionale ideale, attraverso l’uso di principi statistici. Tuttavia, dato che gli esseri umani non sempre sembrano seguire la logica matematica nelle loro scelte, gli psicologi hanno sviluppato teorie descrittive, che tentano di descrivere il modo in cui le persone effettivamente compiono stime di probabilità e prendono decisioni. In questo paragrafo considereremo la stima di probabilità (o ragionamento probabilistico), che abbiamo visto porsi alla base del giudizio e della presa di decisione, e la presa di decisione vera e propria, cioè la scelta tra opzioni diverse. Vedremo come le teorie normative e le teorie descrittive sono state applicate in questi ambiti. La stima di probabilità Consideriamo il seguente compito: [Compito dei taxi] Una sera, un taxi viene coinvolto in un incidente. Nella città lavorano due compagnie di taxi: Verdi e Blu. Vi vengono forniti i dati seguenti: (a) 85% dei taxi in città appartengono alla compagnia Verde e 15% alla Blu; (b) un testimone oculare ha identificato il taxi come Blu. Il tribunale ha verificato l’attendibilità del testimone ad appropriate condizioni di visibilità. Quando vennero presentati al testimone alcuni taxi, metà dei quali era Blu e metà Verde, il testimone eseguì un’identificazione corretta nell’80% dei casi, sbagliando nel restante 20%. Qual è la probabilità che il taxi coinvolto nell’incidente sia effettivamente un taxi Blu? Il compito richiede una stima di probabilità. Esso contiene in sé tutte le informazioni necessarie a calcolare tale stima: se il soggetto che deve risolvere il compito considera adeguatamente tutte queste informazioni e applica correttamente il calcolo delle probabilità, può ottenere la stima di probabilità richiesta. In questo caso, il calcolo delle probabilità prevede l’applicazione del teorema di Bayes, teorema che consente di calcolare la probabilità di un dato evento (che il taxi coinvolto nell’incidente sia Blu) sulla base di ciò che sappiamo su tale evento prima che si verifichi o probabilità di base (in città i taxi Blu sono il 15%, quelli Verdi l’85%) e sulla base delle informazioni che si sono ottenute successivamente o 25 probabilità a posteriori (il testimone ha identificato il taxi come Blu, e la sua attendibilità è dell’80%). Quindi: • • • Probabilità a priori (prima dell’incidente) 0.15 probabilità che un taxi sia Blu 0.85 probabilità che un taxi sia Verde Probabilità a posteriori (dopo l’incidente) 0.80 probabilità che il testimone riconosca come Blu un taxi Blu 0.20 probabilità che il testimone riconosca come Blu un taxi Verde Probabilità condizionale 0.80 x 0.15 = 0.12 probabilità che il testimone riconosca come Blu un taxi Blu, considerata la probabilità che un taxi in città sia Blu: riconoscimenti corretti 0.20 x 0.85 = 0.17 probabilità che il testimone riconosca come Blu un taxi Verde, considerata la probabilità che un taxi in città sia Verde: riconoscimenti errati 0.12 + 0.17 = 0.29 probabilità che il testimone riconosca un taxi come Blu sia che esso sia Blu o Verde, considerate le rispettive probabilità che un taxi in città sia Blu o Verde: somma dei casi in cui il testimone riconoscerebbe il taxi come Blu (correttamente o erroneamente) 0.12 / 0.29 = 0.41 probabilità che il taxi riconosciuto come Blu sia effettivamente Blu: quante volte il testimone riconoscerebbe correttamente un taxi Blu rispetto a quante volte il testimone riconoscerebbe un taxi come Blu correttamente o erroneamente. La probabilità che il taxi coinvolto nell’incidente sia un taxi Blu è perciò del 41%. Le teorie normative indicano quali passi sono necessari per arrivare alla conclusione statisticamente corretta; tali passi sono quelli previsti dal calcolo statistico delle probabilità. Esse assumono che gli individui, per risolvere problemi come quello presentato, utilizzino le regole del calcolo delle probabilità. Tuttavia, numerose ricerche hanno dimostrato che gli individui “ingenui”, cioè che non hanno dimestichezza con principi statistici, tendono a fornire risposte diverse da quelle normativamente corrette. Sono state dunque formulate teorie descrittive che cercano di individuare quali strategie gli individui effettivamente seguano nel risolvere compiti probabilistici. La teoria delle euristiche proposta da Tversky e Kahneman (1974) è la più nota tra queste. Secondo questi autori, le persone non