Comments
Description
Transcript
Neppure quando è notte
PEQUOD Prima edizione: febbraio 2003 Seconda edizione: marzo 2003 © 2003 peQuod, Ancona www.pequodedizioni.it ISBN 88 87418 41 1 Mario Desiati Neppure quando è notte peQuod Giorni riempiti di dolore Di occupazione rabbiosa Neppure quando è notte Ha riposo il suo cuore È miseria anche questo Qohélet o l’Ecclesiaste, 2.23 I personaggi e le storie contenute in questo libro sono frutto della fantasia dell’autore. Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è casuale. I fatti di cronaca realmente accaduti sono funzionali alla narrazione. Le opinioni e i giudizi espressi dal protagonista Franz Maria su cose, oggetti, persone, corpi militari, movimenti politici e religiosi appartengono al protagonista e non al narratore, sono dunque utilizzati per fini meramente narrativi. INTRO Un giorno potrebbero derubarci del nostro cervello, del nostro pensiero. Potranno far sparire dai libri di letteratura Pasolini, Moravia, Parise, Fortini, Penna, Tondelli e Bellezza con qualche scusa del cazzo: tipo che sono stati comunisti oppure froci. Potrebbe succedere che qualcuno dice che il mondo con tutti i suoi pupazzi fatti di acqua, fango e sale è fatto per i vincitori: quelli che stanno dentro “Forbes”, quelli che hanno la copertina di “Cosmopolitan” e sei canali televisivi. Oppure ti potrebbero dire che c’è un prezzo ai tuoi sabato in disco, i tuoi maledetti surgelati e le tue scarpe da jogging, ma soprattutto c’è un prezzo alla tua libertà di pensiero e questo prezzo è che non ti ascolta nessuno. Ti diranno che questa generazione sa solo fottersi con le sue stesse mani, che è quella che si schianta a 180 contro un guardrail dell’Autosole, che si appassiona solo degli effetti speciali del dolby surround, della programmazione dei pomeriggi di Italia 1. Ti diranno che non fanno più politica, che indossano magliette con stelle rosse e croci celtiche senza capirci niente, che leggono “Topolino” e vanno ai meeting di Cl. Ti diranno che sono fatti così, come Mtv li ha fatti, tutti in serie come un McChicken con Coca. Ti diranno che sono liberi, ma c’è un prezzo per questo e questo prezzo è che non ti ascolta nessuno. 9 Capitolo 1 CARITÀ ROMANE Negli ultimi quattro anni la povertà nel nostro paese non è aumentata significativamente, ma ha cambiato volto e ha spesso gli occhi di un ragazzo. Giovani sono i clochard: 17.000 persone, ma la stima è approssimativa. Più del 70% di chi vive in strada ha meno di cinquant’anni. (“Corriere della Sera”, 15 novembre 2001) Da dove cominciare una storia, da dove cominciare a raccontare l’inizio dell’anno santo, profanato e volgarizzato da tutto: dalle chiese e dalla politica, dalla miseria e i pomeriggi televisivi? Da dove cominciare un racconto sull’inizio del 2000 e tutte le menate sul millennio che finisce e quello che comincia? Dove raccogliere i resti di paure e spauracchi antidiluviani, ideali cesti di memoria per collezionare perle di santoni che acclamano la fine? Allo scoccare di una qualunque mezzanotte della nostra vita, oppure in quella mezzanotte millenaria pingue di polvere da sparo e alcol? Dove cominciare queste commoventi prediche sui bachi che avrebbero paralizzato il mondo delle banche e degli istituti di credito, delle televisioni satellitari, dei vostri amati sistemi operativi? Di tutto questo ho solo desiderato una cosa, una cupa e nera parola fine. Fine. Fine. Anzi The End. Tanti The End. Come quelli che escono su sfondo bianco nei vecchi film degli anni Trenta di Charlie Chaplin. The End, parola che ti sbatte 11 addosso un quintale di sensazioni, parola che ti arriva come un secchio di birra ghiacciata, come olio bollente sulle tue mille cicatrici, bada bene, in un solo attimo. The End. È finito il film. Posso tornare alla mia vita normale. Non è cambiata di un’acca: dalle fottute sanzioni della polizia metropolitana, ai calci in culo dei maniaci dell’ordine e della pulizia; dagli “smamma sei sprovvisto di biglietto”, alla faccia schifata dei passeggeri di un tram, passando per l’odore asciugato di sudore, fino alle sbronze di primo mattino. E allora da dove la cominciamo? Dalle genealogie. Perdio! Lo faceva Henry Miller come lo faceva il salmista della Bibbia, lo faceva Omero, lo fanno i vecchi saggi del mio mortale paese in Puglia. Lo fanno le prèfiche per ricordare chiunque abbia un naso per respirare, i preti poeti da Pietro Paolo Parzanese in giù e chiunque abbia una lapide dove spirare in aeternam. E allora facciamole queste genealogie che possono essere in verticale o in orizzontale. Non mi curo dei legami iure sanguinis e delle deprimenti carte anagrafiche. Me ne sbatto degli affanni in un seminterrato di tre metri quadrati senza finestre, senza Shakespeare. Non hanno poesia nelle vene i fottuti burocrati. Quelli che dietro una scrivania vedono sempre il mondo dal busto in su e non sanno cosa c’è sotto, ma nemmeno dietro. Burocrati del posto fisso, del “non sa chi sono io”, affamati di niente. Senza poesia. E nel sangue hanno solo la paga netta mensile; allarmante diaria della routine, elemosina da dividere con una famiglia di figli scemi e moglie frigida. Tutto è burocrazia, un inutile conteggio di giorni lavorativi, legami inesistenti e finti registri di paternità, miracolati e atei, mafiosi in livrea e puttane ai bordi dell’Appia antica. Tutto è burocrazia, è un semplice elenco di convenzioni. Il catalogo del 2000 è una scala sociale di paria e principi, sfigati e fortunelli, famosi e pezzenti, morti di fame e dignitosi intellettuali. Quello che conta è un maleodorante stipendio, fatto di soldi, compromessi e tanti inchini a dottori e dottoresse e a volte neanche a quelli. Forse sono ribelle e dico questo con nelle orecchie David Bowie e tutto il punk italiano. Lo sono perché non scriverò 12 mai un libro e se lo facessi non lo sarei più. Sono un esule perché chi si ribella finisce esule in un mondo fatto di ghetti. Questi ghetti sono subdoli, si chiamano centri sociali, rassegne musicali alternative, terze pagine, collane di poesia, mercati notturni, cantine sociali e stazioni Fs. Ergo. Tutto questo sono io il crepante Franz Maria, ultra ventenne che sta morendo. Chi decide di suicidarsi lo fa una sola volta. Io ho deciso di declinare lentamente a vent’anni, quando ho cominciato a lasciarmi vivere addosso, vedermi scivolare tutto come quella enorme statua della “divina indifferenza”: poesia di Montale che piace spararmi quando sono sbronzo da non distinguere un palo della luce da un essere umano. Così si comincia dalla genealogia di chi ha preso le sembianze di un uomo crepante. Sono figlio di Franz Kafka. Perdio ho scelto un padre e questo è già un privilegio che nessuno può vantare. Perché devo scegliermi un padre che si mette di nome una sfilza di insignificanti fonemi, Francesco, Giuseppe, Vito, Giorgio, Roberto, Remo? Mio padre è Kafka e basta questo. Mia madre è Imma e ora fa compagnia a mio padre Franz Kafka lassù in un cielo etilico di china. Imma è crepata di cancro al fegato o cirrosi o non si sa di che cosa. Ma adesso non importa. Un tizio disse “l’alcol è l’escatologia delle nostre intenzioni sepolte” e non chiedetemi che significa. Era un medico mingherlino e meschinello con un’aria gretta da strozzino, occhialini tondi e barbetta caprina. Stava annoiato con un insopportabile odore di dopobarba addosso, impalato al capezzale di Imma, dolce mammina con gli occhi appena sbarrati da nostra signora morte. Non dimenticherò mai quella carcassa bianchiccia come un quarto di luna che respirava con il ritmo mortifero dell’ossigeno in scatola. Mia madre è morta incarognendo e questo mi ha accorciato la vita più di ogni bevuta e fumata, più di ogni delusione d’amore, più dello scioglimento dei Nirvana. Affanculo. Mia madre fu massacrata da un matrimonio di cui non so nulla, che non so se è esistito, che fu distrutto da un tipo che si chiama Remo, e adesso chissà dov’è. 13 Arrivai a Roma per fuggire, per essere lontano dai rumori domestici di preti e parenti pronti a tendermi la mano, mortis causa. Solo in estremo. Lontano da tutto: andare in banca, parlare col notaio, e poi con gli avvocati, e poi in congrega per il sepolcro dell’amata Imma, e poi fare la faccia afflitta, mendicare, sbavare, “sono solo non so da dove cominciare”. Lontano anni luce da Taranto ex Italsider, Belleli, Eni e la morte certa dentro un forno, schiacciato da una gru, bruciato nel combustibile liquido, consumato da un puntualissimo tumore all’apparato respiratorio, soffocato da misteriose polveri di colore arancione che riempiono i balconi, le terrazze, il bucato, le foglie, i cigli delle strade, il naso, la bocca, i capelli, tutta Taranto e suoi mari metallici. Ma ecco l’eureka, l’incredibile tesoro, arrivato come neve rossa in settembre, chincaglieria in un vasetto di miele, roba da matti, ma è arrivata da una destinazione sconosciuta. Vivere giorno per giorno, senza pensare a domani, come se ogni ora fosse l’ultima ora divorata dalla tua vita. Sopravvivere a Roma con un zainetto pieno di libri: da Kafka a Hrabal, da Hasek a Jan Neruda, Musil, Holan, fino a Pasolini. Sopravvivere a Roma, con una bottiglia, una sola bottiglia di Aglianico del Vulture. Sopravvivere a Roma, con una cassetta con audio cattivo dei Led Zeppelin. Sopravvivere a Roma senza Chiara. Sopravvivere a Roma. Senza “hebel”, senza vanità, come consiglia il libro più sgomentevole che c’è: il Qohélet. Mi sistemai come un cane sotto il primo capezzale di pietra. Era una casa addobbata a morte sociale, stamberga a piano terra sulla tangenziale: tra il tiburtino desolante e l’American Parioli. “Ho costruito la tana; sembra riuscita bene. Da fuori, a dire il vero, si vede solo un gran buco, ma quel buco non porta da nessuna parte”. Sì, è chiaro dottor Kafka, alias mio padre. Il mio disperato pellegrinare non importava granché a nessuno, solo al padrone di casa, alias lo Stato Italiano. Rigoroso 14 usuraio. Non aveva altro da chiedere, alla sua vita da ultracentenario, che il mio sgombero. Conseguenza: una vita vissuta sotto una spada di Damocle fatta di carte bollate e timbri. Puntuali visite di giovani geometri brufolosi con livelle e metri, minacce di vigili urbani dall’aspetto bonario e panciuto. Il posto era un rustico su cui in teoria pendeva un sequestro penale. Espropriato perché a due cm dalla strada a quattro corsie. Era lì. Dimenticato. Pertanto, causa presenza tetto, si erano rifugiati i personaggi più disparati. Magnaccia, tossici, clandestini, puttanoni, transessuali e ovviamente io. Si trattava di una mostruosa catapecchia che sarebbe dovuta servire come deposito e che neanche i ragazzi del centro sociale di Vigneto volevano occupare. Se ne vennero un giorno bardati di buoni propositi due fighine liceali e un rasta con scarpe Nike e sciarpa da Caravaggio e oltre al collo. Avevano vissuto fino a tre minuti prima immersi nella Roma Prati più sciccosa con la bocca a ventosa sul portafoglio del babbo. Le loro facce di fronte a me che nuotavo nella sporcizia, nelle buste piene di stracci e stravolto da un litro di vodka, erano un misto di chi ha visto l’apocalisse e chi ha pestato un’enorme merda. Col tempo divenni il padrone di casa trasformandola, con amati shopping nelle pattumiere, in una stalla vivibile. Non c’era niente, acqua, mobilia, vasellame, corrente elettrica, tv, niente. Feci il simpatico, dietro la porta di compensato scrissi con la bomboletta: CASA OCCUPATA DAL 1977. Non so perché. Mi piace. Fa sentire importanti. Mi piace essere quello che non sono. Alcuni dicono. “Cazzo fai” senza congelatore, apparecchi elettrici per mantenere il tono muscolare, friggitrice e videoregistratore. Altri mi fanno “cazzo fai” senza radio e tivvù. Mi basta pensare a Pier Paolo Pasolini che arringa l’Italia a processare i responsabili del disastro paesaggistico. Oddio. Per la tv di stato non basterebbe la fucilazione per aver ridotto questo paradiso in un buco maleodorante. Eccoli lì in mostra, basta infilarsi in una pizzeria aperta fino a tardi dove la televisione rimane accesa tutta la notte: mediocri leccapiedi, baldracche che leggono oroscopi, giocatori di Enalotto, patiti 15 di soap, edonisti da quattro soldi, berlusconi, cialtroni delle televendite, porta a porta. Un giorno presi un amaro a piazza Bologna. Respiravo aria di smog e pneumatici come tutti i senzatetto di Roma. Il Fernet poteva darmi ossigeno. Entrai nel bar come un tossico a caccia di metadone. Presi gli spiccioli scollettati due secondi prima e senza contarli li riversai sul bancone. Una signora sulla quarantina con un collo enorme mi versava l’amaro. In televisione c’era un uomo vestito da topo. Aveva una coda grigia, una tuta aderente. Faceva boccacce, saltellava come una palla matta, fingeva di squittire. Ballerine strafighe, scosciate a puntino, ridevano, il pubblico applaudiva. Inquadravano un sacco di persone che sembravano molto divertite. Ex piduisti, mazzettari, arrivisti e sgualdrine avevano la faccia consapevole di essere gente invidiata e ammirata. La signora del Fernet non contò i soldi, scosse la testa per l’ammirazione. All’ennesima performance del topo sussurrò fra sé e sé: “Però è bravo”. Di Roma mi piace tutto. Certo non rimpiango minimamente le pistole grigie dell’Italsider con la canna rivolta verso l’alto; la nebbia nera, densa come inchiostro dove s’inzuppava l’orizzonte dietro Taranto. Una nebbia di morte, che ogni giorno uccide con il cancro una città e una terra. Quando avevo 15 anni andavo sul monte dell’Orimini per vedere l’Italsider; ci andavo con i miei amici Bert e Dani sulle biciclette. Facevamo un sacco di pensieri su quelle nuvolette scure, immaginavamo che dietro ci fosse la vita, il paradiso in terra, che superata Taranto c’erano otto ore per Roma dove avremmo studiato e l’avremmo conquistata. Mi bastava solo evocare per un attimo questo episodio che immediatamente quella tangenziale sfigata dove abitavo, il parcheggio dell’Atac, i rumori notturni incessanti, le disinfestazioni e la stessa spazzatura che si cumulava dietro i piloni dei cavalcavia, diventavano il miraggio romano che nutrivo da adolescente. Roma è questa! La storia di Franz Maria comincia qui, nell’odore marcio della Tiburtina, stazione di smistamento di una capitale d’Europa. Comincia qui, nella puzza di umido e vino 16 in cartone, odore di corpi umani lacerati dalle pustole della povertà e dell’accattonaggio. Tutto qui puzza di miseria. L’odore della miseria è leggermente dolciastro, un odore di bucce marcite come i libri della libreria di Tiburtina, come le dita dei questuanti e degli artisti di strada. Come per un dannato in un infernale girone dantesco, tutto puzza di mendicità, muffa e alcol. I bagni sono pieni degli stracci dei barboni, le panchine di ferro consumate dal sonno di chi non ha dove dormire. Qui si danno appuntamento migliaia di diseredati. Qui si dà appuntamento chi ne ha piene le scatole di vivere per guadagnare il pezzo di pane. Un pezzo di pane duro, avaramente offerto da un mostro sociale che schiaccia e irride la retorica di chi ne parla. La retorica sia benedetta! Lo diceva Aldo Fabrizi. Perché anche un comico ricco e affermato, con l’opulento simbolo della sua pancia, poteva permettersi di dirlo. Roma è la capitale della retorica, ma è stata punita dal destino: le hanno dato lo Stato Pontificio, Mussolini, Andreotti, Ciarrapico, il Ministero dei Beni Culturali e la curva nord. Il fischio urlante della metro richiama all’ordine ogni giorno la nostra allegra combriccola di suonatori e cazzeggiatori. Un concertino fatto di chitarre, bongo, tamburi di latta, voci affilate dalla birra. Di qui ne sono passati di tutti i tipi anche per un solo istante: danzatrici di ventre, trasformisti, uomini serpente, mangia spade, sputa fuoco, contaballe, seminaristi pentiti, sgualdrine da quattro soldi, studenti fuoricorso, poeti della domenica, gente che fuggiva di casa e trampolieri suicidi. È passato di tutto in questo corridoio di plastica e gomma, impregnato dell’odore del vagabondaggio di Franz Maria, ma proprietà anche di mille altri accattoni. Breve inventario al presente. Ne ho tanti accanto. Ho Tarcy. Non è una brutta persona, ma quando è lontana dal suo metadone, migliore amico dell’uomo, mette il cervello in folle e si appisola nei punti più strani con le sigarette accese oppure, molto più spesso, monta casini, strilla, cerca me per andarsi a sbronzare. C’è Mary, 17 sdentata, smunta e consumata dall’eroina. Con un sesso dilatato, nero e grosso come un’arancia spaccata. Ma non altro che un torvo ricettacolo di malattie, unico conforto di tanti disperati che non hanno conosciuto altro che il suo abbraccio scheletrico. E poi c’è Jerry Barbetta, scollettatore professionista che va in giro con una valigia di carta legata al polso con una corda piena di calendari di Padre Pio. Spesso se ne veniva con un interrogativo inquietante. Corrugava lo sguardo e ghignando faceva: “La vuoi la caramella?” indicando un calendario ridotto a un rotolino. Mauri, invece, si professava al mondo intero “strimpellatore”, in realtà era un ladruncolo matricolato noto per la sua performance con il papa. Infatti qualche anno fa il Vaticano si cacciò in testa di fare una funzione della settimana santa tra la feccia della società, alias i barboni capitolini. Il papa, immediatamente rinominato Joao Paulo, senza motivi apparenti si occupò di una strepitosa lavanda dei piedi. Mauri fu colpito da una botta di culo. Era lui il terzo a cui il papa avrebbe umettato le pendici maleodoranti. Piccolo particolare: Mauri non si toglieva le scarpe da un paio di anni. Il nostro caro strimpellatore saltò di gioia quando seppe che niente meno il papa doveva fargli quel penoso servigio. Per giorni non si parlava d’altro. Il papa e i piedi marci di Mauri. E già immaginavamo mollette pastorali al naso pontificio, svenimenti e malori tra i cardinali. Insomma una serie di luoghi comuni sul fetore dei piedi che poteva far ridere soltanto quattro sbronzi cialtroni come i sottoscritti. Ben presto le cose furono chiare. La mattina del pediluvio venne una squadra di suore e volontari che prelevarono Mauri e lo misero a mollo in una detergente vasca papista. Quando il papa gli avrebbe fatto la lavanda sarebbe stato bello pulito e odoroso come un fiorellino. Gli misero addosso stracci puliti e profumati. Mauri era tramortito da tanto lindore. Ma non appena il papa si chinò su di lui iniziò a ripetere con ossessione: “Pablito, Pablito, Pablito…”. Ogni riferimento alla semifinale mondiale Italia-Polonia 2-0 era puramente voluto! Joao non se la prese e dopo un sorriso pontifi18 cio convertì Mauri all’istante e da allora ci parlò sempre dello strano profumo che emanava la testa del Santo Padre: un profumo dolciastro e ficcante simile ai gelsomini. Alla testa di questa banda c’era Damiano, il mio vero amico dei primi mesi a Roma; la musica gli scorreva nelle vene come e quanto la Sambuca Molinari. Era come se il sangue, le ore della giornata, la fisarmonica dei suoi pensieri e lo stesso spazio vitale fossero una strada stretta e disseminata di petali nivei di sambuco. E poi c’era Oblomov. Che viveva in una 127 rossa, passando il tempo a guardare lo scorrere della vita. Senza questua. Assistere e basta, da dietro i vetri della sua 127, guardare il mondo passare davanti come le sequenze di un film con sonoro cattivo. Chi ha messo piede in quella 127, ha narrato di