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gianni cervetti compagno del secolo scorso

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gianni cervetti compagno del secolo scorso
Gianni Cervetti COMPAGNO DEL SECOLO SCORSO
GIANNI CERVETTI
COMPAGNO
DEL SECOLO SCORSO
COMPAGNO DEL SECOLO SCORSO
GIANNI CERVETTI
COMPAGNO DEL SECOLO SCORSO
UNA STORIA POLITICA
Prefazione di Paolo Franchi
© 2016 Bompiani / RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-452-8204-1
Prima edizione Bompiani maggio 2016
PREFAZIONE
di Paolo Franchi
Si è dissolta malamente, e ormai sembra quasi non sia mai esistita. Ma c’era una volta in Italia, non tantissimo tempo fa, una
comunità vasta e complessa la cui caratteristica più affascinante
e meno spiegata, forse, era che al suo interno, spesso detestandosi, ma tenendo a bada i propri rancori, riuscivano a convivere
e a collaborare, dai vertici all’ultimo raggruppamento periferico, persone che, sotto qualsiasi altro cielo, non avrebbero fatto
insieme neanche quattro chiacchiere al caffè senza dirsene di
tutti i colori, e magari venire alle mani. Questa comunità era un
partito politico. Questo partito era il Partito comunista. Nessuno che vi abbia militato a lungo può raccontarci la propria vita
senza collocarla in primo luogo dentro questa particolarissima
dimensione collettiva, al suo farsi e al suo disfarsi. Figurarsi se
qualcosa di simile poteva saltare in testa a Gianni Cervetti, che
nel pci ha mosso i primi passi, nella sua Milano, fin da ragazzo, e
del pci, passando per la cgil, ha seguito, senza perdere nulla della sua milanesità, e anzi rivendicandola, tutto il cursus honorum.
Con l’aggiunta (caso più unico che raro tra i dirigenti comunisti
della sua generazione) di cinque anni trascorsi a Mosca. Non,
come i suoi maggiori, nell’Unione Sovietica staliniana, magari
all’hotel Lux, ma all’università, a studiare economia, nella particolarissima stagione di Nikita Krusciov, quella della destali5
nizzazione e del disgelo. Ma “aggiunta” è una parola sbagliata,
perché quegli anni sono stati decisivi sia per la sua formazione
politica e intellettuale sia per la sua vita personale. È a Mosca
che si innamora di Franchina, la donna della sua vita, anche lei
una giovane comunista milanese felice di vivere e studiare nella
patria del socialismo. È a Mosca che suo figlio Andrea nasce e,
appena nato, viene imbacuccato in una quantità di coperte ed
esposto al freddo, come vuole la consuetudine russa, perché si
tempri. Se è per questo, è sempre a Mosca che incontra per caso
un ragazzone socialista di ritorno da Pechino. Lo ha conosciuto
e frequentato a Milano negli anni del frontismo, si chiama Bettino Craxi. A pranzo di fatto gli anticipa, senza convincerlo ma
senza provocarne reazioni indignate, la strategia che darà al psi
quasi trent’anni dopo: democristiani e comunisti sono troppo
forti e radicati, l’unica via a disposizione dei socialisti per essere
determinanti è mettere assieme un centinaio o anche meno di
deputati.
Vale per Cervetti – e questo spiega anche perché in un’autobiografia ci parla così poco di una sfera personale e familiare
cui pure tiene tantissimo – l’antico adagio secondo il quale i
partiti, e il pci più degli altri, sono stati a lungo, per centinaia
di migliaia di italiane e di italiani, casa, chiesa, scuola, famiglia.
Con dei tratti comuni, ovviamente. Ma, altrettanto ovviamente, ciascuno a modo suo: con i suoi valori (una volta si diceva:
con la sua ideologia), le sue regole interne e anche, si capisce, i
suoi scheletri nell’armadio. Gli storici ci aiutano a comprendere di che cosa si trattasse. Sin qui, a dire il vero, lo hanno fatto
poco e male. Anche per questo le memorie di chi questa realtà
l’ha conosciuta e vissuta fino in fondo aiutano molto di più.
