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“RIDERE PER VIVERE”
“FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA”
CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN
SCIENZE INFERMIERISTICHE ED OSTETRICHE
Corso di Cure Palliative
( Docente: Dott.ssa Prandi Cesarina)
MONOGRAFIA
“RIDERE PER VIVERE”
CURE PALLIATIVE E TERAPIA DEL SORRISO: UN BINOMIO INSCINDIBILE PER MIGLIORARE
LA QUALITA’ DELLA VITA
A cura di
Abbondanza Sara
Belluzzo Valentina
Anno Accademico 2007-2008
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
1
INDICE
PREFAZIONE …………………………………………………………………………………… 3
INTRODUZIONE ……………………………………………………………………………….. 5
CAPITOLO 1. La terapia del sorriso
1.1.
Etimologia e storia della terapia del sorriso ……………………………………... 6
1.2.
Patch Adams ……………………………………………………………………... 8
1.3.
Due approcci della terapia del sorriso ……………………………………………. 9
1.4.
Come dovrebbe essere un reparto della terapia del sorriso ……………………… 10
CAPITOLO 2. Pareri autorevoli
2.1.
Il riso secondo Bergson e Berger ………………………………………………… 11
2.2.
Le esperienze positive di Norman Cousins. ……………………………………… 12
2.3.
Fisiologia della risata e i suoi effetti ……………………………………………… 13
2.4.
Che cosa succede a livello psicologico …………………………………………… 14
CAPITOLO 3. Prove di efficacia inerenti la terapia del sorriso.
3.1.
Buon umore e sorriso in cure palliative: indagine etnografica ……………………. 16
3.2.
L’ospedale Meyer di Firenze: il primo studio scientifico randomizzato ………….. 17
CAPITOLO 4. Le cure palliative e la terapia del sorriso.
4.1.
L’infermiere e il bambino terminale ……………………………………………… 18
4.2.
Il valore intrinseco della terapia del sorriso ………………………………………. 19
4.3.
La comunicazione con il bambino morente ………………………………………. 20
4.4.
Le raccomandazioni per le cure palliative del bambino …………………………... 21
CONCLUSIONE ………………………………………………………………………………….. 24
BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA ……………………………………………………………….. 27
FILMOGRAFIA ………………….……………………………………………………………….. 28
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
2
PREFAZIONE
Nel corso delle lezioni di cure palliative siamo state piacevolmente coinvolte dalla figura di Pamela
Levin, un’ analista transazionale nordamericana, che ha delineato sette tappe di sviluppo nella vita
di un individuo, tappe che si ripetono ciclicamente nella vita di ognuno di noi.
Per ogni tappa la Levin, ha definito i permessi fondamentali di cui ha necessità la persona e che
possono essergli trasmessi (oppure, come purtroppo talora accade, negati) dalle figure che si
prendono cura di lui.
Partendo dalla prima tappa: da 0 a 6 mesi, che si manifesta con il potere di “esistere”, abbiamo visto
come in questa tappa il soggetto è completamente alla mercè delle persone che si prendono cura di
lui, e affinché possa sopravvivere è necessario che queste gli trasmettano, con il proprio
comportamento, i permessi che seguono:
-
Questo è il tuo posto;
-
C’è posto per te;
-
È un tuo diritto essere qui;
-
Mi piace tenerti, toccari, starti vicino;
-
Sono felice che tu sia maschio/femmina;
-
I tuoi bisogni sono ok per me;
-
È ok per te essere qui, essere nutrito, toccato, curato.
È fondamentale per gli infermieri che si trovano di fronte ad un bambino gravemente malato, saper
trasmettere questi permessi di esistere.
Raccogliendo i vari pareri espressi da persone autorevoli quali: Patch Adams, Cousins Norman, Fry
William, Bergson e Berger, abbiamo potuto conoscere come la terapia del sorriso, è in grado di
sostenere l’importanza della vita di un’ individuo, e di conferirgli valore e dignità.
Purtroppo, spesso l’approccio degli operatori sanitari è di natura meccanicistica, la rassegnazione e
il distacco caratterizzano l’assistenza al malato terminale, poichè la morte è vista come fallimento
terapeutico. L’operatore sanitario deve essere in grado di utilizzare in termini creativi le proprie
conoscenze e di adottare comportamenti flessibili, capaci di adattarsi alle più diverse e complesse
situazioni assistenziali.
L’infermiere che assiste da vicino il bambino deve fare appello a tutte le sue abilità per sostenere il
piccolo malato, la terapia del sorriso può essere interpretata come strumento dell’infermiere per
alleviare le sofferenze del bambino.
Lo scopo delle cure palliative è migliorare la qualità della vita, lo scopo della terapia del sorriso è
quello di gettare le fondamenta per un contesto di armonia e serenità dove l’assistenza palliativa
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
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può essere realizzata al meglio, l’infermiere diviene dunque depositario della cultura della terapia
del sorriso grazie alla quale si realizza il potere di :
•
Fare – riconoscere il bambino nel “suo tempo”.
•
Pensare – si deve dare l’opportunità al bambino di dire i suoi “no” e i suoi “perché”.
•
Identità – riconoscere l’identità del bambino.
•
Riuscire – è una fase pragmatica, in quest’ ambito deve essere riconosciuto al bambino il
diritto di sbagliare.
Nel primo capitolo trattiamo l’etimologia e i cenni storici della terapia del sorriso, nella metà degli
anni Ottanta, fu conferita la laurea ad Honoris Causa al giornalista scientifico Norman Cousins,
questo evento sancì di fatto la nascita della”Gelotologia”. Viene descritto il ruolo del giullare nei
diversi contesti storici e di come la sua figura fu ritenuta importante da illustri uomini del passato,
da Shakespeare a San Francesco passando per Dante, che dedica il VI canto del Purgatorio ad un
noto giullare.
Il capitolo raggiunge l’acme quando affrontiamo la figura di Patch Adams, divulgatore della
comicoterapia nel mondo. Nel secondo capitolo trattiamo i pareri di Bergson e Berger che
osservano la dimensione umana della risata; William Fry che studiò gli effetti positivi del ridere
sull’organismo umano a livello fisiologico e Cousins Norman.
Nel terzo capitolo, c’è sembrato interessante presentare due studi scientifici reperiti dalla banca dati
Pub Med. Il primo, condotto in Canada, studia gli effetti positivi del buon umore nelle cure
palliative; il secondo, effettuato in Italia, ha dimostrato come la presenza dei clown, nei reparti di
pediatria, riduce l’ansia nei bambini durante la fase pre-operatoria.
Il quarto, ed ultimo capitolo,è dedicato all’infermiere e alle cure palliative in ambito pediatrico.
Abbiamo sottolineato che, l’infermiere utilizzando la terapia del sorriso in un contesto dove si
attuano cure palliaive, fornisce al piccolo paziente un’ assistenza ricca di professionalità, ma cosa
più importante, con “il sorriso” libera il bambino dall’angoscia che sta vivendo e lo fa evadere dalla
quotidianità della malattia.
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INTRODUZIONE
La malattia grave di un bambino che conduce alla morte è un evento tragico che colpisce tutta la
famiglia e in modo particolare i genitori. Questi, abituati a far crescere il loro figlio, sono
improvvisamente costretti ad assistere alla sua morte, accompagnarlo n questa fase e prendere
decisioni per come gestire la situazione.
Anche per gli operatori sanitari è spesso molto difficile occuparsi del bambino in questa fase
Poiché suscita sensazioni di impotenza. La nostra formazione di infermieri è concentrata sul salvare
e prolungare la vita e in genere la morte è vista come un fallimento. Talvolta gli operatori hanno
profonde difficoltà e angosce nell’accompagnare il bambino verso la morte e sospendere i cosiddetti
atti curativi a favore di interventi palliativi.
Per raggiungere un trattamento adeguato del bambino nella fase terminale, i bisogni e i desideri del
bambino e della sua famiglia dovrebbero essere una priorità assoluta per l’operatore sanitario e dal
momento che la morte di ciascun individuo ha caratteristiche uniche, così com’è unica la
costellazione di circostanze che le fanno da sfondo, non esiste un miglior approccio assistenziale, né
tecniche applicabili a tutte le situazioni.
Troppo spesso quando si assiste una persona terminale,nel nostro caso un bambino, non siamo
pronti a capire cosa serve ma cerchiamo conferme alla nostra identità, è fondamentale per noi
infermieri interiorizzare il concetto di “servire” un bambino in fase terminale, da non confondere
con l’aiutare o il provvedere.