chicchere e ninnoli vecchi, cianfrusaglie e ciarpame grattato dalla spazzatura. Quella 127 pullulava di piccole ricchezze, minuscoli valori degni di un antiquario col gusto dell’orrido. Questa carrellata di figuri aveva il suo vertice in Nonna Speranza, che era una signora dall’età indefinita. C’è chi le dava cinquanta, chi sessanta, chi ottanta anni. Leggende la davano per trentenne, altre storie la descrivevano come ultracentenaria. L’accattonaggio appiana gli anni, smussa i corpi, le stesse espressioni facciali, fino a renderle tutte uguali, in una gamma monotona da miseria a miseria. Il volto di Nonna Speranza faceva eccezione solo sotto un aspetto. Quella espressione immobile e fissa, con lo sguardo di chi non sai se è tonta oppure saggia, cambiava quando qualcuno passava indifferente davanti alla sua mano tesa. Allora il suo sguardo si inaspriva corrugando la fronte, senza mai fiatare o imprecare. La sua mano sosteneva un contenitore di plastica, di solito un sotto vaso verde, e ogni sera raccoglieva tanto poco da avere la carità degli altri barboni. Nonna Speranza aveva un seno enorme e penzolante, cosparso da macchie marroni. Lo vedemmo perché, una volta, aveva chiesto invano la carità a uno scrittore famoso che stava per presentare un libro alla libreria della Tiburtina. Questo tipo era uno che parlava di amore, di comprensione, di tutte 19 le cose belle del pianeta terra. Faceva molto sociale e camminava allampanato con un maglione a collo alto accanto a una biondina aggrinzita. Si chiamava Albertone, Albertini, Abetone, Brandone, Brandirali occazzo non mi ricordo. Durante la presentazione andammo tutti per dare fastidio al tirchio. Mauri ruttò, noi ci mettemmo a spingerci, a menare qualche gridolino, roba del genere, insomma baccano. Poi ci lanciammo i libri addosso. Questo fece girare le rotelle al pacco di Abecomecazzosichiama. E così ci montò una predica di venti minuti sulla nostra rozzezza, disse qualcosa del tipo “la proprietà privata è una forma di rispetto verso il prossimo”. Nonna Speranza rispose alla grande. Fece scivolare la spallina dello straccio che aveva indosso, e uscì questa tetta pustolosa; infilò la mano sotto la spalla e con il movimento sussultorio del braccio cominciò a fare pernacchie con l’ascella. E dunque sono qui. Me ne venni un anno fa quando si temeva ancora la guerra del Kosovo; l’immigrazione in massa di albanesi, curdi e cinesi con i loro cenci; la bolgia del Giubileo, la tristezza della sinistra di governo. Oggi sono passati diversi mesi, con in mezzo il capodanno del 2000 e Roma che muore soffocata da questa melma di pentiti turisti, sudati e preganti. Uomini e donne in tenuta sportiva e scarpe firmate da trekking con figli obesi e nonni rincoglioniti dal caldo. Autentica gentaglia che da un momento all’altro, dopo pochi attimi di compassato pentimento, tornerà a uccidere, violentare e distruggere, votare Forza Italia, annullare, fottere il prossimo e fare ciò che non hanno mai osato pensare, ma solo fare come conigli. Fuggo dal sud e anche da Chiara. Io amavo Chiara e Chiara amava me. A detta di tutti avevo tutto. Io estremo elettrone dell’atomo provinciale avevo conquistato la mela più rossa e appetita. Con l’idealismo si scalano grandi vette, ma non si rimane sopra a lungo. Con Chiara finì perché lei troppo tutto e io troppo niente. Lei con la vita scritta sul palmo della mano e ogni 20 virgola corretta e bianchettata con cura e attenzione. Io uno strafalcione di Dio in persona da convertire in un filantropo borghese rotariano. Invece ne ha fatto un mostro alcolista, ultra idealista pieno di nevrosi. Addio Chiara, sarai sempre come fu Felice Bauer per Franz Kafka. Sarai ninfa irraggiungibile, e noi i due amanti che vivranno una vita senza coito, senza contatto fisico, solo quei lembi di carte pieni delle professioni di fede al passato che non tornerà. Non ci sarai mai più, bruciata, consumata, esplosa, disintegrata. A Chiara, ho preferito un bicchiere di cartone con la scritta globale Coke da riempire con l’elemosina. E ho preferito amare un pezzo di carta tintinnante di monete. Ti amo molle bicchiere di cartone. Ti amo quando sento le tue pareti aprirsi nelle mie mani. Ti amo quando spalanchi la pancia e l’orlo mi risucchia nel tuo stagno di ferro zincato, mare di monete dove affogano le mie giornate. Art. 670 Codice Penale. Mendicità: chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con l’arresto fino a tre mesi. La pena è dell’arresto da uno a sei mesi se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperare altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà. Io sono di carità. Vivo di miseria e me ne fotto se un giorno da questa stazione passerà Kafka, il buon soldato Sveik, Ninetto Davoli che fa capriole, Lara Croft, Chiara, o il papa in persona. Sarò accucciato come uno sbronzo qualunque, acquattato nel letamaio del sottopasso direzione Laurentina, a sfangare l’aria per chiedere “aiuto”, solo una lira, per essere sempre più fatto, sempre più sbronzo. “Vengo dall’Italia” disse il mendicante, ma non come risposta, bensì come confessare una colpa. (Da un quaderno di Franz Kafka) 21 Capitolo 2 FOTO DI GRUPPO CON WHISKY I Led Zeppelin nascono da una costola degli Yardbirds, un gruppo che ha visto nelle sue fila oltre al chitarrista dei Led Zeppelin, Jimmy Page, niente meno che Eric Clapton e Jeff Beck. I Led Zeppelin sono uno dei rari gruppi in cui un musicista supera in popolarità il vocalist. E che vocalist! Robert Plant è una delle voci più acute e particolari della storia del rock, scoperto dallo stesso Page in un anfratto a cantare con un gruppetto chiamato Obstweedly davanti a uno sparuto pubblico di studenti alcolizzati. Era un fanatico dei Moby Grape e fu portato alla ribalta con l’album Led Zeppelin nel 1969. 30 dicembre 1999 giovedì La storia CASA OCCUPATA DAL 1977, accattonaggio e affini, era stata spifferata dal sottoscritto al gruppo dei compagni di liceo. Daniel, Rossy, Bertowsky e Leira erano a Roma. Per le loro facce pulite sarei stato un bel diversivo al solito capodanno in discoteca o in qualche masseria terrona a fare il monotono conto alla rovescia. Erano tutti studenti modello. Gente che ancora non sapeva che farsene della vita, se gettarla nel cesso come me, oppure ricavarci un minimo di utile. Ma quello di cui non mi ero reso conto era che mi stava piombando a casa la foto di gruppo dei miei grandi amici. Quella foto che guardi da vecchio. L’immagine fissa a cui ti accompagnerai fino alla morte. I pro22 tagonisti delle tue avventure finte e false da raccontare ai tuoi nipoti sulle ginocchia. Facendo la parte del vecchio imbalsamato, nel saio fetido e mortale della senilità. Mi vedevo tremolante e sfatto. Altro che saggio dispensatore di consigli! Nel futuro comparivo come il più volgare ubriacone, manesco e molestatore di fresche giovenche. Un nonno inaffidabile e cinico, pronto a tutto pur di spassarsela per l’ultima volta. Ma questa è un’altra storia. Daniel ama la banda che qui non c’è, Rossy ama Daniel che qui c’è e stanno insieme dalla notte dei tempi. Daniel non sa come scaricare Rossy e intanto fanno pruderie solo all’anniversario. Una volta al mese. Il 9. Il sottoscritto con Chiara ci stava sempre in tutti i posti più strani e a tutte le ore. È strano, ma così è la vita, così è l’amore, così è soprattutto Daniel. Daniel non sa se scaricare Rossy. “Rossy è piccolina, non capirebbe, s’ammazzerebbe nel momento stesso in cui sto per dirlo” ripete sempre Dani. Boom. Rossy è molto più piccola di Daniel, avrà un diciotto anni, ha un viso ancora bambino e il fisico slanciato di una menade, longilinea e magra. Daniel non è l’uomo che può piacere, è alto e rude, ma le sue ospitate nella banda dei darkettoni in paese valgono la fila di giovini signorine adolescenti che anelano a giocare a fare le ribelli per qualche mese. Rossy affascinata dalla banda che scorazza per il paese e dalle balle mostruose raccontate dal suddetto, come le altre dame terrone, ha accalappiato il nostro e lo ha risucchiato nella routine tutta valentini e baci perugina. Daniel è Danilo Ziani, mio compagno di banco e di erba al liceo, di filoni e scherzi vari in quella scuola paradossale che era il liceo classico Tito Livio. Lui per me era un mito perché oltre a essere per eccellenza il casinista dell’istituto era il mio miglior amico. Ne combinammo davvero a mazzi. Passavamo le ore a scuola fumati, con due lugubri laghi artificiali al posto degli occhi, ridotti a manichini sballoni senza senso della misura. Spesso perdevamo completamente la cognizione del tem23 po, ci afflosciavamo sui banchi e mormoravamo preghiere e canzoni dei Led Zeppelin, ci addormentavamo oppure leggevamo Cuore e rollavamo, tanto, davvero abbiamo tanto rollato. Ci distinguemmo dalla massa per un mucchio di stronzate, che ci valsero il sei in condotta, unico caso nella storia di quel liceo e forse dei licei d’Italia. Non basterebbe un cantastorie logorroico, per raccontarne una piccola parte. Come quando portammo tutta la classe nell’ora di italiano a vedere il film pornografico La Dibina Commedia, in cui Dante era un cerebrale e contemplativo voyeur e Virgilio un grande castigamatti con un attrezzo impressionante impegnato con le dannate. Oppure quando facemmo il solito scherzo della telefonata per segnalare una bomba inesistente, con la variante del gruppo di terroristi pronti a fare una strage. O le piante di marijuana coltivate accanto ai ficus della presidenza. I nostri movimenti frenetici e continui davanti a quelle misteriose piantine, connesse a un’inedita attenzione per la sfera vegetale, insospettì qualcuno. Quando lo scoprirono per poco non arrivavano i servizi segreti. Per colpa nostra gente insospettabile fu traviata per sempre; un tizio di nome Giammarco, tutto casa, chiesa e vhs porno ebbe una nota e perse la ragione. Sua unica colpa fu quella di aver tentato di spegnere con l’estintore lo zaino dei suoi libri sulle scale antincendio. Diede di testa e smarrì totalmente il senso della misura; raccoglieva carrube e ghiande, vantava lo spessore eccezionale delle sue feci, si registrava le puntate di Beautiful e mostrava alle ragazze foto pornografiche di Selen. Fu denunciato da una professoressa inviperita. Di Daniel non mi piacevano certe sue amicizie; si atteggiava a fare il mafioso con questo gruppo di etilici darkettoni. Proprio non lo capivo che cazzo di bisogno avesse di passare a fare il Lucky Luciano dei pezzenti. Si sbronzavano e facevano danni, ricattavano un barista checca, smerciavano stecche di sigarette, andavano con Rina, il puttanone del paese. Con la scusa di farle un po’ la guardia non le lasciavano una beata lira. Rina batteva dentro la sua Peugeot 205 anni Ottanta sulla 24 statale 172. Chi andava con lei tornava quasi sempre con qualche sorpresina virale. Era una buzzicona burrosa piena di malattie. Se Daniel stava a grattarselo per tutto il giorno potevi intuire al volo l’attività a cui si era dedicato la sera prima. Bertowsky era Roberto Montrone, padre professore di filosofia fuggito quando aveva tre anni su un’isola della Polinesia. Bert aveva vissuto per quasi tutta la vita in casa dei nonni, e il risultato fu quello di una bomba a orologeria. Non appena varcò la soglia dell’università divenne un altro. Da taciturno mangiatore di oppio, si trasformò in un istrione da grandi spettacoli. Si definì così sul mio diario del terzo liceo: “membro di un movimento anarchico di lavoratori para-comunisti vicino alla strategia della tensione delle molotov e delle manifestazioni anti governative che da un paio d’anni incendiavano le piazze storiche della sinistra italiana delusa umiliata presa a calci dalla compagine governativa che la rappresentava…”. E giù con altre castronerie. Questo Bertowsky aveva in comune col sottoscritto la voglia di fuggire dal posto di merda in cui viveva. Ma non ne aveva le possibilità. Io ero stato fortunato nella sfortuna di trovarmi col culo per strada senza nessuno a cui badare. Lui aveva a carico due nonni che erano oramai due mummie senz’anima. La vita stava svanendo loro, e giorno dopo giorno sfiatavano la morte. Erano malatissimi e rompicoglioni, raccontavano sempre le stesse solite pallose menate, sul fatto che si viveva meglio durante il duce, che erano pieni di dolori reumatici, che il Voltaren costava troppo, si lamentavano del cibo, che nessuno li ascoltava e bla bla. Alla gente che ancora sconta il duce indirettamente come Bertowsky, bisognerebbe farci una bella statua di riconoscenza, per la sopportazione mostrata. Capito vaffangrandissimostatista del secolo generale Fini?! Bertowsky poteva permettersi il minimo indispensabile di viaggi di piacere con la mitica Leira, un pezzo di figa a cui tutti avevano sbavato dietro al liceo e che ora si era talmente imbruttita che stava col Bertowsky. Era una silfide bionda, eccezionalmente formosa, con un fondoschiena florido e l’erre 25 moscia da far impazzire il mondo. Una disfunzione alla tiroide l’aveva ridotta, per un periodo, in una vacca tanto depressa da farsela con tutti in un festival di rivincite. Così avvenne che una decina di suoi spasimanti, in un paio d’anni, s’erano presi rivalse clamorose. Ma con Bertowsky fu diverso; una cura per la tiroide e per quel suo metabolismo schizzato, la resero nuovamente piacente e meno depressa e indifesa. Mezzo paese sapeva l’odore della sua fica, ma era tornata una ragazza normale. A Bertowsky gli davo del merito. Bertowsky però giocava al piccolo politico, e questo per una ragazza è davvero una fottuta jattura. Perché senza questo, le si dedica un sacco di tempo in più: fottistoio in primis. Berty questo vizio ce lo aveva da piccolino, sempre rappresentante di tutto, di classe, di istituto, di altre cazzate e varie associazioni del piffero. In più passava il tempo a scuola a scrivere documenti di cui non capivo un’emerita mazza. Un ricordo stellare che ho di lui è la fine burlesca che fece fare a un libro. Il prof di filosofia disse che dovevamo entrare in contatto con la filosofia orientale. Metà degli anni Novanta. Il festival totale delle baggianate new age, e la filosofia orientale sembrava appartenere a questo immane calderone. Il tizio che ci faceva lezione non aveva capito niente della vita, perché avendo a che fare con dei ragazzini invece di rifilare il solito Siddharta ci intimò Ka di un certo Galante o Galasso, Capasso, Calvino, boh. Una cosa di cui nessuno capì niente: “Mentre spiava le gopi nascosto tra le fronde del nipa Krsna scopriva una forma superiore del furto… due gopi osservano la scena e fu per loro una versione del darsana… immerse nelle sopracciglia dello Yamuna”. Ancora non ho capito checcazzo significavano tutte quelle parole: avabhrata, asva, atman, baldec, putana, vasu, yupa… Berty, che era di un senso dell’umorismo incomprensibile, la prese a ridere e dopo un mese fece girare un libello con tutte le parole del dizionario filosofico diventate burla: atman era batman, putana era ovviamente con due tt, vasu era water, yupa, chupa. Nessuno rise, ma il professore si divertì molto e 26 a dimostrazione di non aver capito niente della vita mandò il libello a Garroni, Collasso, Celanti, Galasso, Galassia o come cavolo si chiama. L’unico effetto di quel libro fu l’immediato cambiamento del nostro linguaggio, l’ashram era il filone, il satya era lo sballo, il Savytr colui che dà impulso ossia lo spacciatore, il krta era lo botta di culo. Poi Berty aveva certe fobie, per i ragni, e per il fatto di non sapere l’inglese. Berty aveva una fottuta paura di non conoscere l’inglese perché voleva vivere a Londra. Raccattava grammatiche e dispense, ma non riusciva mai ad andare in fondo alla sua anglofilia. Era l’essere più inconcludente del mondo, stava sempre con questo stucchevole lamento che si mischiava ai suoi salti di paura per la conclamata aracnofobia. Un suo cugino faceva parte di non so quale cazzo di forza dell’ordine. Andava in giro alabardato come un albero di natale e Leira, fascista sino al midollo, ammattiva. Berty era tutto fuorché un signore che andava in giro vestito da piedipiatti; il giorno della visita di leva insieme al sottoscritto sculettò e fece moine per tutta la santa giornata. La sera avevamo le chiappe indolenzite per il troppo froceggiare, lui fu bello che riformato, il sottoscritto spedito in hospital causa alcuni sospetti valori nelle mie urine e inquietanti tremori. Insomma, con dei tipi del genere Leira checcazzo c’entrava? Li aspettai ubriaco e nella pace dei sensi, ero dentro Ka, un Budda pronto a rinominare l’universo. Ero allegro e mansueto, nella fase di precontemplazione del Nirvana. Lo stato alcolico era dovuto a reiterate grappe che ebbero vari effetti tra cui quello di sorridere a una battuta tristissima di Daniel appena sceso dal treno. Indicò un cartellone pubblicitario della Kim: “Ciao Franz! Quella è la foto di una mongolfiera o del tuo fegato?”