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IDEE E QUESTIONI Dare forma agli apprendimenti di bambini e adulti Contributi di: Rolando Baldini, Marco Ruini,Vania Vecchi e Vea Vecchi NOVEMBRE 2013 I linguaggi espressivi dei bambini, valorizzati da didattiche e sintassi comunicative nuove, rivoluzionano il nido e la scuola dell’infanzia, anticipando le più recenti scoperte delle neuroscienze Per le immagini che accompagnano l’articolo: © Scuole e Nidi d’infanzia – Istituzione del Comune di Reggio Emilia 8 L’occhio se salta ill muro Anche a Reggio Emilia gli anni Ottanta sono anni difficili per le politiche scolastiche e sociali, ma allo stesso tempo generativi: nei nidi e nelle scuole dell’infanzia comunali, con Loris Malaguzzi, si sviluppano molte piste di ricerca e la qualità pedagogica e culturale cresce attorno all’esperienza educativa; si intensificano scambi e confronti e si impone una rilevante domanda di formazione nazionale e internazionale. La Mostra “L’occhio se salta il muro”, che dal 1987 diviene “I cento linguaggi dei bambini”, ideata da Loris Malaguzzi con i suoi collaboratori, è una dichiarazione pedagogica e politica. Viene esposta a Reggio Emilia nel 1980 e successivamente a Stoccolma, cominciando un viaggio che la porterà in molte città europee e dal 1987 anche oltre oceano negli Stati Uniti e in tanti altri Paesi. La Mostra presenta una selezione di progetti didattici realizzati nei nidi e nelle scuole dell’infanzia: autori i bambini e gli insegnanti (pedagogisti, atelieristi, operatori) insieme. A proposito della Mostra, Loris Malaguzzi ci dice: “Qui ci sono bambini e adulti che cercano il piacere di giocare, lavorare, parlare, pensare, inventare insieme. Impegnati a imparare come l’essere e i rapporti delle cose e degli uomini possono essere ricercati e goduti in amicizia e fatti più belli e più giusti”. È un auspicio, un invito. Un messaggio divergente, ancora attuale, attorno all’immagine del bambino e dell’uomo, e alle teorie e alle pratiche pedagogiche, perché il muro del banale, delle retoriche, dei conformismi, delle inerzie non è mai definitivamente abbattuto. E oggi più che mai abbiamo bisogno di luoghi e di manifestazioni concrete che, come questa, sappiano testimoniare una volontà di ricerca e di innovazione. NOSTALGIA DEL FUTURO II Zerosei, n. 4/5, dicembre 1983 L’EDUCAZIONE DEI CENTO LINGUAGGI DEI BAMBINI di Loris Malaguzzi Dal catalogo che accompagna la riedizione della Mostra “L’occhio se salta il muro” promossa dal Comune di Reggio Emilia e destinata a una lunga tourneé all’estero in Spagna, e poi in Norvegia, Germania Federale, Francia e Stati Uniti, stralciamo i “Commentari” che, inseriti nella Mostra, ne esplicitano la filosofia e i supporti teorici e culturali. Anche se la Mostra e i “Commentari” che l’accompagnano non rappresentano che un’indagine parziale, tuttavia quella e questi costituiscono un valido riferimento per intendere il quadro teorico e culturale cui l’esperienza reggiana – una delle più vive ed elaborate del nostro Paese – affida parte delle proprie scelte e delle proprie finalità assiologiche. I “Commentari”, che nel catalogo si uniscono a scritti di Argan, Bernardini, Pontecorvo, Anceschi, Musatti, Becchi, Branzi, Costa, Quintavalle, Petter, Gentilucci, Lijubimov, Tonucci, sono di Loris Malaguzzi.* I Se l’occhio salta il muro La Mostra porta un titolo che è essenzialmente un auspicio. Che l’occhio oltre che occhio emblema, qui chiamato a vedere e a capire i nuovi compiti culturali nella società della visione e dell’immagine e qui ancora evocato Il piacere dell’apprendere, del conoscere e del capire è una delle prime fondamentali sensazioni che ogni bambino si aspetta dall’esperienza che affronta da solo o con i coetanei o con gli adulti. Una sensazione decisiva che va rafforzata perché il piacere sopravviva anche quando la realtà dirà che l’apprendere, il conoscere, il capire, possono costare difficoltà e fatica. È in questa sua capacità di sopravvivere che il piacere può sconfinare nella gioia. III Qui ci sono bambini e adulti che cercano il piacere di giocare, lavorare, parlare, pensare, inventare insieme. Impegnati ad imparare come l’essere e i rapporti delle cose e degli uomini possano essere ricercati e goduti in amicizia e fatti più belli e più giusti. IV La Mostra tenta di raccontare una parte di questa convivenza. Quella che privilegia del bambino i linguaggi denominati espressivi e che la teorizzazione, la pratica educativa e la stessa cultura in genere umiliano e separano condannandoli ad un folkloristico limbo perché rei – secondo sentenze arbitrarie, ascientifiche oltreché ingrate – di impotenza generativa sia nei processi di formazione che di intelligenza cognitiva: o che, ancora con irrazionale eccitazione e desiderio escludente, osannano come arte divina e passeggera di una metafora infantile. In ambedue i casi utilizzando violenza e contraffazione. Certo imponendo al bambino leggi