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LA PROVA PER TESTIMONI

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LA PROVA PER TESTIMONI
N. 108/impag. 9-140 13-10-1999 8:31 Pagina 99
LA PROVA PER TESTIMONI
Relatore:
Dott. Paolo CORDER
Giudice del Tribunale di Venezia
– A) Come deve essere dedotta la prova testimoniale? – ammissibilità e
rilevanza della prova testimoniale; – deduzione per fatti specifici; –
prova diretta e contraria, – prova dei fatti negativi; – prova a contenuto tecnico; – divieti probatori.
Come è noto, la prima norma di riferimento è l’art. 244 c.p.c., il
quale recita: “La prova per testimoni deve essere dedotta mediante indicazione specifica delle persone da interrogare e dei fatti, formulati per
articoli separati, sui quali ciascuna di esse deve essere interrogata”.
Alla parte che intende presentare al giudice un’istanza di prova
testimoniale viene dunque imposto, innanzitutto, l’onere relativo
all’“indicazione specifica... dei fatti, formulati in articoli separati”,
sui quali debbono essere sentiti i testimoni.
Un tale onere viene imposto per due ordini di ragioni: a) consentire alle controparti di preparare un’adeguata difesa e di articolare, se necessario, prova contraria; b) permettere al giudice di esprimere il giudizio di rilevanza e ammissibilità (Cass. n. 4056/89; Cass. n. 1938/87),
oggi richiesto espressamente dal nuovo testo dell’art. 184 c.p.c..
Le due descritte finalità rappresentano, evidentemente, i parametri sui quali graduare le valutazioni sul rispetto del requisito della specificità dei fatti dedotti in via istruttoria.
Le linee guida possono essere compendiate nel seguente modo: 1)
i fatti debbono essere sintetizzati nelle loro modalità essenziali di
tempo, luogo e svolgimento; 2) i fatti debbono essere esposti in modo
idoneo a confortare, se confermati, la tesi difensiva del deducente; 3)
i fatti debbono essere descritti in maniera tale da consentire alla controparte di dedurre prova contraria sul punto (Cass. n. 3635/89; Cass.
3728/87; Cass. n. 2814/86).
Si possono fare alcuni esempi concreti.
1) Se la prova ha ad oggetto il rilascio, ad opera di una certa per-
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sona, di un determinato documento già prodotto in giudizio, non si
richiede che il capitolo di prova contenga la trascrizione del contenuto del documento stesso, essendo sufficiente la semplice indicazione
della data del documento o del numero di produzione, a meno che
dagli atti o dalle allegazioni delle parti non risulti che quella persona,
in quella data, abbia rilasciato più documenti (Cass. n. 143/85). Qualora, invece, la prova testimoniale riguardi la ricostruzione del contenuto del documento, il capitolo dovrà essere più particolareggiato
(Cass. n. 2240/66).
2) In tema di vizi della cosa venduta:
– “vero che la gru fornita dalla ditta Alfa presentava vizi e difetti tali
da rendere impossibile il suo utilizzo”. Trattasi senza dubbio di capitolo inammissibile in quanto troppo generico e non rispondente ai criteri di specificità sopra evidenziati. In particolare, esso non metterebbe in grado la controparte di dedurre la prova contraria;
– qualche dubbio può invece sorgere circa l’ammissibilità o meno
di un capitolo di prova di tal genere: “Vero che la gru fornita dalla ditta
Alfa presentava i vizi e i difetti indicati nella parte motiva dell’atto di citazione, tali da renderla inidonea all’uso”. Con ogni probabilità, la soluzione dipende dal maggiore o minore grado di specificità del richiamo
contenuto nel capitolo e dalla maggiore o minore chiarezza espositiva
nella parte motiva richiamata. In ogni caso, si debbono avere ben presenti le ragioni, sopra indicate, poste a fondamento del requisito della
specificità degli atti;
– certamente ammissibile è il capitolo di prova del seguente contenuto: “vero che la gru fornita dalla ditta Alfa aveva uno dei due bracci, ed in particolare quello di sinistra, di lunghezza inferiore a quello di
destra, di talché essa, nell’effettuare la manovra di sollevamento di merci,
iniziava a oscillare pericolosamente”.
3) In tema di annullabilità del negozio per violenza o dolo, è sufficiente che il capitolo di prova sia ricostruito in tal modo: “vero che in
data 22 aprile 1988 Tizio ha sottoscritto il contratto de quo sotto la pressione della violenza e della minaccia da parte di Caio”, o è necessario
che nel capitolo venga descritto il comportamento tenuto da Caio e
vengano riportate le frasi eventualmente pronunciate da quest’ultimo?
Continuando in tema di valutazione sul requisito di specificità, si
suole affermare che il teste deve riferire su fatti ma non può formulare giudizi su di essi (v. ad esempio nel processo penale la disposizione
di cui all’art. 194 terzo comma c.p.p. che vieta al teste di esprimere
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apprezzamenti personali, “salvo che sia impossibile scinderli dalla
deposizione sui fatti”).
Pertanto, non possono essere ammessi, in quanto non aventi ad
oggetto fatti specifici, i capitoli di prova diretti ad ottenere dal teste un
mero giudizio, privo cioè di riferimenti concreti e appigli obiettivi
(Cass. n. 4111/95; Cass. n. 1173/94). E una siffatta prova testimoniale
è stata ritenuta inammissibile anche a prescindere dalla eccezione di
parte, giacché la dichiarazione del teste sarebbe comunque inutilizzabile a fini probatori (Cass. n. 8620/96). Ciò non toglie, tuttavia, che al
teste sia consentito di esprimere il suo convincimento derivatogli dalla
percezione diretta del fatto (Cass. n. 2270/98).
Il giudizio sulla specificità dei fatti dedotti nei capitoli di prova,
così come quello sulla rilevanza, va condotto sulla base della loro formulazione letterale e facendo riferimento agli altri atti del procedimento, alle altre deduzioni delle parti e alla facoltà del giudice di chiedere chiarimenti (Cass. n. 10272/95); e non già in relazione alla prospettiva di eventuali domande integrative, diverse dai semplici chiarimenti, da porre al teste, in modo tale da supplire alle deficienze contenutistiche della prova dedotta (Cass. 1312/90).
Tale giudizio costituisce un apprezzamento riservato al giudice di
merito e se è sorretto da una motivazione congrua ed esente da vizi
logici o giuridici, è insindacabile in sede di legittimità (Cass. n.
2759/75; Cass. n. 1775/75; Cass. n. 1753/73). E comunque, il giudizio
in questione è insindacabile in sede di legittimità purché congruamente motivato (Cass. n. 1523/97).
Di regola, il giudice non potrà, tuttavia, respingere l’istanza di
prova per testi limitandosi ad osservare apoditticamente che i fatti
non sono stati indicati in modo specifico, ma dovrà dar conto delle
ragioni per le quali quei fatti, così come dedotti, anche se provati, non
potranno condurre all’accoglimento della tesi difensiva dell’istante
(Cass. n. 2435/90; Cass. n. 598/75).
Quali sono le conseguenze di una omessa specificazione dei
fatti dedotti nei capitoli di prova?
Si sono formati, a tal proposito, due orientamenti.
Il primo, muovendo dal carattere cogente della norma in esame,
sostiene che la sua inosservanza è rilevabile d’ufficio e determina l’inammissibilità della prova dedotta. A sostegno di tale indirizzo si fa’
notare come la mancata specificazione dei fatti impedisca al giudice
di apprezzare se il mezzo istruttorio sia concludente e pertinente. Di
conseguenza, essendo affidata al giudice la direzione del procedimento, egli deve esercitare tutti i poteri volti alla sollecita definizione dello
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stesso (art. 175 c.p.c.), tra i quali quello avente come scopo l’impedimento allo svolgimento di attività istruttoria superflua (cfr. Cass. n.
2435/90; Cass. n. 2231/80). A corollario di tale ordine di principi, si
afferma che se la prova viene erroneamente ammessa ed espletata,
essa va considerata invalida e il giudice non potrà tenerla in alcun
conto (cfr. Cass. n. 3589/59).
L’indirizzo prevalente, invece, ritenendo che le formalità di deduzione della prova stabilite dall’art. 244 c.p.c. non trovino fondamento in un principio di ordine pubblico, bensì siano essenzialmente
poste a tutela dell’interesse delle parti, esclude la rilevabilità d’ufficio
dei vizi di formulazione della prova per testi, attribuendo alla parte
interessata l’onere di far valere eventuali nullità (art. 157 c.p.c. – Cass.
n. 264/97). L’inerzia di quest’ultima equivale ad acquiescenza, la quale
provoca la definitiva sanatoria e l’impossibilità di un successivo rilievo in sede di impugnazione (Cass. n. 6396/79; Cass. 2662/78; Cass. n.
3039/76).
La parte interessata ha l’onere di opporsi alla ammissione della
prova per omessa specificazione dei fatti prima che questa sia espletata, altrimenti si verifica una rinuncia tacita all’eccezione di nullità,
la quale rimane così definitivamente sanata (cfr. Cass. n. 684/92; Cass.
n. 446/76).
Va poi rilevato che la sanatoria per acquiescenza (Cass. n.
1864/95) si può realizzare anche quando la parte interessata non sollevi l’eccezione di nullità della prova nella prima istanza o difesa successiva all’espletamento della prova o della notizia di essa (Cass. n.
3693/95; Cass. n. 13011/93), ovvero allorché la stessa parte non riproponga l’eccezione in sede di conclusioni definitive (Cass. n. 5008/78).
Infine, va aggiunto che nell’ipotesi in cui, per qualche ragione, la
prova testimoniale sia stata estesa a fatti non compresi nei capitoli
ammessi, in assenza di tempestiva e reiterata eccezione di parte, il
vizio è sanato.
A questo punto, è bene rammentare che le forme di sanatoria per
acquiescenza, conseguenti alla omessa eccezione della parte interessata, riguardano unicamente le eccezioni sollevabili ex art. 244 c.p.c. e
non, di regola, quelle ricavabili dai divieti probatori di cui agli artt.
2721 e ss. c.c. (Cass. n. 2101/97).
In sede di impugnazione l’introduzione della nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c. ha modificato la situazione precedente caratterizzata sostanzialmente da due indirizzi: il primo, più restrittivo,
sosteneva che una volta che la prova per testi era stata giudicata dal
giudice di primo grado inammissibile perché formulata in modo gene-
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rico, il giudice d’appello doveva limitarsi a sindacare la correttezza di
tale giudizio e ad ammettere la prova qualora ravvisasse dei vizi sul
punto della pronuncia impugnata, escludendo, tuttavia, la possibilità
di ammettere la stessa prova dopo una sua nuova formulazione più
specifica dedotta in sede di gravame (Cass. n. 8466/92; 3815/86).
Il secondo orientamento, invece, prendendo le mosse dal requisito della novità insito nella formulazione specifica eventualmente
dedotta dalla parte in secondo grado, ammetteva la prova per testi
ricapitolata in modo specifico in sede di gravame, nonostante la stessa fosse stata dichiarata inammissibile nel precedente grado di giudizio per genericità della formulazione (Cass. n. 9204/92). Tutto ciò a
condizione che la parte, nel frattempo, non fosse incorsa in qualche
decadenza definitiva, tipo quelle di cui all’art. 244 terzo comma o
all’art. 104 disp. att. c.p.c., ovvero che la stessa non avesse violato il
principio di unità della prova sancito dal secondo comma del medesimo articolo 244 (Cass. n. 5003/93; Cass. n. 5620/89).
Con la nuova formulazione dell’art. 345 c.p.c. (simile a quella
dell’art. 437 c.p.c. in tema di rito del lavoro), evidentemente, è stata
rovesciata la regola precedente sancendo l’inammissibilità di nuove
prove, con il temperamento della indispensabilità o della non proposizione in primo grado per causa non imputabile alla parte. E’ dunque
possibile che il descritto contrasto giurisprudenziale venga a cessare,
in quanto tutto si dovrà incentrare sul carattere indispensabile della
prova, con la conseguenza che se il capitolato è stato dichiarato inammissibile per la genericità della formulazione il giudice di appello
potrà ammettere una nuova formulazione più specifica dedotta in
sede di gravame solamente quando la prova si appalesi indispensabile
ai fini della decisione, a meno che non si ritenga, tornando al precedente contrasto, che una tale prova non sia nuova e quindi non si
possa verificare su di essa il requisito della indispensabilità.
L’altro onere posto a carico della parte istante è quello relativo
all’indicazione delle persone da interrogare.
Tale requisito risponde a molteplici esigenze: a) consente al giudice di ridurre le liste sovrabbondanti e di eliminare i testi la cui deposizione è vietata dalla legge (art. 245 c.p.c.); b) pone in condizione la
controparte di eccepire eventuali incapacità o inattendibilità del teste;
c) concede ai testi la possibilità di venire a conoscenza delle circostanze sulle quali saranno chiamati a rispondere, al fine di far valere
eventuali motivi di astensione.