. A Termini-city in quei giorni di fine anno c’era un che di regale e raffinato, rispetto a quello che vivevo ogni giorno a 27 Tiburtina. Non c’era un solo barbone, perché il nostro sindaco aveva ripulito la stazione di quella merda umana, tra cui me. Ora quella merda si era liquefatta, distrutta, morta per sempre oppure semplicemente trasmigrata a Tiburtina (che non ebbe fine diversa). I senzatetto furono trattati con meno dignità dei feti abortiti, furono spazzati come rifiuti e persero tutto. Là a Termini mi venne il voltastomaco, perché quello splendore dei festoni, delle luci, degli abeti immensi strapieni di gadget dell’Oviesse, di palle di natale e lustrati di schiuma coreana, perché quelle guardie giurate e sbirri in gran pompa, assillanti volontari del Giubileo, perché quei gracchianti sciami di pellegrini nordici in calze e sandali in pieno inverno, perché tutto questo era un oltraggio alla pubblica morale. Ci trovammo così nel gelido notturno del piazzale dove pascolavano gli autobus. Non c’era possibilità della metro perché era troppo tardi. Ovviamente il pullman che ci serviva non arrivava, smarritosi nella foschia imprevista di un’atipica notte romana. Leira piagnucolava qualcosa, tipo che era stanca, ma non me ne curavo. Fino a Tiburtina-banhof si poteva fare a piedi, mi sarei messo i suoi bagagli in spalla e l’avremmo fatta finita. Ma lei non volle e allora, per il suo bel piccio da vacca viziata, cercammo un taxi. Un omino con una barbetta nera – doveva essere un filippino – scuro come una melanzana, si fece avanti e si rese disponibile ad accompagnarci anche se fossimo stati in cinquanta. La regina Leira si cacava sotto e diceva che quel tipo le faceva paura. Allora non se ne fece niente, ma quello ci seguiva come un cane infreddolito. Ogni volta che perdevamo un taxi, lui rispuntava con prezzi più bassi. Se quello aveva con sé una macchina che fosse stata una macchina vera e non uno scatolone con le ruote si poteva fare. Accettammo. Ci avvicinammo sempre più a una vecchia Ritmo ridotta a un rottame senza finestrini, con fogli di plastica al posto dei cristalli. Non appena ci mettemmo il naso, salì un tanfo terribile. C’era stato di tutto lì dentro e non volevo pensarci. Pro28 prio io che venivo da Tiburtina avevo paura che quella fosse una trappola. Così per fare il duro davanti ai miei amichetti di scuola, mi alzai il mio bel maglione di lana peruviana. Mostrai un coltello con la coramella d’avorio, il manico d’acciaio tedesco lavorato a mano e glielo feci intravedere. Il filippino fece finta di nulla bofonchiando qualcosa di incomprensibile. Con alta probabilità mi mandò in culo. Appena arrivammo a Tiburtina la prima cosa da fare era un sano rifornimento di fumose e alcolici vari. Era l’una in punto e il drugstore-perpetuo della stazione non vendeva più alcolici dalle ventitre. Odio tutti i vedere e non toccare: quello che succede nei film porno, oppure con le tipe che si mettono in ghingheri, te la sbattono in faccia e poi svolazzano via come Erinni ululanti. Odio le vetrine dei negozi che mettono alla mercé della vista di un semplice barbone tutto quello che non potrà mai comprare: abiti costosissimi e sformati di riso, uova di cioccolato, panini giganti, immensi pandori traboccanti di cacao liquido, peluche a grandezza umana ed elettrodomestici dell’ultima generazione. Immaginate quindi che sofferenza scorgere il gabbiotto-farmacista del drugstore notturno di Tiburtina dove la roba ti viene portata una per volta dal recluso di turno. Ecco allora scintillanti bottiglie di vodka Keglevich alla frutta, bottiglie semplici e trasparenti di dry gin, spumanti torinesi e champagne della Borgogna, ecco le damigiane di lambrusco carpigiano che non potrai più comprare sino al mattino per un assurdo pippaiolo divieto da America Proibizionista. Per fortuna, il custode dei nostri balocchi, all’appuntamento importante, non mancò. Non fu difficile convincerlo, mentre dal gabbiotto accoccolava buffamente la testa. Con quel viso tondo e assonnato ci venne incontro regalandoci un boccione di crema di whisky canadese. Che cazzo di storia questa del piscio canadese spacciato per whisky. Girava la favola che il buon Jack Daniel’s, invecchiato nelle sue botti di quercia, era meno pregiato di questa vinaccia allungata con polvere di latte. La pubblicità compa29 rativa veniva sostenuta senza alcuna prova tangibile dal suddetto custode dei balocchi. Lo lasciammo parlare a vanvera come un lanciapalle incontrollabile, e ci dirigemmo a casa, felici e contenti come in un finale da fiaba scandinava made in Iperborea. C’era una strana eccitazione tra Bertowsky e Daniel: facevano smorfie e lazzi in continuazione, improvvisavano improbabili passi di danza, fingevano di essere gay, si leccavano sulla guancia, schiamazzavano come mocciosi di tre anni. In tutto questo ritorno all’asilo perduto, il sottoscritto era intento a pensare a quella boccia di whisky che si nascondeva nel cappotto di Bertowsky. Controllavo la mia emozione con un sorriso e niente più. Mi sentivo molto tranquillo, lo fui meno quando Leira e Rossy constatarono il livello di vita del rustico che le aspettava. Non ho mai avuto molta simpatia per Leira, avevo sempre mal digerito il cattivo uso del suo potere, faceva la figa e se la tirava a morire con tutti. Poi ci dava di brutto da quando era diventata una mucca, si truccava con i cosmetici più sgargianti della Pupa, s’infilava tutto il giorno in Calzedonia a provare la roba più appariscente che fosse esistita. Era una di quelle ragazze che aveva in testa il seguente concetto: “Nessuno mi merita”. Insomma viziosa e viziata a puntino. L’assenza del pavimento non fu un buon viatico. C’erano cicche e pacchi di fumose dappertutto, un muro mezzo crollato, una cattedra a tre gambe stracolma di bottiglie di super alcolici, insuperati trofei di guerra: dalle bottiglie di Sambuca Molinari a quelle di anice, dal mitico Pernod a bocce di brandy Stock 84, e poi bottiglie di cognac e creme di liquori vari, tutte imitazioni dell’irraggiungibile Bayle’s. Sarebbe stato come in un campeggio, solo che invece di un bel prato incontaminato c’era la pattumiera di Roma. Dovevano ringraziarmi. A Roma c’è gente che si è costruita baracche a San Lorenzo dove non abiterebbero neanche le mosche delle vostre cacche, c’è gente che vive nelle roulotte abbandonate dagli zinchi, chi ha un giaciglio di mattoni è un privilegiato. Cribbio. Anche se questi stavano crollando. Cribbio. 30 Daniel capì. Così mi tolse un bel po’ di nervosismo. E uscì una bottiglietta opaca da litro di limoncello. Gli occhi mi si riempirono di due lacrimoni come se avessi avuto davanti niente meno che quella santa donna di Imma. Rossy e Leira tornarono dal cesso di un bar di via Lorenzo il Magnifico. Rossy era incuriosita, Leira molto meno, anzi non smetteva un attimo di lanciare frecciate e insultarci. Il suo concetto “non mi meritano” era ormai allargato a tutta la sfera dell’umanità. Diede a tutti del “maiale”, aggiungendo per Daniel la razione di “maiale segaiolo”. Il tutto perché Daniel aveva una pessima fama: sconsacrò l’ora di religione con una pippa. Il fattaccio avvenne con un tipo detto don Bastone perché il povero cristo aveva un braccio finto di legno. Senza nessuna ragione veniva chiamato anche Gambadilegno, come l’omonimo personaggio disneyano, trascurando la differenza tra una gamba e un braccio. In verità, per Daniel, non fu vera e propria pippa. Una troietta del ginnasio, Sabrina milleforme, si era lavorata Daniel in bagno. Quando il buon Dani fece rientro in classe aveva la tuta con un’equivoca macchia. Accortosene fra le nostre beffe, fece una cosa che ancora non ho capito secondo quale perversa logica gli avrebbe giovato. Si abbassò le braghe e si girò il cavallo dei pantaloni in modo che la macchia fosse visibile dietro e non avanti. La sospensione fu inevitabile. Ma fu inevitabile non ridere alle conseguenze dell’intervento del provveditore Andrea Zanzotto, tipaccio robusto e rubicondo, che chiese cosa fosse successo. Daniel diede una lezione di onanismo all’intera classe, esplicando le varie posizioni del gioco più amato dagli adolescenti italiani. Zanzotto disse che quelle lezioni di galateo le poteva dare tutto al più in un bosco lontano da occhi umani e in mezzo a degli animali. Daniel: un tipo che a mio modo era davvero un uomo aldilà del bene e del male. Ma se Daniel era così c’era anche una motivazione genetica di fondo. Il padre, il signor Federico Ziani, era un operaio dell’Italsider, mansione gruista. 31 1986, mensa. Nel brusio sordo della pausa un uomo urla a squarciagola: è l’operaio Federico Ziani. L’eco richiama l’attenzione di tutti gli operai. Inveisce contro le mense Pellegrini e dice che quella roba che danno a mensa non si può mangiare tanto fa schifo, anzi dice esattamente: “Questa pasta fa cagare!”. Il capo reparto si avvicina con mano appoggiata sotto il mento e risponde qualcosa, del tipo: “È interessante quello che dici, ha anche dei risvolti sindacali, ma non mi può sbattere per niente”. Il padre di Daniel si abbassa le braghe e urla in dialetto minacciando di fare quella grossa davanti a tutti. Non sembra riscuotere molta attenzione. Tutti hanno abbassato la testa sul piatto, quando all’ennesimo “Ora vi cago qua” la fa veramente davanti a tutti. Intanto a Rossy si era cacciata in testa la malsana idea di mangiare al McDonald’s. Indi. Ci doveva essere qualcuno che andasse a prendere i panini, e poi tutti a nanna per la baldoria del giorno seguente. Primo, erano le tre del mattino, e il McDonald’s stava chiuso, pace all’anima sua. Secondo, io stavo morendo per quei panini di merda che mangiavo tutti i giorni. Al McDonald’s dopo un certo tempo i panini non consumati devono sparire, non si sa dove, ma devono sparire. È legge. Così molti di quelli invece di essere buttati vengono dati in pasto ai barboni, e noi li divoriamo con la fame che ci fa lacrimare gli occhi e azzerare il gusto. Io sto morendo per quei panini, solo il loro odore di soffritto mi dà la nausea fino a farmi salire un gomitolo di vomito. Nemmeno sbronzo a ciucca riesco più a mangiarli. Non riesco neanche a espellerli. Mi si fermano sull’esofago e fanno posa, succhiano la bile e attraccano sul mio fegato come corsari imprendibili. Ma come cazzo li fanno! Assieme all’alcol mi hanno devastato tutto l’apparato digerente, bombe impietosamente transgenetiche, glutinosi dischi volanti, forme di vita sconosciute al metabolismo umano. Quando ho fame non vado più a piangere dal 32 Mc come fanno tutti, ma mi batto il petto anche davanti a un labrador, che spazza la sua razione di pappaccia puzzolente e croccantini di baccalà. Mi faccio due ore di fila alla Caritas in mezzo a slavi scabbiosi e curdi polmonitici, qualunque cosa e qualunque fila pur di non mangiare più McChicken e Big Fish. Per me quel pagliaccio che campeggia in tutti i McDonald’s del mondo altro non è che la peggiore deformazione di It. Mi ricorda più un diabolico essere che l’idolo di quattro mocciosi obesi. Mi fa paura. Come fa paura la sua falsata visione del mondo dove la gente si deve far sfruttare e maltrattare perché così impara a vivere. Ne avevo sentite di queste storie, gente assunta e saltata dopo poche ore senza una lira in tasca, scioperi praticamente vietati, gente messa a pulire i cessi e poi a fare panini, un continuo inno alla precarietà con la scusa più imbecille della storia, quella di essere all’avanguardia. Rossy fu affogata dal mio discorso e, disgustata, non aprì più bocca. Ma Leira, anzi la principessa Leira, ebbe qualcosa da dire sul fatto che esageravo in tutto, figurarsi da sbronzo. Quell’enorme dirigibile del mio fegato aveva però paralizzato ogni mia reazione. Andammo tutti a ronfare verso le quattro del mattino, dopo aver rimediato del pane raffermo che lavorammo con un po’ di fave e pomodori. Il tutto in una pignatta adibita fino a qualche giorno prima a calumet della pace e della speranza. Quelle fave, preparate dalla mammina di Daniel, filarono alla grandissima. Leira continuava a ripetere: “Dalle stelle alle stalle”. Mi stesi senza spogliarmi su un tappetino di linoleum, solo dopo aver pisciato mezz’ora all’aria aperta sotto le luci arancio, tra il campo di calcetto e la montagnola dietro la stazione. Orinare all’aria aperta da sbronzi, con qualsiasi temperatura, è una delle più belle posizioni contemplative dell’uomo occidentale. Spesso mi veniva in mente l’intuizione di Cartesio sul Metodo. Si dice che Cartesio durante la Guerra dei Trent’anni ebbe codesta intuizione davanti a un falò gigante, ma non prima di essersi liberato di un’ingombrante zavorra alla vescica. 33 E me lo immagino Cartesio, dai modi nobili e severi come esigeva il suo sangue blu, terribilmente rilassato nel momento della sua pisciata a zero gradi, magari dopo essersi scolato del mielato vino spagnolo. Durante quella orinata eccezionale, feci anche un ragionamento rapido sul numero di persone a cui Leira l’aveva data e quelle a cui l’aveva data Mary. Mary aveva dalla sua un bel culo, che invece nel caso di Leira era stato spazzato via dal suo metabolismo impazzito. L’ultima donna con cui ero stato era proprio Mary, un pomeriggio umido di settembre dove giocammo a Ultimotangoaparigi nei cessi della libreria. Quando sbucammo dalla ritirata mano nella mano andammo in mezzo ai libri sfogliandoli senza capire una beata fava. Le stringevo i fianchi, e lei, girata con gli occhi rivolti sul retro della copertina di On the Road, fingeva di leggiucchiare. Aveva una gonna sottile come la carta, lurida e sfilacciata, bastava alzarla e le potevi vedere due natiche graffiate e illividite. E mentre era presa da queste pseudoletture le strusciavo dietro e l’abbracciavo con tutta la mia forza premendo le mie mani con tutte le unghie sulle sue braccia. Eravamo come candidi conigli innamorati dei nostri corpi ansimanti, animali in calore senza ritegno dell’umanità intera. Alla fine tornammo nel cesso per girare diversi seguiti di Ultimotango e se non fosse stato perché era una tossica, ora sarei stato ancora a chiavare. Quella se ne andò durante una delle tante. Sul più bello, perché le si era asciugata la figa di botto. Queste sono le conseguenze della hero, dannata hero! Non dimenticherò mai il corpo di Mary diventare una statua di ghiaccio, scosso da brividi freddi e sudore denso. Ancora la notte esala nelle mie narici il forte sapore di acido ascorbico del suo corpo, il suo profumo di gomma bruciata, la pelle ruvida e screpolata dal freddo invernale o dal sudore sporco e torrido dell’estate. Mary era una bambola di ossa. Forse Mary mi voleva perché non mi chiese una lira e non 34 mi fece sparire niente. Mary che si era passata tutta la stazione Tiburtina, barboni e vecchi compresi. Dopo sgraffignava sempre qualcosa, oppure faceva marchetta con i viaggiatori di passaggio tipo i pendolari che andavano alla Mirinda oppure alla Dixan. Ma i più gettonati erano gli operai delle imprese edili, quelli con le mani ancora maleodoranti di calce e l’odore di sudore secco addosso. Mary che era una bucata. Mary che si era fottuta tutta Roma e anche se stessa. Si grattava i polpacci, la testa e le braccia, come tutti gli eroinomani. Un prurito che spesso strazia loro peggio delle crisi d’astinenza. Non era raro che Mary m’implorasse di grattarle le braccia. Spesso lo facevo fino a farle sanguinare le ferite dei buchi nelle vene, e lei pregava di continuare, pure se le mie mani sembravano quelle di un macellaio, pure se le sue braccia parevano pneumatici e le sue vene un groviglio di fili elettrici. Conseguenza di tutto questo era che quando Mary se ne andava in rota delirando come una cavalla, a tutti veniva in mente di rivolgersi al qui presente Franz Maria. Diavolo quanto cazzo mi dava fastidio questo fottio di voci sulla mia vita appiccicata a quella bucata di Mary! Così ti arrivavano i pistolotti degli assistenti sociali in doppiopetto e le paranoie sulla forza di volontà che io non avevo nemmeno un po’. Io, che ero l’esempio negativo di un’intera umanità ossessionata dal “Corriere dello Sport”, dal fitness e l’Ici, dovevo essere l’esempio del sottobosco urbano di Roma. Queste caccole in doppio petto prive di contatto con la realtà, mi facevano un sacco di casini prendendomi per fidanzato della Mary. E così non era raro vedermi compilare test e sottopormi a valutazioni dagli infermieri che, puntualmente un giorno sì e uno no, venivano a rimuovere i tossici dalla Tiburtina. Certi strizzacervelli non potevo sopportarli, erano troppo rompicoglioni con le loro domande: su quante pippe mi facessi, a che età avevo cominciato a fumare erba, cosa vedevo in televisione da piccolo e se ero soddisfatto di mamma Imma. Un giorno un quattrocchi imbellettato come un sacerdote, mi fece una battuta su Mary, non ricordo bene, ma l’antifona era davvero sozza. Tipo se ci 35 aveva le piattole o le pulci nei peli della figa. Gli spaccai il muso e quello cessò l’attività di cabarettista a Tiburtina. Ma sotto sotto avevo anch’io quella fottuta paura di beccarmi i pidocchi che qualcuno le aveva attaccato. Mary era una sorta di regina della spazzatura, una fascinosa strega dell’autolesionismo, con i suoi capelli luridi e corvini, abitava nei letti e nelle auto di chi se la passava, soffiava giorno dopo giorno in un palloncino, che era il suo fisico, la sua vita, la sua tossicodipendenza, pronto a esplodere. 36 Capitolo 3 ACCATTONI Jimmy Page cominciò a lavorare come turnista in studio con Neil Christian e i Crusaders. Racconta Page in un’intervista del 1971 a “Rock”: “Mi capitò di essere ingaggiato per quello che poi si rivelò un lavoro ridicolo, roba per supermercati. A volte venivo chiamato per una session e il tipo diceva ‘Tal dei Tali vuole che tu faccia questo’, e io sapevo che sarei andato bene e che il lavoro sarebbe stato conveniente”. 31 dicembre 1999 Quando mi svegliai sotto la montagna di stracci dove avevo dormito, pensai di essere morto. Sentivo un tale fottuto freddo da non capire un accidenti. Ero quasi assiderato. Il cattivo odore di cherosene degli stracci mi diede lo shock per riprendermi e riflettere. Le due coppiette rinchiuse come salami dentro i sacchi a pelo si erano alitate l’amorevole tepore dei loro corpi ansanti. Magari avevano fottuto per benino e tiepidi come un fiume d’estate si accingevano a giocare a Luna di Miele e i suoi derivati, non prima di aver abbandonato questa zozza casupola. La prima cosa che facemmo, appena usciti, fu quella di andare al drugstore a comperare il nettare della giornata. Il sacro nettare era un bel bottiglione di vino bianco. Eravamo alla stazione di Tiburtina per il deep impact con Tarcy, Damiano e compagnia. 37 Con il tempo i barboni erano notevolmente diminuiti, madama era intervenuta energicamente e senza sconti. La parola d’ordine era sgomberare. Le stazioni dovevano essere solo per i viaggiatori, possibilmente turisti con grana da spendere. E mentre il sindaco e i suoi sostenitori festeggiavano le nuove stazioni ripulite e rese sicure, i loro veri abitanti, come fantasmi scacciati, s’accasciavano in remote morie ad Arco Travertino, Bufalotta, Tor Pignattara, Prenestino, dove le loro carogne non avrebbero dato fastidio ad alcuno. Ogni giorno ne moriva uno, ora a Prati, ora a Monteverde, ora a Porta Metronia, morivano uccisi dal freddo, e i loro cuori si fermavano congelati, assiderati, nonostante l’alcol puro e i brandelli di cartone bruciati con cerini inumiditi. Esalavano l’anima senza nessun conforto, ma questa è la logica, se ne parli diventa retorica. Ti fanno faccia disgustata e ti dicono che il problema è a monte. Sono squilibrato, lo penso e ne sono consapevole, ma non chiuderò gli occhi davanti al deserto, morirò da miserabile perché sento che questa è l’unica condizione di mia appartenenza. Finalmente arrivò Damiano. Solitario e pallido, mi prese per un braccio. Cattive nuove. Era morto il cane di Tarcy, un bastardino che ci faceva compagnia. Il pelo fulvo e fungoso, gli occhietti a mandorla limpidi come quelli di un uomo, il suo fiato sulle nostre mani, lì in Tiburtina era l’unica cosa calda. Quel fuso di Tarcy, trippato di metadone, aveva fatto un siero di quella droga maledettamente legale al nostro amato bastardino. Schizzatissimo, il pulcione, crepò. Tarcy era uscito di testa e non si dava pace; aveva sbattuto a intervalli regolari la testa contro la porta sottile di compensato lucido della sua roulotte. Damiano raccontava di aver tentato di fermarlo, senza riuscirci, finché non lo vide in terra senza sensi. Con sangue freddo e smania di sbronza, si accertò che respirava ancora e piombò da noi. I nostri rimanenti sensi di colpa cessarono alla visione 38 celestiale di quel pezzo di merda di Daniel che sopraggiungeva, capelli al vento, come un deus ex machina, avendo in mano la soluzione a tutti i nostri sani problemi: il mitico Zonin bianco da due litri. Piccola bolla verde profumata, apostrofo tra due parole, disperazione e felicità. Nel frattempo, mentre si improvvisava una discussione sulla differenza tra vini terroni e vini polentoni, una misteriosa telefonata al cellulare di Leira portò la lieta novella: la sera avremmo fatto un mezzo cenone da Miriam e Sofia, due nostre vecchie amiche dei tempi della scuola, più grandi di un paio d’anni. Vivevano in una specie di casa dello studente per ricchi, qualcosa a metà strada tra un collegio americano e un appartamento per studenti fuori sede dotati di grana. Erano studentesse del Link di Malta e vivevano in questo esilio dorato in via XXI Aprile a due passi da piazza Istria. Tutte queste premesse avevano una sola conseguenza: quella sera ci saremmo nutriti come cristocomanda e ci saremmo impellicciati di qualunque alcolico. Così mi misi in testa di arrivarci in gran forma ed essere all’altezza dell’aumma aumma. Porcamiseria come ero contento di non mangiare alla cazzo dopo tanto tempo! Mi