classificatorie che gli adulti si sono creati per sé. Certo derubando il bambino di una parte importante dell’esperienza che ama e percorre per incontrare e interpretare oltreché se stesso, le cose e i fatti del mondo. V Le tesi di una cultura e di una pedagogia che spezzano, gerarchizzano, autorizzano o negano – in una babele geometrizzata o casuale – i modi, le qualità e gli spazi degli incontri e dei raccordi delle esperienze del bambino con la multiforme natura della realtà fisica e sociale, in virtù di prescrizioni distinte e contrapposte, sono uno dei temi polemici e oppositivi di questa Mostra. VI Un obiettivo pertanto della Mostra è quello di sottolineare con forza la necessità di una ricomposizione reale degli accrediti, dei processi e dei valori di formazione del bambino, del suo sapere e della sua cultura. Di una cultura come luogo di condensazione ininterrotta di cento esperienze soggettivamente e oggettivamente vissute, ognuna delle quali inestricabilmente maturate nella socializzazione di cento atti, pensieri, tirocinii, linguaggi, fusi – con rapporti alterni – di razionalità e di inconscio, di immaginazione e sentimento, di espressività e comunicazione, di corporeità e invenzione, di arte e scienza. In questa tesi c’è implicita una risposta decisiva al bisogno del bambino di sentirsi intero. Sentirsi intero è per il bambino (e così per l’uomo) una necessità biologica e culturale: uno stato vitale di benessere. VII Il riconoscimento che la specie umana ha il privilegio di manifestarsi attraverso una pluralità di linguaggi (oltre a quello parlato) è un primo punto. Un secondo punto è che ogni linguaggio ha il diritto di realizzarsi compiutamente e quanto più gli riesce più scorre negli altri in processi di arricchimento. NOVEMBRE 2013 come figura concettuale che riassume i problemi della crescita e della promozione del bambino e dell’uomo, abbia la forza e la testardaggine di saltare il muro. Il muro dell’incongruenza, del banale, delle vecchie regole, delle cose rigide e imballate, degli atti elusivi, atomizzati e retorici che ancora si muovono attorno all’immagine dell’uomo e al progetto educativo del bambino. Come dicevamo un auspicio. Un tentativo. 9 IDEE E QUESTIONI Un terzo punto è che tutti i linguaggi espressivi, cognitivi, comunicativi che si costituiscono in reciprocità, nascono e si sviluppano nell’esperienza. Un quarto punto è che di questi linguaggi il bambino è soggetto costruttivo e coautore, partecipando alle varianti storiche e culturali. Un quinto punto è che tutti i linguaggi che già convivono nella mente e nelle attività del bambino hanno il potere di divenire forze generatrici di altri linguaggi, altre azioni, altre logiche e altre potenzialità creative. Il sesto punto è che tutti i linguaggi hanno bisogno di vivere in eguale dignità e valorizzazione, in solidarietà piena con una adeguata competenza culturale dell’adulto e dell’ambiente. Il settimo punto (conclusivo) è quello che si chiede quale appoggio e conferma possa dare a queste proposizioni (dimenticate o sottovalutate dagli studi, dalle ricerche, dalla sperimentazione) la cultura vigente del bambino. NOVEMBRE 2013 VIII 10 Nessun disconoscimento del valore primario del linguaggio parlato nel lungo processo di umanizzazione. Ma storicamente desumiamo almeno tre fatti: 1. che il linguaggio parlato oggi è sempre più imposto al bambino attraverso meccanismi imitativi, poveri o assenti di interlocutorietà, invece che per processi ideativi e forti legati all’esperienza e ai problemi dell’esperienza; 2. che la pedagogia del bambino oggi si attua quasi tutta attraverso la parola, l’unico strumento affidato alla professionalità degli insegnanti e dei genitori. Una parola solitaria, anomala, eppure onnipotente, onnipresente per insegnare, ripetere, dirigere, spiegare, predicare, raccontare. O semplicemente per ingiungere o lasciarla sola. Con questa parola, spesso sempre più inerte e ovvia, si va verso un’incapacità crescente di entrare in rapporto con i bambini che si aspettano parole vive, radicate in ragioni e in proposte, in esecutività e progetti, in situazioni di calda interlocutorietà; 3. che il linguaggio parlato oggi massicciamente e in proporzioni mai viste, collocato di fronte all’immagine, ai segni, ai simboli, ai codici, alle macchine è in aperta fase di disadattamento e di rielaborazione. IX Il problema è quello di ridare al linguaggio la parola che serve, che tace e ascolta, che riempie la comunicazione, che sposta e genera idee, che scopre le sue grandi potenzialità creative, che si fa forma e tramite di socializzazione, di intersoggettività e interoggettività. L’operazione è complessa fino a includere il peso delle determinazioni sociali delle forme culturali e dei linguaggi. E tuttavia è tentabile una proposta innovatrice che investa la genesi e l’organizzazione della parola e del pensiero. Una proposta, tra le altre, che si rispecchia nelle cose e nelle intenzioni della Mostra