Venendo al contenuto del requisito in esame, va detto che si ritiene sufficiente l’indicazione del nome e del cognome del teste. Non si
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richiede necessariamente anche l’indicazione della residenza (a tal
riguardo, la Corte Costituzionale, con la pronuncia n. 75 del 1993, ha
dichiarato manifestamente infondata la questione sollevata dal Giudice Conciliatore di Robbio, il quale, sul presupposto di una violazione
dell’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata dall’Italia con legge
848/55, aveva dubitato della costituzionalità dell’art. 244 c.p.c. nella
parte in cui non prescrive alla parte intimante l’indicazione della residenza del teste, impedendo in tal modo, ad avviso del giudice a quo,
alla parte avversaria la convocazione degli stessi testi a prova contraria. La Corte si è limitata a richiamare il proprio indirizzo interpretativo che esclude le norme internazionali pattizie, ancorché generali,
dall’ambito normativo dell’art. 10 Cost.).
Ciò premesso, ci si deve quindi chiedere se siano o meno rituali le
indicazioni, quali “legale rappresentante della società …; titolare della
carrozzeria… ecc..
Volendo superare rigidi formalismi, si potrebbero ritenere rituali
le suddette indicazioni laddove esse possano essere integrate aliunde
o, comunque, ogniqualvolta soddisfino le esigenze poste a fondamento dell’onere di indicare la generalità dei testi, sopra richiamate. Inoltre, non è necessario che la parte precisi su quali capitoli i singoli testi
debbono essere interrogati. In mancanza, ciascuno di loro può essere
sentito su tutti i capitoli ammessi.
Qualora la parte colleghi determinati testi a determinati capitoli
e poi li elenchi nuovamente tutti alla fine della memoria istruttoria
può sorgere la questione su quale delle due formulazioni prevalga sull’altra.
In tema di indicazione delle persone da interrogare, va segnalata,
con riguardo al rito del lavoro, la sentenza della Corte di Cassazione
n. 4716/89, la quale ha affermato che la omessa indicazione dei testi
nel ricorso introduttivo ex art. 414 c.p.c. determina una mera irregolarità che può essere sanata attraverso il ricorso al potere-dovere del
giudice previsto dall’art. 244 terzo comma c.p.c., in quanto applicabile al processo del lavoro, e non una decadenza insuperabile (cfr. anche
Cass. n. 4797/78).
Tale orientamento giurisprudenziale, tendente per certi versi a
superare l’atteggiamento del legislatore nella disciplina dei limiti
sostanziali e processuali della prova per testi indirizzato in senso fortemente formalistico, non è univoco. In senso contrario, ovverosia nel
senso della irrimediabile decadenza dalla prova per testi in caso di
omessa indicazione delle persone da interrogare in sede di atto intro-
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duttivo, si è più volte espressa la stessa Corte di Cassazione: n.
4896/81; 4638/85; 3903/88.
A dirimere il descritto contrasto giurisprudenziale è giunta, di
recente, la sentenza delle Sezioni Unite Civili n. 262 del 1997, la
quale ha preferito seguire l’opzione ermeneutica meno restrittiva, sancendo, appunto, che l’omessa indicazione, nel ricorso introduttivo di
un procedimento soggetto al rito del lavoro, della generalità delle persone da interrogare concreta mera irregolarità e non comporta decadenza. Di conseguenza, il giudice di primo grado, ove ritenga il mezzo
istruttorio pertinente e rilevante, deve indicare alla parte tale irregolarità assegnandole termine perentorio per provvedere a sanarla, mentre il giudice del gravame, davanti al quale venga lamentata l’illegittima decadenza dalla richiesta istruttoria, qualora riscontri la sussistenza del vizio, deve trattenere la causa e decidere sull’istanza, ammettendo e assumendo eventualmente la prova, previa assegnazione
del termine perentorio per l’indicazione dei testi nel caso in cui la parte non vi avesse già provveduto anticipatamente.
Le Sezioni Unite, dapprima, hanno analizzato le argomentazioni
svolte a supporto dei due indirizzi in conflitto:
– quello più restrittivo: 1) la decadenza comminata dall’art. 416
terzo comma c.p.c. in danno del convenuto deve valere anche per l’attore, pena la violazione dell’art. 3 Cost.; 2) l’utilizzazione, da parte del
giudice, del potere istruttorio d’ufficio previsto dall’art. 421 secondo
comma c.p.c. non può essere invocato dalla parte decaduta dalla proposizione del mezzo istruttorio; 3) nell’indicazione dei mezzi di prova
va ricompresa anche l’indicazione dei testi, come prescritto dall’art.
244 c.p.c., applicabile al rito del lavoro, 4) l’ammissione tardiva di
testimoni è ammessa solo per gravi motivi ex art. 420 c.p.c., comunque dietro autorizzazione del giudice; 5) la possibilità per la parte di
integrare le istanze istruttorie con l’indicazione dei testi risulta inconciliabile con la finalità di conferire al rito del lavoro i tratti propri dell’immediatezza e della concentrazione;
– quello meno restrittivo: 1) i mezzi di prova di cui all’art. 414 c.p.c.
si devono intendere sotto il profilo squisitamente oggettivo, con esclusione quindi dei soggetti da interrogare; 2) il terzo comma dell’art. 244
c.p.c. non è incompatibile con il rito del lavoro; 3) la facoltà di integrare la richiesta istruttoria non mette a repentaglio i principi di
immediatezza e concentrazione tipici del rito del lavoro, atteso che già
nell’art. 420 c.p.c. sono previsti differimenti motivati dell’udienza di
assunzione della prova o di discussione; 4) il potere del giudice di
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disporre d’ufficio mezzi di prova ex art. 421 secondo comma comprende anche, come minus, quello di autorizzare l’indicazione tardiva
delle persone da interrogare.
La Corte ha poi giustificato la scelta operata sostanzialmente sulla
scorta delle seguenti considerazioni:
A) vi è netta differenza tra il caso in cui la parte non deduca alcun
mezzo di prova e quello in cui essa si limiti a non indicare le persone
da interrogare;
B) il potere-dovere del giudice previsto dall’art. 421 c.p.c. viene
appunto a completare le irregolarita commesse dalle parti;
C) nel rito del lavoro, dati gli interessi in gioco, si fa più pregnante l’intervento officioso del giudice rispetto all’applicazione del principio dispositivo;
D) l’esercizio del potere-dovere del giudice avviene comunque nel
pieno rispetto del principio del contraddittorio;
E) il rimedio della lacuna formale è tutto interno al sistema del
rito del lavoro (art. 421 c.p.c.), senza che sia necessario scomodare
l’art. 244 c.p.c..
C’è da chiedersi, a questo punto, se oggi la descritta impostazione
non sia per caso foriera di maggiori problemi, alla luce dell’intervenuta abrogazione dei due ultimi commi dell’art. 244 c.p.c.. In definitiva,
nel rito ordinario le preclusioni istruttorie scattano in maniera rigorosa ex art. 184 c.p.c., senza alcuna possibilità di integrazione su ordine
del giudice (salvo ovviamente l’art. 184-bis c.p.c.), come invece accadeva con il vecchio art. 244 c.p.c., mentre nel rito del lavoro, di regola
scandito da ben più rigide preclusioni e caratterizzato dai noti princìpi di immediatezza e concentrazione, viene fatto sostanzialmente rivivere, sebbene attraverso lo specifico potere-dovere conferito al giudice ex art. 421 c.p.c., il vecchio art. 244 c.p.c.. Tali considerazioni sono
però destinate a perdere significato laddove si ritenga, come già avvenuto in dottrina, che la facoltà prevista dall’ultimo comma dell’art. 244
c.p.c. abrogato sia stata oggi sostituita dal potere del giudice, ex art.
184 c.p.c., di assegnare alle parti un termine perentorio per formulare
nuove prove.
Il terzo requisito richiesto dall’art. 244 c.p.c. è quello relativo alla
formulazione della prova per testi in “articoli separati”. Esso è posto
a presidio della elementare esigenza di ordine e chiarezza espositiva.
Tuttavia, a differenza dei precedenti requisiti, si ritiene che l’inosser-
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vanza determini una mera irregolarità, priva della sanzione di inammissibilità, purché, ovviamente, le circostanze oggetto della prova
siano facilmente ricavabili dal contesto dell’atto (ad esempio: richiamo per relationem a fatti capitolati nella parte narrativa dell’atto di
citazione (Cass. n. 1407/56, Cass. n. 1213/55).
Quanto fin qui esposto riguarda essenzialmente la deduzione della
c.d. prova diretta. Per quanto concerne la cd. prova contraria, occorre distinguere tra la situazione anteriore e quella successiva all’entrata in vigore della novella del c.p.c..
Prima della novella il secondo comma dell’art. 244 c.p.c., poi
abrogato, prevedeva che la parte contro la quale era stata proposta la
prova testimoniale, anche in caso di opposizione, aveva l’onere di
dedurre nella prima risposta la prova contraria diretta e indiretta, nel
senso che doveva indicare le persone da interrogare sui capitoli di
prova dedotti da controparte e gli articoli separati sui fatti (fatti diversi da quelli dedotti da controparte, dai quali poter argomentare la
insussistenza o l’inefficacia originarie o sopravvenute dei fatti articolati dall’avversario) sui quali interrogare i testi a prova contraria indiretta.
È di tutta evidenza che l’onere della deduzione della prova contraria diretta si ferma all’indicazione delle persone da interrogare e
non comprende anche la necessità che vengano riformulati i capitoli
già dedotti da controparte.
La disposizione in esame rispondeva al principio di unità della
prova, volto ad evitare cioè il frazionamento della prova in fasi successive del giudizio.
Per prima risposta si intendeva la prima deduzione orale o scritta
successiva all’atto ovvero all’udienza in cui era stata richiesta la prova
testimoniale. In particolare, è stato sostenuto che qualora l’udienza
successiva a quella di deduzione della prova diretta fosse stata udienza di mero rinvio la prima risposta andava considerata l’ulteriore
udienza in cui veniva discusso il merito. Inoltre, se la prova diretta era
stata chiesta in sede di precisazione delle conclusioni, la parte poteva
dedurre a prova contraria nella prima udienza davanti al giudice
istruttore in caso di rimessione in istruttoria della causa (Cass. n.
6170/82).
Ovviamente, in ipotesi di mancata deduzione della prova contraria diretta ed indiretta entro la prima risposta la parte doveva considerarsi decaduta, con conseguente inammissibilità della prova eventualmente dedotta.
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Il terzo comma dell’art. 244 c.p.c. ante riforma, poi anch’esso
abrogato, stabiliva la facoltà del giudice istruttore, discrezionale, da
esercitarsi anche d’ufficio (Cass. n. 3345/80), mediante una valutazione di opportunità e di prudente apprezzamento delle esigenze istruttorie della causa, senza necessità di motivazione e quindi sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 191/95), di concedere alle parti un termine perentorio e quindi non prorogabile (art. 153 c.p.c. – Cass. n.
1640/78) per formulare o integrare le indicazioni previste nei due
commi precedenti. In questo caso la decadenza dalla prova diretta o da
quella contraria derivavano dalla inosservanza del predetto termine.
È chiaro che l’assegnazione del termine perentorio presupponeva
che la parte avesse gia tempestivamente dedotto la prova per testi,
mentre non era consentito al giudice fissare il termine per sollecitare
una prova non richiesta: ciò avrebbe violato il principio dispositivo ex
art. 115 c.p.c. (Cass. n. 5406/91).
Incerta in giurisprudenza era la portata della facoltà di integrazione concessa al giudice: secondo un orientamento questa era limitata alla possibilità della parte di integrare le indicazioni relative alle
persone da interrogare (Cass. n. 8137/90; Cass. n. 318/82); ad avviso di
un altro indirizzo, forse prevalente, il termine poteva essere assegnato
genericamente per le integrazioni della prova dedotta, ivi incluse
anche quelle relative alla formulazione dei capitoli di prova (Cass. n.
8157/92; Cass. n. 7205/91).
Il principio dell’unità della prova testimoniale sancito dal secondo comma dell’art. 244 c.p.c. era considerato compatibile sia con
il procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione ex legge n.
689/81 (Cass. n. 11653/92), sia con la disciplina delle controversie di
lavoro, purché la parte interessata avesse presentato apposita istanza
al pretore (Cass. n. 4716/89; Cass. n. 1366/86). In mancanza di una tale
istanza, la prova doveva essere dichiarata inammissibile (Cass. n.
4838/92; Cass. n. 2521/87). Va ricordato, tuttavia, che la compatibilità
con il rito del lavoro ha incontrato, di recente, voci contrarie in senso
assoluto, in considerazione del dettato dell’art. 420 c.p.c. (Cass. n.
728/93), o con un’eccezione nell’ipotesi di cui all’art. 420 sesto comma
c.p.c. (Cass. n. 8124/92).
Con la novella del 1990 e la conseguente abrogazione del secondo e del terzo comma della norma in esame è venuto meno il sistema
di proposizione della prova contraria ed è stata eliminata la facoltà del
giudice di concedere un termine per integrare la prova per testi. Tutto
ciò, come già accennato, è stato sostituito con la facoltà del giudice, su
istanza di parte, di concedere, ai sensi dell’art. 184 secondo comma
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c.p.c., un termine perentorio per la formulazione di nuove prove e per
la produzione di documenti ed un altro termine perentorio per dedurre a prova contraria.