Servire non è la stessa cosa che aiutare. Aiutare implica una disuguaglianza, non prevede un
rapporto alla pari. Quando si aiuta, si usa la propria forza a beneficio di qualcuno che ne ha meno. È
un rapporto dove una delle parti è in una posizione svantaggiata, e dove la disuguaglianza è
palpabile. Ponendoci nell’ottica dell’aiuto possiamo inavvertitamente sottrarre all’altro più di
quanto gli diamo, indebolirne il senso di dignità e l’autostima. Quando aiuto, sono chiaramente
cosciente della mia forza. Ma per servire dobbiamo mettere in gioco qualcosa di più che la nostra
forza. Dobbiamo mettere in gioco la totalità di noi stessi, attingere all’intera gamma delle nostre
esperienze. Servono anche le nostre ferite, i nostri limiti. Aiutare crea un debito, l’altro sente di
doverci qualcosa. Il servizio, al contrario, è reciproco. Quando aiuto provo soddisfazione; quando
servo provo gratitudine.
Servire è inoltre diverso dal provvedere. Quando cerco di provvedere a qualcuno, vedo nell’altro
qualcosa che non va. È un giudizio implicito che mi separa dall’altro e crea una distanza.
Fondamentalmente aiutare, provvedere e servire sono modi di vedere la vita. Quando aiutiamo, la
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vita ci appare debole; quando cerchiamo di provvedere, ci sembra che abbia qualcosa che non va;
ma quando serviamo, la vita ci appare completa.
CAPITOLO 1. La terapia del sorriso.
1.1
Etimologia e storia della terapia del sorriso.
Quando nella metà degli anni ottanta, l’università della California conferì la laurea ad Honoris
Causa al giornalista scientifico Norman Cousins si sancì di fatto la nascita della “Gelotologia”.
Il termine gelotologia deriva dal greco Ghelos = risata; ghelotos, e vuol dire “cura del ridere”, essa
è la disciplina che studia il ridere in relazione alle sue potenzialità terapeutiche. la gelotologia getta
le sue basi sugli studi di Psiconeuroendocrinoimmunologia (P.N.E.I.) che hanno come concreto
oggetto la diretta influenza degli stati mentali,delle emozioni, sul sistema immunitario e viceversa.
Il ruolo del buffone, giullare, attor comico e pagliaccio, è storicamente rilevante. Il giullare ha
sempre avuto un ruolo importante nelle varie epoche. Attraverso un atteggiamento goliardico,
scherzoso e ironico, il giullare può dire la verità, può dire il “non detto”, quello che non si può dire.
Nelle opere scespiriane il fool incarna spesso il ruolo del saggio. Shakespeare mette in bocca al
folle le parole e i concetti più profondi, i messaggi che spiazzano e fanno riflettere il pubblico. Il
giullare può raccontare storie, suscitare sentimenti, emozioni, dipingere mirabilmente quadretti e
situazioni esilaranti. Egli assomma i caratteri del buffo e dello spiritoso ed è imparentato con la
follia(il jolly, la Matta delle carte, l’Appeso dei tarocchi) e con il ruolo, praticamente sacro, di
toccato da Dio,di colui che fa ridere con la strategia più semplice: la verità.
Il termine “giullare” deriva dal latino ioculatores, a sua volta derivato da iocus cioè gioco,
divertimento; l’etimologia sottolinea la funzione di intrattenimento e divertimento esercitata dai
giullari nel Medioevo.
Dare una definizione precisa di questo personaggio è impresa ardua data l’estrema varietà delle sue
prestazioni, a seconda dei luoghi, delle situazioni, del periodo storico:attore, mimo, giocoliere,
cantante, saltimbanco o, nei casi migliori poeta.
A volte l’attività del giullare è legata a una sola di queste abilità, altre svolte egli le esercita tutte
con multiforme duttilità. È comunque sempre un lavoro difficile, “impegnativo”, in quanto si avvale
di tecniche miste quali la parola, la mimica e la musica.
I luoghi in cui il giullare esercitava la sua professione erano vari. La piazza, la taverna o la corte
principesca dove talvolta rivaleggia con i più raffinati trovatori.
Gli spettacoli giullareschi erano caratterizzati da una grande libertà di movimento, dall’apertura nei
confronti di culture diverse (soprattutto quelle orientali), e da una carica trasgressiva molto forte che
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infrangeva erovesciava i solidi lavori della società medievale, andando acolpire senza false ipocrisie
i tabù religiosi.
I giullari mettevano continuamente in scena gli eccessi e i vizi dell’uomo e per questo erano
condannati all’inferno. Nella Divina Commedia Dante dedica il VI canto del Purgatorio a Bordello
da Goito, noto giullare attivo nella prima metà del XIII secolo nelle corti italiane e provenzali,
ricordato come abile imitatore della lirica occitanica.
Le attività dei giullari di corte scandivano le ore di svago delle giornate dei cortigiani, un lavoro
“stabile”. I musici erano invece distinti in due categorie: quelli che cantavano canzoni lascive, in cui
l’amore raccontato non era solo latonico, e coloro che cantavano canzoni di gesta e le vite dei santi.
Quest’ultimi definiti da San Tommaso ioculatores, rappresentavano la testimonianza della volontà
di riabilitare e legittimare la professione dell’artista attribuendo un alore religioso a questa attività.
Non fu casuale la scelta di San Francesco di autodefinirsi “ giullare di Dio”. Il comportamento fuori
dal comune, il parlare libero, senza regole, l’abito inconsueto dai colori mal abbinati
(l’accostamento del giallo e del verde era il tipico accostamento del costume giullaresco), con le
toppe di stoffa povera e grossolana, il non vergognarsi nel chiedere l’elemosina facendo finta di
suonare il violino e le declamazioni nelle piazze e nelle strade fra la gente, rendeva Francesco un
giullare nobilitato dalla profonda fede religiosa.San Francesco d’ Assisi appare un po’ come il trait
d’union tra il giullare eil santo, la sua originale concezione del mondo, con la sua laetitia spiritualis,
con la sua benedizione della materia e del corpo, con i suoi abbassamenti e profanazioni,
rappresenta un recupero del principio comico e rinnovatore. Francesco si inspirava infatti ai Padri
del deserto dei primi secoli del cristianesimo, i quali con la loro pratica del silenzio e della
preghiera incessante recuperano la purezza del rapporto armonioso con il cosmo e del rispetto con
tutti gli esseri viventi. E in questo nuovo rapporto riscoprono la gioia esplosiva (big bang)
dell’energia creatrice primordiale.
Un altro santo che ha utilizzato il teatro quale strumento di evangelizzazione è stato San Bernardo,
l’ispiratore tra l’altro dell’Ordine dei Cavalieri Tmplari. Pochi sanno che San Bernardo è stato
anche grande uomo di teatro;ha scritto diverse opere teatrali per spiegare alla gente in modo
semplice ma anche divertente le grandi verità teologiche.
Nelle tribù di pellerossa dell’Arizona esistevano delle corporazioni di buffoni professionisti, il cui
scopo era si quello di incarnare lo scherno, ma anche quello di tenere saldo il senso della
conservazione degli usi e l’ordine gerarchico tradizionale.
Interessanti esperimenti hanno dimostrato la quasi universalità del linguaggio non verbale. Sono
state prese in esame le sei espressioni di base del corpo umano:felicità, paura, sorpresa, rabbia,
disgusto, tristezza e sottoposte a gruppi di studenti di diverse culture, queste espressioni, legate a
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forti emozioni, venivano immediatamente comprese dall’80% dei soggetti. Il corpo nelle sue
posture,l’atteggiare degli occhi, l’inflessione della voce, il ritmo della frase, veicolansi contenuti
reali della relazione. Quando si conosce una nuova persona non si ha la cosiddetta reazione a pelle?
Essa può rivelarsi sbagliata, a un esame più attento, ma raramente, a ben vedere, inganna. Il fatto è
che i messaggi non verbali dell’altro arrivano molto più direttamente alla nostra capacità di
comprensione. Il SORRISO è uno dei componenti non verbali più forti, se accompagnao dalle
parole ne amplifica i messaggi , ha in sé valenze antigerarchiche e antiaggressive e, in virtù della
sua forza relazionale, spesso facilita la comprensione di un contenuto difficile.
Se la smorfia è buffa o addirittura comica, può suscitare un sorriso o persino una risata.
1.2
Patch Adams
Patch Adams, il noto medico americano sulla cui vita e attività di clown-terapeuta è stato girato un
famoso film, usa questo tipo di approccio nel saluto, che per lui non può che essere esagerato, a
gran voce, quasi un abbraccio energetico.