e che qui si esplicita in tre progetti. X Il primo progetto è quello di porre al centro dell’educazione del bambino una più organica e variata esperienza dell’azione e del fare. Dove la conoscenza diventi un sistema di esplorazione agìta e di riflessione e sia contestuale al linguaggio e all’intelligenza oltreché al guadagno di abilità e competenze. Il secondo progetto si affida agli utili che al linguaggio della parola derivano dai linguaggi della non parola, riconfermando in sede più generale, la natura interferente dei linguaggi. Ma qui occorre prendere atto: che anche i linguaggi della non parola hanno in realtà, dentro di sé, molte parole, sensazioni e pensieri, molti desideri e mezzi per conoscere, comunicare ed esprimersi. Sono anch’essi modi di essere, di agire, generatori di immagini e di lessici complessi, di metafore e simboli; organizzatori di logiche pratiche e formali, di promozione di stili personali e creativi. XI Il terzo progetto è quello di riattivare processi di sensibilità e di intenso tirocinio di tutti gli organi sensori del bambino (l’occhio, l’udito, le mani in particolare) così da ritotalizzare sia le sue potenzialità che le sue capacità di immersione e assorbenza sottile nelle cose e negli eventi. Così da ottenere un flusso eccitatore di emozioni ma anche di immagini, di umori e di interazioni, di significati traducibili nel pensiero e nei linguaggi e di solidarietà oggettive con la realtà più nascosta o più banalizzata dall’uso. Una fruizione più elaborata della percezione che è continua transazione col mondo esterno. Una forza in più per la conoscenza e l’interpretazione, un salto per l’immaginazione. Per una immaginazione, con Bronowski, considerata come elemento unificatore delle attività intellettuali e, creativamente parlando, momento centrale sia per la scienza che per la poesia e le arti figurative. XII È possibile pensare ad un’educazione interessata ad un bambino costruttore di immagini? Pensiamo di sì. I bambini (come il poeta, lo scrittore, il musicista, lo scienziato) sono avidi ricercatori e costruttori di immagini. E le immagini servono a costruirne altre: passando per sensazioni, sentimenti, rapporti, problemi, teorie passeggere, idee del possibile e del coerente e dell’apparente impossibile e incoerente. Così vuol dire Einstein quando racconta che il suo modo di lavorare consisteva nel sapersi trattenere sui linguaggi di immagini, rinviando, quanto più possibile, di esprimerli in parole e azioni. L’arte della ricerca è già nelle mani dei bambini, sensibilissimi al godimento dello stupore. I bambini avvertono presto che è in questa arte che possono ritrovare gran parte della gioia di vivere e la liberazione dalla noia che deriva dall’esistere in un mondo inesplorato. XIII Ciò che a noi compete è aiutare i bambini a comunicare col mondo con tutte le potenzialità, le forze, i linguaggi di cui sono dotati e a battere ogni impedimento derivante da una cultura che ancora NOSTALGIA DEL FUTURO XIV L’esperienza conferma ancora come i bambini abbiano bisogno di molte libertà. Libertà di indagare, provare, sbagliare, correggere. Di scegliere dove e con chi investire curiosità, intelligenza, emozioni: di apprezzare le infinite risorse delle mani, della vista e dell’udito, delle forme, dei materiali, dei suoni e dei colori: di rendersi conto come la ragione, il pensiero, la immaginazione creino trame continue tra le cose e muovano e sommuovano il mondo. E tutto ciò senza che nessuno troppo precocemente stabilisca per loro tempi, ritmi e misure: e tuttavia sappia trovare la larga e attiva compartecipazione che deve perché il prezioso tirocinio – non affidabile al caso – si realizzi. XV A noi spetta, con altrettanta libertà e con più competenza, curiosità e fantasia di quanto oggi non ci sia dato, di offrire ai bambini e costruire con loro le occasioni del conoscere. Cercando di individuare quali scelte e direzioni dell’attività e del pensiero essi sono via via pronti a valorizzare e a dichiarare significative e importanti tanto da desiderare più approfondite ipotesi operative e interpretative. Per quanto difficile sia, di qui dipartono i nostri e i nuovi comportamenti dei bambini in una consonanza che consolidi e slarghi la qualità, la competenza, l’organicità delle loro e delle nostre esperienze. Ma questo è proprio il ciclo combinatorio da modificare in progressione. Come dicevamo: per noi e per i bambini. XVI Qui si conclude la Mostra. Alla ricerca di una didattica e di una educazione la Mostra è in realtà una mostra sperimentale di didattiche educative che prova e inventa vie e intanto accredita scoperte ed ipotesi. Con una interazione esplicita (perché così è nei processi reali di acculturazione) dei modi e delle tensioni della ricerca dell’adulto e dei modi e delle tensioni della ricerca dei bambini. È nostra fiducia che le questioni e i ma- teriali esposti, nonostante la pesantezza dei pregiudizi, dei miti, degli esorcismi e delle