chiesero anche diecimila per questo allegro convivio, ma la mia risata in faccia fece cambiare passo sulla questione colletta. Sul 492, ombelico del mondo, arca rossa tra Tiburtina e il pianetaterra, salimmo in una decina, rigorosamente senza aver elemosinato una sola lira all’Atac. Il viaggio in bus fu positivo, senza piantagrane. Nessuno ci stava a pensare, solo due brufolosi omogeneizzatissimi adolescenti tedeschi. Credo che a quelli una lezione sulla superiorità della razza ariana gli era stata fatta. E per benino anche. Non so, ma ci guardavano o forse mi guardavano, con la ributtante espressione di chi ha pestato uno stronzo. Ma sì! Era l’ultimo dell’anno, si poteva sopportare, ero abbastanza sobrio per poter incassare e tollerare, masticavo in testa ragionamenti senechiani e feci una paranoia a Rossy su Seneca. Mi piaceva fare sfoggio 39 di qualche lettura recente a qualcuna sensibile, che mi ascoltasse senza trattarmi da pazzo, con un’attenzione meno clinica e patologica degli altri. Le montai una paranoia paurosa su Seneca e i suoi ragionamenti su offesa e amore. L’offesa si scaccia. L’amore no, quanto più lo cerchi tanto più si dirada, più lo spingi verso il basso più risalirà a farti male con sensi di colpa e rancori. Cazzo, ogni riferimento a Chiara era puramente voluto! E Rossy, dolce dolce con quelle labbrucce da bambina, mi diede un bacino sulla bocca senza che mi vedesse Daniel. Adorabile Rossy. Arrivati a via del Corso ci congiungemmo con un gruppo di amici saliti dalla terronia, lì appositamente per il capodannodellemiebraghe. Ebbi la sgradita sorpresa di trovare un tale Vernon, ex Erasmus, di una nazionalità non identificata. Come se avesse sentito la puzza di figa si lanciò a peso morto sulla dolce Leira. Non solo il pissi pissi di questo Vernon si fece più insistente, ma la buona e brava Leira cominciò a fare un mucchio di smancerie con la scusa di conoscere mille lingue e di fare da traduttrice all’illustre ospite. Bert il buono non fiutò l’immediato pericolo, si staccò dal gruppo e scese in amicizia con Damiano, anarcoide come lui e pronto a uno scambio di pareri su un argomento da approfondire insieme: la sbornia. La prima tre quarti di Heineken fu consumata a Trevi in una salumeria, mentre si discorreva del fatto che in Afghanistan avevano liberato da un aereo degli ostaggi. Cacchio che bello, i dirottatori erano sfuggiti! Questo aveva dato un nuovo barlume di speranza alla mia esistenza. Chissà se mi sarebbe convenuto un domani fare il dirottatore, uno di quelli buoni, s’intende. Già mi vedevo su un volo ultra protetto come il Roma-Chicago, a fare il buffone con in mano una pistola dalla canna di ceramica, invisibile ai sonar degli sbirri: “Mettete tutti le mani in testa, figli di puttana, sorridetemi, perché potrei essere la morte o la vostra sopravvivenza! Su, un sorriso, sono una personalità davvero importante, non si può rinunciare a una foto, mettiamoci a cantare! Cominci lei, sì lei con quel doppio petto, non è Armani lo sa? 40 Forse non è neanche Emporio, l’hanno fregata!” e qui parte Jimmy Page con l’assolo di Stairway to Heaven. Poi, uno a uno, a liberarli dietro riscatto. E già immaginavo scene incredibili: Mauri in un villino alla Garbatella circondato da domestiche in perizoma, Damiano in un attico in via Po, accanto al Piper, con una sala d’incisioni da Mtv Awards e poi Mary, Tarcy e io nelle cliniche migliori per disintossicarci da hero e alcol. Magari in quelle di Liz Taylor dove le flebo ti vengono servite su vassoi d’argento e sulle fiche pelose delle infermiere. Ora, invece, avevo a che fare con queste merde di salumieri che volevano farmi pagare una tre quarti come una bottiglia di barolo piemontese, ed ero incazzatissimo. Lo fui di più quando vidi che Bertowsky si attaccò alla bottiglia come un alcolizzato. Mi venne un groppo alla gola: perché anche lui doveva fare così? Quando ci tieni a un amico, non vuoi che sia alcolizzato come te. Di certe persone non sopporto il loro malessere cazzuto autodistruttivo, è un cattivo odore che mi tracima nelle narici come il fetore mortale di una carcassa decomposta, alias in questo preciso istante Bertowsky Montrone. Lo seguii come un profumo, lo braccai nella folla e mi sedetti al suo fianco col culo sulla fontana di Trevi. E mentre la gente lanciava i suoi spiccioli e i suoi nichelini piroettando comicamente, cominciammo a parlare di grandi cazzate tipo Juve-Inter 1-0 e la sudditanza psicologica, qualche topina di passaggio, il prezzo della birra alla spina, le marche preferite. A me non dispiaceva la Tennent’s, lui era un fanatico della Pilsen Urquell. La Tennent’s è una birra scozzese che al naso offre aromi di malto pregiato con note di mela. Al primo impatto in bocca è dolciastra, con i sentori amari che compaiono e sfumano rapidamente per lasciare spazio alla forza alcolica, lasciando un retrogusto di caramello. Invece la Urquell è una birra ceca, offre profumi di malto, note floreali e, su tutto, un aroma erbaceo di luppolo Saaz, estremamente fine ed elegante. Il gorgheggio dell’acqua e il brusio incessante erano una lieve interferenza tra me e Bertowsky. Non riuscivo a chiedergli nulla di personale; gli allungai dunque due gianduiotti che 41 avevo grattato in salumeria. Cercai solo di addolcirgli la giornata. Ma non avrei dovuto farlo. Mentre scartava i cioccolatini, sbottò alzando di qualche decibel la sua voce e facendo girare tutta una comitiva di musigialli made in Japan. Mi pianse il cuore, mentre mi raccontava che Leira gli aveva confessato che non era più come prima. Avidamente scartava i gianduiotti e diceva: “Mangio molta cioccolata fondente controquestosensodifastidioporco, mi turba, mi tocca l’orgoglio, cazzo, mi darebbe nausea immaginare che quel corpo sia sfiorato da altre mani, da un altro!”. A queste parole non trovai di meglio che uscire un cartone di Ripatello rosato, sgraffignato anch’esso a regola d’arte dentro quella salumeria. Strappai la linguetta di stagnola e cominciai a ciucciare come un poppante, non prima di averlo offerto a Berty. Al diavolo le ragazze, il Ripatello appena grattato meritava più rispetto di queste fandonie mielose. Berty Con Franz stavo benissimo. Anche nei momenti più difficili riuscivo a essere totalmente a mio agio. Con lui ho questo. Mi sento me stesso. Non chiedetemi di che paese sono, cosa ho lasciato, di mio padre, non chiedetemi se amo una ragazza vestita Versace o targata Sisley, non chiedetemi se prendo gli antidolorifici o gli antinfiammatori, il nimesulide o il paracetamolo, se preferisco il Ripatello alla Pilsen, insomma non chiedetemi niente e neanche cosa faccio, se volete sapere chi sono, io sono questo, questo. Io sono Franz. Era evidentemente sotto per Leira. Lo stava uccidendo, gli faceva fare discorsi sconnessi. Non mi risparmiai di criticarlo a muso duro: “Cacchio. Non mi parlare difficile. Se la ami, mettila davanti a un bivio. Falle capire che puoi dare tutto quello che lei può volere. Cantale Love di John Lennon, regalale una rosa blu ogni tanto, mettila alle corde, deve stare lei 42 dalla parte del torto, maschera un po’ di più la tua cazzo di aracnofobia, l’ansia di fare politica a tutti costi. Controllati, prenditi degli ansiolitici!”. Mentre parlavo vedevo Bert sul baratro, mancava poco che ci cadesse dentro insieme a me. Sotto il suo cappello di lana, aveva un ciuffo nero che gli pendeva e lui ci soffiava nervosamente. Il tutto avveniva mentre Vernon si faceva foto in posa con Leira, ben lontani da Bertycuoreinfranto. Daniel intanto stava arringando un gruppo di sconosciuti, farfugliando discorsi incomprensibili. Noi eravamo lontani un bel po’. Sentivo solo frasi senza senso interrotte da “cazzo”, a intermittenza, come illuminazione natalizia, black-out e poi, tà, ci stava il solito cazzo. Ogni tre parole un cazzo o una bestemmia. Era una scena risibilissima. Daniel si era eretto su uno spuntone della fontana, un vigile urbano si stava avvicinando con fare poco amichevole, e Daniel lo guardava di sguincio con incuranza, persistendo nel suo show. Non appena il pizzardone si accostò, con aria per nulla condiscendente, Daniel sgattaiolò facendo finta di niente. Intanto Bertowsky fu avvinto dai miei racconti sempre più sbiasciati e cantilenanti causa vino. Erano racconti impossibili: sbronzi che cadevano dai balconi senza farsi niente, tossici a rota con l’aspirina, marchette e fottimenti al tuo prossimo. Alle strette delle mie balle, mi raccontò la sua vita dimmerda, i nonni attaccati alla canna del gas della vita, il rapporto con Leira, l’università a rotoli. Si accomodò tra noi Damiano, non prima di essersi rullato un cannone misterioso. Non so cosa c’era dentro. Lo scioglimento delle caccole di fumo non era avvenuto davanti ai miei occhi. E questo non era stata cosa buona e giusta. Damiano aveva tutta l’aria dello sbandato, un pantalone ultra stretto, refrattario a coprirgli le caviglie, il piumino forato in più punti con abbondanti perdite di piume, e le mani con le dita annerite. Come contorno presentava un alito da alcolista annusabile sin da via del Babbuino, e la voce totalmente alterata dalla canna-mistero che gli stava accecando la mente. 43 Non aveva un’aria rassicurante, i suoi bravi furtarelli li aveva fatti, come tutti del resto. Aveva rubato portafogli, zaini ricolmi di ogni bendidio, mazzi di passe-partout, autoradio Mitsubishi, stereo contraffatti, libri universitari e corde di chitarre, oltre a qualche panetta di fumo. E la sera davanti alla sua chitarra si spartiva il bottino tra canti e note celestiali, alcoliche. Bertowsky e Damiano cominciarono a parlare. Ben presto la folla c’inghiottì. Cercavamo un posto dove sgranocchiare al caldo qualcosa, ma eravamo rimasti invertiti: Damiano era perso con Bertowsky, mentre Vernon era con me, Daniel, Rossy e ovviamente la dolce Leira. Quel coglionazzo di Vernon cercava di trascinare lo sparuto gruppuscolo di superstiti in giro ai “Fiordi Imperiali”. Io non avevo la forza di respirare, e secondo loro dovevo andare sino ai fori, anzi fiordi, per poi buttarmi direttamente alla festa di Miriam e Sofia. No buono. Collassammo un po’ sulla scalinata di Trinità dei Monti, dove Vernon pomiciò pubblicamente con Leira. Daniel venne da me; voleva rompere il culo a quel tipo. Lo fermai, anche perché ero troppo assonnato per gustarmi la scena, e in fondo Vernon faceva quello che chiunque nei suoi panni avrebbe fatto. Nel frattempo mi ero indaffarato con quattro topine di Modena. Con frizzi e lazzi da gran capocomico estorsi i loro numeri di telefono; erano davvero carucce, ma roba da oratorio. Allora lasciai perdere e diedi appuntamento a tutti a casetta mia. Loro ad aspettare un taxi-zucca, il sottoscritto a rotolarsi ebbro verso i funzionali mezzi pubblici romani. Arrivai alla metro. Obiettivo, raggiungere la Tiburtina. Sulla linea A ci furono le solite scene di panico, con la folla che tracimava ben oltre la linea gialla di sicurezza. Era l’ultimo dell’anno e c’era un mazzo di gente. Entrai spingendo come un rimorchiatore, destando gli ululati di protesta di una folla mummificata. In quella calca riuscii pure a mollare un puzzone, rubare un pacchetto di Muratti Extra-mild, palpare una lolita ancora con l’alito di Chupa, sgraffignare da terra un portafoglio vuoto. 44 Le braccia tentacolari della bolgia cercavano il corrimano o il manigliotto di plastica, erano siparietti che mi sarei goduto con spensieratezza, se non fossi stato così sbronzo. Avevo un sonno mortale, e abbioccai non appena la metro sfollò. Sulla linea B, in direzione Tiburtina, non c’era nessuno. Potevo stendermi sulle poltroncine azzurre e farmi un sonno ristoratore; non fu il massimo. Feci sogni agitati e densi di persone, sognavo di continuo uno sbirro che mi beccava lì sbronzo, ma non appena il sogno si faceva incubo lo scacciavo aprendo gli occhi. Una di queste volte aprii gli occhi e mi accorsi che affianco alla mia testa, un po’ anche sui miei capelli, c’era seduto qualcuno. Nell’aria c’era odore di paraffina e sudore, misto a un profumo amaro di deodorante. Alzai lo sguardo e notai una ragazza che respirava affannosamente cercando di tamponare un piccolo squarcio che le lacerava il collo. Piagnucolava, aveva lo sguardo fisso sull’uscita. La pregai di farmi vedere l’escoriazione. Con un cenno affermativo, accompagnò il mio sguardo sulla sua ferita, notai che non era nulla di grave, non zampillava sangue, si trattava di una lesione talmente superficiale che si era facilmente tamponata con il sottile kleenex. Sembrava non aspettare altro, e in un attimo smanigliò a mille all’ora la disavventura. L’avevano scippata e nello strapparle la collanina le avevano procurato quella lacerazione. Si chiamava Hoda e mi sussurrò che doveva tornare in un posto dall’altra parte di Roma dove stavano i suoi genitori che erano venuti a trovarla. Questo posto era addirittura a Cinecittà, a oltre un’ora e mezza. Hoda era una studentessa di Gerusalemme che studiava in Italia. In tre nano-minuti mi raccontò la sua vita. Era un’araba cristiana di nazionalità israeliana, ma palestinese (?!). Mi offrii di disinfettarla, e non si lasciò pregare; dissi che ero uno studente mentendo. “Studio filosofia alla Sapienza, quindi, sai com’è, sono un po’ pazzerello, ma non faccio male a nessuno” balbettai con faccia da culo. Dicendo la verità, 45 ossia vivo in una pattumiera illegale, non l’avrei mai convinta a venire da me. Quella ferita andava pulita ben benino, e poi la storia di questa tipa di Gerusalemme mi mise un’innata eccitazione comune ai miei amici della stazione. Infatti non appena mi videro con questa ragazza dai tratti stranieri scoppiarono in un fragoroso applauso. Era come aver dato la scintilla a un pagliaio di fuochi d’artificio e benzina. C’era un entusiasmo esasperato, culminato nell’urlo di Tarcy, “se ti vede Mary, si ammazza!”. Hoda vide quella cricca e rimase a bocca aperta. Si avvicinò Jerry Barbetta, era ubriaco e sghignazzava felice come una cinciallegra: effetto del vino in cartone. Nero di sporco, sbornia e freddo, trascinava la valigia perdendo cartacce e piume di piccione. Aveva dormito su qualche pattumiera e lo si poteva notare dalla scia puzzolente che emanava. Voleva rifilare il calendario di Padre Pio alla suddetta, alias Hoda. Poi alla visione del mio gesto inequivocabile di smammare, si avvicinò a un cm dal mio viso alitando l’irreparabile: “La vuoi la caramella?”. Hoda mi piantò una lacrima perché la collana fregata era il caro ricordo dei suoi nonni, e uscì una fiaba di storia sul fatto che i loro nomi erano incisi su quella collana, e un altro mucchio di cose zuccherose da farmi venire il diabete alla testa. Io, manco sapevo a che servivano i nonni, e quella si esaltava a parlarne; a me erano morti tutti quando ancora ero un cagone con il panno, figurarsi se il mio cuore, alias un buco nero, poteva comprendere quelle parole. Lei parlava, e quanto parlava, parlava troppo per i miei gusti, però quella vocina piena di arabismi per orecchie volgari come le mie, la rese una piacevole colonna sonora sino all’arrivo a casa, dove trovai Leira, Rossy e Daniel sopraggiunti col taxi-zucca. Hoda sembrava tutto fuorché una straniera. In quei pochi metri che dividevano la mia casa dalla stazione Tiburtina, aveva sputato il rospo su gran parte dei cazzi suoi. Avevamo impiegato quella buona ora, fermandoci come in una via crucis a ogni crocchio di gente e ogni gradino con la scusa di control46 lare la ferita, per parlare di tutto. Aveva i capelli con riflessi ramati, il viso butterato dall’acne ancora tutta lì a testimoniare che il passaggio da adolescenza a età adulta non era ancora del tutto completo. Era molto più bassa di Leira e Rossy, ma il mio occhio da vecchio porco matricolato aveva subito avviato una rapida recensione delle sue parti migliori. Gli occhi erano intelligenti modello Carrie Ann Moss, il fisico era tornito come quello di una statua di marmo, le vidi un bel sedere. Questa Hoda mi gustava per davvero e aveva svegliato la voglia di correre dietro una ragazza, una dannata fulminazione estetica. Perdio! Proprio quella terribile menata che volevo aggirare alla grandissima, ora era lì. Hoda mi piaceva. Mentre Leira le disinfettava il collo con il fondo limpido di un’acquavite, Dani commentò entusiasta in dialetto il fondoschiena di Hoda. Per fortuna Hoda non capì e riprese a parlare con quell’accento impossibile, armonia di dissonanze e preziosismi, vaghe parole di una lingua sconosciuta. E in quel modo fece una chiamata al suo cellulare, dicendo che avrebbe tardato. Poi si sedette su una delle mie sedie pericolanti, si accese la sua Philip Morris Ultra-light, e cominciò a tirare boccate lunghe e profonde con lo sguardo fisso su di me. Mi metteva addosso un fottio di sensazioni quello sguardo, eccheccazzo come mi sentivo scoppiare di calore! Non era solo il nostro amato nettare etilico a farmi un pellerossa, ma Hoda, l’immensa Hoda. Ci sono avvenimenti che nella vita non puoi spiegare solo con l’illuminismo delle tue sicurezze materiali, né con le allucinazioni da alcol, né con la sfiga che ti perseguita e ti sta addosso come una zanzara; certe cose le puoi spiegare con il mistero. Hoda non rinunciava per un secondo a guardarmi. ’Cazzo ci trovava. Ero terrorizzato. Avevo paura, per la prima volta temevo quello che potesse pensare una persona di me. Con Hoda era tutto filato liscio come olio, parlava lei e la mia lingua si era liberata. In fondo potevo parlarle tranquillamente dei Led Zeppelin, senza che mi piantasse una domanda 47 rompicoglioni sulle supposte. Ascoltava le mie balle, le mie avventure inventate di sana pianta, i miei discorsi sui vantaggi di una vita dove non si deve chiedere conto a nessuno, tasse, studio, famiglia, bollette del gas, idraulici e testimoni di Geova. Così mi ero già smentito, non ero più studente della facoltà di filosofia, ma a Hoda sembrava andare bene anche la mia vita di colletta e accattonaggio, sembrava andare bene tutto anche che fossi stato l’ultimo anarchico di questo porcomondo, un sozzo parassita da quattro soldi. Mentre Leira e Rossy si agghindavano come due abeti natalizi, Hoda ci aspettava per fare un tratto di strada insieme e rientrare alla base. Si parlava di musica. Misi in un vecchio mangianastri da registrazione clamorosamente anni Ottanta, una cassetta dei Led. Mentre sentivamo una versione orientaleggiante di No Quarter, cazzeggiammo di filosofia spiccia, tipo credere o no all’esistenza di Dio, dell’aldilà e della voce di Robert Plant. Stairway to Heaven è la canzone più amata della storia dopo Imagine. Parola di “Repubblica”. Qualcuno disse che ascoltando al contrario l’lp in questione si potevano ascoltare inni e preghiere a Satana. Ascoltando la canzone al contrario si poteva udire questa frase: “Here’s to my sweet Satan” (questa è per il mio dolce Satana). Non è nascosta la passione del chitarrista Jimmy Page per il satanista Aleister Crowley, personaggio inquietante che fondò nella sua vita diverse sette. Il chitarrista fu sempre attratto dalla figura di Crowley. Oltre che detenere una delle più importanti collezioni di manoscritti, testi e oggetti dell’eccentrico esoterista, nel 1970 acquistò una sua casa. Ci fu un discorso religioso, non ricordo com’era uscito. Io facevo l’interessato acconsentendo con la testa. Ovviamente il discorso era molto stimolante. Ricordo che Hoda mi mostrò la foto di una