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Neppure quando è notte

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Neppure quando è notte
PEQUOD
Prima edizione: febbraio 2003
Seconda edizione: marzo 2003
© 2003 peQuod, Ancona
www.pequodedizioni.it
ISBN
88 87418 41 1
Mario Desiati
Neppure quando è notte
peQuod
Giorni riempiti di dolore
Di occupazione rabbiosa
Neppure quando è notte
Ha riposo il suo cuore
È miseria anche questo
Qohélet o l’Ecclesiaste, 2.23
I personaggi e le storie contenute in questo libro sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è
casuale. I fatti di cronaca realmente accaduti sono funzionali alla narrazione. Le opinioni e i giudizi espressi dal protagonista Franz Maria su cose,
oggetti, persone, corpi militari, movimenti politici e religiosi appartengono al protagonista e non al narratore, sono dunque utilizzati per fini
meramente narrativi.
INTRO
Un giorno potrebbero derubarci del nostro cervello, del
nostro pensiero. Potranno far sparire dai libri di letteratura
Pasolini, Moravia, Parise, Fortini, Penna, Tondelli e Bellezza
con qualche scusa del cazzo: tipo che sono stati comunisti
oppure froci. Potrebbe succedere che qualcuno dice che il
mondo con tutti i suoi pupazzi fatti di acqua, fango e sale è
fatto per i vincitori: quelli che stanno dentro “Forbes”, quelli
che hanno la copertina di “Cosmopolitan” e sei canali televisivi. Oppure ti potrebbero dire che c’è un prezzo ai tuoi sabato in disco, i tuoi maledetti surgelati e le tue scarpe da jogging,
ma soprattutto c’è un prezzo alla tua libertà di pensiero e questo prezzo è che non ti ascolta nessuno.
Ti diranno che questa generazione sa solo fottersi con le
sue stesse mani, che è quella che si schianta a 180 contro un
guardrail dell’Autosole, che si appassiona solo degli effetti
speciali del dolby surround, della programmazione dei pomeriggi di Italia 1. Ti diranno che non fanno più politica, che
indossano magliette con stelle rosse e croci celtiche senza capirci niente, che leggono “Topolino” e vanno ai meeting di
Cl. Ti diranno che sono fatti così, come Mtv li ha fatti, tutti in
serie come un McChicken con Coca. Ti diranno che sono liberi, ma c’è un prezzo per questo e questo prezzo è che non ti
ascolta nessuno.
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Capitolo 1
CARITÀ ROMANE
Negli ultimi quattro anni la povertà nel nostro paese non è aumentata significativamente, ma ha cambiato volto e ha spesso gli occhi di
un ragazzo. Giovani sono i clochard: 17.000 persone, ma la stima è
approssimativa. Più del 70% di chi vive in strada ha meno di cinquant’anni.
(“Corriere della Sera”, 15 novembre 2001)
Da dove cominciare una storia, da dove cominciare a raccontare l’inizio dell’anno santo, profanato e volgarizzato da
tutto: dalle chiese e dalla politica, dalla miseria e i pomeriggi
televisivi? Da dove cominciare un racconto sull’inizio del 2000
e tutte le menate sul millennio che finisce e quello che comincia? Dove raccogliere i resti di paure e spauracchi antidiluviani, ideali cesti di memoria per collezionare perle di santoni
che acclamano la fine? Allo scoccare di una qualunque mezzanotte della nostra vita, oppure in quella mezzanotte millenaria pingue di polvere da sparo e alcol? Dove cominciare
queste commoventi prediche sui bachi che avrebbero paralizzato il mondo delle banche e degli istituti di credito, delle
televisioni satellitari, dei vostri amati sistemi operativi?
Di tutto questo ho solo desiderato una cosa, una cupa e
nera parola fine. Fine. Fine. Anzi The End. Tanti The End.
Come quelli che escono su sfondo bianco nei vecchi film degli anni Trenta di Charlie Chaplin. The End, parola che ti sbatte
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addosso un quintale di sensazioni, parola che ti arriva come
un secchio di birra ghiacciata, come olio bollente sulle tue
mille cicatrici, bada bene, in un solo attimo. The End. È finito
il film. Posso tornare alla mia vita normale. Non è cambiata di
un’acca: dalle fottute sanzioni della polizia metropolitana, ai
calci in culo dei maniaci dell’ordine e della pulizia; dagli
“smamma sei sprovvisto di biglietto”, alla faccia schifata dei
passeggeri di un tram, passando per l’odore asciugato di sudore, fino alle sbronze di primo mattino.
E allora da dove la cominciamo?
Dalle genealogie. Perdio! Lo faceva Henry Miller come lo
faceva il salmista della Bibbia, lo faceva Omero, lo fanno i
vecchi saggi del mio mortale paese in Puglia. Lo fanno le
prèfiche per ricordare chiunque abbia un naso per respirare, i
preti poeti da Pietro Paolo Parzanese in giù e chiunque abbia
una lapide dove spirare in aeternam. E allora facciamole queste genealogie che possono essere in verticale o in orizzontale.
Non mi curo dei legami iure sanguinis e delle deprimenti carte anagrafiche. Me ne sbatto degli affanni in un seminterrato
di tre metri quadrati senza finestre, senza Shakespeare. Non
hanno poesia nelle vene i fottuti burocrati. Quelli che dietro
una scrivania vedono sempre il mondo dal busto in su e non
sanno cosa c’è sotto, ma nemmeno dietro. Burocrati del posto
fisso, del “non sa chi sono io”, affamati di niente. Senza poesia. E nel sangue hanno solo la paga netta mensile; allarmante
diaria della routine, elemosina da dividere con una famiglia di
figli scemi e moglie frigida. Tutto è burocrazia, un inutile conteggio di giorni lavorativi, legami inesistenti e finti registri di
paternità, miracolati e atei, mafiosi in livrea e puttane ai bordi
dell’Appia antica. Tutto è burocrazia, è un semplice elenco di
convenzioni. Il catalogo del 2000 è una scala sociale di paria e
principi, sfigati e fortunelli, famosi e pezzenti, morti di fame e
dignitosi intellettuali. Quello che conta è un maleodorante stipendio, fatto di soldi, compromessi e tanti inchini a dottori e
dottoresse e a volte neanche a quelli.
Forse sono ribelle e dico questo con nelle orecchie David
Bowie e tutto il punk italiano. Lo sono perché non scriverò
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mai un libro e se lo facessi non lo sarei più. Sono un esule
perché chi si ribella finisce esule in un mondo fatto di ghetti.
Questi ghetti sono subdoli, si chiamano centri sociali, rassegne musicali alternative, terze pagine, collane di poesia, mercati notturni, cantine sociali e stazioni Fs.
Ergo. Tutto questo sono io il crepante Franz Maria, ultra
ventenne che sta morendo. Chi decide di suicidarsi lo fa una
sola volta. Io ho deciso di declinare lentamente a vent’anni,
quando ho cominciato a lasciarmi vivere addosso, vedermi scivolare tutto come quella enorme statua della “divina indifferenza”: poesia di Montale che piace spararmi quando sono
sbronzo da non distinguere un palo della luce da un essere
umano. Così si comincia dalla genealogia di chi ha preso le
sembianze di un uomo crepante. Sono figlio di Franz Kafka.
Perdio ho scelto un padre e questo è già un privilegio che
nessuno può vantare. Perché devo scegliermi un padre che si
mette di nome una sfilza di insignificanti fonemi, Francesco,
Giuseppe, Vito, Giorgio, Roberto, Remo? Mio padre è Kafka
e basta questo.
Mia madre è Imma e ora fa compagnia a mio padre Franz
Kafka lassù in un cielo etilico di china. Imma è crepata di
cancro al fegato o cirrosi o non si sa di che cosa. Ma adesso
non importa. Un tizio disse “l’alcol è l’escatologia delle nostre
intenzioni sepolte” e non chiedetemi che significa. Era un
medico mingherlino e meschinello con un’aria gretta da strozzino, occhialini tondi e barbetta caprina. Stava annoiato con
un insopportabile odore di dopobarba addosso, impalato al
capezzale di Imma, dolce mammina con gli occhi appena sbarrati da nostra signora morte.
Non dimenticherò mai quella carcassa bianchiccia come
un quarto di luna che respirava con il ritmo mortifero dell’ossigeno in scatola. Mia madre è morta incarognendo e questo
mi ha accorciato la vita più di ogni bevuta e fumata, più di
ogni delusione d’amore, più dello scioglimento dei Nirvana.
Affanculo. Mia madre fu massacrata da un matrimonio di cui
non so nulla, che non so se è esistito, che fu distrutto da un
tipo che si chiama Remo, e adesso chissà dov’è.
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Arrivai a Roma per fuggire, per essere lontano dai rumori
domestici di preti e parenti pronti a tendermi la mano, mortis
causa. Solo in estremo. Lontano da tutto: andare in banca,
parlare col notaio, e poi con gli avvocati, e poi in congrega per
il sepolcro dell’amata Imma, e poi fare la faccia afflitta, mendicare, sbavare, “sono solo non so da dove cominciare”. Lontano anni luce da Taranto ex Italsider, Belleli, Eni e la morte
certa dentro un forno, schiacciato da una gru, bruciato nel
combustibile liquido, consumato da un puntualissimo tumore all’apparato respiratorio, soffocato da misteriose polveri di
colore arancione che riempiono i balconi, le terrazze, il bucato, le foglie, i cigli delle strade, il naso, la bocca, i capelli, tutta
Taranto e suoi mari metallici.
Ma ecco l’eureka, l’incredibile tesoro, arrivato come neve
rossa in settembre, chincaglieria in un vasetto di miele, roba
da matti, ma è arrivata da una destinazione sconosciuta. Vivere giorno per giorno, senza pensare a domani, come se ogni
ora fosse l’ultima ora divorata dalla tua vita.
Sopravvivere a Roma con un zainetto pieno di libri: da
Kafka a Hrabal, da Hasek a Jan Neruda, Musil, Holan, fino a
Pasolini. Sopravvivere a Roma, con una bottiglia, una sola
bottiglia di Aglianico del Vulture. Sopravvivere a Roma, con
una cassetta con audio cattivo dei Led Zeppelin. Sopravvivere a Roma senza Chiara. Sopravvivere a Roma. Senza “hebel”,
senza vanità, come consiglia il libro più sgomentevole che c’è:
il Qohélet.
Mi sistemai come un cane sotto il primo capezzale di pietra. Era una casa addobbata a morte sociale, stamberga a piano terra sulla tangenziale: tra il tiburtino desolante e l’American
Parioli. “Ho costruito la tana; sembra riuscita bene. Da fuori,
a dire il vero, si vede solo un gran buco, ma quel buco non
porta da nessuna parte”. Sì, è chiaro dottor Kafka, alias mio
padre.
Il mio disperato pellegrinare non importava granché a nessuno, solo al padrone di casa, alias lo Stato Italiano. Rigoroso
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usuraio. Non aveva altro da chiedere, alla sua vita da ultracentenario, che il mio sgombero. Conseguenza: una vita vissuta sotto una spada di Damocle fatta di carte bollate e timbri. Puntuali visite di giovani geometri brufolosi con livelle e
metri, minacce di vigili urbani dall’aspetto bonario e panciuto.
Il posto era un rustico su cui in teoria pendeva un sequestro penale. Espropriato perché a due cm dalla strada a quattro corsie. Era lì. Dimenticato. Pertanto, causa presenza tetto,
si erano rifugiati i personaggi più disparati. Magnaccia, tossici, clandestini, puttanoni, transessuali e ovviamente io. Si trattava di una mostruosa catapecchia che sarebbe dovuta servire
come deposito e che neanche i ragazzi del centro sociale di
Vigneto volevano occupare. Se ne vennero un giorno bardati
di buoni propositi due fighine liceali e un rasta con scarpe
Nike e sciarpa da Caravaggio e oltre al collo. Avevano vissuto fino a tre minuti prima immersi nella Roma Prati più
sciccosa con la bocca a ventosa sul portafoglio del babbo. Le
loro facce di fronte a me che nuotavo nella sporcizia, nelle
buste piene di stracci e stravolto da un litro di vodka, erano
un misto di chi ha visto l’apocalisse e chi ha pestato un’enorme merda.
Col tempo divenni il padrone di casa trasformandola, con
amati shopping nelle pattumiere, in una stalla vivibile. Non
c’era niente, acqua, mobilia, vasellame, corrente elettrica, tv,
niente. Feci il simpatico, dietro la porta di compensato scrissi
con la bomboletta: CASA OCCUPATA DAL 1977. Non so perché.
Mi piace. Fa sentire importanti. Mi piace essere quello che
non sono. Alcuni dicono. “Cazzo fai” senza congelatore, apparecchi elettrici per mantenere il tono muscolare, friggitrice
e videoregistratore. Altri mi fanno “cazzo fai” senza radio e
tivvù. Mi basta pensare a Pier Paolo Pasolini che arringa l’Italia a processare i responsabili del disastro paesaggistico. Oddio.
Per la tv di stato non basterebbe la fucilazione per aver ridotto questo paradiso in un buco maleodorante. Eccoli lì in mostra, basta infilarsi in una pizzeria aperta fino a tardi dove la
televisione rimane accesa tutta la notte: mediocri leccapiedi,
baldracche che leggono oroscopi, giocatori di Enalotto, patiti
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di soap, edonisti da quattro soldi, berlusconi, cialtroni delle
televendite, porta a porta.
Un giorno presi un amaro a piazza Bologna. Respiravo aria
di smog e pneumatici come tutti i senzatetto di Roma. Il Fernet
poteva darmi ossigeno. Entrai nel bar come un tossico a caccia di metadone. Presi gli spiccioli scollettati due secondi prima e senza contarli li riversai sul bancone. Una signora sulla
quarantina con un collo enorme mi versava l’amaro. In televisione c’era un uomo vestito da topo. Aveva una coda grigia,
una tuta aderente. Faceva boccacce, saltellava come una palla
matta, fingeva di squittire. Ballerine strafighe, scosciate a puntino, ridevano, il pubblico applaudiva. Inquadravano un sacco di persone che sembravano molto divertite. Ex piduisti,
mazzettari, arrivisti e sgualdrine avevano la faccia consapevole di essere gente invidiata e ammirata. La signora del Fernet
non contò i soldi, scosse la testa per l’ammirazione. All’ennesima performance del topo sussurrò fra sé e sé: “Però è bravo”.
Di Roma mi piace tutto. Certo non rimpiango minimamente
le pistole grigie dell’Italsider con la canna rivolta verso l’alto;
la nebbia nera, densa come inchiostro dove s’inzuppava l’orizzonte dietro Taranto. Una nebbia di morte, che ogni giorno
uccide con il cancro una città e una terra. Quando avevo 15
anni andavo sul monte dell’Orimini per vedere l’Italsider; ci
andavo con i miei amici Bert e Dani sulle biciclette. Facevamo
un sacco di pensieri su quelle nuvolette scure, immaginavamo
che dietro ci fosse la vita, il paradiso in terra, che superata
Taranto c’erano otto ore per Roma dove avremmo studiato e
l’avremmo conquistata. Mi bastava solo evocare per un attimo questo episodio che immediatamente quella tangenziale
sfigata dove abitavo, il parcheggio dell’Atac, i rumori notturni incessanti, le disinfestazioni e la stessa spazzatura che si
cumulava dietro i piloni dei cavalcavia, diventavano il miraggio romano che nutrivo da adolescente.
Roma è questa! La storia di Franz Maria comincia qui, nell’odore marcio della Tiburtina, stazione di smistamento di una
capitale d’Europa. Comincia qui, nella puzza di umido e vino
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in cartone, odore di corpi umani lacerati dalle pustole della
povertà e dell’accattonaggio. Tutto qui puzza di miseria. L’odore della miseria è leggermente dolciastro, un odore di bucce
marcite come i libri della libreria di Tiburtina, come le dita
dei questuanti e degli artisti di strada. Come per un dannato
in un infernale girone dantesco, tutto puzza di mendicità, muffa
e alcol. I bagni sono pieni degli stracci dei barboni, le panchine di ferro consumate dal sonno di chi non ha dove dormire.
Qui si danno appuntamento migliaia di diseredati. Qui si dà
appuntamento chi ne ha piene le scatole di vivere per guadagnare il pezzo di pane. Un pezzo di pane duro, avaramente
offerto da un mostro sociale che schiaccia e irride la retorica
di chi ne parla. La retorica sia benedetta! Lo diceva Aldo
Fabrizi. Perché anche un comico ricco e affermato, con l’opulento simbolo della sua pancia, poteva permettersi di dirlo.
Roma è la capitale della retorica, ma è stata punita dal destino: le hanno dato lo Stato Pontificio, Mussolini, Andreotti,
Ciarrapico, il Ministero dei Beni Culturali e la curva nord.
Il fischio urlante della metro richiama all’ordine ogni giorno la nostra allegra combriccola di suonatori e cazzeggiatori.
Un concertino fatto di chitarre, bongo, tamburi di latta, voci
affilate dalla birra. Di qui ne sono passati di tutti i tipi anche
per un solo istante: danzatrici di ventre, trasformisti, uomini
serpente, mangia spade, sputa fuoco, contaballe, seminaristi
pentiti, sgualdrine da quattro soldi, studenti fuoricorso, poeti
della domenica, gente che fuggiva di casa e trampolieri suicidi. È passato di tutto in questo corridoio di plastica e gomma,
impregnato dell’odore del vagabondaggio di Franz Maria, ma
proprietà anche di mille altri accattoni.
Breve inventario al presente.
Ne ho tanti accanto. Ho Tarcy. Non è una brutta persona,
ma quando è lontana dal suo metadone, migliore amico dell’uomo, mette il cervello in folle e si appisola nei punti più
strani con le sigarette accese oppure, molto più spesso, monta
casini, strilla, cerca me per andarsi a sbronzare. C’è Mary,
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sdentata, smunta e consumata dall’eroina. Con un sesso dilatato, nero e grosso come un’arancia spaccata. Ma non altro
che un torvo ricettacolo di malattie, unico conforto di tanti
disperati che non hanno conosciuto altro che il suo abbraccio
scheletrico. E poi c’è Jerry Barbetta, scollettatore professionista che va in giro con una valigia di carta legata al polso con
una corda piena di calendari di Padre Pio. Spesso se ne veniva
con un interrogativo inquietante. Corrugava lo sguardo e ghignando faceva: “La vuoi la caramella?” indicando un calendario ridotto a un rotolino. Mauri, invece, si professava al
mondo intero “strimpellatore”, in realtà era un ladruncolo matricolato noto per la sua performance con il papa.
Infatti qualche anno fa il Vaticano si cacciò in testa di fare
una funzione della settimana santa tra la feccia della società,
alias i barboni capitolini. Il papa, immediatamente rinominato
Joao Paulo, senza motivi apparenti si occupò di una strepitosa lavanda dei piedi.
Mauri fu colpito da una botta di culo. Era lui il terzo a cui
il papa avrebbe umettato le pendici maleodoranti. Piccolo
particolare: Mauri non si toglieva le scarpe da un paio di anni.
Il nostro caro strimpellatore saltò di gioia quando seppe
che niente meno il papa doveva fargli quel penoso servigio.
Per giorni non si parlava d’altro. Il papa e i piedi marci di
Mauri. E già immaginavamo mollette pastorali al naso pontificio, svenimenti e malori tra i cardinali. Insomma una serie di
luoghi comuni sul fetore dei piedi che poteva far ridere soltanto quattro sbronzi cialtroni come i sottoscritti.
Ben presto le cose furono chiare. La mattina del pediluvio
venne una squadra di suore e volontari che prelevarono Mauri
e lo misero a mollo in una detergente vasca papista.
Quando il papa gli avrebbe fatto la lavanda sarebbe stato
bello pulito e odoroso come un fiorellino. Gli misero addosso
stracci puliti e profumati. Mauri era tramortito da tanto
lindore. Ma non appena il papa si chinò su di lui iniziò a ripetere con ossessione: “Pablito, Pablito, Pablito…”. Ogni riferimento alla semifinale mondiale Italia-Polonia 2-0 era puramente voluto! Joao non se la prese e dopo un sorriso pontifi18
cio convertì Mauri all’istante e da allora ci parlò sempre dello
strano profumo che emanava la testa del Santo Padre: un profumo dolciastro e ficcante simile ai gelsomini.
Alla testa di questa banda c’era Damiano, il mio vero amico dei primi mesi a Roma; la musica gli scorreva nelle vene
come e quanto la Sambuca Molinari. Era come se il sangue, le
ore della giornata, la fisarmonica dei suoi pensieri e lo stesso
spazio vitale fossero una strada stretta e disseminata di petali
nivei di sambuco. E poi c’era Oblomov. Che viveva in una 127
rossa, passando il tempo a guardare lo scorrere della vita. Senza
questua. Assistere e basta, da dietro i vetri della sua 127, guardare il mondo passare davanti come le sequenze di un film
con sonoro cattivo.
Chi ha messo piede in quella 127, ha narrato di chicchere e
ninnoli vecchi, cianfrusaglie e ciarpame grattato dalla spazzatura. Quella 127 pullulava di piccole ricchezze, minuscoli valori degni di un antiquario col gusto dell’orrido. Questa carrellata di figuri aveva il suo vertice in Nonna Speranza, che
era una signora dall’età indefinita. C’è chi le dava cinquanta,
chi sessanta, chi ottanta anni. Leggende la davano per trentenne, altre storie la descrivevano come ultracentenaria. L’accattonaggio appiana gli anni, smussa i corpi, le stesse espressioni
facciali, fino a renderle tutte uguali, in una gamma monotona
da miseria a miseria.
Il volto di Nonna Speranza faceva eccezione solo sotto un
aspetto. Quella espressione immobile e fissa, con lo sguardo
di chi non sai se è tonta oppure saggia, cambiava quando qualcuno passava indifferente davanti alla sua mano tesa. Allora il
suo sguardo si inaspriva corrugando la fronte, senza mai fiatare
o imprecare. La sua mano sosteneva un contenitore di plastica, di solito un sotto vaso verde, e ogni sera raccoglieva tanto
poco da avere la carità degli altri barboni.
Nonna Speranza aveva un seno enorme e penzolante, cosparso da macchie marroni. Lo vedemmo perché, una volta,
aveva chiesto invano la carità a uno scrittore famoso che stava
per presentare un libro alla libreria della Tiburtina. Questo
tipo era uno che parlava di amore, di comprensione, di tutte
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le cose belle del pianeta terra. Faceva molto sociale e camminava allampanato con un maglione a collo alto accanto a una
biondina aggrinzita. Si chiamava Albertone, Albertini, Abetone, Brandone, Brandirali occazzo non mi ricordo. Durante
la presentazione andammo tutti per dare fastidio al tirchio.
Mauri ruttò, noi ci mettemmo a spingerci, a menare qualche
gridolino, roba del genere, insomma baccano. Poi ci lanciammo i libri addosso. Questo fece girare le rotelle al pacco di
Abecomecazzosichiama. E così ci montò una predica di venti
minuti sulla nostra rozzezza, disse qualcosa del tipo “la proprietà privata è una forma di rispetto verso il prossimo”.
Nonna Speranza rispose alla grande. Fece scivolare la spallina dello straccio che aveva indosso, e uscì questa tetta pustolosa; infilò la mano sotto la spalla e con il movimento sussultorio del braccio cominciò a fare pernacchie con l’ascella.
E dunque sono qui. Me ne venni un anno fa quando si
temeva ancora la guerra del Kosovo; l’immigrazione in massa
di albanesi, curdi e cinesi con i loro cenci; la bolgia del Giubileo, la tristezza della sinistra di governo. Oggi sono passati
diversi mesi, con in mezzo il capodanno del 2000 e Roma che
muore soffocata da questa melma di pentiti turisti, sudati e
preganti. Uomini e donne in tenuta sportiva e scarpe firmate
da trekking con figli obesi e nonni rincoglioniti dal caldo.
Autentica gentaglia che da un momento all’altro, dopo pochi
attimi di compassato pentimento, tornerà a uccidere, violentare e distruggere, votare Forza Italia, annullare, fottere il prossimo e fare ciò che non hanno mai osato pensare, ma solo fare
come conigli.
Fuggo dal sud e anche da Chiara.
Io amavo Chiara e Chiara amava me.
A detta di tutti avevo tutto. Io estremo elettrone dell’atomo provinciale avevo conquistato la mela più rossa e appetita.
Con l’idealismo si scalano grandi vette, ma non si rimane sopra a lungo. Con Chiara finì perché lei troppo tutto e io troppo niente. Lei con la vita scritta sul palmo della mano e ogni
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virgola corretta e bianchettata con cura e attenzione. Io uno
strafalcione di Dio in persona da convertire in un filantropo
borghese rotariano. Invece ne ha fatto un mostro alcolista,
ultra idealista pieno di nevrosi. Addio Chiara, sarai sempre
come fu Felice Bauer per Franz Kafka. Sarai ninfa irraggiungibile, e noi i due amanti che vivranno una vita senza coito,
senza contatto fisico, solo quei lembi di carte pieni delle professioni di fede al passato che non tornerà. Non ci sarai mai
più, bruciata, consumata, esplosa, disintegrata. A Chiara, ho
preferito un bicchiere di cartone con la scritta globale Coke
da riempire con l’elemosina. E ho preferito amare un pezzo di
carta tintinnante di monete. Ti amo molle bicchiere di cartone. Ti amo quando sento le tue pareti aprirsi nelle mie mani.
Ti amo quando spalanchi la pancia e l’orlo mi risucchia nel
tuo stagno di ferro zincato, mare di monete dove affogano le
mie giornate.
Art. 670 Codice Penale. Mendicità: chiunque mendica in luogo
pubblico o aperto al pubblico è punito con l’arresto fino a tre mesi. La
pena è dell’arresto da uno a sei mesi se il fatto è commesso in modo
ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperare altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà.
Io sono di carità. Vivo di miseria e me ne fotto se un giorno
da questa stazione passerà Kafka, il buon soldato Sveik,
Ninetto Davoli che fa capriole, Lara Croft, Chiara, o il papa
in persona. Sarò accucciato come uno sbronzo qualunque,
acquattato nel letamaio del sottopasso direzione Laurentina,
a sfangare l’aria per chiedere “aiuto”, solo una lira, per essere
sempre più fatto, sempre più sbronzo.
“Vengo dall’Italia” disse il mendicante, ma non come risposta, bensì
come confessare una colpa.
(Da un quaderno di Franz Kafka)
21
Capitolo 2
FOTO DI GRUPPO CON WHISKY
I Led Zeppelin nascono da una costola degli Yardbirds, un gruppo
che ha visto nelle sue fila oltre al chitarrista dei Led Zeppelin, Jimmy
Page, niente meno che Eric Clapton e Jeff Beck. I Led Zeppelin sono
uno dei rari gruppi in cui un musicista supera in popolarità il vocalist.
E che vocalist! Robert Plant è una delle voci più acute e particolari
della storia del rock, scoperto dallo stesso Page in un anfratto a cantare con un gruppetto chiamato Obstweedly davanti a uno sparuto pubblico di studenti alcolizzati. Era un fanatico dei Moby Grape e fu portato alla ribalta con l’album Led Zeppelin nel 1969.
30 dicembre 1999 giovedì
La storia CASA OCCUPATA DAL 1977, accattonaggio e affini,
era stata spifferata dal sottoscritto al gruppo dei compagni di
liceo. Daniel, Rossy, Bertowsky e Leira erano a Roma. Per le
loro facce pulite sarei stato un bel diversivo al solito capodanno
in discoteca o in qualche masseria terrona a fare il monotono
conto alla rovescia.
Erano tutti studenti modello. Gente che ancora non sapeva che farsene della vita, se gettarla nel cesso come me, oppure ricavarci un minimo di utile. Ma quello di cui non mi ero
reso conto era che mi stava piombando a casa la foto di gruppo dei miei grandi amici. Quella foto che guardi da vecchio.
L’immagine fissa a cui ti accompagnerai fino alla morte. I pro22
tagonisti delle tue avventure finte e false da raccontare ai tuoi
nipoti sulle ginocchia. Facendo la parte del vecchio imbalsamato, nel saio fetido e mortale della senilità. Mi vedevo tremolante e sfatto. Altro che saggio dispensatore di consigli!
Nel futuro comparivo come il più volgare ubriacone, manesco e molestatore di fresche giovenche. Un nonno inaffidabile
e cinico, pronto a tutto pur di spassarsela per l’ultima volta.
Ma questa è un’altra storia.
Daniel ama la banda che qui non c’è, Rossy ama Daniel che
qui c’è e stanno insieme dalla notte dei tempi. Daniel non sa
come scaricare Rossy e intanto fanno pruderie solo all’anniversario. Una volta al mese. Il 9. Il sottoscritto con Chiara ci
stava sempre in tutti i posti più strani e a tutte le ore. È strano,
ma così è la vita, così è l’amore, così è soprattutto Daniel.
Daniel non sa se scaricare Rossy. “Rossy è piccolina, non
capirebbe, s’ammazzerebbe nel momento stesso in cui sto per
dirlo” ripete sempre Dani. Boom.
Rossy è molto più piccola di Daniel, avrà un diciotto anni,
ha un viso ancora bambino e il fisico slanciato di una menade,
longilinea e magra. Daniel non è l’uomo che può piacere, è
alto e rude, ma le sue ospitate nella banda dei darkettoni in
paese valgono la fila di giovini signorine adolescenti che anelano a giocare a fare le ribelli per qualche mese. Rossy affascinata dalla banda che scorazza per il paese e dalle balle mostruose raccontate dal suddetto, come le altre dame terrone,
ha accalappiato il nostro e lo ha risucchiato nella routine tutta
valentini e baci perugina.
Daniel è Danilo Ziani, mio compagno di banco e di erba al
liceo, di filoni e scherzi vari in quella scuola paradossale che
era il liceo classico Tito Livio. Lui per me era un mito perché
oltre a essere per eccellenza il casinista dell’istituto era il mio
miglior amico. Ne combinammo davvero a mazzi. Passavamo
le ore a scuola fumati, con due lugubri laghi artificiali al posto
degli occhi, ridotti a manichini sballoni senza senso della misura. Spesso perdevamo completamente la cognizione del tem23
po, ci afflosciavamo sui banchi e mormoravamo preghiere e
canzoni dei Led Zeppelin, ci addormentavamo oppure leggevamo Cuore e rollavamo, tanto, davvero abbiamo tanto rollato.
Ci distinguemmo dalla massa per un mucchio di stronzate,
che ci valsero il sei in condotta, unico caso nella storia di quel
liceo e forse dei licei d’Italia.
Non basterebbe un cantastorie logorroico, per raccontarne una piccola parte. Come quando portammo tutta la classe
nell’ora di italiano a vedere il film pornografico La Dibina
Commedia, in cui Dante era un cerebrale e contemplativo
voyeur e Virgilio un grande castigamatti con un attrezzo impressionante impegnato con le dannate. Oppure quando facemmo il solito scherzo della telefonata per segnalare una bomba inesistente, con la variante del gruppo di terroristi pronti a
fare una strage. O le piante di marijuana coltivate accanto ai
ficus della presidenza. I nostri movimenti frenetici e continui
davanti a quelle misteriose piantine, connesse a un’inedita attenzione per la sfera vegetale, insospettì qualcuno. Quando lo
scoprirono per poco non arrivavano i servizi segreti.
Per colpa nostra gente insospettabile fu traviata per sempre; un tizio di nome Giammarco, tutto casa, chiesa e vhs porno
ebbe una nota e perse la ragione. Sua unica colpa fu quella di
aver tentato di spegnere con l’estintore lo zaino dei suoi libri
sulle scale antincendio. Diede di testa e smarrì totalmente il
senso della misura; raccoglieva carrube e ghiande, vantava lo
spessore eccezionale delle sue feci, si registrava le puntate di
Beautiful e mostrava alle ragazze foto pornografiche di Selen.
Fu denunciato da una professoressa inviperita.
Di Daniel non mi piacevano certe sue amicizie; si atteggiava a fare il mafioso con questo gruppo di etilici darkettoni.
Proprio non lo capivo che cazzo di bisogno avesse di passare
a fare il Lucky Luciano dei pezzenti. Si sbronzavano e facevano danni, ricattavano un barista checca, smerciavano stecche
di sigarette, andavano con Rina, il puttanone del paese. Con
la scusa di farle un po’ la guardia non le lasciavano una beata
lira.
Rina batteva dentro la sua Peugeot 205 anni Ottanta sulla
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statale 172. Chi andava con lei tornava quasi sempre con qualche sorpresina virale. Era una buzzicona burrosa piena di
malattie. Se Daniel stava a grattarselo per tutto il giorno potevi intuire al volo l’attività a cui si era dedicato la sera prima.
Bertowsky era Roberto Montrone, padre professore di filosofia fuggito quando aveva tre anni su un’isola della Polinesia. Bert aveva vissuto per quasi tutta la vita in casa dei nonni,
e il risultato fu quello di una bomba a orologeria. Non appena
varcò la soglia dell’università divenne un altro. Da taciturno
mangiatore di oppio, si trasformò in un istrione da grandi spettacoli. Si definì così sul mio diario del terzo liceo: “membro di
un movimento anarchico di lavoratori para-comunisti vicino
alla strategia della tensione delle molotov e delle manifestazioni anti governative che da un paio d’anni incendiavano le
piazze storiche della sinistra italiana delusa umiliata presa a
calci dalla compagine governativa che la rappresentava…”. E
giù con altre castronerie.
Questo Bertowsky aveva in comune col sottoscritto la voglia di fuggire dal posto di merda in cui viveva. Ma non ne
aveva le possibilità. Io ero stato fortunato nella sfortuna di
trovarmi col culo per strada senza nessuno a cui badare. Lui
aveva a carico due nonni che erano oramai due mummie
senz’anima. La vita stava svanendo loro, e giorno dopo giorno
sfiatavano la morte. Erano malatissimi e rompicoglioni, raccontavano sempre le stesse solite pallose menate, sul fatto che
si viveva meglio durante il duce, che erano pieni di dolori reumatici, che il Voltaren costava troppo, si lamentavano del cibo,
che nessuno li ascoltava e bla bla. Alla gente che ancora sconta il duce indirettamente come Bertowsky, bisognerebbe farci
una bella statua di riconoscenza, per la sopportazione mostrata. Capito vaffangrandissimostatista del secolo generale
Fini?!
Bertowsky poteva permettersi il minimo indispensabile di
viaggi di piacere con la mitica Leira, un pezzo di figa a cui
tutti avevano sbavato dietro al liceo e che ora si era talmente
imbruttita che stava col Bertowsky. Era una silfide bionda,
eccezionalmente formosa, con un fondoschiena florido e l’erre
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moscia da far impazzire il mondo. Una disfunzione alla tiroide l’aveva ridotta, per un periodo, in una vacca tanto depressa da farsela con tutti in un festival di rivincite. Così avvenne
che una decina di suoi spasimanti, in un paio d’anni, s’erano
presi rivalse clamorose.
Ma con Bertowsky fu diverso; una cura per la tiroide e per
quel suo metabolismo schizzato, la resero nuovamente piacente e meno depressa e indifesa. Mezzo paese sapeva l’odore
della sua fica, ma era tornata una ragazza normale. A Bertowsky
gli davo del merito.
Bertowsky però giocava al piccolo politico, e questo per
una ragazza è davvero una fottuta jattura. Perché senza questo, le si dedica un sacco di tempo in più: fottistoio in primis.
Berty questo vizio ce lo aveva da piccolino, sempre rappresentante di tutto, di classe, di istituto, di altre cazzate e varie
associazioni del piffero. In più passava il tempo a scuola a
scrivere documenti di cui non capivo un’emerita mazza. Un
ricordo stellare che ho di lui è la fine burlesca che fece fare a
un libro. Il prof di filosofia disse che dovevamo entrare in
contatto con la filosofia orientale. Metà degli anni Novanta. Il
festival totale delle baggianate new age, e la filosofia orientale
sembrava appartenere a questo immane calderone. Il tizio che
ci faceva lezione non aveva capito niente della vita, perché
avendo a che fare con dei ragazzini invece di rifilare il solito
Siddharta ci intimò Ka di un certo Galante o Galasso, Capasso,
Calvino, boh. Una cosa di cui nessuno capì niente: “Mentre
spiava le gopi nascosto tra le fronde del nipa Krsna scopriva
una forma superiore del furto… due gopi osservano la scena e
fu per loro una versione del darsana… immerse nelle sopracciglia dello Yamuna”. Ancora non ho capito checcazzo significavano tutte quelle parole: avabhrata, asva, atman, baldec,
putana, vasu, yupa…
Berty, che era di un senso dell’umorismo incomprensibile,
la prese a ridere e dopo un mese fece girare un libello con
tutte le parole del dizionario filosofico diventate burla: atman
era batman, putana era ovviamente con due tt, vasu era water,
yupa, chupa. Nessuno rise, ma il professore si divertì molto e
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a dimostrazione di non aver capito niente della vita mandò il
libello a Garroni, Collasso, Celanti, Galasso, Galassia o come
cavolo si chiama. L’unico effetto di quel libro fu l’immediato
cambiamento del nostro linguaggio, l’ashram era il filone, il
satya era lo sballo, il Savytr colui che dà impulso ossia lo spacciatore, il krta era lo botta di culo.
Poi Berty aveva certe fobie, per i ragni, e per il fatto di non
sapere l’inglese.
Berty aveva una fottuta paura di non conoscere l’inglese
perché voleva vivere a Londra. Raccattava grammatiche e dispense, ma non riusciva mai ad andare in fondo alla sua anglofilia. Era l’essere più inconcludente del mondo, stava sempre con questo stucchevole lamento che si mischiava ai suoi
salti di paura per la conclamata aracnofobia.
Un suo cugino faceva parte di non so quale cazzo di forza
dell’ordine. Andava in giro alabardato come un albero di natale e Leira, fascista sino al midollo, ammattiva. Berty era tutto fuorché un signore che andava in giro vestito da piedipiatti;
il giorno della visita di leva insieme al sottoscritto sculettò e
fece moine per tutta la santa giornata. La sera avevamo le chiappe indolenzite per il troppo froceggiare, lui fu bello che riformato, il sottoscritto spedito in hospital causa alcuni sospetti
valori nelle mie urine e inquietanti tremori.
Insomma, con dei tipi del genere Leira checcazzo c’entrava?
Li aspettai ubriaco e nella pace dei sensi, ero dentro Ka, un
Budda pronto a rinominare l’universo. Ero allegro e mansueto, nella fase di precontemplazione del Nirvana. Lo stato alcolico era dovuto a reiterate grappe che ebbero vari effetti tra
cui quello di sorridere a una battuta tristissima di Daniel appena sceso dal treno. Indicò un cartellone pubblicitario della
Kim: “Ciao Franz! Quella è la foto di una mongolfiera o del
tuo fegato?”.
A Termini-city in quei giorni di fine anno c’era un che di
regale e raffinato, rispetto a quello che vivevo ogni giorno a
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Tiburtina. Non c’era un solo barbone, perché il nostro sindaco aveva ripulito la stazione di quella merda umana, tra cui
me. Ora quella merda si era liquefatta, distrutta, morta per
sempre oppure semplicemente trasmigrata a Tiburtina (che
non ebbe fine diversa). I senzatetto furono trattati con meno
dignità dei feti abortiti, furono spazzati come rifiuti e persero
tutto.