Patch Adams, pediatra laureato ad Harvard, nella vita normale è un clown, nel senso che tutte le
mattine si veste da clown e si toglie questi panni solo quando va a dormire la sera. Con i suoi
baffoni da ussaro, i suoi quasi due metri di altezza, una cravatta che sembra un rettile che penzola
dal collo, la coda di cavallo che arriva fino alla schiena con i capelli colorati di viola solo da un lato,
una camicia sgargiante e un paio di braghe larghe, il solo fatto di essere vestito in questo modo,
anche senza far niente di speciale, attrae l’attenzione e la curiosità degli altri, con la sua aria mite e
buffa, spargendo subito intorno un’atmosfera d’ilarità e di salutare sdrammatizzazione.
Patch ha fondato un ospedale, il Gesundheit Institute, ad Arlington, in Virginia, in cui cura
gratuitamente; ne sta aprendo diversi in varie parti del mondo. Chi si rivolge a lui è certamente
motivato a provare un esperienza di terapia del tutto anomala. Viene accolto con amore, in un clima
disteso e al contempo vivace. Visita i bambini con il naso rosso, un copricapo buffo ed un
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atteggiamento da anziano del villaggio, che si ciuccia il labbro inferiore come fanno i bambini e con
la lingua che incespica nel parlare, ma ma è mite e instaura con il piccolo un rapporto tattile e un
po’ trasgressivo, magari mettendogli i pedoni sul letto. Poi tira fuori una borsa con tante tasche
nelle quali vi sono i rimedi più disparati che estrae e ritrae, mostra e nasconde come fanno i
prestigiatori: compresse, erbe,pietre. Li suo fare è magico, rituale, ma sempre sorridente. Coinvolge
il bambino nella terapia, chiedendogli per esempio di tenere una medicina o una pietra particolare
sull’organo ammalato.
Patch Adams ha aperto una strada. La medicina mondiale sembra orientata verso il riconoscimento
delle innumerevoli possibilità terapeutiche legate al ridere. Molti sono ormai gli ospedali che hanno
adottato tecniche di comicoterapia, dalle più semplici come i clown nelle corsie pediatriche, a
quelle più strutturate come preparare il personale a dispensare buon umore, ai veri e propri reparti di
terapia del ridere. Esistono pertanto due sostanziali modalità di fare comicoterapia negli ospedali:
uno di tipo più passivoper il paziente che consiste nel far intervenire nelle corsie dei clown o dei
comici, l’altra più attiva che consiste nell’allestire un vero e proprio reparto di terapia del ridere in
cui il paziente viene stimolato a trovare la sua vena comica attraverso vari esercizi basati su
tecniche di improvvisazione teatrale e yoga della risata.
Negli Stati Uniti, ma non solo, sono seguite varie iniziative e soprattutto molte università hanno
avuto i fondi per portare avanti la ricerca scientifica; così la gelotologia, dal greco gelos che
significa ridere, cioè la scienza che studia il fenomeno delredere, ha avato un notevole impulso. Sul
fronte sanitario sonostate sperimentate con successo diverse modalità applicative di comico- terapia
o terapia del ridere. Nell’Health Sciences University, nell’Oregon, gli ammalati sono accuditi da
“Infermieri del sorriso”, una delle cui caratteristiche è recare sul camice il seguente adesivo:
“Attenzione! Il buon umore può essere pericoloso per la tua malattia”. Prima o poi anche da noi la
Sanità Pubblica dovrà essere investita della responsabilità di aprire i luoghi di sofferenza come gli
ospedali ad una ventata vivificante ma qualcosa si sta muovendo, l’ospedale pediatrico Meyer di
Firenze organizza, insieme ad enti teatrali, corsi per diventare Clown terapeutici da utilizzare nei
reparti.
1.3
Due approcci della terapia del sorriso.
Oggi la clown-terapia può percorrere due strade differenti,ma strettamente parallele. Una strada è
quella che segue la corrente di Patch Adams, secondo tale modalità la comicità è utilizzata per
creare familiarità con i malati,ridurre il disagio e l’estraniazione dei degenti. Per Adams il medico
deve essere amico,deve abbandonare le distanze imposte dalla medicina ortodossa, usare la gioia e
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la comicità per alleviare le sofferenze, per rendere la malattia più tollerabile, non indugiando nel
vestirsi da clown,portando con sé la propria umanità e l’ilarità come aiuto all’altro. L’altra strada è
invece quella intrapresa dai clown-medici. I primi clown medici apparvero negli anni ottanta, a
New York,quando due clown professionisti, impiegati al Big Apple Circuì, fondarono “The Clown
Care Unit”. L’obiettivo era quello di portare il sorriso e la fantasia negli ospedali pediatrici. In
questo caso si trattò di veri e propri clown o artisti di strada che, in collaborazione e sotto lo stretto
controllo dell’autorità sanitaria,effettuavano con regolarità interventi negli ospedali o in altre
strutture sanitarie. Oggi questa fondazione senza scopo di lucro ha sviluppato le sue attività nel
territorio dello stato di New York, dove è attiva con 35 clow-dottori in sette ospedali. Esistono due
sostanziali modalità di fare comico terapia negli ospedali: uno di tipo più passivo per il paziente che
consiste nel far intervenire nelle corsie dei clown o dei comici utili per la situazione di svago, l’altra
più attiva consiste nell’allestire un vero e proprio reparto di terapia del sorriso in cui il paziente
viene stimolato a trovare la sua vena comica attraverso vari esercizi basati su tecniche di
improvvisazione teatrale e yoga della risata. La comico terapia attiva cerca di far attivare la persona
stessa con il suo proprio umorismo, mobilitando le sue risorse attraverso laboratori ludici e
umoristici, cerca di far emergere o sviluppare quella parte comica che abbiamo in “dotazione”. Per
dirlo con le parole di Freud, serve a tirar fuori la parte bambina che è in ognuno di noi.
1.4
Come dovrebbe essere un reparto della terapia della risata
Secondo un’indagine condotta a Savona dall’istituto M.G.Rossello è stato stilato un decalogo dagli
allievi che per due anni hanno focalizzato l’attenzione sui bambini ospedalizzati, dopo un percorso
fatto di incontri in corsia, di interviste e di analisi dei disegni fatti dai bambini degenti.
Ci è sembrato interessante sottolineare alcuni punti che descrivono come i bambini vorrebbero che
fosse il loro ospedale ideale: al terzo punto i piccoli affermano che vorrebbero un ospedale colorato,
allegro, grande, pulito con tanti giochi e giardini, costruito in città,così i loro amici e parenti
potrebbero andare a trovarli più spesso,sarebbero contenti se il cibo dell’ospedale fosse come a
casa. Al quinto punto i bambini esprimono il bisogno di avere tanti posti adatti alla loro età e alla
loro malattia, dove poter giocare da soli o in compagnia quando lo desiderano. Sarebbe divertente
se l’ospedale organizzasse giochi, spettacoli anche con le marionette, i clown, o altre cose divertenti
per tutti i bambini e i loro genitori. Al nono punto dichiarano il bisogno che i dottori devono essere
anche amici, gentili e buoni nei loro confronti, devono essere preparati a capire, oltre ai loro
problemi fisici, quello che provano e pensano durante le giornate in ospedale. Avrebbero meno
paura se le siringhe, i camici e tutti gli oggetti ospedalieri fossero colorati e nascosti alla loro vista.
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10
Per funzionar bene un reparto del genere ha bisogno di una grande stanza accogliente, una pedana,
fruibile praticamente sempre dove sia possibile anche la visione e consultazione di materiale
comico-umoristico (libri, riviste, audio e video). Un paio di volte alla settimana si potrebbe svolgere
dei laboratori di comico-terapia indirizzati ai pazienti, i quali possono ri-crearsi e ricevere stimoli di
riflessione anche sulla propria condizione di ammalato. Un intervento su base quindicinale di
comici e cabarettisti professionisti e volontari, che potremmo definire “Medici della risata”, e
eventuali gite all’estero, a teatro e al cinema, oltre a collegamenti internet con altre realtà analoghe
nel mondo, completerebbero questo modello di comico-terapia. Si aggiunga il fatto che la stessa
struttura potrebbe servire anche per il personale medico e paramedico il quale frequenterebbe dei
corsi e laboratori di terapia del sorriso che servirebbero a stemperare tante tensioni e a combattere
lo stress tipico di un lavoro strettamente a contatto con realtà di sofferenza quotidiana.