sua amica che era guarita da un tumore grazie a un intervento, ma anche grazie alle preghiere. Hoda montò il pistolotto, ma non erano cose scontate. Anzi, mi piaceva che era parecchio critica con una parte della chiesa e con queste panzane pazzesche in tempi di Giubileo, ma dava troppo di 48 religione e cercai di interrompere lì la discussione. Ero curioso di sapere che cazzo c’entravano gli arabi con il cristianesimo. E lei mi spiegò quello che non avevo mai capito in dieci anni di telegiornali: c’era Israele, che addirittura Dani confondeva con il Libano, e in Israele c’erano israeliani e palestinesi. Poi c’erano arabi israeliani di religione islamica, ma anche ebrei che abitavano nei territori palestinesi, detti coloni. Insomma un casino. E in mezzo a questo i cristiani, che stanno un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Leira domandò quale fosse la capitale della Palestina. Hoda mi guardò con aria smarrita… Era già un buio umido e tremavo al pensiero della nottata che avremmo trascorso. In giro si sentiva che in piazza del Popolo e dintorni ci sarebbero stati milioni di persone, forse due, addirittura tre, il perfetto congiungimento del primo o ultimo capodanno del millennio con la benedizione Urbi et Orbi dallo scranno vaticano. Ci muovemmo da casa in quattro. Non si sapeva più che fine avesse fatto Bertowsky con Damiano, Leira ci avrebbe raggiunto dopo perché aspettava a Bologna plaza il ciuccio, alias Vernon. La situazione era scottante; Daniel e Rossy tubavano come due piccioncini, ma era solo una clamorosa messa in scena, lo sapeva tutto il mondo. Ogni due minuti arrivavano bollenti messaggi allo Star Tac Motorola di Daniel, il quale, con spudorato coraggio e faccia tosta da competizione, simulava deliranti auguri di parenti e amici inesistenti inventati di sana pianta. Non era rado sentire nel tragitto sino a Bologna plaza, Daniel rispondere ad alcuni messaggi di amici e soprattutto amichette della banda. Alle sette in punto lasciai Hoda sul 310 che l’allontanava da me per sempre, o forse per un lieve periodo. Tutto era su quel biglietto che m’aveva lasciato con sopra un numero di telefono. Sull’autobus accaddero cose incredibili. Saliva gente di ogni risma, suonatori di viole e clavicembali, guitti travestiti da paggi per feste in maschera, sordidi personaggi che si aggiravano 49 con guantiere di dolci e paste napoletane. Per non parlare delle sguaiate descrizioni di feste di fine anno che forse non ci sarebbero mai state, e poi Daniel, uomo surreale, che più surreale non si poteva, con in testa un cappuccio di lana vergine Adidas da grande puffo, sempre imbrigliato con il muso sul Motorola a vaneggiare sms impossibili da credere, tranne a Rossy. Rossy, per amore, si sarebbe bevuta di tutto, anche l’approntamento di un sofisticato challenger Nasa, per spedire a tempo indeterminato il suddetto signor Daniel contaballe sulla luna. Chiara Da dove cominciare, non so proprio, in questo anno santo, stupefacente ponte tra millenni, tra generazioni, tra vecchi e nuovi spauracchi. Quando comincio qualcosa che ha a che vedere con me, penso al fatto che sono stata molto fortunata. Guardando la fine atroce di vita violenta che ha fatto Franz, mi sento sollevata, ma anche turbata; è come se dentro questo sollievo chiaro come un mattino solare, ci sia troppa luce per poter giudicare se è una cosa buona oppure no. Franz era il mio ragazzo. Si faceva chiamare così per via di una di quelle manie infantili che lo portavano a identificarsi con lo scrittore. Chi era Kafka? Non lo so. Spesso veniva a casa e c’erano i miei ad accoglierlo, gentili e aperti come verso un figlio. Ecco, io sono una ragazza fortunata perché della mia famiglia si possono dire tutte quelle cose che si dicono delle famiglie oggi, ma non che non ci sia protezione e dialogo. Quante volte ho avuto i brividi a pensare alla madre di Franz in un letto ridotta a larva dall’alcol, e pensavo a mia madre tanto diversa, tanto gelosa, non avrebbe mai bevuto un goccio per mio padre. Dannato questo tempo pieno zeppo di falsi miti. Uno di questi ha preso travolto ucciso il nostro amore. Franz era dannatamente idealista, ma anche crudelmente irrazionale e materialista, un contenitore di ideologie, e anche un dannato alcolista. Mi avrebbe ucciso, più in là nel tempo, quando la sua ragione, poco alla volta, sarebbe stata divorata da un 50 mostro etilico. Mi avrebbe squartato il ventre e poi spazzato tutto quello che avevo. Era pieno di sogni irrealizzabili, era pieno di odio, un odio furioso e impossibile verso la mia società, verso quello in cui vivevo, avrei dovuto rinunciare a tutto, camminare scalza e nuda, povera come l’ultima creatura della terra, umiliarmi e rendermi schiava di tutto, mi voleva nel completo asservimento del suo idealismo malato, magari a reggergli il cappello in un suo vagabondaggio metropolitano. I suoi sogni non erano quelli miei, quelli di una casa, di una famiglia unita e protettiva come la mia. Per lui tutto questo non esisteva. Si vedeva irregolare, con tutti i suoi maledettissimi stravizi da ubriacone. Gli avrei perdonato tutto, ma non si possono interrompere i corsi della vita. Ecco, mi immagino i nostri flussi vitali, irruenti e torrentizi, ma lontani, che hanno diviso il letto per un po’, ma ora non possono proseguire insieme, pena la fine di entrambi… Certi resoconti li faccio sempre, prima di partire per un viaggio, mi riempiono la testa di una malinconia che, sotto sotto, è piacevole, è masochismo bello e buono, ma il viaggio li travolge senza scampo, in un’estasi che potrei descrivervi con la stessa enfasi di un emozionante incontro amoroso con uno sconosciuto. Sandro era di certo uno sconosciuto. Ma ora non più. Da un mese è il mio compagno e mi viene da sospirare, a pensare tutto quello che fa per mettermi a mio agio, per farmi dimenticare Franz. È tanto, troppo, diverso da Franz e forse per questo sarà più facile dimenticarlo. È più tutto, è un uomo, non lo vedi farfugliare incomprensibili discorsi su rivoluzioni, parlare ogni due secondi di uno scrittore, insistere per vedere al cinema solo film francesi, o per sedersi lontano dalla gente sul tavolo meno in vista del locale. Ero stufa di andare sempre con un ragazzo che insultava tutti quelli che non apparivano come lui. Al confessionale il giorno prima di Natale mi tolsi un grave peso. Fu come levarmi un macigno. Non fu un esame di coscienza. Fu un atto preparatorio al mio Giubileo. Sarei voluta andare a Roma solo dopo una seria ripassata delle mie abitudini religiose. Parlavo senza nessi, ero piena, pronta a esplodere, ma mai e poi mai avrei potuto credere che quel fiume si sarebbe 51 interrotto in un pianto dirotto. Il prete ascoltò, fu dolce e disse che ero ancora giovane per pentirmi di qualcosa. Lo ringraziai di cuore. Quando trovai Sandro accanto, in chiesa, dove Franz mai avrebbe messo piede, capii che potevo dimenticarlo del tutto e senza rimpianto. 52 Capitolo 4 ONIRIA La sbronza fu puntuale. Nella festa c’era un mucchio di gente che non conoscevo, ma c’erano anche certi fighetti che portavo allegramente sulle balle. In primis Pelo Rosso, un tipo che si credeva cristo in terra, perché aveva il fratello sottosegretario; poi c’era Medusa, mortifera presenza, che mi portavo sulle balle sin dal liceo, quando, questa morta di sonno, leggeva la mano per ricevere attenzione dalla gente. Stava con uno di Roma, il figlio di un senatore di Forza Italia, e mi spiacque un po’ per lei. Infine le due padrone di casa, coscetoste Miriam e Sofia. Sofia era una tipa chiusa e che non la dava a nessuno, altissima con questi boccoli neri, due gambe splendide che cacciava sempre fuori con gonne microscopiche. Un enorme numero di seghe della mia vita era stata fatta su Sofia, il restante sui racconti di Miriam. Coscetoste raccontava senza pudore ai suoi cari amici le beate avventure col macho di turno. Ed erano sozzerie davvero, roba da far uscire di testa. Così il buon Daniel non ci vide più e, una volta, le chiese di giocare a ramino. Lei tutta inorridita, e Daniel cacciò fuori la storia che era malato di cancro e gli rimanevano pochi mesi e che lui la voleva e che era la sola dolce che lo poteva capire. Insomma fecero un mucchio di porcherie e quando Miriam se lo vide sano come un pesce lì davanti, non fu molto entusiasta. Questa storia della malattia terminale di Daniel era davvero un tormentone. 53 Dani spedì lettere a mezzo mondo, attricette, soubrette, pornodive e culi raccontando la triste storia di un bel ragazzo malato terminale che voleva farlo l’ultima volta con la donna della sua vita. Ovviamente non rispose nessuna di quelle troie cretine che la davano a tutti. Ma su questo pendeva ancora una scommessa. Cominciai a bere di tutto. C’era della sangria che un tizio spagnolo aveva preparato. Dolcissima e pastosa, proprio come piaceva a me, lo benedissi. L’ultimo ricordo: è quello di ’sto tizio che parla di Miguel de Unamuno e Fernando Savater a me che non conoscevo neanche il mio nome. Per strada Daniel e io c’eravamo scolati Campari e gin in una via crucis di bar di quart’ordine. In ogni stazione si trincava qualcosa di tosto tipo Stock o cognac e poi ci aggiustavamo col Campari e gin. Daniel era già sbronzo e al verde. Quando arrivammo alla festa, si depose come un cappotto insieme ai soprabiti nella stanza da letto di Miriam. Dal canto suo, la padrona di casa ci accolse vestita da gran sacerdotessa della seduzione trash. Era molto fata: il caschetto azzurro oltre mare, nascosta in una gonna rossa leggera come l’aria con uno spacco esistenziale sino al bacino. Il cosciotto mi allupava e se fossi stato in me, le avrei ricordato i giochini che lei a scuola si vantava di fare con il suo primo boy-friend. Ma in quel momento con quell’alcol che saliva disordinatamente in testa, mettermi a cavalcioni Miriam era l’ultima cosa che avrei fatto nella mia vita. Non appena finii di slumare il misurone di sangria, mi complimentai con l’ispanico, con cui avevo intrecciato relazioni diplomatiche, e raggiunsi nel marasma dei cappotti Daniel. Si stava da dio nell’odore di freddo dei giubbotti, tra il fruscio dei pellicciotti, il dolce raschiamento delle fibre sintetiche di Barbour e piumini Moncler; il calduccio della sbornia. Era un mondo irreale, ricco di sensazioni quasi impercettibili, ma tutte protettive. Sentivo il respiro affannoso di Daniel che veniva da sotto quell’igloo di acrilico e lana, intanto mi ma54 sturbavo mentalmente sulla situazione. Mi chiedevo che cazzo stavo a fare lì. Sembravo un moccioso. Quando si è etilici si torna bambini. Cosa avrebbe pensato una persona, che fosse entrata in quella stanza, e mi avesse visto sotto una coperta di cappotti? Di certo che non avrei mai vinto il Nobel della fisica, di certo che non avrei mai dato un futuro ai miei figli, destinati a una vita di analisi di gruppo e tossicodipendenze. Due uomini, stesi a pancia in giù, sotto i cappotti. In quel momento ebbi l’esatta impressione dell’aldilà. Era come tornare nel ventre materno e perdio! tutto appariva avere contorni lunari, un senso di vuoto assoluto, ma anche di benessere, tutto l’universo in quel momento ruotava nella mia testa di sbronzo, sotto un effluvio di cappotti, nelle tenebre di una camera da letto, qualsiasi cosa scorreva, immenso flusso vitale dell’universo! In testa mi passava Oniria, mondo sbronzeo dove tutto era possibile. L’alcol mi faceva questo effetto, anche se avevo sotto un’ansia di riprendermi in tempo. Ero terrorizzato per la festa in piazza del Popolo, dove sapevo che qualche milione di persone avrebbe venduto l’anima al diavolo per divertirsi. Daniel respirava come un suino, e nel mondo di Oniria credetti veramente di avere affianco un maiale. Si dice che un domani ci sarà una nuova febbre Spagnola e la gente morirà a milioni e la malattia sarà trasmessa dai porci. Già mi vedo con la Spagnola. Il tempo si accorciava e si allungava come un folle yo-yo, potevano essere passati due minuti o due ore, poteva essere trascorsa immemore un’inedita saga fatta di carnevali modernisti e serate millenaristiche. Era mio assoluto disinteresse se qualche cosa fosse accaduta in quel mondo dimenticato. In Oniria c’era solo spazio per il nulla, un vuoto che copriva tutta la sfera del mio risveglio: dall’attività dell’es e del super-io, sino a quella di filare i superalcolici di tutta Roma. Il mio io era offuscato dai miseri lamenti di Oniria, provenivano ed echeggiavano come sistri, filtravano le voci umane. 55 Capitolo 5 PORCILE Era passato un bel po’, quando sentii la presenza perversa di Miriam e Sofia nella stanza dei cappotti. Non s’erano, però, accorte che sotto i giubbotti, c’erano due esseri umani del tutto sfatti dalla sbornia. Le due tope cominciarono a sussurrarsi e a confabulare freneticamente qualcosa. Certamente quel trantran paroliero non preannunciava niente di buono. Erano come indemoniate e preoccupate manco fosse sceso King Kong o Dracula in persona. Più o meno la situazione che afferrai con il residuo sforzo era questa. C’era un tizio che stava in casa e loro non lo volevano, perché una diceva all’altra: “Ma chi ha portato questo individuo in casa mia” e davano la colpa a Bertowsky, poi sentii il mio nome. “È amico di quel coglione di Franz!”. L’altra aggiunse: “Siccome si sbronza dobbiamo accettare tutte le sue caccole sballate di amici, pure i barboni, è davvero il colmo!”. Ero in panne e non capivo chiccavolo avesse proferito l’estremo verbo. Nonostante la sbornia, rinsavii di brutto, collegai le tessere del pessimo puzzle che si andava formando. Ed eccolo qui in tutta la sua strepitosa grandezza. Bertowsky era scomparso deluso, a causa dell’atteggiamento espansivo di Leira con tutta la sfera maschile lui escluso, quindi si era portato Damiano assieme a bere. Damiano era tutto fuorché un lord inglese che sapeva controllarsi di fronte a reiterate 56 bevute. Dopo essersi caricati una sbornia a puntino, si erano dati convegno alla festa di Miriam e Sofia. Una volta arrivato là, per Bertowsky, non fu difficile scaricare sulla mia amicizia il buon Damiano puzzolente di anice. Il barbone ubriaco creò questo casino senza precedenti. Morale di questa fiaba all’anice: dovevo difendere Damiano da quella massa di fighetti prima che ne fosse stato divorato e fatto a brani come Orfeo dalle baccanti. Ero come paralizzato, non c’era nulla che avessi potuto fare per liberarmi da quella fastidiosa impressione di impotenza generale. Cercai di muovere per prima cosa una spalla per sentirmi i giubbotti addosso strisciarmi sulla testa, poi mossi un braccio, infine mi girai completamente. Daniel russava come un’iguana, cercai di rianimarlo per capire se gli scorreva nelle vene un barlume di vita. Gli soffiai nelle orecchie e nelle narici, gli tirai due sberle sensazionali e un calcio nei glutei, ma non ne voleva sapere di abbandonare il caldo giaciglio. Al diavolo Daniel. Mi fiondai come un’anguilla scivolosa lungo il corridoio della casetta di Miriam. Mi ritrovai l’ebbro convivio che mi aspettavo: un nugolo di infighettate di primo ordine e Bertowsky sotto braccio a Damiano. Damiano, con il cappello di lana e senza chitarra, aveva davvero le sembianze di un barbone, e l’espressione stravolta da grande etilico qual’era, mise paura pure al sottoscritto che lo conosceva da una vita. Era rubizzo e puzzava di anice da un km. Bertowsky, da parte sua, non faceva nulla per apparire normale e stava improvvisando uno spogliarello con tanto di ululati per richiamare l’attenzione su di lui. Leira non lo cagava minimamente. Era su un divanetto in disparte, piangeva come una pazza, trattenendo minuscoli mugolii nelle mani. Leira non piangeva per la pelliccia etilica di Bertowsky che faceva il pagliaccio. Ma era distrutta per il fatto che Vernon era in sana e consapevole combutta con una topa spagnola amica del tizio della sangria. Questa spagnola era davvero una topina da paura, atletica e a rischio infarto per chiunque, pareva la Penelope Cruz in versione miniminor. Era meglio stare alla larga. Era una di 57 quelle per cui davvero si poteva rimanere sotto di brutto, una per cui la gente finisce che se la butta nelle vene. Leira singhiozzava, ma nessuno stava ad ascoltarla, perché tutti i fighetti bastardi si vergognavano del suo ragazzo sbronzo, a fare il buffone, in una festa di fighetti che nessuno, dico nessuno, avrebbe mai preso sul serio neanche tra i fighetti. Tirai Damiano dal centro di gravità permanente delle attenzioni interessate di Pelo Rosso e Luca. Luca era un tipo davvero da evitare; faceva il servizio civile in ambasciata e questo era davvero il colmo per un fascio come lui. Era il colmo dei colmi visto che aveva chiesto la raccomandazione al padre della ragazza che faceva il segretario regionale dei Democratici di Sinistra. Partecipò nel 1994 a un pestaggio ai danni di un anarchico, e ancora in paese se lo ricordano quando salutava col braccio teso gli idioti come lui. Ora era lì con quelle frasi velenose e meschine: “Damiano dammi il cinque” oppure “Damiano sei fidanzato?” e ancora “com’è fatta la tua ragazza?”. Mi davano il nervoso, e solo se uno era sbronzo di anice, non poteva capire l’allegra presa per il culo. Mentre ero ancora in pieno purgatorio, dovuto alle sane bevute pre-festive, Miriam mi venne dietro per farmi paranoie. Di contorno c’era Damiano con l’omaggio tipico suo a tutte le persone che lo invitavano a una festa (damigianetta semivuota di anice puro) e Sofia che s’affrettava a chiudere le porte di tutta la casa. La mia mente era un film pieno di immagini, si accavallavano vorticosamente, e nemmeno da sobrio sarei riuscito a raccapezzarmi. Contavo gli attimi perché da un momento all’altro sarebbe scoppiata la rissa populista. Miriam si mise a quattr’occhi, mi prese il braccio stringendolo e facendomi strillare per il dolore. Poi mi portò in un posto appartato molto vicino ai cappotti tanto che riuscivo a sentire russare Daniel. Ero troppo incazzato per stare a sentire le sue manfrine sulla maleducazione. Era tutto un revival di vicende liceali, di scherzi telefonici, gavettoni, prese per il culo che le erano stati fatti dal sottoscritto ubriacone in qualità di immaturo gran rompi balle dell’istituto. 58 Finito il pistolotto mi scoppiò in un sorriso a mille denti e fece una faccia: cominciò a dire che lei mi conosceva bene e che per il mio bene mi aveva invitato a quella festa, e che per il mio bene dovevo lasciar perdere certa gente, e che per il mio bene dovevo frequentare lei e la sua allegra combriccola di fighetti, e che per il mio bene dovevo stare a sentirla, e che per il mio bene… bleah, quanto bene inutile. Incurante della presenza del suo ragazzo Piero a mezzo metro da lì, mi abbracciò e mi sussurrò nell’orecchio frasi irripetibili da vera porcona ufficiale quale era. Non so, ma il desiderio verso Miriam si accese di brutto e sapevo che in quel momento la mia vita era pensata solo con le palle. Questo era davvero assurdo, Miriam stava per cacciare da casa sua un mio amico e io pensavo a quando sbattermela. Era troppo e mi volevo morto. Miriam mi promise i mari e i monti, i fantastici confini della sua sensualità weirdo-bizzarre, e disse che alla fine della serata ci saremmo rivisti per il connubio dei nostri sensi impuri. E fu una dichiarazione d’amore. A complicare quei momenti ci fu lo sfogo di Rossy che vagava da sola come una matta esaurita da quattro soldi, su e giù per la casa. Mi venne in bocca con una richiesta assurda, voleva che gli ritrovassi Daniel. “Daniel è sotto i cappotti”, dissi, e lei, senza dire un’acca, si fiondò nel fluido di soprabiti. Mancavano due ore alla mezzanotte, ma qui era già stato stappato il tappo della ragione dalla testa di tutti. Leira in un angolo a piangere, Miriam che mi seduceva vecchia maniera, Bertowsky oramai in mutande su una sedia a blaterare Joe Cocker e l’inno di Forza Italia, Rossy e Daniel tra i cappotti, Damiano rincoglionito in mezzo ai fighi e io lì con le mani nei capelli per domandarmi il perché. Si cercò di organizzare il corteo dei festanti per arrivare in Popolo plaza. Mi trascinai Leira sotto braccio fino a Bertowsky, lei lo vestì amorevolmente e lo portò giù a fare un brainwashing. 