Si tratta di stabilire, tuttavia, se questo secondo termine riguardi
esclusivamente la prova contraria a quella dedotta nel rispetto del
primo termine perentorio previsto dalla citata norma o se invece concerna genericamente la prova contraria rispetto a tutte le prove fino a
quel momento dedotte. La soluzione dipende, probabilmente, dalla
maggiore o minore estensione della nozione di nuove prove di cui al
secondo comma dell’art. 184 c.p.c.. Ad esempio, attraverso un argomento a fortiori, si è fatto rilevare che se la norma ammette la possibilità di formulare capitoli di prova ex novo, a maggior ragione deve
consentire la facoltà di riformulare quelli già dedotti.
Degna di nota è la differenza del nuovo sistema rispetto al precedente: non vi è più la necessità di dedurre la prova contraria nella
prima risposta successiva e si è notevolmente attenuata la discrezionalità del giudice in relazione alla concessione del termine perentorio
per dedurre la prova contraria.
Di regola, i capitoli di prova aventi ad oggetto fatti negativi non
possono essere ammessi, in quanto ben difficilmente il teste sarebbe
in grado di escludere in assoluto la verificazione di una determinata
circostanza.
La Corte di Cassazione, sul punto, ha affermato che la prova dei
fatti negativi può essere data mediante presunzioni, le quali possono
essere basate su fatti positivi, che, pur non esattamente contrari a
quelli negativi, siano tuttavia idonei a far desumere il fatto negativo
(Cass. n. 5744/93).
Inoltre, l’inammissibilità della prova per testi riguardante fatti
negativi risponde al principio di distribuzione dell’onere della prova,
nel senso che, in linea di massima, le parti non vengono onerate della
dimostrazione di fatti negativi al fine di far valere le loro pretese in via
di azione o di eccezione (arg. cfr. Cass. n. 973/96 in tema di surroga
dell’assicuratore ex art. 1916 c.c., e Cass. n. 1944/82 in tema di accessione invertita). Ciò non significa, peraltro, che la deduzione di un
fatto negativo (ad esempio: il convenuto in un’azione di danno che
sostenga l’inesistenza di particolari voci di danno), per il solo carattere particolare del petitum, possa esonerare la parte dalla prova di tale
fatto, secondo gli ordinari princìpi (Cass. n. 13872/91). In tal caso,
ovviamente, la parte interessata potrà far ricorso alla dimostrazione di
fatti positivi contrari (Cass. n. 2586/81).
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E invero, può accadere che la parte sia onerata di fornire la dimostrazione di fatti negativi. In questa ipotesi, essa, prescindendo da un
rigido e prefissato schema di prova, dovra formulare capitoli aventi ad
oggetto quei fatti positivi dai quali dedurre l’esistenza del fatto negativo. Ci si riferisce, ad esempio, al caso del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in relazione al quale il datore di lavoro, che adduca a fondamento del licenziamento la soppressione del posto di lavoro presso cui prestava le proprie mansioni il dipendente licenziato,
deve provare di non poter diversamente utilizzare il lavoratore in mansioni analoghe (Cass. n. 9204/96).
In linea di principio, la distinzione tra la consulenza tecnica e la
testimonianza risiede nel criterio che ravvisa nella prima un giudizio
e nella seconda una semplice narrazione. Rifacendosi a tale sintetica
e per certi versi superata distinzione, si dovrebbe escludere qualsiasi
contatto tra i due istituti processuali: il teste, infatti, come detto, deve
esimersi dall’esprimere giudizi.
Ciononostante, non si può nascondere il fatto che si possa concretamente realizzare una sorta di commistione tra i due istituti, tant’è
che è stata introdotta la nozione di testimonianza tecnica (DENTI,
Testimonianza Tecnica), la quale verte su fatti la cui descrizione, prima
ancora dell’apprezzamento, richiede specifiche cognizioni tecniche,
che non rientrano nella cultura e nell’esperienza “media”.
Invero, non può essere in assoluto esclusa la prova per testi a contenuto tecnico, ovverosia avente per oggetto apprezzamenti di natura
squisitamente tecnica.
È evidente che se la prova tende ad ottenere dei meri giudizi tecnici, ovverosia l’indicazione delle regole tecniche per la valutazione dei
fatti, essa è inammissibile, giacché l’individuazione di tali regole spetta al giudice che ricorre al consulente tecnico ove esse non rientrino
nella sua “scienza privata”. Ma quando l’apprezzamento tecnico
demandato al teste è strettamente collegato all’indicazione di dati
obiettivi e alla descrizione delle modalita specifiche della situazione
concreta direttamente percepite o rilevate dallo stesso teste, la prova
potrà essere ammessa (Cass. n. 1173/94). Si pensi ai casi di prova sull’esistenza dei vizi della cosa venduta o dei difetti dell’opera appaltata.
Il tema della prova per testi a contenuto tecnico, come accennato,
costringe a mettere in relazione detta prova con la consulenza tecnica
d’ufficio. In particolare, va osservato che se quest’ultima, di regola,
non rappresenta un vero e proprio mezzo di prova, ma solo uno strumento di valutazione sotto il profilo tecnico-scientifico, di dati proba-
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toriamente già immagazzinati, essa acquisisce il valore di mezzo di
prova quando consiste anche nell’accertamento di fatti rilevabili solo
con il ricorso a determinate cognizioni tecniche (Cass. n. 2514/95;
Cass. n. 2083/95, Cass. n. 2629/90). Anche in questo caso, tuttavia,
rimane netta la differenza tra la testimonianza e la c.t.u.
In alcune ipotesi particolari la giurisprudenza esclude l’ammissibilità della prova testimoniale a contenuto tecnico, ritenendo indispensabile la c.t.u.: ad esempio, controversie concernenti il diritto a conseguire la pensione di invalidita (Cass. n. 270/72) ovvero riguardanti
immissioni eccedenti la normale tollerabilità (Cass. n. 1245/81). Si
possono, infine, aggiungere le controversie relative alla responsabilità
professionale del medico.
Quanto ai limiti sostanziali processuali di ammissibilità della
prova per testi, ricordato che quelli di natura squisitamente processuale sono stati eliminati dall’ordinamento ad opera della Corte Costituzionale (artt. 247 e 248 c.p.c.), è bene premettere, con riguardo a
quelli di carattere sostanziale, che la materia è talmente vasta che
richiederebbe una relazione a sé stante. Pare quindi opportuno, in
questa sede, fare qualche cenno generale e soffermarsi brevemente su
alcune questioni affrontate anche di recente dalla giurisprudenza di
legittimità.
In primo luogo, va precisato che le limitazioni introdotte dagli
artt. 2721 e ss. c.c. operano solamente allorché il contratto venga
dedotto in giudizio dai contraenti, oppure dai loro eredi, per realizzarne i suoi effetti tipici.
In particolare, quindi, la limitazione di cui all’art. 2721 c.c. non
si applica quando il contratto viene fatto valere come semplice fatto
storico influente per la decisione della controversia (Cass. n. 3351/87)
ovvero nel caso in cui sia un terzo ad invocare la prova dell’esistenza
del contratto (si pensi, ad esempio, al caso del mediatore che chiede di
provare la conclusione del contratto mediato allo scopo di ottenere la
provvigione: non essendo parte del contratto mediato egli è in grado
di dimostrare per mezzo dei testi l’esistenza di tale contratto – Cass. n.
4477/78). Ancora, rimangono esenti dalle limitazioni in questione i
vizi del consenso (Cass. n. 2161/60), la risoluzione e la rescissione del
contratto.
Di recente, sono stati poi esclusi i divieti probatori in questione al
fine di dare dimostrazione della qualità di coltivatore diretto (Cass. n.
5671/97), ovvero per provare la simulazione delle esigenze abitative
transitorie, nel procedimento instaurato dal conduttore e avente ad
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oggetto la ripetizione di quanto versato in più oltre l’equo canone
(Cass. n. 1318/98).
Merita poi di essere rammentato che, sebbene il legislatore non
abbia provveduto a rivalutare l’importo di lire 5.000 indicato all’art.
2721 c.c., la Suprema Corte ha ugualmente stabilito che, in linea di
massima, la prova orale di contratti di notevole valore economico non
può essere ammessa, dato che di regola essi vengono documentati per
iscritto (Cass. n. 4600/84).
L’art. 2721 c.c. prevede, tuttavia, che si possa superare il limite di
ammissibilità in considerazione della qualità delle parti, della natura
del contratto (ad esempio, rapporti di parentela o rapporti di particolare fiducia che possano giustificare la mancata documentazione del
contratto) o di ogni altra circostanza utile.
Il documento al quale si riferisce l’art. 2722 c.c. deve possedere
natura contrattuale, nel senso che deve trattarsi di un atto scritto dal
quale emerga l’esistenza ed il contenuto del contratto dedotto in giudizio. Il divieto di cui alla norma in esame, quindi, non si applica:
quando il documento ha carattere meramente integrativo di un contratto verbale (Cass. n. 1700/85); in relazione alla quietanza (Cass. n.
2716/88; Cass. n. 8730/97); in caso di ricognizione di debito o di promessa di pagamento (Cass. n. 4377/92); per la fattura, la bolla di consegna e l’estratto conto (Cass. n. 821/71).
Inoltre, il patto deve essere aggiunto o contrario al documento,
ovverosia deve avere ad oggetto un accordo complementare diretto ad
ampliare o a modificare il contenuto della convenzione. Il divieto di
cui all’art. 2722 non opera poi laddove la prova riguardi fatti storici
volti a chiarire il contenuto negoziale che risulti suscettibile di differenti interpretazioni (Cass. n. 782/81).
L’inammissibilità di cui all’art. 2723 c.c. attiene ai patti posteriori
alla formazione del documento, intesi come pattuizioni che accedono
alla convenzione risultante dallo scritto e che apportino aggiunte o
modificazioni. Essi coincidono, dunque, con le clausole destinate a
regolare diversamente particolari aspetti del rapporto tra le parti, sul
presupposto della sua persistenza e della sua prosecuzione (Cass. n.
100/91). Ne consegue che non rientrano nel divieto gli accordi diretti
a risolvere anticipatamente il rapporto risultante da atto scritto (Cass.
n. 6586/86). A differenza dell’art. 2722 c.c., il successivo art. 2723 prevede una deroga che richiama i concetti di cui all’art. 2721 c.c. (qualità delle parti, natura del contratto ecc.).
L’art. 2724 c.c. è invece dedicato alle eccezioni ai divieti della prova per testi.
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Detto che tale norma non trova applicazione all’opposizione di
terzi all’esecuzione (art. 619 e ss. c.p.c.), in quanto l’art. 621 c.p.c. contiene una disciplina specifica, merita di essere sottolineato che le deroghe ai divieti probatori presuppongono che la parte istante deduca e
dimostri la sussistenza di una delle tre ipotesi contemplate nella
norma in esame (principio di prova per iscritto; impossibilità di procurarsi la prova scritta, smarrimento senza colpa). Il giudice comunque non può rilevarla d’ufficio (Cass. n. 7976/94), né può discostarsi
dall’ipotesi specifica dedotta dalla parte per ravvisarne una diversa
(Cass. n. 7339/83).
Sull’ipotesi relativa al principio di prova per iscritto va ricordato
che è necessario che venga prodotto uno scritto proveniente, e quindi
sottoscritto (Cass. n. 2588/89), dalla parte contro la quale è chiesta la
prova o dal suo rappresentante, e diverso da quello che si vorrebbe
sovvertire con la prova testimoniale. Inoltre, lo scritto deve far apparire verosimile il fatto allegato (Cass. n. 1318/98 – ad esempio, sono
stati ritenuti tali: la ricevuta di pagamento trimestrale del canone di
locazione, anziché a mese come previsto nel contratto scritto originario, rispetto al patto orale contrario posteriore di pagamento a trimestre – Cass. n. 2825/52; gli assegni emessi, rispetto alla conclusione di
un contratto di conto corrente stipulato in forma verbale – Cass. n.
6974/88). Ancora, è stata fatta rientrare nella nozione di principio di
prova per iscritto la risposta data dalla parte in sede di interpello e
riportata nel verbale poi sottoscritto (Cass. n. 4522/93).
Il giudizio di verosimiglianza va condotto solamente attraverso il
documento in questione (Cass. n. 802/92), ovvero anche utilizzando il
restante materiale probatorio (Cass. n. 2046/78).
L’impossibilita materiale di munirsi di una prova scritta presuppone che la parte abbia custodito il documento con la diligenza del buon
padre di famiglia (Cass. n. 43/98), ed è stata individuata, ad esempio,
nei depositi necessari stipulati in occasione di incendi, tumulti ecc..
Quella morale è stata fatta coincidere con i rapporti coniugali, di convivenza more uxorio, e non nelle relazioni professionali o di mera amicizia (Cass. n. 3750/92).
Quanto alla terza deroga, va solo evidenziato che la parte interessata deve provare la perdita del documento e la non colpevolezza. Tale
secondo requisito ha trovato riscontro nell’ipotesi di smarrimento del
documento ad opera di un terzo pienamente affidabile, al quale era
stato affidato per ragioni apprezzabili, come il mediatore (Cass. n.
1745/93) o come il notaio (Cass. n. 2046/64).