Gli effetti positivi di una tale iniziativa potrebbero essere misurati e controllati attraverso semplici
analisi sui pazienti per verificare il livello di funzionalità del sistema immunitario o quello di
consumo di farmaci antidolorifici. Riguardo al personale sanitario, la misurazione degli effetti potrà
essere verificata sui cambiamenti nelle relazioni con i pazienti e in quella tra colleghi e personale
ospedaliero in generale.
Quella di un reparto di Terapia della Risata, non è pertanto un’idea così complicata da realizzare ed
è pure a costi contenuti.
Con questo breve excursus sui bisogni del bambino vogliamo riflettere sul concetto che l’identità
professionale di medici e infermieri è ancora troppo radicata sul modello di “distacco
professionale”, di maschera di fiducia e imparzialità, invece i bambini stessi con una forza
disarmante esprimono il loro bisogno di allegria e divertimento a discapito del dolore, della malattia
e della morte.
CAPITOLO 2 – Pareri autorevoli sulla terapia del sorriso
2.1
Il riso secondo Bergson e Berger.
Se si scompone il termine terapia del sorriso si osserva che il suo significato riguarda l’uso del
ridere come strumento terapeutico. Due nomi illustri dello scenario filosofico e sociologico hanno
trattato il tema del riso. Bergson nel testo “Il riso. Saggio sul significato del comico”, osserva la
dimensione squisitamente umana dell’attività della risata affermando che non v’è nulla di comico al
di fuori di ciò che è propriamente umano. Il riso per quanto schietto lo si creda, cela sempre un
pensiero nascosto d’intesa, si direbbe quasi di complicità, con altre persone che ridono, reali o
immaginarie che siano. Da ciò Bergson fa derivare il comico: “il comico nasce quando gli uomini
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11
riuniti in un gruppo dirigono l’attenzione su uno di loro, facendo tacere la loro sensibilità ed
esercitando solo la loro intelligenza”. Il comico per essere tale esige qualcosa come un’anestesia
momentanea del cuore: si dirige alla pura intelligenza. Utilizzando questa facoltà mentale ha però
bisogno del gruppo per potersi confrontare, definendo necessariamente il bisogno di contatto con
altri. Il ridere non è mai isolato, ha bisogno di una eco prodotta da altra gente. Dalle parole di
Bergson si è compreso l’intimo bisogno dell’uomo di non vivere in isolamento per beneficiare dei
positivi effetti di tutto ciò che è il vivere sociale. Gli strumenti per produrre la risata sono gli
atteggiamenti umani che per svariate ragioni si scostano dal comune senso di conformismo che
appartiene a qualsiasi società.
P. Berger nel testo “Homo Ridens. La dimensione comica dell’esperienza umana” analizza la natura
della comicità come esperienza umana non sottovalutabile. Attraverso una serie di riflessioni
l’autore arriva alla conclusione che l’umorismo rappresenta una costante universale seppur
storicamente e culturalmente relativa. In un passo del volume citato vi è l’accenno che l’autore
compie a proposito dei clown. Egli afferma che: “i bambini trovano un’immediata identità con i
clown e il loro mondo. Si potrebbe azzardare che conoscano qualcosa che i più grandi hanno
dimenticato”. Il successo di questo personaggio è legato all’atto di procurare il riso all’interno di
una situazione di estrema ansia. Egli usa l’acrobazia come i suoi colleghi atleti ma li
sbeffeggia,mettendo a rischio la propria vita. Il clown possiede inoltre delle virtù magiche che
creano un’oasi nell’ambito della razionalità moderna e si riallacciano al giardino incantato
dell’infanzia. Il pagliaccio rappresenta così, una comicità innocente, mostrando il suo “fanciullino”
e abbandonando gli stereotipi sociali della vita adulta. Ecco che il comico, come appartenente al
quotidiano, rappresenta un impulso proibito socialmente riconosciuto. Il paradosso di tutto ciò è
l’identificazione con una società sempre più seria e rigorosa che delimita il potere dell’umorismo
esclusivamente a momenti estemporanei.
2.2 Le esperienze positive di Norman Cousins.
Il buonumore ed i suoi potenziali effetti favorevoli attirano l’attenzione della medicina ufficiale e
del pubblico con l’uscita del racconto di Norman Cousins. Nessuno meglio di questo giornalista
americano ha saputo testimoniare come sia possibile guarire grazie al concorso di alcuni determinati
fattori positivi. Nel suo libro “Anatomy o fan illness”,pubblicato nel 1979, Cousins racconta della
propria avventura con una forma particolare di spondilite anchilosante che lo costrinse in
ospedale,provando atroci dolori, con una prognosi infausta di pochi mesi. Il giornalista
documentandosi sulle ricerche più recenti che sottolineavano il ruolo dello stress e della depressione
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sulla produzione di reazioni chimiche negative nell’organismo,ipotizzò che potessero esistere
emozioni positive che producessero reazioni chimiche favorevoli. Sulla base di questa ipotesi, e con
il supporto del medico curante,modificò l’ambiente circostante: si trasferì dall’ospedale in un
albergo,decise di interrompere il trattamento con gli analgesici per assumere alte dose di vitamina
C, per le sue potenzialità antinfiammatorie e per il valore coadiuvante del sistema
immunitario,inoltre si fece proiettare ogni giorno film con l’esilarante comicità dei fratelli Marx e
vecchi filmati di candid camera. Constatò che la risata agiva da potente analgesico e che questa
stimolava una decelerazione del processo di eritrosedimentazione. Nel giro di alcuni mesi Norman
Cousins guarì e come ricorda,alla fine del libro, incontrando uno dei medici che lo aveva dato per
spacciato, lo salutò stringendogli la mano tanto forte da arrecare dolore al medico ma solo per
sottolineare la propria totale guarigione. Questa è ovviamente, solo la storia di un caso clinicamente
ben descritto. Un unico caso non ha certo potere dimostrativo, ma la storia di Cousins attirò sul
buonumore l’attenzione dei diversi studiosi.
2.3
Fisiologia della risata e i suoi effetti.
La condizione che porta al ridere viene captata dai nostri sensi che inviano la comunicazione a
quella parte del cervello (porzione del talamo nuclei lenticolari e caudali) deputata
all’individuazione dello stimolo risorio. Successivamente alla risata ed al respiro profondo che ne
consegue, ha luogo uno stato di rilassamento in cui avviene una modificazione della composizione
del sangue. Tale modificazione è determinata dal rilascio di un neurotrasmettitore,l’endorfina,
denominata anche “oppioide endogeno”. L’endorfina determina quattro effetti benefici: calmante,
antidolorifico, euforizzante e immunostimolante. Dalle cellule helper ai natural killer, tutti ricevono
stimoli attivanti aumentando così la risposta immunitaria. William Fry è stato uno dei promotori che
più entusiasticamente si è impegnato per dare uno status scientifico a questo campo. Fry evidenziò
che la risata è un atteggiamento comune a tutta la specie umana, il che fa supporre ad una
predisposizione genetica. La risata ha un pattern generalmente di attivazione o stimolazione ed è
seguito da un periodo refrattario o di rilassamento. La fase stimolatoria si manifesta con l’aumento
della funzionalità e dell’attività di vari sistemi corporei. Il battito cardiaco si accellera, la pressione
sanguigna aumenta, aumenta la ventilazione polmonare, i muscoli scheletrici si esercitano, il
cervello mostra un’attività elettrochimica tipica degli stati di vigilanza più alti. Diminuisce la
percezione del dolore,viene stimolata la produzione ormonale e aumenta la funzionalità degli
elementi immunitari circolanti. (Fry, 1994, pag 114.). Al contrario durante la fase di rilassamento si
denota abbassamento della pressione arteriosa e del battito cardiaco, l’attività muscolare e
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
13
respiratoria rallentano. L’aspetto importante della fase di rilassamento è che il sistema immunitario
non partecipa a questa diminuzione di attività, a distanza di ore si rilevano ancora gli effetti della
stimolazione immunitaria.
In più c’è da sottolineare il fatto che se noi ci abituiamo a reagire in un certo modo di fronte a una
notizia o un evento è anche dovuto al fatto che fisiologicamente, a forza di continui stimoli di un
certo tipo, i punti di contatto tra neuroni aumentano di volume e di sensibilità, accorciando distanza
e tempo di trasmissione del messaggio. In pratica più sono i passaggi, più il sentiero diventa
autostrada e più diventiamo abitudinari, in quanto è più facile passare di lì, meno fatica si fa.