59 Mi toccò la patata bollente della serata, e mi condussi Damiano al primo giaciglio. Era talmente sbronzo che aveva bisogno di dormire e lo misi su un canapé di finto velluto stile Re Sole cantandogli la sua ninna nanna preferita, alias una versione di God Save the Queen lenta e un po’ porno. Quello prese il diretto per Oniria e lo smarrii per il resto della nottata. Miriam non fece più storie, anzi fu compassionevole fino allo stremo, gli diede una coperta e lo chiuse lì dentro con un biglietto che testualmente diceva di non fare danni; proposi di dargli un calmante così si svegliava il giorno dopo senza nessuno scrupolo, ma tra i farmaci di Miriam stava solo una confezione di Tavor e per giunta in ridottissima quantità. Gliela demmo tutta anche se c’era Daniel contrario. Aveva sventato la sbronza con un bacio d’angelo di boccadirosa Rossy con evidenti segni di rossetto spiaccicato su tutto il muso. Il Daniel rinsavito riteneva di volergli fare una siringa di Valium oppure di alcol etilico. Sosteneva questa follia pura con assoluta serietà dicendo che sua madre se le faceva per prendere sonno. Stava già ardimentandosi per fare questa santa siringa, che lo fermai in tempo prima che mi ammazzasse Damiano. Quella siringa andava fatta al ragazzo di Miriam, un tipo molto sinistro, altissimo e palestrato, che mi avrebbe tranquillamente sfondato il retto se avesse sospettato delle mie mire su Miriam. Con il passare dei minuti Miriam con quel caschetto azzurro fatato mi faceva sognare un cielo stellare di sensazioni strepitose. Ero già al suo capezzale di nave scuola, ma il tipo del suo ragazzo, davvero piazzato, scoraggiava evidenti miei tentativi di avvicinamento alle fata turchina. Vivevo una fase di inquietudine post-sbornia, un momento di confusione, ma anche eccitazione. La carovana festante si mosse con grave ritardo sulla tabella di marcia. Giungevano notizie agghiaccianti da piazza del Popolo. Si diceva che era tutto paralizzato, la gente non camminava più. Veniva trascinata dal fiume umano di qui e di là. Per evitare il rischio di sorbirci la mezzanotte lontano dalla festa, aggirammo l’ostacolo e cercammo di raggiungere piaz60 za del Popolo dal Pincio. Attraversammo il Tagliamento e via Po. Lasciammo la scia di una buona decina di maestrali colpi di coda a vari citofoni in bella mostra. Ovviamente disgustammo quella massa di fighetti, ma Daniel, Bertowsky e il sottoscritto non potevano esimersi da quel duro lavoro rompiballe che ci competeva. Il bello venne proprio così. Bussammo a casa di un tizio che per tutta risposta lanciò un secchio di piscio. Non chiedetemi come faceva ad avercelo bello e pronto, so solo che la secchiata d’orina fumante lavorò per me, perché beccò in pieno Medusa e il Palestrato. Alias il ragazzo della fata blu. Medusa montò un’espressione ridicola tra il ripugno e la disperazione, il Palestrato si voltò con aria persa verso la sua figa blu. Miriam non perse occasione per fare la faccia schifata e infilarsi sotto il mio braccio. Gol! esultai composto, fremendo come un bimbo dell’asilonido, e mi lavorai Miriam. Dopo un paio di metri ero già bello che impegnato in un maestoso linguabocca. Non passava attimo che si girava il Palestrato che le cacciavo la lingua in bocca e le toccavo il balconcino più duro della storia. Coscetoste faceva fare. Non c’era che dire, ero un uomo profondamente realizzato e, diamine, che spettacolo vedere il Palestrato che non poteva fare niente se non smadonnare. Era colpa sua se la sfiga gli aveva fatto beccare, nella notte di fine anno, una bella tinozza di piscio. Intanto mi venivano in bocca parole bastardamente mielose che facevano rizzare il pelo a Miriam. A una frase scema (una cosa del tipo “Non sono mai stato accanto a una persona speciale come te” ma forse ancora più banale), mi accorsi di quanto fosse di bocca buona, ’sta figa blu. Nel frattempo affluiva nel bel Pincio gente di ogni risma, c’erano gruppuscoli con nasi finti e cappelli da mago merlino, schegge impazzite, bimbi urlanti, tutti con la bottiglia di spumante in mano. Era meglio per tutti, che non l’avessima avuta anche noi tra le mani. Avere qualcosa di contundente era dannatamente pericoloso quella sera, soprattutto per noi teste di cazzo: lattine di coca agitate e pronte a schizzare. Bertowsky, per puro spirito sportivo, sequestrò a un tizio 61 una trombetta d’ottone che faceva un rumore d’accidenti. Non c’erano sbirri e questo era davvero strano, non oso immaginare quanti ce n’erano in borghese a farci foto e sbraitare rapportini. Dove sta bellezza e felicità stanno gli sbirri: vai da Rina e sbucano gli sbirri, ti squagli una panetta di hashish e spunta un piedipiatti che poi se la fuma in faccia a te, fai un po’ di questua e affiora la paranoia sull’accattonaggio e bla bla. Feci questo comizio strampalato a Miriam che mi pareva davvero persa dietro alla marea di stronzate con cui la stavo affogando. Non era difficile tenere il passo del gruppo. Andavamo su al Pincio e non c’era la calca che si diceva, tutti i meno dritti avevano giustamente pensato di arrivare in piazza del Popolo dalle strade laterali tipo via del Corso o via del Babbuino, noi invece ci arrivavamo davvero in carrozza. Miriam oramai me lo tirava a morire e non ci pensai su un attimo, me la portai dietro un albero per la pruderie di fine millennio. Un fiume di parole zuccherose, un bacio lento, ma appassionato e Miriam tutta per me, trallallà! Miriam L’avevo fatta grossa. Ma una follia alla fine dell’anno si poteva fare. L’avevo previsto. Lo conoscevo da tantissimo tempo. Aveva un carattere strafottente, a scuola era il più carino. I suoi sembravano ragionamenti particolari e profondi, ma in realtà erano tutta una presa per i fondelli. Quella sera l’aveva proprio combinata grossa. Solo perché si sballava, dovevo subirmi le sue bravate in casa mia; quella del barbone era stata la peggiore. Un tizio totalmente ubriaco, magari anche tossicodipendente e sieropositivo, uno che non aveva fissa dimora, un senzatetto della Tiburtina mi stava in casa a fare i comodacci suoi. Solo Dio sa perché non si portò via nulla, per fortuna si sbronzò tanto che lo dovemmo mettere a letto. Parlai con Sofia prima di prendermi una vendetta coi fiocchi. Si credeva padrone del mondo. Pensai di vendicarmi. Comin62 ciai a giocarmelo e a tenermelo buono; capii subito che non gli dispiacevo. Era preso da me e non faceva niente per nascondermelo, mi baciava e mi stava addosso come un ragno, i suoi tentacoli me li sentivo per tutto il corpo, ma stringevo i denti. Un fuori programma, un secchio di orina cadde su Piero e mi mise un po’ in difficoltà, dovetti andare molto più in fondo di quanto preventivato. Mi diedi da fare senza farmi coinvolgere perché Franz aveva intuito un approccio che mi piaceva. Sussurrava parole bellissime, ma per fortuna le intercalava con quei baci inaciditi dall’alcol, e mentre me li dava cancellavo tutto quello che aveva detto. Non aveva il minimo pudore, dimostrava una rozzezza che non ricordavo, bestemmiava e imprecava contro i poliziotti come non avesse saputo che sia Piero che papà erano tali, mi dava il nervoso a ripetizione, ma lo scherzo che gli preparai fu dei più crudeli e divertenti. Lo presi per mano e ci allontanammo nelle fratte del Pincio dietro un albero e cominciammo a pomiciare, il suo respiro affannoso da alcolista mi nauseava, non ne potevo più. Gli tolsi il giubbotto e il maglione. Lui fece fare nonostante il freddo, aveva perso proprio la testa, riuscì a malapena a sbottonarmi il cappotto. Gli accarezzavo il petto, misi la mia mano gelida sotto la maglietta, tremò per l’eccitazione, così mollò un po’ la presa. Non ci pensai un attimo, lanciai i suoi indumenti nel fossato che si apriva dietro di noi. Per recuperarli avrebbe dovuto calarsi dal balconato e poi risalire. Come se non avesse creduto a quel che succedeva, rimase fisso con gli occhi di un merluzzo per qualche secondo. Ebbi il tempo necessario per svincolarmi e raggiunsi il gruppo che era andato notevolmente avanti. Fu l’ultima volta che lo vidi. Indossava una maglietta penosamente estiva e mi implorava di aspettarlo. Lo mandai al diavolo. Il mio fu davvero un capodanno speciale, mi ero tolta un peso, mi baciai Piero incurante che puzzava di piscio, ma lo amavo, sapevo che non avrebbe mai fatto la fine di Franz, ridotto così. Mi spiacque per Chiara che era stata con un tipo del genere e mi dispiaceva davvero, veramente era un ingrato, un dannato bastardo. Non appena finimmo il conto alla rovescia, assistemmo allo 63 spettacolo pirotecnico e filammo a casa a festeggiare. Mi ricordai che c’era quel barbone sul canapé, ma Piero non fece nessun problema; una volta arrivato se lo caricò sulle spalle e lo buttò in un cassonetto, non prima di avergli dato due sberle per svegliarlo. Non gli feci fare nemmeno la doccia quando mi raggiunse su, fu una delle notti più belle della mia vita. Damiano È stato un colpo terribile. Passare dal caldo torrido della casa di quella amica di Franz per poi piombare in una sozza melma fredda, un puzzo fortissimo di compost e lacrime di spazzatura. Che sbronza, che mondo confuso quello delle pellicce d’anice! Ho la testa pesantissima. Credo che potrei morire, non ci sono parole. Anche se non ci sei tu, Lara: piacere e dolore delle nostre vite interrotte. Dove sei? Che bello l’anno scorso! Quando fu mezzanotte ci baciammo, e poi baciammo Gianni e Mauri e tutti, ci baciammo, pomiciammo con tutti, ragazzi e ragazzi, e donne e donne, erano sbronze belle, non erano come quella cattiva e malinconica che ho addosso. Mi sento un profumo acre di gasolio, non so, ma un fortissimo calore d’un tratto mi sale sulla pancia, sulle mani, sulle gambe, provo a vedere, ma non ho la forza di aprire gli occhi; quando finalmente riesco, nelle mie mani ci sono brandelli fumanti, è la mia pelle, le mie gambe sono fuse in un moncherino di mezzo metro. Una grossa vampa rossastra mi sta divorando. Il mio corpo se ne vola nel fumo, non faccio altro che salutare me stesso, sto bruciando, le mie membra prendono fuoco. Addio. Sembro rimpicciolirmi, accartocciarmi, ma non sento male, mi sento esalare, il cuore più non battere… è proprio ora di andare. “Congedo vecchi e nuovi amici. I nomi si allontanavano vuoti, rimbombavano sotto la volta. Li restituivano dall’altro capo – dall’Aldilà – gli echi che io sentivo, vuoti morire, insieme con lo sciabordio…” 64 Capitolo 6 MILLENNIUM BAR Miriam mi aveva teso una trappola atroce. Per fortuna Daniel aveva assistito alla scena e mi aspettò con tutto il nucleo storico, alias Berty, Leira e Rossy. Daniel recuperò un pallone Etrusco Unico finito nella terrazza della signora Marini, che non voleva restituircelo. Era il 1990, Schillaci, il rigore di Donadoni, le gambe della Parietti, i primi cellulari, la scomparsa di Piero Santi, quella roba là insomma. Dani si arrampicò per il tubo di plastica di scolo; prendeva fiato a ogni piano sedendosi sui bordi dei balconi del condominio assediato; giunto a destinazione affrontò la signora Marini che con una scopa cercava di difendersi. Gente, la proprietà privata è un furto! E Daniel con eleganti quanto involontarie citazioni di Proudhon tornò trionfante con la sfera di cuoio tra la folla di ragazzini festanti. Recuperarmi gli indumenti fu una passeggiata, perché la roba era rimasta su un cespuglio di pungitopo. Gli bastò fare un balzo ed ero già bello che vestito. Il Pincio si presentava come girone dantesco. Vomitava torciglioni umani sullo sfondo di un viavai apocalittico; da una parte poveri illusi, che cercavano di risalire la corrente contraria dal colle sino alla festa, e dall’altra una massa scalmanata in procinto disperato di entrare nella piazza spinta per inerzia. Nell’aria c’era una nuvolaglia di spumanti e champagne, esattamente il paradiso, quello che sognavo da una vita, 65 ma invece di godermela, dovevo pensare a una mandria umana di cui ero succube. Questa mandria, inebriata e sballata, scendeva verso la piazza emettendo un vocio confuso. Dai balconi del Pincio pioveva di tutto, si era sotto il fuoco nemico, bombe e petardi, vulcani e girandole. Questa massa fu imponentemente respinta dai celerini con un paio di cariche, ma la polizia, incattivita e insufficiente, non fece altra resistenza. Così in piazza riuscimmo a entrare verso l’una, quando molti avevano raggiunto i loro bei locali e il rumore della folla era diventato un normale vocio domenicale. Nelle cariche sbirresche avevo perso tutti. Stavo solo in piazza del Popolo. Calpestavo un tappeto verde di cocci aguzzi di bottiglie e frantumi. Minuscoli vetri e particelle elementari diventavano intrusi delle mie scarpe, la festa scemava, qualcuno si agitava sul palco Mediaset, ma nessuno se lo filava. Ero solo, come fine anno non era quello che mi aspettavo, ma era quello che mi meritavo. Mi sentivo in colpa: avevo lasciato Damiano sul canapé di Luigi XIV imbottito di Tavor, per un quarto di linguabocca. Ero teso, avevo i nervi sfiniti. L’alcol ti consuma anche la testa e non è solo roba di lucidità, è anche roba di allenarsi a morire, lentamente, con addosso questa maledetta fragranza di bisolfito. L’alcol ti prepara a morire, ti mette in testa pensieri che non riesci a credere, ti abbassa il raziocinio, la voglia di alzarti e prendere a calci la vita. Intanto giravano voci prive di fondamento, si parlava di morti soffocati, inesistenti deflagrazioni, ambulanze ribaltate, gli ospedali da campo saccheggiati. La cosa migliore era cercare visi conosciuti per non essere in balia del nulla. Vicino a una delle due chiese gemelle una trentina di persone s’erano date baldanzoso convegno e se le davano di santa ragione. In mezzo, un tipo con una maschera di sangue veniva sballottato. Altri si minacciavano con le bottiglie rotte, altri ancora si scalciavano come cavalli imbizzarriti. Dopo aver assistito a un pugno formidabile di un armadio umano, l’assetto fisico di quel nanetto fu stravolto. Le forze erano lieve66 mente dispari, gli scagnozzi dell’armadio erano una ventina, il resto era gente che si trovava a difendere il nanerottolo per necessità di cose e per non essere travolta da quei balordi. Focalizzai ben bene la situazione, e mi fu clamorosamente chiaro un personaggio lì in mezzo: Mauri Mauri. Era lui il nano che le prendeva. Era troppo sconvolto dalle botte per riconoscerlo. Mi lanciai nella mischia; bisognava salvarlo. Con una spallata poderosa levai di torno due tizi e presi Mauri, raccolsi un coccio da terra e lo infilai in bocca all’armadio umano. Gli diedi un colpo basso, bassissimo. Tenevo stretto per mano Mauri e lo trascinavo con tutte le mie forze lontano. Ovviamente lo pensai solamente. Mi feci questa sega mentale, ma non potevo stare a fare l’eroe, Mauri se la sarebbe cavata da solo. Cercai di non farmi vedere da lui, abbassai la testa e filai via a trecento all’ora nella folla, il più lontano possibile da lì. Dalla morte. In una delle traverse di via del Corso cercai una cabina per chiamare il cellulare di Daniel, ma la scena apocalittica di persone con le antenne dei loro portatili ultima generazione al cielo con sguardi interrogativi, mi tolse lo sfizio. Nessuno riusciva a telefonare, c’era, dopo un decennio, per la prima volta, assenza di comunicazione radiomobile, qualcuno urlava che c’era il “millennium bug”. Occazzo che stronzata, l’importante era che ci fosse stato il “millenium bar”. Che allo scoccare del millennio il mondo fosse diventato un enorme convivio dove tutti ubriachi a ciucca avessero cominciato a bere, a perdersi nei meandri dell’irrazionalità. Immaginavo il Presidente della Repubblica immerso in una tinozza di malvasia profumata augurare buon anno a tutti gli italiani. E in Italia un tripudio di alcol, ragazzi travestiti da satiri, milioni di passere innaffiate di prosecco ghiacciato, bambini attaccati a biberon marsalati, San Pietro in persona ad accoglierci in un paradiso fatto di viti, botti di radica strapiene di barolo e litri di vino nero salentino. Intanto, al ritmo progressivo di stronzate millenariste, in molti si sbellicavano dalle risate come me: vedere questo o quello in preda al tentativo pietoso di chiamare e scuotere la 67 testa davanti al display e alla modernistica tastiera dei vari Nokia o Philips, Nec o Motorola – multinazionali del fischio messe in ginocchio da un traffico impazzito. Per un attimo, solo sinistri squilli tecnici, ma tutti tremendamente muti. Non c’era nemmeno la consolazione della vocina Tim-OmnitelWind che sussurrava: “l’utente da lei chiamato non è al momento raggiungibile”. C’era solo un abortito tu-tu. Ed era un tu-tu che rimbalzava nelle teste di tutti come una cantilena tribale. Power to the People, Power to the Peole, right all… Power to the People, Power to the People… Non c’era che dire, tutti la cantavano, manco fosse sceso John Lennon in persona, tutti si agitavano e rivendicavano solo perché si stava tutti insieme, sbronzi e no. Ma ovviamente non era così, e tutti facevano i beati cazzi loro, si tentava in ogni modo di restare in piedi e non essere scaraventati per terra. Ero un’alga e fui portato alla deriva di piazza di Spagna intorno alle due del mattino. Attorno alla Barcaccia. Magna sorpresa, c’era la pattuglia dei quattro completamente umanizzata. Daniel e Bertowsky sembravano redenti. Erano soli con Leira e Rossy. Un po’ più indietro della fontana, facevano delle foto con un tizio vestito da 2000. Questo tizio era davvero un soggetto clamoroso, aveva indosso un tutino rosa molto Blake Edwards e attaccati con gli strass il 2 e i tre 0 da sopra a sotto. Se fossi stato sbronzo, lo avrei buttato nella fontana a fare un bagnetto. Senti Pantera Rosa, non è buona cosa quella di andare in giro così, tanti potrebbero credere che sei matto, ma so che non lo sei, hai solo bisogno di rinfrescarti le idee. Dette queste parole concilianti, lo avrei fatto planare nella Barcaccia. Ovviamente non feci niente di cattivo contro l’uomo del 2000, le uniche cattiverie furono quelle di attraversare correndo il primo gradino della scalinata di Trinità dei Monti, dove rovinai le pose di qualche gruppo arroccato per la classica foto sulla scalinata. Bertowsky era un signore. Portava pure un cappellino di 68 velluto, grande provincialata in quell’atmosfera. Non erano cose di cui mi ero accorto nella giornata, ma era roba per cui valeva la pena vivere. Se c’era un uomo meno adatto a vestire firmato (tipo D&G o Armani) quello era Bertowsky. Agli occhi del pianeta si presentava tarchiato e taurino, massiccio ed esplosivo come una forma di cacio cavallo, non era obeso, era solo sovrappeso e la roba che portava addosso gli andava come la pelle di un salame. Questa serie infinita di stonature di Bertowsky me lo rendeva unico; e forse anche lui avrebbe avuto qualcosa da ridire sul mio abbigliamento, dagli anfibi nordcoreani, ai pantaloni verde militare stile viet-kong a quel sacco peruviano che mi era costato la mezzanotte in solitaria ecc ecc. Daniel, Bertowsky e io. Se ci fondevano non usciva nemmeno una trombetta di San Cosimo, tre parassiti sociali e dissipatori di benessere e virtù, eravamo tutto, fuorché persone affidabili. 