Là a Termini mi venne il voltastomaco, perché quello splendore dei festoni, delle luci, degli abeti immensi strapieni di
gadget dell’Oviesse, di palle di natale e lustrati di schiuma
coreana, perché quelle guardie giurate e sbirri in gran pompa,
assillanti volontari del Giubileo, perché quei gracchianti sciami di pellegrini nordici in calze e sandali in pieno inverno,
perché tutto questo era un oltraggio alla pubblica morale.
Ci trovammo così nel gelido notturno del piazzale dove
pascolavano gli autobus. Non c’era possibilità della metro perché era troppo tardi. Ovviamente il pullman che ci serviva
non arrivava, smarritosi nella foschia imprevista di un’atipica
notte romana. Leira piagnucolava qualcosa, tipo che era stanca, ma non me ne curavo. Fino a Tiburtina-banhof si poteva
fare a piedi, mi sarei messo i suoi bagagli in spalla e l’avremmo fatta finita.
Ma lei non volle e allora, per il suo bel piccio da vacca
viziata, cercammo un taxi. Un omino con una barbetta nera –
doveva essere un filippino – scuro come una melanzana, si
fece avanti e si rese disponibile ad accompagnarci anche se
fossimo stati in cinquanta. La regina Leira si cacava sotto e
diceva che quel tipo le faceva paura. Allora non se ne fece
niente, ma quello ci seguiva come un cane infreddolito. Ogni
volta che perdevamo un taxi, lui rispuntava con prezzi più
bassi. Se quello aveva con sé una macchina che fosse stata una
macchina vera e non uno scatolone con le ruote si poteva fare.
Accettammo.
Ci avvicinammo sempre più a una vecchia Ritmo ridotta a
un rottame senza finestrini, con fogli di plastica al posto dei
cristalli. Non appena ci mettemmo il naso, salì un tanfo terribile. C’era stato di tutto lì dentro e non volevo pensarci. Pro28
prio io che venivo da Tiburtina avevo paura che quella fosse
una trappola. Così per fare il duro davanti ai miei amichetti di
scuola, mi alzai il mio bel maglione di lana peruviana. Mostrai
un coltello con la coramella d’avorio, il manico d’acciaio tedesco lavorato a mano e glielo feci intravedere.
Il filippino fece finta di nulla bofonchiando qualcosa di
incomprensibile. Con alta probabilità mi mandò in culo.
Appena arrivammo a Tiburtina la prima cosa da fare era
un sano rifornimento di fumose e alcolici vari. Era l’una in
punto e il drugstore-perpetuo della stazione non vendeva più
alcolici dalle ventitre.
Odio tutti i vedere e non toccare: quello che succede nei
film porno, oppure con le tipe che si mettono in ghingheri, te
la sbattono in faccia e poi svolazzano via come Erinni ululanti. Odio le vetrine dei negozi che mettono alla mercé della
vista di un semplice barbone tutto quello che non potrà mai
comprare: abiti costosissimi e sformati di riso, uova di cioccolato, panini giganti, immensi pandori traboccanti di cacao liquido, peluche a grandezza umana ed elettrodomestici dell’ultima generazione. Immaginate quindi che sofferenza scorgere il gabbiotto-farmacista del drugstore notturno di Tiburtina dove la roba ti viene portata una per volta dal recluso di
turno. Ecco allora scintillanti bottiglie di vodka Keglevich alla
frutta, bottiglie semplici e trasparenti di dry gin, spumanti torinesi e champagne della Borgogna, ecco le damigiane di
lambrusco carpigiano che non potrai più comprare sino al
mattino per un assurdo pippaiolo divieto da America Proibizionista.
Per fortuna, il custode dei nostri balocchi, all’appuntamento
importante, non mancò. Non fu difficile convincerlo, mentre
dal gabbiotto accoccolava buffamente la testa. Con quel viso
tondo e assonnato ci venne incontro regalandoci un boccione
di crema di whisky canadese.
Che cazzo di storia questa del piscio canadese spacciato
per whisky. Girava la favola che il buon Jack Daniel’s, invecchiato nelle sue botti di quercia, era meno pregiato di questa
vinaccia allungata con polvere di latte. La pubblicità compa29
rativa veniva sostenuta senza alcuna prova tangibile dal suddetto custode dei balocchi. Lo lasciammo parlare a vanvera
come un lanciapalle incontrollabile, e ci dirigemmo a casa,
felici e contenti come in un finale da fiaba scandinava made in
Iperborea.
C’era una strana eccitazione tra Bertowsky e Daniel: facevano smorfie e lazzi in continuazione, improvvisavano improbabili passi di danza, fingevano di essere gay, si leccavano sulla guancia, schiamazzavano come mocciosi di tre anni.
In tutto questo ritorno all’asilo perduto, il sottoscritto era
intento a pensare a quella boccia di whisky che si nascondeva
nel cappotto di Bertowsky. Controllavo la mia emozione con
un sorriso e niente più. Mi sentivo molto tranquillo, lo fui
meno quando Leira e Rossy constatarono il livello di vita del
rustico che le aspettava.
Non ho mai avuto molta simpatia per Leira, avevo sempre
mal digerito il cattivo uso del suo potere, faceva la figa e se la
tirava a morire con tutti. Poi ci dava di brutto da quando era
diventata una mucca, si truccava con i cosmetici più sgargianti
della Pupa, s’infilava tutto il giorno in Calzedonia a provare la
roba più appariscente che fosse esistita. Era una di quelle ragazze che aveva in testa il seguente concetto: “Nessuno mi
merita”. Insomma viziosa e viziata a puntino.
L’assenza del pavimento non fu un buon viatico. C’erano
cicche e pacchi di fumose dappertutto, un muro mezzo crollato, una cattedra a tre gambe stracolma di bottiglie di super
alcolici, insuperati trofei di guerra: dalle bottiglie di Sambuca
Molinari a quelle di anice, dal mitico Pernod a bocce di brandy
Stock 84, e poi bottiglie di cognac e creme di liquori vari,
tutte imitazioni dell’irraggiungibile Bayle’s. Sarebbe stato come
in un campeggio, solo che invece di un bel prato incontaminato
c’era la pattumiera di Roma. Dovevano ringraziarmi. A Roma
c’è gente che si è costruita baracche a San Lorenzo dove non
abiterebbero neanche le mosche delle vostre cacche, c’è gente
che vive nelle roulotte abbandonate dagli zinchi, chi ha un
giaciglio di mattoni è un privilegiato. Cribbio. Anche se questi stavano crollando. Cribbio.
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Daniel capì. Così mi tolse un bel po’ di nervosismo. E uscì
una bottiglietta opaca da litro di limoncello. Gli occhi mi si
riempirono di due lacrimoni come se avessi avuto davanti niente meno che quella santa donna di Imma.
Rossy e Leira tornarono dal cesso di un bar di via Lorenzo
il Magnifico. Rossy era incuriosita, Leira molto meno, anzi
non smetteva un attimo di lanciare frecciate e insultarci. Il
suo concetto “non mi meritano” era ormai allargato a tutta la
sfera dell’umanità. Diede a tutti del “maiale”, aggiungendo
per Daniel la razione di “maiale segaiolo”.
Il tutto perché Daniel aveva una pessima fama: sconsacrò
l’ora di religione con una pippa. Il fattaccio avvenne con un
tipo detto don Bastone perché il povero cristo aveva un braccio finto di legno. Senza nessuna ragione veniva chiamato anche Gambadilegno, come l’omonimo personaggio disneyano,
trascurando la differenza tra una gamba e un braccio.
In verità, per Daniel, non fu vera e propria pippa. Una
troietta del ginnasio, Sabrina milleforme, si era lavorata Daniel
in bagno. Quando il buon Dani fece rientro in classe aveva la
tuta con un’equivoca macchia. Accortosene fra le nostre beffe, fece una cosa che ancora non ho capito secondo quale perversa logica gli avrebbe giovato. Si abbassò le braghe e si girò
il cavallo dei pantaloni in modo che la macchia fosse visibile
dietro e non avanti. La sospensione fu inevitabile. Ma fu inevitabile non ridere alle conseguenze dell’intervento del provveditore Andrea Zanzotto, tipaccio robusto e rubicondo, che
chiese cosa fosse successo. Daniel diede una lezione di onanismo all’intera classe, esplicando le varie posizioni del gioco
più amato dagli adolescenti italiani. Zanzotto disse che quelle
lezioni di galateo le poteva dare tutto al più in un bosco lontano da occhi umani e in mezzo a degli animali.
Daniel: un tipo che a mio modo era davvero un uomo aldilà
del bene e del male. Ma se Daniel era così c’era anche una
motivazione genetica di fondo. Il padre, il signor Federico
Ziani, era un operaio dell’Italsider, mansione gruista.
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1986, mensa. Nel brusio sordo della pausa un uomo urla a
squarciagola: è l’operaio Federico Ziani. L’eco richiama l’attenzione di tutti gli operai. Inveisce contro le mense Pellegrini e dice che quella roba che danno a mensa non si può mangiare tanto fa schifo, anzi dice esattamente: “Questa pasta fa
cagare!”. Il capo reparto si avvicina con mano appoggiata sotto il mento e risponde qualcosa, del tipo: “È interessante quello
che dici, ha anche dei risvolti sindacali, ma non mi può sbattere per niente”. Il padre di Daniel si abbassa le braghe e urla
in dialetto minacciando di fare quella grossa davanti a tutti.
Non sembra riscuotere molta attenzione. Tutti hanno abbassato la testa sul piatto, quando all’ennesimo “Ora vi cago qua”
la fa veramente davanti a tutti.
Intanto a Rossy si era cacciata in testa la malsana idea di
mangiare al McDonald’s. Indi. Ci doveva essere qualcuno che
andasse a prendere i panini, e poi tutti a nanna per la baldoria
del giorno seguente.
Primo, erano le tre del mattino, e il McDonald’s stava chiuso, pace all’anima sua.
Secondo, io stavo morendo per quei panini di merda che
mangiavo tutti i giorni.
Al McDonald’s dopo un certo tempo i panini non consumati devono sparire, non si sa dove, ma devono sparire. È
legge. Così molti di quelli invece di essere buttati vengono
dati in pasto ai barboni, e noi li divoriamo con la fame che ci
fa lacrimare gli occhi e azzerare il gusto. Io sto morendo per
quei panini, solo il loro odore di soffritto mi dà la nausea fino
a farmi salire un gomitolo di vomito. Nemmeno sbronzo a
ciucca riesco più a mangiarli. Non riesco neanche a espellerli.
Mi si fermano sull’esofago e fanno posa, succhiano la bile e
attraccano sul mio fegato come corsari imprendibili. Ma come
cazzo li fanno! Assieme all’alcol mi hanno devastato tutto l’apparato digerente, bombe impietosamente transgenetiche,
glutinosi dischi volanti, forme di vita sconosciute al metabolismo umano. Quando ho fame non vado più a piangere dal
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Mc come fanno tutti, ma mi batto il petto anche davanti a un
labrador, che spazza la sua razione di pappaccia puzzolente e
croccantini di baccalà. Mi faccio due ore di fila alla Caritas in
mezzo a slavi scabbiosi e curdi polmonitici, qualunque cosa e
qualunque fila pur di non mangiare più McChicken e Big Fish.
Per me quel pagliaccio che campeggia in tutti i McDonald’s
del mondo altro non è che la peggiore deformazione di It. Mi
ricorda più un diabolico essere che l’idolo di quattro mocciosi
obesi. Mi fa paura. Come fa paura la sua falsata visione del
mondo dove la gente si deve far sfruttare e maltrattare perché
così impara a vivere. Ne avevo sentite di queste storie, gente
assunta e saltata dopo poche ore senza una lira in tasca, scioperi praticamente vietati, gente messa a pulire i cessi e poi a
fare panini, un continuo inno alla precarietà con la scusa più
imbecille della storia, quella di essere all’avanguardia.
Rossy fu affogata dal mio discorso e, disgustata, non aprì
più bocca. Ma Leira, anzi la principessa Leira, ebbe qualcosa
da dire sul fatto che esageravo in tutto, figurarsi da sbronzo.
Quell’enorme dirigibile del mio fegato aveva però paralizzato
ogni mia reazione.
Andammo tutti a ronfare verso le quattro del mattino, dopo
aver rimediato del pane raffermo che lavorammo con un po’
di fave e pomodori. Il tutto in una pignatta adibita fino a qualche giorno prima a calumet della pace e della speranza. Quelle fave, preparate dalla mammina di Daniel, filarono alla grandissima. Leira continuava a ripetere: “Dalle stelle alle stalle”.
Mi stesi senza spogliarmi su un tappetino di linoleum, solo
dopo aver pisciato mezz’ora all’aria aperta sotto le luci arancio, tra il campo di calcetto e la montagnola dietro la stazione.
Orinare all’aria aperta da sbronzi, con qualsiasi temperatura,
è una delle più belle posizioni contemplative dell’uomo occidentale. Spesso mi veniva in mente l’intuizione di Cartesio sul
Metodo. Si dice che Cartesio durante la Guerra dei Trent’anni
ebbe codesta intuizione davanti a un falò gigante, ma non prima di essersi liberato di un’ingombrante zavorra alla vescica.
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E me lo immagino Cartesio, dai modi nobili e severi come
esigeva il suo sangue blu, terribilmente rilassato nel momento
della sua pisciata a zero gradi, magari dopo essersi scolato del
mielato vino spagnolo. Durante quella orinata eccezionale, feci
anche un ragionamento rapido sul numero di persone a cui
Leira l’aveva data e quelle a cui l’aveva data Mary. Mary aveva
dalla sua un bel culo, che invece nel caso di Leira era stato
spazzato via dal suo metabolismo impazzito.
L’ultima donna con cui ero stato era proprio Mary, un pomeriggio umido di settembre dove giocammo a Ultimotangoaparigi nei cessi della libreria. Quando sbucammo dalla ritirata mano nella mano andammo in mezzo ai libri sfogliandoli senza capire una beata fava.
Le stringevo i fianchi, e lei, girata con gli occhi rivolti sul
retro della copertina di On the Road, fingeva di leggiucchiare.
Aveva una gonna sottile come la carta, lurida e sfilacciata, bastava alzarla e le potevi vedere due natiche graffiate e illividite.
E mentre era presa da queste pseudoletture le strusciavo dietro e l’abbracciavo con tutta la mia forza premendo le mie
mani con tutte le unghie sulle sue braccia.
Eravamo come candidi conigli innamorati dei nostri corpi
ansimanti, animali in calore senza ritegno dell’umanità intera.
Alla fine tornammo nel cesso per girare diversi seguiti di
Ultimotango e se non fosse stato perché era una tossica, ora
sarei stato ancora a chiavare. Quella se ne andò durante una
delle tante. Sul più bello, perché le si era asciugata la figa di
botto. Queste sono le conseguenze della hero, dannata hero!
Non dimenticherò mai il corpo di Mary diventare una statua
di ghiaccio, scosso da brividi freddi e sudore denso. Ancora la
notte esala nelle mie narici il forte sapore di acido ascorbico
del suo corpo, il suo profumo di gomma bruciata, la pelle ruvida e screpolata dal freddo invernale o dal sudore sporco e
torrido dell’estate.
Mary era una bambola di ossa.
Forse Mary mi voleva perché non mi chiese una lira e non
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mi fece sparire niente. Mary che si era passata tutta la stazione
Tiburtina, barboni e vecchi compresi. Dopo sgraffignava sempre qualcosa, oppure faceva marchetta con i viaggiatori di
passaggio tipo i pendolari che andavano alla Mirinda oppure
alla Dixan. Ma i più gettonati erano gli operai delle imprese
edili, quelli con le mani ancora maleodoranti di calce e l’odore di sudore secco addosso.
Mary che era una bucata. Mary che si era fottuta tutta Roma
e anche se stessa. Si grattava i polpacci, la testa e le braccia,
come tutti gli eroinomani. Un prurito che spesso strazia loro
peggio delle crisi d’astinenza. Non era raro che Mary m’implorasse di grattarle le braccia. Spesso lo facevo fino a farle
sanguinare le ferite dei buchi nelle vene, e lei pregava di continuare, pure se le mie mani sembravano quelle di un macellaio, pure se le sue braccia parevano pneumatici e le sue vene
un groviglio di fili elettrici.
Conseguenza di tutto questo era che quando Mary se ne
andava in rota delirando come una cavalla, a tutti veniva in
mente di rivolgersi al qui presente Franz Maria. Diavolo quanto
cazzo mi dava fastidio questo fottio di voci sulla mia vita appiccicata a quella bucata di Mary! Così ti arrivavano i pistolotti
degli assistenti sociali in doppiopetto e le paranoie sulla forza
di volontà che io non avevo nemmeno un po’. Io, che ero
l’esempio negativo di un’intera umanità ossessionata dal “Corriere dello Sport”, dal fitness e l’Ici, dovevo essere l’esempio
del sottobosco urbano di Roma. Queste caccole in doppio
petto prive di contatto con la realtà, mi facevano un sacco di
casini prendendomi per fidanzato della Mary. E così non era
raro vedermi compilare test e sottopormi a valutazioni dagli
infermieri che, puntualmente un giorno sì e uno no, venivano
a rimuovere i tossici dalla Tiburtina. Certi strizzacervelli non
potevo sopportarli, erano troppo rompicoglioni con le loro
domande: su quante pippe mi facessi, a che età avevo cominciato a fumare erba, cosa vedevo in televisione da piccolo e se
ero soddisfatto di mamma Imma. Un giorno un quattrocchi
imbellettato come un sacerdote, mi fece una battuta su Mary,
non ricordo bene, ma l’antifona era davvero sozza. Tipo se ci
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aveva le piattole o le pulci nei peli della figa. Gli spaccai il
muso e quello cessò l’attività di cabarettista a Tiburtina.
Ma sotto sotto avevo anch’io quella fottuta paura di beccarmi i pidocchi che qualcuno le aveva attaccato. Mary era
una sorta di regina della spazzatura, una fascinosa strega dell’autolesionismo, con i suoi capelli luridi e corvini, abitava nei
letti e nelle auto di chi se la passava, soffiava giorno dopo giorno
in un palloncino, che era il suo fisico, la sua vita, la sua tossicodipendenza, pronto a esplodere.
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Capitolo 3
ACCATTONI
Jimmy Page cominciò a lavorare come turnista in studio con Neil
Christian e i Crusaders. Racconta Page in un’intervista del 1971 a “Rock”:
“Mi capitò di essere ingaggiato per quello che poi si rivelò un lavoro
ridicolo, roba per supermercati. A volte venivo chiamato per una session
e il tipo diceva ‘Tal dei Tali vuole che tu faccia questo’, e io sapevo che
sarei andato bene e che il lavoro sarebbe stato conveniente”.
31 dicembre 1999
Quando mi svegliai sotto la montagna di stracci dove avevo dormito, pensai di essere morto. Sentivo un tale fottuto
freddo da non capire un accidenti. Ero quasi assiderato. Il
cattivo odore di cherosene degli stracci mi diede lo shock per
riprendermi e riflettere. Le due coppiette rinchiuse come salami dentro i sacchi a pelo si erano alitate l’amorevole tepore
dei loro corpi ansanti. Magari avevano fottuto per benino e
tiepidi come un fiume d’estate si accingevano a giocare a Luna
di Miele e i suoi derivati, non prima di aver abbandonato questa zozza casupola.
La prima cosa che facemmo, appena usciti, fu quella di
andare al drugstore a comperare il nettare della giornata. Il
sacro nettare era un bel bottiglione di vino bianco. Eravamo
alla stazione di Tiburtina per il deep impact con Tarcy, Damiano e compagnia.
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Con il tempo i barboni erano notevolmente diminuiti, madama era intervenuta energicamente e senza sconti. La parola
d’ordine era sgomberare.
Le stazioni dovevano essere solo per i viaggiatori, possibilmente turisti con grana da spendere. E mentre il sindaco e i
suoi sostenitori festeggiavano le nuove stazioni ripulite e rese
sicure, i loro veri abitanti, come fantasmi scacciati, s’accasciavano in remote morie ad Arco Travertino, Bufalotta, Tor
Pignattara, Prenestino, dove le loro carogne non avrebbero
dato fastidio ad alcuno. Ogni giorno ne moriva uno, ora a
Prati, ora a Monteverde, ora a Porta Metronia, morivano uccisi dal freddo, e i loro cuori si fermavano congelati, assiderati, nonostante l’alcol puro e i brandelli di cartone bruciati con
cerini inumiditi.
Esalavano l’anima senza nessun conforto, ma questa è la
logica, se ne parli diventa retorica. Ti fanno faccia disgustata e
ti dicono che il problema è a monte. Sono squilibrato, lo penso e ne sono consapevole, ma non chiuderò gli occhi davanti
al deserto, morirò da miserabile perché sento che questa è
l’unica condizione di mia appartenenza.
Finalmente arrivò Damiano. Solitario e pallido, mi prese
per un braccio. Cattive nuove. Era morto il cane di Tarcy, un
bastardino che ci faceva compagnia.
Il pelo fulvo e fungoso, gli occhietti a mandorla limpidi
come quelli di un uomo, il suo fiato sulle nostre mani, lì in
Tiburtina era l’unica cosa calda. Quel fuso di Tarcy, trippato
di metadone, aveva fatto un siero di quella droga maledettamente legale al nostro amato bastardino. Schizzatissimo, il
pulcione, crepò. Tarcy era uscito di testa e non si dava pace;
aveva sbattuto a intervalli regolari la testa contro la porta sottile di compensato lucido della sua roulotte. Damiano raccontava di aver tentato di fermarlo, senza riuscirci, finché non
lo vide in terra senza sensi. Con sangue freddo e smania di
sbronza, si accertò che respirava ancora e piombò da noi.
I nostri rimanenti sensi di colpa cessarono alla visione
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celestiale di quel pezzo di merda di Daniel che sopraggiungeva, capelli al vento, come un deus ex machina, avendo in mano
la soluzione a tutti i nostri sani problemi: il mitico Zonin bianco da due litri. Piccola bolla verde profumata, apostrofo tra
due parole, disperazione e felicità.
Nel frattempo, mentre si improvvisava una discussione sulla
differenza tra vini terroni e vini polentoni, una misteriosa telefonata al cellulare di Leira portò la lieta novella: la sera avremmo fatto un mezzo cenone da Miriam e Sofia, due nostre vecchie amiche dei tempi della scuola, più grandi di un paio d’anni.
Vivevano in una specie di casa dello studente per ricchi, qualcosa a metà strada tra un collegio americano e un appartamento per studenti fuori sede dotati di grana. Erano studentesse del Link di Malta e vivevano in questo esilio dorato in
via XXI Aprile a due passi da piazza Istria. Tutte queste premesse avevano una sola conseguenza: quella sera ci saremmo
nutriti come cristocomanda e ci saremmo impellicciati di qualunque alcolico.
Così mi misi in testa di arrivarci in gran forma ed essere
all’altezza dell’aumma aumma. Porcamiseria come ero contento di non mangiare alla cazzo dopo tanto tempo! Mi chiesero anche diecimila per questo allegro convivio, ma la mia
risata in faccia fece cambiare passo sulla questione colletta.
Sul 492, ombelico del mondo, arca rossa tra Tiburtina e il
pianetaterra, salimmo in una decina, rigorosamente senza aver
elemosinato una sola lira all’Atac. Il viaggio in bus fu positivo,
senza piantagrane. Nessuno ci stava a pensare, solo due brufolosi omogeneizzatissimi adolescenti tedeschi.
Credo che a quelli una lezione sulla superiorità della razza
ariana gli era stata fatta. E per benino anche. Non so, ma ci
guardavano o forse mi guardavano, con la ributtante espressione di chi ha pestato uno stronzo. Ma sì! Era l’ultimo dell’anno, si poteva sopportare, ero abbastanza sobrio per poter
incassare e tollerare, masticavo in testa ragionamenti senechiani
e feci una paranoia a Rossy su Seneca. Mi piaceva fare sfoggio
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di qualche lettura recente a qualcuna sensibile, che mi ascoltasse senza trattarmi da pazzo, con un’attenzione meno clinica e patologica degli altri. Le montai una paranoia paurosa su
Seneca e i suoi ragionamenti su offesa e amore. L’offesa si scaccia. L’amore no, quanto più lo cerchi tanto più si dirada, più
lo spingi verso il basso più risalirà a farti male con sensi di
colpa e rancori. Cazzo, ogni riferimento a Chiara era puramente voluto! E Rossy, dolce dolce con quelle labbrucce da
bambina, mi diede un bacino sulla bocca senza che mi vedesse Daniel. Adorabile Rossy.
Arrivati a via del Corso ci congiungemmo con un gruppo
di amici saliti dalla terronia, lì appositamente per il capodannodellemiebraghe. Ebbi la sgradita sorpresa di trovare un tale
Vernon, ex Erasmus, di una nazionalità non identificata. Come
se avesse sentito la puzza di figa si lanciò a peso morto sulla
dolce Leira. Non solo il pissi pissi di questo Vernon si fece più
insistente, ma la buona e brava Leira cominciò a fare un mucchio di smancerie con la scusa di conoscere mille lingue e di
fare da traduttrice all’illustre ospite.
Bert il buono non fiutò l’immediato pericolo, si staccò dal
gruppo e scese in amicizia con Damiano, anarcoide come lui e
pronto a uno scambio di pareri su un argomento da approfondire insieme: la sbornia.
La prima tre quarti di Heineken fu consumata a Trevi in
una salumeria, mentre si discorreva del fatto che in Afghanistan
avevano liberato da un aereo degli ostaggi. Cacchio che bello,
i dirottatori erano sfuggiti! Questo aveva dato un nuovo barlume di speranza alla mia esistenza.
Chissà se mi sarebbe convenuto un domani fare il dirottatore, uno di quelli buoni, s’intende. Già mi vedevo su un volo
ultra protetto come il Roma-Chicago, a fare il buffone con in
mano una pistola dalla canna di ceramica, invisibile ai sonar
degli sbirri: “Mettete tutti le mani in testa, figli di puttana,
sorridetemi, perché potrei essere la morte o la vostra sopravvivenza! Su, un sorriso, sono una personalità davvero importante, non si può rinunciare a una foto, mettiamoci a cantare!
Cominci lei, sì lei con quel doppio petto, non è Armani lo sa?
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Forse non è neanche Emporio, l’hanno fregata!” e qui parte
Jimmy Page con l’assolo di Stairway to Heaven. Poi, uno a
uno, a liberarli dietro riscatto.
E già immaginavo scene incredibili: Mauri in un villino alla
Garbatella circondato da domestiche in perizoma, Damiano
in un attico in via Po, accanto al Piper, con una sala d’incisioni da Mtv Awards e poi Mary, Tarcy e io nelle cliniche migliori
per disintossicarci da hero e alcol. Magari in quelle di Liz Taylor
dove le flebo ti vengono servite su vassoi d’argento e sulle
fiche pelose delle infermiere. Ora, invece, avevo a che fare
con queste merde di salumieri che volevano farmi pagare una
tre quarti come una bottiglia di barolo piemontese, ed ero
incazzatissimo. Lo fui di più quando vidi che Bertowsky si
attaccò alla bottiglia come un alcolizzato. Mi venne un groppo alla gola: perché anche lui doveva fare così? Quando ci
tieni a un amico, non vuoi che sia alcolizzato come te. Di certe
persone non sopporto il loro malessere cazzuto autodistruttivo,
è un cattivo odore che mi tracima nelle narici come il fetore
mortale di una carcassa decomposta, alias in questo preciso
istante Bertowsky Montrone. Lo seguii come un profumo, lo
braccai nella folla e mi sedetti al suo fianco col culo sulla fontana di Trevi. E mentre la gente lanciava i suoi spiccioli e i
suoi nichelini piroettando comicamente, cominciammo a parlare di grandi cazzate tipo Juve-Inter 1-0 e la sudditanza psicologica, qualche topina di passaggio, il prezzo della birra alla
spina, le marche preferite. A me non dispiaceva la Tennent’s,
lui era un fanatico della Pilsen Urquell.
La Tennent’s è una birra scozzese che al naso offre aromi
di malto pregiato con note di mela. Al primo impatto in bocca
è dolciastra, con i sentori amari che compaiono e sfumano
rapidamente per lasciare spazio alla forza alcolica, lasciando
un retrogusto di caramello. Invece la Urquell è una birra ceca,
offre profumi di malto, note floreali e, su tutto, un aroma
erbaceo di luppolo Saaz, estremamente fine ed elegante.
Il gorgheggio dell’acqua e il brusio incessante erano una
lieve interferenza tra me e Bertowsky. Non riuscivo a chiedergli nulla di personale; gli allungai dunque due gianduiotti che
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avevo grattato in salumeria. Cercai solo di addolcirgli la giornata. Ma non avrei dovuto farlo. Mentre scartava i cioccolatini, sbottò alzando di qualche decibel la sua voce e facendo
girare tutta una comitiva di musigialli made in Japan.
Mi pianse il cuore, mentre mi raccontava che Leira gli aveva confessato che non era più come prima. Avidamente scartava i gianduiotti e diceva: “Mangio molta cioccolata fondente controquestosensodifastidioporco, mi turba, mi tocca l’orgoglio, cazzo, mi darebbe nausea immaginare che quel corpo
sia sfiorato da altre mani, da un altro!”.
A queste parole non trovai di meglio che uscire un cartone
di Ripatello rosato, sgraffignato anch’esso a regola d’arte dentro quella salumeria. Strappai la linguetta di stagnola e cominciai a ciucciare come un poppante, non prima di averlo
offerto a Berty. Al diavolo le ragazze, il Ripatello appena grattato meritava più rispetto di queste fandonie mielose.
Berty
Con Franz stavo benissimo. Anche nei momenti più difficili
riuscivo a essere totalmente a mio agio. Con lui ho questo. Mi
sento me stesso. Non chiedetemi di che paese sono, cosa ho lasciato, di mio padre, non chiedetemi se amo una ragazza vestita
Versace o targata Sisley, non chiedetemi se prendo gli antidolorifici o gli antinfiammatori, il nimesulide o il paracetamolo, se
preferisco il Ripatello alla Pilsen, insomma non chiedetemi niente e neanche cosa faccio, se volete sapere chi sono, io sono questo, questo. Io sono Franz.
Era evidentemente sotto per Leira. Lo stava uccidendo, gli
faceva fare discorsi sconnessi. Non mi risparmiai di criticarlo
a muso duro: “Cacchio. Non mi parlare difficile. Se la ami,
mettila davanti a un bivio. Falle capire che puoi dare tutto
quello che lei può volere. Cantale Love di John Lennon, regalale una rosa blu ogni tanto, mettila alle corde, deve stare lei
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dalla parte del torto, maschera un po’ di più la tua cazzo di
aracnofobia, l’ansia di fare politica a tutti costi. Controllati,
prenditi degli ansiolitici!”.
Mentre parlavo vedevo Bert sul baratro, mancava poco che
ci cadesse dentro insieme a me. Sotto il suo cappello di lana,
aveva un ciuffo nero che gli pendeva e lui ci soffiava nervosamente. Il tutto avveniva mentre Vernon si faceva foto in posa
con Leira, ben lontani da Bertycuoreinfranto.
Daniel intanto stava arringando un gruppo di sconosciuti,
farfugliando discorsi incomprensibili. Noi eravamo lontani un
bel po’. Sentivo solo frasi senza senso interrotte da “cazzo”, a
intermittenza, come illuminazione natalizia, black-out e poi,
tà, ci stava il solito cazzo. Ogni tre parole un cazzo o una bestemmia. Era una scena risibilissima. Daniel si era eretto su
uno spuntone della fontana, un vigile urbano si stava avvicinando con fare poco amichevole, e Daniel lo guardava di
sguincio con incuranza, persistendo nel suo show. Non appena il pizzardone si accostò, con aria per nulla condiscendente,
Daniel sgattaiolò facendo finta di niente.
Intanto Bertowsky fu avvinto dai miei racconti sempre più
sbiasciati e cantilenanti causa vino. Erano racconti impossibili: sbronzi che cadevano dai balconi senza farsi niente, tossici
a rota con l’aspirina, marchette e fottimenti al tuo prossimo.
Alle strette delle mie balle, mi raccontò la sua vita dimmerda,
i nonni attaccati alla canna del gas della vita, il rapporto con
Leira, l’università a rotoli.
Si accomodò tra noi Damiano, non prima di essersi rullato
un cannone misterioso. Non so cosa c’era dentro. Lo scioglimento delle caccole di fumo non era avvenuto davanti ai miei
occhi. E questo non era stata cosa buona e giusta.
Damiano aveva tutta l’aria dello sbandato, un pantalone
ultra stretto, refrattario a coprirgli le caviglie, il piumino forato in più punti con abbondanti perdite di piume, e le mani
con le dita annerite. Come contorno presentava un alito da
alcolista annusabile sin da via del Babbuino, e la voce totalmente alterata dalla canna-mistero che gli stava accecando la
mente.
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Non aveva un’aria rassicurante, i suoi bravi furtarelli li aveva fatti, come tutti del resto. Aveva rubato portafogli, zaini
ricolmi di ogni bendidio, mazzi di passe-partout, autoradio
Mitsubishi, stereo contraffatti, libri universitari e corde di chitarre, oltre a qualche panetta di fumo. E la sera davanti alla
sua chitarra si spartiva il bottino tra canti e note celestiali,
alcoliche.
Bertowsky e Damiano cominciarono a parlare. Ben presto
la folla c’inghiottì. Cercavamo un posto dove sgranocchiare al
caldo qualcosa, ma eravamo rimasti invertiti: Damiano era
perso con Bertowsky, mentre Vernon era con me, Daniel, Rossy
e ovviamente la dolce Leira. Quel coglionazzo di Vernon cercava di trascinare lo sparuto gruppuscolo di superstiti in giro
ai “Fiordi Imperiali”. Io non avevo la forza di respirare, e secondo loro dovevo andare sino ai fori, anzi fiordi, per poi
buttarmi direttamente alla festa di Miriam e Sofia. No buono.
Collassammo un po’ sulla scalinata di Trinità dei Monti,
dove Vernon pomiciò pubblicamente con Leira. Daniel venne da me; voleva rompere il culo a quel tipo. Lo fermai, anche
perché ero troppo assonnato per gustarmi la scena, e in fondo
Vernon faceva quello che chiunque nei suoi panni avrebbe
fatto.
Nel frattempo mi ero indaffarato con quattro topine di
Modena. Con frizzi e lazzi da gran capocomico estorsi i loro
numeri di telefono; erano davvero carucce, ma roba da oratorio. Allora lasciai perdere e diedi appuntamento a tutti a casetta mia. Loro ad aspettare un taxi-zucca, il sottoscritto a
rotolarsi ebbro verso i funzionali mezzi pubblici romani.
Arrivai alla metro. Obiettivo, raggiungere la Tiburtina. Sulla
linea A ci furono le solite scene di panico, con la folla che
tracimava ben oltre la linea gialla di sicurezza. Era l’ultimo
dell’anno e c’era un mazzo di gente. Entrai spingendo come
un rimorchiatore, destando gli ululati di protesta di una folla
mummificata. In quella calca riuscii pure a mollare un puzzone, rubare un pacchetto di Muratti Extra-mild, palpare una
lolita ancora con l’alito di Chupa, sgraffignare da terra un
portafoglio vuoto.
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Le braccia tentacolari della bolgia cercavano il corrimano
o il manigliotto di plastica, erano siparietti che mi sarei goduto con spensieratezza, se non fossi stato così sbronzo. Avevo
un sonno mortale, e abbioccai non appena la metro sfollò.
Sulla linea B, in direzione Tiburtina, non c’era nessuno.
Potevo stendermi sulle poltroncine azzurre e farmi un sonno
ristoratore; non fu il massimo. Feci sogni agitati e densi di
persone, sognavo di continuo uno sbirro che mi beccava lì
sbronzo, ma non appena il sogno si faceva incubo lo scacciavo aprendo gli occhi. Una di queste volte aprii gli occhi e mi
accorsi che affianco alla mia testa, un po’ anche sui miei capelli, c’era seduto qualcuno. Nell’aria c’era odore di paraffina
e sudore, misto a un profumo amaro di deodorante. Alzai lo
sguardo e notai una ragazza che respirava affannosamente
cercando di tamponare un piccolo squarcio che le lacerava il
collo. Piagnucolava, aveva lo sguardo fisso sull’uscita. La pregai di farmi vedere l’escoriazione. Con un cenno affermativo,
accompagnò il mio sguardo sulla sua ferita, notai che non era
nulla di grave, non zampillava sangue, si trattava di una lesione talmente superficiale che si era facilmente tamponata con
il sottile kleenex.
Sembrava non aspettare altro, e in un attimo smanigliò a
mille all’ora la disavventura. L’avevano scippata e nello strapparle la collanina le avevano procurato quella lacerazione.
Si chiamava Hoda e mi sussurrò che doveva tornare in un
posto dall’altra parte di Roma dove stavano i suoi genitori che
erano venuti a trovarla. Questo posto era addirittura a Cinecittà, a oltre un’ora e mezza. Hoda era una studentessa di
Gerusalemme che studiava in Italia. In tre nano-minuti mi
raccontò la sua vita. Era un’araba cristiana di nazionalità israeliana, ma palestinese (?!).
Mi offrii di disinfettarla, e non si lasciò pregare; dissi che
ero uno studente mentendo. “Studio filosofia alla Sapienza,
quindi, sai com’è, sono un po’ pazzerello, ma non faccio male
a nessuno” balbettai con faccia da culo. Dicendo la verità,
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ossia vivo in una pattumiera illegale, non l’avrei mai convinta
a venire da me. Quella ferita andava pulita ben benino, e poi
la storia di questa tipa di Gerusalemme mi mise un’innata eccitazione comune ai miei amici della stazione. Infatti non appena mi videro con questa ragazza dai tratti stranieri scoppiarono in un fragoroso applauso. Era come aver dato la scintilla
a un pagliaio di fuochi d’artificio e benzina. C’era un entusiasmo esasperato, culminato nell’urlo di Tarcy, “se ti vede Mary,
si ammazza!”.
Hoda vide quella cricca e rimase a bocca aperta. Si avvicinò Jerry Barbetta, era ubriaco e sghignazzava felice come una
cinciallegra: effetto del vino in cartone. Nero di sporco, sbornia e freddo, trascinava la valigia perdendo cartacce e piume
di piccione. Aveva dormito su qualche pattumiera e lo si poteva notare dalla scia puzzolente che emanava. Voleva rifilare il
calendario di Padre Pio alla suddetta, alias Hoda. Poi alla visione del mio gesto inequivocabile di smammare, si avvicinò a
un cm dal mio viso alitando l’irreparabile: “La vuoi la caramella?”.
Hoda mi piantò una lacrima perché la collana fregata era il
caro ricordo dei suoi nonni, e uscì una fiaba di storia sul fatto
che i loro nomi erano incisi su quella collana, e un altro mucchio di cose zuccherose da farmi venire il diabete alla testa.
Io, manco sapevo a che servivano i nonni, e quella si esaltava a
parlarne; a me erano morti tutti quando ancora ero un cagone
con il panno, figurarsi se il mio cuore, alias un buco nero,
poteva comprendere quelle parole.
Lei parlava, e quanto parlava, parlava troppo per i miei
gusti, però quella vocina piena di arabismi per orecchie volgari come le mie, la rese una piacevole colonna sonora sino
all’arrivo a casa, dove trovai Leira, Rossy e Daniel sopraggiunti
col taxi-zucca.
Hoda sembrava tutto fuorché una straniera. In quei pochi
metri che dividevano la mia casa dalla stazione Tiburtina, aveva sputato il rospo su gran parte dei cazzi suoi. Avevamo impiegato quella buona ora, fermandoci come in una via crucis a
ogni crocchio di gente e ogni gradino con la scusa di control46
lare la ferita, per parlare di tutto. Aveva i capelli con riflessi
ramati, il viso butterato dall’acne ancora tutta lì a testimoniare che il passaggio da adolescenza a età adulta non era ancora
del tutto completo.