sublimazioni e infine delle politiche culturali, sociali e pedagogiche che sfuocano, eludono, accelerano e consumano i bambini e l’infanzia, saranno apprezzati per quello che sono. Ma soprattutto per il tentativo che compiono. La grandezza dell’occhio nella sua fisicità epistemologica (visto che simbolicamente è lui che dà il titolo alla Mostra) e sta nella sua liquefazione, nel suo disseparsi all’interno delle attività, oltre che di chi guarda, delle prestazioni e delle scelte dei bambini. Vogliamo dire che se le prestazioni dei bambini, le manifestazioni del pensiero extralinguistico dei bambini (noi non capiamo perché extra) susciteranno qualche ammirazione, chiediamo all’ammirazione di decantarsi per vedere e immaginare meglio la natura, la qualità e la ricchezza dei processi, la molteplicità degli interventi e dei contributi (l’occhio, l’udito, l’osservazione, la intenzionalità, la memoria, la corporeità, il ragionamento, la tattilità, la concettualizzazione, la simbolizzazione, la fantasia, l’emozione, la socialità e poi la tenacia, l’aspettativa, il desiderio, ecc…) che hanno viaggiato insieme all’interno del progetto e degli obiettivi voluti e per misurare soprattutto le capacità che i bambini posseggono per tenere testa alle pressioni dei modelli e delle suggestioni dell’ambiente fisico e sociale, difendendosi spazi di libertà di espressione, di critica e di godimento personale. NOVEMBRE 2013 spesso li depaupera per eccesso e invadenza di teorizzazione classificatorie o per difetti e sottovalutazioni della ricerca e della pratica educativa. Queste sono le condizioni che possono permettere ai bambini di capire come il loro giocare, vedere, sentire, fare, pensare li conduce alla conoscenza e come la conoscenza produce altra conoscenza. Una conoscenza che non è solo ampliamento e selezione dei significati ma assunzione di stati di benessere, di poteri accresciuti, di prolungamenti dell’io. L’esperienza ci avverte che i bambini sono in grado di scoprire e di appropriarsi presto di queste condizioni, privilegiati come sono, di straordinarie capacità di autorganizzazione e riorganizzazione selettive. * Giulio Carlo Argan, critico d’arte; Carlo Bernardini, fisico; Clotilde Pontecorvo, psicologa; Giovanni Anceschi, designer; Cesare Musatti, psicologo e psicoanalista; Egle Becchi, pedagogista; Andrea Branzi, architetto; Corrado Costa, poeta; Arturo Carlo Quintavalle, storico dell’arte; Guido Petter, psicologo; Armando Gentilucci, compositore e musicologo; Yuri Lijubimov, regista teatrale; Francesco Tonucci, pedagogista. 11 IDEE E QUESTIONI NOVEMBRE 2013 Perché fare mostre, editoria, atelier? Il piacere e la necessità della comunicazione e del confronto 12 Negli anni Settanta, alla fine di ogni anno scolastico era consuetudine, per i nidi e le scuole dell’infanzia reggiane, contemporaneamente allo svolgimento di un seminario di verifica e di riflessione sui mesi trascorsi, affidare analoghe verifiche e riflessioni a una mostra pubblica, nella quale ogni scuola poteva esporre i propri progetti e le proposte didattiche ritenute più interessanti. Si trattava di un appuntamento annuale prezioso che, soprattutto, testimoniava un fatto importante: quanta sintonia o tradimenti ci fossero tra le dichiarazioni teoriche e le attività didattiche quotidiane. Il materiale presentato veniva poi attentamente studiato, illustrato ai colleghi, discusso, e diventava riferimento per giudicare le evoluzioni, i rallentamenti, gli errori fatti, per capire quali zone educative erano carenti e quali era opportuno invece approfondire ulteriormente. Tutte le proposte comunicavano attraverso tre linguaggi: scrittura, di bambini e adulti, fotografie e opere originali dei bambini su temi e campi molto diversi del sapere. Il materiale veniva esposto al pubblico nella città, poi ritornava all’interno delle scuole e discusso con le famiglie. Chi insegna sa bene quanto tutto questo confronto richieda un percorso di lavoro affatto semplice, ma noi abbiamo continuato a riproporlo per anni, e continuiamo a farlo perché riteniamo rappresenti un processo di studio e formazione fondamentale, almeno per tre aspetti: • l’educazione e la didattica costituiscono valori troppo importanti per la costruzione della persona e della società per rimanere rinchiusi nel privato di un insegnante o di una scuola; • la comunicazione all’esterno della scuola e la verifica pubblica aiutano a riflettere, a valutare e a lavorare sui nuclei di significato e sui processi di quanto si è realizzato; • solo attraverso una lucida verifica e il confronto, anche vivace, può esserci una vera evoluzione. È capitato che una di queste mostre, particolarmente curata, sia stata vista nel 1980 da un gruppo di pedagogisti e artisti svedesi in visita a Reggio Emilia che ne rimasero così colpiti da volerla esporre a Stoccolma, non in una sede qualsiasi, ma al Museo d’Arte Moderna della città. Il racconto del viaggio in treno dei quattro