1 gennaio 2000 Ero stanchissimo e guardavo il flusso spento di gente. Tutti avevano l’aria un po’ annoiata, era abbastanza tardi, e il clou della baldoria millenaria era alle spalle. Intanto alcuni idioti dalle finestre della Roma bene diedero il via a un criminale lancio di oggetti. Oltre duemila anni dopo i Patrizi e i Plebei, stavamo ancora lì. Quella massa di figli di papà, di senatori, notai, produttori, imprenditori e grandi commercianti dalle loro case para-nobiliari lanciavano bottiglie rotte e petardi, nella meschina coltre dell’anonimato, con la ignobile speranza di vedere la testa fracassata di qualcuno. Era come se le leggi fossero state sospese per una notte. Rinvenni dal torpore, raccolsi una bottiglia di spumante da cinquemila lire che ambulanti svendevano a ogni angolo. Non l’aprii nemmeno e la buttai in una di queste case. Eravamo proprio all’inizio di via Condotti. Beccai proprio una delle finestre dove c’era più baccano. Sentii un urlo abbacinante. Un tipaccio vestito 69 cresima cacciò la testa fuori dalla finestra aperta ruggendo bestemmie in romanesco. Gli risi in faccia e me la diedi a gambe. Finalmente Leira movimentò la mia vita. M’imboccò il suo cellulare e mi disse di chiamare Hoda. Non me lo feci ripetere due volte. Non appena composi il numero e sentii lo squillo, vidi Leira cambiare colore. “È tornato campo?” gracchiò. “Un due tre stella” paraculai. Ormai ero già in orbita sulle frequenze interrogative di cosa dovevo dire a Hoda. Ti ricordi di me, Dove sei, Se posso rag-giun-ger-ti. Quante puttanate e movimenti loffi avevo in saccoccia pronti alla soglia della grande figuraccia. Appena chiamai mi rispose Hoda con una parola straniera. Dal mio silenzio lei capì che dall’altra parte del telefono c’era un uomo di nazionalità italica allo sbando e fece “Pronto?”. La mia emozione fu corredata da una quindicina di secondi per dire il mio nome e spiegare chi ero. Per fortuna Hoda mi venne incontro come si va incontro ai grandi impediti e fece tutto lei: “Passato grande capodanno, ci stiamo divertendo tantissimo, sto a una festa di studenti tedeschi!!!”. Parlò come un fonogramma, mentre dietro di lei si sentiva veramente di tutto. Me la immaginai agghindata come un bel bijou e mi allisciò l’idea di andarla a cercare e giocarmi tutte le carte possibili. Hoda mi spiegò dov’era la festa. Dire che era lontana era un eufemismo bello e buono, si trattava di una villa sui colli Albani e manco se avevo un elicottero sarei arrivato prima della mattina. La notte di capodanno finì così, con noi cinque che rientravamo, mesti come cani bastonati, verso la Termini con la vana e penosa speranza di assaltare un mezzo vuoto. Si susseguivano scene apocalittiche di gruppi pronti a tutto pur di salire su un taxi notturno. Gli abbordaggi avvenivano attorno a piazza dei Cinquecento, perché nessun taxi aveva il coraggio di sfiorare la corsia preferenziale davanti alla Termini. Un eventuale assalto di fronte alla stazione sarebbe stato letale, visto le migliaia di persone in attesa di un treno o di una metro. 70 Alle quattro del mattino lo spiazzo antistante la stazione era una raccolta inferocita di oltre ventimila persone, molte delle quali cercavano di sfondare i vetri blindati dell’ingresso. Si tentava di penetrare dentro la stazione con ogni mezzo, con arieti di plexigas e tubi di cemento. La gente era esasperata; veniva fatto un solo nome in quella canea ed era Cicciobello Rutelli, il nostro amato sindaco, divenuto l’uomo più bestemmiato del nuovo millennio. Un tizio di Tivoli che doveva tornare a casa, con le guance gonfie e tirate come la pelle di un tamburo, urlava senza tregua fino a rimanere senza fiato: “Mortacci di Pannella, di Rutelli, di quel porco di Cristoforo Colombo!”. La scena più impressionante vista da molti fu quella di un autobus spento, carico di gente, che viaggiava senza fari, con le porte aperte, la gente con la testa, le gambe, le mani fuori i finestrini e avvinghiata a ogni strapuntino. Sembrava andare a folle lungo un falsopiano e che a guidarlo ci fosse stata un’ombra nera. Quella scena irreale confermò il principio di congelamento del mio cervello. Quando decidemmo di incamminarci, dopo un po’ beccammo un taxi, e con guaiti da giungla, ne richiamammo l’attenzione. Il tassista aveva chiesto un sacco di grana, Berty non ci arrivava e il resto della truppa faceva finta di essere al verde. Così dissi, “Ti lasciamo la bionda e ti diverti un po’” indicando Leira. Quella cominciò a strillare come una matta che il tassista per poco non ci pagava lui per toglierci dalle balle. Dopo un quarto d’ora eravamo in casa a giocare a pallone con una sfera di stracci. E fu mattino. Dormivo come un cucco quando d’un tratto la sveglietta Breil di Daniel fece un casino tale da dovermi alzare e andare a spegnere quella dannazione mattutina. Dovetti ringraziare quella sveglietta per lo spettacolo che mi fu offerto. Sentii un trambusto, erano ancora le dieci del mattino. Non era roba di fottistoio, era ben altro; ben più gustoso. Feci capolino come 71 un serpente a sonagli nel reparto doppio misto e vidi una scena troppo da ridere. Un ragnetto aveva edificato una ragnatela sul modulo di Bertowsky. Se n’era accorto in piena gotta di ronfa, e ora faceva un balletto assurdo perché si sentiva il materassino pieno di ragni. Effettivamente, un tempo c’era stato un bestione peloso, ma le sue tracce si erano perse nella lontana notte dei tempi. Mi godetti il bolscioi made in Bertowsky e mi riandai a coricare con la gioia nel cuore. Il mattino, o meglio il primo pomeriggio, visto che ci eravamo svegliati alle tre, trascorse in piena paranoia a causa della fame e della scarsezza di provviste. Si affacciò a questo punto la non balzana idea di recarsi, causa improvvisa crisi di coscienza, da Joao Paulo. Joao Paulo era il nostro amato papa. Rossy aveva sognato non so quale santo e quali martiri che le avevano intimato una pronta conversione. E fummo tutti folgorati dalle parole di Rossy. Chi perché si era scoperto frate proprio durante la notte (Daniel), chi perché era rincoglionito come il sottoscritto, chi invece perché era superstizioso come una baciapile (vedi il buon Berty). E qui venne fuori tutto il nostro cesaropapismo da psicanalisi, un vuoto di pensieri dove galleggiava l’effigie papale di Joao Paulo II. Fino a San Pietro fu una via crucis per purificarci dei nostri peccati. Prima stazione: il drugstore, Tiburtina-rifornimento bibite. Lavorare lì il primo dell’anno era davvero una galera. Sorpresi una tipa davvero niente male alla cassa: chiome, rossobrunello. Decisi di fermarmi a fare chiacchiera. Giusto il perché e il percome una tipa del genere stava a fare la venditrice dei balocchi. Ma la superiore necessità di sbronza, mi trascinò il pensiero su quella boccia di grappa che veniva passata al lettore della cassa. Non appena sentii bip svanirono tutte le manie sociali e mi recai diretto alla seconda stazione della via crucis. Regola primaria della buona pelliccia è quella di non mischiare i sughi alcolici. Contravvenni clamorosamente, e nelle successive stazioni il trio di alcolisti composto da me, Ber72 towsky e, a sorpresa, Leira, mischiò alcolici e sana erba originale made in Torbellamonaca. Daniel all’improvviso era diventato un monaco birmano: niente alcol e nemmeno una tirata di fumo al calumet d’avorio. Faceva no con la testa, come se stessimo cercando di avvelenarlo. Ma ero troppo preso dal bocchino di quel calumet, per farmi abbindolare dalle frescacce del moralista. Era proprio vero, bisognava stare attenti a quello che si fuma. Non fumavo erba buona da tempo immemore; quando tirai lo spino, fu come se nella mia vita fossero spariti i retrogusti bruciati del sabbione, della gommapiuma, del silicone. Intanto il Daniel convertito mi faceva paura. Quello, in nottata, ci aveva dato giù di stecca con Rossy; mi ero perso qualcosa, di certo Daniel aveva giurato a Rossy morigeratezza e santità. Quello che ovviamente né Bertowsky né Leira si erano promessi. Eh già, chi l’avrebbe detto, Leira nel limbo di sbronzolandia, coniarsi un ruolo di rilievo niente meno che nella nostra via crucis tra Campari, gin e vini severi. Le successive stazioni dell’ascesa alla pelliccia suprema furono svariate: liquori di bassa lega, i soliti Stock 84 e le Vecchia Romagna. Il fondo fu toccato con un bicchiere di anice di Tolentino bevuto più per necessità che per piacere. Contravvenni alla regola della sbronza uniforme. A qualcosa come la decima stazione, nei pressi di un bar della linea rossa, ebbi le prime distorsioni visive e l’azzeramento di alcuni sensi. Ben presto mi venne un sonnellino caro caro e arrivati a destinazione, partorii la sana uscita di fare una pennichella al calduccio della fermata di Ottaviano-San Pietro. Scesi dalla metro barcollando come un tubo di cartone, e mi andai a buttare in un posto non troppo affollato. Mi misi affianco a un distributore automatico di biglietti in modo da potermi accovacciare e posare la testa. Bertowsky e Leira sembravano aver retto l’urto della via crucis e filarono via da Joao Paulo per l’ultima stazione assieme all’altra coppietta. Il grappone che avevo in tasca, invece, mi aveva completamente annebbiato. Dormivo piegato in due, alle spalle avevo un muro scrostato, scarabocchiato e freddo. A Ottaviano c’era un flusso infer73 nale di pellegrini, tenuti col mastice della loro fede. Inorridivano nel vedermi lì a dormicchiare ebbro a ciucca; mi davano spiccioli, ma senza esagerare. La dovuta misura faceva ben comodo in quella occasione al popolo bue italiano, pellegrino, o comunque italianizzato per l’occasione. Oramai era passata una buona ora ed era fin troppo. Quei quattro monaci non potevano starsene a San Pietro tutto quel tempo. Se dovevano prendersi le indulgenze era proprio il momento sbagliato! Se le avessi prese io, ci sarebbero voluti un paio d’anni di pellegrinaggio in tutti i santuari del mondo, in ginocchio, col cilicio addosso e un rosario di un quintale in spalla. Facevo questi pensieri inverecondi, sbronzo, in un posto dove non dovevo stare: sotto il robotico bigliettaio marchettaro. Così iniziò il funereo e gentile continuo visitare delle care amiche forze dell’ordine italiane. Cominciarono due carramba, uno basso come un gallo e l’altro alto quanto un segnale stradale, che aveva pure il viso allungato come un licaone. Non mi tirai indietro dal ridere a questa buffa accoppiata che solo la fantasia narrativa di uno fumettista avrebbe partorito. E invece erano lì davanti, come desolanti statue alla deficienza. Art. 688 Codice Penale. Ubriachezza: chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico è colto in stato di manifesta ubriachezza è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da lire centomila a lire seicentomila. La pena è dell’arresto da tre a sei mesi se il fatto è commesso da chi ha già riportato una condanna per delitto non colposo contro la vita o l’incolumità individuale. La pena è aumentata se l’ubriachezza è abituale. Mi chiesero con fare paziente di smammare. Il secondo tentativo fu davvero troppo educato, capii che qualcosa sotto non andava, me ne accorsi quando mi sollevarono come un salame e mi trascinarono fino alla scala dell’uscita. Collodi, lo 74 abbiamo letto tutti, era troppo oleografico: Pinocchio portato dai due gendarmi con alti e severi pennacchi, grossi come armadi che si trascinano per il paese un pezzo di legno. Quella era santa satira politica contro la deficienza. Ma come, due guardie per un pezzo di legno che parla! Io cercai con questi argomenti di dissuadere i due carramba ma con esiti non eccellenti. “Sono Pinocchio! Fra un pezzo di legno e uno di merda come me, non c’è tanta differenza!”. Ovviamente, tutto questo fu solo pensato e non osai aprire bocca, avevo una cacarella sordida di farmi una notte al gabbio in mezzo ai culipiatti dei carcerati. Mi lasciai depositare come un sacco di spazzatura sulle scale e dissi che me ne sarei andato con le mie gambe a tutta birra, anche da sbronzo. Eccazzo. Ero troppo giù. Distrutto nel fegato e nel morale, mi buttai a dormire come un ghiro peloso nonostante la corrente siberiana di quel posto. Mi gelava il sangue e i gradini ghiacciati mi inumidivano le chiappe, ero un orso polare senza pelliccia, l’ultimo essere vivente prima di un deserto glaciale, un naufrago del Titanic appiccicato alla vita. Ero sconvolto, mi misi a cuccia per dormire fin quando intravidi un volto conosciuto. Cristo, erano due i volti conosciuti! Erano troppo conosciuti. Le loro facce scivolavano lungo la monotona calca brusiante che ciondolava per le scale. Erano volti indistinguibili per chiunque, a maggior ragione per uno sbronzo, ma non per me. Tragica visione di nuovo millennio, con cui fu santificato il più bel capodanno della mia vita. Chiara Con sotterfugi e giri di parole Miriam aveva fatto capire senza dirlo che avrebbe trascorso il capodanno a casa sua niente meno che Franz. La misi alle strette, la chiamai diverse volte chiedendo se fosse vero che rivedeva Franz, non rispondeva, ma neanche negava. “Torturatemi, ma non parlerò” ripeteva come un disco incantato. Così decisi semplicemente di evitare di incontrarla. 75 A Roma ci sono oltre cinque milioni di persone, oltre cinque milioni di vite. Nessuna riuscirà a lambirle tutte, figurarsi la mia con quella perduta di Franz. Temevo che il destino cattivo e perverso me lo avesse fatto ritrovare sul più bello nella bolgia di piazza del Popolo, magari con qualche puttanella. Ma fu molto peggio. Il fato, anzi il Fato me lo fece trovare in un posto dove non potevo fuggire, dove non potevo neanche girarmi e fare finta di niente. Era sulle scale della metropolitana, come un qualunque barbone, farfugliava frasi incomprensibili, parlava da solo. Aveva sempre avuto una tendenza a confabulare, ma quella visione di un relitto umano mi sorprese e mi gettò nel panico. Sandro non sapeva che fine aveva fatto Franz. In quel momento se ne accorse. Cazzo, era Chiara, il giorno era andato proprio a fottio, stavo a Roma per dimenticare e quella mi sbucò così, come un uccello di bosco. Il bello fu che faceva finta di non guardarmi. Mi salì una rabbia bollente in testa e urlai a squarciagola il suo nome: “Chiara, Chiara!!!”. Si girò tutta la metro, in più un tipo corpulento, ma flaccido, rubizzo, con la pelle cangiante, la capoccia glabra, piccola e rotonda come quella del batacchio di una campana. I connotati di quel tizio corrispondevano a un tale che in passato aveva fatto filo a morire a Chiara. Zoomai il tipo; quando ebbi conferma, partirono nell’orbita dei miei pensieri visioni di pietre infuocate disseminate sul mio recente futuro. Mi vennero in testa un sacco di cose da dirle. Erano parole e pensieri offuscati che non riuscivano a concretizzarsi in un suono apprezzabile: roba che svanì non appena quel tipo intimò di alzarmi, pungolandomi il viso con i suoi mocassini. Sentivo l’odore forte della gomma della suola, ero nauseato, ma la nausea mi passò non appena mi mollò un calcio in faccia. Fu un istante. Il tizio mi aveva sferrato un calcio sul naso… l’odio non è solo colpa tua… il tizio mi aveva sferrato un calcio sul naso… nella vita ci sono circostanze che possono renderti davvero irriconoscibile… il tizio mi aveva tirato un calcio sul 76 naso… ho paura di certe reazioni… il tizio mi aveva sferrato un calcio sul naso! Sentii un colpo e poi tutto il viso bruciare, provai l’ebbrezza di vedere le stelle, altro non erano che un tappeto nebbioso di minuscoli insetti. Cercai di reagire, ma quello mi ributtò giù mentre Chiara gli implorava di lasciarmi stare. Non disse niente di incoraggiante, le sue uniche parole furono: “Non vedi che è fatto, lascialo, è fatto, è fatto, è strafatto, Sandro!!!”. Poi infilò in mezzo senza volerlo il suo bel culo duro, avevo il jeans proprio sulla faccia dolorante e ci poggiai il muso. E fu lì che sentii come sparire la barriera di stoffa tra la sua pelle e il mio brutto muso rotto. Fu una breve sensazione che illuminò il nostro ricordo passato. Per fortuna che non lo vide il batacchio. Fu un bene, se no morivo per davvero. Sandro Era stata una bellissima giornata. C’eravamo svegliati presto, dormivamo da amici che conoscevamo appena, facemmo un giro molto romantico e turistico di Roma, portai Chiara per tutta la città, le feci vedere piazza Navona e il Pantheon. Per la prima volta da quando la conoscevo la notai felice, spensierata, piena di brio. Il pomeriggio andammo a San Pietro. Aveva troppo sofferto quella ragazza, aveva pianto un mucchio di tempo, piangeva perché lo stronzo con cui era stata se l’era filata, era andato via da giù senza un saluto, senza una lettera. Grande codardo. Chiara è di una devozione fuori dal comune, una forza che non è solo interiore, ma anche esterna tanto da avermi coinvolto. Ma la devozione mi passò tutta non appena vidi a Ottaviano quel verme di Franz, l’ex ragazzo di Chiara. Ragazzo era una parola grossa. Era un avvinazzato qualunque e confabulava. Chiara mi tirò il braccio, capii e cercammo di filare. Ma quella carcassa emise un urlo. Mi girarono talmente tanto le palle che mi avvicinai. Questa merda stava provocando. Chiara mi tirava per un braccio, ma riuscii ad avvicinarmi lo stesso. Mi voltai e 77 gli pulii in faccia la scarpa con la quale ero finito due minuti prima su una merda. Gli diedi due calcetti. Pratico l’arte coreana del Taekwondo e sono troppo bravo. Penso che a breve farò gli esami per diventare cintura mezza nera, ho una discreta votazione. Non volli fargli male, cercai solo di spaventarlo. Quando vidi il sangue sul mocassino mi venne un colpo, quelle scarpe erano firmatissime, sant’iddio, e costavano mezzo milione. Mi venne un nervoso pazzesco, mentre Chiara mi trainava via da lì per la manica del giubbotto, mi sentii addosso come un capasone di vino. Un essere non identificato puzzolente d’alcol mi stava strappando il piumino. Doveva essere un dannato amico di questo barbone, qualche negroide o qualche rasta; cercai di scrollarmelo, ma quello teneva. Quando vidi una piuma svolazzare nell’aria non capii più nulla. Mi avevano bucato il piumino! Questo bue che avevo addosso era talmente sbronzo che cedette e feci in modo da scaraventarlo giù per le scale. Non appena feci questo mi venne addosso una ragazza, schiamazzando, un’arpia alcolica, mi tirò un morso all’orecchio, indietreggiai. Ero una bestia ferita, una ragazza bionda con un pezzo del mio orecchio in bocca mi guardava con occhi fumanti odio, aveva gli occhi dilatati fino al muso; non era una sbornia semplice. Era Leira Romito, perdio era lei, quella per cui aveva perso la testa Franco Cicoria, un mio amico, si era dato al buco per dimenticarsi questa tipa, autentica cannibale che addirittura cominciò a masticare il mio brandello di carne. Non appena intravidi in ginocchio Chiara, che tamponava il naso della merda umana e piangeva, mi sentii malissimo. Io ero senza un orecchio e quella pensava a un barbone. Mi girarono, e la presi per i capelli cercando di portarla via di lì. Mi mollò un ceffone che mi fece ancora più male dell’orecchio sbranato. Mi sentii di svenire, ero da solo contro dei matti. Cominciai a scalciare per terra quello schifo e non mi fregava un cazzo che Chiara frignava, le beccava pure lei. Intanto la donna-ghepardo non c’era più, forse era stata una mia proiezione, di certo non lo fu Danilo Ziani. Danilo, detto Daniel, era uno tranquillo, ma era 78 meglio non avere a che fare con lui. In paese aveva amici schizzati e sinistri, gente con cui non si poteva stare molto a scherzare. Erano etilici per eccellenza e quando si sbronzavano mettevano sotto sopra le macchine della brava gente. Io in paese avevo la mia bella Seat Toledo, ancora da pagare tutta, era meglio tagliare la corda. Daniel, tanto per rinfrescarmi le idee, mi mise una mano sulla spalla e fece: “Hai una Seat? Non è vero?”