Era molto più bassa di Leira e Rossy, ma il mio occhio da
vecchio porco matricolato aveva subito avviato una rapida
recensione delle sue parti migliori. Gli occhi erano intelligenti modello Carrie Ann Moss, il fisico era tornito come quello
di una statua di marmo, le vidi un bel sedere. Questa Hoda mi
gustava per davvero e aveva svegliato la voglia di correre dietro una ragazza, una dannata fulminazione estetica. Perdio!
Proprio quella terribile menata che volevo aggirare alla grandissima, ora era lì.
Hoda mi piaceva.
Mentre Leira le disinfettava il collo con il fondo limpido di
un’acquavite, Dani commentò entusiasta in dialetto il fondoschiena di Hoda.
Per fortuna Hoda non capì e riprese a parlare con quell’accento impossibile, armonia di dissonanze e preziosismi, vaghe parole di una lingua sconosciuta. E in quel modo fece una
chiamata al suo cellulare, dicendo che avrebbe tardato. Poi si
sedette su una delle mie sedie pericolanti, si accese la sua Philip
Morris Ultra-light, e cominciò a tirare boccate lunghe e profonde con lo sguardo fisso su di me. Mi metteva addosso un
fottio di sensazioni quello sguardo, eccheccazzo come mi sentivo scoppiare di calore! Non era solo il nostro amato nettare
etilico a farmi un pellerossa, ma Hoda, l’immensa Hoda.
Ci sono avvenimenti che nella vita non puoi spiegare solo
con l’illuminismo delle tue sicurezze materiali, né con le allucinazioni da alcol, né con la sfiga che ti perseguita e ti sta addosso come una zanzara; certe cose le puoi spiegare con il
mistero. Hoda non rinunciava per un secondo a guardarmi.
’Cazzo ci trovava. Ero terrorizzato. Avevo paura, per la prima
volta temevo quello che potesse pensare una persona di me.
Con Hoda era tutto filato liscio come olio, parlava lei e la mia
lingua si era liberata. In fondo potevo parlarle tranquillamente dei Led Zeppelin, senza che mi piantasse una domanda
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rompicoglioni sulle supposte. Ascoltava le mie balle, le mie
avventure inventate di sana pianta, i miei discorsi sui vantaggi
di una vita dove non si deve chiedere conto a nessuno, tasse,
studio, famiglia, bollette del gas, idraulici e testimoni di Geova.
Così mi ero già smentito, non ero più studente della facoltà di
filosofia, ma a Hoda sembrava andare bene anche la mia vita
di colletta e accattonaggio, sembrava andare bene tutto anche
che fossi stato l’ultimo anarchico di questo porcomondo, un
sozzo parassita da quattro soldi.
Mentre Leira e Rossy si agghindavano come due abeti natalizi, Hoda ci aspettava per fare un tratto di strada insieme e
rientrare alla base. Si parlava di musica. Misi in un vecchio
mangianastri da registrazione clamorosamente anni Ottanta,
una cassetta dei Led. Mentre sentivamo una versione orientaleggiante di No Quarter, cazzeggiammo di filosofia spiccia, tipo
credere o no all’esistenza di Dio, dell’aldilà e della voce di
Robert Plant.
Stairway to Heaven è la canzone più amata della storia dopo Imagine.
Parola di “Repubblica”. Qualcuno disse che ascoltando al contrario
l’lp in questione si potevano ascoltare inni e preghiere a Satana. Ascoltando la canzone al contrario si poteva udire questa frase: “Here’s to
my sweet Satan” (questa è per il mio dolce Satana). Non è nascosta la
passione del chitarrista Jimmy Page per il satanista Aleister Crowley,
personaggio inquietante che fondò nella sua vita diverse sette. Il chitarrista fu sempre attratto dalla figura di Crowley. Oltre che detenere
una delle più importanti collezioni di manoscritti, testi e oggetti dell’eccentrico esoterista, nel 1970 acquistò una sua casa.
Ci fu un discorso religioso, non ricordo com’era uscito. Io
facevo l’interessato acconsentendo con la testa. Ovviamente il
discorso era molto stimolante. Ricordo che Hoda mi mostrò
la foto di una sua amica che era guarita da un tumore grazie a
un intervento, ma anche grazie alle preghiere. Hoda montò il
pistolotto, ma non erano cose scontate. Anzi, mi piaceva che
era parecchio critica con una parte della chiesa e con queste
panzane pazzesche in tempi di Giubileo, ma dava troppo di
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religione e cercai di interrompere lì la discussione. Ero curioso di sapere che cazzo c’entravano gli arabi con il cristianesimo. E lei mi spiegò quello che non avevo mai capito in dieci
anni di telegiornali: c’era Israele, che addirittura Dani confondeva con il Libano, e in Israele c’erano israeliani e palestinesi. Poi c’erano arabi israeliani di religione islamica, ma anche ebrei che abitavano nei territori palestinesi, detti coloni.
Insomma un casino. E in mezzo a questo i cristiani, che stanno un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Leira domandò
quale fosse la capitale della Palestina. Hoda mi guardò con
aria smarrita…
Era già un buio umido e tremavo al pensiero della nottata
che avremmo trascorso. In giro si sentiva che in piazza del
Popolo e dintorni ci sarebbero stati milioni di persone, forse
due, addirittura tre, il perfetto congiungimento del primo o
ultimo capodanno del millennio con la benedizione Urbi et
Orbi dallo scranno vaticano.
Ci muovemmo da casa in quattro. Non si sapeva più che
fine avesse fatto Bertowsky con Damiano, Leira ci avrebbe
raggiunto dopo perché aspettava a Bologna plaza il ciuccio,
alias Vernon. La situazione era scottante; Daniel e Rossy tubavano come due piccioncini, ma era solo una clamorosa messa
in scena, lo sapeva tutto il mondo. Ogni due minuti arrivavano bollenti messaggi allo Star Tac Motorola di Daniel, il quale, con spudorato coraggio e faccia tosta da competizione, simulava deliranti auguri di parenti e amici inesistenti inventati
di sana pianta. Non era rado sentire nel tragitto sino a Bologna plaza, Daniel rispondere ad alcuni messaggi di amici e
soprattutto amichette della banda. Alle sette in punto lasciai
Hoda sul 310 che l’allontanava da me per sempre, o forse per
un lieve periodo. Tutto era su quel biglietto che m’aveva lasciato con sopra un numero di telefono.
Sull’autobus accaddero cose incredibili. Saliva gente di ogni
risma, suonatori di viole e clavicembali, guitti travestiti da paggi
per feste in maschera, sordidi personaggi che si aggiravano
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con guantiere di dolci e paste napoletane. Per non parlare delle
sguaiate descrizioni di feste di fine anno che forse non ci sarebbero mai state, e poi Daniel, uomo surreale, che più surreale
non si poteva, con in testa un cappuccio di lana vergine Adidas
da grande puffo, sempre imbrigliato con il muso sul Motorola
a vaneggiare sms impossibili da credere, tranne a Rossy. Rossy,
per amore, si sarebbe bevuta di tutto, anche l’approntamento
di un sofisticato challenger Nasa, per spedire a tempo indeterminato il suddetto signor Daniel contaballe sulla luna.
Chiara
Da dove cominciare, non so proprio, in questo anno santo,
stupefacente ponte tra millenni, tra generazioni, tra vecchi e
nuovi spauracchi. Quando comincio qualcosa che ha a che vedere con me, penso al fatto che sono stata molto fortunata. Guardando la fine atroce di vita violenta che ha fatto Franz, mi sento
sollevata, ma anche turbata; è come se dentro questo sollievo
chiaro come un mattino solare, ci sia troppa luce per poter giudicare se è una cosa buona oppure no.
Franz era il mio ragazzo. Si faceva chiamare così per via di
una di quelle manie infantili che lo portavano a identificarsi
con lo scrittore. Chi era Kafka? Non lo so.
Spesso veniva a casa e c’erano i miei ad accoglierlo, gentili e
aperti come verso un figlio. Ecco, io sono una ragazza fortunata
perché della mia famiglia si possono dire tutte quelle cose che si
dicono delle famiglie oggi, ma non che non ci sia protezione e
dialogo. Quante volte ho avuto i brividi a pensare alla madre di
Franz in un letto ridotta a larva dall’alcol, e pensavo a mia madre tanto diversa, tanto gelosa, non avrebbe mai bevuto un goccio per mio padre. Dannato questo tempo pieno zeppo di falsi
miti. Uno di questi ha preso travolto ucciso il nostro amore.
Franz era dannatamente idealista, ma anche crudelmente irrazionale e materialista, un contenitore di ideologie, e anche un
dannato alcolista. Mi avrebbe ucciso, più in là nel tempo, quando la sua ragione, poco alla volta, sarebbe stata divorata da un
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mostro etilico. Mi avrebbe squartato il ventre e poi spazzato tutto quello che avevo. Era pieno di sogni irrealizzabili, era pieno
di odio, un odio furioso e impossibile verso la mia società, verso
quello in cui vivevo, avrei dovuto rinunciare a tutto, camminare
scalza e nuda, povera come l’ultima creatura della terra, umiliarmi e rendermi schiava di tutto, mi voleva nel completo
asservimento del suo idealismo malato, magari a reggergli il cappello in un suo vagabondaggio metropolitano. I suoi sogni non
erano quelli miei, quelli di una casa, di una famiglia unita e
protettiva come la mia. Per lui tutto questo non esisteva. Si vedeva irregolare, con tutti i suoi maledettissimi stravizi da ubriacone. Gli avrei perdonato tutto, ma non si possono interrompere i corsi della vita. Ecco, mi immagino i nostri flussi vitali,
irruenti e torrentizi, ma lontani, che hanno diviso il letto per un
po’, ma ora non possono proseguire insieme, pena la fine di entrambi…
Certi resoconti li faccio sempre, prima di partire per un viaggio, mi riempiono la testa di una malinconia che, sotto sotto, è
piacevole, è masochismo bello e buono, ma il viaggio li travolge
senza scampo, in un’estasi che potrei descrivervi con la stessa
enfasi di un emozionante incontro amoroso con uno sconosciuto. Sandro era di certo uno sconosciuto. Ma ora non più. Da un
mese è il mio compagno e mi viene da sospirare, a pensare tutto
quello che fa per mettermi a mio agio, per farmi dimenticare
Franz. È tanto, troppo, diverso da Franz e forse per questo sarà
più facile dimenticarlo. È più tutto, è un uomo, non lo vedi
farfugliare incomprensibili discorsi su rivoluzioni, parlare ogni
due secondi di uno scrittore, insistere per vedere al cinema solo
film francesi, o per sedersi lontano dalla gente sul tavolo meno
in vista del locale. Ero stufa di andare sempre con un ragazzo
che insultava tutti quelli che non apparivano come lui.
Al confessionale il giorno prima di Natale mi tolsi un grave
peso. Fu come levarmi un macigno. Non fu un esame di coscienza. Fu un atto preparatorio al mio Giubileo. Sarei voluta andare
a Roma solo dopo una seria ripassata delle mie abitudini religiose. Parlavo senza nessi, ero piena, pronta a esplodere, ma
mai e poi mai avrei potuto credere che quel fiume si sarebbe
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interrotto in un pianto dirotto. Il prete ascoltò, fu dolce e disse
che ero ancora giovane per pentirmi di qualcosa. Lo ringraziai
di cuore. Quando trovai Sandro accanto, in chiesa, dove Franz
mai avrebbe messo piede, capii che potevo dimenticarlo del tutto e senza rimpianto.
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Capitolo 4
ONIRIA
La sbronza fu puntuale.
Nella festa c’era un mucchio di gente che non conoscevo,
ma c’erano anche certi fighetti che portavo allegramente sulle
balle. In primis Pelo Rosso, un tipo che si credeva cristo in
terra, perché aveva il fratello sottosegretario; poi c’era Medusa, mortifera presenza, che mi portavo sulle balle sin dal liceo,
quando, questa morta di sonno, leggeva la mano per ricevere
attenzione dalla gente. Stava con uno di Roma, il figlio di un
senatore di Forza Italia, e mi spiacque un po’ per lei. Infine le
due padrone di casa, coscetoste Miriam e Sofia.
Sofia era una tipa chiusa e che non la dava a nessuno, altissima con questi boccoli neri, due gambe splendide che cacciava sempre fuori con gonne microscopiche. Un enorme numero di seghe della mia vita era stata fatta su Sofia, il restante
sui racconti di Miriam. Coscetoste raccontava senza pudore
ai suoi cari amici le beate avventure col macho di turno. Ed
erano sozzerie davvero, roba da far uscire di testa. Così il buon
Daniel non ci vide più e, una volta, le chiese di giocare a ramino.
Lei tutta inorridita, e Daniel cacciò fuori la storia che era malato di cancro e gli rimanevano pochi mesi e che lui la voleva e
che era la sola dolce che lo poteva capire. Insomma fecero un
mucchio di porcherie e quando Miriam se lo vide sano come
un pesce lì davanti, non fu molto entusiasta. Questa storia
della malattia terminale di Daniel era davvero un tormentone.
53
Dani spedì lettere a mezzo mondo, attricette, soubrette,
pornodive e culi raccontando la triste storia di un bel ragazzo
malato terminale che voleva farlo l’ultima volta con la donna
della sua vita. Ovviamente non rispose nessuna di quelle troie
cretine che la davano a tutti. Ma su questo pendeva ancora
una scommessa.
Cominciai a bere di tutto. C’era della sangria che un tizio
spagnolo aveva preparato. Dolcissima e pastosa, proprio come
piaceva a me, lo benedissi. L’ultimo ricordo: è quello di ’sto
tizio che parla di Miguel de Unamuno e Fernando Savater a
me che non conoscevo neanche il mio nome. Per strada Daniel
e io c’eravamo scolati Campari e gin in una via crucis di bar di
quart’ordine. In ogni stazione si trincava qualcosa di tosto tipo
Stock o cognac e poi ci aggiustavamo col Campari e gin. Daniel
era già sbronzo e al verde.
Quando arrivammo alla festa, si depose come un cappotto
insieme ai soprabiti nella stanza da letto di Miriam. Dal canto
suo, la padrona di casa ci accolse vestita da gran sacerdotessa
della seduzione trash. Era molto fata: il caschetto azzurro oltre mare, nascosta in una gonna rossa leggera come l’aria con
uno spacco esistenziale sino al bacino. Il cosciotto mi allupava
e se fossi stato in me, le avrei ricordato i giochini che lei a
scuola si vantava di fare con il suo primo boy-friend. Ma in
quel momento con quell’alcol che saliva disordinatamente in
testa, mettermi a cavalcioni Miriam era l’ultima cosa che avrei
fatto nella mia vita. Non appena finii di slumare il misurone
di sangria, mi complimentai con l’ispanico, con cui avevo intrecciato relazioni diplomatiche, e raggiunsi nel marasma dei
cappotti Daniel.
Si stava da dio nell’odore di freddo dei giubbotti, tra il fruscio dei pellicciotti, il dolce raschiamento delle fibre sintetiche di Barbour e piumini Moncler; il calduccio della sbornia.
Era un mondo irreale, ricco di sensazioni quasi impercettibili,
ma tutte protettive. Sentivo il respiro affannoso di Daniel che
veniva da sotto quell’igloo di acrilico e lana, intanto mi ma54
sturbavo mentalmente sulla situazione. Mi chiedevo che cazzo stavo a fare lì. Sembravo un moccioso. Quando si è etilici si
torna bambini. Cosa avrebbe pensato una persona, che fosse
entrata in quella stanza, e mi avesse visto sotto una coperta di
cappotti? Di certo che non avrei mai vinto il Nobel della fisica, di certo che non avrei mai dato un futuro ai miei figli,
destinati a una vita di analisi di gruppo e tossicodipendenze.
Due uomini, stesi a pancia in giù, sotto i cappotti.
In quel momento ebbi l’esatta impressione dell’aldilà. Era
come tornare nel ventre materno e perdio! tutto appariva avere
contorni lunari, un senso di vuoto assoluto, ma anche di benessere, tutto l’universo in quel momento ruotava nella mia
testa di sbronzo, sotto un effluvio di cappotti, nelle tenebre di
una camera da letto, qualsiasi cosa scorreva, immenso flusso
vitale dell’universo!
In testa mi passava Oniria, mondo sbronzeo dove tutto era
possibile.
L’alcol mi faceva questo effetto, anche se avevo sotto un’ansia di riprendermi in tempo. Ero terrorizzato per la festa in
piazza del Popolo, dove sapevo che qualche milione di persone avrebbe venduto l’anima al diavolo per divertirsi. Daniel
respirava come un suino, e nel mondo di Oniria credetti veramente di avere affianco un maiale. Si dice che un domani ci
sarà una nuova febbre Spagnola e la gente morirà a milioni e
la malattia sarà trasmessa dai porci. Già mi vedo con la Spagnola.
Il tempo si accorciava e si allungava come un folle yo-yo,
potevano essere passati due minuti o due ore, poteva essere
trascorsa immemore un’inedita saga fatta di carnevali modernisti e serate millenaristiche. Era mio assoluto disinteresse se
qualche cosa fosse accaduta in quel mondo dimenticato. In
Oniria c’era solo spazio per il nulla, un vuoto che copriva tutta la sfera del mio risveglio: dall’attività dell’es e del super-io,
sino a quella di filare i superalcolici di tutta Roma. Il mio io
era offuscato dai miseri lamenti di Oniria, provenivano ed
echeggiavano come sistri, filtravano le voci umane.
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Capitolo 5
PORCILE
Era passato un bel po’, quando sentii la presenza perversa
di Miriam e Sofia nella stanza dei cappotti. Non s’erano, però,
accorte che sotto i giubbotti, c’erano due esseri umani del tutto sfatti dalla sbornia. Le due tope cominciarono a sussurrarsi
e a confabulare freneticamente qualcosa. Certamente quel trantran paroliero non preannunciava niente di buono. Erano come
indemoniate e preoccupate manco fosse sceso King Kong o
Dracula in persona.
Più o meno la situazione che afferrai con il residuo sforzo
era questa. C’era un tizio che stava in casa e loro non lo volevano, perché una diceva all’altra: “Ma chi ha portato questo individuo in casa mia” e davano la colpa a Bertowsky,
poi sentii il mio nome. “È amico di quel coglione di Franz!”.
L’altra aggiunse: “Siccome si sbronza dobbiamo accettare
tutte le sue caccole sballate di amici, pure i barboni, è davvero il colmo!”. Ero in panne e non capivo chiccavolo avesse proferito l’estremo verbo. Nonostante la sbornia, rinsavii
di brutto, collegai le tessere del pessimo puzzle che si andava formando.
Ed eccolo qui in tutta la sua strepitosa grandezza. Bertowsky
era scomparso deluso, a causa dell’atteggiamento espansivo
di Leira con tutta la sfera maschile lui escluso, quindi si era
portato Damiano assieme a bere. Damiano era tutto fuorché
un lord inglese che sapeva controllarsi di fronte a reiterate
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bevute. Dopo essersi caricati una sbornia a puntino, si erano
dati convegno alla festa di Miriam e Sofia. Una volta arrivato
là, per Bertowsky, non fu difficile scaricare sulla mia amicizia
il buon Damiano puzzolente di anice. Il barbone ubriaco creò
questo casino senza precedenti.
Morale di questa fiaba all’anice: dovevo difendere Damiano da quella massa di fighetti prima che ne fosse stato divorato e fatto a brani come Orfeo dalle baccanti. Ero come paralizzato, non c’era nulla che avessi potuto fare per liberarmi da
quella fastidiosa impressione di impotenza generale. Cercai
di muovere per prima cosa una spalla per sentirmi i giubbotti
addosso strisciarmi sulla testa, poi mossi un braccio, infine mi
girai completamente. Daniel russava come un’iguana, cercai
di rianimarlo per capire se gli scorreva nelle vene un barlume
di vita. Gli soffiai nelle orecchie e nelle narici, gli tirai due
sberle sensazionali e un calcio nei glutei, ma non ne voleva
sapere di abbandonare il caldo giaciglio.
Al diavolo Daniel. Mi fiondai come un’anguilla scivolosa
lungo il corridoio della casetta di Miriam. Mi ritrovai l’ebbro
convivio che mi aspettavo: un nugolo di infighettate di primo
ordine e Bertowsky sotto braccio a Damiano. Damiano, con il
cappello di lana e senza chitarra, aveva davvero le sembianze
di un barbone, e l’espressione stravolta da grande etilico
qual’era, mise paura pure al sottoscritto che lo conosceva da
una vita. Era rubizzo e puzzava di anice da un km. Bertowsky,
da parte sua, non faceva nulla per apparire normale e stava
improvvisando uno spogliarello con tanto di ululati per richiamare l’attenzione su di lui. Leira non lo cagava minimamente. Era su un divanetto in disparte, piangeva come una
pazza, trattenendo minuscoli mugolii nelle mani. Leira non
piangeva per la pelliccia etilica di Bertowsky che faceva il pagliaccio. Ma era distrutta per il fatto che Vernon era in sana e
consapevole combutta con una topa spagnola amica del tizio
della sangria.
Questa spagnola era davvero una topina da paura, atletica
e a rischio infarto per chiunque, pareva la Penelope Cruz in
versione miniminor. Era meglio stare alla larga. Era una di
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quelle per cui davvero si poteva rimanere sotto di brutto, una
per cui la gente finisce che se la butta nelle vene.
Leira singhiozzava, ma nessuno stava ad ascoltarla, perché
tutti i fighetti bastardi si vergognavano del suo ragazzo sbronzo, a fare il buffone, in una festa di fighetti che nessuno, dico
nessuno, avrebbe mai preso sul serio neanche tra i fighetti.
Tirai Damiano dal centro di gravità permanente delle attenzioni interessate di Pelo Rosso e Luca. Luca era un tipo
davvero da evitare; faceva il servizio civile in ambasciata e
questo era davvero il colmo per un fascio come lui. Era il colmo dei colmi visto che aveva chiesto la raccomandazione al
padre della ragazza che faceva il segretario regionale dei Democratici di Sinistra. Partecipò nel 1994 a un pestaggio ai danni
di un anarchico, e ancora in paese se lo ricordano quando
salutava col braccio teso gli idioti come lui. Ora era lì con
quelle frasi velenose e meschine: “Damiano dammi il cinque”
oppure “Damiano sei fidanzato?” e ancora “com’è fatta la tua
ragazza?”. Mi davano il nervoso, e solo se uno era sbronzo di
anice, non poteva capire l’allegra presa per il culo.
Mentre ero ancora in pieno purgatorio, dovuto alle sane
bevute pre-festive, Miriam mi venne dietro per farmi paranoie.
Di contorno c’era Damiano con l’omaggio tipico suo a tutte le
persone che lo invitavano a una festa (damigianetta semivuota
di anice puro) e Sofia che s’affrettava a chiudere le porte di
tutta la casa.
La mia mente era un film pieno di immagini, si accavallavano vorticosamente, e nemmeno da sobrio sarei riuscito a
raccapezzarmi. Contavo gli attimi perché da un momento all’altro sarebbe scoppiata la rissa populista. Miriam si mise a
quattr’occhi, mi prese il braccio stringendolo e facendomi strillare per il dolore. Poi mi portò in un posto appartato molto
vicino ai cappotti tanto che riuscivo a sentire russare Daniel.
Ero troppo incazzato per stare a sentire le sue manfrine sulla
maleducazione. Era tutto un revival di vicende liceali, di scherzi
telefonici, gavettoni, prese per il culo che le erano stati fatti
dal sottoscritto ubriacone in qualità di immaturo gran rompi
balle dell’istituto.
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Finito il pistolotto mi scoppiò in un sorriso a mille denti e
fece una faccia: cominciò a dire che lei mi conosceva bene e
che per il mio bene mi aveva invitato a quella festa, e che per
il mio bene dovevo lasciar perdere certa gente, e che per il
mio bene dovevo frequentare lei e la sua allegra combriccola
di fighetti, e che per il mio bene dovevo stare a sentirla, e che
per il mio bene… bleah, quanto bene inutile.
Incurante della presenza del suo ragazzo Piero a mezzo
metro da lì, mi abbracciò e mi sussurrò nell’orecchio frasi
irripetibili da vera porcona ufficiale quale era. Non so, ma il
desiderio verso Miriam si accese di brutto e sapevo che in
quel momento la mia vita era pensata solo con le palle. Questo era davvero assurdo, Miriam stava per cacciare da casa sua
un mio amico e io pensavo a quando sbattermela. Era troppo
e mi volevo morto. Miriam mi promise i mari e i monti, i fantastici confini della sua sensualità weirdo-bizzarre, e disse che
alla fine della serata ci saremmo rivisti per il connubio dei
nostri sensi impuri. E fu una dichiarazione d’amore.
A complicare quei momenti ci fu lo sfogo di Rossy che vagava da sola come una matta esaurita da quattro soldi, su e giù
per la casa. Mi venne in bocca con una richiesta assurda, voleva che gli ritrovassi Daniel.
“Daniel è sotto i cappotti”, dissi, e lei, senza dire un’acca,
si fiondò nel fluido di soprabiti.
Mancavano due ore alla mezzanotte, ma qui era già stato
stappato il tappo della ragione dalla testa di tutti. Leira in un
angolo a piangere, Miriam che mi seduceva vecchia maniera,
Bertowsky oramai in mutande su una sedia a blaterare Joe
Cocker e l’inno di Forza Italia, Rossy e Daniel tra i cappotti,
Damiano rincoglionito in mezzo ai fighi e io lì con le mani nei
capelli per domandarmi il perché.
Si cercò di organizzare il corteo dei festanti per arrivare in
Popolo plaza. Mi trascinai Leira sotto braccio fino a Bertowsky,
lei lo vestì amorevolmente e lo portò giù a fare un brainwashing.
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Mi toccò la patata bollente della serata, e mi condussi
Damiano al primo giaciglio. Era talmente sbronzo che aveva
bisogno di dormire e lo misi su un canapé di finto velluto stile
Re Sole cantandogli la sua ninna nanna preferita, alias una
versione di God Save the Queen lenta e un po’ porno. Quello
prese il diretto per Oniria e lo smarrii per il resto della nottata. Miriam non fece più storie, anzi fu compassionevole fino
allo stremo, gli diede una coperta e lo chiuse lì dentro con un
biglietto che testualmente diceva di non fare danni; proposi
di dargli un calmante così si svegliava il giorno dopo senza
nessuno scrupolo, ma tra i farmaci di Miriam stava solo una
confezione di Tavor e per giunta in ridottissima quantità. Gliela
demmo tutta anche se c’era Daniel contrario. Aveva sventato
la sbronza con un bacio d’angelo di boccadirosa Rossy con
evidenti segni di rossetto spiaccicato su tutto il muso.
Il Daniel rinsavito riteneva di volergli fare una siringa di
Valium oppure di alcol etilico. Sosteneva questa follia pura
con assoluta serietà dicendo che sua madre se le faceva per
prendere sonno. Stava già ardimentandosi per fare questa santa
siringa, che lo fermai in tempo prima che mi ammazzasse
Damiano.
Quella siringa andava fatta al ragazzo di Miriam, un tipo
molto sinistro, altissimo e palestrato, che mi avrebbe tranquillamente sfondato il retto se avesse sospettato delle mie mire
su Miriam. Con il passare dei minuti Miriam con quel caschetto
azzurro fatato mi faceva sognare un cielo stellare di sensazioni
strepitose. Ero già al suo capezzale di nave scuola, ma il tipo
del suo ragazzo, davvero piazzato, scoraggiava evidenti miei
tentativi di avvicinamento alle fata turchina. Vivevo una fase
di inquietudine post-sbornia, un momento di confusione, ma
anche eccitazione.
La carovana festante si mosse con grave ritardo sulla tabella di marcia. Giungevano notizie agghiaccianti da piazza del
Popolo. Si diceva che era tutto paralizzato, la gente non camminava più. Veniva trascinata dal fiume umano di qui e di là.
Per evitare il rischio di sorbirci la mezzanotte lontano dalla
festa, aggirammo l’ostacolo e cercammo di raggiungere piaz60
za del Popolo dal Pincio. Attraversammo il Tagliamento e via
Po. Lasciammo la scia di una buona decina di maestrali colpi
di coda a vari citofoni in bella mostra. Ovviamente disgustammo quella massa di fighetti, ma Daniel, Bertowsky e il sottoscritto non potevano esimersi da quel duro lavoro rompiballe
che ci competeva. Il bello venne proprio così. Bussammo a
casa di un tizio che per tutta risposta lanciò un secchio di piscio. Non chiedetemi come faceva ad avercelo bello e pronto,
so solo che la secchiata d’orina fumante lavorò per me, perché beccò in pieno Medusa e il Palestrato. Alias il ragazzo
della fata blu. Medusa montò un’espressione ridicola tra il
ripugno e la disperazione, il Palestrato si voltò con aria persa
verso la sua figa blu. Miriam non perse occasione per fare la
faccia schifata e infilarsi sotto il mio braccio. Gol! esultai composto, fremendo come un bimbo dell’asilonido, e mi lavorai
Miriam. Dopo un paio di metri ero già bello che impegnato in
un maestoso linguabocca.
Non passava attimo che si girava il Palestrato che le cacciavo la lingua in bocca e le toccavo il balconcino più duro della
storia. Coscetoste faceva fare. Non c’era che dire, ero un uomo
profondamente realizzato e, diamine, che spettacolo vedere il
Palestrato che non poteva fare niente se non smadonnare. Era
colpa sua se la sfiga gli aveva fatto beccare, nella notte di fine
anno, una bella tinozza di piscio. Intanto mi venivano in bocca parole bastardamente mielose che facevano rizzare il pelo
a Miriam. A una frase scema (una cosa del tipo “Non sono
mai stato accanto a una persona speciale come te” ma forse
ancora più banale), mi accorsi di quanto fosse di bocca buona, ’sta figa blu.
Nel frattempo affluiva nel bel Pincio gente di ogni risma,
c’erano gruppuscoli con nasi finti e cappelli da mago merlino,
schegge impazzite, bimbi urlanti, tutti con la bottiglia di spumante in mano. Era meglio per tutti, che non l’avessima avuta
anche noi tra le mani. Avere qualcosa di contundente era
dannatamente pericoloso quella sera, soprattutto per noi teste di cazzo: lattine di coca agitate e pronte a schizzare.
Bertowsky, per puro spirito sportivo, sequestrò a un tizio
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una trombetta d’ottone che faceva un rumore d’accidenti. Non
c’erano sbirri e questo era davvero strano, non oso immaginare quanti ce n’erano in borghese a farci foto e sbraitare rapportini. Dove sta bellezza e felicità stanno gli sbirri: vai da
Rina e sbucano gli sbirri, ti squagli una panetta di hashish e
spunta un piedipiatti che poi se la fuma in faccia a te, fai un
po’ di questua e affiora la paranoia sull’accattonaggio e bla
bla. Feci questo comizio strampalato a Miriam che mi pareva
davvero persa dietro alla marea di stronzate con cui la stavo
affogando.
Non era difficile tenere il passo del gruppo. Andavamo su
al Pincio e non c’era la calca che si diceva, tutti i meno dritti
avevano giustamente pensato di arrivare in piazza del Popolo
dalle strade laterali tipo via del Corso o via del Babbuino, noi
invece ci arrivavamo davvero in carrozza. Miriam oramai me
lo tirava a morire e non ci pensai su un attimo, me la portai
dietro un albero per la pruderie di fine millennio. Un fiume di
parole zuccherose, un bacio lento, ma appassionato e Miriam
tutta per me, trallallà!
Miriam
L’avevo fatta grossa. Ma una follia alla fine dell’anno si poteva fare. L’avevo previsto. Lo conoscevo da tantissimo tempo.
Aveva un carattere strafottente, a scuola era il più carino. I suoi
sembravano ragionamenti particolari e profondi, ma in realtà
erano tutta una presa per i fondelli. Quella sera l’aveva proprio
combinata grossa. Solo perché si sballava, dovevo subirmi le sue
bravate in casa mia; quella del barbone era stata la peggiore. Un
tizio totalmente ubriaco, magari anche tossicodipendente e
sieropositivo, uno che non aveva fissa dimora, un senzatetto della
Tiburtina mi stava in casa a fare i comodacci suoi. Solo Dio sa
perché non si portò via nulla, per fortuna si sbronzò tanto che lo
dovemmo mettere a letto.
Parlai con Sofia prima di prendermi una vendetta coi fiocchi.
Si credeva padrone del mondo. Pensai di vendicarmi. Comin62
ciai a giocarmelo e a tenermelo buono; capii subito che non gli
dispiacevo. Era preso da me e non faceva niente per nascondermelo, mi baciava e mi stava addosso come un ragno, i suoi tentacoli me li sentivo per tutto il corpo, ma stringevo i denti. Un
fuori programma, un secchio di orina cadde su Piero e mi mise
un po’ in difficoltà, dovetti andare molto più in fondo di quanto
preventivato. Mi diedi da fare senza farmi coinvolgere perché
Franz aveva intuito un approccio che mi piaceva.
Sussurrava parole bellissime, ma per fortuna le intercalava
con quei baci inaciditi dall’alcol, e mentre me li dava cancellavo
tutto quello che aveva detto. Non aveva il minimo pudore, dimostrava una rozzezza che non ricordavo, bestemmiava e
imprecava contro i poliziotti come non avesse saputo che sia
Piero che papà erano tali, mi dava il nervoso a ripetizione, ma lo
scherzo che gli preparai fu dei più crudeli e divertenti. Lo presi
per mano e ci allontanammo nelle fratte del Pincio dietro un
albero e cominciammo a pomiciare, il suo respiro affannoso da
alcolista mi nauseava, non ne potevo più.
Gli tolsi il giubbotto e il maglione. Lui fece fare nonostante
il freddo, aveva perso proprio la testa, riuscì a malapena a sbottonarmi il cappotto. Gli accarezzavo il petto, misi la mia mano
gelida sotto la maglietta, tremò per l’eccitazione, così mollò un
po’ la presa. Non ci pensai un attimo, lanciai i suoi indumenti
nel fossato che si apriva dietro di noi. Per recuperarli avrebbe
dovuto calarsi dal balconato e poi risalire. Come se non avesse
creduto a quel che succedeva, rimase fisso con gli occhi di un merluzzo per qualche secondo. Ebbi il tempo necessario per svincolarmi e raggiunsi il gruppo che era andato notevolmente avanti. Fu
l’ultima volta che lo vidi. Indossava una maglietta penosamente estiva e mi implorava di aspettarlo. Lo mandai al diavolo.
Il mio fu davvero un capodanno speciale, mi ero tolta un
peso, mi baciai Piero incurante che puzzava di piscio, ma lo
amavo, sapevo che non avrebbe mai fatto la fine di Franz, ridotto così. Mi spiacque per Chiara che era stata con un tipo del
genere e mi dispiaceva davvero, veramente era un ingrato, un
dannato bastardo.
Non appena finimmo il conto alla rovescia, assistemmo allo
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spettacolo pirotecnico e filammo a casa a festeggiare. Mi ricordai che c’era quel barbone sul canapé, ma Piero non fece nessun
problema; una volta arrivato se lo caricò sulle spalle e lo buttò
in un cassonetto, non prima di avergli dato due sberle per svegliarlo. Non gli feci fare nemmeno la doccia quando mi raggiunse su, fu una delle notti più belle della mia vita.
Damiano
È stato un colpo terribile. Passare dal caldo torrido della casa
di quella amica di Franz per poi piombare in una sozza melma
fredda, un puzzo fortissimo di compost e lacrime di spazzatura.
Che sbronza, che mondo confuso quello delle pellicce d’anice!
Ho la testa pesantissima.
Credo che potrei morire, non ci sono parole. Anche se non ci
sei tu, Lara: piacere e dolore delle nostre vite interrotte. Dove
sei? Che bello l’anno scorso! Quando fu mezzanotte ci baciammo, e poi baciammo Gianni e Mauri e tutti, ci baciammo, pomiciammo con tutti, ragazzi e ragazzi, e donne e donne, erano sbronze belle, non erano come quella cattiva e malinconica che ho
addosso. Mi sento un profumo acre di gasolio, non so, ma un
fortissimo calore d’un tratto mi sale sulla pancia, sulle mani,
sulle gambe, provo a vedere, ma non ho la forza di aprire gli
occhi; quando finalmente riesco, nelle mie mani ci sono brandelli fumanti, è la mia pelle, le mie gambe sono fuse in un
moncherino di mezzo metro. Una grossa vampa rossastra mi sta
divorando. Il mio corpo se ne vola nel fumo, non faccio altro
che salutare me stesso, sto bruciando, le mie membra prendono
fuoco. Addio. Sembro rimpicciolirmi, accartocciarmi, ma non
sento male, mi sento esalare, il cuore più non battere… è proprio ora di andare. “Congedo vecchi e nuovi amici. I nomi si
allontanavano vuoti, rimbombavano sotto la volta. Li restituivano dall’altro capo – dall’Aldilà – gli echi che io sentivo, vuoti
morire, insieme con lo sciabordio…”
64
Capitolo 6
MILLENNIUM BAR
Miriam mi aveva teso una trappola atroce. Per fortuna
Daniel aveva assistito alla scena e mi aspettò con tutto il nucleo
storico, alias Berty, Leira e Rossy.
Daniel recuperò un pallone Etrusco Unico finito nella terrazza della signora Marini, che non voleva restituircelo. Era il
1990, Schillaci, il rigore di Donadoni, le gambe della Parietti,
i primi cellulari, la scomparsa di Piero Santi, quella roba là
insomma. Dani si arrampicò per il tubo di plastica di scolo;
prendeva fiato a ogni piano sedendosi sui bordi dei balconi
del condominio assediato; giunto a destinazione affrontò la
signora Marini che con una scopa cercava di difendersi. Gente, la proprietà privata è un furto! E Daniel con eleganti quanto
involontarie citazioni di Proudhon tornò trionfante con la sfera
di cuoio tra la folla di ragazzini festanti. Recuperarmi gli indumenti fu una passeggiata, perché la roba era rimasta su un
cespuglio di pungitopo. Gli bastò fare un balzo ed ero già
bello che vestito.
Il Pincio si presentava come girone dantesco. Vomitava
torciglioni umani sullo sfondo di un viavai apocalittico; da
una parte poveri illusi, che cercavano di risalire la corrente
contraria dal colle sino alla festa, e dall’altra una massa scalmanata in procinto disperato di entrare nella piazza spinta per
inerzia. Nell’aria c’era una nuvolaglia di spumanti e champagne, esattamente il paradiso, quello che sognavo da una vita,
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ma invece di godermela, dovevo pensare a una mandria umana di cui ero succube. Questa mandria, inebriata e sballata,
scendeva verso la piazza emettendo un vocio confuso. Dai
balconi del Pincio pioveva di tutto, si era sotto il fuoco nemico, bombe e petardi, vulcani e girandole. Questa massa fu
imponentemente respinta dai celerini con un paio di cariche,
ma la polizia, incattivita e insufficiente, non fece altra resistenza. Così in piazza riuscimmo a entrare verso l’una, quando molti avevano raggiunto i loro bei locali e il rumore della
folla era diventato un normale vocio domenicale.
Nelle cariche sbirresche avevo perso tutti.