Anche l’art. 2725 c.c. trova ingresso quando il contratto viene
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invocato tra le parti in quanto tale, ossia come fonte di reciproche
obbligazioni, e non come mero fatto storico (Cass. n. 3562/95). Si
deve, inoltre, escludere l’applicazione della norma nell’ipotesi in cui la
prova per testi tende ad assolvere compiti meramente interpretativi
della volontà delle parti (Cass. n. 4439/84). Ad esempio, in tema di
risarcimento danni da invalidità permanente, la prova del fatto che il
danneggiato svolgeva attività di mezzadro (cfr. art. 1350 n. 9 c.c.) può
essere fornita anche per testimoni giacché si tratta di accertare soltanto lo svolgimento dell’attività professionale al fine della determinazione del reddito e quindi del danno (Cass. n. 3316/72).
Importante è sottolineare come, a differenza di quanto avviene per
la violazione delle norme che regolano la prova per testi, l’inosservanza del principio che esige la produzione in giudizio del documento
contrattuale come unico mezzo di prova del contratto per il quale sia
richiesta la forma ad substantiam, è rilevabile d’ufficio e può essere
eccepito per la prima volta anche in sede di legittimità (Cass. n.
2902/87). Si rientra, invece, nell’alveo delle eccezioni in senso stretto
con riferimento alla eventuale violazione dei limiti concernenti la
forma imposta ad probationem, non essendo in questo caso la regola
della inammissibilita della prova per testi dettata da ragioni di ordine
pubblico (Cass. n. 2988/90). A questo punto, giova precisare che i divieti probatori si applicano anche al pagamento, purché effettuato
dalla parte e non da un terzo (Cass. n. 1617/70 in tema di rivalsa Inail),
e alla remissione del debito. L’indicazione contenuta nell’art. 2726 c.c.
è da ritenersi tassativa e quindi non estensibile agli altri atti unilaterali tra vivi a contenuto patrimoniale, quali la disdetta (Cass. n.
171/70), la rinunzia all’azione di risoluzione del contratto (Cass. n.
2924/75) e il riconoscimento di debito (Cass. n. 3004/80).
Siamo, invece, nell’ambito della sfera di applicazione dell’art.
2726 c.c. nel caso della quietanza, quale documento certificativo del
pagamento (Cass. n. 3592/71).
La violazione della regola di cui alla norma in esame non è rilevabile d’ufficio, e pertanto la prova assunta senza incontrare contestazioni ad opera delle parti interessate viene legittimamente acquisita al
processo (Cass. n. 4396/76). L’eccezione, come nelle altre ipotesi di violazione dei divieti probatori (salvo quella riguardante la forma dei
contratti ad substantiam), deve essere sollevata nella prima istanza o
difesa successiva all’espletamento della prova pretesamente viziata,
intendendosi per istanza anche la richiesta di provvedimento ordinatorio di mero rinvio oppure la formulazione della conclusioni. In difetto, la nullità e sanata (Cass. n. 2988/90).
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Infine, merita di essere ricordato che altri divieti alla prova testimoniale si rinvengono nell’art. 1417 c. c. in tema di simulazione e nell’art. 619 c.p.c. in relazione all’opposizione di terzo all’esecuzione.
– B) L’incapacità del teste a deporre può essere rilevata d’ufficio? – in
quali casi sussiste l’incapacità a deporre del teste? – può essere
assunto come teste chi ha risposto all’interrogatorio libero quale
procuratore speciale della parte? – può essere assunto come teste il
procuratore della parte? per deporre deve rinunciare al mandato? se
indotto dalla controparte può astenersi?
La prevalente dottrina e la consolidata giurisprudenza si trovano
contrapposte in relazione alla questione della rilevabilità d’ufficio o
ad istanza di parte della eventuale incapacità a deporre dei testimoni.
La prima muove dalla considerazione secondo la quale la materia
regolata dall’art. 246 c.p.c. fa parte delle regole di giudizio che attengono alla formazione del convincimento del giudice. Di conseguenza,
tali regole non possono essere inficiate dal comportamento omissivo
delle parti: di qui la rilevabilità d’ufficio dell’incapacità a testimoniare.
Diversamente argomentando, sul presupposto dell’interesse delle
parti sotteso alla disposizione di cui all’art. 246 citato, con esclusione
quindi di qualsiasi profilo di ordine pubblico, la giurisprudenza è pervenuta alla conclusione che l’eccezione di incapacità del teste e eccezione in senso stretto ovverosia rilevabile solamente ad istanza di
parte (Cass. n. 7869/90, Cass. n. 323/80). La deposizione testimoniale
assunta in violazione della norma in questione è quindi affetta da mera nullità relativa.
Tuttavia, a tali osservazioni si è replicato facendo notare la contraddittorietà della tesi della rilevabilità ad istanza di parte: da un lato,
in base ad una valutazione compiuta a priori dal legislatore si è ritenuto che mai il terzo legittimato ad intervenire nel processo possa
essere un teste obiettivo, dall’altro, si è sostenuto che, comunque, la
deposizione di un tale teste può essere posta a fondamento del libero
convincimento del giudice qualora nessuna delle parti interessate si
premuri di eccepirne l’incapacità o di far valere la nullità della testimonianza. Di qui l’auspicio di parte della dottrina rivolto alla sostanziale eliminazione dei divieti di cui all’art. 246 c.p.c..
Del resto, in ordinamenti non meno razionali e garantisti di quelli dominati, come il nostro, dal principio nemo testis in causa propria
la testimonianza della parte è fenomeno consolidato (sistemi di Com-
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mon Law). E tutto ciò nel quadro di una drastica riduzione di tutti i
limiti alla prova testimoniale (già attuata in vari ordinamenti, anche di
civil law), compresi quelli di natura sostanziale (2722 e ss. c.c.), dettati, come è noto, dal disfavore per tale mezzo di prova.
Senza giungere alla radicale eliminazione dei limiti di cui all’art.
246 c.p.c., parte della dottrina, muovendo dal rilievo della irrazionalità dell’operato del legislatore, il quale, per un verso, prevede la possibilità per il giudice ordinario di trarre argomenti di prova dalle
risposte date dalle parti durante l’interrogatorio libero, ma per altro
verso non consente allo stesso di utilizzare, entro i medesimi limiti
probatori, le affermazioni dei testi interessati ex art. 246 c.p.c., ha fatto
circolare l’idea di una applicazione dell’art. 117 c.p.c. anche per i testi
incapaci, al pari di quanto avviene nel rito del lavoro in forza dell’art.
421 ultimo comma c.p.c..
Seguendo probabilmente tale impostazione era stata sollevata
questione di costituzionalità sul punto. Ma la Corte ha ritenuto la questione inammissibile concernendo scelte effettuate dal legislatore nell’esercizio del suo potere discrezionale: secondo il giudice delle leggi
non è irragionevole che il legislatore “abbia ritenuto di non poter
accordare fiducia alle dichiarazioni rese da chi abbia nella causa un
interesse qualificato” (Corte Cost. ord. n. 494/87).
L’eccezione, in applicazione della regola di cui all’art. 157 c.p.c.,
non può essere sollevata dalla parte che ha chiesto l’ammissione del
teste pretesamente incapace (Cass. n. 2802/69).
Quanto alle modalità ed ai tempi per sollevare l’eccezione de qua,
va osservato che la parte non può limitarsi ad allegare genericamente
l’incapacità del teste o la nullità della deposizione, ma deve indicare in
modo specifico il preteso interesse del testimone. In difetto, l’incapacità deve essere esclusa (Cass. n. 4752/88).
Inoltre, in ossequio alla regola generale della rilevabilità delle nullità relative (art. 157 c.p.c.), l’eccezione deve essere sollevata nella
prima istanza o difesa successiva all’atto o alla notizia di esso, purché
il procuratore della parte interessata non sia stato presente all’udienza di assunzione. In caso contrario, l’eccezione va sollevata, a pena di
decadenza, nella stessa udienza di assunzione, subito dopo l’espletamento della prova (Cass. 303/96; Cass. 11253/96; Cass. n. 1425/87;
Cass. n. 5087/86; Cass. n. 4880/79; Cass. n. 189/77).
Non è ovviamente necessario che il rilievo sull’incapacità del teste
venga mosso prima dell’inizio dell’assunzione. Infatti, le cause di incapacità potrebbero emergere durante la deposizione e l’opposta conclusione confliggerebbe con la regola di cui all’art. 157 c.p.c. sopra
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richiamata. Tuttavia, è necessario che l’eccezione di nullità sia sollevata successivamente al provvedimento di ammissione del teste, in
quanto una sola eccezione per così dire preventiva è stata giudicata
inidonea a produrre le conseguenze di cui all’art. 157 c.p.c.. Infatti,
detta norma presuppone il compimento di un atto nullo e quindi non
è opponibile in relazione ad un atto futuro (Cass. 5534/97; Cass. n.
11253/96; Cass. n. 7869/90). Per non incorrere in decadenze la parte
che ha sollevato in via preventiva un’eccezione di incapacità di un
teste è dunque onerata della reiterazione dell’eccezione dopo il provvedimento di ammissione, secondo i tempi e i modi sopra ricordati.
La prima istanza o difesa successive vanno riferite al grado di giudizio in cui è stato assunto il mezzo di prova asseritamente viziato. Ne
consegue che l’eccezione non può essere sollevata per la prima volta in
appello, neppure dal contumace (Cass. n. 3231/80; Cass. n. 5068/79).
Una definizione rigorosa della formula “prima istanza o difesa
successiva” considera tardiva anche l’eccezione non formulata durante l’udienza immediatamente successiva all’espletamento della prova
che però si era esaurita con un mero provvedimento di rinvio (Cass. n.
4574/87; Cass. n. 1994/80).
Qualora la nullità della deposizione per ragioni di incapacità del
teste non venga eccepita tempestivamente, il vizio è sanato per
acquiescenza (Cass. n. 1425/87). E una volta verificatasi la sanatoria,
la nullita non può essere più rilevata nei successivi gradi di giudizio
(Cass. n. 5068/79). Si ha inoltre sanatoria per rinuncia all’eccezione
nel caso in cui, respinta dal giudice, l’eccezione non sia riproposta in
sede di conclusioni (Cass. n. 1042/89) o espressamente come motivo di
gravame (Cass. 3787/96; Cass. n. 1735/75), o ancora nel caso in cui la
parte interessata all’eccezione di incapacità del teste si associ all’istanza di assunzione dello stesso formulata da altra parte del giudizio
(Cass. n. 303/96).
Accolta l’eccezione di incapacità, il teste non viene ammesso a
deporre o la testimonianza è colpita da nullità, e il giudice non potrà
tenerne conto nella decisione della causa. Se però dalla motivazione
della sentenza dovesse emergere che il giudice si sia servito della deposizione del teste incapace al fine di decidere la controversia, il vizio
della prova si estende alla sentenza, in caso contrario la nullità della
deposizione diviene ininfluente (Cass. n. 6447/80).
Resta l’ipotesi in cui l’incapacità del teste assunto sia stata in qualche modo sanata. In tal caso, l’incapacità non si traduce tout court in
inattendibilità del teste, e la deposizione dovrà essere vagliata dal giudice al pari delle altre prove (art. 116 c.p.c.).
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In ossequio al già ricordato principio tradizionale nemo testis in
causa propria, è stata sancita l’incompatibilità assoluta tra la posizione
di parte attuale o potenziale e quella di testimone.
Tale incompatibilità ha trovato espressione nell’art. 246 c.p.c., il
quale stabilisce che non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la
loro partecipazione al giudizio. Dottrina e giurisprudenza, seppure
nel quadro di vari contrasti interpretativi, hanno poi cercato di dare
una veste al principio sancito dalla norma riportata, qualificando l’interesse di ostacolo alla deposizione testimoniale come l’interesse di cui
all’art. 100 c.p.c., personale, concreto e attuale (Cass. n. 7077/86; Cass.
n. 5919/93).
È superfluo ricordare che questione del tutto diversa dalla capacità del teste e quella riguardante l’attendibilità dello stesso, la quale
frequentemente si può porre in relazione a testimoni perfettamente
capaci di deporre (v. Cass. n. 9126/93 che affronta funditus la problematica della distinzione tra incapacità e inattendibilità).
La predetta definizione generale ha poi trovato un ulteriore specificazione. È stato fatto rilevare che l’interesse causa di incapacità a
testimoniare è quello che legittimerebbe la partecipazione del teste al
giudizio con l’intervento principale, adesivo autonomo o adesivo dipendente (Cass. n. 1369/89; Cass. n. 32/94), sia esso volontario o ad istanza di parte (Cass. n. 3432/98). Inoltre, l’interesse, come sopra qualificato, deve riferirsi specificatamente al rapporto controverso.
Infine, è stato precisato, sebbene con qualche voce contraria, che
l’interesse in questione deve essere ragguardato in sé e per sé, a prescindere dalle vicende che rappresentano un posterius rispetto alla
configurabilità dello stesso, come, ad esempio, la rinuncia al diritto o
la prescrizione (Cass. n. 1580/74) e dalla effettiva possibilità di partecipazione al giudizio in relazione allo stato e alla fase dello stesso. Parimenti, è stato sottolineato come l’interesse de quo debba essere valutato, di regola, in base a elementi indipendenti dalle dichiarazioni del
teste, atteso che queste ultime, rappresentano, appunto, fatti futuri ed
incerti rispetto all’individuazione dell’interesse medesimo (Cass. n.
5919/93; Cass. n. 8840/90).