La risata, in sintesi, a livello fisiologico provoca la seguente serie di fenomeni:
•
Aumenta il rilassamento;
•
La circolazione sanguigna è più abbondante;
•
La capacità dei polmoni aumenta;
•
Contribuisce alla guarigione delle malattie da stress (cuore, pressione, insegna)
Attraverso numerosi studi si è arrivati alla conclusione che ridere rallenta la produzione di sostanze
che, con il passare del tempo, indeboliscono il sistema immunitario, tra cui il cortisolo, ormone
tipico dello stress. Oltre ad abbassare il livello di sostanze dannose, ridere aumenta anche la
produzione di quelle che hanno effetti positivi sull’organismo, come le beta endorfine che hanno un
potente effetto analgesico. I fisiologi muscolari hanno dimostrato che ansia e rilassamento
muscolare non possono coesistere e che dopo un’intensa risata la risposta di rilassamento può
durare fino a quarantacinque minuti. La funzione depurativa del ridere consiste nell’eliminare
anidride carbonica, ri-ossigenando completamente l’organismo.
Malgrado gli studi eseguiti per dimostrare l’effetto positivo della risata, lo stesso Fry, conclude
dicendo: A prescindere dall’ampiezza del sostegno di cui gode il movimento, non c’è evidenza di
laboratorio,statistica, analitica, o comunque scientifica sufficiente a giustificare l’enorme livello di
entusiasmo per gli usi dl buonumore nel contesto della salute,in effetti, ci sono molte ricerche ben
impostate in corso e ci aspettiamo che producano i dati che serviranno a convalidare ciò che la
maggior parte delle persone già crede per quanto riguarda i rapporti tra buon umore, salute,
sopravvivenza e qualità della vita. (Fry, 1994, pag 119.).
2.4
Che cosa succede a livello psicologico
Da un punto di vista psicologico, il riso, come dice Freud, è uno starnuto mentale in grado di
liberare la mente; la battuta istituisce un canale di sfogo molto utile a liberare l’energia che
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
14
impegnamo nel tenere sotto controllo qualche nostro contenuto inconscio (paure, preoccupazioni,
ecc.).questa liberazione dalla tensione, e il rilassamento che ne consegue, provocano piacere.
Dopo aver riso o anche dopo aver pianto, non importa se per il troppo riso o per la sofferenza e
dolore psichico, ci sentiamo meglio. Il valore comunicativo e sociale del ridere è anche dimostrato
dagli organi e apparati coinvolti. Infatti si ride sempre a bocca aperta, emettendo aria, grazie
all’azione di espirazione della cassa toracica, mentre il piangere è costituito da una serie di
inspirazioni, interrotte continuamente da contrazioni improvvise diaframmatiche. Quindi il ridere è
una sorta di estroversione della libido, mentre il pianto ne rappresenta l’ introversione.
L’umorismo, la comicità e il riso, sono potentissimi elementi di ristrutturazione del campo interno,
una formidabile opportunità per ribaltare situzioni problematiche e ansiogene.
Nella condizione umoristica si raccoglie una totalità di elementi molto vasti,il rapporto con il
prossimo, la comunicazione, la facoltà di gestire una condizione, tutte componenti che hanno
chiaramente un effetto multiforme sulla persona morente e sulla famiglia che lo assiste.
A livello psicologico
•
Mette in uno stato mentale positivo;
•
Migliora l’abilità di gestire situazioni difficili, perché accorcia le distanze tra le persone;
•
Rende più estroversi;
•
Migliora l’autostima e fa diminuire la timidezza;
•
Sviluppa il senso dell’ humor;
•
È una forma di meditazione perché quando si ride non si pensa a nient’ altro: il ridere aiuta a
fermare il continuo flusso di pensieri e fa essere presenti nel momento attuale;
•
allena a recuperare visceralmente quell’atteggiamento di pensiero positivo nei confronti
della vita.
Il ridere nella sua stupefacente successione di valenze per l’essere umano è stato valorizzato
attualmente proprio da una disciplina: la psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI), una moderna
scienza in grado di rapportare alcuni aspetti della funzione immunitaria con determinate
manifestazioni psicologiche. Uno dei suoi enunciati fondamentali afferma che gli elementi
psicologici possono incidere nel determinare molteplici malattie. Secondo la PNEI, la nostra vita
psicologica, mediante le vie del sistema nervoso, controlla la secrezione di sostanze (il cortisolo
come le endorfine) le quali, a lungo andare, fanno diminuire o aumentare le difese immunitarie.
Elementi puramente psicologici, operano di conseguenza, su fattori biologici.
Nella relazione d’aiuto tra infermiere e bambino l’uso dell’umorismo e del riso possono sviluppare
molteplici effetti psicologici benefici, ad esempio: sviluppare la relazione terapeutica e la
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
15
comunicazione, aiutando il bambino e i suoi familiari a esprimere le proprie paure, i propri
timori;neutralizzare gli effetti dell’ansia; diminuire la distanza tra operatori sanitari e malati. Inoltre
l’utilizzo del ridere può essere basilare anche per gli stessi operatori, per sostenere nel migliore dei
modi l’impatto emotivo conseguente alla relazione con il bambino malato e con i suoi familiari.
CAPITOLO 3. Prove di efficacia inerenti la terapia del sorriso.
3.1 Buon umore e sorriso in cure palliative: indagine etnografica.
I primi studi effettuati sulla terapia del sorriso hanno chiarito che esistono delle vie che connettono
fisicamente il sistema nervoso centrale (S.N.C.) ed il sistema immunitario, inoltre cambiamenti
indotti chimicamente nel S.N.C. provocano cambiamenti del sistema immunitario, questo dimostra
che il buon umore e l’ilarità può influire positivamente sul sistema immunitario. Dalla ricerca
condotta su Pub med, banca dati scientifica che contiene studi anche a livello infermieristico,
abbiamo rintracciato uno studio che dimostra come la terapia del sorriso nel setting ospedaliero sia
molto presente. La ricerca “Humor and laughter in palliative care: an ethnographic investigation” è
stata condotta in Canada nel 2004 presso l’Università di Manitoba. Lo studio ha visto gli infermieri
di cure palliative, che lavorano in un contesto di serietà e affrontano situazioni molto delicate,
sperimentare l’umorismo e la risata verificando come questi aiutino a creare un clima sereno
alleviando la tensione dei pazienti, delle loro famiglie e non per ultimi degli infermieri. Lo studio
etnografico è stato condotto su trenta degenti nell’unità di cure palliative. La ricerca ha enfatizzato
l’esperienza soggettiva e la relazione comunicativa tra pazienti e caregivers. I dati sono stati raccolti
attraverso l’osservazione dei partecipanti, interviste informali con pazienti e familiari; con i membri
dell’equipe multidisciplinare sono state usate interviste semistrutturate. I risultati hanno dimostrato
che l’umorismo e la risata hanno implementato diverse funzioni: costruire relazioni terapeutiche
efficaci, proteggere la dignità e il valore della vita, affrontare situazioni stressanti. Il significato dei
risultati si inserisce nel concetto di “umanizzare” la dimensione di cure palliative e contribuisce ad
aumentare il numero di ricerche basate su prove di efficacia. (Abstract)
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
16
3.2 L’ospedale Meyer di Firenze: il primo studio scientifico randomizzato.
Nel 2005 il primo studio scientifico internazionale è stato realizzato all'Ospedale Pediatrico Meyer
di Firenze,dove si è dimostrato che la risata riduce dolore e stress nei bambini sottoposti a
intervento chirurgico. Un gruppo di ricercatori dell’Ospedale Pediatrico Anna Meyer di Firenze ha
documentato che è possibile ridurre l’ansia dei bambini sottoposti ad intervento chirurgico grazie
all’aiuto dei clown-dottori. Questo lavoro è stato ora pubblicato sulla prestigiosa rivista statunitense
"Pediatrics" e pubblicato sul sito di pub-med come studio randomizzato. È risaputo che l’anestesia
e l’intervento possono essere vissuti come paurosi e stressanti dai bambini, si stima che il 60% di
questi soffra di ansia preoperatoria, considerata anche fattore predittivo di disturbi post-operatori.
Nella ricerca condotta dal servizio Terapia del Dolore dell'Ospedale Pediatrico Meyer, sono stati
studiati 40 bambini, da 5 a 12 anni, che dovevano sottoporsi ad intervento di chirurgia minore in
day-surgery, di cui la metà (selezionata casualmente) era accompagnata in sala preoperatoria da 2
clown-dottori e da un genitore, mentre l’altra metà era portata soltanto da un genitore (come di
routine). Nel "gruppo sperimentale" due clown conoscevano il bambino in reparto, trascorrendo
insieme circa 15-20 minuti, per poi accompagnarlo fin dentro la sala operatoria, dove il bambino
veniva addormentato dagli anestesisti, mentre era distratto da giochi e magie dei clown.