Stavo solo in piazza del Popolo. Calpestavo un tappeto verde di cocci aguzzi di bottiglie e frantumi. Minuscoli vetri e
particelle elementari diventavano intrusi delle mie scarpe, la
festa scemava, qualcuno si agitava sul palco Mediaset, ma nessuno se lo filava.
Ero solo, come fine anno non era quello che mi aspettavo,
ma era quello che mi meritavo. Mi sentivo in colpa: avevo
lasciato Damiano sul canapé di Luigi XIV imbottito di Tavor,
per un quarto di linguabocca.
Ero teso, avevo i nervi sfiniti. L’alcol ti consuma anche la
testa e non è solo roba di lucidità, è anche roba di allenarsi a
morire, lentamente, con addosso questa maledetta fragranza
di bisolfito. L’alcol ti prepara a morire, ti mette in testa pensieri che non riesci a credere, ti abbassa il raziocinio, la voglia
di alzarti e prendere a calci la vita.
Intanto giravano voci prive di fondamento, si parlava di
morti soffocati, inesistenti deflagrazioni, ambulanze ribaltate,
gli ospedali da campo saccheggiati. La cosa migliore era cercare visi conosciuti per non essere in balia del nulla.
Vicino a una delle due chiese gemelle una trentina di persone s’erano date baldanzoso convegno e se le davano di santa ragione. In mezzo, un tipo con una maschera di sangue
veniva sballottato. Altri si minacciavano con le bottiglie rotte,
altri ancora si scalciavano come cavalli imbizzarriti. Dopo aver
assistito a un pugno formidabile di un armadio umano, l’assetto fisico di quel nanetto fu stravolto. Le forze erano lieve66
mente dispari, gli scagnozzi dell’armadio erano una ventina, il
resto era gente che si trovava a difendere il nanerottolo per
necessità di cose e per non essere travolta da quei balordi.
Focalizzai ben bene la situazione, e mi fu clamorosamente
chiaro un personaggio lì in mezzo: Mauri Mauri. Era lui il
nano che le prendeva. Era troppo sconvolto dalle botte per
riconoscerlo. Mi lanciai nella mischia; bisognava salvarlo. Con
una spallata poderosa levai di torno due tizi e presi Mauri,
raccolsi un coccio da terra e lo infilai in bocca all’armadio
umano. Gli diedi un colpo basso, bassissimo. Tenevo stretto
per mano Mauri e lo trascinavo con tutte le mie forze lontano.
Ovviamente lo pensai solamente. Mi feci questa sega mentale,
ma non potevo stare a fare l’eroe, Mauri se la sarebbe cavata
da solo. Cercai di non farmi vedere da lui, abbassai la testa e
filai via a trecento all’ora nella folla, il più lontano possibile da
lì. Dalla morte.
In una delle traverse di via del Corso cercai una cabina per
chiamare il cellulare di Daniel, ma la scena apocalittica di persone con le antenne dei loro portatili ultima generazione al
cielo con sguardi interrogativi, mi tolse lo sfizio. Nessuno riusciva a telefonare, c’era, dopo un decennio, per la prima volta, assenza di comunicazione radiomobile, qualcuno urlava
che c’era il “millennium bug”. Occazzo che stronzata, l’importante era che ci fosse stato il “millenium bar”. Che allo
scoccare del millennio il mondo fosse diventato un enorme
convivio dove tutti ubriachi a ciucca avessero cominciato a
bere, a perdersi nei meandri dell’irrazionalità. Immaginavo il
Presidente della Repubblica immerso in una tinozza di malvasia profumata augurare buon anno a tutti gli italiani. E in
Italia un tripudio di alcol, ragazzi travestiti da satiri, milioni di
passere innaffiate di prosecco ghiacciato, bambini attaccati a
biberon marsalati, San Pietro in persona ad accoglierci in un
paradiso fatto di viti, botti di radica strapiene di barolo e litri
di vino nero salentino.
Intanto, al ritmo progressivo di stronzate millenariste, in
molti si sbellicavano dalle risate come me: vedere questo o
quello in preda al tentativo pietoso di chiamare e scuotere la
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testa davanti al display e alla modernistica tastiera dei vari
Nokia o Philips, Nec o Motorola – multinazionali del fischio
messe in ginocchio da un traffico impazzito. Per un attimo,
solo sinistri squilli tecnici, ma tutti tremendamente muti. Non
c’era nemmeno la consolazione della vocina Tim-OmnitelWind che sussurrava: “l’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile”. C’era solo un abortito tu-tu. Ed era un
tu-tu che rimbalzava nelle teste di tutti come una cantilena
tribale.
Power to the People, Power to the Peole, right all… Power
to the People, Power to the People… Non c’era che dire, tutti
la cantavano, manco fosse sceso John Lennon in persona, tutti si agitavano e rivendicavano solo perché si stava tutti insieme, sbronzi e no.
Ma ovviamente non era così, e tutti facevano i beati cazzi
loro, si tentava in ogni modo di restare in piedi e non essere
scaraventati per terra. Ero un’alga e fui portato alla deriva di
piazza di Spagna intorno alle due del mattino. Attorno alla
Barcaccia. Magna sorpresa, c’era la pattuglia dei quattro completamente umanizzata.
Daniel e Bertowsky sembravano redenti.
Erano soli con Leira e Rossy. Un po’ più indietro della fontana, facevano delle foto con un tizio vestito da 2000. Questo
tizio era davvero un soggetto clamoroso, aveva indosso un
tutino rosa molto Blake Edwards e attaccati con gli strass il 2
e i tre 0 da sopra a sotto. Se fossi stato sbronzo, lo avrei buttato nella fontana a fare un bagnetto. Senti Pantera Rosa, non è
buona cosa quella di andare in giro così, tanti potrebbero credere che sei matto, ma so che non lo sei, hai solo bisogno di
rinfrescarti le idee. Dette queste parole concilianti, lo avrei
fatto planare nella Barcaccia.
Ovviamente non feci niente di cattivo contro l’uomo del
2000, le uniche cattiverie furono quelle di attraversare correndo il primo gradino della scalinata di Trinità dei Monti,
dove rovinai le pose di qualche gruppo arroccato per la classica foto sulla scalinata.
Bertowsky era un signore. Portava pure un cappellino di
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velluto, grande provincialata in quell’atmosfera. Non erano
cose di cui mi ero accorto nella giornata, ma era roba per cui
valeva la pena vivere. Se c’era un uomo meno adatto a vestire
firmato (tipo D&G o Armani) quello era Bertowsky. Agli occhi del pianeta si presentava tarchiato e taurino, massiccio ed
esplosivo come una forma di cacio cavallo, non era obeso, era
solo sovrappeso e la roba che portava addosso gli andava come
la pelle di un salame. Questa serie infinita di stonature di
Bertowsky me lo rendeva unico; e forse anche lui avrebbe avuto
qualcosa da ridire sul mio abbigliamento, dagli anfibi nordcoreani, ai pantaloni verde militare stile viet-kong a quel sacco peruviano che mi era costato la mezzanotte in solitaria ecc
ecc.
Daniel, Bertowsky e io. Se ci fondevano non usciva nemmeno una trombetta di San Cosimo, tre parassiti sociali e dissipatori di benessere e virtù, eravamo tutto, fuorché persone
affidabili.
1 gennaio 2000
Ero stanchissimo e guardavo il flusso spento di gente.
Tutti avevano l’aria un po’ annoiata, era abbastanza tardi, e
il clou della baldoria millenaria era alle spalle. Intanto alcuni
idioti dalle finestre della Roma bene diedero il via a un criminale lancio di oggetti. Oltre duemila anni dopo i Patrizi e i
Plebei, stavamo ancora lì. Quella massa di figli di papà, di
senatori, notai, produttori, imprenditori e grandi commercianti
dalle loro case para-nobiliari lanciavano bottiglie rotte e petardi, nella meschina coltre dell’anonimato, con la ignobile
speranza di vedere la testa fracassata di qualcuno. Era come
se le leggi fossero state sospese per una notte. Rinvenni dal
torpore, raccolsi una bottiglia di spumante da cinquemila lire
che ambulanti svendevano a ogni angolo. Non l’aprii nemmeno e la buttai in una di queste case. Eravamo proprio all’inizio
di via Condotti. Beccai proprio una delle finestre dove c’era
più baccano. Sentii un urlo abbacinante. Un tipaccio vestito
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cresima cacciò la testa fuori dalla finestra aperta ruggendo bestemmie in romanesco. Gli risi in faccia e me la diedi a gambe.
Finalmente Leira movimentò la mia vita. M’imboccò il suo
cellulare e mi disse di chiamare Hoda. Non me lo feci ripetere
due volte. Non appena composi il numero e sentii lo squillo,
vidi Leira cambiare colore. “È tornato campo?” gracchiò. “Un
due tre stella” paraculai. Ormai ero già in orbita sulle frequenze
interrogative di cosa dovevo dire a Hoda. Ti ricordi di me,
Dove sei, Se posso rag-giun-ger-ti. Quante puttanate e movimenti loffi avevo in saccoccia pronti alla soglia della grande
figuraccia.
Appena chiamai mi rispose Hoda con una parola straniera. Dal mio silenzio lei capì che dall’altra parte del telefono
c’era un uomo di nazionalità italica allo sbando e fece “Pronto?”. La mia emozione fu corredata da una quindicina di secondi per dire il mio nome e spiegare chi ero. Per fortuna
Hoda mi venne incontro come si va incontro ai grandi impediti e fece tutto lei: “Passato grande capodanno, ci stiamo divertendo tantissimo, sto a una festa di studenti tedeschi!!!”.
Parlò come un fonogramma, mentre dietro di lei si sentiva
veramente di tutto.
Me la immaginai agghindata come un bel bijou e mi allisciò
l’idea di andarla a cercare e giocarmi tutte le carte possibili.
Hoda mi spiegò dov’era la festa.
Dire che era lontana era un eufemismo bello e buono, si
trattava di una villa sui colli Albani e manco se avevo un elicottero sarei arrivato prima della mattina.
La notte di capodanno finì così, con noi cinque che rientravamo, mesti come cani bastonati, verso la Termini con la
vana e penosa speranza di assaltare un mezzo vuoto.
Si susseguivano scene apocalittiche di gruppi pronti a tutto pur di salire su un taxi notturno. Gli abbordaggi avvenivano attorno a piazza dei Cinquecento, perché nessun taxi aveva il coraggio di sfiorare la corsia preferenziale davanti alla
Termini. Un eventuale assalto di fronte alla stazione sarebbe
stato letale, visto le migliaia di persone in attesa di un treno o
di una metro.
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Alle quattro del mattino lo spiazzo antistante la stazione
era una raccolta inferocita di oltre ventimila persone, molte
delle quali cercavano di sfondare i vetri blindati dell’ingresso.
Si tentava di penetrare dentro la stazione con ogni mezzo, con
arieti di plexigas e tubi di cemento. La gente era esasperata;
veniva fatto un solo nome in quella canea ed era Cicciobello
Rutelli, il nostro amato sindaco, divenuto l’uomo più bestemmiato del nuovo millennio. Un tizio di Tivoli che doveva tornare a casa, con le guance gonfie e tirate come la pelle di un
tamburo, urlava senza tregua fino a rimanere senza fiato:
“Mortacci di Pannella, di Rutelli, di quel porco di Cristoforo
Colombo!”.
La scena più impressionante vista da molti fu quella di un
autobus spento, carico di gente, che viaggiava senza fari, con
le porte aperte, la gente con la testa, le gambe, le mani fuori i
finestrini e avvinghiata a ogni strapuntino. Sembrava andare a
folle lungo un falsopiano e che a guidarlo ci fosse stata un’ombra nera. Quella scena irreale confermò il principio di congelamento del mio cervello.
Quando decidemmo di incamminarci, dopo un po’ beccammo un taxi, e con guaiti da giungla, ne richiamammo l’attenzione. Il tassista aveva chiesto un sacco di grana, Berty non
ci arrivava e il resto della truppa faceva finta di essere al verde. Così dissi, “Ti lasciamo la bionda e ti diverti un po’” indicando Leira. Quella cominciò a strillare come una matta che
il tassista per poco non ci pagava lui per toglierci dalle balle.
Dopo un quarto d’ora eravamo in casa a giocare a pallone con
una sfera di stracci.
E fu mattino.
Dormivo come un cucco quando d’un tratto la sveglietta
Breil di Daniel fece un casino tale da dovermi alzare e andare
a spegnere quella dannazione mattutina. Dovetti ringraziare
quella sveglietta per lo spettacolo che mi fu offerto. Sentii un
trambusto, erano ancora le dieci del mattino. Non era roba di
fottistoio, era ben altro; ben più gustoso. Feci capolino come
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un serpente a sonagli nel reparto doppio misto e vidi una scena troppo da ridere. Un ragnetto aveva edificato una ragnatela sul modulo di Bertowsky. Se n’era accorto in piena gotta di
ronfa, e ora faceva un balletto assurdo perché si sentiva il
materassino pieno di ragni. Effettivamente, un tempo c’era
stato un bestione peloso, ma le sue tracce si erano perse nella
lontana notte dei tempi. Mi godetti il bolscioi made in Bertowsky e mi riandai a coricare con la gioia nel cuore.
Il mattino, o meglio il primo pomeriggio, visto che ci eravamo svegliati alle tre, trascorse in piena paranoia a causa della fame e della scarsezza di provviste. Si affacciò a questo punto
la non balzana idea di recarsi, causa improvvisa crisi di coscienza, da Joao Paulo. Joao Paulo era il nostro amato papa.
Rossy aveva sognato non so quale santo e quali martiri che le
avevano intimato una pronta conversione. E fummo tutti folgorati dalle parole di Rossy. Chi perché si era scoperto frate
proprio durante la notte (Daniel), chi perché era rincoglionito
come il sottoscritto, chi invece perché era superstizioso come
una baciapile (vedi il buon Berty). E qui venne fuori tutto il
nostro cesaropapismo da psicanalisi, un vuoto di pensieri dove
galleggiava l’effigie papale di Joao Paulo II.
Fino a San Pietro fu una via crucis per purificarci dei nostri peccati.
Prima stazione: il drugstore, Tiburtina-rifornimento bibite.
Lavorare lì il primo dell’anno era davvero una galera. Sorpresi una tipa davvero niente male alla cassa: chiome, rossobrunello. Decisi di fermarmi a fare chiacchiera. Giusto il perché e il percome una tipa del genere stava a fare la venditrice
dei balocchi. Ma la superiore necessità di sbronza, mi trascinò il pensiero su quella boccia di grappa che veniva passata al
lettore della cassa. Non appena sentii bip svanirono tutte le
manie sociali e mi recai diretto alla seconda stazione della via
crucis.
Regola primaria della buona pelliccia è quella di non mischiare i sughi alcolici. Contravvenni clamorosamente, e nelle
successive stazioni il trio di alcolisti composto da me, Ber72
towsky e, a sorpresa, Leira, mischiò alcolici e sana erba originale made in Torbellamonaca.
Daniel all’improvviso era diventato un monaco birmano:
niente alcol e nemmeno una tirata di fumo al calumet d’avorio. Faceva no con la testa, come se stessimo cercando di avvelenarlo. Ma ero troppo preso dal bocchino di quel calumet,
per farmi abbindolare dalle frescacce del moralista. Era proprio vero, bisognava stare attenti a quello che si fuma. Non
fumavo erba buona da tempo immemore; quando tirai lo spino,
fu come se nella mia vita fossero spariti i retrogusti bruciati
del sabbione, della gommapiuma, del silicone.
Intanto il Daniel convertito mi faceva paura. Quello, in
nottata, ci aveva dato giù di stecca con Rossy; mi ero perso
qualcosa, di certo Daniel aveva giurato a Rossy morigeratezza
e santità. Quello che ovviamente né Bertowsky né Leira si erano
promessi. Eh già, chi l’avrebbe detto, Leira nel limbo di sbronzolandia, coniarsi un ruolo di rilievo niente meno che nella
nostra via crucis tra Campari, gin e vini severi.
Le successive stazioni dell’ascesa alla pelliccia suprema furono svariate: liquori di bassa lega, i soliti Stock 84 e le Vecchia Romagna. Il fondo fu toccato con un bicchiere di anice
di Tolentino bevuto più per necessità che per piacere. Contravvenni alla regola della sbronza uniforme. A qualcosa come
la decima stazione, nei pressi di un bar della linea rossa, ebbi
le prime distorsioni visive e l’azzeramento di alcuni sensi.
Ben presto mi venne un sonnellino caro caro e arrivati a
destinazione, partorii la sana uscita di fare una pennichella al
calduccio della fermata di Ottaviano-San Pietro. Scesi dalla
metro barcollando come un tubo di cartone, e mi andai a buttare in un posto non troppo affollato. Mi misi affianco a un
distributore automatico di biglietti in modo da potermi accovacciare e posare la testa. Bertowsky e Leira sembravano aver
retto l’urto della via crucis e filarono via da Joao Paulo per
l’ultima stazione assieme all’altra coppietta. Il grappone che
avevo in tasca, invece, mi aveva completamente annebbiato.
Dormivo piegato in due, alle spalle avevo un muro scrostato, scarabocchiato e freddo. A Ottaviano c’era un flusso infer73
nale di pellegrini, tenuti col mastice della loro fede. Inorridivano nel vedermi lì a dormicchiare ebbro a ciucca; mi davano
spiccioli, ma senza esagerare. La dovuta misura faceva ben
comodo in quella occasione al popolo bue italiano, pellegrino, o comunque italianizzato per l’occasione.
Oramai era passata una buona ora ed era fin troppo. Quei
quattro monaci non potevano starsene a San Pietro tutto quel
tempo. Se dovevano prendersi le indulgenze era proprio il
momento sbagliato! Se le avessi prese io, ci sarebbero voluti
un paio d’anni di pellegrinaggio in tutti i santuari del mondo,
in ginocchio, col cilicio addosso e un rosario di un quintale in
spalla. Facevo questi pensieri inverecondi, sbronzo, in un posto dove non dovevo stare: sotto il robotico bigliettaio marchettaro.
Così iniziò il funereo e gentile continuo visitare delle care
amiche forze dell’ordine italiane. Cominciarono due carramba, uno basso come un gallo e l’altro alto quanto un segnale
stradale, che aveva pure il viso allungato come un licaone. Non
mi tirai indietro dal ridere a questa buffa accoppiata che solo
la fantasia narrativa di uno fumettista avrebbe partorito. E
invece erano lì davanti, come desolanti statue alla deficienza.
Art. 688 Codice Penale. Ubriachezza: chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico è colto in stato di manifesta ubriachezza è
punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire centomila a
lire seicentomila. La pena è dell’arresto da tre a sei mesi se il fatto è
commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo
contro la vita o l’incolumità individuale. La pena è aumentata se l’ubriachezza è abituale.
Mi chiesero con fare paziente di smammare. Il secondo tentativo fu davvero troppo educato, capii che qualcosa sotto non
andava, me ne accorsi quando mi sollevarono come un salame e mi trascinarono fino alla scala dell’uscita. Collodi, lo
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abbiamo letto tutti, era troppo oleografico: Pinocchio portato dai due gendarmi con alti e severi pennacchi, grossi come
armadi che si trascinano per il paese un pezzo di legno. Quella era santa satira politica contro la deficienza. Ma come, due
guardie per un pezzo di legno che parla! Io cercai con questi
argomenti di dissuadere i due carramba ma con esiti non eccellenti. “Sono Pinocchio! Fra un pezzo di legno e uno di
merda come me, non c’è tanta differenza!”.
Ovviamente, tutto questo fu solo pensato e non osai aprire
bocca, avevo una cacarella sordida di farmi una notte al gabbio
in mezzo ai culipiatti dei carcerati. Mi lasciai depositare come
un sacco di spazzatura sulle scale e dissi che me ne sarei andato con le mie gambe a tutta birra, anche da sbronzo. Eccazzo.
Ero troppo giù. Distrutto nel fegato e nel morale, mi buttai
a dormire come un ghiro peloso nonostante la corrente siberiana di quel posto. Mi gelava il sangue e i gradini ghiacciati
mi inumidivano le chiappe, ero un orso polare senza pelliccia,
l’ultimo essere vivente prima di un deserto glaciale, un naufrago del Titanic appiccicato alla vita. Ero sconvolto, mi misi
a cuccia per dormire fin quando intravidi un volto conosciuto. Cristo, erano due i volti conosciuti! Erano troppo conosciuti. Le loro facce scivolavano lungo la monotona calca
brusiante che ciondolava per le scale. Erano volti indistinguibili
per chiunque, a maggior ragione per uno sbronzo, ma non
per me. Tragica visione di nuovo millennio, con cui fu santificato il più bel capodanno della mia vita.
Chiara
Con sotterfugi e giri di parole Miriam aveva fatto capire senza dirlo che avrebbe trascorso il capodanno a casa sua niente
meno che Franz. La misi alle strette, la chiamai diverse volte
chiedendo se fosse vero che rivedeva Franz, non rispondeva, ma
neanche negava. “Torturatemi, ma non parlerò” ripeteva come
un disco incantato. Così decisi semplicemente di evitare di incontrarla.
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A Roma ci sono oltre cinque milioni di persone, oltre cinque
milioni di vite. Nessuna riuscirà a lambirle tutte, figurarsi la
mia con quella perduta di Franz. Temevo che il destino cattivo e
perverso me lo avesse fatto ritrovare sul più bello nella bolgia di
piazza del Popolo, magari con qualche puttanella. Ma fu molto
peggio. Il fato, anzi il Fato me lo fece trovare in un posto dove
non potevo fuggire, dove non potevo neanche girarmi e fare finta di niente. Era sulle scale della metropolitana, come un qualunque barbone, farfugliava frasi incomprensibili, parlava da
solo. Aveva sempre avuto una tendenza a confabulare, ma quella visione di un relitto umano mi sorprese e mi gettò nel panico.
Sandro non sapeva che fine aveva fatto Franz. In quel momento se ne accorse.
Cazzo, era Chiara, il giorno era andato proprio a fottio,
stavo a Roma per dimenticare e quella mi sbucò così, come un
uccello di bosco. Il bello fu che faceva finta di non guardarmi.
Mi salì una rabbia bollente in testa e urlai a squarciagola il suo
nome: “Chiara, Chiara!!!”. Si girò tutta la metro, in più un
tipo corpulento, ma flaccido, rubizzo, con la pelle cangiante,
la capoccia glabra, piccola e rotonda come quella del batacchio di una campana. I connotati di quel tizio corrispondevano a un tale che in passato aveva fatto filo a morire a Chiara.
Zoomai il tipo; quando ebbi conferma, partirono nell’orbita
dei miei pensieri visioni di pietre infuocate disseminate sul
mio recente futuro.
Mi vennero in testa un sacco di cose da dirle. Erano parole
e pensieri offuscati che non riuscivano a concretizzarsi in un
suono apprezzabile: roba che svanì non appena quel tipo intimò di alzarmi, pungolandomi il viso con i suoi mocassini. Sentivo l’odore forte della gomma della suola, ero nauseato, ma la
nausea mi passò non appena mi mollò un calcio in faccia. Fu
un istante. Il tizio mi aveva sferrato un calcio sul naso… l’odio
non è solo colpa tua… il tizio mi aveva sferrato un calcio sul
naso… nella vita ci sono circostanze che possono renderti
davvero irriconoscibile… il tizio mi aveva tirato un calcio sul
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naso… ho paura di certe reazioni… il tizio mi aveva sferrato
un calcio sul naso! Sentii un colpo e poi tutto il viso bruciare,
provai l’ebbrezza di vedere le stelle, altro non erano che un
tappeto nebbioso di minuscoli insetti. Cercai di reagire, ma
quello mi ributtò giù mentre Chiara gli implorava di lasciarmi
stare. Non disse niente di incoraggiante, le sue uniche parole
furono: “Non vedi che è fatto, lascialo, è fatto, è fatto, è strafatto, Sandro!!!”. Poi infilò in mezzo senza volerlo il suo bel
culo duro, avevo il jeans proprio sulla faccia dolorante e ci
poggiai il muso. E fu lì che sentii come sparire la barriera di
stoffa tra la sua pelle e il mio brutto muso rotto. Fu una breve
sensazione che illuminò il nostro ricordo passato. Per fortuna
che non lo vide il batacchio. Fu un bene, se no morivo per
davvero.
Sandro
Era stata una bellissima giornata. C’eravamo svegliati presto, dormivamo da amici che conoscevamo appena, facemmo un
giro molto romantico e turistico di Roma, portai Chiara per tutta la città, le feci vedere piazza Navona e il Pantheon. Per la
prima volta da quando la conoscevo la notai felice, spensierata,
piena di brio. Il pomeriggio andammo a San Pietro. Aveva troppo sofferto quella ragazza, aveva pianto un mucchio di tempo,
piangeva perché lo stronzo con cui era stata se l’era filata, era
andato via da giù senza un saluto, senza una lettera. Grande
codardo.
Chiara è di una devozione fuori dal comune, una forza che
non è solo interiore, ma anche esterna tanto da avermi coinvolto. Ma la devozione mi passò tutta non appena vidi a Ottaviano
quel verme di Franz, l’ex ragazzo di Chiara. Ragazzo era una
parola grossa. Era un avvinazzato qualunque e confabulava.
Chiara mi tirò il braccio, capii e cercammo di filare. Ma quella
carcassa emise un urlo. Mi girarono talmente tanto le palle che
mi avvicinai. Questa merda stava provocando. Chiara mi tirava
per un braccio, ma riuscii ad avvicinarmi lo stesso. Mi voltai e
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gli pulii in faccia la scarpa con la quale ero finito due minuti
prima su una merda.
Gli diedi due calcetti. Pratico l’arte coreana del Taekwondo
e sono troppo bravo. Penso che a breve farò gli esami per diventare cintura mezza nera, ho una discreta votazione. Non volli
fargli male, cercai solo di spaventarlo. Quando vidi il sangue sul
mocassino mi venne un colpo, quelle scarpe erano firmatissime,
sant’iddio, e costavano mezzo milione. Mi venne un nervoso
pazzesco, mentre Chiara mi trainava via da lì per la manica del
giubbotto, mi sentii addosso come un capasone di vino. Un essere non identificato puzzolente d’alcol mi stava strappando il
piumino. Doveva essere un dannato amico di questo barbone,
qualche negroide o qualche rasta; cercai di scrollarmelo, ma quello teneva. Quando vidi una piuma svolazzare nell’aria non capii
più nulla.
Mi avevano bucato il piumino!
Questo bue che avevo addosso era talmente sbronzo che cedette e feci in modo da scaraventarlo giù per le scale. Non appena feci questo mi venne addosso una ragazza, schiamazzando,
un’arpia alcolica, mi tirò un morso all’orecchio, indietreggiai.
Ero una bestia ferita, una ragazza bionda con un pezzo del mio
orecchio in bocca mi guardava con occhi fumanti odio, aveva gli
occhi dilatati fino al muso; non era una sbornia semplice. Era
Leira Romito, perdio era lei, quella per cui aveva perso la testa
Franco Cicoria, un mio amico, si era dato al buco per dimenticarsi questa tipa, autentica cannibale che addirittura cominciò a
masticare il mio brandello di carne.
Non appena intravidi in ginocchio Chiara, che tamponava il
naso della merda umana e piangeva, mi sentii malissimo. Io ero
senza un orecchio e quella pensava a un barbone. Mi girarono, e
la presi per i capelli cercando di portarla via di lì. Mi mollò un
ceffone che mi fece ancora più male dell’orecchio sbranato. Mi
sentii di svenire, ero da solo contro dei matti. Cominciai a scalciare per terra quello schifo e non mi fregava un cazzo che Chiara frignava, le beccava pure lei. Intanto la donna-ghepardo non
c’era più, forse era stata una mia proiezione, di certo non lo fu
Danilo Ziani. Danilo, detto Daniel, era uno tranquillo, ma era
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meglio non avere a che fare con lui. In paese aveva amici schizzati e sinistri, gente con cui non si poteva stare molto a scherzare. Erano etilici per eccellenza e quando si sbronzavano mettevano sotto sopra le macchine della brava gente. Io in paese avevo la mia bella Seat Toledo, ancora da pagare tutta, era meglio
tagliare la corda. Daniel, tanto per rinfrescarmi le idee, mi mise
una mano sulla spalla e fece: “Hai una Seat? Non è vero?”. Non
gli feci dire altro e me la diedi a gambe trascinando Chiara in
lacrime.
Il bello del brutto di tutto fu quando un sacco umano di
carne e super alcolici, alias Bertowsky, si scagliò sul manigoldo che mi aveva pestato. Ma il bello del brutto durò poco.
Bertowsky ebbro era una facile preda e finì a pelle di leone in
fondo alla scala. A quel punto credetti che sarei morto. Ma
Leira fece la cosa più bella della sua vita: si fiondò sull’omaccione e gli diede un morso all’orecchio. Fu una scena impressionante. Leira, da sirena del metabolismo schizzato, divenne
un’amazzone assatanata di carne umana. Era uno spettacolo
truce, respirava affannosamente e risucchiava l’aria come un
aspirapolvere, teneva tra i denti il piccolo frammento di carne
di quell’orecchio e, non paga dello sfregio, lo martoriava tra i
denti. Un rivolo di sangue dalla bocca e il viso arrossato dal
troppo bere si intonavano alla perfezione con quella scena crudele.
Tutto finì con l’arrivo di Daniel che, sobrio come un prete,
mise in fuga il nemico col solo sguardo. Chiara mi stava pulendo le ferite con un fazzolettino di carta rosa. Non solo avevo il naso a fottio, ma anche le labbra erano ridotte a due
salsicce sanguinolente. Chiara piangeva e diceva che era stato
il fato e il destino a volerlo e poi i santi e poi un mucchio di
queste cose cattoliche che mi facevano stare peggio e girarle a
trecento all’ora.
Voleva baciarmi, per pietà, come si bacia un bambino smarrito, ma non ne volevo di questi pietismi, ero troppo confuso.
Vidi pure che mollò un ceffone al batacchio, così, senza nes79
sun motivo. Il manigoldo rimase di pietra e indietreggiò sorpreso dalla mappa sonora della sua ragazza.
Quando sparì dalla mia visuale, all’improvviso di botto mi
venne un gran magone che fosse andata con quello. Mi era
rimasto il suo fazzoletto. Ma bastò guardare il rimasuglio organico del sottoscritto su quel brandello di carta che il romanticismo passò via in un nanosecondo. “Ma al diavolo!”
pensai, era lei che se l’era data a gambe. Era in palese contraddizione. Se veramente avesse creduto alle sue cose, al fato, al
destino, ai miracoli, al possibile e l’impossibile, sarebbe dovuta rimanere con me e lasciare il bellimbusto solo soletto nel
suo piumino bucato.
Terminato lo spettacolo made in sbronzolandia laggiù in
metro, era cosa buona e giusta alzare i tacchi e filare a velocità
gran turismo. Partimmo come siluri in un posto discreto, lontani dagli sguardi degli sbirri e dei carramba. Non lo so, avevo
manie di persecuzione, forse, ma avevo un presentimento.
Sentivo che me la volevano mettere in culo. Immaginarsi uno
col muso spaccato e il naso sanguinolento. Era un bersaglio
troppo facile: rissa. E buonanotte ai suonatori.
Cinque minuti, ed eravamo lungo la Conciliazione a discernere di architettura. Composti e sereni come professori
universitari con mano sotto il mento e sguardo concentrato.
Si blaterava sulla sistemazione di quella cazzo di via che finiva
in bocca al Vaticano. C’era Bertowsky, un po’ Bernini, un po’
Schopenauer, con in bocca le seguenti dichiarazioni da perfetto ebbro: “Quel colonnato non s’aveva da fare e quella dimensione un po’ divina della facciata della cattedrale è davvero fuori di testa”. L’unica mia idea era che ’sta Conciliazione a
Roma c’entrasse come una fava nel panino.
Daniel andava tutto sobrio. Era molto tranquillo, aveva
avuto il sangue freddo di procurarmi con scuse barbine e penose del ghiaccio dentro un bar di infima serie. Il barista era
l’uomo più impiccione di tutti i tempi e montò un interrogatorio da Stasi. Dani fu assolutamente brillante e parlò di una
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fantomatica distorsione. Sentivo che aveva conservato integre
le sue risorse per la madre di tutte le sbronze more later. Fui
messo al corrente che, davanti alla basilica, Leira e il Bertowsky
avevano iniziato a lanciare monetine e cubetti di pietra contro
il presepe, e che si erano messi a bestemmiare davanti a un
gruppo di monache, e che poi avevano assegnato dei punti
alle varie statuine del presepe e tutte quelle che venivano abbattute rimpinguavano un monte-punti che decretò una vincitrice assoluta: l’idiozia. Insomma la voglia di conversione
era stata sconvolta dal tasso alcolico e Rossy e Daniel non fecero altro che fingere di non conoscere i due vandali.
Tutto mi scivolava addosso, Roma, gli amici, Chiara, il
manigoldo. Volevo scoppiare, come un palloncino. Ero talmente depresso che mi sarei tranquillamente buttato nel serpente di cacca del Tevere, se non avesse chiamato Hoda. Leira,
con due informi occhi etilici, mi piantò tra le mani il suo bel
cellularino squillante, sentii la vocina di Hoda. Fu tutto molto
chiaro: il mondo mi sorrideva con tutti i suoi centomiliardi di
denti.
Eddaicchebbello!
Pensavo per la prima volta dopo Chiara a una ragazza con
occhi, mani, gambe, capelli e cervello. Sentivo qualcosa che
forse era innamorarsi: pompare fuoco dentro una motrice a
vapore, gettare carbone infuocato con la Transiberiana a centocinquanta, spaccare un pomeriggio invernale con una sbronza di cognac, prendersi a sonore sberle per non pensare a lei,
ascoltare With You or Without You con il cuore gonfio.
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Capitolo 7
STAIRWAY TO HEAVEN
Hoda
Non passai un grande capodanno. Vidi il cielo di Gerusalemme illuminato dalle girandole infuocate in una minuscola
televisione. Roma non era la stessa cosa, ma avevo la segreta
convinzione di trascorrere quella serata in casa dei miei compagni di collegio assieme a Franz. E già, perché quella di Franz per
me fu una storia lunga e mortale, le provai davvero tutte per
poterlo conoscere. La prima volta che lo vidi fu in una manifestazione di piazza. C’erano dei centri sociali a protestare contro
il governo italiano a piazza del Popolo e dintorni, mi trovai lì
per caso con alcuni amici francesi, che mi dissero che era meglio
stare alla larga.
Uno dei poliziotti credendoci della manifestazione ci puntò.
Aveva un casco azzurro e si muoveva dalla schiera di militari
presa di mira da un lancio di pietre. Si staccò assieme ad altri dal
gruppo e andarono a colpire direttamente i ragazzi che li fiancheggiavano. Non tutti facevano parte della manifestazione, c’era
un equivoco. Ci puntò, venne spontaneo a tutti scappare, ma
quello ci inseguì. Rimasi in fondo alla comitiva, avevo scarpe
strette, mi raggiunse e mi prese per un braccio. Lo strinse, me lo
girò, ancora non so che voleva, sentivo un dolore cattivo, finché
non arrivò Franz.
Fu lì che lo vidi per la prima volta. Urlò “lasciala stare!”,
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quello mollò la presa e andò verso Franz alzando lo scudo di
plexigas. Franz aveva un mattone e lo scagliò contro lo scudo,
poi fece uno scatto incredibile, come una pantera svanì. Mi ricordo il berretto da cui uscivano dei riccioli chiari, una sciarpa
verde e arancione sul viso, ma soprattutto lo sguardo; l’avevo a
due metri e credetti di non rivederlo mai più. Lo rincontrai tre
mesi dopo a Tiburtina, aveva sempre quel berretto scuro di lana,
i riccioli biondicci gli uscivano sotto. Sembravano finti, ma ora
aveva un viso sotto quegli occhi neri, era un viso spigoloso, smunto, quello di uno che aveva fame, uno che faceva il barbone, era
lì in mezzo a dei poveracci che mendicavano, suonavano qualcosa di carino, mi pare fosse Stairway To Heaven dei Led Zeppelin.
La gente era generosa e dava soldi.
Ero sempre di buon umore perché volevo conoscerlo, ero di
buon umore perché ero sicura di conoscerlo, ma ero terrorizzata
di non piacergli. Così un giorno gettai la maschera, dimenticai i
miei scrupoli, lo seguii per tutto un giorno, lo vidi sbronzarsi, lo
vidi confabulare da solo, gli vidi fare cose assurde. Non fu normale da parte mia strapparmi dal collo una collana stupida d’argento. Me l’aveva data un tipo che mi faceva filo dal primo giorno che ero in Italia, ma non era una persona interessante. Cercava di fare colpo con questa roba, mi aveva regalato addirittura
il cellulare, un piccolo cercapersone, un completo di raso rosso
corto come un top, un costume da bagno e un’infinità di monili,
tra i quali questa collana. Fu l’unica cosa che accettai e fu la
prima cosa che immolai per Franz, non appena me lo vidi dormire affianco in metro non pensai un attimo e me la strappai.
Mi chiamò la notte di capodanno, pensai che si era avverato un
miracolo. Gli ero piaciuta e avrei dovuto fare io la mossa successiva, telefonai e ci demmo appuntamento a Trastevere. Per me
fu come il Paradiso.
Con Hoda ci demmo appuntamento a Trilussa, una birreria di Trastevere. Il lato geniale dell’idea era che a Trastevere
tutto si chiamava Trilussa, dai ristoranti di lusso ai ciabattini.
Non essere sobri, non aiutò. Ci perdemmo e ci ritrovammo
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una buona decina di volte. Come bambini dell’asilo qualcuno
scompariva per poi riapparire con l’espressione frastornata di
un moccioso lontano dalla sua tettarella. Finché non riuscimmo a rimanere compatti intorno alle undici. Eravamo tutti
sbronzi, tranne Rossy. Tutti! Anche Daniel ci aveva raggiunti
nell’empireo etilico, dimenticando ben presto il suo voto. E
non fu cosa buona e giusta, perché uno in palla ci sarebbe
servito. E invece Daniel era lì impellicciato, con l’espressione
rimbambita della sbornia. E giusto giusto quella sera poi doveva imitare Robert De Niro nella scena immortale de Il cacciatore quando corre nudo. Dicono che è un film di destra Il
cacciatore, dicono che Michael Cimino era un fottuto guerrafondaio, dicono che Robert De Niro credeva veramente che
quella pistola nella roulette russa avrebbe sparato. Dicono un
sacco di stronzate.
All’appuntamento Hoda si vide arrivare: un uomo nudo
che correva e seminava vestiti, Rossy impassibile che dietro li
raccoglieva come una robivecchi, una ragazza con la bocca
putrida di sangue coagulato e Bertowsky con una parrucca
viola rimediata a Torre Argentina.
Hoda non si scompose, e dopo averle presentato i miei
guitti, andammo in un posto assurdo dove si mangiava fino a
morire, pagando solo ventimila lire. In quella situazione diedi
il peggio di me stesso. Hoda faceva l’astemia. Cosa negativa.
Già con Chiara mi ero sorbito pallesche paranoie sulle mie
sbronze. Non ero dell’umore di bermi anche quelle di Hoda.
Cercai come prima sera di controllarmi, bevvi nella prima
mezz’ora un solo bicchiere di vino bianco, San Gimignano,
fresco, con un’entrata felicissima. Non ce lo aprirono davanti
e questa non fu cosa buona e giusta, ma quel vino aspro, nettare lieve e gentile sul palato, fece scalpore e ne ordinammo
ben cinque bottiglie, quasi una a testa. Hoda mi fissava mentre mangiavamo i fagioli, le farfalle ai carciofi e le linguine con
la panna e la mortadella.