Al contrario, nell’ottica di una visione meno rigida dei limiti alla
capacità di deporre, si è sostenuto, da parte della giurisprudenza di
merito (App. Torino, 11 giugno 1992 – “il caso dei pantaloni strappati”), che l’interesse che determina l’incapacità ex art. 246 c.p.c. non
deve essere comunque irrisorio, in assoluto ed in rapporto al valore
della controversia. Sebbene le formule riportate consentano di circo-
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scrivere in modo apprezzabile i confini della nozione di incapacità a
testimoniare, va osservato che poi l’esperienza dei casi concreti ci
pone talvolta di fronte a situazioni non facilmente ed immediatamente assimilabili alle definizioni generali. Sembra quindi opportuno fare
una sorta carrellata delle varie possibili ipotesi di capacità/incapacità
affrontate dalla giurisprudenza, anche meno recente:
1) non è ovviamente capace di deporre chi ha assunto la qualità di
parte nel giudizio;
2) non è capace la parte che è stata estromessa dal giudizio per
carenza di interesse (Cass. n. 1986/64);
3) è invece capace di deporre la parte del giudizio divenuta tale per
successione mortis causa dopo l’assunzione della testimonianza
(Cass. n. 1496/83);
4) è incapace a deporre il condebitore solidale soggetto passivo
del procedimento monitorio nel giudizio di opposizione instaurato
da alcuni condebitori (Cass. n. 314/65), in quanto egli ha pur sempre
assunto la veste formale di parte nella fase monitoria;
5) è incapace il rappresentante legale di società dotata di personalità giuridica (Cass. n. 241/96), nella controversia in cui sia parte la
societa;
6) è capace il semplice amministratore o membro del consiglio di
amministrazione di società dotata di personalità giuridica (Cass. n.
3256/56), ma vedi Cass. n. 9826/96 che ha precisato che l’amministratore è capace di deporre se non rappresenta in giudizio la società o se
è cessato dalla carica al tempo dell’espletamento della prova, salva
comunque l’esistenza di un diverso interesse concreto e attuale relativo all’oggetto del giudizio;
7) e capace il legale rappresentante di società dotata di personalità giuridica divenuto tale dopo la deposizione o cessato dalla carica
prima dell’espletamento del mezzo di prova (Cass. n. 1461/77; Cass. n.
2580/80);
8) è capace il socio di società dotata di personalità giuridica nei
procedimenti instaurati da terzi contro la società, atteso che la società,
essendo fornita di personalità giuridica, costituisce un soggetto a sé
stante, distinto dai soci che la compongono (Cass. n. 1076/68);
9) al contrario, non è capace il socio di società con personalità
giuridica nelle controversie sociali interne, quali quelle di cui all’art.
2377 c.c., in quanto ciascun socio (anche quelli dissenzienti o assenti
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che non hanno originariamente impugnato la delibera, così come
quelli consenzienti) potrebbe intervenire in causa, adesivamente a
favore dei soci ovvero in favore della società (Cass. n. 3481/55; Cass. n.
5263/80);
10) è ancora capace il socio di società con personalità giuridica
cessato da tale qualità prima della deposizione o prima dell’adozione
della delibera impugnata, perché entrambe le situazioni fanno venir
meno la possibilita della sua partecipazione al giudizio (Cass. n.
6310/79; Cass. n. 6943/82);
11) non sono capaci a testimoniare il socio accomandatario della
s.a.s., il socio accomandante ex art. 2320 c.c. e il socio della s.n.c. e
della s.s., poiché, essendo illimitatamente responsabili con il loro
patrimonio, sono portatori di interesse personale all’esito della lite
(Cass. n. 3577/84; Cass. n. 1444/81);
12) parimenti, sono incapaci il presidente e il direttore di associazione non riconosciuta: trattasi infatti di soggetti legittimati a stare
in giudizio per conto dell’associazione (artt. 36 c.c. e 75 c.p.c.);
13) è invece capace di deporre il semplice membro dell’associazione non riconosciuta, perché trattasi di enti privi di personalità
giuridica ma comunque integranti un soggetto giuridico autonomo e
distinto dagli associati (Cass. n. 3448/79), salvo che il membro non sia
personalmente e solidalmente responsabile per effetto dell’art. 38 c.c.,
avendo agito in nome e per conto dell’associazione (Cass. n. 2219/59);
14) è incapace il componente di un comitato, in considerazione
del fatto che egli ex art. 41 c.c. è personalmente e solidalmente responsabile delle obbligazioni assunte dal comitato;
15) è incapace ciascun condòmino nell’ambito delle controversie
instaurate da o contro il condominio, eventualmente rappresentato
dall’amministratore ex art. 1131 c.c., oltreché ovviamente in quelle tra
condòmini o contro l’amministratore, in quanto, di regola, ogni condòmino non viene privato del potere di agire o di difendere i diritti
esclusivi o comuni inerenti al condominio, e quindi egli è in grado di
partecipare al giudizio (Cass. n. 1191/80 – v. anche Cass. n. 6483/97
che ha sancito l’incapacità di ciascun condòmino a deporre nelle cause
riguardati le parti comuni del condominio);
16) di regola, non è capace l’amministratore del condominio,
poiché legittimato a rappresentare gli interessi comuni dei condòmini
(Cass. n. 2665/76), salvo quindi che non si tratti di controversie involgenti unicamente interessi individuali dei condòmini;
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17) risultano incapaci a deporre l’amministratore e ciascun condòmino nei procedimenti di impugnazione delle delibere assembleari,
in quanto entrambi sono legittimati passivi, in via concorrenziale (Cass.
n. 8198/90; Cass. n. 1220/69 – contra, Cass. n. 12379/92 sul presupposto,
che peraltro non trova sufficiente riscontro nella stessa giurisprudenza
della Suprema Corte, di una legittimazione passiva esclusiva dell’amministratore, con esclusione, quindi, di una analoga legittimazione in
capo ai singoli condòmini, i quali, in tal modo, non potendo partecipare al giudizio, sono idonei a rendere la testimonianza (probabilmente
purché la controversia non riguardi parti comuni del condòmino);
18) è chiaramente incapace il fallito nelle controversie inerenti a
rapporti economici compresi nel fallimento, giacché, sebbene per
effetto degli artt. 31, 42 e 43 della legge fallimentare il fallito perda la
legittimazione processuale attiva e passiva, egli conserva ugualmente
la titolarità dei rapporti patrimoniali afferenti il fallimento e quindi la
qualità di parte in senso sostanziale nelle controversie relative a tali
rapporti (Cass. n. 2404/89, Cass. n. 2680/93 – v. però il caso in cui la
deposizione del fallito non è stata ammessa, in una controversia avente ad oggetto la simulazione di una vendita di bene immobile stipulata immediatamente prima della dichiarazione di fallimento, sul diverso presupposto della facoltà del fallito, riconosciuta dall’art. 43 l.f., di
intervenire nei giudizi riguardanti questioni dalle quali può dipendere
una imputazione di bancarotta a suo carico ovvero nei casi previsti
dalla legge (Cass. n. 6247/83) – con la conseguenza che in tutti gli altri
casi, non potendo il fallito partecipare al giudizio, potrebbe essere
chiamato a deporre come teste?)
19) sono capaci i creditori del fallimento, non istanti, nelle cause
di opposizione alla sentenza dichiarativa di fallimento, atteso che nel
processo fallimentare le ragioni dei creditori vengono fatte valere dal
curatore (Cass. n. 3308/59; Cass. n. 3091/60); e ciò anche nel caso in
cui il creditore sia già stato ammesso al passivo (Cass. n. 3157/94);
20) è incapace il socio fallito con la società di fatto nel giudizio
di opposizione proposto da un altro socio, perché, pur non essendo
parte formale dell’opposizione, esso è parte sostanziale fornita di un
rilevantissimo interesse quale quello diretto ad individuare solidarietà
passive ulteriori rispetto al pagamento del suo debito (Cass. 23 ottobre
1973 – se però il giudizio riguarda la simulazione assoluta della vendita di un immobile realizzata da uno solo dei soci falliti con la società
di fatto e viene instaurato dal curatore contro il terzo, il socio fallito
che non ha concorso nella simulazione è stato giudicato capace di de-
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porre in quanto portatore di un mero interesse di fatto e non di un vero e proprio interesse giuridico alla partecipazione al giudizio Cass. n.
3265/86);
21) sono capaci i creditori fallimentari nel giudizio promosso dal
curatore contro gli amministratori ex art. 2393 c.c. (Cass. n. 217/72);
22) sono ugualmente capaci il creditore e il dipendente di una
delle parti in giudizio, in quanto chiaramente portatori di un mero
interesse di fatto alla conclusione della controversia, senza alcuna possibilità di partecipare al giudizio (Cass. n. 1027/75);
23) è capace a deporre la parte di un processo analogo a quello
in cui viene chiamato a deporre (esempio tipico: collega di lavoro del
ricorrente nel rito del lavoro), in quanto portatore di un interesse di
mero fatto e privo della facoltà di intervenire in giudizio (Cass. n.
1887/97); invero, con riguardo, ad esempio, alle controversie del lavoro, il giudizio ha ad oggetto i diritti e gli obblighi nascenti da quel
determinato contratto di lavoro concluso tra quel lavoratore e quel
datore di lavoro, e ciò anche se i giudizi vengono riuniti (Cass. n.
6932/87) o se le domande (ad esempio, di accertamento dell’illegittimità del licenziamento) sono state proposte originariamente nello
stesso processo da più lavoratori poi chiamati a deporre “ad incrocio’’
(Cass. n. 7800/93), trattandosi di connessione impropria. Tuttavia,
secondo un diverso orientamento giurisprudenziale, la capacità del
teste è conservata solamente nel caso in cui i giudizi rimangano distinti, mentre nel caso di riunione, considerato che la qualità di parte si
comunica a tutti i soggetti originari, il teste divenuto parte deve essere ritenuto incapace a deporre (Cass. n. 387/87; Cass. n. 5629/79);
24) risultano incapaci i soggetti che avrebbero potuto essere
chiamati in giudizio dall’attore, in linea alternativa o solidale,
come soggetti passivi della pretesa fatta valere contro il convenuto
(Cass. n. 3577/84; Cass. n. 1444/81; Cass. 3432/98 nella quale vengono
delineate, in linea generale, le varie ipotesi di possibile legittimazione
a partecipare al giudizio ostative rispetto alla deposizione testimoniale), ovvero che potrebbero essere chiamati in garanzia dal convenuto
(Cass. n. 445/67). Un caso esemplare e quello dell’art. 2049 c.c.;
25) va giudicata incapace a deporre la persona trasportata a bordo di una vettura coinvolta in un sinistro, che abbia subíto lesioni
(Cass. n. 1580/74), anche se si è trattato di lesioni lievi e se la stessa ha
dichiarato di rinunciare al diritto al risarcimento (Pret. Catania, 26
febbraio 1996);
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26) è ritenuto capace il conducente di veicolo coinvolto in sinistro stradale nel procedimento instaurato dal proprietario contro il
terzo responsabile, senza che questi abbia poi a sua volta svolto
domanda riconvenzionale, in quanto non potrebbe intervenire in giudizio, purché ovviamente non abbia subíto danni (Cass. n. 5858/93 –
se invece il terzo ha svolto domanda riconvenzionale, il conducente è
incapace a deporre poiché potrebbe essere coinvolto nel giudizio ex
art. 2054 c.c. – Cass. n. 2441/75);
27) è da reputarsi incapace a rendere testimonianza il coniuge in
regime di comunione dei beni nelle controversie instaurate da o contro l’altro coniuge dalle quali dipenda l’attribuzione di entità patrimoniali destinate ad incrementare o decurtare il patrimonio comune
(Cass. n. 1594/84); in caso contrario, la deposizione è ammessa (Cass.
n. 3651/94, che fa comunque salvo il giudizio sull’attendibilità di una
tale tipo di teste), nonostante l’entità patrimoniale oggetto del giudizio
possa eventualmente finire nella comunione de residuo, dato che in
tale ipotesi mancherebbe comunque l’attualita dell’interesse del teste
(in un caso particolare di procedimento avente ad oggetto una violazione di distanze tra fabbricati il coniuge del convenuto in regime di
comunione è stato ritenuto capace di deporre in quanto l’incremento
eventuale del patrimonio non era strettamente connesso all’oggetto
della lite, con la conseguenza che il teste era portatore di un mero interesse di fatto – Cass. n. 9786/97).
Sempre con riferimento alla posizione del coniuge, va segnalato
che la Corte Costituzionale, con sentenza n. 62 del 1995, ha dichiarato
infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 159 c.c. e 246 c.p.c., nella parte in cui prevede l’incapacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione legale dei beni che possono essere incrementati o decurtati in dipendenza del giudizio in cui è parte in causa l’altro coniuge, in riferimento agli art. 3 e 24
Cost.. La Corte, pur avendo dichiarato, in passato, l’incostituzionalità
dell’art. 247 c.p.c., nella sentenza richiamata, come in altre precedenti,
ha nuovamente confermato la razionalità della disposizione di cui
all’art. 246 c.p.c., anche in relazione al coniuge in comunione legale.