Specie se chi ce le narra ne dà per scontati i limiti, la parzialità
e la selettività, talvolta anche involontaria, o inconscia, senza
vestire abusivamente i panni dello storico. E ha il dono, come
Cervetti, di raccontarci con senso della misura, naturalezza e
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lievità, senza però edulcorarle, le vicende che ha vissuto. Oggi
alcune di queste, in un contesto così drasticamente cambiato,
ci possono anche apparire roba di un altro mondo. Lo sono, in
effetti: alcune, a guardarle con gli occhi di oggi, sembrano strabilianti. Cervetti, però, ce le narra, spesso in modo dettagliato, con l’aria di chi le trovava, e in fondo le trova ancora, non
ovvie, certo, ma spiegabilissime e, a collocarle nel loro tempo
e nel loro ambiente, in ultima analisi normali. Probabilmente
non dice tutto, ma sicuramente non mente su nulla. Come si
conviene a un giovane milanese di origini popolari (particolarmente belle e sincere le pagine dedicate all’osteria del padre e
al piccolo mondo che vi ruotava intorno negli anni della guerra
e poi in quelli della Resistenza e della Liberazione), che del
pci è diventato un militante disciplinato e poi un autorevole
esponente senza per questo smettere di interrogarsi e, quando possibile, di interrogare, e senza rinunciare del tutto né al
senso dell’ironia e dell’autoironia né all’autonomia di giudizio.
E che prima di molti altri suoi compagni si convince che la
storia del pci è giunta a compimento, e bisogna (bisognerebbe)
lasciarsi alle spalle quel che vi è di morto (non poco) e invece
rintracciarvi, e metterne in salvo, quel che ancora vi è di vivo
e vitale (in poche parole: la consolidata pratica riformistica, la
vocazione di governo, il forte radicamento popolare, il vasto
sistema di alleanze e di interlocuzioni sociali, culturali e politiche) per collocarlo, in Italia e in Europa, all’interno di un
disegno politico nuovo e più ampio. Le cose vanno, com’è noto, molto diversamente. Ma quella storia non la rinnega. Per il
semplice motivo che è stata anche la sua storia. Raccontandocela, ci racconta, almeno per come le ha viste e le ha interpretate a caldo lui, anche le storie di tante donne e di tanti uomini
che ha conosciuto. Gente famosa, personalità di primo piano,
ma anche oscuri “quadri intermedi”, come si diceva una volta,
e militanti di base ignoti ai più. Operai e monsignori. Intel7
lettuali e poliziotti. Comunisti e non comunisti. Imprenditori
e giornalisti. Pezzi grossi degli apparati statali ed estremisti. I
suoi giudizi sono talvolta aspri e non esattamente equanimi,
come è comprensibile per chi ha fatto la lotta politica, che non
è un pranzo di gala; spesso più pacati e rispettosi (cito per tutti
quello sullo stalinista Giuseppe Alberganti, capo dei comunisti
milanesi negli anni quaranta e cinquanta, che pure gli fu agli
antipodi) di quanto ci si potrebbe attendere.
Dicevo prima di Mosca. Non fa troppe domande, Cervetti, quando nella sede della federazione comunista milanese gli
comunicano d’improvviso che, entro poche settimane, avrà
l’onore di raggiungere, via Svizzera, l’Unione Sovietica e di restarvi a lungo. Si preoccupa, semmai, di come spiegare la cosa
alla madre e al fratello. Quando però arriva a Mosca, nei giorni
del XX Congresso, comprende subito che le cose stanno cambiando molto più in fretta e, almeno nelle speranze, molto più
in profondità di quanto avrebbe potuto immaginare; e cerca,
naturalmente, di sapere qualcosa di più della battaglia politica in corso. Il lungo percorso che lo porterà a diventare, nei
decenni, un grande conoscitore di cose, ambienti e personaggi prima sovietici, poi più semplicemente russi, comincia qui.
Cervetti, che su mandato di Enrico Berlinguer chiuderà con
Boris Ponomariov la partita dei finanziamenti sovietici al pci,
è stato tra i comunisti italiani uno dei primi a convincersi, tra
molti distinguo e molte cautele, che il sistema sovietico non era
riformabile. Nessuno, però, ricorda qualche sua presa di posizione che potesse suonare di rottura. Lui troverà sicuramente
il parallelo incongruo, e magari se ne dispiacerà anche un po’.