Era più rossa e fulva della prima volta che l’avevo vista: il
capello, ritoccato con la lacca piuttosto che con il gel, si rigonfiava e dava maggiore spicco ai riflessi ramati; il fisico era
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ingollato in un aderente vestito scuro che si apriva a palloncino sulle ginocchia, portava calze di lana e anfibi. Era vestita
totalmente fuori di testa.
Hoda aveva un solo difetto. Parlava troppo. Parlava a raffica di tutto con tutti, non stava mai zitta. E il sottoscritto non
disse quasi niente. Quando finì la serata e ci lasciammo a Termini non avevo il minimo dubbio di come fosse andata la serata. Lei era felice e contenta come in una fiaba e salì trionfante nel suo bel taxi-zucca con un sorriso a cento denti. Noi ce
ne tornammo con il 60 notturno. Hoda addirittura nel tragitto sino a Termini osò esprimere pareri positivi su quella manica di ubriaconi e perdenti che eravamo. Disse che eravamo
simpatici. Ma se avesse saputo che Leira masticava un orecchio umano e Daniel correva nudo tutte le sere che si sbronzava, avrebbe espresso pareri meno lusinghieri.
Sul pullman scatenammo un clima da gita scolastica; Bertowsky e il sottoscritto intonarono Bella ciao, un tedeschino
con occhiali tondi, fintamente assopito, in cerca di guai, scioccamente, fischiettò e canticchiò la Wacht am Rhein. I coglioni
mi girarono a più non posso, sicuro della disparità di forze in
campo lo burlavo da lontano. La rissa nazionalista si sfiorò a
ripetizione fino a piazza Bologna dove salirono delle Teste
Glabre che conoscevo troppo bene. Erano tipi di corso Trieste che facevano la ronda contro i marocca, i mangiabanane, i
negroidi, le battone, i finocchi ma soprattutto contro gli anarcoidi italici e parassiti come me. Più di una volta mi ero visto
arrivare queste squadre di fascisti nel cuore della notte a Tiburtina a provocare personcine per bene come Damiano,
Mauri e ovviamente il sottoscritto. Era meglio starne alla larga, erano coperti da certi polizei e avevano dato fuoco a una
ragazza moldava che batteva. Questi sgamarono il nostro canto partigiano. Ricordo solo il sollievo col quale li vidi salire,
mentre noi ci lanciavamo tra le porte che si stavano chiudendo. Facemmo gesti irripetibili. Le TG dentro il pullman sbraitavano e urlavano come tigri affamate in gabbia.
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Capitolo 8
ADDIO RAGAZZI DI VITA VIOLENTA
A casa non riuscivo a togliermi le scarpe. Per il terrore. Per
la cacarella-fischia dei fasci. Avevo stivali di pelle beige griffati
El Charro dritti dritti dagli anni Ottanta. Li avevo grattati a
Porta fottiiltuoprossimo Portese.
Il trucco per rapinare la gente al mercato di Porta Portese
è vecchio quanto il cucco: si finge una rapina e si inizia a correre. Solitamente è un lavoro che si fa in tre. Uno davanti fa il
ladro, un altro, poco più dietro, fa il rapinato, un terzo finge
di parlare con la polizia al cellulare. Quando si corre e si scalcia
nella calca capita che qualcuno venga fatalmente risucchiato.
Così il finto rapinato ficca le mani in tasca del malcapitato
passante, sfruculiando e rapinando tutto quello che c’è. Ovviamente a Tiburtina non eravamo mai in grado di compiere
queste complesse operazioni, né di fregare la gente al gioco
dei tre campanellini, altra istituzione di Porta fottiiltuoprossimo Portese. Eravamo sempre troppo sbronzi, così l’unica cosa
da fare era sgamare le bancarelle di cappelli, scarpe, occhiali
da sole, magliette. Un giorno me ne tornai vestito da cow-boy
con gli stivali, un cappello a larghe falde e un gilet. Ero contento come Pinocchio nel paese dei balocchi. Un po’ meno il
proprietario legittimo della suddetta roba, inferocito a caccia
della pellaccia di memmedesimo.
Terminata l’operazione con gli stivali, mi infilai in un angolo, dietro la cattedra a tre gambe mi misi a sfogliare “Latex”,
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una rivista fetish regalatami, a sua insaputa, da un edicolante.
C’era una roscia pazzesca con delle gambe coperte da una
calza nera e una giarrettiera di pizzo celeste, ma sul più bello
sentii un confabulare alto, poi dei vagiti, infine un breve silenzio rotto da dei lamenti. La brava e bella Leira si era messa a
singhiozzare sola e il suo compagno dopo un laconico ciao a
tutta la truppa, se l’era svignata chissà dove. Non c’era bisogno del premio Nobel della chimica per capire che qualcosa
di grosso stava per esplodere. Il pissi pissi del giorno prima
tra Leira e Vernon era stato da pochi nanosecondi rinfacciato
alla nostra damina bianca. Bert l’aveva scaricata e si era andato a sbronzare in solitaria senza avvisare il suo migliore amico.
Bertowsky tornò a notte alta da chissà dove. Arrabattò le
sue cose. Poi mi fece una faccia per dire, “ho da raccontarti”
e io feci la stessa espressione come per dire che avevo capito
tutto. Ora avevo un solo desiderio. Farli smammare a rotta.
Tutte quelle faccende mi avevano davvero messo di cattivissimo umore. Berty mi tirò con lo sguardo verso il suo sacco a
pelo. Si lasciò cadere e rimase a terra, vicino al ragnetto che lo
aveva terrorizzato solo la sera prima. Non aveva più paura,
era fermo con lo sguardo fisso nel vuoto, Daniel e io lo guardavamo, sembrava piangere senza lacrime. Mi sembrava tutto
terribilmente chiaro. In testa gli stava montando un rancore
sordo e allucinato. Che fine avessero fatto le lacrime di Bertowsky anarchico paracomunista, fautore della strategia della
tensione delle molotov, ma dal cuore dolce come una caramella, era davvero troppo chiaro. L’amoreodio per Leira gliele aveva asciugate tutte, Rossy pace a lei, buona come il pane,
era in ginocchio a tenere la fronte della contessina.
La partenza di tutti e quattro fu la cosa migliore per il sottoscritto. Avevo un fottio di tempo in più da dedicare alla ricerca e lo stanamento di Hoda.
Quando caricai i quattro matti sul treno, cominciai a fare
mente locale e tornare a essere un cittadino modello della
Tiburtina-bene.
Avevano trovato due barboni morti per il freddo. La gente
stava capendo che, quelli morti, erano barboni che stavano a
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Termini; così le Fs e il comune in piena crisi di coscienza, con
il panettone di traverso, avevano deciso di disporre un locale
per i vagabondi. Tutti a Tiburtina erano sulle spine, la maggior parte sperava di cambiare aria e andare a Termini nei
locali riscaldati a spese del comune e del governo italiano. Il
sottoscritto, conoscendo come funzionavano le cose in Italia,
non si illudeva molto di questi demagogici locali riscaldati che
in un futuro, non molto lontano, sarebbero diventati fantomatici.
4 gennaio 2000
Intanto un giorno mentre tornavo a fare il mestiere di sempre, vidi Mauri e Oblomov. Mauri aveva il viso terreo,
Oblomov era fuori dalla 127. Non era cosa buona. Stavano
entrambi vicino alla fermata del 492 e parlavano concitatamente. Mauri scuoteva la testa con quei pochi capelli che aveva, sembrava la capocchia di un burattino. Oblomov era perso, aveva lo sguardo smarrito e svuotato. Mi avvicinai per chiedere cosa fosse successo.
“Hanno trovato un barbone morto…” disse tremante
Mauri.
“Lo sanno tutti” feci.
“Carbonizzato” precisò Oblomov. Questa era una novità.
“Lo conoscevate?” chiesi incuriosito.
“Forse era Damiano” riuscì a malapena a dire Mauri e scoppiò in un pianto straziante.
Mi sentii il cuore congelare, come un calcio nello stomaco,
mi venne meno la terra sotto i piedi e mi accasciai a terra. Mi
trovai col culo freddo sul marciapiede, Oblomov cominciò a
raccontare impassibile che nella sera di capodanno erano stati
dati alle fiamme numerosi cassonetti della spazzatura. Dentro
uno di questi c’era un uomo di cui non si capiva l’età, che
dicevano che era un barbone, che aveva nel giubbotto una
boccia di anice, che Damiano era scomparso da troppi giorni,
che i volontari della Cri dicevano che era proprio lui. Ebbi le
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prime lacrime quando mi dissero che era stato trovato a piazza Istria, proprio dove abitava Miriam, cristo, Damiano si era
buttato sbronzo nel cassonetto per dormire. Perché era stato
così matto?
Il fatto mi sembrava impossibile, ma nel pomeriggio all’obitorio del Policlinico Umberto I sarebbe dovuto andarci qualcuno. In base a questo nacquero alcuni casini, in primis, la
grana Tarcy.
Nessuno aveva il coraggio di parlare con l’amico del cuore,
alias Tarcyrotante. Tarcy, quando non era fatto di metadone,
era una gazza irritabile e psicotica, capace di tutto. Ancora
era passato poco tempo da quando aveva sbattuto la testa contro la roulotte per la morte del suo cane. Dirgli di Damiano
sarebbe stato troppo.
Così ci recammo in una decina all’obitorio senza di lui. In
questa funebre processione di vagabondi c’era spazio solo per
il silenzio, nessuno aveva più la forza di piangere e nessuno
aveva ancora la forza di credere che Damiano fosse morto.
Assieme venne Hoda. Mi ero dimenticato che ci eravamo dati
appuntamento. Lei era tutta in ghingheri con un piumino bianco lungo, un cappello di lana grigia e i pantacollant neri con
stivaletti della Levi’s. Era la prima volta che saremmo usciti
da soli. Nella mia vita da nonbarbone la prima uscita con una
ragazza era un rituale perfetto. Non lasciavo nulla al caso, dalle
frasi da dire, al portamento con cui presentarmi, fino al posto
dove portarla. Oggi ero diverso, ero in balia degli eventi, ero
accattone e ancora di più.
Non fui troppo felice quando la vidi, mi beccò per caso
davanti alla libreria, ero nel posto sbagliato all’ora sbagliata,
l’appuntamento era mezz’ora prima al drugstore della stazione. Era alterata, pronta alla prebenda, ma quando le spiegai,
capì e pregò di venire con me. Non ci pensai due volte, acconsentii. Forse sbagliai. Nella mia vita avevo sbagliato tante cose,
ma ogni volta che facevo un errore, ero consapevole che quell’errore non avrebbe portato danni irreparabili. Portare Hoda
a vedere un mio amico diventato polvere mi sembrava davvero una grande cazzata.
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“Damiano un pezzo di carbone? Non è lui. Non può essere lui!”
Mi rassicuravo in continuazione. Mi scivolarono un sacco
di cose in testa, la mia memoria sembrava impazzita, vomitava di continuo le immagini della nostra amicizia.
Ricordi belli con lui ne avevo tanti. Il vizio in bocca, Le
ragazze della Gang Bang lo prendono dietro, furono i buoni
motivi intellettuali per cui ci eravamo conosciuti nel cinema a
luci rosse di via Tiburtina. Oppure i suoi assoli alla Jimmy
Page, sapeva tutto dei Led Zeppelin e di Eric Clapton, completamente delirante per la Joplin, aveva gusti che nessuno
più aveva. Una volta lo portai a un concerto dei Sud Sound
System e ci fumammo un cannone rollato con il “Corriere della
Sera”. Oppure quando vivemmo per qualche giorno in una
casa di cartone a cinque km dal raccordo anulare, e che quando la pioggia scendeva quei muri diventavano una pappa e
puzzavano di petrolio e noi avvolti di stracci ci abbracciavamo come bambine della scuola materna, lacrimando per il ridere e il freddo.
Tutti questi ricordi si accavallavano in testa, si fermavano a
quella dannata sera di capodanno, su quel canapé stileresole
di Miriam. Pensai che la colpa della morte di Damiano era
solo mia. Ero un assassino, avevo lasciato morire un amico,
che è ancora peggio di uccidere. Lasciare una persona al proprio destino è come torturarla, infischiarsene delle probabilità di salvarla, ucciderla sarebbe stata meglio. Mi ero lasciato
tirare dalla fata turchina Miriam, quella figa blu mi aveva distratto dall’unico dovere.
Al day-hospital, un portantino molto maleducato, vestito
con un camice celeste svolazzante, con fare scortese ci guidò.
Appariva scocciato fino al midollo e non faceva nulla per nasconderlo. Diede strada per un tratto dell’ospedale, eravamo
sempre barboni per lui, e ogni volta che passavamo davanti a
una medicheria o anche un bagno, chiudeva la porta. Poi ci
diceva di non toccare questo e quell’altro, non appoggiarci ai
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muri scrostati e grondanti umido e muffa, una paranoia dietro l’altra. Finché non arrivammo in un androne semi illuminato dove c’era un tizio in livrea cresima che chiese se c’erano
parenti o persone molto vicine. Non ci furono dubbi, tutti
indicarono me. Avevo una paura a fottere, non sapevo se il
mio cuore avrebbe retto. Il tizio in livrea fece segno che potevo entrare solo io, ma Hoda era troppo risoluta, sapeva quello
che voleva, si mise sotto il mio braccio dicendo una cosa bellissima: “Noi due andiamo insieme ovunque, anche alla morte dei nostri amici”. Il tizio in livrea, che per giunta assomigliava a Gastone Moschin, non capì immediatamente. Insistemmo, Hoda fece la parte della gattina tutte fusa osé. Occavolo che atteggiamento paraputtanesco, il tono della voce, l’ammiccamento degli occhi, la forma della boccuccia. Così il buon
Gastone chiuse un occhio, e fece passare.
Nel 1975 scoppia in Italia la mania Amici miei, un film che nel
corso degli anni avrà un seguito in due lungometraggi, rispettivamente
Amici miei atto secondo e Amici miei atto terzo. Mentre il terzo è una
pallida fotocopia di gag trite e ritrite, i primi due introducono nell’immaginario rincoglionito del popolo italico, la figura dell’antitaliano,
l’antipode del taraluccievino Alberto Sordi, il borghese medio che fa
di tutto per divertirsi, crudele all’inverosimile: supercazzole, truffe a
usurai e dottori, nessuna apertura al sentimento, corna, messe nere,
prese per il culo a vedovi, straniere e baldracche. Gli attori sono Philippe
Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete. Renzo Montagnani sostituirà quest’ultimo dalla seconda serie in
poi.
Entrammo in una stanza asettica che pareva una specie di
freezer, più da macello comunale che da ospedale, la temperatura era bassa, ma non fredda. Hoda divenne viola, aveva
appena intravisto, prima di me, quello che ci aspettava. Un
odore forte di ammoniaca trasudava dalle pareti della sala.
Troppo spesso di lì passava l’olezzo di nostra signora morte
per essere nascosta con il profumo dei disinfettanti.
Su una lettiera c’era una cassa quadrata di zinco, di quelle
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in cui si raccolgono le ossa, dentro avevo capito che c’era
Damiano. Era una sensazione troppo forte, mi sentii mancare
quando Gastone Moschin disse che dovevo dare un’occhiata
ai denti. Poi però pensai che non tutto era perduto. Per un
nanosecondo balenò un pensiero positivo rapidissimo. Tirai
così un sospiro di sollievo, pensai che almeno la testa fosse
rimasta, che non dovevo scavare nella cenere per trovare qualcosa di umano. Invece, c’era solo cenere nera, sembrava carta
bruciata. Poi un tronco che pareva il rimasuglio infiammato
di un maiale cotto due giorni nel fuoco. Le fiamme avevano
consumato i tratti del volto di Damiano, rimaneva un ghigno
giallastro incastonato in un cranio scuro sbriciolato. Il brillio
di un elemento metallico, come quello di un anello dentro il
buco che un tempo era un naso, mi rese tutto chiaro. Il
piercing, col suo anellino di ferro aveva resistito, il naso si era
estinto nella vampa e l’anello era rinculato dentro il cavo nasale. Rilasciai una dichiarazione di quello che avevo visto, la
scrissi a macchina perché era domenica. Gastone Moschin mi
guardava sorpreso che avessi saputo usare una macchina da
scrivere elettronica; poi firmai il foglio, il tizio in livrea pose
un timbro. Il certificato di riconoscimento era bello che fatto.
Era tutto troppo grottesco per essere vero. Hoda era seduta
su uno sgabello di ferro verniciato nero; era pallida e scarna, il
viola del suo viso spaventato pareva essere stato risucchiato
dalle occhiaie. Ora aveva borse violacee e ingrossate sotto gli
occhi rossi. Scuoteva il capo come per dire “non è possibile”,
tremò, bofonchiò qualcosa nella sua lingua e rimise. Vomitò
tantissimo. Nessuno si avvicinò per darle un bicchiere d’acqua o ripulire il pavimento dalla chiazza grigia di intestino. Il
portantino maleducato addirittura mi mise una pezza in mano:
“Lo sapevo che quella avrebbe vomitato, ora se sviene te la
porti a casa!”.
Presi Hoda, la portai lontano dalla morte. Quel posto era
la morte degli uomini, non solo la morte di Damiano.
In un bar, prese un tè al limone e poi scoppiò a piangere.
Rimanemmo abbracciati su una panchina del giardino nell’ospedale, l’odore della siepe, il brusio dei parenti che anda92
vano a visitare i proprio cari, il rumore fioco del traffico di
Roma proveniente dalle spalle dell’ospedale ci resero più calmi, più sereni, forse anche un po’ innamorati. Le baciai lievemente le labbra. Sapevano di limone. Lei fece fare e intrecciò
le sue mani piccole e sottili nelle mie. Ci baciammo tutta la
sera, in superficie come due adolescenti, non sentimmo altra
necessità che restare abbracciati lì, per tanto, anche per sempre.
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Capitolo 9
IMAGINE, IL REGNO UNITO E RABELAIS
23 gennaio 2000
Passarono oltre due settimane dalla partenza dei miei amici. Sembravo redento causa Hoda, e pareva finita tutta quella
faccenda fatta di sbornie a tutte le ore, di canne al silicone,
collette selvagge, risse ogni due minuti, montarsi in spalla tossici a rota, sgraffignare viaggiatori, sonnellini in mezzo a cani
pidocchiosi, cacciare la lingua in bocca a compagni di sbronze e tanta, tantissima fifa di andare a spasso con carramba e
polizei.
Sul fronte-Damiano la magistratura aveva fatto il suo dovere lavandosi allegramente le mani, bollando il fatto come
morte accidentale e tornando alle solite occupazioni: le querele tra vip e giornali, gli sgomberi di stazioni e centri sociali,
le indagini su detenzioni minime di sana erba originale.
Tarcy aveva superato lo shock con una spada, lasciandosi
alle spalle solo per un giorno il metadone amico dell’uomo.
I famosi locali di Termini adibiti per i senza tetto, diventavano sempre più un’incongruente leggenda. Ogni giorno il
governo stanziava miliardi e promesse demagogiche. Ogni giorno crepava un barbone. Ogni giorno enti pubblici promuovevano una sfilata di moda con altissime modelle adolescenti.
Quasi per una terribile legge del contrappasso ogni giorno
una ragazza sprovveduta e malata veniva violentata e lasciata
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in fin di vita. Una tipa, che faceva l’accattona a Porta Pia, era
stata violentata e uccisa da una decina di uomini di nazionalità non italiana. A causa di questo, si era ufficialmente aperta
la caccia all’uomo. Nella parte dei cacciatori: le Teste Glabre,
alias i fascistoidi.
Il delitto era stato mostruoso; una decina di slavi puntarono questa tossica fuori di testa che andava in giro credendosi
la madonna. La conoscevano in molti questa tizia, completamente matta e strafatta di metadone migliore amico dell’uomo. Girava con tre giubbotti e un fitto strato di pantaloni e
pantacollant, gonne sgargianti e una busta dove si portava dietro il resto dei suoi stracci che non le andavano addosso. Se le
parlavi quella blaterava di essere ora la Madonna cristiana,
ora la pop star Ciccone in arte Madonna. Dava stupefacenti
descrizioni di un concerto a Torino nel settembre del 1987 o
sosteneva di apparire a certi trippati come lei.
Le fecero un servizietto degno di Arancia meccanica. Fu
uccisa con un blocco di cemento. Il corpo, irrigidito e freddo,
divenne oggetto di un turpe gioco al massacro. Fu violentata
e orribilmente incaprettata. Al mattino, lo spettacolo dei suoi
resti aveva creato scalpore, i giornali romani ne avevano dato
risalto nelle pagine di cronaca nazionale. Era l’agognato pretesto per il ritorno in pompa magna delle TG. A Tiburtina in
molti cominciarono a battere i denti. E non solo per il freddo.
Bisogna essere vittime e un po’ rottinculo a ricordare sempre
le stesse faccende di skin, statoitalianofedifrago e violenti. Ma
qui c’era sul serio da stare in campana, al diavolo davvero le
primepagine strillate del “Giornale”, i salotti televisivi con
quattro battone in divisa-scioglipalta, i cossigavespadellutri,
l’inflazione al 2,5 percento, la privatizzazione dell’Enel e lo
sdoganamento del conflitto d’interessi. Cazzo, c’era una fogna a cielo aperto, un universo infame di pidocchiosi esseri
mortali, in costante ricerca di metallo prezioso targato zecca
di Stato. C’era questo popò di morte in pectore, criminali che
stupravano e ammazzavano la nostra Madonna, un fiume di
disperazione troppo pesante da essere raccontato. E tutto sembrava uguale, ogni giorno spiaccicato all’altro.
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Qualcuno questi problemi non li aveva più. Oltre quindici
miliardi di lire, spillati a milioni di avidi beoti, erano finiti,
causa lotteria, nelle tasche di un fortunello davvero sfacciato.
L’esimio tagliando era stato venduto proprio nell’edicola di
Nostra Amata Stazione. Primo indiziato di tale bendidio fu
Mauri. Erano dieci giorni che non si vedeva più in giro, un
serio indizio di colpevolezza. E poteva trattarsi di un miracolo, lo stesso che aveva convertito il nostro durante la lavanda
dei piedi papale. Poi senza nessun apparente motivo, qualcun
altro aveva messo in giro la palla assurda che il vincitore della
lotteria fosse stato niente meno che il sottoscritto. Ben presto
questa panzana divenne insopportabile, tutti mi ronzavano
addosso e nessuno mi lasciava in pace. Così iniziò un periodo
nel quale tutti si sentivano in diritto di chiedermi un prestito
o un favore, tutti mi facevano sorrisi e sguardi come per dire
sappiamo che sei stato tu.
A mio avviso i soldi li aveva vinti per davvero Mauri, il
quale, da grande bastardo, aveva messo in giro la balla sul mio
conto. Indi, se ne stava bello che in giro con grappoli di femmine per qualche crociera fuori di testa.
La notizia dei quindici miliardi piovuti su Tiburtina coincise col mio imborghesimento. Andavo a spasso ripulito per
via di Hoda, mi piegai come un burattino di cartapesta ai dettami della sua legge. Così andavo con dei pantaloni scuri, una
camicia a righe, un cappottino di lana e cotone e altra robaccia
sulla falsariga dell’Emporio Armani. Prezzo: un Caravaggio a
Porta fottiiltuoprossimo Portese. Sembravo un giovane di
forzaporgimiilculo Italia, uno di quei figuri con il Nokia Genie e la tariffa tris, mamma, babbo e fidanzatina. Non perdevo un secondo per rinfacciare a Hoda la brutta figura che facevo andando in giro così: “Cosa diranno adesso che mi vedono a Tiburtina?”.
Ma ero troppo innamorato e così apparivo un sacerdote
della borghesia più spinta.
Una camicia mi cambiava agli occhi del mondo e per un
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povero cristo come il sottoscritto cominciò una grandinata di
rogne. Ed ecco che non potevi più camminare tranquillo per
strada con una sigaretta in bocca. Invece degli assistenti sociali e dei piedipiatti, ti sbucava qualche scroccone che voleva
una ciospa; ronzavi davanti a una libreria e un nero incazzato
ti rifilava un giornale; ciondolavi con l’aria svagata e ti piantava un pistolotto qualche testedigeova pronto alla fine del mondo. Camminavo sottobraccio a Hoda e si materializzava il paki
di turno con un fiorellino da cinquemilalire. Infine i rompicazzo di scientology in gran pompa dappertutto.
Se ne erano sentite storie strampalate su questi rompicazzo.
Dice che ti facevano fare un test, poi dicevano che avevi un
sacco di problemi, che dovevi fare degli esami, ma soprattutto cacciare fuori un sacco di grana. Raccontavano di lavaggi
del cervello e roba nazisimili; cosicché ogni volta che un qualche scientologico, travestito da yuppy jettatore, mi veniva incontro attaccavo con la solita solfa: “Ho già un sacco di problemi, non ne voglio uno in più”. E alla domanda quali problemi poteva creare chiacchierare con lo scientologico, rispondevo che la legge italiana organizza viaggi premio al gabbio
per chi cambia i connotati alla gente senza il loro consenso.
Così rispondevo anche ai testedigeova e a qualche scroccone.
Sfiorando sempre l’intervento ex machina di vigili e sbirri.
Insomma, solo qualche settimana prima un maglione peruviano e due occhi neri di sbronza mi rendevano un uomo libero di cazzeggiare per romacittàaperta, adesso ero ostaggio di
millenaristi e fondamentalisti di qualche setta, scrocconi e
compagnia cantante.
Roma a volte appariva un’accolta informe di certi straccioni
menagramo. Pareva giusto la palestra di una fine del mondo
eventuale, tragicamente sanguinolenta, ma sempre e solo eventuale.
In più, lavoricchiavo dentro un pub, facevo panini e dio
solo sa come. Il posto me lo trovò un amico di Hoda. Si chiamava Mirko, era un giovincello allegro e sfrontato, dotato di
grana, che aveva saputo investire bene i suoi danari. Si era
aperto un bel pub a un tiro di schioppo da Campo dei Fiori,
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alias zona di fighetteria selvaggia. Si lavorava da matti e ti pagavano cinquanta carte a sera. In più, capitava che qualcuno
mollava una mancia.
Non era il massimo, ma per Hoda, questo e tanto altro.
Nel locale lavorava anche Franco. Un personaggio ambiguo,
poco raccomandabile, pettegolo con la vocazione a rilasciare
dichiarazioni compromettenti alle persone sbagliate. Col tempo mi riservò un amaro scherzo.
C’erano diversi tipi di panini in tema col nome del locale
(Regno Unito); c’era il Cardiff, con pomodoro, bacon e mozzarella; il Belfast con salsa tonnata, filetti di platessa e cipolle;
il Glasgow con cotoletta e funghi; il Dover con fontina e melanzane; il Manchester con salame affumicato e cetriolini; e
infine, fra tanti, il capolavoro, ossia il London che era anche la
specialità della casa: gorgonzola, uova sode di struzzo, pancetta piccante e ketchup alla paprika. Risultato. Se c’era una
cosa che più di tutto odiavo al mondo in quei giorni era Londra. Ma non perché odiassi la città del Tamigi e le sue belle
anticaglie da capitale europea, ma perché da quasi dieci giorni imbottivo panini London con pancetta e ketchup a ritmo
industriale. Ne avevo fino ai capelli. Così per la rabbia ci sputavo dentro o ci mettevo l’uccello come l’immenso Fight Club
insegnava, uno di quei libri talmente tosti che appena li finisci
ti fanno sentire un escremento sciolto sulla ceramica del tuo
amato water.
Il cliente tipo che chiedeva questa roba solitamente era un
single; il cliente tipo pesava più di ottanta chili; il cliente tipo
mangiava senza tovagliolo, strisciando i polsini della camicia
sul muso; il cliente tipo ordinava una mezzo litro alla spina di
Caesar, la più alcolica birra del mondo (15 gradi), conclusione: la maggior parte dei romani corrispondevano alle caratteristiche sopra elencate. Erano ciccioni single in vena di ubriacarsi di Caesar e mangiare quel dannato London.
Con tutto questo popò di lavoro non avevo tempo per
sbronzarmi, se non il mercoledì, ma quel giorno portavo Hoda
al cinema o a ballare alle feste universitarie. Indi. Buonanotte
ai suonatori. Solo oggi capisco che Hoda era una furba matri98
colata, con la storia del lavoro, mi aveva fatto smettere di botto di fare l’accattone, lo sbronzo e il pezzente.
Pantagruele e Panurge giunsero finalmente all’oracolo della Dea
Bottiglia. Panurge si accostò devoto, con circospetta ansia di commettere blasfemia. “Vorrei conoscere la parola da cui dipende il mio cuore, quella parola che mi toglierà la pena” dichiarò Panurge. E la Dea
Bottiglia tutta piena di misteri rispose “Bevete!”. La nobile pontefice
Bacbuc proclamò che con il vino si diventa divini.
Un giorno con Hoda facemmo una discussione strepitosa.
Una di quelle chiacchierate che si fanno con la sigaretta in
bocca, dentro le lenzuola stracciate, con ancora il sudore addosso di una santa-pruderie.
04.00 del mattino, stavamo per chiudere il locale. Io ne
avevo piene le scatole perché quella sera avevo subito la cattoironia di alcune ragazze con suora. Piemontesi, bizzoche, avevano quell’insopportabile accento da montanare tutto cantilenante e parlavano sempre di scuola. Fisicamente corrispondevano a delle liceali, mentalmente avevano l’aria di chi aveva
avuto seri problemi con lo sviluppo. Ogni volta che mi avvicinavo facevano un verso, come un fischio strozzato. Alla prima
e la seconda e pure terza lasciai perdere. Quando capii che ce
l’avevano con me, presi un bicchiere e lo ruppi a un cm dalla
madre badessasuperiora che rideva più di tutte. Alzarono i
tacchi e fuggirono a rotta. Così risposi male a Hoda quando
venne a farmi il milionesimo predicozzo da quando ci conoscevamo.
“Cazzo, ma non lo capisci che senza religione vivremmo
meglio? Non ci sarebbe quel casino che sta dalle tue parti.
Cristo, Maometto, Geova. Ognuno con in testa le sue idee, i
suoi principi. Maccheccazzo sono questi principi religiosi se
per questo devi ammazzare un altro, ma sbronzatevi tutti, dico,
sai che bello, un diluvio di vino invece che di acqua, al posto
dei quaranta giorni di piogge torrenziali, un delirio di Aglianico
dal cielo, oppure uno chardonnay glaciale da bere. Su questo
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edificare la nostra civiltà, la nostra tradizione. Immagina un
mondo fondato, senza ipocrisie, sopra un bicchiere semipieno
e bombato, guardarlo in controluce e dichiarargli: ubriacami”.
Appena finii ebbi la sensazione che Hoda non fosse rimasta entusiasta di queste parole.
“Ma come parli. Ma ti senti? Ma leggi i giornali? Siamo
tutti delle bestie come te?” disse Hoda mordendosi le unghie
e con l’espressione di una balia davanti a un moccioso.
“Conosco abbastanza, sono proprio curioso di sapere cosa
hai da dire. La conosci Imagine di Lennon? Immagina un
mondo senza nazioni e senza religioni, cristo… anzi cribbio!”
Credevo di averla sorpresa positivamente e le presi le mani
dalla bocca. Invece sembrò arrabbiarsi. “Se non ci fosse la
religione, ci sarebbe qualcos’altro”. Mi spense. Poi mormorò:
“Ma quando Damiano è morto, per un solo secondo, uno solo,
non hai pensato che poteva essere in un posto cen-to-mi-lavol-te-me-glio?”.
John Lennon muore l’8 dicembre 1980. Lo sanno tutti. Sanno tutti
che era il più geniale dei Fab Four. Sanno tutti che ha scritto le canzoni
più belle degli anni Settanta. Sanno tutti che l’ultimo album è Double
Fantasies. Sanno tutti che era l’unico cantante strafamoso e straricco
con un’idea sociale della sua professione. Lo sanno tutti, ma nessuno
lo ricorda. Vaffanculo discografici, Marilyn Manson ti odio.
Stavamo vicino alla saracinesca del pub, la buttai giù per
metà e provai a baciarla. Iniziò un discorso che aveva tutta
l’aria di essere molto serio, io invece avevo messo da parte
tutte le belle e brave discussioni profonde. Gettai gli stracci
con cui pulivo i tavoli, le passai la lingua sul collo e poi gliela
cacciai in bocca. Misi la mano tra le gambe: aveva una gonna
jeans con uno spacco laterale, sentivo il collant spesso e liscio
sotto la mano, poi una mano che mi allontanava. Lasciai perdere.
Forse l’avevo amareggiata. Avevo parlato di un argomento
troppo serio per lei. Troppo poco conosciuto dal sottoscritto.
100
Ricordo che quando morì Yitzhak Rabin ero in una pizzeria
con Chiara. Neanche sapevo cos’era Rabin. In quel locale non
ci fu nessuna reazione, nonostante i toni inequivocabili dei tg
che parlavano di “Tragedia della Storia”. Nessuno alzò la testa dal tavolo. Se avesse segnato l’ultima squadra del campionato ci sarebbe stato un boato, oppure un battimano, o almeno un brusio. Niente. Quante volte mi era capitato di leggere
il giornale e girare la pagina che parlava di Medio Oriente,
esattamente come quelle economiche e quelle scientifiche. Ora
ero costretto a pensarci seriamente. Causa Hoda il mondo
adesso aveva una forma diversa.
24 gennaio 2000
Tutto poteva succedere in quei giorni, ma non che mi arrivasse tra capo e collo un mio vecchio compagno di liceo: Alessandro. Si presentò alle cinque di pomeriggio, invadendomi
casa, niente meno che accompagnato da quel relitto di
Oblomov. Alessandro era arrivato a Tiburtina con un fuoristrada, un Terrano, irrompendo nella noia etilica di un pomeriggio invernale sporcato dalle luci appena accese. Una volta
parcheggiato tra i pullman, in palese divieto di sosta, aveva
chiesto di me allo sciame di gente che si era avventato sul suo
“catorcio” milionario. Spaesate, le mosche dell’anticapitale,
s’avventurarono in balbettii per nulla edificanti e ben poco
attinenti con il linguaggio appartenente alla seguente specie:
razza umana.
Il primo che si illuminò di un barlume di lucidità e si offrì
di condurlo nella mia grotta abusiva fu Oblomov. Intanto ero
in un momento incasinatissimo. Cercavo un indumento bianco da mettermi addosso, pena il linciaggio del mio padrone,
alias Mirko lo schiavista.
Alessandro fece regale ingresso e si buttò al collo dandomi
baci salivanti. Alla fine dell’abbraccio era come se sulla mia
faccia fossero passate una decina di bavose lumache.
Vidi che era in piena forma, i capelli ricci e neri, il viso
101
lampadato, gli occhialini azzurri e un sorriso stampato a mille
denti. La mia fretta gli fece rizzare le antenne. Ale sapeva tutto di me, le bocche di Dani e Bert non erano state quiete. Così
se ne venne dritto dritto al nucleo atomico della mia attuale
vita: “Ho saputo che sbavi per una topa!”.
Alessandro Bello: compagno di liceo, aveva avuto più storie lui di tutti noi della classe III D del Tito Livio messi insieme. Fu il primo ad avere la macchina e a usarla per scopi seri.
Insomma, niente stronzate tipo andare a fare i puttan tour.
Grazie a questo, aveva evitato spiacevoli inconvenienti come
quello capitato a Daniel. Il buon Dani, alle prese con Sabrina
milleforme, si ritrovò in allegra combutta nella casa della suddetta topa. In seguito al fugace servizietto manuale di Sabrina
si diresse al cesso per ovvie abluzioni. Dopo aver avuto a che
fare con saponi liquidi e asciugamani, candidamente rosa
shocking, tipici di un bagno per sole adolescenti (“Ti assicuro
non c’è nessuno in casa, sono sola, vieni, in camera ho da leggerti una lettera” aveva assicurato la dolce Sabrina), si andò a
sedere sul cesso per un ragionamento sui massimi sistemi. Una
volta seduto, si accorse di stare troppo comodo per essere alla
prese con la tazza di un cesso; poi avvertì come una spugna
pelosa e bagnata in corrispondenza del collo. E infatti stava
bello piantato sulla nonna di Sabrina milleforme con il muso
della vecchina addosso. La nonna, completamente rincoglionita, si era beccata l’ignobile scena del tramestio di Dani, e
in più, si era pure vista scambiata per il gran tarallo del gabinetto.
Ad Ale queste cose non potevano capitare; straricco, fanatico del gonzo, non sapeva che significava vivere con due vecchi rincoglioniti incontinenti (come Bert) oppure da orfano,
come il sottoscritto.
Il suo lavoro d’abbordaggio seguiva una prassi consolidata. Si caricava una topina diciassettenne; la riempiva di fiori e
caramelle, cioccolatini e bon bon al gianduia; la portava alla
Multisala di Casamassima, alla Baita di Torre Canne a mangiare pesce e vedere le stelle sul mare. Infine, cotta a puntino,
la portava alle Vasche.
102
Le Vasche erano desueti piloni dell’acquedotto pugliese a
cui si accedeva per tratturi non asfaltati. Chi si andava a imboscare alle Vasche era un privilegiato perché lì ci arrivavano
solo i Terrano o i Mitsubishi.
Così, dopo le prime uscite mielose, emergeva il vero animo
immondo di Alessandro. E la pupa, disperata del lento declassamento, diceva pressappoco queste cose: “Perché eri gentile all’inizio, mi facevi vedere tanti posticini romantici e stimolanti, mi davi le caramelle e ora andiamo solo alle Vasche?”.
Alessandro, forte delle sue prerogative, diceva una frase con
cui minacciava tutte: “Cara topina, però t’ piesce!”.
Traduzione: ti è piaciuto fare certe cose e vantarti con le
tue amichette brufolose delle stelle di Torre Canne e del fuoristrada, ora statti buona o saluti e baci. Ale però era un amico
sincero e uno con cui si potevano dividere i segreti. Astemio
figlio di puttana, andava matto per le robe sintetiche, possibilmente il sonic, che era una pasticchetta con sopra il simpatico folletto della Sega. Ne mandava giù tre a sabato sera. Il
programma prevedeva la prima dose per le 21.00, giusto per
essere brillanti in piazza. Poi alle 02.00 appena dentro la disco, poco dopo la tecno, mandava giù la seconda. L’ultima la
programmava alle cinque, per ripassare di stecca la escort di
turno.
Perché era qui, Roma Tiburtina, in Nostra Amata Stazione, fu ben presto chiaro. Aveva messo incinta una pupa che
non voleva sgravare il moccioso, ma aspettare i fatidici nove
mesi. Insomma, Ale era destinato bello e buono a essere padre. Era da me in piena fuga verso la vittoria di scapolo eterno.
Ma c’era altro da raccontarmi. Si vedeva lontano da un km
che aveva nello sguardo una brama guasta di dirmi o darmi
qualcosa. Il tutto emerse in sana e consapevole chiarezza quando mi uscì una lettera di Chiara. Silenzio imbarazzante, poi
assunse un cribbio contegno professionale e blaterò: “Ho parlato con Chiara prima di venire qui, ho saputo il fatto, e ti do
ragione”.