28) è, di regola, capace il soggetto che in conseguenza di proprie
condotte o di proprie omissioni possa aver eventualmente arrecato
un pregiudizio alla situazione processuale di una parte: ad esempio, è stato giudicato capace il soggetto che, in qualità di ex assistente
legale di una parte del processo, ha omesso di inviare alla controparte
una lettera interruttiva della prescrizione del diritto al risarcimento
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danni da incidente stradale, nell’ambito del procedimento instaurato
dal danneggiato contro i responsabili del fatto illecito, ove i convenuti abbiano eccepito la prescrizione e l’attore abbia chiesto l’introduzione del predetto teste al fine di provare l’avvenuta interruzione del
termine prescrittivo, e ciò in quanto un tale soggetto è portatore di un
interesse che riguarda i rapporti tra sé e alcune parti e non specificatamente il rapporto controverso in giudizio (Cass. n. 554/78 – v. altri
casi di applicazione di detta regola: Cass. n. 8840/90 in tema di inadempimento contrattuale; Cass. n. 32/94 riguardante un caso di persona aggredita dal lavoratore licenziato e Cass. n. 1341/93 in tema di
licenziamento illegittimo, ove è stato giudicato capace di deporre un
lavoratore ritenuto corresponsabile del fatto illecito che aveva provocato a carico del ricorrente il licenziamento oggetto del giudizio);
29) è incapace il lavoratore nei processi tra datore di lavoro e istituti previdenziali riguardanti omissioni contributive, in quanto,
dovendosi accertare incidentalmente la sussistenza del rapporto di
lavoro subordinato, il lavoratore, pur non essendo contraddittore
necessario, avrebbe un interesse alla partecipazione al giudizio, come
testimoniano le azioni ex artt. 2116 c.c. e 13 legge n. 1338/62 (Cass. n.
6299/88); in tal caso le dichiarazioni possono essere raccolte ai sensi
dell’art. 421 c.p.c.;
30) è invece capace il dipendente di istituto di credito nel giudizio instaurato dal cliente contro l’istituto stesso, dato che questi è portatore di un mero interesse di fatto, anche se accusato dal cliente di
irregolarità nelle annotazioni di competenza, essendo fra l’altro ravvisabile un rapporto di garanzia distinto dal rapporto dedotto in giudizio (Cass. n. 2641/93 – contra, Trib. Milano, n. 4157/88 sul presupposto
della possibile azione di rivalsa nei confronti del dipendente);
31) è ancora capace il mediatore nelle controversie tra le parti del
contratto concluso con il suo intervento, purché non riguardanti il
diritto alla provvigione (Cass. n. 4439/84 Cass. n. 5426/78; Cass. n.
2780/97);
32) è capace l’altra parte del contratto concluso con l’intervento di un procacciatore di affari nel giudizio instaurato tra la
parte incaricante e il procacciatore (Cass. n. 2866/75);
33) sono capaci il procuratore e il mandatario di una delle
parti, salvo che essi siano titolari in concreto di un effettivo interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio (Cass.
n. 739/66);
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34) parimenti è capace il subagente nel giudizio instaurato tra
agente e preponente, in quanto il diritto del subagente al pagamento
delle provvigioni, da parte dell’agente, non dipende dal pagamento, da
parte del preponente, delle spettanze dell’agente (Cass. n. 5203/89);
35) è capace il rappresentante commerciale del venditore nel
giudizio promosso da costui contro il compratore (Cass. n. 959/68);
36) è capace il notaio che ha rogato l’atto oggetto del giudizio,
perché privo di interesse diretto in causa (Cass. n. 5450/78), salvo
comunque il diritto al segreto professionale;
37) è altresì capace il consulente tecnico di parte sulle circostanze di fatto direttamente da lui rilevate (in tal caso il professionista non
porta nel processo la propria assistenza tecnica, atteso che la sua
deposizione non verte sulla qualificazione dei fatti, bensì unicamente
sulla descrizione di fatti materiali (Cass. n. 8/68);
38) non è capace la madre nel giudizio di paternità naturale, poiché legittimata a spiegare intervento adesivo (art. 269 c.c.);
39) non sono ugualmente capaci il possessore e il detentore nel
procedimento possessorio, giacché entrambi sono dotati di legittimazione attiva in un tale procedimento (i familiari del possessore e del
detentore sono invece capaci di deporre, in quanto portatori di un
mero interesse di fatto – v. Cass. n. 1714/89 per un caso avente come
protagonista il titolare di un contratto agrario);
40) neppure è capace il dante causa del possessore che agisce in
sede possessoria, perché se egli ha garantito il possesso nell’atto di trasferimento, potrebbe intervenire in giudizio ad adiuvandum del proprio avente causa, onde evitare che in caso di soccombenza quest’ultimo eserciti poi azione risarcitoria nei suoi confronti per aver male
garantito il possesso del bene (Cass. n. 1369/89);
41) non è capace il teste nel giudizio incidentale di falso che
potrebbe essere parte del giudizio principale, in quanto ciò che conta
è la posizione di parte nel giudizio principale (Cass. n. 3169/88);
42) sono capaci il sostituto e l’ausiliario del prestatore d’opera
intellettuale (Cass. n. 2354/61);
43) è capace colui che collabora con l’azienda paterna, senza
essere contitolare dell’impresa (Cass. n. 2597/83);
44) non è invece capace il cedente di un contratto obbligato a
garantire il buon fine nei confronti del cessionario (Cass. n. 592/53);
45) non è altresì capace il genitore esercente la patria potestà sul
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minore che potrebbe essere la causa immediata del danno oggetto del
giudizio (Cass. n. 74/62);
46) il minore di età non è di per sé incapace a deporre (Cass. n.
5485/97);
47) nel giudizio tra i congiunti del defunto, avente ad oggetto la
scelta del luogo di sepoltura della salma, gli altri congiunti dello stesso hanno interesse giuridico personale legittimante l’eventuale partecipazione al giudizio e, perciò, sono incapaci di testimoniare in ordine alla electio del luogo medesimo fatta in vita dal de cuius (Cass. n.
2304/90; Cass. n. 1527/78);
48) sono evidentemente capaci i cittadini uti cives interessati ad
una servitù di uso pubblico nell’ambito di un procedimento che abbia
ad oggetto tale servitù, in quanto portatori di un mero interesse generico e diffuso (Cass. n. 7865/90);
49) un rapporto di mera ospitalità tra il teste e una parte del giudizio non conduce all’incapacità del teste (Cass. n. 8131/93);
50) secondo la giurisprudenza di legittimità è ritenuto capace di
deporre il procuratore speciale della parte ammesso a rendere l’interrogatorio libero ex artt. 183 e 420 c.p.c. (Cass. n. 2058/96; Cass. n.
346/96; Cass. n. 3503/88), in considerazione del fatto che la procura
speciale non comporta una legittimazione sostanziale del procuratore,
tant’è che questi non potrebbe per ciò solo essere convenuto in giudizio o intervenirvi: si tratterebbe solamente di una questione di attendibilità.
Un orientamento di merito, invece, individuando una incompatibilità tra la qualità di parte o di un suo rappresentante e quella di teste,
è pervenuto ad escludere la capacità di deporre del procuratore speciale (Pret. Bologna, 24 aprile 1985);
51) Con riguardo al procuratore costituito e alla sua capacità di
rendere testimonianza si è andato formando un orientamento giurisprudenziale, largamente maggioritario, secondo il quale spetta al giudice, nell’esercizio del potere discrezionale di ridurre le liste sovrabbondanti ex art. 245 c.p.c, valutare l’opportunità o meno di assumere
la testimonianza dell’avvocato della parte, in quanto la capacità a testimoniare, disciplinata dall’art. 246 c.p.c., non può essere estesa oltre
l’àmbito delle persone aventi nella causa un interesse che potrebbe
legittimare la loro partecipazione al giudizio (Cass. n. 893/51; Cass. n.
324/80). In altri termini, stando alla lettera della legge, il difensore non
può dirsi portatore di un interesse attuale e concreto in relazione alla
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causa e quindi la sua deposizione non può trovare ostacolo nell’art.
246 c.p.c. e neppure vi è la necessità di dover rinunziare al mandato:
altro è il patrocinio nella duplice figura di sostituzione e di assistenza,
altro è lo stare in giudizio della parte, nel quale si concretano le rappresentanze legale e organica.
Tuttavia, si è fatto strada, sulla base di un autorevole orientamento dottrinale (SATTA), un diverso indirizzo giurisprudenziale (Trib. Milano, ord. 8 maggio 1996), favorevole all’individuazione di una incapacità del difensore a testimoniare, seppure sui generis, nel senso che
essa non trae spunto dal riferimento normativo di cui all’art. 246 c.p.c.
(letteralmente inconciliabile con tale impostazione), bensì trova la sua
fonte nel principio generale, non scritto, “secondo cui chiunque partecipa al processo in una posizione tipica, qualunque essa sia, svolge
una funzione alla quale deve restare fedele e non può assumerne un’altra senza necessariamente contraddire alla prima”.
In particolare, a sostegno della incompatibilità tra la figura di
teste e quella di difensore, è stato osservato:
– che “il vigente sistema processuale non ammette che lo ius postulandi possa estendersi fino alla facoltà di assumere, in costanza di
mandato, la veste di testimone e ciò per il semplice rilievo che le circostanze su cui il procuratore teste potrebbe essere chiamato a deporre
potrebbero anche non giovare alla parte e creare perciò con questa un
conflitto di interessi che mal si concilia con la facoltà del difensore di
libera critica e valutazione delle prove e con il suo potere-dovere di assistenza e difesa della parte nel cui interesse egli esercita il mandato”;
– che non può essere ammessa una peculiare commistione di ruoli
processuali, conseguente al fatto che il procuratore, da un lato, ha una
particolare conoscenza della controversia e ha contribuito all’impostazione della medesima (anche articolando i mezzi istruttori e quelli
testimoniali in particolare), e dall’altro egli si trova a deporre sulle circostanze da lui stesso, in altra veste, ritenute rilevanti e funzionali alla
decisione della causa in senso favorevole al proprio cliente;
– che nel sistema penale la Corte di Cassazione non ha mancato di
rilevare l’inammissibilità del contestuale esercizio delle funzioni di
difensore e di teste, con conseguente decadenza automatica dall’ufficio di difensore del professionista che abbia assunto la qualità di teste
(Cass. 8 giugno 1988);
– che le finalità sottese alla prescrizione dell’art. 251 c.p.c. (i testi
debbono essere sentiti separatamente) verrebbero vanificate in caso di
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deposizione del difensore, il quale in ragione del suo mandato potrebbe (e comunque avrebbe diritto di) presenziare alla deposizione degli
altri testi ammessi (senza contare che secondo alcuni una prova di tal
fatta sarebbe viziata per inidoneità a raggiungere lo scopo – ma sul
punto si è ribattuto che il pericolo di violazione dell’art. 251 c.p.c. non
vi sarebbe in quanto il momento della valutazione della compatibilità
è ricollegato al momento in cui il giudice emette il provvedimento di
ammissione delle prove).
In ogni modo, qualsiasi sia la soluzione reputata più consona
(quella fondata sulla lettera dell’art. 246 c.p.c. o quella basata per così
dire su di una figura di incapacità a testimoniare di carattere eminentemente istituzionale e funzionale), è indubbio che la questione in
esame involge problematiche connesse alla deontologia professionale
propria della categoria dell’avvocatura.
È noto, infatti, che gli avvocati non possono essere obbligati a
deporre su quanto da loro conosciuto in ragione della loro professione, e ciò sia nel processo penale (art. 200 c.p.p.), sia nel procedimento civile (art. 249 c.p.c.), sia più genericamente nei giudizi di qualunque specie (art. 13 R.D. n. 1587/33 – un tale principio lo si vuole estendere ai praticanti avvocati – v. ordinanza di rimessione alla Corte
Costituzionale del Tribunale di Udine, 26 giugno 1996 questione dichiarata non fondata con sent. n. 87/97).
E prendendo proprio le mosse dal “diritto di tacere” sancito anche
a livello di normativa interna di categoria, si è sentita l’esigenza in
dottrina di dare manforte all’orientamento giurisprudenziale di merito più restrittivo. In particolare, è stato messo in evidenza come l’alternatività tra la figura del teste e quella del difensore e la insanabile
inconciliabilità tra i due ruoli, oltre che essere le dirette conseguenze
di comuni regole deontologiche, possano liberare il processo da alcuni paradossi: l’avvocato, ad esempio, si troverebbe nella necessità di
porre domande a sé stesso o di discutere sull’attendibilità dei testi.
Non vi è chi non veda come in tali casi, seppure paradossali, si renda
palese lo stridente contrasto di ruoli e di funzioni.
Seguendo invece impostazione più restrittiva, fatta propria dalla
ricordata giurisprudenza di merito, l’avvocato si troverà di fronte ad
un duplice ed alternativo obbligo di astensione: come teste, se viene
invocato il diritto al segreto professionale; come difensore (se viene
privilegiato il diritto alla testimonianza).
Il giudice, dal canto suo, qualora l’avvocato chiamato a deporre
non rinunci al mandato, potrà applicare l’art. 245 c.p.c. (“elimina i
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testimoni che non possono essere sentiti per legge”), mentre la deposizione potrà essere raccolta ove l’attività difensiva non sia in essere o
sia venuta a cessare, appunto, con la rinuncia al mandato, prima del
provvedimento di ammissione.