Tramite specifici test psicologici è stata misurata l’ansia del bambino e del genitore e sono state
fatte interviste a genitori, clown, nonché a medici e infermieri della sala operatoria.
I risultati indicano che l’ansia dei bambini accompagnati dai clown diminuisce quasi del 50%
rispetto a quando sono senza la presenza dei clown. Inoltre i bambini con i clown non presentano un
innalzamento della paura all’avvicinarsi dell’anestesia, come invece succede a quelli senza il
supporto dei clown .Anche i genitori hanno espresso nelle interviste parere positivo per l’iniziativa,
poiché s anche loro sono distratti e rilassati dall’ allegro intervento dei clown. Tuttavia emerge un
limite in questo studio, espresso proprio dal personale sanitario della sala operatoria che, pur
trovando un grande aiuto dai dottori clown, vede in maniera un po’ critica l’invasione delle sale
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
17
operatorie da parte di personale che normalmente non ne fa parte. Tuttavia anche anni fa esisteva lo
stesso problema con i genitori,i quali non erano ammessi in sala operatoria adesso invece vi
entrano sempre con il proprio bambino. Questa ricerca, tra le prime al mondo in questo ambito, ha
quindi evidenziato l’importanza del gioco e del ridere per i bambini in ospedale, dimostrando
scientificamente che ridere aiuta i piccoli pazienti ad affrontare il dolore e lo stress, agendo
direttamente su ansia e paura.
CAPITOLO 4. Le cure palliative e la terapia del sorriso.
4.1
L’infermiere e il bambino terminale
Una questione che desta profondo interesse è rappresentata dal rapporto comunicativo ed espressivo
che intercorre tra l’operatore sanitario e il bambino malato. Per l’infermiere il punto di partenza è il
sorriso –
comunicazione non verbale – che rappresenta l’espressione di autentico e genuino
interesse per il piccolo che ha di fronte. L’impatto con il bambino terminale è molto difficile,
nascono incosciamente nell’operatore sanitario delle barriere difensive per non essere sconvolto nel
proprio intimo. L’obiettivo delle cure palliative al bambino non guaribile è di portare ad un
miglioramento della qualità di vita possibile per il malato e nel sostegno quando la morte si
avvicina, ponendo sempre al centro il malato, la sua autonomia decisionale ed il suo mondo di
esperienze. Nell’assistenza al morente vengono a crearsi nuovi bisogni, secondo Bennere e Wrudel
“prendersi cura è essere nel mondo”. Con tale espressione, si intende sostenere che il malato
percepisce che qualcuno si sta occupando di lui e che il professionista, impegnato nella cura del
paziente, si rende conto di entrare nella sofferenza del malato. L’introduzione della terapia del
sorriso nel campo delle cure palliative nel bambino malato si riconduce alla visione olistica
dell’uomo, secondo cui psiche, corpo ed anima rappresentano un’inscindibile unità. Il sorriso ed il
riso attraverso i suoi effetti fisiologici e psicologici mira ad alleviare il dolore e l’angoscia di un
evento difficile e in taluni casi irreversibile. Sorridere diventa una competenza da rintracciare nella
sfera del saper essere e del saper divenire, propria dell’infermiere. "Prendersi cura con amore"
attraverso l'impostazione di un clima di serenità e di buon umore teso ad alleviare gli stati d'animo
di paura e insicurezza nei pazienti e nei suoi familiari di fronte alla malattia è l’ottica del porsi
sempre in relazione con l’altro e di voler comunicare positivamente. Il bambino può cercare una
risata, può ricercare disperatamente un momento di distacco dalla realtà, dalla sofferenza che vive
in prima persona. Il personale sanitario deve lavorare per favorire da un lato, una relazione d’aiuto
sempre rispondente ai bisogni del piccolo, dall’altra attenuare
le sofferenze attraverso un
messaggio di sorriso e riso. La risata è un ottimo antidoto a tristezza e depressione, perché, essendo
lo spazio più breve tra due persone, crea un contatto, ed è talmente profondo questo incontro che,
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
18
talvolta, non è richiesta “la risata”, ma “solo e soltanto” un po’ di compagnia. L’assistenza
infermieristica palliativa costituisce un luogo concreto dove sperimentare le capacità di utilizzare in
termini “creativi” le conoscenze e di adottare comportamenti flessibili, capaci di adattarsi alle più
diverse e complesse situazioni assistenziali. Essa rappresenta una delle strade sulla quale la
professione infermieristica si è incamminata in questi ultimi anni. Il prendersi cura degli aspetti biofisiologici, psicologici, socio-culturali e spirituali in una dimensione olistica concretizza l’obiettivo
della personalizzazione dell’assistenza al malato accompagnandolo serenamente alla morte Dice
Patch Adams: “…i mali che affliggono la maggior parte dei malati, come la sofferenza, la morte e
la paura, non possono essere curati con una pillola. I medici devono curare le persone non le
malattie.”.
4.2
Il valore intrinseco della terapia del sorriso
L’OMS definisce le cure palliative pediatriche come l’attiva presa in carico globale del corpo, della
mente, dello spirito del bambino e che comprende il supporto attivo alla famiglia. (Cancer Pain
Relief and Palliative Care in Children. WHO-IASP.1998). Il minore con patologia cronica severa
senza possibilità di guarigione e/o con disabilità rilevante e/o terminale è un paziente elettivo per le
cure palliative. Uno studio appena concluso in Veneto ha evidenziato, attraverso l’analisi
retrospettiva delle SDO e dei dati di mortalità nei pazienti pediatrici negli ultimi cinque anni (20002004), una prevalenza di quindici minori su diecimila con richieste di “approccio palliativo” e sette
su diecimila con necessità di “cure palliative specialistiche”.
Infatti circa 1.200 minori/anno
necessitano di cure palliative pediatriche,650 dei quali presentano una patologia cronica inguaribile
con condizioni particolarmente severe: 60 di essi sono deceduti nel corso di ciascun anno preso in
considerazione. Questi decessi sono avvenuti quasi tutti in ospedale e, in precedenza,solo il 15% dei
soggetti aveva potuto godere di un’Assistenza Domiciliare Integrata.( Ministero della Salute,Cure
Palliative Rivolte al Neonato,Bambino, Adolescente,Documento Tecnico.). Nell’immaginario
comune spesso si tende a credere che le malattie riguardanti l’adulto siano più gravi e nefaste
rispetto a quelle che possono colpire un bambino. Sulla base di questo familiari, medici, infermieri
inibiscono le proprie capacità di dare assistenza, di capire e di dialogare con il bambino
malato,soprattutto se in una situazione di inguaribilità. Patch Adams,il fautore della terapia del riso,
ha scritto nel 1999: “Sembra che la morte rappresenti un fallimento terapeutico. Siamo qui per
aiutare le persone a vivere la più alta qualità di vita e, quando non è più possibile, per facilitare la
più alta qualità di morte. Ogni volta che trascorro del tempo con una persona che sta morendo trovo
in effetti una persona che vive. I giovani vicino alla morte sono stati molto efficaci nell’esprimerlo.