utilizzano le regole del 26 calcolo delle probabilità, bensì delle euristiche, cioè delle strategie più rapide e non sistematiche che non garantiscono il raggiungimento della conclusione corretta. L’applicazione di euristiche può portare ad errori sistematici (bias) come per esempio non considerare la probabilità di base (base rate ne glec t). E’ ciò che sembra accadere nel compito dei taxi. La maggior parte dei soggetti a cui il compito è stato somministrato ignoravano la probabilità relativa alla proporzione di taxi in città e, usando solo l’informazione relativa all’attendibilità del testimone, rispondevano che la probabilità che il taxi fosse Blu era dell’80%. La scelta tra opzioni diverse Una delle teorie normative più conosciute nell’ambito della presa di decisione è la teoria dell’utilità attesa (vedi von Neumann e Morgenstern, 1947), secondo cui si dovrebbe tendere a massimizzare il risultato atteso: la persona che compie una scelta dovrebbe optare per l’alternativa che comporta per lei la maggiore utilità. Vediamo come si calcola il valore atteso; supponiamo di dover compiere la scelta seguente: [Scommessa ad una corsa di cavalli] Alla corsa partecipano due cavalli: GR è dato vincente al 20% e se punti £. 10.000 su di lui puoi vincere £. 400.000; GB è dato vincente all’80% e se punti £. 50.000 su di lui puoi vincere £. 100.000. Su quale cavallo scommetteresti? Il valore atteso derivante dalla scommessa su GR, cioè la somma che lo scommettitore può attendersi di guadagnare da questa scommessa, si calcola così: • Soldi che entrano in caso di vittoria 0.2 probabilità di vittoria £. 400.000 soldi vinti 0.2 x 400.000 = 80.000 soldi che mediamente entrerebbero scommettendo su GR un numero infinito di volte • Soldi che escono in caso di perdita 0.8 probabilità di perdita £. 10.000 soldi persi 27 0.8 x 10.000 = 8.000 soldi che mediamente uscirebbero scommettendo su GR un numero infinito di volte • Valore Atteso (VA) dalla scommessa su GR 80.000 – 8.000 = 72.000 soldi che mediamente si guadagnerebbero scommettendo su GR un numero infinito di volte Il valore atteso derivante dalla scommessa su GB si calcola nello stesso modo: • Valore Atteso (VA) dalla scommessa su GB (0.8 x 100.000) – (0.2 x 50.000) = 80.000 – 10.000 = 70.000 soldi che mediamente si guadagnerebbero scommettendo su GB un numero infinito di volte. Quindi, se uno scommettitore giocasse le due scommesse un numero infinito di volte guadagnerebbe in media rispettivamente £. 72.000 e £. 70.000; perciò, per far sì che la propria scelta sia quella ottimale, dovrebbe puntare su GR. La teoria dell’utilità comprende una serie di assiomi. Qui considereremo uno dei più importanti tra questi: il principio della transitività. Esso prescrive che, se un individuo preferisce l’opzione A all’opzione B e preferisce l’opzione B all’opzione C, allora per essere un decisore razionale deve preferire A a C. Diversi esperimenti hanno però dimostrato che, nel compiere certe scelte, le persone non rispettano questo principio. Consideriamo per esempio il seguente compito: Ti vengono presentate le seguenti coppie di carte. Il quadrante nero di ogni carta indica la probabilità che hai di vincere la somma indicata sopra la carta stessa; il quadrante bianco indica la probabilità di non vincere alcunché. Per ogni coppia di carte, indica quella che preferisci giocare. INSERIRE FIGURA 5 Come si vede, dalla carta A alla carta E, la probabilità di vincere aumenta (rispettivamente 7/24, 8/24, 9/24, 10/24, 11/24) mentre le somme che si possono vincere diminuiscono (rispettivamente 5.00, 4.75, 4.50, 4.25, 4.00 dollari); se si calcolano i valori attesi di ciascuna carta, essi aumentano (rispettivamente 1.46, 1.58, 1.69, 1.77, 1.83 dollari). Il compito è stato somministrato ad un campione di soggetti: in media, essi preferirono A a B, B a C, C a D, D a 28 E, ma E ad A. Da questi risultati possiamo concludere che: (a) i soggetti non compivano le loro scelte sulla base del calcolo del valore atteso, (b) le loro scelte violavano il principio di transitività. Sembra dunque che le teorie normative non siano in grado di predire le scelte che le persone effettivamente compiono. Nell’ambito delle teorie descrittive si è dunque cercato di individuare i fattori che influenzano le scelte delle persone. Per esempio, Tversky e Kahneman (1974) sostengono