Nell’ipotesi in cui il mandato venga dismesso in vista della testimonianza, e quest’ultima venga effettivamente resa, non sarà consentito al difensore si riassumere il mandato, permanendo la qualità di
teste finché il processo non si chiude con sentenza irrevocabile (si tratta però di individuare i modi attraverso i quali impedire al difensore
di riassumere la difesa della parte).
Comunque, come accennato, accanto all’art. 88 c.p.c., dovranno
essere le regole deontologiche, delle quali infatti si auspica un sempre
maggiore carattere vincolante, ad informare le scelte del difensore,
affinchè egli non si possa trovare nella scomoda posizione di dover
rivelare, ad esempio, circostanze sfavorevoli al proprio cliente o apprese dalla controparte in un contesto che questa poteva ritenere riservato.
E se si pensa che una tale soluzione è già in vigore in altri ordinamenti, come quello inglese (The Guide to the Professional Conduct of
Solicitors, London 1990), non si può pensare di abbandonarla frettolosamente, seppure nella consapevolezza dell’inesistenza di un divieto
formale di deporre a carico dell’avvocato-procuratore costituito in
causa. Si potrebbe, per la verità, tentare una via intermedia, nel solco
di un riconoscimento di un più ampio diritto alla prova, quale manifestazione essenziale della garanzia dell’azione e della difesa, e sostenere che la deposizione dell’avvocato è ammissibile a condizione che
egli abbia preventivamente rinunciato al mandato (App. Genova, 21
gennaio 1951; Trib. Napoli, 15 dicembre 1976).
– C) In quali casi il teste può astenersi dal deporre? – è ammissibile una
prova che abbia ad oggetto fatti posti in essere dal teste e che potrebbero integrare una ipotesi di reato? – nel caso che nel corso di una
deposizione emergano fatti di reato a carico del teste, possono applicarsi analogicamente le norme del processo penale?
Le ipotesi di astensione, come accennato, sono quelle riconosciute dall’art. 249 c.p.c. (v. artt. 351 e 352 c.p.p. abrogato, ora artt.
200/204 c.p.p. vigente ivi richiamati).
In particolare, godono della facoltà di astensione coloro che possono invocare: il segreto professionale (art. 200 c.p.p. e leggi speciali –
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ad esempio: avvocati, notai, medici, ostetriche, commercialisti, ragionieri ecc.), mentre hanno l’obbligo di astenersi dalla deposizione coloro che possono invocare il segreto d’ufficio (art. 201 c.p.p. – autorità
giudiziaria, pubblici ufficiali ecc.) o il segreto di Stato (art. 202 c.p.p.).
Merita di essere sottolineato come tra le norme richiamate dall’art. 249 c.p.c. non vi sia l’art. 199 c.p.p. riguardante la facoltà di
astensione dei prossimi congiunti. Sul punto, è intervenuta la Corte
Costituzionale dichiarando inammissibile la questione di legittimità
costituzionale sollevata in relazione all’art. 3 Cost., ma nel contempo
auspicando l’intervento del legislatore. In effetti, il significato solidaristico e di tutela del sentimento familiare sotteso alla norma in esame
pare forse meno meritevole di protezione in sede di procedimento civile, anche se poi si possono verificare casi in cui il teste si può imbattere, come nel processo penale, nell’alternativa di mentire o di nuocere al congiunto.
La facoltà di invocare l’astensione è anche riconosciuta da varie
convenzioni internazionali (ad esempio, art. 11 Conv. Aja 18 maggio
1970 esecut. ex legge n.745/80).
L’elencazione delle funzioni e delle professioni oggetto della
facoltà di astensione deve considerarsi tassativa (Cass. Pen. 17 dicembre 1953).
Ad avviso di una giurisprudenza, peraltro assai datata, spetta al
giudice avvertire il teste, comunque obbligato a comparire, della
facoltà o dell’obbligo di astensione (Cass. Pen. 24 gennaio 1966), mentre secondo un orientamento dottrinale (MANZINI, PISANI) un simile compito, non essendo previsto espressamente dalla legge, a differenza di quanto accade all’art. 199 c.p.p., e dovendo far ricadere sul
teste l’onere di far valere il proprio diritto a non deporre, non può essere imposto al giudice. Ed infatti, in accoglimento di tale indirizzo, di
recente, la Corte di Cassazione ha escluso che il giudice debba necessariamente avvisare preventivamente il teste della facoltà di astensione (Cass. n. 2058/96 in un caso riguardante un consulente del lavoro).
Il controllo sulla fondatezza della dichiarazione di astensione è
affidato al giudice che decide eventuali questioni ex art. 205 c.p.c.. In
caso di dubbio da parte del giudice, questi può disporre gli accertamenti del caso, per il segreto di Stato l’art. 202 c.p.p. prevede poi una
particolare procedura.
Qualora il giudice accerti l’infondatezza della dichiarazione di
astensione, ordina al teste di rendere la deposizione.
La questione della tutela del teste in ipotesi di deposizioni
contra se, ovverossia di dichiarazioni che potrebbero integrare un
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reato, involge una problematica assai delicata in quanto viene qui in
discussione il c.d. privilege against self incrimination o diritto al silenzio: principio che non affonda radici abbastanza profonde nei singoli
sistemi nazionali, ma che è stato posto dalla Corte di Giustizia delle
Comunità Europee, nella sentenza 18 ottobre 1989 (causa 374/87),
come punto di riferimento, sebbene attraverso la via della tutela del
diritto di difesa, della decisione, dalla quale è stata estrapolata la
seguente massima: “In fase d’investigazione preliminare, la commissione Ce non può imporre ad un’impresa di fornire risposte che
potrebbero portarla ad ammettere l’esistenza di un’infrazione alle
regole di concorrenza”.
Un tale principio, nella legislazione italiana, trova diretto riscontro negli artt. 62 e 63 c.p.p., ma poi non è pacificamente suscettibile di
estensione nell’ambito del giudizio civile, almeno secondo quanto
osservato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 136/95, con la
quale è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 63 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24
Cost., nella parte in cui non comprende fra i destinatari delle dichiarazioni indizianti anche il curatore del fallimento (la Corte ha infatti
escluso che le dichiarazioni destinate al curatore possano considerarsi rese nel corso del procedimento penale, non potendo certo sostenersi che la procedura fallimentare sia preordinata alla verifica di una
notitia criminis, cosicché le dichiarazioni stesse coerentemente sfuggono all’area di protezione offerta dalla norma oggetto della censura).
La stessa Corte, nell’escludere l’equiparazione tra dichiarazioni
rese nell’ambito del procedimento penale e dichiarazioni rese nell’ambito della procedura fallimentare al curatore, ai fini della salvaguardia
del citato privilege against self incrimination, ha osservato che “l’essersi evocato un tertium comparationis individuato sulla base della parificazione, ai fini previsti dall’art. 63 c.p.p., tra autorità giudiziaria e
giudice civile e, dunque, tra interrogatorio dell’imputato o dell’indagato ed interrogatorio formale della parte, appare una soluzione ermeneutica davvero impropria rispetto ai princìpi sia del rito civile sia del
rito penale. Il riferimento, infatti, all’autorità giudiziaria, contenuto
nell’art. 63 c.p.p., è preordinato al solo fine di ricomprendere nella
nozione di genere non soltanto il giudice penale, ma anche il p.m..
Mentre non può in esse essere ricondotto il giudice civile, il quale, pur
ove in sede di interrogatorio formale vengano ammessi dalla parte
fatti costituenti reato, non può certo fare ricorso al regime previsto
dalla norma ora denunciata, essendo, semmai, tenuto, ai sensi dell’art.
331 comma 4 c.p.p. a redigere ed a trasmettere senza ritardo la denun-
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cia al p.m.; diviene infatti del tutto impercorribile l’estensibilità del
regime dettato dal più volte ricordato art. 63 c.p.p., nei confronti di un
atto perseguente finalità probatorie del tutto diverse da quelle proprie del
processo penale, non essendo ricavabile da alcuna norma del rito civile un principio che imponga al giudice civile di sospendere l’acquisizione di un atto dell’istruzione probatoria in funzione di esigenze
teleologiche esclusive del processo penale”.
È ben vero che la Corte si è occupata specificatamente dell’interrogatorio formale della parte, ma i riferimenti generali al procedimento civile e all’esclusione dell’obbligo per il giudice civile di
“sospendere l’acquisizione di un atto dell’istruzione probatoria” consentono forse di ritenere che le osservazioni possano essere estese
anche alla deposizione del teste.
La Corte di Cassazione sembra invece propensa ad assicurare,
anche in sede civile, una qualche forma di tutela del c.d. diritto al silenzio. Infatti, nella sentenza n. 7998/90 è stato affermato che se il
teste è in dubbio tra l’ammissione o la negazione di un fatto reato che
lo vede coinvolto non è da considerarsi incapace ex art. 246 c.p.c., né
la deposizione può dirsi viziata o invalida. Tale situazione avrà solamente rilievo ai fini dell’eventuale giustificazione del rifiuto della deposizione, a norma dell’art. 256 c.p.c., ovvero del giudizio di attendibilità
del teste.
In ogni modo, se da un lato sarebbe auspicabile l’introduzione
esplicita anche in procedimenti diversi da quello penale della tutela
del c.d. diritto al silenzio, sull’onda di quanto sostenuto dalla Corte di
Giustizia, dall’altro non si può fare a meno di rilevare che la scelta del
legislatore del 1988 di separare sempre piu nettamente il processo civile da quello penale (v. ad esempio artt. 75 e 651 c.p.p.) testimonia la
coerenza del sistema attualmente in vigore. E tale coerenza è salvaguardata in concreto dal fatto che le dichiarazioni indizianti rese
avanti il giudice civile potranno provocare unicamente l’avvio di un
procedimento penale attraverso la doverosa trasmissione degli atti al
P.M. competente, da parte del giudice che ha raccolto le dichiarazioni
stesse, ma poi queste ultime, una volta valutate in sede penale, non
potranno che scontare l’applicazione dell’art. 63 c.p.p..
Da ultimo, merita di essere segnalato che la Corte Costituzionale,
con ordinanza n. 390/88, ha ritenuto infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 246 c.p.c., in relazione all’art. 384 secondo
comma c.p., nella parte in cui non prevede l’incapacità a deporre nel
giudizio civile di chi è imputato di un fatto reato su circostanze relative o connesse al fatto medesimo.
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– D) Quali sono i presupposti per l’ammissione della prova de relato ad
istanza di parte? e della prova de relato disposta d’ufficio dal giudice?
La norma da analizzare e chiaramente l’art. 257 c.p.c., il quale
prevede sostanzialmente tre facoltà, esercitabili d’ufficio o ad istanza
di parte: 1) assunzione della testimonianza di persone alle quali i testi
già esaminati si sono riferiti (c.d. testi di riferimento); 2) assunzione
di testi l’audizione dei quali era stata ritenuta superflua ex art. 245
c.p.c. o dei quali era stata consentita la rinuncia; 3) rinnovazione dell’esame di testi già assunti.
La disposizione rappresenta una deroga al principio dispositivo e
al principio della unità della prova; perciò essa richiede una stretta
interpretazione, scevra da applicazioni analogiche (Cass. n. 4071/93;
Cass. n. 6515/92). In particolare, si può sostenere che la disposizione
in esame costituisce l’unica ipotesi nella quale è consentita l’assunzione di testi non preventivamente indicati dalle parti. Di conseguenza, la
parte non può invocare l’art. 257 c.p.c. al fine di chiedere la sostituzione di un teste deceduto con altro che non sia stato indicato nei
modi e nei termini di cui all’art. 244 c.p.c. (Cass. n. 6515/92; Cass. n.
4071/93).
I presupposti di ammissibilità dei c.d. testi di riferimento, possono essere individuati nel modo seguente:
1) il teste assunto deve aver riferito, almeno implicitamente, che
una data persona è a conoscenza dei fatti di causa (Cass. n. 3624/79;
Cass. n. 1257/77);
2) deve trattarsi di un soggetto ben identificato (Cass. n. 3624/79 –
ma secondo un orientamento dottrinale sarebbe sufficiente che il teste
assunto fornisca elementi sufficienti per l’identificazione del teste di
riferimento);
3) deve essere una persona non preventivamente indicata dalle
parti (Cass. n. 1257/77, la quale ha escluso che possano essere ammessi come testi di riferimento i soggetti menzionati negli scritti istruttori dalle parti senza che siano stati fatti poi rientrare nell’elenco dei
testi da assumere);
4) la deposizione del c.d. teste di riferimento deve rispondere all’esigenza di fornire al giudice elementi per la formazione del convincimento, nel senso che il giudice potrà ricorrere a tale mezzo di prova
qualora le risultanze istruttorie non siano sufficienti, e non invece
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quando i fatti oggetto della prova di riferimento risultino accertati
aliunde, in quanto in tale ultimo caso si finirebbe per supplire alla
carente conoscenza, da parte di uno dei contendenti, di tutte le persone in grado di deporre sui fatti di causa;
5) l’assunzione della prova per testi non deve essersi già conclusa
ai sensi dell’art. 209 c.p.c., salva la facoltà del Collegio di provvedere
ai sensi dell’art. 279 n. 4 c.p.c.;
6) dal punto di vista contenutistico, l’esame dei testi ex art. 257
primo comma c.p.c. va condotto entro i limiti del riferimento operato
dal teste già assunto, e non può estendersi a fatti diversi (Cass. n.