Ricordo una bambina di undici anni che aveva un tumore alle ossa del viso molto esteso, con un
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
19
occhio che galleggiava nella massa. La maggior parte delle persone trovava difficile stare con lei a
causa del suo aspetto. Il suo dolore non era dovuto al fatto che stava morendo, ma alla solitudine
dovuta all’essere una persona che non si riusciva a guardare. Noi due giocammo,scherzammo e
godemmo della sua vita finchè non si spense. Era una persona viva e che sentiva il disagio che la
gente dimostrava per la sua morte. Questo disagio, diceva,interferiva con la sua vita. Morire è il
processo che inizia pochi minuti prima della morte,quando il cervello viene privato dell’ossigeno,
tutto il resto è vivere.” Nei bambini la scoperta di essere malati comporta delle modificazioni a
livello comportamentale, dovute ad una sorta di reazione che passa dalla fase di stupore iniziale a
forme di negazione, regressione, aggressività e via via fino all’accettazione. A questo punto può
sembrare inadeguato, o addirittura ipocrita, proporre la terapia del ridere, poiché rappresenterebbe,
secondo alcuni, un ulteriore tentativo di nascondere la realtà al bambino. Al contrario, l’umorismo e
la risata possono essere usati come strumento per far emergere emozioni e sentimenti autentici,in
modo meno doloroso, permette di esprimere le paure e i timori diversamente taciuti. La figura
infermieristica, attraverso la terapia del ridere, trae vantaggio e migliora nella qualità quando riesce
a costruire una relazione autentica con il bambino. L’infermiere si scrolla di dosso l’immagine di
serio e professionale, interagisce sul piano delle emozioni. Nelle pratiche sanitarie la terapia del
sorriso allevia l’ansia, la paura dei piccoli malati,i loro occhi sono grandi e guardano il mondo
senza filtri amano chi li ama e temono chi li spaventa. Il reparto asettico, le siringhe sul carrello, le
minestre non sono come quelle della mamma, le differenze e le mancanze che avvertono sono così
grandi che un adulto, un infermiere o un medico non può comprenderle fino in fondo, non sono più
bambini. Prendersi cura di un bambino non è solo un fatto specificatamente professionale,
l’operatore sanitario deve arrivare alle corde più intime di un bambino, a ciò che sono, a ciò che
rappresentano nella loro quotidianità, aiutandoli a camminare ogni giorno attraverso la malattia e
anche quando il male è ormai incurabile, a sorridere a ridere. Il valore intrinseco della terapia del
riso,al di là delle revisione scientifiche, risiede nella sua capacità di liberare per un periodo di tempo
dalla serietà angosciante della malattia. Ridere distrae e fa evadere dalla quotidianità, la risata
incarna una dimensione priva di sofferenza (Berger, 1999.).
4.3
La comunicazione con il bambino morente
Naturalmente uno degli aspetti più difficili e delicati in questo settore è rapportarsi al bambino che
sta morendo. Fino alla pre-adolescenza i bambini generalmente comprendono la morte ad un livello
diverso da quello degli adulti e hanno un modo del tutto personale di esprimere la loro conoscenza e
le loro emozioni riguardo alla morte, indipendentemente dal livello cognitivo e di sviluppo
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
20
raggiunti. Tuttavia è stato visto che i bambini con tumore spesso raggiungono una comprensione di
cosa significhi la morte a un età più giovane dei loro coetanei sani.
Spesso è difficile trovare il momento giusto per iniziare a comunicare con il bambino sulla sua
situazione, in quanto vanno rispettati i meccanismi di negazione della famiglia e certi preconcetti
culturali.
La reazione emotiva del bambino morente deve essere gestita e condivisa: è importante che
l’infermiere lo aiuti a esprimere i sentimenti di rabbia, paura, tristezza, solitudine e a manifestare
ansie e angosce . se il bambino preferisce parlarne con la famiglia gli operatori sanitari dovranno
preparare e sostenere i genitori e garantire loro un supporto continuo per impedire che possano
sentirsi soli e abbandonati, inoltre nei casi in cui la morte è inattesa, l’infermiere e l’equipe curante
dovranno essere pronti ad aiutare i famigliari a superare il lutto e i sensi di colpa con un percorso
assistenziale che prosegue anche dopo la morte.
Ogni intervento terapeutico deve essere considerato all’interno degli obiettivi, delle aspettative del
bambino e della sua famiglia e come le scelte terapeutiche possono variare a seconda del progredire
della malattia, anche le decisioni del paziente possono essere modificate. Discussioni e confronti
continui nell’equipe possono facilitare questi cambiamenti. Lo scopo è di aggiungere vita agli anni
del bambino e non anni alla sua vita. Il compito di aiutare un bambino a passare attraverso e nella
fase terminale di una malattia è estremamente faticoso e doloroso sia da un punto di vista emotivo
che pratico e i valori personali, filosofici e culturali della famiglia e dei componenti dello staff di
assistenza condizionano l’evolversi della situazione.
4.4
Le raccomandazioni per le cure palliative del bambino
Nel 1999 viene pubblicato un documento che fornisce le "raccomandazioni" per l’assistenza
sanitaria al bambino alla fine della vita, a cura di un gruppo di studio nell’ambito della SIOP, la
Società Internazionale di Oncologia Pediatrica.
I suggerimenti proposti si riferiscono a 2 periodi della fase terminale della vita di un bambino che
muore di tumore:
1. il primo periodo è quello in cui il trattamento è giudicato non aver più efficacia e quindi ci si
deve muovere da un intervento curativo ad una fase palliativa di contenimento della
malattia;
2. il secondo periodo è quello che va dall’inizio delle cure palliative alla morte del bambino e
oltre.
1 Periodo
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
21
I suggerimenti proposti per assistere il bambino nella prima fase, durante il passaggio
dall’assistenza curativa a quella palliativa, sono i seguenti:
•
ogni Centro deve sviluppare una filosofia uniforme sui problemi chiave dell’assistenza al
bambino in fase terminale (comunicazione, sostegno, controllo del dolore e dei sintomi...);
•
nel processo decisionale devono essere coinvolti tutti i membri dell’equipe assistenziale, i
genitori del bambino, il pediatra di famiglia e se, possibile, anche il bambino. Il bambino
dovrebbe conoscere quanto più possibile la serietà della situazione in base all’età e al livello
di maturità, tuttavia se desidera rimanere meno informato, il suo desiderio va rispettato e
qualunque informazione dovrebbe comunque lasciare un margine di speranza;
•
i desideri dei genitori possono non essere sempre volti al miglior interesse del bambino e
talvolta accade che tentando di proteggerlo gli creino ancora più paure. In questi casi è
essenziale discutere e cercare di capire le ragioni dei desideri dei genitori;
•
dovrebbe essere evitata l’ostinazione a un trattamento curativo quando la guarigione non è
più possibile ("accanimento terapeutico").
2 Periodo
Nella fase successiva, per assistere il bambino terminale nel periodo di cura palliativa e per assistere
la famiglia dopo la morte, i suggerimenti dati dal gruppo di studio prevedono ulteriori e più
specifici punti:
•
le decisioni mediche, riguardanti il controllo del dolore fisico e psicologico e tutti i sintomi
emergenti devono essere prese non da un solo medico, ma dall’intera equipe;
•
i bambini che desiderano stare a casa dovrebbero essere assecondati il più possibile e
insieme ai genitori dovrebbero essere loro gli ultimi arbitri della decisione. Alcuni genitori
non desiderano che il loro figlio muoia a casa, invece per quelle famiglie che scelgono
questa strada il medico dovrebbe assicurare un sostegno continuo direttamente
dall’Ospedale o attraverso servizi di supporto (UCP, Hospice, infermieri a domicilio...);
•
i genitori e i membri dell’equipe di assistenza devono ascoltare il bambino e riflettere su ciò
che comunica verbalmente e non;
•
il medico e gli altri membri dell’equipe devono offrire visite di controllo e chiamate
telefoniche in modo che il bambino e la famiglia non si sentano abbandonati;
•
nel periodo che segue la morte del bambino dovrebbero essere promossi incontri tra i
membri dell’equipe e i familiari del bambino (e quando l’età lo consente i fratelli) in modo
da chiarire insieme il percorso effettuato e a elaborare meglio il lutto. Dovrebbe essere
anche possibile fornire un sostegno psicologico professionale a quei genitori che lo
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
22
richiedano, con sedute di consulenza e controlli offerti nel tempo. Sarebbe auspicabile
comunque mantenere per un certo periodo un contatto con la famiglia, magari nelle
ricorrenze significative (compleanno, anniversario della morte, ecc.);
•
i centri di cura dovrebbero incoraggiare i genitori e i fratelli in lutto a organizzare gruppi di
auto-aiuto;
•
dopo la morte del bambino la sua storia medica dovrebbe essere ripercorsa e rianalizzata,
riflettendo sulle scelte fatte per trarne esperienza per le future famiglie;
•
l’èquipe di assistenza del centro dovrebbe essere preparata a modificare i propri obiettivi
filosofici e risistemare direttive e linee guida quando necessario, basandosi su alcune
revisioni critiche dei singoli casi e sui commenti/critiche dei genitori.