insegnanti e atelieristi di Reggio e l’allestimento della Mostra, deciso sul posto, rimane nella memoria tra sentimenti di tenerezza e la comicità di alcuni episodi dovuti all’inesperienza. La Mostra ebbe un successo imprevedibile, gli Svedesi erano increduli e interessati a un approccio pedagogico che rendeva più chiaramente visibili le intelligenze e le abilità dei bambini. L’idea che ci venne dopo questa prima esperienza fu quella di trasformare una mostra molto artigianale in una più professionale, in grado di viaggiare ed essere esposta in luoghi e Paesi diversi. È da questa inaspettata occasione che ha avuto inizio il lungo viaggio di questa prima Mostra itinerante, introdotta dai “Commentari” di Loris Malaguzzi qui pubblicati. Il desiderio di confrontarci e di discutere non solo attraverso dichiarazioni teoriche, ma con testimonianze concrete, con altre culture, altri approcci, altre filosofie, altri mestieri, era un desiderio molto forte e tale è rimasto anche se, dopo tanti anni, abbiamo maturato una consapevolezza diversa. Ci è stato più volte confermato che la Mostra è stata, per l’approccio pedagogico reggiano, lo strumento di diffusione internazionale più efficace, perché ogni esposizione è diventata una piazza nella quale veniva richiamata l’attenzione della scuola, della politica e delle famiglie sull’educazione: i diversi luoghi e Paesi che hanno ospitato la Mostra hanno sempre avuto la cura di realizzare un percorso di preparazione e di organizzare iniziative collaterali, cercando di coinvolgere il maggior numero possibile di esponenti di diverse discipline. Certo è importante ribadire quanto questa esperienza sia stata facilitata dalla cultura dell’atelier e dalla presenza dell’atelierista nelle scuole reggiane, forse però non è mai stata compresa sino in fondo la scelta coraggiosa e rivoluzionaria fatta da Loris Malaguzzi alla fine degli anni Sessanta di collocare un atelier e un insegnante con formazione artistica in ogni nido e scuola dell’infanzia. È difficile infatti uscire dallo stereotipo di un’educazione artistica tradizionale, dal diffuso preconcetto che la dimensione estetica sia semplice apparenza, da una posizione culturale che fatica a comprendere la forza e la ricchezza delle connessioni prodotte da processi NOSTALGIA DEL FUTURO Vea Vecchi Responsabile Mostre, Editoria, Atelier di Reggio Children Cento linguaggi più uno “[...] tutti i linguaggi che già convivono nella mente e nelle attività del bambino hanno il potere di divenire forze generatrici di altri linguaggi, altre azioni, altre logiche e altre potenzialità creative [...]” Loris Malaguzzi, “Commentari” alla Mostra “L’occhio se salta il muro” All’inizio degli anni Ottanta gli atelieristi e insegnanti delle scuole dell’infanzia reggiane ci chiesero – in qualità di grafici – di aiutarli a organizzare e formalizzare la cospicua mole di materiali che costituiva la documentazione delle esperienze didattiche svolte durante l’anno, che veniva annualmente esposta al pubblico. I materiali – disegni originali e pensieri dei bambini, fotografie e testi di adulti – testimoniavano la ricchezza sorprendente dell’universo espressivo dell’infanzia, reso visibile dall’intelligenza e dalla passione degli insegnanti, guidati dalla lungimiranza visionaria (ma assai concreta) di Loris Malaguzzi. Il nostro compito fu soprattutto quello di rendere più nitidi e leggibili pensieri e disegni, processi e scoperte, di garantire loro una rispettosa ospitalità. L’occasione espositiva della Mostra di Stoccolma (per cui progettammo una semplice struttura espositiva di sandwich modulari in metacrilato) rese ancor più necessario questo lavoro di pulizia, attraverso l’individuazione di una sintassi comunicativa che agevolasse insieme il lavoro degli insegnanti e la fruizione da parte di un pubblico ampio. Frutto e testimonianza di questo processo è il primo catalogo della Mostra (1984). In questo piccolo volume (sorretto dallo stato di grazia di un esordio tanto promettente quanto fortunato) si può apprezzare la sinergia tra la qualità artistica delle opere dei bambini, la chiarezza e vivacità della documentazione, e la sobrietà dell’impaginato. In copertina, la rielaborazione grafica al tratto di un fotogramma del teatro delle ombre: dal bianco e nero della documentazione ambientale (di una narrazione), all’arancio fluorescente di un emblema quasi araldico. Altri fotogrammi della stessa serie accompagneranno con colori diversi altre occasioni espositive della stessa Mostra. Sono immagini assertive, accese da colori puri e luminosi. Una dichiarazione d’intenti: – Hic sunt leones! È come se disegni e pensieri dei bambini fossero venuti alla luce grazie al vero e proprio lavoro di scavo di chi li ha saputi ri-conoscere. Da questa prima lontana esperienza viene la teoria e la pratica di un trentennio. Il mondo è profondamente mutato, e ci si può intenerire a ripensare alle stampe fotografiche incollate sui cartoncini settanta/cento, alle scritte decalcate a mano, ai disegni originali spesso fragili come ali di farfalla. Ma anche in un contesto drammaticamente trasformato dalla tecnologia e dalla sua pervasività i problemi di fondo non cambiano. Come abbiamo scritto nel catalogo de “Lo stupore del conoscere” (ed. Reggio Children, 2011): “[...] comunicare qualsiasi concetto oggi significa affrontare il mare aperto di un universo di parole suoni colori capace di annichilire ogni esercizio di estetica, di buon senso o anche solo di buona educazione [...]”