All’inizio non capii che il mio caro portalettere impiccione
103
stava parlando dell’orecchio mozzato. Presi la missiva, la piegai, e la infilai in tasca. Non era affatto cosa buona e giusta
leggere la lettera davanti alle orecchie e agli occhi di Alessandro. Poi connessi in fiocca quando disse: “Non credo a quei
due, Sandro vuole denunciare Bertowsky che gli ha staccato
un orecchio e Chiara dice che in verità è stata Leira. Caspita
Franz! Di tutta questa storia l’unica cosa da dire è che tu eri
una persona, Chiara ora sta con un pezzo di fighetto. Non sai
come la tratta. Si crede dio perché tiene una fabbrica di mobili, la porta a feste e cotillon solo per far vedere che lui sta con
quel pezzo di figliola”.
Appena disse così mi bollirono i nervi; pensai al calcio che
mi aveva sferrato venti giorni prima a Ottaviano, ero livido,
ma con un po’ di lucidità gli avrei fatto fare dei ragionamenti
sulla sua esistenza. “Senti cocco viziato della mamma, ho un
sottile prurito alle nocche della mia mano, me lo vuoi far passare con quel tuo muso bavoso?”. Così gli spiaccicavo un gancio degno di questo cribbionome.
La mia sega mentale lavorava, ma Ale raccontava.
“La tratta come un oggetto, ma io ho capito che Chiara
ancora ti vuole. Sta con quello per la grana, lui la fa divertire,
ma non può durare a lungo”.
“Lascia stare, Ale, non la conosci proprio Chiara, non è il
tipo di ragazza da farsi prendere dalla grana”.
Cercai bruscamente di chiudere lì il discorso. Mi strinsi la
fibbia degli stivali. Avevo una fretta cagna.
Ma Parlamidellatopa era una colonna sonora. In dieci minuti non avevo sentito altro dalla bocca di Ale. Molto gentilmente gli feci capire che avevo un superiore che mi controllava anche quante volte mi sgrullavo l’uccello e che dovevo stare a Campo dei Fiori entro le sei e mezza e che se non la piantava lui, la piantavo io con il lavoro. Quei miei cari amici a cui
mi ero affidato “mi raccomando non raccontate nulla di me a
nessuno”, avevano cantato un motivo troppo in voga in terronia: i cazzi miei. Ora ero costretto a sparlare delle mie vicende
ad Ale, alias il mondo intero.
Non potevo tenermelo sulle spine e così gli dissi di Hoda.
104
In due parole raccontai che ero rimasto sotto, che era stata lei
a cercarmi lavoro, che mi sentivo pretesco, ma che ero davvero troppo sotto. Dissi il tutto con un tono il più possibile rilassato, ma era evidente che ero un uomo travolto dalla fretta.
Ale sembrava non accorgersene e dopo essersi acceso una delle
sue Gauloises blu, si prese un sedile e si mise a narrare una
vicenda dai contorni lerci. “Franz, sto nella merda. Praticamente
ci nuoto. La tipa che ho messo in cinta è uscita di testa”.
La storia si faceva intrigante; mi poggiai sulla lavatrice senza cestello facendo fischiare il contenuto di bottiglie. Ci fu
uno sciabordio assordante, poi cominciai a sfogliare nervosamente il solito “Latex” interrogandolo: “Solita procedura con
il rimorchio?”.
“No, era un fottuto osso duro, non gli bastava mai. Si chiama Marta. L’ho dovuta portare una settimana in un villaggio
Franco Rosso a Gallipoli, tutte le sere la portavo in giro per il
Salento, ora a Otranto, ora a Porto Cesario, ci siamo girati
tutti i locali migliori della Puglia. Non mollava mai, cazzo”.
“Sputa l’età!”
“16”.
“Pedo!!”
“Pedo il cazzo! Aveva due meloni e un culo da 32 pollici,
una Monica Bellucci in miniatura, si trattava di farla crescere”.
“Che delusione, sei peggio di Boncompagni”.
“E chi è questo?”
“Un regista televisivo, mai sentito?”
“No”.
“Ti ricordi? Quello che faceva Non è la Rai”.
“Cacchio! Che non me lo ricordo? Quante seghe…”
“Miriana, Mary, Pamela, non mi far pensare… Comunque,
dicono che ebbe delle storie con alcune adolescenti. Una di
queste è la tipa di Sapore di mare”.
“La Rossellini?”
“No, la Ferrari”.
“See… allora vedi? Non sono solo”.
“Ok, ma tu non sei Boncompagni. Tu sei Alessandro Bello.
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Se vai con una sedicenne tu sei un pirla, lui un eroe. Che ti ha
combinato questa Marta piuttosto?”
“Mi faceva paranoie perché non l’aveva mai fatto e che la
prima volta voleva farlo senza liquirizia”.
“Perdiana, non avrai detto sì? Senza cappuccio no! Eccazzo!”
“Non fare il moralista. Il succo è proprio questo”.
“Allora? Ricapitoliamo. Niente settebello e hai dato lo stesso
di stecca? Ma scusami tanto, hanno proibito le pillole giù in
terronia?”
“No, era semplicemente contraria a tutti metodi artificiali.
Si era fatta tante pippe sui contraccettivi naturali, e alla fine
l’ho convinta a prenderlo dietro”.
“Sei un mostro! Hai inculato una bambina di 16 anni!”.
Ale non spara palle, pensai.
“Le ho detto che dietro si sentiva lo stesso come avanti e
non rimaneva incinta…”
“Porca puttana che orrore”.
“Ascoltami ecchediamine! Lei era tutta emozionata, se ne
venne con una gonna a fiori molto leggera e corta, un tacco
12, tutta profumata, i capelli neri sciolti, insomma era tanto
tenera… Così quella sera la feci sbronzare con un cabernet e
ci diedi di stecca alle Vasche”.
“Un classico della tua mostruosità. E poi?”
“Lei mi svenne dal dolore”.
“Perdio, scommetto che non hai usato…”
“No, non ho usato niente, perdio. Franz, non l’ho mai messo
su per il culo a nessuna, che cazzo ne sapevo che ci voleva
qualche lozione?”
“Ma scusa. Ultimo tango a Parigi perché lo hanno fatto?”
“Boh? Non so chi sono questi qua”.
“Lasciamo perdere. Si tratta di un film che ti sarebbe servito. Là insegnano un sacco di sozzerie. Comunque, mica si rimane incinta per questo!”
“Invece no, lei si offese a morte. Non rispondeva mai al
telefono. Una volta la incontrai e vidi che si muoveva tutta
disarticolata, tipo burattino, e lecca oggi e lecca domani riu106
scii a parlarle e mi disse che non si poteva sedere e non poteva
mettersi i 501 e non riusciva più a camminare dritta”.
“No, dai. Ma l’hai deformata a 16 anni, renditi conto! Sei
un mostro, ma che gente siete!”
“L’ho messa incinta lo stesso, lei ha un pancione che è grande quanto un televisore”.
E qui Ale presentò un rapido campionario di facce con
espressioni che andavano da lhofattagrossa al chissenefrega al
aiutatemisonofottuto.
“Che cazzo dici, se la sarà sbattuta un altro e per vendicarsi
vorrà scaricare il moccioso su di te”.
“No. Ho letto da una parte che quando fai del sesso in
quel modo c’è una possibilità su cento che la metti incinta,
perché c’è un collegamento fra i due siti”.
Ale spara palle, pensai. E fuma anche.
“’Cazzo parli? I siti?”
“Questo libro parlava così, dice che l’uomo può fecondare
anche in luoghi alternativi, perché comunque il corpo umano
è tutto collegato”.
“Che cazzo dici!!! Ma l’hai messa incinta con il pensiero?
Ma questa è proprio nuova! Un tizio che mette incinta con il
pensiero!”
“Non prendermi per il culo, è vero, il medico che l’ha visitata ha detto che è ancora vergine, ha il limene”.
“L’imene”.
“Quella cosa là insomma”.
“E se fosse stato il ginecologo a togliere il limene come
dici?”
“Che cazzo ha settantanni! Ora Marta è uscita di testa. Sta
rintanata in camera, ha le cuffie nelle orecchie tutto il giorno,
si sente musica metallara e fuma due pacchetti di Marlboro
rosse da venti. Se ne accende una dietro l’altra”.
“Non sarebbe il caso di parlare ai genitori della traviata?”
“Il fischietto! Il padre, tanto per essere allegri, vuole farmi
il culo”.
“Chi è il padre?”
“Sante Trisciuzzi”.
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“Lo sbirro?”
“Il prefetto”.
“Prefetto, prefetto?”
“Prefetto totale”.
“Oddio che sfiga”.
“Lo so, non mi far pensare… Ha fatto sapere che se mi
becca mi fa quello che ho fatto alla figlia… con un manganello d’ordinanza antisommossa”.
“Scusa… Allora la conosco questa Marta! Non ha 16 anni,
ne avrà al massimo 15! Peggio di come credevo, è davvero
una bambina”.
“Ma ha le tettone”.
“Lo so, Ale, ma era davvero ancora un fiorellino, porca
puttana. Un abortino? Neanche per idea? Con centomilalire
c’è Paolone che fa un lavoro pulito. Ne conosco di gente che
si è servita di Paolone”.
“Paolone il cazzo! Con i genitori che sanno tutto! Il padre
è un cattolico ultra praticante, poi la madre dice che chi abortisce durante l’anno santo muore”.
“Ammazza che manicomio. Forse è meglio che stai qui per
un po’”.
Gli indicai alcuni ostelli, perché tenerlo con me non se ne
parlava proprio, e ci salutammo con un bacio sulle guance.
Presi come un ladro il 492 senza farmi vedere da nessuno
in quel di Tiburtina. Era stranamente vuoto, così mi misi comodo in penultima fila, allungai le gambe sul sedile affianco e
presi la lettera di Chiara.
108
Capitolo 10
COMMUNICATION BREAKDOWN
“Ehi, ragazza smettila di fare ciò che stai facendo. Hey, girl, you’ll
drive me to ruin…” (Communication Breakdown, Led Zeppelin). Led
Zeppelin è il primo album del gruppo. Esce nel 1969, ed in questo lp
troneggia la Les Paul di Jimmy Page, la furia di Robert Plant, e il formidabile drive di Bonzo Bonham. È un misto di rock psichedelico e
blues che manda in estasi il pubblico americano, primi spettatori di
una tournée Zeppelin. Pochi mesi dopo esce il volume secondo, Led
Zeppelin II, con il capolavoro Thank You.
…Ti prego, torna te stesso, vieni qui. Anche se oramai ho
un’altro affianco, noi possiamo ancora essere persone civili che
si parlano. Non credo nell’amicizia dopo una storia molto lunga
come la nostra, ma a un rapporto civile sì. Devo confessarti
una cosa. Una volta al mese vado a lasciare una rosa sulla tomba di tua madre. Pensa come sarebbe felice tua madre se quel
gesto lo facessi tu. T.v.b., sappi che qualunque cosa farai, posso
aiutarti.
Tua Chiara.
Di tutta la serie di emerite frescacce e paranoie morali queste ultime righe furono le più decenti. Quando terminai la
lettera mi era salito un groppone in gola. Mi ero ritirato come
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una murena sul sedile, con un braccio tenevo le gambe piegate. Mi sentivo teso come la corda di una chitarra. Mi erano
piovute in testa tutte le immagini del mondo mio e di Chiara:
i vetri appannati della sua Cinquecento, i cinema di pomeriggio, le prime pomiciate durante l’occupazione del ’94, le nargiate insieme quando si andava col mio Si scassato su per i boschi di Palese a farci le canne e le pruderie. E poi Chiara mi
aveva fatto scendere le lacrime, al solo pensiero di vederla
davanti al sepolcro di Imma. Tutta questa emozione mi passò
non appena vidi i capelli biondi di Chiara sul petto nudo del
manigoldo.
Mi sentii distrutto. Dovevo lavorare tutta la sera e non ne
avevo la forza. Entrai in cucina alle 19.00, in ritardo, e con
paranoia del principale. Per punizione mi mise a lavare a terra
mentre il mio collega, Franco, stava a fumarsi una Chesterfield
in faccia al mio olio di gomito. Ero piegato in due con uno
straccio grigio e passavo litri di lisoform; Franco mi guardava
e sorrideva; sembrava agitato, quasi schizofrenico, ma sorrideva.
Chiara aveva ragione, io ero una merda e Sandro era nel
giusto. Lui aveva fatto il suo dovere. Io no. Lui se l’era sukata
quando era isterica e incazzata, magari anche anoressica o
bulimica. Io no. Quando mi misi con lei la filai in una gita di
liceo, quando si ha la testa vuota, quando si pensa a marinare
la scuola, quando si pensa a tirare una canna furtiva in bagno,
quando si pensa al torneo di calcetto, a falsificare le firme, alle
seghe, a scrivere sui muri, a limonare con le ginnasiali, a occupare la presidenza, a portare le camicie a quadri Casucci, a
bere chinotti pisciati di cognac…
Franco continuava a guardarmi. Era alto, per nulla magro,
con una ciccia superba al posto degli addominali. Diceva cose
insensate, tipo che doveva comprarsi una custodia di caucciù
per il cellulare, che in Germania ci sono i condomini con le
mignotte vestite da tope far west e che in Giappone avevano
inventato i cani elettronici. Poi scoppiò in un pianto dirotto.
D’un tratto gli era venuto uno sguardo disperato. Fece una
smorfia, e quasi mettendosi in ginocchio, implorava di dargli
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un Caravaggio per farsi una pera. Ma guarda questo! Direttamente da Torbellamonaca, la patria dell’eroina capitolina, veniva a domandare al demonio l’acqua santa. Ma non ce n’era.
Una volta a terra cominciò a rotolare come un maiale al macello, poi mi bestemmiò e fece che, se non lo aiutavo, mi tagliava la gola con il temperino. Gli mollai un cazzotto in mezzo al grugno, e quello giurò di farmela pagare mentre era tutto uno sputacchiare saliva, sangue e denti. Arrivò Mirko e disse che faceva sempre così, “che tra un po’ gli passa, ci ho un
amico che era un tossico veramente, uno di quelli con le vene
implose, e che per farsi si buttava nella vasca da bagno per gli
schizzi di sangue nero dappertutto, e che ci aveva un sacco di
malattie micacomequestocretino”.
Franco mollò tutto lasciandoci con uno sguardo che faceva paura, gli occhi di fuori, con i capillari incisi.
Lo spacciatore migliore amico del tossico aveva fatto subito. Franco era tornato in lui dopo un’ora e una pera che si era
procurato dal fedele distributore. Completamente cambiato.
Parlava tutto tranquillo, sembrava un uomo in pace. Potenza
delle spade di eroina. Si esprimeva in termini colti e desueti,
spiegava che quando non era sotto “l’effetto sedante degli
oppiacei” diventava una bestia. Ma adesso, adesso stava davvero bene. Allora mi entrò in simpatia e, non so come, uscirono tanti fatti che ci raccontammo: tutta quella faccenda delle
collette, il costo del vino in cartone, quanto tempo ci voleva
per farsi una pera, che una volta le diedi di brutto a uno sbirro. E lui disse perdavvero?, e io mi vantavo e dissi che durante
una carica della polizia, ci avevo dato dentro contro i piedipiatti. Più raccontavo e più lui sgranava gli occhi, più lui sgranava gli occhi, più mi gonfiavo. Passammo il tempo fino alla
sera a mangiare patatine fritte riscaldate con una mostarda
americana che nessuno voleva.
Il vino in cartone viene venduto in larga scala nella metà degli anni
Ottanta. Come il vino in polvere e il metanolo, rappresenta l’ennesimo
colpo all’arte dell’imbottigliamento. Grazie a questo, ci si può sbronzare
a buon prezzo. Oltre al vino Tavernello che presenta una discreta va-
111
rietà (per il rosso usano il sangiovese e per il bianco il trebbiano), ci
sono marche a costi ancora più modici. A sole 1900 lire si possono
comprare i rosati di Ripatello, 50 lire in meno c’è il Castellino che regala anche le videocassette sui grandi numeri 10 nel calcio. Infine il meno
costoso è il Supremo, lire 1800.
112
Capitolo 11
MARLEYDAVIDSON
Nel 1971 i Led Zeppelin suonarono a Milano. L’ordine pubblico
viene subito sconvolto. Dopo l’esecuzione di Black Dog, i polizei entrano in forze nel velodromo Vigorelli, per riportare la calma in una
bolgia di giovani scatenati. Vengono sparati i lacrimogeni, Plant invita
i giovani a soffiarci sopra per dissiparli, i piedipiatti caricano con le
jeep anche fuori il velodromo. Il Sessantotto non è ancora finito. I Led
Zeppelin compaiono anche al Cantagiro, in quella puntata tutti i cantanti che si esibiscono prima di loro vengono seppelliti dai fischi. Chiedere conferma a Gianni Morandi.
28 gennaio 2000
La notte facevo sogni monotematici. La scena era sempre la
stessa: una ragazzina distesa su un letto, con la coperta sintetica
dei Simpsons, con i Metallica nelle orecchie, una Marlboro in
bocca, e il padre nudo in giro per casa con uno sfollagente
enorme.
E questo uomo trasfigurato da una rabbia schiumosa minacciava Ale facendo battere sul palmo l’enorme attrezzo.
Due poliziotti in borghese prelevarono da casa Ale alle tre
del mattino e lo condussero in una stanzetta rotonda e poco
illuminata; al centro vi era un inginocchiatoio di noce sul quale fu fatto accomodare; un uomo dotato di un manganello cominciò ad armeggiare attorno al culetto di Ale che fu ben presto scoperto fra gli ululati di gioia degli astanti…
113
Di giorno, immaginavo scene di film sado-maso, con
poliziotte alte e snelle in guêpière e cappello d’ordinanza che
incoraggiavano la sodomia del prefetto “totale” su Ale. Un
giorno, mentre lavoravo risi ad alta voce. Franco voleva sapere. Non dissi nulla e gli feci soltanto un sorriso ebete, perché
era più pettegolo della commara Tella Tella. Parlava a monosillabi, ma quando si trattava di sparlare sotto effetto di hero
era una macchinetta velenosa spargi-fandonie.
Quella sera però ne successero davvero a mazzi.
Hoda venne a farmi una visitina in cucina. Andavo agghindato con una maglietta bianca sottile e volgare, unta di London,
la mia mitica sciarpa verde-arancio con su scritto Marleydavidson legata al collo causa fottuta raucedine da fumo. Utile segnale che in questo mondo la nostra generazione è più
unita dai gadget che dai contenuti dei propri status symbol.
Quella generazione che sbava per una moto americana da trenta milioni, è la stessa che ascolta il reggae e si fuma l’erba
albanese.
Hoda era di ottimo umore e cominciò a darmi baci e carezze. Portava un jeans nero stretto e un maglione di lana color
perla. Le spiegai che non era tempo di sante pruderie e mentre lo dicevo le avevo già cacciato la mano sotto il maglione ed
ero inquieto come una scimmia. Per assumere un decoroso
contegno cambiai argomento e chiesi se era venuta sola. Mi
scosse la testa e disse di venire fuori, poiché c’erano dei suoi
amici di Gerusalemme che erano in visita a Roma. Mi affacciai nella bolgia della sala e vidi una sfilza di topine arabe da
far rizzare le budella anche a un morto. Hoda era troppo occidentale sia nei modi che nei tratti, queste erano invece arabe al
cento per cento, con la pelle olivastra e un flusso di capelli neri
e ricci. In quel mare di topine mi veniva meno l’aria. Tornato a
casetta ne sarebbe venuto fuori un bel zuccotto di seghe. Ma
Hoda restava la mia preferita, la regina di tutto era lei, con
quella chioma, quel corpo, quel viso. Mi inebriavo, fin quando un tizio seduto al bancone mi mise una manaccia sulla spalla
e disse con tono lugubre: “Ci conosciamo?”, e mentre diceva
così fece i suoi occhi sempre più piccoli per mettermi a fuoco.
114
Al doyouremember, risposi chiaro e squillante: “Amico,
levami le zampe di dosso!”.
Era una TG, o almeno semi, aveva i capelli rasati e impomatati che parevano pungiglioni, portava un chiodo cortissimo. Era alto, ma proprio alto, un lucernario pronto a cadermi
addosso. Affatto no buona impressione. Il tipo insisteva: “Amico, questa sciarpa mi fa fare molti ricordi”.
Non collegai subito. Hoda, chissà perché, si mise in mezzo
e gli fece, a muso duro: “Vedi di sparire da qui, abuso di ufficio, lo sai come si chiama in Italia, abuso di ufficio…”.
Hoda era tutta infervorata ed era diventata rossa come un
peperone. Non capivo. Se quel tizio aveva ancora le idee confuse, Hoda gliele aveva schiarite per sempre.
“Allora avevo ragione” fece, e prendendomi per il collo mi
alitò in faccia. “Sai quel cubo di travertino dove te lo devi
mettere la prossima volta che fai la tua protesta del cazzo,
comunista di merda?”
A questo punto mi vennero in testa tante cose. Ero dalla
parte del torto. Qualunque cosa avessi fatto, ero dalla parte
del torto. Faccio parte di una generazione che secondo i grandi saggi che scrivono in corsivo è solo una razza bastarda. Eh
sì, siamo una via di mezzo, tutto quello che facciamo, una manifestazione, una protesta, uno spinello, un libro molto meglio del Giovane Holden, tutto è stato già fatto e meritiamo
solo critiche. Magari pugni, come quello che questo tipo mi
sferrò in faccia fino a riaprire lo squarcio sulle gengive, opera
del Sandrobatacchio. Doveva avere sì e no un paio d’anni più
di me, ma già nutriva odio per gente che avesse voluto far
valere le sue ragioni in maniera democratica.
La botta mi aprì il cervello e la memoria tornò a puntino.
La storia del cubo di travertino non era un vandalismo bello e buono. Anzi il sottoscritto-teppista-totale non era mai stato
un romantico casseur sessantottino, tutto, ma non vandalo,
ero stato borseggiatore, corriere di maria, mendicante, ubriacone, ingiurioso e quant’altro, ma non avevo mai torto un capello a nessuno.
C’era un corteo pro-Ocalan, un rivoluzionario curdo, che
115
stava per essere estradato in Turchia, dove erano pronti a fargli la festa di compleanno. Con i cortei di protesta non andavo molto d’accordo per via di alcune mie esperienza del passato. Vedi il movimento dei medi nella metà degli anni Novanta. Ma nonostante tutto feci il mio dovere di ragazzo
incazzato.
Dicembre 1994. Andavamo a protestare contro la riforma
D’Onofrio, eravamo in migliaia per le strade del mio paese,
cori e striscioni. Un serpentone umano che attraversava tutta
la città. Il nostro simbolo non era il Che, ma Bart Simpson
con le braghe abbassate. Il mio unico scopo era comprarmi
qualche panetta di libanese e fumarmela come cristocomanda.
Madama comparve all’improvviso alle mie spalle sotto forma
di piedipiatti. Le porte cigolanti del commissariato si spalancarono per il mio interrogatorio. Chi te l’ha venduta, dove la
trovi, quanta ne fumi e altre domandine piccanti senza possibilità di giocarti un cazzo di jolly.
Dicembre 1998. Piazza del Popolo. Ero un normalissimo e
innocuo sbronzo di passaggio. Andavo per collette, visto che
in quelle manifestazioni c’erano tanti figli di papà con il portafoglio allentato. Ci si abbraccia, ci si mette mani addosso, ci
si fa beffe degli sbirri e del governo più timido del mondo,
alias quello italiano. Scoppia un petardo bagnato, rispondono
i lacrimogeni e le cariche. Non si sa che fare, nel panico, l’unica certezza è correre nella direzione opposta al corteo. Comincia la caccia all’uomo. Possibilmente vanno molto in voga
i rasta, ma anche le ragazze. Tra i vari inseguimenti mi inserii
in uno dove c’era una ragazza che un energumeno, travestito
da Ordine Pubblico, voleva malmenare. Piovevano cubi di
travertino dappertutto, se solo uno mi sfiorava finivo dritto al
camposanto. Ma quell’istantanea di una ragazza inseguita mi
fece paura, mi alabardai di buoni propositi, mi piegai, feci un
forte respiro, lo raccolsi e lo lanciai a parabola. La traiettoria
del sasso fu lenta, ma pesante, la ragazza se la diede a gambe e
io pure.
Questo tizio allampanato che mi aveva adesso colpito doveva essere chiaramente il bersaglio del mio pallonetto. Che
116
cazzo ne capiva della vita! L’avessero pagato i nazisti, i talebani,
gli stalinisti, oppure Bombolo, avrebbe comunque fatto quello che gli dicevano di fare. Uno che non pensa con la testa
meritava il mio rientro nel terreno della sfida. Così mi liberai
di Hoda, che mi pregava di lasciar stare, e andai incontro alle
mie responsabilità. Fatti sotto nazistronzo!
Le topine arabe capirono la malaparata e sgattaiolarono
via. Un “coraggioso” amico del polizei, con i capelli arruffati
e sudici aveva minacciato di fare piazza pulita del locale a tutti
quelli con la pelle scura, compresi mulatti ed ebrei. Ed ecco
venirmi in testa un fiume d’immagini: lavoravo come cameriere a Fasano centro italiano del contrabbando e della Sacra
Corona Unita, pub Peak, un tizio mi prendeva per il culo e
non potevo fargli ingoiare i denti perché era un bastardo affiliato. Se l’avessi fatto ci sarebbe stato il mio congedo dagli
esseri verticali. Il tizio era rossiccio dal troppo bere. Infastidiva le ragazze. Brillo, faceva richieste assurde per un pub. Mi
chiese una bottiglia di chardonnay. Non avevamo chardonnay.
Ruppe una bottiglia di piscioBud sul tavolo, a due cm dal mio
naso. Agitò, come un coltellaccio, il collo spaccato della bottiglia. Dissi al titolare di chiamare la polizia. Il titolare disse che
l’avevo provocato io.
Così non ebbi paura di affrontare il tipo. Non ci sarebbe
stato nessuno a dire che l’avevo provocato, nessun mafiosetto
sarebbe venuto in suo soccorso. Ero 0-0 e nessuno, nessuno
avrebbe mai detto che l’avevo provocato. Lo respinsi con calcio volante alla Ken Shiro.
Ken Shiro è davvero un maestro di vita. Viene trasmesso
da Italia 7 Gold tutti i pomeriggi alle 19.00. Vive in un mondo
in cui le modificazioni genetiche la fanno da padrone, tutti
vogliono ammazzare tutti e ognuno è dotato di un’arma all’avanguardia. Ken Shiro conosce alcune arti marziali che nessuno sa. Utilizza la forza del pensiero e spesso, senza alzare un
dito, fa secco l’avversario. Studenti medi, liceali e universitari,
ma anche apparenti e seri professionisti, funzionari di banca e
ingegneri specializzati commentano privatamente con gridolini
eccitati le gesta del nostro.
117
Non fui perfezionista, perché lui non si mosse di un millimetro e mi vergò a dovere con una scarica di pugni. Cercavo
di coprirmi con gli avambracci e Hoda piangeva. Mirko, il
titolare, la tratteneva, non si poteva, erano polizei. I miei calcoli sulla mafia erano sbagliati, qui era peggio, era tutto legalizzato.
Stringere i polsi a una ragazza in ginocchio in lacrime. Legale.
Darle della venditrice di tappeti. Legale.
Massacrare in tre Ken Shiro. Legale.
Erano troppi per me e troppo forti, non c’era nessuno che
poteva salvarmi. Uno dei tre mi disse: “Questo è per i tuoi
amici slavi di merda”, mentre da terra vedevo solo il suo piede che colpiva le gambe, unico mio argine contro quella pioggia di cazzotti. Ero il capro espiatorio della loro impotenza,
non riuscivano ad acchiappare i dieci violentatori della tossica, e se la prendevano con il vostro sottoscritto. Mi lasciarono
solo quando videro che non davo segni di vita. Ero svenuto in
un lago di sangue. L’ultima immagine del pestaggio fu un frammento del viso di Franco che mi servì come illuminazione; si
compose in meno di un attimo un puzzle fuori di testa. Franco a rota più spiffera ai pizzardoni che lavora con lui un tizio
più anarchico che vanta di averle date a un piedipiatti più indagine più regolamento di conti uguale Franco è un figlio di
puttana.
Art. 337 Codice Penale. Resistenza a un pubblico ufficiale: chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato
di pubblico servizio mentre compie un atto pubblico di ufficio o di
servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con
la reclusione da sei mesi a cinque anni.
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Capitolo 12
WELCOME TO SALÒ
Quando avevo sette anni volevo fare il poliziotto, certamente il mestiere più amato dai bambini, dopo quello del
pompiere e del calciatore. Immaginavo il senso di sicurezza,
potere, ma anche coraggio che poteva infondere. Crebbi, e un
giorno vidi la vedova di un agente. Disperata, piangeva il marito che aveva fatto la fine atroce di un topo, disintegrato come
carne da macello nella tragedia di Capaci. La mia stima e il
mio desiderio aumentarono.
Ero a Valle Giulia proprio laddove se l’erano date sbirri e
studenti, uno scontro mitizzato per le parole di Pier Paolo
Pasolini che su “Nuovi Argomenti” conflagrò con la poesia Il
Pci ai giovani, canto anticonformista dove il poeta si schiera
con i poliziotti, veri proletari della situazione. Proprio allora
ero a Valle Giulia, ed ero uno sbirro, con le mutande di carta,
gli anfibi stretti, un sacco di fifa. A Valle Giulia anche io ero
dalla parte degli sbirri, sul fronte opposto c’erano i futuri direttori di giornali e telegiornali del Supremo. Inseguivo roteando un manganello Ferrara e Liguori che mi urlavano “fascista”! Questo ricordo mi ritornò in quello stato di intontimento post-rissa. Poi entrai in uno stato allucinatorio. Ero in un
limbo buio e avanti a me in sogno comparve Licio Gelli.
Un giorno lessi un libro che parlava della P2. Una specie di
massoneria che puntava alla manipolazione della costituzione
per fare i cazzoni propri. Molti di questi non erano apparen119
temente criminali, ma risultavano essere niente meno che generali dell’esercito, politici, uomini dello spettacolo e imprenditori. Volevano eliminare lo Stato, metterci al suo posto un
mostruoso fantoccio: riduzione dei sindacati, dello stato sociale, abolizione delle ferie, introduzione del carcere duro per
gli “pseudo-politici”, abolizione della scuola per tutti e del
valore legale dei vostri amati titoli di studio.
Licio Gelli era seduto su un trono, mi chiamava con fare
affabile ai suoi piedi, mi indicava un posto dove mi sarei dovuto inginocchiare. Poi spiegò che lui era un uomo che si era
fatto da solo, che era stato condannato solo per bancarotta,
che scriveva bellissime poesie e che aveva vinto alcuni premi
letterari in Umbria. Mentre mi prostravo piangevo. Poi iniziai
a volare in un profondo tunnel nero. Sembrava di essere trasportati e sospinti da un’aria gelatinosa, da un denso fluido
ventoso. Sentivo di avere il terrore di mettere i piedi a terra.
Quando li posi mi ritrovai di nuovo Licio Gelli, come ringiovanito di trent’anni. Parlava della nuova strategia dei poteri
occulti e mafiosi. “Non vedrete più giudici e intellettuali morti ammazzati, verranno delegittimati. E poi gli metteremo contro lo Stato, ossia noi”.
Quando mi ripresi, vidi un alone grigio, attraverso il quale
comparivano i volti finti e quasi posticci di alcuni pupazzi:
erano degli infermieri. Un tipo tarchiato e dai tratti ruvidi mi
canzonava, “Son cazzi tuoi! Son cazzi Tuoi!”.
Ero al pronto soccorso. Mi ero trasformato in un luogo
comune: italiano, passati i venti non ancora i trenta, apparentemente un pezzente, anarchico ma considerato comunista
(perché in Italia anarchico è sinonimo di comunista), pensa
con la sua testa, odia Forza Italia, per tutto questo è considerato nemico dagli sbirri e dalla linea editoriale dominante.
Sentivo l’odore di mercurio cromo e la voce di questo infermiere. Chiesi stordito che cosa fosse successo. Quello mi
fece una faccia, come se avesse avuto avanti un bambino di
cinque anni con un gelato per terra. “Figlio mio, la tua ragazza aveva proprio buoni motivi per piangere…” e infatti sentivo sulla mia faccia le guance intorpidite, come se avessi pian120
to io. Ma non erano mie lacrime, erano quelle di Hoda convinta che fossi morto. Mi toccai la testa, avevo una garza e mi
guardai attorno. Nel riflesso di una vetrina di medicinali, osservai che avevo la testa rasata a cazzo, uno squarcio sopra,
come fatto con un pennarello. Non avevo più i miei gloriosi
capelli lunghi.
Era l’alba e da lì dove stavo vedevo tutta la gente che faceva uso a quell’ora del pronto soccorso. C’erano processioni di
tossici in crisi di astinenza e tipi con la testa rotta come la mia;
padri di famiglia che accompagnavano i figli piccoli caduti
dal letto; una puttana nera con un graffio sanguinante sotto
l’occhio. Ce n’erano di tutti i gusti, di tutte le specie, di tutte
le classi: in fila per una porzione di guarigione, per una pillolina
alla dopamina, per una penicillina, una garza e due punti,
oppure una pomata magica al cortisone. Tutto questo per elemosinare qualche spicciolo di vita in più.
E in quel casino, l’unica cosa che volevo era solo Hoda. Ma
Hoda dormiva piegata su se stessa su una panca a pochi metri
da me. Riuscivo a vederla bene, ma lei non poteva, era nelle
braccia di Morfeo. Provai ad allungare una mano immaginando di sfiorarla, ma l’immaginazione non mi bastava. La volevo accanto, tenermi la mano, accarezzarmi il viso, parlarmi,
sfiorarmi la testa, darmi baci, trattarmi come si tratta un bambino, avvolgermi nel sudario delle sue tenerezze e pregarmi di
amarla. Al suo fianco c’era una signora in pantofole, con l’aria
distrutta, le guance cadenti, gli occhi lividi come fondi di caffè. Portava addosso uno scialle di lana e, sotto, la camicia da
notte; l’avevano buttata giù dal letto per qualcosa di grave.
Sentivo che c’era un tizio in over da qualche parte dell’inferno Pronto Soccorso. Quella sarebbe potuta essere la madre:
nella sua aria sacrificata per un attimo passò la santa Imma.
Quella mattina non trascorreva mai. Quando uscii andavo
malconcio, ammaccato come la carta stagnola, i lividi neri erano
grossi come vulcani, le cicatrici erano crateri di sangue, un
dolore cane. Poi Hoda. Hoda, Hoda. Aveva fatto tanto per
121
me, aveva messo in moto tutti i suoi amici, mi aveva tenuto
teneramente la mano, dato baci lievi e leggeri sul mio viso,
proprio come avevo sognato. “Andiamo a casa mia”. Liberaci
dall’estetica e così sia.
Hoda mi portò nella sua stanza di studentessa modello,
quartiere Montesacro. Arrivammo in carrozza con il 40
express, scendemmo ai Monti Cervialto, salimmo lungo un
viale ripido attraversando una zona di Roma inedita e quasi
irreale. Non c’era traffico, non camminava neanche una macchina. Era primo pomeriggio e Roma era caduta come in un
sonno improvviso, un sonno estivo inspiegabile in pieno gennaio. Raggiungemmo la palazzina di Hoda, una vela di pietra
degradata, circondata da centri commerciali e bar romanisti.
L’architetto di questa roba doveva essere un trippato: l’atrio
del palazzo era un corridoio all’aperto che si snodava come
un labirinto. Quando arrivammo a casetta di Hoda, mi sembrava di aver vinto la caccia al tesoro.
Una volta dentro feci subito amicizia con il mondo degli
studenti fuorisede. Un mondo di cui avevo solo sentito parlare, un mondo fatto di turni per pulire, mangiare e addirittura
portare gli amici. Un mondo di locatari aguzzini e usurai, un
mondo di leggi inesistenti, di dolorose convivenze e sottomarche di detersivi. Ma anche un luogo in cui si iniziava a vivere,
in cui si smetteva di ciucciare il biberon dalle braghe paterne,
un luogo tanto lontano per chi abbandonava la sua casa, migliaia di km per Hoda da Gerusalemme.
Stranamente non c’era nessuno. Potevo sentire Roma dalle
finestre. L’eco attutita del pomeriggio metropolitano, il tran
tran silenzioso attraverso i muri della casa più accogliente del
mondo. Mi sentivo a mio agio, un bimbo col panno pulito,
beato, pronto a passare il tempo nel miglior modo possibile.
Mi stesi sulla sua brandina e Hoda si allungò affianco a me
facendo dei versacci con la bocca per farmi ridere. Era una
stanza minuscola ma accogliente, con due librerie traboccanti
di volumi dalla dicitura incomprensibile; c’era un poster a
grandezza naturale di Gandhi, un vaso con dei fiori di cartapesta, le sedie stracolme di vestiti. Venne l’idea di vedere un
122
film, non ricordo. A me sicuramente quella di darci a un lungo di Pasolini. Magari Salò. Mi sentivo addosso una specie di
male di vivere.
Salò è un film che racconta la degenerazione del potere,
crudele e agghiacciante. I repubblichini che infieriscono su
un gruppo di ragazzi strappati alle loro famiglie è l’atroce
metafora di un mondo nel quale bene e male si identificano in
un’unica zona grigia. Una villa apparentemente elegante diventa luogo per l’applicazione di un codice immorale dove il
più forte detta le sue perverse regole. Immagine riflessa oggi
di tutto quello è l’espressione “guerra umanitaria”. Usata da
diversi politici di destra e sinistra prima dell’intervento nel
Kosovo. Su questi presupposti possiamo essere certi di vivere
nella zona grigia dove guerra e diritti umanitari sono la stessa
cosa.
Hoda mi diede un bacio sconvolgente, con la lingua imperversava dentro la mia bocca impastata di ospedale. Dopo
il bacio iniziai a implorarla mentre mi accarezzava il petto solo
con i polpastrelli: “Ti prego Hoda andiamo a vivere insieme”.
Aggressione da parte di alcuni teppisti ieri notte nei pressi della
stazione Tiburtina. Protagonista, un vero e proprio branco composto
da una decina di elementi che con bastoni e mazze ferrate ha malmenato alcuni barboni. L’aggressione è avvenuta intorno all’una e trenta.
Gli inquirenti propendono per un regolamento di conti fra bande di
extra-comunitari. Nessuno ha denunciato il fatto.
(“Il Messaggero”)
123
Capitolo 13
SENTIERI INTERROTTI
Il 25 settembre 1980 Bonzo, il batterista dei Led Zeppelin, viene
trovato con il cuore ridotto a una mela marcia. Il ritrovamento avviene
in una delle stanze della villa di Jimmy Page appena acquistata dall’attore Michael Caine. L’autopsia rivela che la morte è avvenuta a seguito
di una smodata ingestione di alcol. Nell’estate Bonzo aveva subito alcuni malori dovuti al suo alcolismo. Bonzo Bonham era di Bronwich
come Plant, aveva suonato per alcuni gruppi come la Band of Joy e i
King Snake Crawlers.
29 marzo 2000
Con la primavera arrivarono i giorni più tranquilli da quando ero a Roma. Hoda affittò una camera a Castro Pretorio,
in pieno ambiente universitario. Si trattava di un vano con
accessori al terzo piano di un palazzo in bocca a La Sapienza.
Io trovai lavoro in un’impresa di pulizia e mandai al diavolo il Regno Unito e tutti i suoi panini, la puzza di olio di soia
fritto, le patatine congelate, la muffa sulla senape e le rote di
Franco. Lei studiava come una matta cose di cui ignoravo l’esistenza, tipo relazioni internazionali e diritto privato europeo;
io mi spaccavo il culo dieci ore al giorno senza contributi e
assicurazioni per cinquantamila lire. Alessandro si era trovato
una stanza a Roma. Non risolse assolutamente la grana Marta:
124
in compenso, si iscrisse a un corso di informatica e cominciò
l’avventura da studente fuorisede.