Ma in queste pagine, se non certo una chiave di lettura di questa contraddizione, almeno una suggestione utile a illuminarne
le origini antiche forse c’è. La si può rintracciare nella domanda, “ingenua e impertinente”, che il giovane Cervetti rivolge
una sera del 1956 al compagno Snegov, riabilitato da Krusciov
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dopo diciassette anni di galera e antistalinista militante: “Ma
perché vi piegaste supinamente al terrore, perché non vi organizzaste per ribellarvi a Stalin?” E soprattutto nella risposta
del vecchio bolscevico: “Ci pensammo ma, per farlo, avremmo
dovuto passare alla resistenza, i nazisti ci avrebbero invaso e
tutto sarebbe finito.” Tanti anni dopo, Stalin non c’era più da
un pezzo, e i nazisti nemmeno. E però l’Unione Sovietica, per
quanto irriformabile ed esposta al concretissimo rischio di un
rapido declino, restava l’Unione Sovietica. Si poteva prenderne le distanze, persino dichiararne ufficialmente esaurita, come
fece Berlinguer nel 1981, la spinta propulsiva, e intessere buoni
rapporti con le forze socialiste e democratiche dell’Occidente, Stati Uniti possibilmente inclusi. Rompere apertamente e
solennemente per prendere un’altra strada, in una parola socialdemocratica, no. Per qualcosa di profondo che attiene alla
storia e, verrebbe da dire, al dna dei comunisti, quelli italiani
compresi; non solo per via della base che non avrebbe capito,
anzi, non avrebbe apprezzato affatto, e del pericolo che i sovietici dessero una mano assai concreta a una scissione del pci. In
fondo non è né un caso né un capriccio della storia se Giorgio
Amendola, che nel 1962 aveva criticato più apertamente di tutti Palmiro Togliatti per le sue reticenze su Stalin e sull’Unione
Sovietica, e nel 1964 si era spinto fino a porre all’ordine del
giorno la costruzione di un partito unico dei lavoratori italiani,
nei suoi ultimi mesi di vita, minato dal male, trovò la forza di
dare la sua ultima battaglia, più solitaria che mai: per opporsi a
viso aperto – scontrandosi con Berlinguer, che giunse a contestagli di non conoscere “l’abc del marxismo” – a quella che gli
sembrava una gravissima deriva massimalistica del partito, ma
pure alla condanna dell’intervento militare sovietico in Afghanistan. Le sue motivazioni erano dettate più da un malinteso
realismo che dall’ideologia. Era convinto, infatti, che il mondo
si stesse ormai avviando di nuovo, e a grandi passi, verso la
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guerra e non aveva dubbi che in un simile, terribile contesto il
posto dei comunisti italiani dovesse essere a fianco dell’Unione Sovietica, per quanto aspre, e fondate, potessero essere le
critiche e le contestazioni al sistema del cosiddetto “socialismo
reale”.
Anche in questo libro Cervetti ha, per Amendola, parole
sincere di elogio, di stima e di affetto. E sulla tesa riunione
della direzione comunista in cui il burbero Giorgione giunge a
rimproverare Armando Cossutta di non essersi schierato con la
dovuta nettezza a difesa della posizione sovietica, non spende
parola. Si può essere certi, però, che non solo non lo condivide,
ma ne è, come del resto Giorgio Napolitano e molti altri esponenti della destra comunista di matrice amendoliana, profondamente amareggiato. Amendola muore, e con lui finisce una
lunga stagione. I dirigenti comunisti che gli sono stati più vicini, e che per tanti aspetti si sentono tuttora legati alle sue battaglie, prendono la loro strada, diversa, che di lì a poco li porterà
prima a far proprio senza troppi problemi lo sprezzante epiteto
(“miglioristi”) coniato per loro dalla sinistra del partito, poi a
dichiararsi apertamente riformisti, in un tempo in cui, per una
larghissima parte della sinistra italiana, “riformismo” è ancora
una parolaccia. Si è molto discusso e polemizzato sulla timidezza, le reticenze, l’eccessiva tendenza alla mediazione e al
compromesso che avrebbero messo ai riformisti del pci, e in
primis al loro principale esponente, Napolitano, molto, troppo
piombo nelle ali, sino a portarli alla sconfitta senza neanche
aver mai dato veramente battaglia. Senza tornare qui su queste
discussioni e su queste polemiche, vorrei solo mettere in evidenza che i principali riformisti del pci – Napolitano, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Cervetti, per non dire
di Paolo Bufalini – sono stati tutti homines togliattiani e, per
quanto da Togliatti e dal togliattismo abbiano poi preso le distanze, mai hanno rinnegato questo aspetto determinante della
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