che giudizi e decisioni siano guidati da alcune euristiche, tra cui ricordiamo l’euristica della disponibilità e quella della rappresentatività. Secondo l’e ur ist ica de lla d ispo nib il ità, nel valutare la frequenza di un evento, le persone si basano sulla disponibilità nella loro memoria di esempi a cui fare riferimento. Immaginate per esempio di essere un cittadino americano che deve decidere dove trascorrere le vacanze, e in quel periodo si diffondano notizie di un aumento degli attentati terroristici ai danni di cittadini americani in Europa. Nel giudicare l’eventualità di essere uccisi, sarebbero più disponibili alla vostra memoria più esempi di assassinii in Europa perché in quel momento più pubblicizzati dai mass media. Molti di voi deciderebbero quindi di trascorrere le vacanze negli Stati Uniti. In realtà, la probabilità di essere uccisi in Florida è uguale o più alta di quella di essere uccisi in Europa. Secondo l’e ur is t ica de lla rappre se nta t ività, nel valutare la probabilità che un oggetto appartenga ad una certa classe, le persone si basano sul grado di somiglianza dell’oggetto con lo stereotipo della categoria. Supponete per esempio che vi venga descritto Luca come riservato, introverso, poco interessato alle persone, estremamente ordinato, amante del bricolage e della vita sedentaria, e vi venga chiesto di giudicare se secondo voi Luca è un pilota, un medico o un bibliotecario. Molti giudicherebbero più probabile che Luca sia un bibliotecario: le descrizione rispecchia quasi sicuramente lo stereotipo che avete del bibliotecario. 4. Conclusioni Il pensiero, in quanto abilità cognitiva di alto livello, almeno per alcuni aspetti specifica della specie umana, ha da sempre attratto l’attenzione di studiosi provenienti da discipline diverse quali filosofi, antropologi, psicologi, sociologi, pedagogisti, neuroscienziati e tutti coloro che sono interessati a capire il perché del proprio e dell’altrui agire. In questo capitolo 29 si è cercato di introdurre i concetti fondamentali della psicologia del pensiero prediligendo la chiarezza e la semplicità, a volte anche a scapito della ricchezza e della complessità che questa area di studio può offrire. Vi rimando pertanto ai testi citati nelle letture consigliate per un approfondimento delle questioni solo abbozzate in questa sede. 30 Bibliografia Anderson J.R. (1982), <<Acquisition of cognitive skill>>, Psychological Review, 89, 396-406. Braine M.D.S. (1978), <<On the relation between the natural logic of reasoning and standard logic>>, Psychological Review, 85, 1-21. Bruner J.S., Goodnow J.J. and Austin G.A. (1956), A Study of Thinking, New York, Wiley. Cheng P.W. and Holyoak K.J. (1985), <<Pragmatic reasoning schemas>>, Cognitive Psychology, 17, 319-416. Evans J.St.B.T. (1984), <<Heuristic and analytic processes in reasoning>>, British Journal of Psychology, 75, 451-468. Johnson-Laird P.N. (1983), Mental Models, Cambridge, Cambridge University Press. Newell A. and Simon H.A. (1972), Human Problem Solving, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice Hall. Rips L.J. (1983), <<Cognitive processes in propositional reasoning>>, Psychological Review, 90, 38-71. Rosh E. (1977), << Human categorization>>, in N. Warren (ed.), Studies in Cross Cultural Psychology, Vol. I, London, Academic Press. Thorndike E.L. (1905), The Elements of Psychology, New York, Seiler. Tversky A. and Kahneman D. (1974), <<Judgment under uncertainty: Heuristics and biases>>, Science, 185, pp. 1124-1131. von Neumann J. and Morgenstern O. (1947), Theory of Games and Economic Behavior, Princeton, New Jersey, Princeton University Press. Wason P.C. (1966), <<Reasoning>>, in B. Foss (ed.), New Horizons in Psychology, Harmondsworth, Penguin. Wertheimer M. (1945), Productive Thinking, New York, Harper. Letture consigliate Girotto V. (1994), Il Ragionamento, Bologna, Il Mulino. Girotto V. e Legrenzi P. (a cura di) (1999), Psicologia del Pensiero, Bologna, Il Mulino. Johnson-Laird P.N. (1993), Human and Machine Thinking, Hillsdale, New Jersey, Erlbaum; trad. it. Deduzione, Induzione e Creatività. Pensiero Umano e Pensiero Meccanico, Bologna, Il Mulino. Robertson S.I. (2001), Problem Solving, Hove, Psychology Press. Rumiati R. (1990), Giudizio e Decisione. Teorie e Applicazioni della Psicologia della Decisione, Bologna, Il Mulino.