Il mio congedo da Tiburtina fu quanto di più triste mi fosse mai capitato nella mia permanenza a Roma. Mi presentai
un giorno preoccupato ancora per la faccenda della lotteria,
ma tutti sembravano averla dimenticata per far posto a un
casino senza precedenti. Un gruppo di Teste Glabre aveva
fatto irruzione alle spalle del McDonald’s dove stavano i rumeni; li avevano picchiati con i bastoni mentre quelli dormivano, ed era tutto un urlo, un fiotto di sangue, un fuggi fuggi,
e con quel sangue che stava per terra e per i muri, si poteva
verniciare tutta la metro.
Mi battevano i denti solo a pensarci, avevo grande preoccupazione per loro perché erano come fratelli. Ecchediavolo!
Le TG andassero a farsi fottere.
Alla mia visione qualcuno pianse, Tarcy forse per il meta
forse per la rota da astinenza, si attaccò al braccio, e come una
pittima, iniziò a intimarmi di rimanere. Era troppo triste.
Il nostro saluto avvenne di fronte all’edicola dove era stato
venduto il biglietto miliardario. Mancava all’appello il solo
Mauri, ed era ufficiale: quell’assenza era dovuta alla vincita.
C’erano proprio tutti, tranne Damiano, pace all’anima sua.
C’era Oblomov con un cestello di polistirolo pieno di panini
McDonald’s. Me ne offrì qualcuno, ma feci no con un gesto
deciso della testa. Poi Jerry che se ne venne con la sua valigia
di cartone, rosso come una mela, dicendo: “La vuoi la caramella?”.
Il momento più triste fu quando arrivò trafelata e con gli
occhi grandi come due fondi di bottiglia, Mary. Aveva un viso
ancora più smunto del solito, era ancora più gracile e snella,
sembrava non avere più carne. Era ossa e uno strato screpolato di pelle. Oramai del suo culo stellare non c’era che un jeans
troppo grande. Era ridotta a una quarantina di chili, aveva
degli stivaletti di pelle che facevano un sacco di casino. Un
copricapo di pelliccia la rendeva un po’ buffa. Indossava tutta
roba che aveva sgraffignato a un’inglesina qualche giorno prima. Se l’era aggirata con frizzi e lazzi e poi con il solito movi125
mento felpato alla Mary. Aveva smesso di fare marchette e si
era data a fregare il prossimo. Non faceva distinzione tra inglesi e francesi, purché avessero mani ben fatte.
Feci bene ad andare senza Hoda al congedo dei vecchi
amici. Mary si fece avanti con un sorriso falso e un fremito di
risata isterica, che fermò a malapena. Non era ancora in rota,
si era appena strafatta. Flippata, si muoveva a scatti, dando
ugualmente l’idea di una morta che camminava. Pareva un
cadavere a cui avessero attaccato dei fili elettrici. Si grattava
ogni due secondi le braccia e i polpacci. Per come la vidi, mi
parve che quella sarebbe stata una delle ultime pere. Facevo
questi pensieri, mentre ce l’avevo buttata al collo con le unghie nere conficcate dentro le mie guance, e mi venivano in
testa cose terribili. Perché era stata tanto sfigata nella vita Mary,
perché io mi ero innamorato di Hoda e non di lei? Forse
l’avremmo fatta finita insieme, romanticamente. Su un materasso di paglia, aspettando la morte in mezzo a un lago di sangue con le nostre vene aperte, rivolte verso il bagliore solare.
Mi diceva cose insensate, mi diceva che mi voleva sposare,
che voleva avere bambini, che voleva costruire una casa a
Fregene, a due passi dal mare, costruirla con la sabbia, con
l’acqua, come i bambini e i loro castelli. Piangeva toccandomi
il tappetino di capelli che avevo in testa. “Dove sono le tue
stelle filanti?” e piagnucolava, perché non avevo più i miei
capelli lunghi. L’eroina dettava i ritmi delle sue manie. Se non
l’avessi conosciuta, avrei scommesso sul suo delirio da tossicomane. Ma era davvero impazzita d’amore, parlava come
un’indemoniata, la voce le era diventata cupa e strozzata, mi
stringeva fortissimo.
Si avvicinò un ragazzo, doveva essere quanto me, aveva i
capelli castani lunghi come quelli miei un tempo. Occhi piccoli, un paio di occhialini, portava un vecchio giaccone a vento, una sciarpa nera; prese Mary per la spalla e la portò via
senza degnarmi di un saluto. Oblomov disse che era Amedeo,
uno che suonava il flauto lì da due mesi. Era l’ultimo compagno di Mary. Forse l’ultimo per sempre, perché Mary sarebbe
morta.
126
E infatti, due giorni dopo fu ritrovata fulminata da un arresto cardiocircolatorio davanti alla mia vecchia casa, in mezzo
a cocci di bottiglia e merde di cani. Si era sparata una pera
con la sua urina; non aveva acidi per sciogliere l’hero e se l’era
allungata col piscio, ma il trip di eroina, acido urico e ammoniaca le avevano fatto saltare il cuore. E dalla vita passare alla
morsura.
Forse si era davvero innamorata di me, era venuta a morire
lì perché voleva starmi accanto. Non dissi nulla a Hoda, ma
per due settimane ebbi una febbre altissima e non riuscivo a
mangiare. Passavo le notti e il giorno a letto, dormivo sotto
coperte che mi pesavano una tonnellata, aprivo gli occhi e
cercavo di alzarmi senza riuscirci, Hoda cercava di imboccarmi, solitamente un brodo di dado; spesso nella veglia malata
sentivo che mi parlava, che diceva che adesso passava tutto,
che era un’influenza, che lei mi voleva un mucchio di bene.
Venne pure un tizio che in teoria aveva fatto il giuramento di
Ippocrate. Molta teoria e poca pratica di questo signore portarono Hoda alle soglie dell’ambulatorio di uno strizzacervelli.
Pare che avessi una specie di depressione malinconica. Hoda
tornò a casa con alcuni antidepressivi, mi diede il Seroxat, la
Fluvoxamina.
Paroxetina (Seroxat) è una molecola con un’azione inibitoria potente e selettiva sulla ricaptazione della serotonina (S-idrossitriptamina;
SHT) nei neuroni cerebrali, senza interferenze sulla captazione della
noradrenalina. La sua efficacia nei trattamenti della depressione, del
disturbo ossessivo compulsivo e del disturbo da attacchi di panico è
presumibilmente correlata a tale meccanismo. La struttura chimica di
Paroxetina non è riconducibile a quella degli antidepressivi triciclici,
tetraciclici o di altri disponibili. I principali metaboliti della Paroxetina
sono prodotti polari e coniugati di ossidazione e di metilazione, che
vengono facilmente eliminati. In considerazione della loro relativa mancanza di attività farmacologica, è estremamente improbabile che possano contribuire all’effetto terapeutico della Paroxetina.
Fu solo la prima disgrazia della serie Grandi Incidenti. La
127
seconda mi fu annunciata per telefono. Ale telefonò a Hoda e
chiese di parlarmi. Disse che aveva una notizia buona e una
bruttissima, che poi era anche buona sotto certi punti di vista.
Non capii. Mi disse così la buona, ossia che aveva tra le mani
un numero del 1996 di “Max”, dove Claudia Koll stava nuda
in bella mostra. Mi tranquillizzai, perché non ero nell’ordine
di idee di parlare con un pazzo integrale. Dopo una pausa
fatta di commenti compiaciuti per la scoperta, disse che lì alla
sua nuova casa romana c’era il Bertowsky. Rimasi sbalordito.
Bertowsky a Roma? Il dialogo fu un monologo di due sordi.
“Sta qui perché sono schiattati i vecchioni di Bertowsky”.
“O dio, povero Bertowsky, come cazzo camperà?” e un bla
bla comprensivo sullo stile di “oddiocomesonopreoccupato”.
A questo punto iniziò un comizio inspiegabile di Ale: “È
una disgrazia! È senza casa perché i nonni sono schiattati col
gas e hanno fatto un botto pazzesco. Lui era uscito per andare
allo Stargames a farsi una partita di strip poker… questo è
davvero il bello. Nemmeno il tempo di una partitina e quei
due hanno fatto saltare una bombola, non si sa ancora come.
Bertowsky è tornato a casa e non c’era più niente, solo un
braciere fumante di pietre. Sai, io vedo il lato positivo delle
cose, quella casa doveva cadere prima o poi, oltre a essere
abusiva era anche un covo di tarme e di ragni giganti. Sai,
Bertowsky avrebbe speso una fortuna per dare una mano di
vivibilità a quel cesso. Eppoi i ragni, Berty ha paura dei ragni”.
“Bertowsky si è salvato? Passamelo, dai, non è vero!” e lo
dicevo con la voce scossa dal terrore, dal fatto che ero sospeso
in un limbo di sospetto e incredulità.
Ma Ale non me lo mollava. “Bertowsky ora fa ragionamenti fuori di testa. Dice che la morte è una brutta bestia solo
quando la si conosce, fa il filosofo. Bert fa il filosofo, checcazzo
di storia!”
“Passamelo!!!”
Ma Ale continuava a blaterare.
“Per me, non c’è da piangere di certe cose, la morte ci insegue a tutti ed è andata bene ai nonni del Bertowsky che avevano già un bel po’ di anni. Cacchio quanto erano vecchi, 80…
128
90… pure di più, immagina ogni due ore a cambiargli il catetere
e a sentire mugolii sul fatto che ai loro tempi si poteva lasciare
la porta di casa aperta, i giovani avevano più rispetto, il prezzo
del pane, la tessera annonaria, il governo Badoglio… quella non
era vita per Bertowsky. Erano dei vegetali. Bertowsky secondo
te perché si sbronzava? Cacchio, quelle larve umane sono state
pure abbastanza fortunate che Bertowsky non se la buttava nelle
vene o non si flippava con le pilloline o che non li ha ammazzati
dieci anni fa con un coltellaccio da cucina o con il nylon attorno al collo. Voglio vedere cosa sarebbe successo se quelli avessero avuto un tossico o uno psicotico come nipote”.
“Ti prego Ale!!! La smetti di vaneggiare?” lo rimproverai
con tutto il fiato che avevo in petto e mi sentii scoppiare. Volevo Berty e la sua voce.
L’avvertii un attimo in sottofondo. Leggeri monosillabi.
Qualunque cosa avesse detto, tirai un sospiro di sollievo.
“…”
“…pronto? Pronto? Franz?”
Quando ascoltai la voce di Berty smisi di ascoltare Ale a
tutta rotta. Chiusi il telefono. Mi bastava saperlo vivo. E mi
vennero in testa Imma, Mary, Damiano. Tanta, troppa gente
che conoscevo e a cui volevo bene se n’era andata via per sempre. Anche Chiara era come morta per sempre. Cos’era la mia
vita, fatta di continue rotture, sentieri interrotti su cui non
edificavo ponti ma abissi dove mi buttavo a capofitto? Ero un
perduto, mi tuffavo in tutti i buchi neri che avessi incontrato,
mi facevo di erba, mi sbronzavo, non m’impasticcavo né mi
flippavo solo perché non ne avevo il coraggio e non avevo i
quattrini. Poi guardavo Hoda dal fondo dell’abisso, dal fondo del tunnel nero di una notte polare; era troppo tutto per
me, era diventata tutti i personaggi della mia vita inghiottiti
dal nulla. Hoda, Hoda, Hoda aveva surrogato Chiara e Imma,
fino a farmi sentire l’atomo lampante di una generazione
astrusa, senza capo né coda, senza punti di riferimento precisi
e modelli, senza nessuno che si fosse alzato a darmi un motivo
per non vivere sotto un ponte. Tutto continuava come prima,
Damiano ridotto a una spolverata di cenere, Mary stecchita
129
con nelle vene il suo piscio, Imma con litri di alcol e le commesse a vendermi libri, e i farmacisti a svendere antidepressivi
scaduti e la domenica giocare duemila lire su cavalli inculaperdenti, e bere un bicchiere al giorno e niente più, leggere gli
editoriali del “Manifesto” per sentirsi vivo. Non ce la facevo
più, era tutto falso. Come si poteva dare credito a questo o a
quello, a un politico seriamente impegnato ai cazzi suoi o a
uno scrittore alla moda sempre in tv, a un cantante di grido
pieno di grana? Tutti questi pensieri mi frullavano per la testa
e non feci nulla per nasconderli a Hoda.
Hoda interruppe i suoi studi di diritto privato europeo e
mi stette ad ascoltare con pazienza da vendere. Aveva degli
occhiali quadrati enormi, che ne davano un’immagine da
secchiona, i capelli arruffati e dentro nascosta una matita rosso-blu. Portava una tuta nera e delle pantofole rosse. Nonostante questa aria casalinga trasudava sensualità da tutti i pori.
Questo era dovuto alla mancanza di una pruderie da quando
stavamo insieme. Non eravamo andati mai oltre un certo tipo
di effusioni e ne avevo piene le tasche. Ma adesso questi pensieri mi ammorbavano la testa molto di più. Glieli dissi e per
la prima volta le parlai della lettera di Chiara, del mio rapporto con Mary (tralasciando riferimenti a quel famoso pomeriggio in libreria), le spiegai che soffrivo per tante cose insieme:
per il fatto che lì a Roma c’era Bertowsky totalmente solo, per
la lettera di Chiara, perché mi sentivo pieno di dolori causarissa di due mesi prima, che sentivo addosso un insopportabile malessere.
Hoda quella volta era taciturna rispetto a come la conoscevo. Ascoltava e lasciava parlare, era questa la sua forza, non
diceva né aggiungeva niente, non puntualizzava né lamentava
gelosia se parlavo accorato di Chiara. Le raccontai con foga
nera tutto il fastidio che provavo per il manigoldo e per tante
altre cose a cui nessuna ragazza sulla faccia della terra avrebbe resistito impazzendo di gelosia.
Hoda prese la parola solo quando mi fermai, e fu chiaro
che non avrei più parlato. Mi disse che era giusto essere in
pace con tutti, essere convinti di certe scelte. Dopo una breve
130
predica sul fatto che avevo lasciato Berty da solo e che di Mary
potevo pure metterla al corrente, mi chiese a freddo se pensavo ancora a Chiara quando eravamo insieme. Le mentii spudoratamente dicendo di no, ma sapevo quale era la verità.
Pensavo sempre che Chiara ci guardasse, qualunque cosa facevo con Hoda volevo che Chiara lo sapesse. Era una rivalsa
bollente che mi era salita in gola e nella testa, e non riuscivo a
controllarla dalla sera che l’avevo vista col batacchio, Sandro
il picchiatore.
Hoda
Un pomeriggio Franz volle parlarmi. Sembrava averne assoluta urgenza. Aveva il viso livido. Quando finì ebbi l’impressione che non fosse riuscito a dire quello che voleva. Mi parlò confusamente di certe cose che mi sembravano passate, mi disse di
Chiara e di una barbona con cui aveva avuto una storia. Quando mi parlò di Chiara aveva gli occhi illuminati di una emozione vivida, sembrava avesse voluto parlarne a tutti i costi, sembrava avesse tenuto a farmi sapere tutto quello che faceva con
Chiara, tutti i film che aveva visto e tutte le cose che le aveva
regalato. Era un continuo involontario confronto tra me e lei. E
lì perdevo tutti i confronti, non sapevo cosa e chi fosse questa
Chiara. Come fosse. Dalle parole di Franz ne veniva fuori un
monumento di cemento costruito su un piedistallo inattaccabile. Chiara, Chiara, Chiara, echeggiava anche nella mia testa.
C’era Bertowsky nei casini, alcuni suoi amici erano morti da
poco, aveva un padre imboscato chissà dove. Era come un bambino, si preoccupava di parlare solo delle cose di cui avrebbe
parlato un bambino e non un adulto. Parlava di Chiara e dei
modelli che non sentiva più, che tutti erano morti e che doveva
andare a fare un pellegrinaggio alla tomba di uno scrittore italiano che non avevo mai sentito. O Dio, mi avevi dato la forza
per strapparlo all’alcol, mi avevi dato la forza di strapparlo all’accattonaggio, ti prego Dio, in quest’anno santo dammi ora la
forza di salvarlo ancora una volta dal suo passato.
131
La mattina mi sarei dovuto vedere con il messia, alias il
Berty. Avevamo appuntamento con un tizio amico di Hoda
per una questione di grana. Appena ci incontrammo ci abbracciammo fortissimo. Per la prima volta, da anni, eravamo
entrambi lucidi e nel pieno delle nostre capacità mentali. Ci
vedemmo in centro a piazza della Repubblica davanti alle bancarelle di libri vecchi e videocassette porno. Stavo con in mano
un video dove c’era una topa pazzesca e nuda a cavallo di uno
stallone nero. Berty discuteva con un botolo di ciccia, alias il
dispensatore di fumetti e pornografia della bancarella, sulla
prematura dipartita della fantastica Moana, e se ancora oggi
era possibile trovare certi film della divina Ilona Staller.
Bertowsky aveva smesso di bere e si era dato di più alla
politica. Aveva aderito a un comitato di disoccupati, una cellula che lottava contro la malavita organizzata e le infiltrazioni
mafiose nelle istituzioni locali. Una di quelle cose che servono
a farsi solo nemici e a renderti, nell’accettabile convenzione
sociale di tutti i giorni, un paria occidentale.
Era cambiato Bertowsky. Era molto più magro, era più compito, era quasi sciupato, aveva una barba incolta da molti giorni
e aveva deciso di trasferirsi a Roma. Mi piacque. Era pieno di
propositi, e veramente mi sembrava passata una vita da quella
notte di capodanno dove ne combinammo a mazzi. Andammo in giro per Roma, cazzeggiammo lungo la Nazionale in
attesa delle dieci. A quell’ora mi sarei incontrato con un amico politicante di Hoda, per poter assumere nello staff elettorale di un movimento il buon Berty cercalavoro.
Bertowsky
Quando diedero l’ultima mano di calce sul sepolcro dei miei
nonni, pensai subito a Franz. Sarei andato di corsa a Roma, ma
quando seppi che viveva con quella ragazza araba, decisi di ripiegare su Alessandro. Che tipo Ale, quando gli dissi che erano
132
morti i miei nonni, lui mi disse: “Che culo che non c’eri in casa”,
e si mise a ridere. Avevo bisogno di gente leggera come Alessandro, ma anche di amici come Franz. Lo chiamai da Hoda e Hoda
mi raccontò una storia assurda fatta di risse e malessere. Io fuggivo da un posto pieno zeppo di criminalità e Franz fuggiva dalla polizia. Il destino era stato davvero strano con noi. Quando
lo vidi, mi diede l’impressione di un padre di famiglia, andava
molto imborghesito, non c’era nessuna traccia dei suoi trascorsi
da mendicante. Portava dei pantaloni neri, una camicia di lino,
un cappottino da far accapponare la pelle. Questo era impensabile fino a poco tempo fa, non degnava di uno sguardo i
superalcolici e fumava solo sigarette light. Portava un’espressione ansiosa che non tardai a capire.
Stava male per Hoda, non riusciva a esprimersi, si sentiva
stravolto dai sensi di colpa perché pensava a chi non c’era più:
Mary, forse schiattata anche per colpa sua.
Franz era l’unico che avesse avuto voglia di farsi un viaggio,
saremmo andati da Kafka passando per Jan Palach, e poi saremmo andati fino alla tomba del Che. Venni a Roma per proporre
di girare il mondo sulle orme dei nostri idoli, e ce ne saremmo
sbattuti le palle del mucchio di stronzate della gentaglia che
avrebbe detto che quello è comunista e quello è anti-comunista.
Avevo un obiettivo e basta.
Bisognava recuperare la saldezza delle nostre convinzioni. Su
questi punti fu d’accordo un ragazzo di una decina d’anni più
grande di noi che era consigliere comunale di una lista civica
indipendente di Roma.
Noi fummo puntuali come un treno svizzero, il tipo un po’
meno. Ci fece attendere quella buona mezz’ora. Eravamo in
un caffè in piazza della Repubblica e ordinammo due bicchieri di latte macchiato, uccidendo il tempo con un danese di
crema al caffè e un paio di pettegolezzi su certe topine di giù.
C’era una di quindici anni che faceva filo al Daniel, e un’altra
invece che aveva dato buca ad Alessandro e questo fatto non
s’era saputo qui a Roma. Come sempre Ale tendeva a celare
133
ben bene i pacchi di merda con le teenagers. Poi Berty cominciò a raccontare le storie che giravano su di me, e davvero in
terronia ne frullavano di leggende, dal marchettaro al brigatista
tutta la gamma di racconti mi vedevano fuori da questo esclusivo club chiamato Legge Italiana.
Dopo l’attesa arrivò un tipo dinoccolato, esile e verboso;
era un tipo di Rifondazione o qualcosa del genere. Aveva creato
un movimento d’opinione attorno ai senzatetto di Roma. Era
uno che lavorava nella Biblioteca Nazionale ed era consigliere
comunale. Era un compagno, e sotto la scorza di indipendente si intuiva il rancore serbato verso le istituzioni italiche. Parlava serrato e fitto, diceva che l’Italia era un paese di idioti nel
quale c’era sempre bisogno di identificarsi in qualcosa.
“Guarda il papa, tutti si identificano nel papa. Guarda
quando gioca la nazionale, tutti si identificano nella nazionale
di calcio. Oppure, quando c’era Mussolini tutti si identificavano in lui. Insomma, un popolo senza identità”.
“Allora perché non si identificano con questi politici?” fece
Bertowsky.
“Si identificano e come! In un paese civile tutta l’attuale
classe dirigente sarebbe in galera per le fandonie che racconta
e i soldi che ruba, la stessa sinistra sta fallendo perché si è
comportata come in quarant’anni la Dc. Questo è talmente
grave… ma nessuno fa niente. Sono cose che ha sostanzialmente predetto Goffredo Parise”.
“E chi è?” disse Bertowsky.
“Uno scrittore” feci, ma non sapevo dire altro e buttai la
testa indietro.
“È uno scrittore di cui non si parla più, scomodo ancora
all’intellighenzia italiana che incensa chi governa. Questi paggi sono la peggior specie, ho sentito lodare da qualcuno il governo attuale di D’Alema”.
“Non lo facevano col Berlusca però…” dissi e poi aggiunsi
dopo essermi acceso una fumosa: “Che non sia di attenuante!”.
Berty si illuminò: “Berlusconi è una specie di predicatore
americano, uno di quelli che si inventano le sette per scoparsi
le adepte schizofreniche. Lui nel ’94 si è inventato di diventa134
re capo del governo per non andare al gabbio!” scherzò. Ma il
tipo non rise, poi ripartì, col pilota automatico. Parlava a vanvera di tante cose politiche che mi misero di cattivo umore. Di
tutto quel bailamme di chiacchiere ingenue, l’unica cosa che
capii fu questa: avevo a che fare con un frou-frou. Era dotato
di un succhiotto viola sotto il mento e non lasciava nulla all’immaginazione. Aveva una vocina flautata e non perdeva mai
occasione di nascondere, con gesti e smorfie, il gran succhiotto.
Ma soprattutto stava sempre con gli occhi puntati sul pacco
di Bertowsky: proprio l’amato giannetto, il vecchio gingillo di
Leira era lì, indomenicato dentro una guaina.
Per questo lo battezzammo Pochette.
Pochette era un fiume in piena, completamente privo di
inibizioni, gasato dall’entusiasmo bertowskiano e dalla sua
esperienza nel comitato antimafia. Così propose di farci vedere uno importante. Del tutto asservito alla guaina, tirò per
mano Berty fra i mie frizzi verso la sede del movimento.
Salimmo su una Panda inquietante: c’erano giornali dappertutto, adesivi di gruppi del rock italiano progressivo, un
mangianastri anni Ottanta che sparava a palla le canzoni dei
New Trolls, mozziconi di sigarette, interni in pelle maculata,
pupazzetto peloso e indefinito penzolante dallo specchietto.
Dopo il bagno di traffico, arrivammo in un sottoscala semilluminato, in piena San Lorenzo, a due passi dalle baracche degli immigrati. Si entrava in un condominio e si scendeva nei
bassi, dove un tempo ci sarebbe dovuta essere una fabbrica
clandestina di capi d’abbigliamento. Il posto, a differenza delle
premesse, era molto accogliente: c’erano diverse scrivanie con
computer e gente che lavorava freneticamente nella divisione e distribuzione dei volantini, nella stesura di comunicati
stampa, e tavole rotonde a cazzi. Dappertutto c’erano questi
tavolini tondi e attorno i cavalierideiliberidirittidiquestoporcomondo.
Pochette dimostrava di essere completamente a suo agio e
ci portò, diteggiando ordini a questo e a quello, alle soglie
dell’Onorevole.
“Questo è l’Onorevole Speri” ci disse con ossequio.
135
“Chiamatemi Giorgio” disse il politico più disponibile della
storia. Ci era divenuto in un nanosecondo simpatico perché
non aveva gorilla attorno, vestiva casual senza giacca e cravatta e indossava un normale maglione. Stava seduto dietro una
cattedra di scuola: alle spalle una parete di compensato che lo
divideva dal resto dello stanzone. Tutti quelli che lavoravano
erano tipi che apparentemente non se la tiravano, senza vestiti alla yuppy dellemiepalle, ma solo una dignitosa e pulita trasandatezza.
Poi fece: “Noi lottiamo per tutti i cittadini a cui vengono
calpestati i diritti, soprattutto coloro che non possono permettersi una casa”. Parole sante cavolo!
Poi raccontò delle sue battaglie, del mondo che non andava
come doveva, della classe politica attuale disattenta all’underground giovanile. Mi ricordo questa parola, underground che
poi non sapevo cosa esattamente intendesse. Ma a tirare le somme sembrava un tipo davvero cazzuto e Berty sfogò 24 anni di
repressione ideologica raccontando tutto se stesso. Poi chiesero quello che succedeva a Tiburtina e in tutti i posti di Roma
strapieni di barboni, mi chiesero delle mense che non funzionavano, dei dormitori, delle docce, tutta roba che molti di noi
avevano solo sentito e mai provato. Viste le elezioni incombenti, i nostri cari interlocutori politicanti avevano le orecchie ritte
come antenne. Così fui molto particolareggiato, critico con
questa sinistra di parole, ma giocai al comprensivo e i suoi derivati. Nonostante l’entusiasmo iniziale mantenevo una certa patina di prevenzione, ma a Berty cercalavoro quella roba gli calzava a pennello e alla fine divenni tutto gentile e disponibile
neanche fossi stato monsignore Della Casa.
Ce ne andammo dopo aver parlato due ore e rifiutato un
pranzo a scrocco. Ero incuriosito, ma volevo stare con Hoda
e i miei amici. Berty riuscì ad approfittare della conoscenza
con Speri e fu ingoiato nello staff elettorale dei giorni a venire. Ogni giorno saettava come un furetto tra i comizi di Speri,
i volantini, i megafoni, qualche corteo, cartelloni elettorali,
mettere su manifesti ecc. Insomma un lurido galoppino.
Tornati dal nostro incontro con le autorità politiche di que136
sta nazione, decidemmo, insieme ad Ale e Hoda, di farci una
gita tutti e quattro. La proposta fu messa in votazione e riscontrò esito bulgaro. Ormai, causa Bertygramsci, eravamo
diventati democratici come non mai. Ci ritrovammo, quasi
per incanto, dentro il fuoristrada di Alessandro con il Bertowsky nei panni del politicizzato navigatore. Direzione
Sabaudia e vaffanculo al mondo intero. Hoda mi diceva parole irripetibili, poi, posandomi il naso sulla tempia rasata e gorgogliando con le labbra schiacciate sulla guancia, mollò una
confessione che mi lasciò sorpreso:
“Ero io la ragazza che quel poliziotto stava malmenando a
piazza del Popolo!”
“Cosa?”
Mi voltai di scatto mentre Hoda faceva pernacchie contro
la mia faccia.
“Ero io. È stato davvero il caso…”
“No no no Hoda, lascia stare il cazzo di caso e le menate
sui progetti divini…”
Ero rimasto di sale, mi sentivo crollare il mondo addosso.
Maccome, un fatto del genere Hoda me lo teneva nascosto
così tanto? E poi queste balle trascendenti e trascendentali o
come cavolo si dice. No, proprio non c’era da stare a sentire le
sue pompose prediche. Ne avevo piene, troppi fatti quasi sovrannaturali, le coincidenze, gente convertita e diventata miliardaria, morti viventi e vivi morenti, ragazze messe incinta
con il pensiero, depressioni istantanee. Andai al contrattacco
con un fatterello da quattro soldi.
“Un giorno Rodolfo II, re di Boemia, si trovò davanti al
corteo regale Rabbi Low che chiedeva la revoca del decreto
regio contro l’espulsione degli israeliti. I cortigiani cominciarono a lanciare fango e pietre, ma sul corpo di Rabbi Low, il
fango e le pietre diventavano fiori. Soluzione del miracolo: i
giudei delle prime file tiravano i fiori, i cortigiani tiravano realmente fango e pietre, ma erano troppo lontani per colpire
Rabbi Low. Così, tutti i cortigiani, mezzi brilli in quel freddo
pomeriggio del febbraio 1592, bevvero la favola del miracolo
assieme a qualche goccio di troppo”.
137
“Non volevo dire niente di questo… Come sei suscettibile! Questi racconti tieniteli per te”.
Mi riprese bonariamente, dandomi un buffetto sul muso
poi mi tirò un succhiotto dolorosissimo sulla spalla. Feci un
“oh” cavernoso e mi avvinghiai, sollevandola dal sedile e buttandomela addosso.
Ci fermammo sulla rada di asfalto davanti alla spiaggia,
Berty e Alessandro si fecero in santa pace un beatospinello in
macchina, noi ballavamo davanti al Terrano con gli Smashing
Pumpkins. Quando ci scambiammo i ruoli, con me e Hoda
dentro a fumarci una canna e i due compari di merende lungo
la spiaggia, Hoda scivolò come un’anguilla tra le gambe e dopo
essersi legata i capelli con un elastico azzurro, mi baciò.
Fu un pomeriggio che ancora oggi spesso rimpiango: con il
sole che cadeva nel mare, le balle per far provare lo spino a
Hoda, certi racconti agghiaccianti di Bertowsky sui nonni rimbambiti che se la facevano addosso e cadevano dal letto. E poi
il correre sulla sabbia, sgommare e poi giostrare come un rallyinfantile sul piazzale antistante la grande spiaggia. Anche Hoda
si divertì. Ci mettemmo tutti e quattro a cantare Giannagiannagianna.
138
Capitolo 14
SINCE I’VE BEEN LOVING YOU
“Lavorare dalle sette alle undici tutte le sere it really makes my life
a drag” (Since I’ve Been Loving You, Led Zeppelin). Nel 1970, il barone Evan Von Zeppelin intenta una causa contro il gruppo per l’uso del
nome. A causa di questo, durante un concerto a Copenaghen i Led
Zeppelin diventano i NOBS. Quell’anno esce Led Zeppelin III, un album che riscopre l’antico gusto delle romantiche ballate britanniche
tanto che fanno raccontare a Plant la sua voglia di trasformare il mondo in un luogo senza frontiere tra paesi. Pochi giorni prima della conclusione dell’incisione dell’album, Robert Plant viene colpito da un
collasso.
13 aprile 2000
Erano le sette di sera, ero appena tornato da lavoro. Ero
distrutto, avevo pulito tutto il giorno i cessi dell’Università di
Tor Vergata, facoltà di legge. Alla faccia del tempio della giustizia, quelli si beavano dei servigi ben retribuiti della nostra
ditta, amica dei ciellini. Ma una facoltà che sfornava ragazzi
che non mi degnavano di uno sguardo o di un saluto, andava
a pennello per simili scelte.
Avevo visto studenti abbronzati e impeccabili, su e giù per
un mondo che mi sarebbe dovuto appartenere, e che invece
potevo conoscere solo di riflesso sulle scritte dei cessi. C’erano fighe tirate a lucido, tailleur targati Gai Mattiolo che cam139
minavano un buon metro sopra la terra con borse Gucci a
tracolla, nugoli di studenti in Barbour, professori parcheggiati al bar, indifferenti a chi chiedeva di spostarsi per svuotare i
cesti straripanti di pattume.
Avevo le mani puzzolenti di candeggina, i vestiti impregnati di sudore, e piene le balle. Quella sera ero solo interessato a
un bagno e a qualche lettura edificante tipo Lo scherzo di Milan
Kundera.
Ero molto vispo quando leggevo quei libri che parlavano
di perseguitati e robe varie, mi immedesimavo come una marionetta. Così, non appena a casa m’infilai un triste pigiama
femminile flanellato, cominciai a leggere di Ludvik e Lucie e
del loro rapporto paradigmatico e impossibile. Mi sentii rinato.
Vista Hoda le cominciai a raccontare dell’Università e di
tutta quella roba insopportabile che avevo subito. Con Hoda
passavamo spesso la notte insonni a parlare di tutto; ogni tanto lei pensava nella sua lingua ad alta voce, e io per non essere
da meno, me ne uscivo con bizzarre espressioni dialettali che
la facevano scoppiare in una fragorosa risata. Le stringevo le
spalle con un abbraccio massiccio, mi aggrappavo a lei sul
letto come se fosse stata uno scoglio, l’ultimo rostro liscio tra
vita e morte, passato e presente, ingiustizia e giustizia. Poi lei
mi scivolava con le sue mani piccole e sudate fra le cosce accarezzandomele, fingendo quasi di suonare una tastiera. Poi,
quando spegneva la luce, il clic suonava come un gong, freddo controaltare alle nostre notti calde fatte di un abbraccio
infinito, fatte del suo bagnoschiuma alla cannella, dei suoi
morsi alle mie orecchie. Erano notti senza rapporti sessuali.
Rimanevo sconvolto dal corpo di Hoda, ma non riuscivo ad
annullarmi del tutto. Spesso le abbassavo i pantaloni del suo
pigiama di lana fino alle ginocchia, lei si metteva a pancia in
giù in modo che le coppe regolari del suo sedere fossero a mia
disposizione. Le guardavo, le sfioravo con le mani, tiravo pizzicotti e morsi, ci poggiavo il libro di Kundera e le usavo come
leggio. Ma tutto finiva lì.
La mattina mi svegliavo con il suo odore dappertutto tranne dentro di me. Mancava qualcosa, come se quello che era
140
successo in macchina di Ale fosse stata una pausa, una virgola
tra la sua voglia e le sue convinzioni.
26 aprile, dieci giorni dopo le elezioni
“Buona volontà? Non hai saputo impedirti di pensare all’Italia…”
(Da un quaderno di Franz Kafka)
I giorni prima delle elezioni Berty, Ale, Hoda e io passavamo pomeriggi interminabili a parlare. Ale era incontenibile,
un cantastorie di avvenimenti farseschi e improbabili, dove il
protagonista era sempre lui. Spesso raccontava disgrazie incredibili, come quella dei nonni di Berty, con una lievità agghiacciante. Esaltava il lusso, la società dello struscio, gli Oro
Saiwa, i quadrucci in brodo di tacchino della madre, la necessità di una pasticca il sabato, e tante altre cose che non condividevo per nulla. Hoda invece gradiva e rideva in continuazione quando Ale raccontava una qualsiasi puttanata. Berty
ascoltava soltanto con, spesso, un libro davanti. Si era messo
in testa di leggersi tutto Rifkin e voleva portare a termine quell’impresa. Quasi sempre gli facevo uno scherzo, sostituivo la
copertina plastificata della saga “Porno.fetish-club” con quella
del suo libro. Immancabilmente, lo vedevi due ore dopo tornare dalla sede del partito per cambiare il libro.
Lasciai perdere gli antidepressivi, non mi facevano dormire più, e per questo scoppiò una lite con Hoda. Lei voleva che
continuassi a prenderli, per me non se ne parlava nemmeno,
mi sentivo meglio. In verità, tutto quel casino di lite che ne
venne, erano gli arretrati sul mio comportamento e sulle mie
stranezze. Tutta roba che Hoda stentava a capire. Mi presi del
Tavor e ricominciai i miei giorni di sonno, simili in tutto e per
tutto ai miei letarghi malati appena dopo la disgrazia di Mary.
Sognavo una luna carbonizzata, un mare asciugato bevuto
fino all’ultima stilla da demoni e gnomi malefici; nel riflesso
141
di un bicchiere di sangue potevo leggere a chiare lettere, in
raffinato stile gotico, il mio nome, e da sveglio cacciavo insetti
inesistenti. Vedevo il mio spazio visivo invaso da sciami di calabroni e mosche gigantesche, onnivore delle mie idee e della
mia passione verso Hoda. Si accendeva e si spegneva intermittente. Soffrivo per quei sonni chimici, sonni che mi stavano consumando.
Zoopsia: stato allucinatorio di animali dovuto a stati patologici derivanti da alcolismo e cocainismo.
Mi rialzai definitivamente con la testa piena di immagini
nebulose: Hoda, i miei amici, il polizei in gran pompa, magistrati travestiti da boia pronti a spaccarmi le ossa. Erano solo
visi sfuocati senza storie e senza senso. Per fortuna, a sollevarmi il morale, ci fu una visita di Bertowsky, vestito cresima e
allegro come una pasqua ebraica. Si accomodò. Rideva e faceva il misterioso manco era l’oracolo di Delfi, poi sputò il rospo. Elegante, con i capelli impomatati e il codino, sembrava
un rappresentante di cassette porno.
“Franz, ho trovato il lavoro che mi piace grazie al Pochette.
Mi aveva chiesto una mano per le elezioni e sai come sono
andate le cose…”
“Sì, mi ha detto che lavoravi come addetto dellemiepalle a
non so cosa”.
“Leggevo i comunicati stampa ai giornalisti e dettavo le
notizie Ansa sul sito del partito più altre cazzate elettorali.
Ora mi hanno assunto in segreteria. Un milione e duecentomila
lire per non fare un cazzo! Lavoro due ore al giorno e poi
sono sempre in giro con Speri e Pochette, abbiamo fatto dei
convegni in un centro sociale sul disagio dei rom, ora ne dobbiamo fare uno sui senza casa e vorrei che tu parlassi della tua
esperienza. Sei disposto, non è vero?”
“ Ma io…” stavo per rispondere, ma m’interruppe come
se non importasse la mia risposta.
142
“Tante cose. Tante cose per davvero. Giriamo le scuole e le
parrocchie, siamo più attivi noi degli istituti di carità. Franz, è
bellissimo. La cosa più assurda è che hanno assunto solo me.
Mi hanno scelto tra tutti quelli che lavoravano prima delle
elezioni. Ti rendi conto!?”
“Bert, sono felice!”. E lo ero davvero. Bert faceva una cosa
che gli piaceva, faceva politica alla mia faccia che non sapevo
che cazzo fare. Piansi pure un pochetto, un po’ per le medicine, un po’ per i sensi di colpa verso Mary, un po’ perché Hoda
non era come credevo, che la mia vita era meglio da sbronzo
sulle scale della metro, un po’ perché avevo la testa prosciugata di idee. Mi sentivo un cazzone nel piangere davanti a
Bertowsky, uno che invece aveva le palle sotto. Lui mi fece lo
sguardo triste e mi diede un bacio vicino alle labbra, mi asciugò con le sue guance le lacrime che mi scendevano lentamente. Poi fece una battuta, tipo “Come sono checca oggi!” e ci
mettemmo a ridere.