. Tuttavia, è ancora possibile e necessario distinguere la qualità dalla mediocrità. Si può ancora riconoscere il suono cristallino di una parola veritiera in mezzo al rumore di fondo. Si può ancora distinguere nitidamente il cinguettìo di un uccellino anche in prossimità di un’autostrada. NOVEMBRE 2013 di apprendimento che derivano dalla frequentazione e dall’applicazione dei linguaggi poetici. Le esposizioni pubbliche, le pubblicazioni realizzate dentro le scuole, gli atelier interni e quelli diffusi nella città, sono quasi una logica conseguenza dell’osservazione e della documentazione dei processi di apprendimento dei bambini, che costituiscono una sorta di ascolto visibile a sostegno di una progettazione didattica vicina ai modi d’imparare dei bambini. Nel 2008 la Mostra “I cento linguaggi dei bambini” è stata affiancata da un’altra Mostra itinerante, “Lo stupore del conoscere”, che illustra alcune evoluzioni della nostra filosofia educativa e della nostra didattica che privilegiano una maggiore attenzione ai processi di apprendimento individuale e di gruppo e rendono più visibile il ruolo dell’insegnante. Anche con quest’ultima Mostra, ogni Paese che la ospita diventa nuovamente luogo di testimonianza, di discussione, di confronto sull’educazione, sulla didattica e sulle scelte politiche concrete che vengono fatte per sostenere un’educazione di qualità. La nostra speranza e desiderio è che il Centro Internazionale Loris Malaguzzi, da poco tempo aperto a Reggio Emilia, diventi un luogo capace di dare voce nazionale e internazionale ai bambini, ai ragazzi e agli insegnanti: il Centro continuerà a ospitare, tra altre attività e iniziative, mostre su temi diversi nelle quali i bambini e i ragazzi siano gli autori principali, continuerà a produrre editoria, a far funzionare spazi-atelier per bambini e adulti, a promuovere progetti di ricerca, cercando di non tradire, o tradire il meno possibile, la cultura dei bambini e dei ragazzi. Crediamo che nel mondo attuale dell’educazione questo impegno rappresenti un obiettivo non semplice, ma il nostro ottimismo deriva dalla passione, tenerezza e desiderio di bellezza con cui questa impresa viene perseguita, dagli sviluppi che sta producendo, dalle tante alleanze che si stanno costruendo. Vania Vecchi, Rolando Baldini Graphic Designers, Art Direction di Reggio Children 13 IDEE E QUESTIONI NOVEMBRE 2013 L’educazione dei cento linguaggi dei bambini 14 Per commentare questo stimolante editoriale di Loris Malaguzzi, scritto a presentazione della Mostra “L’occhio se salta il muro”, inizio riportando le parole, sempre di Malaguzzi, in apertura del volume sulle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia “I cento linguaggi dei bambini” pubblicato nel 1993 negli Stati Uniti [a cura di Edwards, Gandini, Forman, ed. Ablex] e tradotto in Italia nel 1995 [ed. Junior]: “Il bambino / è fatto di cento. / Il bambino ha / cento lingue / cento mani / cento pensieri / cento modi di pensare / di giocare e di parlare […] cento lingue […] ma gliene rubano novantanove”. È un’introduzione bellissima per puntualizzare le tante potenzialità comunicative del bambino e l’importanza dell’educazione per “l’acquisizione di competenze e la sollecitazione della creatività”, diceva Howard Gardner nel suddetto volume e, ancora più bello, “per avere scuole senza pareti”. Anche la Mostra presentata da Malaguzzi parlava di muri e mostrava come fosse possibile vedere al di là del muro dei luoghi comuni, dello scontato, del banale. Michel Foucault ci ha spiegato come sia necessario vedere di lato, guardare le cose da altri punti di vista per avere una visione generale e non solo particolare. Malaguzzi lo ha messo in pratica promuovendo una serie di contatti, una rete di collaborazioni al di fuori del personale strettamente legato alla scuola, nel campo dell’arte, della sociologia, della filosofia e delle scienze. Proprio le neuroscienze ora ridanno vigore alle intuizioni del maestro reggiano. Hanno confermato l’importanza del linguaggio gestuale, dei sensi come il tatto, la vista, l’udito, nella comunicazione interpersonale e nell’empatia, ma stanno andando oltre. Questa è una “società della visione e dell’immagine”, come aveva sostenuto Malaguzzi, ma le immagini non vengono archiviate nel cervello in una sola area, come se venissero depositate in un cassetto. Il cervello funziona come un insieme e ogni