1004/64), salva la facoltà del giudice di chiedere chiarimenti ex art. 253
c.p.c. (Cass. n. 2675/56);
7) la facoltà di disporre d’ufficio l’assunzione di testi di riferimento può essere esercitata nonostante le parti abbiano avuto la possibilità di indicare tempestivamente il teste (Cass. n. 9687/91; Cass. n.
3978/74) e nonostante le stesse siano incorse nelle decadenze di cui
agli artt. 414 e 416 c.p.c., relativamente al rito del lavoro (Cass. n.
1882/86; Cass. n. 6658/83). Infatti, la norma in esame è pacificamente
applicabile al rito del lavoro (Cass. n. 263/97). Di conseguenza, si deve
giungere alla medesima conclusione per quanto concerne le decadenze probatorie di cui al procedimento ordinario (art. 184 c.p.c.), anche
se, come è noto, il giudice del lavoro gode di maggiori poteri officiosi
(ma la novella del c.p.c., avendo garantito una maggiore incisività dei
poteri direttivi del giudice nell’istruzione della causa – v. ad esempio la
centralità della posizione attribuita al giudice nella delimitazione del
thema probandum e del thema decidendum ex art. 183 c.p.c., ha forse
ridotto le differenze tra i due procedimenti).
Quanto alle caratteristiche del potere d’ufficio del giudice previsto
dalla norma in commento (che trova altri esempi nel rito del lavoro e
nell’art. 419 c.c. in tema di interdizione-inabilitazione), va detto che
esso coincide con una facoltà discrezionale rimessa al prudente
apprezzamento del giudice stesso, discrezionalmente revocabile (Cass.
n. 622/93). Il suo esercizio non è quindi censurabile in sede di legittimità, neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (Cass. n.
9687/91; Cass. n. 3946/80).
E tale potere può essere utilizzato anche in sede di appello con
riguardo ai testi già assunti in primo grado (Cass. n. 2716/94), ovviamente entro i limiti di ammissibilità di attività istruttoria in appello
(art. 345 c.p.c.). Le stesse parti interessate possono riproporre come
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motivo di gravame la mancata assunzione, da parte del giudice di
primo grado, di un teste di riferimento, purché la relativa istanza sia
stata reiterata in sede di conclusioni di primo grado (Cass. n. 5706/97).
È stato subito fatto osservare in dottrina che l’esercizio, da parte
del giudice, dei poteri officiosi previsti dall’art. 257 c.p.c. dovrebbe
determinare l’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c.
novellato, il quale consente alle parti di dedurre, entro un termine
perentorio appositamente assegnato dal giudice, i mezzi di prova conseguenti a quello ammessi d’ufficio.
Merita, inoltre, di essere segnalato che secondo un orientamento
dottrinale rientrerebbero tra i testi di riferimento, come tali ammissibili ex art. 257 c.p.c., anche le persone sentite informalmente dal c.t.u.
o dal giudice in sede di ispezione, o ancora menzionate in un documento esibito o prodotto in giudizio.
Altra questione correlata con la disposizione di cui all’art. 257
c.p.c. è quella afferente alla valenza delle dichiarazioni de relato rese
dal teste.
A tal proposito la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha
tenuto ben distinto il caso della deposizione de retato actoris da quello
della deposizione nella quale vengono riferite dichiarazioni di terzi.
Nel primo caso, si va da un orientamento che esclude qualsiasi rilevanza della deposizione del teste, salvo che essa non trovi adeguati
riscontri nelle altre risultanze istruttorie (Cass. n. 4618/96; Cass. n.
269/96; Cass. n. 3636/90 – in tal caso la deposizione potrebbe contribuire, come argomento di prova o indizio, a formare il convincimento del giudice), ad un orientamento maggiormente rigoroso che attribuisce alla deposizione de relato ex latere actoris un valore nullo, neppure indiziario, a prescindere da eventuali riscontri oggettivi (Cass. n.
43/98).
Quanto detto si riferisce alla dichiarazione resa dal teste de relato
ex latere actoris di contenuto conforme alla pretesa fatta valere dalla
parte. Se invece detta dichiarazione è di contenuto contrario rispetto
alla posizione della parte, essa può valere come confessione stragiudiziale (Cass. n. 4707/78) o come semiplena probatio ai fini del deferimento del giuramento suppletorio (Cass. n. 4707/78).
Nell’ipotesi di deposizione de relato con riferimento a dichiarazioni
di terzi, la Cassazione ha precisato, innanzitutto, che una tale deposizione abbisogna, comunque, di qualche riscontro, in quanto il teste, di
regola, dovrebbe riferire su ciò che ha percepito direttamente (Cass. n.
10603/94). In ogni caso, la deposizione de relato ha un valore probatorio attenuato (Cass. n. 43/98).
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Per completare, seppure in modo alquanto sintetico, l’analisi dell’art. 2157 c.p.c., va osservato che anche le facoltà del giudice, previste dal secondo comma della norma in esame, di assumere testi in
precedenza ritenuti superflui od oggetto di rinuncia e di disporre la rinnovazione della testimonianza hanno carattere discrezionale e il loro
esercizio è incensurabile in sede di legittimità (Cass. n. 1140/82, n.
2320/95; – contra, Cass. n. 2407/81).
Con riguardo alla prima delle due facoltà, occorre osservare come
nessuna preclusione possa derivare dal fatto che il giudice, su accordo
delle parti, abbia dichiarato già chiusa l’assunzione della prova, giacché un tale provvedimento è revocabile (Cass. n. 2337/73).
La rinnovazione della deposizione, invece, risponde ad una duplice
finalità:
– quella di chiarire la precedente deposizione, ovvero rendere
intelligibili eventuali espressioni o specificare alcune circostanze riferite in modo generico (Cass. n. 1749/65), purché tutto ciò non sconfini in una nuova prova;
– quella di correggere eventuali irregolarita verificatesi nel precedente esame, in grado di provocare la nullità della prova (ad esempio:
violazione del principio del contraddittorio in caso di prova delegata –
al fine di integrare le generalità del teste o per fargli pronunziare la
dichiarazione solenne di impegno a dire la verità non è invece necessario procedere alla rinnovazione, essendo sufficiente l’adempimento
della formalità mancante).
– E) Come può essere condotto l’esame del testimone? – le domande
devono porsi dando lettura dei capitoli o possono essere formulate
liberamente nei limiti dei fatti dedotti con i capitoli? – quali sono le
regole per la verbalizzazione della prova testimoniale?
L’art. 253 c.p.c. recita al primo comma: “Il giudice istruttore interroga il testimone sui fatti intorno ai quali è chiamato a deporre. Può
altresì rivolgeregli, d’ufficio o su istanza di parte, tutte le domande che
ritiene utili a chiarire i fatti medesimi”.
In primo luogo, l’esame va dunque condotto dal giudice alla presenza delle parti, senza che queste possano interrogare direttamente il
teste (art. 253 secondo comma c.p.c.).
Il teste non può servirsi di scritti preparati, ma può essere autorizzato ad utilizzare note o appunti per venire in soccorso alla memo-
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ria, ad esempio, in caso di nomi o cifre (cfr. art. 231 c.p.c. richiamato
dall’art. 253 c.p.c. – la violazione di tale prescrizione non è però rilevabile d’ufficio – Cass. n. 2971/67).
Come accennato, è stato osservato in dottrina come la novella del
c.p.c. abbia contribuito ad una sorta di rafforzamento dei poteri direttivi del giudice durante l’istruzione. Sulla scorta di tale considerazione, e stato invocato, fra l’altro, un utilizzo piu deciso, da parte del G.I.,
dei poteri conferitigli, in tema di prova testimoniale, da norme come
quella in commento o dagli artt. 252, 254, 256 e 257 c.p.c., al fine di
verificare con maggiore cura l’attendibilità, la veridicità e la completezza delle deposizioni, con ciò tentando di superare qualche prassi
giudiziaria caratterizzata da una sorta di delega del giudice ai difensori per l’assunzione della prova o da una ricezione passiva delle risposte del teste.
In ossequio del principio dispositivo (artt. 115 e 244 c.p.c.), stando alla lettera dell’art. 253 c.p.c., il giudice, nell’interrogare il teste,
deve attenersi “ai fatti intorno ai quali è chiamato a deporre”.
La norma non richiede quindi che il giudice ponga necessariamente al teste la domanda dando pedissequa lettura dei capitoli: l’unico limite è rappresentato dai fatti così come dedotti nei capitoli
ammessi. È chiaro che quanto più è complesso ed articolato il fatto
dedotto nel capitolo (si pensi, ad esempio, a capitoli di prova riguardanti circostanze che involgono descrizioni di natura tecnica), tanto
più risulterà opportuna una lettura integrale del capitolo ammesso. Al
contrario, quando il fatto dedotto è di per sé semplice, ben potrà il giudice parafrasare, sintetizzare o semplificare il capitolo puntando al
nocciolo della questione.
Se l’esame valica questi limiti, e finisce per introdurre circostanze
non dedotte, la parte interessata ha l’onere di opporsi tempestivamente ed eccepire l’invalidità della prova nella prima istanza o difesa successiva all’espletamento (Cass. n. 9427/87; Cass. n. 4948/78). In difetto, la deposizione entrerà a far parte del materiale probatorio sottoposto al vaglio del giudicante. E tale conseguenza si verificherà anche
quando la parte interessata abbia implicitamente rinunciato all’eccezione avendo, ad esempio, discusso egli esiti e la rilevanza delle
dichiarazioni rese dal teste (Cass. n. 9427/87).
Va tuttavia ricordato che al giudice spetta la facoltà di porre al
teste tutte le domande utili a chiarire i fatti dedotti.
È peraltro di tutta evidenza come, spesso, il confine tra il semplice chiarimento (ammesso) e la domanda su circostanze non dedotte
(non ammessa) sia di difficile individuazione.
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Il chiarimento deve essere comunque richiesto nell’ambito del
fatto dedotto nel capitolo, anche se parte della dottrina ha inteso
estendere l’area di applicazione di tale potere del giudice al fine di consentire a questi una maggiore penetrazione ed un maggiore controllo
sulla credibilità e sulla completezza delle deposizioni. Di certo, il potere in questione non può essere esercitato per estendere l’indagine a
fatti diversi, né per sanare la genericità delle circostanze dedotte nei
capitoli o altre carenze probatorie (Cass. n. 1312/90; Cass. n. 761/76).
Con ogni probabilità, il giudice potrà chiedere chiarimenti su ciò che
il teste ha riferito oltre il tema specifico della prova, purché si tratti di
fatti comunque allegati dalle parti, ovvero di fatti secondari.
In ogni modo, come ricordato, qualora vi sia stato un travalicamento nell’esercizio del potere di ottenere chiarimenti sulla parte interessata ricade l’onere di una tempestiva contestazione (Cass. n.
2401/76).
Rimane problema aperto quello relativo al fatto se parti possano
o non invocare l’applicazione dell’ultimo comma dell’art. 184 c.p.c.
nell’ipotesi in cui il giudice faccia uso dei suoi poteri officiosi ex art.
253 c.p.c..
Quanto alla tecnica dell’esame, mutuando dalle regole del processo penale, saranno vietate le domande suggestive e quelle che possano nuocere alla sincerità della deposizione. Ciò non toglie che il giudice possa stimolare i ricordi del teste, soprattutto in relazione a circostanze decisive, ma non potrà tollerare che il teste esprima meri giudizi, privi di alcun appiglio o dato concreto di riferimento.
Con riguardo alle regole di verbalizzazione, occorre prendere le
mosse da quanto stabilito dall’art. 207 c.p.c..
Detto che, ovviamente, le dichiarazioni del teste debbono essere
riportate in prima persona e che il giudice, se lo ritiene opportuno,
può far riportare a verbale la descrizione del contegno del teste, giova
aggiungere che le deposizioni debbono essere trasferite nel verbale nel
modo piu fedele possibile, usando, per quanto consentito, il linguaggio e le espressioni utilizzati dal teste. La deposizione va dettata a verbale dal giudice e non dalla parte, come invece accade nel caso dell’autorizzazione di cui all’art. 84 disp. att. c.p.c..
La mancata verbalizzazione nella forma del discorso diretto, a differenza di quanto ritenuto in tema di giuramento decisorio (Cass. n.
5251/86), non produce tout court la nullità dell’atto, che va invece valutata sulla base del principio del raggiungimento dello scopo.
Generalmente si ritiene che il giudice possa omettere la verbaliz-
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zazione delle dichiarazioni assolutamente inconferenti o comunque
insignificanti, ma vi sono in dottrina voci contrarie che sostengono la
necessità di una verbalizzazione integrale.
Controversa è, infine, la questione se la verbalizzazione delle risposte del teste possano o meno essere limitate alla locuzione “e vero”
o “non e vero”. Secondo la Corte di Cassazione n. 2961/52 una deposizione di tal fatta è nulla, mentre ad avviso di Corte di Cassazione n.
138/51 la mera conferma del capitolo è pienamente ammissibile e non
inficia la validità della testimonianza. Tale secondo orientamento trova giustificazione nel fatto che la legge non prevede alcuna specifica
sanzione per la forma di verbalizzazione in questione.
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