Quando Bert se ne andò, presi un altro Tavor e mi rimisi a
letto, nonostante Hoda quella sera avesse chiesto di andare al
Multiplex.
Un sonno, una voglia di dormire, mi sentivo pesante come
la montagna del purgatorio, supino con la testa spiaccicata
nel cuscino, non vidi più nulla.
30 aprile 2000
E fui sveglio. Non sapevo che giorno fosse, se fosse passata
una sola ora dall’incontro con Berty oppure un mese. Vidi
Hoda, era agitata, riempiva una caffettiera, sospirava. Poi mi
venne vicino e mi abbracciò, avvolgendomi con le sue braccia
piccole e nervose.
Alla fine di quell’abbraccio, la guardai in faccia e vidi che
teneva gli occhi umidi. Dopo aver posato la sua mano piccolina sulla mia testa, mi chiese se l’avessi amata e se l’avessi mai
tradita. Sentivo il sangue in ebollizione per certe domande,
mi illividivano. Erano frasi che mi sussurrava sempre Chiara,
143
magari dopo una litigata furiosa, ma anche dopo una scopata
strepitosa. Hoda mi gettava queste sue parole truci e spinose,
che mi ferivano, dal nulla.
Le chiesi di tacere perché per la prima volta da quando
stavamo insieme, avevo l’impulso irrefrenabile di prenderla
con la forza. Ma non come si può volere una persona. Non era
roba di farmi una pruderie in santa pace, no! Era voglia di
essere lei, di mangiarla viva, far sanguinare le parti vitali del
suo corpo, azzannarla come una tigre, lacerarle il collo come
un vampiro ed essere un cannibale, serrarle le braccia e farla
inciampare nella ragnatela dei miei sensi. Ma la mia era una
dolce e tenera trappola, che Hoda infranse con un “Franz
perdonami”, e piantò una smorfia. Si coprì con gli avambracci
come se l’avessi dovuta malmenare, scorgevo lo sguardo monello dietro i gomiti, nei suoi occhi leggevo un’aria di sfida,
voleva essere battuta, voleva la rissa amorosa, voleva il reciproco contatto, ma quel contatto doveva essere solo violenza.
Passarono attimi vuoti che non sapevo con che parole riempire, punti interrogativi, certo, ma non ebbi abbastanza tempo per domandare.
“Mi sono baciata con Alessandro…” balbettò. Mi sembrò
uno scherzo, oppure un sogno, “…mi sono baciata con Alessandro…”, può darsi che dosi massicce di tranquillanti portino ad allucinazioni, “…mi sono baciata con Alessandro…”,
quello che nessuno immagina ritorna dentro Oniria, nello
scatolone notturno della fase rem di un delirio alcolico, “…mi
sono baciata con Alessandro…”, spesso immaginiamo cose
che non vogliamo che mai succedano, “…mi sono baciata con
Alessandro…”, le nostre paure sono fantasticate per essere
esorcizzate, “…mi sono baciata con Alessandro…”, a volte
pensi che lavorare serva a dimenticare la morte, “…mi sono
baciata con Alessandro…”, dovremmo essere sempre con la
mente impegnata per aspettare, “…mi sono baciata con
Alessandro…”,“…mi sono baciata con Alessandro…”, cento
volte nella testa, con in sottofondo la voce lieve di Hoda.
Poteva essere stato anche con la mia ombra, non m’importava un fico secco. Sarei andato dritto a farle male. Rimanem144
mo in silenzio per un po’. Per la testa mi passavano in continuazione le immagini del corpo di Hoda e Alessandro, intrecciati tra loro e uniti dalle labbra. Sapevo che doveva esserci
anche dell’altro. Ma era come se la mia immaginazione si fosse fermata, non andava oltre il bacio tra Ale e Hoda. Hoda
spiegò che era andata a parlare di me con lui, erano i giorni in
cui stavo sotto cura di tranquillanti. Dice che non sapeva come
fosse successo, che non se lo spiegava, implorava scusa, dice
che Ale piangeva dalla mattina alla sera, dice che ero strano,
che si sentiva sottovalutata, che non sapeva che fare quando
dormivo venti ore di fila, dice che stava male quando mi sentiva raccontare di Mary e Chiara, dice che voleva ridere, dice
che ero terribilmente solitario e serio, dice che le facevo paura, dico al diavolo!
Così feci la cosa peggiore che potevo farle. Andarmene,
fare fallire il suo odioso progetto divino di recupero-animeperse, questa cazzo di rottamazione del mio ego perduto nel
reparto grandi-falliti: doveva cessare una volta per tutte. Ero
troppo stufo di farmi sbeffeggiare in quel modo dalla sua vocazione da crocerossina cattolica.
Raccolsi il minimo indispensabile in un cartone. Hoda mi
guardava con occhi lucidi, disperata, paralizzata dalla insicurezza. Ma non aveva il coraggio di parlare e di piangere, era
evidente che c’era qualcosa che le bloccava sul nascere la forza di strillare. Soffocai le mie sensazioni. Riempii subito un
cartone con due magliette, qualche ricambio, alcuni libri, e
basta. “Il resto puoi bruciarlo, con te è finita”, feci il duro, ma
mi venne una voce sottile e rauca come quella di Mafalda.
Hoda mi sorrise amaramente, per smorzare, ma sapeva che
non ero un duro. Così cercai di non lasciar trasudare altre
emozioni. Chiusi, per andare nella mia vera casa. Stazione di
Tiburtina, stazione di smistamento del dolore, traffico di
metadone, odore di vino e bisolfito, whisky e silicone, sudore
e acido ascorbico.
Hoda mi supplicò sulla porta di parlare, ma fui risoluto.
Sgusciai come una biscia e a velocità di formula uno abbandonai casa. Solo quando fui ben lontano da Hoda, solo quan145
do seppi che non avrebbe potuto raggiungermi, rallentai il
passo e cominciai a vedere il film della mia vita. Ero sulla
Nomentana, nei pressi della zona dove si era schiantato il divino Rino Gaetano, terrone e anarchico come il sottoscritto.
La pellicola della mia vita scorreva rallentata e monotona. In sottofondo andarono le canzoni di Rino, Il cielo è sempre più blu, Aida, Ping Pong, Nuntereggaepiù, Berta filava.
Nonostante quella colonna sonora, la mia vita sembrava noiosa e nauseante, fatta di ripetizioni: tutto questo continuo fuggire, da casa, da Chiara, da Tiburtina, da Hoda, da me stesso, che era poi fuggire da scelte nette, dalla stessa esistenza.
E poi c’era il mio continuo conflitto col mondo: poliziotti,
fasci, figli di papà, puttanelle, ragazze per cui si rimane sotto
ecc. Eppure, se avessi dovuto raccontare qualcosa di me non
c’era un bel niente da dire. Mi potevo spremere le meningi
fino a farmi sanguinare le vene del cervello, ma di me non
avrei saputo parlare. Avevo addosso la terribile sensazione
di non aver vissuto, di aver non risposto alla chiamata, di
essermi imboscato, di essere nulla e di non aver fatto nulla
di buono.
Mi vennero in mente le parole del mio prof di italiano. Era
conosciuto come Jeremy Irons per la somiglianza con l’attore
inglese. Fu davvero un’illuminazione; mi venne il ricordo di
una sua lezione su Svevo, non mi ricordo che cazzo c’entrasse, ma si mise a parlare di Proust e del fatto che Proust aveva
scritto un’opera, di non so quanti volumi, solo basata sull’analisi introspettiva delle sue esperienze. Insomma disse che
Proust non aveva fatto nella sua vita niente di eccezionale, ma
era riuscito a scrivere un libro sulle sue sensazioni. E quello
era uno dei libri più belli che fossero stati scritti. Jeremy disse
che tutto stava nel saper vivere le cose, saperle capire. Ero
tanto preso dai miei pensieri, che non mi accorsi di essere a
pochi metri da una fermata del 492, il buon vecchio 492! L’amico di tante scorribande! Lo arrembai a velocità supersonica, e
in un baleno mi trovai diretto a Nostra Amata Stazione. Mi
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misi Proust e le idee di Jeremy Irons in saccoccia, feci un respiro profondo e tirai dritto.
Il 492 compì un giro pazzesco e lunghissimo, inghiottito e
sputato dal traffico a velocità penosa. Finalmente il bus mi
vomitò proprio davanti a casa di Oblomov, alias la 127. I passeggeri sciamarono in stazione, io invece andai a bussare sul
vetro posteriore della 127. Fece capolino, dietro un finestrino
appannato, la capoccetta di un uomo assonnato e col muso
gonfio. Non era passato molto tempo dall’ultima volta che
l’avevo visto, ma c’era un tale disordine nella mia testa che mi
apparve come un estraneo. “Oblomov, esci fuori! Sono Franz,
non mi riconosci?” e mentre dicevo così mi vidi spuntare a
lippa una tizia. Ebbi un’impressione di stupore nel vedere il
personaggio che si presentò. Non era una vecchia, non era
nemmeno una signora, era una cosa. Non si capiva, a metà
strada fra un uomo e una carcassa putrida, il viso tappezzato
di pustole nerastre, i capelli bigi come il cielo di Milano e
bianchi alla base, gli occhi strizzati come due tagli profondi,
nelle loro orbite non si distingueva la pupilla. Era Nonna Speranza che si ergeva dietro Oblomov; mi venne un capogiro
solo a pensare che tra quei due vi fosse stato un contatto fisico. Oblomov mi fece cenno di smammare, capii che lui doveva ancora cominciare a dare di stecca.
Corsi in Nostra Amata Stazione.
Qui, fui accolto dal solito branco; l’allegra combriccola
presentava diversi componenti inediti, dal vedovo di Mary,
Amedeo, fino a un tipo che era chiamato Meno. Questo tipo
era detto Meno perché era uno che riusciva a stupirti sempre
in peggio. Pensavi per un attimo di parlare con un idiota che
capiva poco, e dopo un paio di battute ti accorgevi che era
uno che ne capiva ancora meno. Meno lo conobbi per la prima volta in quella circostanza, prima per me era solo una figura mitologica, ascritta a metà strada tra l’invenzione popolare
e le stronzate avvolgenti di Jerry Barbetta.
Quando Jerry mi presentò Meno mi venne la pelle d’oca.
Jerry era tutto fuorché un signore dell’alta borghesia terriera;
cosicché, non appena mi vide mollò una scora micidiale che
147
fece girare mezza Roma, e mi disse: “La vuoi ’sta caramella?”.
Poi dopo avermi chiesto dello spicciolame, mi diede in pasto
Meno. Ciao come ti chiami, e quello ti rispondeva che fuori
c’era un bel sole. Più che meno, questo era un tipo dissociato,
dava alle parole significati diversi che il resto dell’umanità.
Erano tutti a suonare e fare baldoria; fui accolto come un
cristo tra i dodici apostoli e notai che tutti erano più ripuliti e
in carne. Cribbio che effetto, tutto questo essere ripuliti.
C’era Tarcy che stava con una tipa di Lecce che studiava
arte all’accademia, ma che era lì, cosciente e consapevole di
essere nel ghetto d’Italia. Era una topina niente male, si chiamava Sandra, e aveva un visino monello, pelo biondo e ondulato, bassina, ma a mio modesto parere una professionista di
maratone sessuali davvero estenuanti. In quel ben di dio, Tarcy
ci stava sguazzando come un orso nel miele ed ero felice per
lui. Il metadone lo prendeva, ma molto meno di prima. Da tre
dosi al giorno, era passato a una. Chiesi come mai quest’aria
di risurrezione, se per caso fosse passato da quelle parti un
tizio con barba folta e corona di spine in testa a liberarli dal
male.
Tarcy rise e fece un discorso di senso compiuto per la prima volta nella sua vita. Venni a sapere che un giorno sì e uno
no, all’ora di cena – Tarcy che parlava di cena era un paradosso – si presentava un tale, tutto compito e impaludato, tipo
Ambrogio dei Ferrero Rocher, con un pulmino. Prelevava tutto
il gruppo e lo portava in un posto a pochi km da Roma, lungo
la strada che conduce a Ostia Lido (una prece for PPPasolini).
Lì, in una villa sciccosissima, con delle colonne di tufo e
statue di granito, mangiavano cibi raffinati e rari, assaggiavano bevande esotiche e liquori sopraffini serviti da camerieri
gagà, e indomenicati come vescovi. Poi c’erano musici azzimati come amorini, che pizzicavano note celestiali su arpe d’oro
e viole di cristallo. Infine, quando ti ubriacavi e dovevi spurgare, trovavi un bagno meraviglioso, con i lavandini di porcellana e i rubinetti d’argento, gli specchi ovunque, pure sul water
più fastoso della storia, con ghirigori e appendiabiti d’argen148
to. Per chi non riusciva a sfilarsi l’uccello per aver troppo bevuto, accorrevano infermiere floffer che aiutavano lo sbronzo
davanti a queste tazze pregiate.
Alla fine di questa storia credevo solo a una cosa: avevano
inventato la più bella droga del mondo; quella che riduceva il
cervello solo a poltiglia di fantasia e vaneggiamenti, esattamente come mi sembrò in quel preciso istante la testa di Tarcy.
E invece lui disse di aspettare la sera e vedere. Vedere cosa?
Le loro bislacche invenzioni? Ma vaffanculo. Ero talmente
sconcertato e con gli occhi sbarrati dallo sbalordimento di
quella bubbola che mi andai a fare una grappa. Decisi: basta
col lavoro, basta con Hoda, piantiamo tutto e santifichiamo
questo anno, si ricomincia con l’autodistruzione.
La mia cancellazione dalle liste umane doveva avvenire per
mano del sottoscritto avente diritto. Per prima cosa bisognava avere metodo e rigore nella scelta dei compagni di distruzione: il mio alter ego poteva essere solo Tarcy. L’uomo del
metadone, della topa leccese e dei vaneggiamenti sulle ville
del piacere.
Tarcy mi invitò a casetta sua, alias la roulotte più maleodorante della storia repubblicana, il nido di rote e sbronze diviso sino a poco tempo prima con l’illustre scomparso Damiano
paceallanimasua.
Quando andammo in questa roulotte, in un campo leggermente fuori mano da Roma, era già sera. Strinsi subito amicizia con Sandra parlando con lingua sciolta e battuta automatica. Più la vedevo e più mi gustava questa topina pittrice, con
quelle manine doveva essere brava non solo a fare disegni.
Così malignai che, magari, quando il buon Tarcy era a terra
per la rota di metadone, ci ripassavo di stecca la topina.
Una volta arrivati a destinazione, proprio davanti alla
roulotte più arrugginita del dopoguerra, capii che qualcosa
sarebbe andato di traverso al progetto serale.
Un omaccione tarchiato e massiccio ciondolava davanti al
bidone a due ruote di Tarcy. Non appena ci vide venne incontro minaccioso, sfregandosi le mani come se avesse fatto tombola. Sandra sibilò preoccupata: “Papà!!”
149
Quelle due sillabe illuminarono di una luce mortale Tarcy,
che mi fece, rauco come un pappagallo: “Quello mi s’incula”.
Occazzo pensai, tutti i padri delle ragazze italiane pensano a
una cosa! Prima il prefetto con lo sfollagente per la storia di
Alessandro, ora questo fuso del padre di Sandra.
E già, tanto dritto non doveva essere, per andare a prendere la figlia in quella specie di campo nomadi dove abitava Tarcy.
Così cominciò una corsa nel fango e un nascondino più o meno
divertente attorno alla roulotte, con tutti i zinchi, gli albania, i
tossici e il maledetto popolo senzatetto a guardare con silenziosa curiosità. Il padre di Sandra sembrava più Mario Brega
che un genitore, Tarcy era un pupazzo in preda al panico,
aveva la faccia sconvolta dalla fifa e la voce alterata dalla paura di prenderle.
Mi stavo divertendo, Tarcy un po’ meno, soprattutto quando l’energumeno fece il ratto della figlia e schiaffeggiò Tarcy,
urlandogli di non infastidire la sua bambina. Poi Tarcy raccolse un bastone fradicio di pioggia sotto la roulotte e provò a
darlo sulla spalla di Mario Brega. Non l’avesse mai fatto. La
mazza rimbalzò senza danni per l’omone, che si girò e mollò
uno schiaffo sonante, ancora più fragoroso di quelli di prima.
Questa volta il buon Tarcy non ebbe scampo, in ginocchio
pregava di far rimanere la topa, con la faccia rosacea come
quella di un’aragosta, ma quello se la svignò, trascinando la
bimba strillante di forza.
E già, Tarcy, con la sua rota di metadone, le clave fradice,
quel secchio della spazzatura della roulotte, non era il miglior
partito per una donna, ma porca eva, fu un peccato anche per
me la dipartita a rotta della Sandra. Quel fiore di topa mi rimase in gola e mi sarei dovuto dare di Federica, la mano amica, per metterci una pietra sopra. Così quando finì la sceneggiata fu presa all’unanimità la decisione di sbronzarci come ai
vecchi tempi. I giri furono a mie spese, e fu cosa eccellente,
perché condussi il romeo dal cuore infranto in una bara etilica.
Ci sparammo del gin secco secco, mettemmo del ghiaccio e
l’allungammo con della Sambuca Molinari dolcissima tanto
per spezzare quel retrogusto asettico. Non eravamo soddisfatti;
150
nonostante una buona decina di giri di questo cocktail, cominciò la disfida.
La disfida consisteva nello scolarsi a morire bicchierini di
grappa finché non c’era uno che diceva basta, o comunque
crollava. Non valeva pisciarsi addosso e vomitare sull’avversario: bisognava trattenerla in corpo.
Il luogo prescelto per la disfida era un bar ad angolo all’imbocco della Salaria, il Devetsil. Non capii come cazzo che ci
trovammo sulla strada per Viterbo, eravamo già in pelliccia
etilica da parecchio e non riuscivamo a raccapezzare il senso
dell’orientamento.
Il bar era molto civettuolo, pieno di arabeschi e fotografie
di vip dell’immaginario comune nazionalpopolare, Nino
Manfredi, Alberto Sordi, Iva Zanicchi e un mucchio di cantanti italiani bacucchi tranne il migliore, il divino Luigi Tenco.
Nelle vetrinette, zeppe di cesti invenduti di Pasqua, c’erano invitanti bottiglioni di spumanti e champagne; dietro il bancone luccicavano le bottiglie dei liquori più amati dagli italiani, come file di soldatini pronti a immolarsi alla sete dell’alcolista: Petrus, Vecchia Romagna, Montenegro, Amaretto di
Saronno, Sambuca Molinari, Martini dry, Aperol, Zabov, J&B,
Ballantine’s, Bayle’s, Unicum, Fernet Branca. Evviva! Come
gioivo di quel ben di dio, quello era la mia vita e avevo gli
occhi gonfi di eccitazione. Mi sedetti sullo sgabello rotante di
fronte al barman e poco mi fotteva che mi versava Grappa
Julia oppure alcol etilico, l’importante era che mi facesse morire. “Due grappe bibo, riempici sempre il bicchiere quando
finisce” feci con tono alla Gibson in Arma letale. Ma in realtà
mi venne un fioretto di voce che parevo David Gnomo.
Il barman era poco più che un ragazzino brufoloso, annerito dalla fatica di stare fino a quell’ora a lavorare a mula; aveva una faccia sulla quale era scritto tutto il disgusto e lo schifo
che provava verso Tarcy e me.
Tarcy non scherzava mica. Era un insulto all’umanità e al
progresso umano; era un insulto a tutti gli scienziati e poeti
che avevano onorato il genere umano, barcollava anche da
seduto, aveva le occhiaie blu, della pagliuzza in testa, gli occhi
151
cerulei, le mani tremolavano come un malato del morbo di
Parkinson, le braccia lunghissime e le spalle curve lo facevano
sembrare uno scimmione avvinazzato. “Su, dai, insisti, bevi”
lo spronai: era la terza grappa e lo vedevo già in crisi. Invece
fu tutta una squallida messa in scena, lui beveva a un ritmo
che non reggevo e mi faceva star male. Mi accorsi, di punto in
bianco, che perdevo poco alla volta la sensibilità di alcune
parti del mio corpo. Alcune vennero travolte da un ipertensione ingiustificata, come la lingua con la quale leccavo come
un camaleonte il bordo del bicchiere; altre parti del mio corpo parvero staccarsi dal mio controllo: non sentivo più le gambe e le braccia, non rispondevano più. Ero sbronzo.
Si vede che era tardi e l’omino che mi aveva dato da bere si
dava da fare con ramazza e stracci per pulire il bar. Usava una
sottomarca del Mastro Lindo. Porco cane, non l’avesse mai
usata! Vidi a un tratto Tarcy totalmente fuori di testa che si
versava il Mastro Lindo nel bicchiere e trangugiava come un
dannato. Due dita di quel detersivo a rotta nell’intestino. Roba
da ospedale. Ma non successe un bel niente. E così si alzò e
uscì fuori a fare l’uccello di bosco.
Io non riuscivo ad alzarmi da quello sgabello, avevo un
terrore che se lo facevo cadevo come un salume. Non riuscivo
nemmeno a vedere bene, avevo davanti ai miei occhi una patina che non mi permetteva di capire quello che succedeva a
un palmo dal naso. Così, quando il tipo del bar mi cacciò, mi
resi conto solo col passaggio climatico da caldo a fresco, che
non ero più in luogo chiuso.
Quando fui fuori cercai disperatamente Tarcy, ma riuscivo
a malapena a strisciare al muro, e caddi per terra avvolto da
un sonno malato. Tarcy si buttò addosso e lo tenni lì, che russava saliva alcolica.
Dormimmo sul marciapiede, fra blatte e scarafaggi, sorci e
pattume. La mattina ci svegliammo alle cinque, pieni di fitte
su tutto il corpo, ai reni, alla milza, alla pancia. Mi bruciava la
testa da morire, ma si resisteva; di certo perché mi ero accoccolato su un bordo di granito molto spigoloso con addosso il
Tarcy ubriaco. Arrivammo a Tiburtina verso le sette, cammi152
nando abbarbicati l’uno sull’altro e ondeggiando come zombie.
Nostra Amata Stazione era il solito casino di gente con valige
in mano e zaini in spalla. Una fila interminabile di gente per
un cazzodibigliettofs. Tutti albania in gran pompa, urla, piumini bucati e puzza di sudore, nessuno che rispettava questa
cazzo di fila; i treni per il nord immobili sui binari ad aspettare l’orda, borsoni monstre e bambini strillanti dappertutto.
Le madri di questi piccoli albania erano davvero fighette da
paura, e se non stavo così male, mi sarei fermato a tentare il
ratto di qualche topina balcanica.
Jerry scuro e minuscolo, era lì. Vicino alle scale che portavano alla metro, ci intimò urlando di fermarci e mi disse che
la sera erano venuti a cercarmi una bella ragazza con i capelli
rossi non italiana, e un tipo molto trendy. Trendy per Jerry
significava essere vestiti alla cristocomanda e non alla cazzo
come noi.
Connessi in fiocca e capii che erano Ale e Hoda.
Il dolore sotto la milza mi aumentò a palla e cominciai a
non respirare bene. Persi i sensi in quell’istante. Percepivo
appena Jerry che chiedeva se mi sentissi bene; Tarcy rideva,
credeva scherzassi e diceva “L’ho bevuto io il Mastro Lindo,
mica tu”. Le mie gambe si piegavano e tutto il pianeta mi sembrava essere catapultato verso l’alto, oppure io verso il basso,
il cielo d’un tratto mi mancò e mi mancò anche Roma, l’aria, i
suoni, le voci delle persone divennero un tutto indistinto e
infine un limbo, nero e coagulato.
153
Capitolo 15
WHEN THE LEVEE BREAKS
Nel 1971 uscì il quarto album dei Led Zeppelin. Il più importante.
Includeva, accanto a capolavori come Stairway to Heaven e Going to
California, canzoni di assoluto valore come The Battle of Everymore,
Rock and Roll (il capolavoro della rock session) e Four Sticks. Quell’album destò scalpore perché non c’era nessun titolo né il nome della
band, ma solo quattro simboli misteriosi più un anziano con indosso
una fascina di legna secca. Un album targato Atlantic che consacrò i
Led Zeppelin come uno dei più grandi gruppi rock di quei tempi. L’ultima canzone dell’album era When the Levee Breaks ossia “Quando si
rompe la diga”. Canta Plant a un certo punto: “Don’t it make you feel
bad. When you’re tryn’ to find your way home, you don’t know which
way to go?”.
2 maggio 2000
Arriva un momento nella vita in cui devi scegliere da che
parte stare. Vuoi stare con i buoni? Ok. Ma tutto sta a sceglierli e a sapere chi sono: sono quelli che credono in Dio e
non nella chiesa, quelli che credono nella chiesa e non in Dio,
sono quelli dell’usa il preservativo o quelli dell’amore solo da
sposati, sono quelli delle battaglie antiproibizioniste oppure
quelli della lotta alla droga, sbirri e ladri, quelli del sabato sera
in disco con la musica nel cervello e quelli della domenica
pomeriggio, al concerto per la musica del cervello, quelli che
con i figli si deve dialogare, quelli che con i figli sanno dialo154
gare, quelli che giocano a pallone, quelli che lo vedono soltanto, quelli che parlano della droga e non la conoscono e quelli
che la provano e non ne parlano. Sì, tra tutto, ho scelto una
sola cosa. Una sola parola che non è Fine e non è Addio, ma
una parola unica e onnipotente.
Tutti attorno mi guardano, ci sono davvero tutti, troppi;
c’è il Bertowsky troppo impomatato per essere vero, c’è il mio
traditore Alessandro, ha gli occhi tristi e so che non è colpa
sua se gli piace la topa, e poi con la ragazza del tuo amico c’è
più gusto, ci sono Jerry, Tarcy, Oblomov, ci sono anche quelli
che non ci sono, Imma e Damiano, Mary e Chiara; tutti mi
guardano, veri o immaginati, mi sento amato e io amo loro.
Vedo su di loro le sovrimpressioni di Andrea Zanzotto, Giovanni Paolo II, Licio Gelli, Pier Paolo Pasolini, il prefetto con
lo sfollagente, papà Kafka. Ce ne sono talmente tanti che molti
protestano, un signore affianco a me ha dei tubi in testa. Un
altro ha flebo ovunque, paiono molluschi aggrappati con lo
sputo alla vita.
Dunque, sto in un ospedale. Non c’ero stato molte volte.
Mi ricordo quando fui spedito in hospital dopo la visita di
leva assieme a una comitiva di nani, gobbi, uomini con le tette
e aspiranti suicidi. Mi rimisero pimpante e allegro. Ero entrato tremando, causa delirium tremens dell’alcolista e froceria,
ne riemersi come un dio dell’Olimpo, perché mi avevano bello che riformato.
Ma ora è tutto diverso. Sin troppo.
Sto con le mani intrecciate come quelle di un morto, ma
non lo sono, anche se ci sono andato vicino, anche se ho in
faccia un colore giallino, seducente per nostra signora morte.
Eppure di tutto questo casino che mi è successo ricordo il
prima, il dopo, ma non il durante; la peritonite acuta mi ha
perforato l’intestino e i miei salutari succhi gastrici si sono
sparpagliati per i miei organi vitali. Morale della favola, l’intervento mi ha riportato in vita, ma non ho più funzionali i
miei reni e il mio fegato, crudele legge del contrappasso.
A proposito, da che parte ho deciso di stare?
Tutti mi hanno chiesto: allora, da che parte stai? Mi scuo155
tevano, mi davano incoraggiamenti, e facevano tutto quello
per cui si vuole essere un domani ricordati dentro un testamento, tra eredi e legati, tra amici e parenti, tra congiunti in
fila per essere ringraziati il giorno del matrimonio, della nascita di tuo figlio, il giorno della tua sepoltura. È una domanda che fanno tutti e che si fa a tutti, magari nascosta tra altre
centinaia di domande, magari nascosta dietro un’altra domanda. Con una metafora, con un nome di persona. Allora?
Certo che lo so. Che domande!
Dalla parte di Hoda. Qualche volta un ideale, un sogno,
un qualunque desiderio può realizzarsi aspirando a una persona, dandosi a lei. Ero ancora più innamorato di prima,
masochisticamente alla sua mercé, ma non mi fregava un
emerito piffero. Certo, un giorno potrebbero derubarci del
nostro cervello, del nostro pensiero, potranno far sparire dai
libri di letteratura Pasolini, Moravia, Montale, Parise, Fortini,
Penna, Tondelli e Bellezza con qualche scusa del cazzo: tipo
che sono stati comunisti oppure froci magari, ecco… spero
che quel giorno non arrivi mai, e se arrivasse, allora sì che ci
sarà di nuovo da combattere, da uscire le palle, da sputare in
faccia al mostro dei mediocri, ed esserci…
Oppure amare a mille una persona come Hoda, difficile,
impossibile e unica. Chissà, magari illuminati dalla fiaccola
dell’Anarchia, da quella dell’Internazionale, dalle 35 ore, dalle sirene globalizzanti… O da un seducente attico con terrazza e parabola satellitare, moglie frigida e figli scemi, inquadrato in qualche livello pubblico, aspettando le ferie, pregando
prima di mangiare, passando le tue giornate alla posta, dormendo otto ore con la tv accesa, comprandoti un placebo,
massacrandosi per l’eredità di un congiunto schiattato, spirando tra le mani di un notaio, seppellito tra cumuli di carte
bollate, preghiere, fiori di plastica e scritte in oro.
156
Epilogo
LA TURPE VITA
8 luglio 2000
Lentamente sento il dolore salire, ho come un fuoco caldo
in testa, e non vedo più, un buio fatto di colori sfumati, una
foschia senza toni predominanti. E poi attorno il rumore appare attutito, riunito in un solo ovattato brusio. Il dolore sale,
ho un solo flash, lo spazio visivo si dirada e sento qualcosa
uscire dalla mia testa, un piccolo stagno rosso risale per terra,
diviene palude, lago, sterminata distesa, immenso oceano dal
tono brunito, e il male mi sale alle ginocchia, al collo, al petto e non sento più nulla e prendo infernale commiato da me
stesso.
Un volo nel vuoto di oltre 15 metri. Schiantandosi sull’asfalto. È
questa l’ipotesi che prende corpo tra gli investigatori della Mobile.
Francesco Maria, il giovane trovato esanime, aveva 25 anni, con piccoli precedenti penali. Era da diverso tempo alcolista. È deceduto sul
colpo, pare che alcuni amici abbiano assistito al gesto folle del Maria.
È morto in via Tasso dove decine di romani furono torturati dalle SS e
dalle bande fasciste. Non è casuale il suicidio in questa via, su un biglietto reso pubblico dagli investigatori, ha lasciato scritto che il suo
ultimo lamento sarebbe stato accompagnato dai lamenti degli eroi. Perché a volte l’armonia è la follia di scegliersi degli ideali modi di scrivere
THE END.
(“Il Messaggero”)
157
Bertowsky
La notizia arrivò come un vento ghiacciato, un refolo infernale direttamente dal deserto delle nevi, ci distrusse il morale e
ci spezzò il cuore.
Eravamo con Speri e Pochette al Gay Pride, chi per lavoro,
chi per piacere. Quel giorno si rimorchiava a secchiate, ma per
Pochette non ce ne fu affatto, e imprecava contro tutto e tutti.
C’erano assieme a noi quattro tipi direttamente dalla Sicilia,
Vincenzo, Alberto, Alessio e Marco lasciati rispettivamente dalle loro ragazze perché erano lì, in fila con noi, a fare un baccano
infernale per i nuovi diritti civili negati. C’erano persone che
ballavano, stand di libri gay stracolmi di gente, il palchetto dei
razionalisti agnostici, un fiume di caroselli colorati e festosi,
musica, tanta musica, altri che raccontavano le loro esperienze,
un mare di gente nuda e maschi con le zinne.
Ma per me, il baccano divenne ben presto silenzio.
Qualcuno mi allungò uno spino, ma non lo volli fumare, ero
diventato di sale. Se la notizia era vera, per me era una cosa
terribile, la cosa più terribile della mia vita.
Quando ti muore un amico non è come quando ti muoiono
due nonni col gas; un amico te lo scegli, il destino te lo presenta
mimetizzato in un fascio di persone e lì fai la tua scelta, che poi
è una scelta di vita. L’amicizia è un valore di merda oggi, tutto è
utilitarismo e opportunismo, ma quando trovi qualcuno che fa
solo cazzate per te e gli altri suoi amici, allora che opportunismo
è? Quante cazzate ha fatto Franz. L’accattonaggio volontario,
l’alcolismo istrionesco, le sue cotte adolescenziali, i suoi ideali di
carta. Tutto è un immenso calderone di ricordi che mescolo e
rimescolo in questi momenti in cui la notizia mi rimbalza nella
testa. È una pallina di aghi che ha un moto perpetuo, mi distrugge le tempie e mi fa disperare, piangere come un bambino.
Speri mi diede via libera, fece un viso comprensivo, mettendosi una mano in testa e con l’altra indicandomi un angolo appartato del Circo Massimo lontano da drag queen, travesta, e
soprattutto dai lamenti di Pochette.
158
Mi trovai d’un tratto solo, con le ultime parole di Franz in
mano. Erano parole di paura, una fottuta paura della morte che
lo stava cogliendo, ogni volta pensava al dolore e piagnucolava
come un moccioso. Odiavo la messinscena, ma era troppo cambiato per sapere che i suoi pistolotti morali erano dovuti a una
sua svolta interna. Un giorno mi disse testualmente: “Potrebbe
arrivare un giorno che alcuni nomi verranno cancellati dai libri
di storia e che altri nomi saranno aggiunti. Potrebbe arrivare un
momento in cui qualcuno o qualcosa che tu credevi fosse giusto,
invece divenga, per uno strano incantamento del destino, la cosa
più sbagliata di questo mondo. Già domani potrebbero dire che
il vento non soffia sempre nella stessa direzione, ma cambia.
Certo, un giorno potrebbero derubarci del nostro cervello, del
nostro pensiero, potranno far sparire dai libri di letteratura
Pasolini, Moravia, Montale, Parise, Fortini, Penna, Tondelli e
Bellezza con qualche scusa del cazzo: tipo che sono stati comunisti magari, oppure froci ecco… Spero che quel giorno non arrivi
mai, perché bisognerà resistere…”.
Cristo, aveva ragione, ma la battaglia che tutti i giorni fanno
le persone che credono nelle idee e in qualche ideale, si fa da
vivi, e su questo ha avuto torto marcio…
Eppure, con Hoda le cose sembravano essersi aggiustate; l’ultimo mese fu un balletto di eventi in cui Franz decise di gettarsi
anima e corpo. Hoda se la diede a gambe a Gerusalemme, visto
che c’erano dei problemi di famiglia, e non si fece sentire per un
po’, Franz diede di testa perché senza Hoda oramai non capiva
più niente. Cristo, mi sembra ieri sentirlo imprecare contro Leira
che mi aveva plagiato…
Hoda un giorno lo chiamò da Gerusalemme e gli disse che
non tornava più a Roma, che se voleva poteva rimanere in quella casa che era stato il loro nido, ma che lei aveva nel cuore
un’altra persona. Chissà chi era, chissà come cazzo era, fatto sta
che aveva umiliato per l’ennesima volta Franz. Umiliato dal
ragazzo di Chiara, umiliato da Ale e umiliato da questo sconosciuto nuovo ragazzo. Era troppo buono, era troppo innamorato
di Hoda, non c’è altra spiegazione ai suoi fallimenti. Glielo dissi l’ultima volta che ci eravamo parlati; era stato già scaricato da
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Hoda, e a velocità supersonica si era sbronzato. Sembrava la
solita roba, e invece aveva in mente di lanciarsi.
Di colpo la vita troncata di Franz sembrò la conclusione di
un periodo della mia esistenza. Come se le nostre vite fossero
state le stesse, come se Hoda, Leira, Daniel, Alessandro non
fossero mai venuti a Roma, e nemmeno esistiti. Come se io avessi
vissuto per mesi in mezzo ai barboni, io, e non Franz; come se la
verità di tutta questa storia fosse una verità terribile legata al
mio vissuto che non so se ho vissuto davvero. A un diario intimo che non so se sia stato scritto davvero. Allora può succedere
che ti immagini tutto, che la tua vita non è come vuoi, che pensi
a chi sta peggio e a chi sta meglio, che tutto un giorno cambi, che
non sei quello che credevi di essere stato per tutto questo dannato tempo. Tutto in questo dannato posto che è Roma, cesaropapista in pieno terzo millennio, tra fiumi di barboni, quartieri
precari, baraccopoli in piena Europa, fra regge parioline, vippazzi
e antenne vaticane, vecchi e nuovi privilegi in perenne decadenza, dove l’aria della dolce vita si respira sempre meno e sempre
per meno gente, dove la vita è sempre più turpe per tanti, sempre più.
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CREDITS E INFO
Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni;
La grande Jeanne di Luciano Erba; Amen di Giovanni Raboni;
Morte segreta di Dario Bellezza, i Diari di Franz Kafka, Bevo
vino, dunque sono di Tullio Gregory.
I titoli di alcuni capitoli citano una poesia di Andrea
Zanzotto (Carità romane), un film di Pasolini (Porcile), quattro canzoni dei Led Zeppelin (Stairway to Heaven, Communication Breakdown, Since I’ve Been Loving You, When The Levee
Breaks).
Oblomov è dal libro di Ivan Goncarov, Nonna Speranza
da una poesia di Guido Gozzano, Mauri Mauri da un libro di
Maurizio Maggiani, il Galateo in bosco da un’opera di Andrea
Zanzotto, Power to the People è una canzone di John Lennon.
161
RINGRAZIAMENTI
A Luciana che mi ha salvato nel gennaio del 2000, a Marika
che mi ascolta sempre, ai miei che hanno riempito la casa di
libri invece che di giocattoli, ad Alessandra che è stata la prima a credere in quello che facevo, a Marcello che mi invitò ad
insistere con questo racconto, a Marco e Antonio che sono
stati come fratelli maggiori per tutti questi mesi, a Cinzia per
il titolo, ai ragazzi della Tiburtina, ad Alberto, Alessio e Vinci
con cui ho diviso quella “vita”, a coloro che mi hanno letto e
consigliato: Roberto, Sergio, Daniela, Michelangelo. Infine un
ringraziamento speciale a Giuseppe che mi ha sempre incoraggiato. L’autore sostiene la causa dei ragazzi della “Maizza”. Resistere!
162
INDICE
INTRO
9
Capitolo 1. CARITÀ ROMANE
11
Capitolo 2. FOTO DI GRUPPO CON WHISKY
22
Capitolo 3. ACCATTONI
37
Capitolo 4. ONIRIA
53
Capitolo 5. PORCILE
56
Capitolo 6. MILLENNIUM BAR
65
Capitolo 7. STAIRWAY TO HEAVEN
82
Capitolo 8. ADDIO RAGAZZI DI VITA VIOLENTA
86
Capitolo 9. IMAGINE, IL REGNO UNITO E RABELAIS
94
Capitolo 10. COMMUNICATION BREAKDOWN
109
Capitolo 11. MARLEYDAVIDSON
113
Capitolo 12. WELCOME TO SALÒ
119
Capitolo 13. SENTIERI INTERROTTI
124
Capitolo 14. SINCE I’VE BEEN LOVING YOU
139
Capitolo 15. WHEN THE LEVEE BREAKS
154
Epilogo. LA TURPE VITA
157
CREDITS E INFO
161
RINGRAZIAMENTI
162
Stampa Arti Grafiche Stibu
Urbania, febbraio 2003
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