evento, immagine, suono, idea, viene codificato in più aree: c’è un’area per l’aspetto puramente sensiti- vo, una per il significato semantico, una per il riconoscimento dei visi e via via. Ci sono aree maggiormente specializzate, sappiamo che l’emisfero di destra è più importante per le funzioni visuo-spaziali e per la prosodia, che dà il contenuto emotivo alle parole; quello di sinistra è maggiormente deputato alla elaborazione degli elementi verbali e simbolici, alla comprensione del linguaggio, ma non esiste un tipo di comunicazione, verbale o non verbale, che non coinvolga tutti gli altri tipi. Così che non solo ci sono un linguaggio verbale, uno gestuale, uno espressivo ecc., ma questi si intrecciano così tanto che ogni bambino ha un suo modo di comunicare e di apprendere, un linguaggio unico che esprime la sua singolarità. Questa pluralità di linguaggi nasce dall’esperienza soggettiva e fa parte di un individuo che è in divenire, unico nel suo modo di pensare e di agire e sempre diverso nel tempo. Per Malaguzzi ogni linguaggio diverso è un arricchimento per gli altri. Aveva capito vent’anni prima ciò che la neuropsicologia oggi conferma, come l’altro individuo, l’altra cultura, siano indispensabile confronto e riconoscimento della nostra identità, che muta continuamente nel corso degli anni ed è profondamente segnata dall’esperienza diretta. Malaguzzi dava tanta importanza all’esperienza spontanea nell’infanzia, creativa, libera, dove l’operatore osserva e impara, non determina, non realizza schemi fissi di pedagogia accademica calati dall’alto e non impone “leggi classificatorie che gli adulti si sono creati per sé”. La neuropsicologia conferma questo: dobbiamo allontanarci dall’idea che tutto sia o bianco o nero, dalle dicotomie della nostra cultura classica (arte-scienza, razionalità-inconscio, realtà-fantasia ecc.) perché in ogni atto, in ogni pensiero le contrapposizioni “socializzano”, producono un “sentirsi intero [che] è per il bambino (e così per l’uomo) una necessità biologica e culturale: uno stato vitale di benessere”. Mente e cervello fanno parte dello stesso organismo, modalità inconsce e razionali convivono sempre. Insegnamento e apprendimento vanno sempre assieme e il miglior modo per insegnare è ascoltare, osservare, capire il linguaggio di chi ci viene affidato: se si smette di imparare ci si fossilizza, chi ripete a memoria non sa quello che fa o dice. Insegnare non vuol dire dare, ma fare in modo che gli altri trovino, offrire opportunità per uno sviluppo autonomo in base alle proprie attitudini. Malaguzzi non era un teorico, era un uomo pratico, viveva con i bambini, li ascoltava, si poneva nei loro panni e invitava gli insegnanti a darsi un’ampia cultura generale ed è per questo che le sue intuizioni sono così incisive e valide a distanza di tempo. In questo editoriale apre anche un altro campo d’indagine, il piacere e la gratificazione in campo educativo. Sono di due fondamentali tipi ed entrambi portano alla liberazione di dopamina nel cervello che favorisce i meccanismi di rinforzo e quindi il desiderio di ripetere l’esperienza: 1. la gratificazione che viene dall’attività stessa, il piacere disinteressato; 2. la gratificazione che viene dall’aver ricevuto un premio per quello che si è fatto, l’uso utilitaristico. È chiara la differenza tra essere gratificati, contenti, appagati dall’aver letto un libro o eseguito un disegno ed essere gratificati con un riconoscimento per il fatto di aver letto un libro richiesto o di aver eseguito un disegno bello nel canone di giudizio dell’adulto. Nel primo caso avremo messo in atto una strategia gratificante che ci accompagnerà tutta la vita e dipenderà da noi stessi, nel secondo impareremo a essere gratificati dal riconoscimento, dipenderemo quindi dagli altri. Se questa differenza può sembrare scontata, basta guadare cosa s’intende oggi per creatività nella nostra società di mercato, performante, nell’ambito del design, dell’arte e della scuola produttrice di tecnici. Per Dean Simonton il pensiero creativo deve NOSTALGIA DEL FUTURO educazione al controllo delle emozioni). Aveva ragione quindi Malaguzzi quando auspicava per l’infanzia un’autonomia strutturale, capacità specifiche, la necessità “di molte libertà [...] di indagare, provare, sbagliare, correggere” e questo in base ai loro [dei bambini] “tempi, ritmi e misure”. Aveva ragione a dire che “a noi spetta […] di offrire loro le occasioni del conoscere”. Non ha mai detto di trattarli da adulti. Occorre stare attenti nel valorizzarli troppo o nel dare loro valenze razionali che non possono avere, perché favoriremo in questo caso un senso di onnipotenza, d’importanza, di superiorità che li metterà a disagio quando cresceranno in una società che sembra essersi dimenticata dei giovani. Il problema è che, una volta usciti dalle scuole per l’infanzia che viaggiano con le idee di Malaguzzi, è difficile trovare questa sensibilità nelle scuole successive, nelle