Ulteriori indicazioni sulla presa in carico del bambino in fase terminale sono state fornite
recentemente in ambito internazionale. L’ American Academy of Pediatrics (AAP) ha infatti
pubblicato nel 2000 un articolo in cui specifica le linee guida per le cure palliative al bambino e
stabilisce che lo scopo è quello di garantire la migliore qualità di vita per i pazienti e le loro
famiglie. La AAP sostiene un modello integrato in cui le cure palliative sono offerte a partire dalla
diagnosi e continuano nel corso della malattia sia che questa evolva verso la guarigione o verso la
morte. Se le cure palliative vengono destinate solo al bambino che sta morendo o che è in fase
terminale, gli altri pazienti che potrebbero trarne alcuni benefici non avranno la possibilità di
riceverli. Il momento della morte è difficile da predire e se la vicinanza dalla morte è utilizzata
come criterio per l’applicazione delle cure palliative, allora alcuni bambini potrebbero morire senza
i benefici delle cure palliative e del trattamento individualizzato.
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
23
CONCLUSIONE
La consapevolezza della morte induce un’attenzione più acuta alla qualità della vita ed alla
sofferenza di chi sta per morire. Come riporta Spinsanti “la medicina delle cure palliative è e
rimane un servizio alla salute. Non dunque una medicina per il morente e per aiutare a morire, ma
una medicina per l’uomo, che rimane un vivente fino alla morte” (Spinsanti, 1988).
Alla base di questa filosofia resta sempre il rispetto dell’essere umano sofferente, l’attenzione al
dettaglio, a tutto quello che si può e si deve fare quando "non c’è più niente da fare"; vi è
l’attenzione alla vita del paziente, anche se brevissima, privilegiandone gli aspetti qualitativi e
arricchendo ogni suo istante di significati e di senso; la capacità di ascoltare, dare presenza,
restaurare i rapporti umani ed entrare in rapporto emotivo con pazienti e familiari. Infine, una
corretta "filosofia" nell’approccio palliativo deve comprendere la capacità di saper riconoscere i
propri limiti come infermieri, recuperando il senso profondo della medicina come scienza ed arte
per la salute psicofisica dell’essere umano.
Queste nozioni richiedono un nuovo tipo di educazione accademica a livello universitario e postuniversitario (Hillier, 1998; Kearney, 1992). La preparazione di infermieri è più che mai necessaria.
Non si intende medicalizzare la morte, ma offrire un aspetto umano a situazioni disumane finora
trascurate e viste con indifferenza. Parlare invece di curare, di qualità di vita, di impatto della
malattia e/o dei trattamenti, di controllo dei sintomi, significa richiamarsi ad un modo diverso di
intendere la realtà. La malattia non è soltanto il fenomeno morboso in quanto tale, ma anche e
particolarmente l’esperienza che il soggetto ha di questo fenomeno ed in particolare i vissuti di
sofferenza, dolore, stanchezza, le paure, gli aspetti psicologici e relazionali. Da queste
considerazioni è nata l’esigenza di proporre un’assistenza peculiare soprattutto per i malati di
cancro in fase avanzata che presentino dolori o altri sintomi; ma non solo, se bisogna prendere in
considerazione anche gli aspetti psicologici e relazionali, il concetto strettamente medico di cura
palliativa, comincia ad essere stretto ed inappropriato.
Esso diventa: cura attiva, globale e multidisciplinare dei pazienti affetti da malattia che non
rispondono più a trattamenti specifici e di cui la morte è la diretta conseguenza. Il controllo del
dolore, degli altri sintomi e dei problemi psicologici, sociali e spirituali è di fondamentale
importanza.
Lo scopo delle Cure Palliative è il raggiungimento della migliore qualità di vita possibile per i
pazienti e le loro famiglie.
Esse secondo l'OMS (1990):
•
Affermano la vita e considerano il morire come evento naturale
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
24
•
Non accelerano né ritardano la morte
•
Provvedono al sollievo del dolore e degli altri sintomi
•
Integrano gli aspetti psicologici, sociali e spirituali dell'assistenza
•
Offrono un sistema di supporto per aiutare i pazienti a vivere il più attivamente possibile
fino alla morte
•
Offrono un sistema di supporto per aiutare la famiglia durante la malattia e il lutto
L'ambito di applicazione delle cure palliative così concepite riguarda la fase terminale di patologie
evolutive e irreversibili.
Se vogliamo analizzare ogni indicatore fornitoci dall’ OMS a proposito di cure palliative, la
comicoterapia rientra senza compromessi tra questi tipi di “cure” in quanto “tecnica” che usa la
comicità per rendere migliore la degenza dei pazienti, intrattenere, distrarre, proclamare
l’affermazione della vita attraverso la positività, attraverso il riso e quant’altro ad essa associato.
È un sistema di supporto per famiglie e pazienti, migliora gli aspetti psicologici e sociali dei
degenti, dona dignità e serenità anche ad alcuni momenti difficili di cui l’ospedalizzazione è piena,
e tante altre cose che molte ricerche ad oggi tentano di continuo di dimostrare.
Oggi ci sono svariate ricerche che mirano a rafforzare le tesi sugli effetti benefici dell’umorismo,
anche in campo analgesico.
La comicoterapia rappresenta senza dubbio un benefit, una grande risorsa all’interno degli ospedali
e per il progetto della loro “umanizzazione”; è di grande aiuto ai pazienti ma è anche un buon
collante sociale, in cui i rapporti da verticali si fanno orizzontali, in cui si ridà parte del potere ai
degenti.
Per realizzare la terapia del sorriso non è sufficiente essere un infermiere o possedere un evidente
senso dell’umorismo. Entrambe queste caratteristiche sono estremamente necessarie, così come
sono altrettanto necessarie capacità quali la creatività, la validità tecnica, impiegando i cosiddetti
“trucchi del mestiere” per poter instaurare una adeguata relazione con il bambino. La terapia del
sorriso rappresenta un ottimo strumento comunicativo efficiente in bambini di tutte le età,sesso,
nazionalità e credo religioso. E’ uno strumento plasmabile a seconda della situazione che si
prospetta, allevia la tensione, diminuisce lo stress, permette il passaggio dei pensieri cattivi ad una
dimensione,seppur temporanea, di benessere. Il personale infermieristico deve essere in grado di
fornire al bambino oltre alle proprie competenze, un’autentica relazione interpersonale, attraverso
anche il supporto emotivo,proprio per eliminare o ridurre i timori, le ansie legati
all’ospedalizzazione e alla patologia. Gli infermieri devono credere profondamente nei reali
benefici del sorriso, proprio come cammino di formazione professionale. Solo di recente in Italia,
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accanto all’intervento tecnico sui pazienti, sono previsti corsi di formazione di terapia del sorriso
per infermieri,infatti convincendo tutti coloro che si occupano di pazienti, dell’importanza del riso,
di un ambiente sereno e distensivo, si persegue il fondamentale scopo di umanizzare sempre più la
“condizione” in cui i piccoli malati trascorrono il loro prezioso tempo.
Abbondanza Sara – Belluzzo Valentina
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Bibliografia.
Adams,P. (1999) "Salute!" Ed. Urra,Milano.
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Mulino,Bologna.
Bergson,H. (1994) "Il riso. Saggio sul significato del comico".Ed. Laterza,Roma.
Ceccarelli,F. (1988) "sorriso e riso". Ed. Einaudi,Torino.
Cousin, N. (1976) "Anatomy of an illness" The New England Journal of Medicine,pp 1458-1463.
Cousin,N. (1982) "Lavolontà di guarire. Anatomia di una malattia". Ed.Armando, Roma.
Farnè,M. (1995), "Guarir dal ridere". Ed. Bollati Boringhieri,Torino.
Filippazzi,G. (1997) "Un ospedale a misura di bambino". Ed. Franco Angeli, Milano.
Fioravanti, S., Spina L.,(1999) "La terapia del ridere. Guarire con il buonumore". Ed. Red, Como.
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Ferrario, G. (2006) “Ridere di cuore”
Sitografia.
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www.ao-meyer.toscana.it
www.clowns.it
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www.comicoterapia.it
www.dottorsorriso.it
www.laughtertherapy.com
www.ospedalebambinogesu.it
www.patchadams.it
www.pubmed.org
www.riderepervivere.it
www.viviamoinpositivo.org
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Filmografia.
Titolo: Patch Adams (Id.)
Regia: Tom Shadyac
Sceneggiatura: Steve Oedekerk
Fotografia: Phedon Papamichael
Interpreti: Robin Williams, Monica Potter, Daniel London, Philip Seymour Hoffman, Bob
Gunton, Josef Sommer, Irma P. Hall, Frances Lee McCain, Harve Pressnell, Daniella Kuhn, Peter
Coyote, James Greene, Michael Jeter, Harold Gould, Bruce Bohne, Harry Groener, Barry Shabaka
Henley, Steven Anthony Jones, Richard Kiley, Douglas Roberts, Don West
Nazionalità: USA, 1998
Durata: 1h. 46'
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