famiglie, nella società che li accoglierà ed è difficile quindi continuare, come diceva Howard Gardner, questo “apprendistato in umanità che (tanto) potrebbe servire per la vita”. Marco Ruini Medico Chirurgo, specialista in Neurologia e in Neurochirurgia, Direttore Scientifico di “Anemos”, rivista di neuroscienze 1 Le neuroscienze hanno preso a prestito la parola “astrazione” dall’arte. Una Mostra, tante mostre Nel 1980 a Reggio Emilia viene esposta la Mostra “L’occhio se salta il muro”, testimonianza del lavoro delle scuole e dei nidi d’infanzia reggiani. L’anno successivo è al Moderna Museet di Stoccolma, prima tappa di un lungo e appassionante viaggio. Negli anni, infatti, aggiornata e duplicata, con il nuovo nome “I cento linguaggi dei bambini” tocca numerose città di diversi Paesi, oltre all’Italia: Australia, Brasile, Canada, Cile, Corea, Croazia, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Hong Kong, India, Islanda, Israele, Lussemburgo, Malesia, Messico, Norvegia, Olanda, Perù, Portogallo, Regno Unito, Spagna, Stati Uniti d’America, Svezia, Svizzera, Turchia, Uruguay. Attualmente sono in corso contatti per un tour in Cina. Dal 2008 “Lo stupore del conoscere”, una nuova Mostra itinerante che narra l’evoluzione del progetto educativo reggiano, inizia a percorrere gli Stati Uniti d’America. Sono in calendario esposizioni sino a tutto il 2015. Contemporaneamente altre versioni della Mostra vengono allestite in Germania, Giappone, Israele, Nuova Zelanda, Turchia. www.lostuporedelconoscere.it NOVEMBRE 2013 essere orientato in termini produttivi e Henri Poincarè ha creato una formula: C=nu dove la creatività (C) è il prodotto di una quantità x di novità (n) e di una quantità y di utilità (u). Quindi produzione e utilità ne starebbero alla base. Per Malaguzzi e per le neuroscienze la creatività è un’altra cosa, non è necessario che tutto debba servire a qualcosa ed è deleterio educare i bambini a questo utilitarismo. L’educazione ha un fine molto più alto ben evidente nel lavoro di Malaguzzi, ha una finalità etica, deve promuovere la gioia del fare disinteressato, il “godimento dello stupore”, deve favorire il pensiero divergente e la flessibilità mentale per permettere di spaziare al di fuori dei binari, per vedere al di là del muro, per poter capire, prima di dover fare, e soprattutto deve insegnare a vivere con gli altri. Il lavoro o il gioco spontanei, solidali, tra coetanei favoriscono la socialità molto più del rapporto con l’adulto. Il cervello, alla nascita, ha tantissime potenzialità che debbono solo essere stimolate nei primi anni di vita per poter rimanere latenti, pronte a estrinsecarsi nelle condizioni favorevoli. Non si nasce quindi con delle capacità innate, ci sono delle predisposizioni genetiche, ma tutti abbiamo un’infinità di capacità potenziali. Se però non vengono attivate nell’infanzia dall’esperienza, dall’imitazione, le loro vie facilitatorie nel reticolo neuronale del cervello si perdono e sarà molto difficile riattivarne altre da adulti. È per questo che un ambiente ricco di stimoli, che non si presentano come imposizioni, ma come possibilità o contatti, anche se al momento non sembrano dare frutti, lasciano aperte le porte per il futuro. Ciò che sembra innata non è quindi la conoscenza, ma la modalità di apprendimento. Il cervello impara a conoscere il mondo con la stessa strategia in ognuno di noi, attraverso la formazione di concetti come casa, albero, mamma, ma anche bello, buono, amico ecc. Per farlo ha la necessità di “astrarre”1 i particolari per trarne un’idea generale, parte ad esempio dalla presenza di una porta e di finestre e crea il concetto di cosa sia una casa. “L’astrazione” è quindi alla base della nostra conoscenza e ne è il cardine per tutta la vita, è un processo che ereditiamo geneticamente, indispensabile per costruire i concetti. Nell’infanzia incontriamo un mondo sconosciuto, dobbiamo immagazzinare una quantità enorme di dati e la capacità di astrazione è ancora più importante e quindi da favorire e aiutare. I disegni astratti dei bambini sono l’esempio migliore di questa visione del mondo, dare valore al loro linguaggio astratto e magico, come tutta la scuola per l’infanzia di Reggio Emilia ha fatto in cinquant’anni di attività, è quindi riconoscere una personalità dell’infanzia, uno stato autonomo del bambino, che l’adulto fa fatica a decifrare con la sua logica razionale. A volte, quando ci prova, considera il bambino un giovane adulto, affidandogli capacità decisionali, di ragionamento, che non possono appartenergli. L’educazione nei primi anni di vita è quasi esclusivamente emotiva, i lobi frontali razionali si sviluppano pian piano col finire dell’infanzia: i desideri, le emozioni, l’individualismo hanno la meglio sulla ragione in tutto il periodo dell’infanzia (oggi c’è anche il fenomeno dell’infantilizzazione dell’adulto, della sua incapacità a controllare desiderio e pulsioni, forse proprio per una cattiva 15