. Non gli feci dire altro e me la diedi a gambe trascinando Chiara in lacrime. Il bello del brutto di tutto fu quando un sacco umano di carne e super alcolici, alias Bertowsky, si scagliò sul manigoldo che mi aveva pestato. Ma il bello del brutto durò poco. Bertowsky ebbro era una facile preda e finì a pelle di leone in fondo alla scala. A quel punto credetti che sarei morto. Ma Leira fece la cosa più bella della sua vita: si fiondò sull’omaccione e gli diede un morso all’orecchio. Fu una scena impressionante. Leira, da sirena del metabolismo schizzato, divenne un’amazzone assatanata di carne umana. Era uno spettacolo truce, respirava affannosamente e risucchiava l’aria come un aspirapolvere, teneva tra i denti il piccolo frammento di carne di quell’orecchio e, non paga dello sfregio, lo martoriava tra i denti. Un rivolo di sangue dalla bocca e il viso arrossato dal troppo bere si intonavano alla perfezione con quella scena crudele. Tutto finì con l’arrivo di Daniel che, sobrio come un prete, mise in fuga il nemico col solo sguardo. Chiara mi stava pulendo le ferite con un fazzolettino di carta rosa. Non solo avevo il naso a fottio, ma anche le labbra erano ridotte a due salsicce sanguinolente. Chiara piangeva e diceva che era stato il fato e il destino a volerlo e poi i santi e poi un mucchio di queste cose cattoliche che mi facevano stare peggio e girarle a trecento all’ora. Voleva baciarmi, per pietà, come si bacia un bambino smarrito, ma non ne volevo di questi pietismi, ero troppo confuso. Vidi pure che mollò un ceffone al batacchio, così, senza nes79 sun motivo. Il manigoldo rimase di pietra e indietreggiò sorpreso dalla mappa sonora della sua ragazza. Quando sparì dalla mia visuale, all’improvviso di botto mi venne un gran magone che fosse andata con quello. Mi era rimasto il suo fazzoletto. Ma bastò guardare il rimasuglio organico del sottoscritto su quel brandello di carta che il romanticismo passò via in un nanosecondo. “Ma al diavolo!” pensai, era lei che se l’era data a gambe. Era in palese contraddizione. Se veramente avesse creduto alle sue cose, al fato, al destino, ai miracoli, al possibile e l’impossibile, sarebbe dovuta rimanere con me e lasciare il bellimbusto solo soletto nel suo piumino bucato. Terminato lo spettacolo made in sbronzolandia laggiù in metro, era cosa buona e giusta alzare i tacchi e filare a velocità gran turismo. Partimmo come siluri in un posto discreto, lontani dagli sguardi degli sbirri e dei carramba. Non lo so, avevo manie di persecuzione, forse, ma avevo un presentimento. Sentivo che me la volevano mettere in culo. Immaginarsi uno col muso spaccato e il naso sanguinolento. Era un bersaglio troppo facile: rissa. E buonanotte ai suonatori. Cinque minuti, ed eravamo lungo la Conciliazione a discernere di architettura. Composti e sereni come professori universitari con mano sotto il mento e sguardo concentrato. Si blaterava sulla sistemazione di quella cazzo di via che finiva in bocca al Vaticano. C’era Bertowsky, un po’ Bernini, un po’ Schopenauer, con in bocca le seguenti dichiarazioni da perfetto ebbro: “Quel colonnato non s’aveva da fare e quella dimensione un po’ divina della facciata della cattedrale è davvero fuori di testa”. L’unica mia idea era che ’sta Conciliazione a Roma c’entrasse come una fava nel panino. Daniel andava tutto sobrio. Era molto tranquillo, aveva avuto il sangue freddo di procurarmi con scuse barbine e penose del ghiaccio dentro un bar di infima serie. Il barista era l’uomo più impiccione di tutti i tempi e montò un interrogatorio da Stasi. Dani fu assolutamente brillante e parlò di una 80 fantomatica distorsione. Sentivo che aveva conservato integre le sue risorse per la madre di tutte le sbronze more later. Fui messo al corrente che, davanti alla basilica, Leira e il Bertowsky avevano iniziato a lanciare monetine e cubetti di pietra contro il presepe, e che si erano messi a bestemmiare davanti a un gruppo di monache, e che poi avevano assegnato dei punti alle varie statuine del presepe e tutte quelle che venivano abbattute rimpinguavano un monte-punti che decretò una vincitrice assoluta: l’idiozia. Insomma la voglia di conversione era stata sconvolta dal tasso alcolico e Rossy e Daniel non fecero altro che fingere di non conoscere i due vandali. Tutto mi scivolava addosso, Roma, gli amici, Chiara, il manigoldo. Volevo scoppiare, come un palloncino. Ero talmente depresso che mi sarei tranquillamente buttato nel serpente di cacca del Tevere, se non avesse chiamato Hoda. Leira, con due informi occhi etilici, mi piantò tra le mani il suo bel cellularino squillante, sentii la vocina di Hoda. Fu tutto molto chiaro: il mondo mi sorrideva con tutti i suoi centomiliardi di denti. Eddaicchebbello! Pensavo per la prima volta dopo Chiara a una ragazza con occhi, mani, gambe, capelli e cervello. Sentivo qualcosa che forse era innamorarsi: pompare fuoco dentro una motrice a vapore, gettare carbone infuocato con la Transiberiana a centocinquanta, spaccare un pomeriggio invernale con una sbronza di cognac, prendersi a sonore sberle per non pensare a lei, ascoltare With You or Without You con il cuore gonfio. 81 Capitolo 7 STAIRWAY TO HEAVEN Hoda Non passai un grande capodanno. Vidi il cielo di Gerusalemme illuminato dalle girandole infuocate in una minuscola televisione. Roma non era la stessa cosa, ma avevo la segreta convinzione di trascorrere quella serata in casa dei miei compagni di collegio assieme a Franz. E già, perché quella di Franz per me fu una storia lunga e mortale, le provai davvero tutte per poterlo conoscere. La prima volta che lo vidi fu in una manifestazione di piazza. C’erano dei centri sociali a protestare contro il governo italiano a piazza del Popolo e dintorni, mi trovai lì per caso con alcuni amici francesi, che mi dissero che era meglio stare alla larga. Uno dei poliziotti credendoci della manifestazione ci puntò. Aveva un casco azzurro e si muoveva dalla schiera di militari presa di mira da un lancio di pietre. Si staccò assieme ad altri dal gruppo e andarono a colpire direttamente i ragazzi che li fiancheggiavano. Non tutti facevano parte della manifestazione, c’era un equivoco. Ci puntò, venne spontaneo a tutti scappare, ma quello ci inseguì. Rimasi in fondo alla comitiva, avevo scarpe strette, mi raggiunse e mi prese per un braccio. Lo strinse, me lo girò, ancora non so che voleva, sentivo un dolore cattivo, finché non arrivò Franz. Fu lì che lo vidi per la prima volta. Urlò “lasciala stare!”, 82 quello mollò la presa e andò verso Franz alzando lo scudo di plexigas. Franz aveva un mattone e lo scagliò contro lo scudo, poi fece uno scatto incredibile, come una pantera svanì. Mi ricordo il berretto da cui uscivano dei riccioli chiari, una sciarpa verde e arancione sul viso, ma soprattutto lo sguardo; l’avevo a due metri e credetti di non rivederlo mai più. Lo rincontrai tre mesi dopo a Tiburtina, aveva sempre quel berretto scuro di lana, i riccioli biondicci gli uscivano sotto. Sembravano finti, ma ora aveva un viso sotto quegli occhi neri, era un viso spigoloso, smunto, quello di uno che aveva fame, uno che faceva il barbone, era lì in mezzo a dei poveracci che mendicavano, suonavano qualcosa di carino, mi pare fosse Stairway To Heaven dei Led Zeppelin. La gente era generosa e dava soldi. Ero sempre di buon umore perché volevo conoscerlo, ero di buon umore perché ero sicura di conoscerlo, ma ero terrorizzata di non piacergli. Così un giorno gettai la maschera, dimenticai i miei scrupoli, lo seguii per tutto un giorno, lo vidi sbronzarsi, lo vidi confabulare da solo, gli vidi fare cose assurde. Non fu normale da parte mia strapparmi dal collo una collana stupida d’argento. Me l’aveva data un tipo che mi faceva filo dal primo giorno che ero in Italia, ma non era una persona interessante. Cercava di fare colpo con questa roba, mi aveva regalato addirittura il cellulare, un piccolo cercapersone, un completo di raso rosso corto come un top, un costume da bagno e un’infinità di monili, tra i quali questa collana. Fu l’unica cosa che accettai e fu la prima cosa che immolai per Franz, non appena me lo vidi dormire affianco in metro non pensai un attimo e me la strappai. Mi chiamò la notte di capodanno, pensai che si era avverato un miracolo. Gli ero piaciuta e avrei dovuto fare io la mossa successiva, telefonai e ci demmo appuntamento a Trastevere. Per me fu come il Paradiso. Con Hoda ci demmo appuntamento a Trilussa, una birreria di Trastevere. Il lato geniale dell’idea era che a Trastevere tutto si chiamava Trilussa, dai ristoranti di lusso ai ciabattini. Non essere sobri, non aiutò. Ci perdemmo e ci ritrovammo 83 una buona decina di volte. Come bambini dell’asilo qualcuno scompariva per poi riapparire con l’espressione frastornata di un moccioso lontano dalla sua tettarella. Finché non riuscimmo a rimanere compatti intorno alle undici. Eravamo tutti sbronzi, tranne Rossy. Tutti! Anche Daniel ci aveva raggiunti nell’empireo etilico, dimenticando ben presto il suo voto. E non fu cosa buona e giusta, perché uno in palla ci sarebbe servito. E invece Daniel era lì impellicciato, con l’espressione rimbambita della sbornia. E giusto giusto quella sera poi doveva imitare Robert De Niro nella scena immortale de Il cacciatore quando corre nudo. Dicono che è un film di destra Il cacciatore, dicono che Michael Cimino era un fottuto guerrafondaio, dicono che Robert De Niro credeva veramente che quella pistola nella roulette russa avrebbe sparato. Dicono un sacco di stronzate. All’appuntamento Hoda si vide arrivare: un uomo nudo che correva e seminava vestiti, Rossy impassibile che dietro li raccoglieva come una robivecchi, una ragazza con la bocca putrida di sangue coagulato e Bertowsky con una parrucca viola rimediata a Torre Argentina. Hoda non si scompose, e dopo averle presentato i miei guitti, andammo in un posto assurdo dove si mangiava fino a morire, pagando solo ventimila lire. In quella situazione diedi il peggio di me stesso. Hoda faceva l’astemia. Cosa negativa. Già con Chiara mi ero sorbito pallesche paranoie sulle mie sbronze. Non ero dell’umore di bermi anche quelle di Hoda. Cercai come prima sera di controllarmi, bevvi nella prima mezz’ora un solo bicchiere di vino bianco, San Gimignano, fresco, con un’entrata felicissima. Non ce lo aprirono davanti e questa non fu cosa buona e giusta, ma quel vino aspro, nettare lieve e gentile sul palato, fece scalpore e ne ordinammo ben cinque bottiglie, quasi una a testa. Hoda mi fissava mentre mangiavamo i fagioli, le farfalle ai carciofi e le linguine con la panna e la mortadella. Era più rossa e fulva della prima volta che l’avevo vista: il capello, ritoccato con la lacca piuttosto che con il gel, si rigonfiava e dava maggiore spicco ai riflessi ramati; il fisico era 84 ingollato in un aderente vestito scuro che si apriva a palloncino sulle ginocchia, portava calze di lana e anfibi. Era vestita totalmente fuori di testa. Hoda aveva un solo difetto. Parlava troppo. Parlava a raffica di tutto con tutti, non stava mai zitta. E il sottoscritto non disse quasi niente. Quando finì la serata e ci lasciammo a Termini non avevo il minimo dubbio di come fosse andata la serata. Lei era felice e contenta come in una fiaba e salì trionfante nel suo bel taxi-zucca con un sorriso a cento denti. Noi ce ne tornammo con il 60 notturno. Hoda addirittura nel tragitto sino a Termini osò esprimere pareri positivi su quella manica di ubriaconi e perdenti che eravamo. Disse che eravamo simpatici. Ma se avesse saputo che Leira masticava un orecchio umano e Daniel correva nudo tutte le sere che si sbronzava, avrebbe espresso pareri meno lusinghieri. Sul pullman scatenammo un clima da gita scolastica; Bertowsky e il sottoscritto intonarono Bella ciao, un tedeschino con occhiali tondi, fintamente assopito, in cerca di guai, scioccamente, fischiettò e canticchiò la Wacht am Rhein. I coglioni mi girarono a più non posso, sicuro della disparità di forze in campo lo burlavo da lontano. La rissa nazionalista si sfiorò a ripetizione fino a piazza Bologna dove salirono delle Teste Glabre che conoscevo troppo bene. Erano tipi di corso Trieste che facevano la ronda contro i marocca, i mangiabanane, i negroidi, le battone, i finocchi ma soprattutto contro gli anarcoidi italici e parassiti come me. Più di una volta mi ero visto arrivare queste squadre di fascisti nel cuore della notte a Tiburtina a provocare personcine per bene come Damiano, Mauri e ovviamente il sottoscritto. Era meglio starne alla larga, erano coperti da certi polizei e avevano dato fuoco a una ragazza moldava che batteva. Questi sgamarono il nostro canto partigiano. Ricordo solo il sollievo col quale li vidi salire, mentre noi ci lanciavamo tra le porte che si stavano chiudendo. Facemmo gesti irripetibili. Le TG dentro il pullman sbraitavano e urlavano come tigri affamate in gabbia. 85 Capitolo 8 ADDIO RAGAZZI DI VITA VIOLENTA A casa non riuscivo a togliermi le scarpe. Per il terrore. Per la cacarella-fischia dei fasci. Avevo stivali di pelle beige griffati El Charro dritti dritti dagli anni Ottanta. Li avevo grattati a Porta fottiiltuoprossimo Portese. Il trucco per rapinare la gente al mercato di Porta Portese è vecchio quanto il cucco: si finge una rapina e si inizia a correre. Solitamente è un lavoro che si fa in tre. Uno davanti fa il ladro, un altro, poco più dietro, fa il rapinato, un terzo finge di parlare con la polizia al cellulare. Quando si corre e si scalcia nella calca capita che qualcuno venga fatalmente risucchiato. Così il finto rapinato ficca le mani in tasca del malcapitato passante, sfruculiando e rapinando tutto quello che c’è. Ovviamente a Tiburtina non eravamo mai in grado di compiere queste complesse operazioni, né di fregare la gente al gioco dei tre campanellini, altra istituzione di Porta fottiiltuoprossimo Portese. Eravamo sempre troppo sbronzi, così l’unica cosa da fare era sgamare le bancarelle di cappelli, scarpe, occhiali da sole, magliette. Un giorno me ne tornai vestito da cow-boy con gli stivali, un cappello a larghe falde e un gilet. Ero contento come Pinocchio nel paese dei balocchi. Un po’ meno il proprietario legittimo della suddetta roba, inferocito a caccia della pellaccia di memmedesimo. Terminata l’operazione con gli stivali, mi infilai in un angolo, dietro la cattedra a tre gambe mi misi a sfogliare “Latex”, 86 una rivista fetish regalatami, a sua insaputa, da un edicolante. C’era una roscia pazzesca con delle gambe coperte da una calza nera e una giarrettiera di pizzo celeste, ma sul più bello sentii un confabulare alto, poi dei vagiti, infine un breve silenzio rotto da dei lamenti. La brava e bella Leira si era messa a singhiozzare sola e il suo compagno dopo un laconico ciao a tutta la truppa, se l’era svignata chissà dove. Non c’era bisogno del premio Nobel della chimica per capire che qualcosa di grosso stava per esplodere. Il pissi pissi del giorno prima tra Leira e Vernon era stato da pochi nanosecondi rinfacciato alla nostra damina bianca. Bert l’aveva scaricata e si era andato a sbronzare in solitaria senza avvisare il suo migliore amico. Bertowsky tornò a notte alta da chissà dove. Arrabattò le sue cose. Poi mi fece una faccia per dire, “ho da raccontarti” e io feci la stessa espressione come per dire che avevo capito tutto. Ora avevo un solo desiderio. Farli smammare a rotta. Tutte quelle faccende mi avevano davvero messo di cattivissimo umore. Berty mi tirò con lo sguardo verso il suo sacco a pelo. Si lasciò cadere e rimase a terra, vicino al ragnetto che lo aveva terrorizzato solo la sera prima. Non aveva più paura, era fermo con lo sguardo fisso nel vuoto, Daniel e io lo guardavamo, sembrava piangere senza lacrime. Mi sembrava tutto terribilmente chiaro. In testa gli stava montando un rancore sordo e allucinato. Che fine avessero fatto le lacrime di Bertowsky anarchico paracomunista, fautore della strategia della tensione delle molotov, ma dal cuore dolce come una caramella, era davvero troppo chiaro. L’amoreodio per Leira gliele aveva asciugate tutte, Rossy pace a lei, buona come il pane, era in ginocchio a tenere la fronte della contessina. La partenza di tutti e quattro fu la cosa migliore per il sottoscritto. Avevo un fottio di tempo in più da dedicare alla ricerca e lo stanamento di Hoda. Quando caricai i quattro matti sul treno, cominciai a fare mente locale e tornare a essere un cittadino modello della Tiburtina-bene. Avevano trovato due barboni morti per il freddo. La gente stava capendo che, quelli morti, erano barboni che stavano a 87 Termini; così le Fs e il comune in piena crisi di coscienza, con il panettone di traverso, avevano deciso di disporre un locale per i vagabondi. Tutti a Tiburtina erano sulle spine, la maggior parte sperava di cambiare aria e andare a Termini nei locali riscaldati a spese del comune e del governo italiano. Il sottoscritto, conoscendo come funzionavano le cose in Italia, non si illudeva molto di questi demagogici locali riscaldati che in un futuro, non molto lontano, sarebbero diventati fantomatici. 4 gennaio 2000 Intanto un giorno mentre tornavo a fare il mestiere di sempre, vidi Mauri e Oblomov. Mauri aveva il viso terreo, Oblomov era fuori dalla 127. Non era cosa buona. Stavano entrambi vicino alla fermata del 492 e parlavano concitatamente. Mauri scuoteva la testa con quei pochi capelli che aveva, sembrava la capocchia di un burattino. Oblomov era perso, aveva lo sguardo smarrito e svuotato. Mi avvicinai per chiedere cosa fosse successo. “Hanno trovato un barbone morto…” disse tremante Mauri. “Lo sanno tutti” feci. “Carbonizzato” precisò Oblomov. Questa era una novità. “Lo conoscevate?” chiesi incuriosito. “Forse era Damiano” riuscì a malapena a dire Mauri e scoppiò in un pianto straziante. Mi sentii il cuore congelare, come un calcio nello stomaco, mi venne meno la terra sotto i piedi e mi accasciai a terra. Mi trovai col culo freddo sul marciapiede, Oblomov cominciò a raccontare impassibile che nella sera di capodanno erano stati dati alle fiamme numerosi cassonetti della spazzatura. Dentro uno di questi c’era un uomo di cui non si capiva l’età, che dicevano che era un barbone, che aveva nel giubbotto una boccia di anice, che Damiano era scomparso da troppi giorni, che i volontari della Cri dicevano che era proprio lui. Ebbi le 88 prime lacrime quando mi dissero che era stato trovato a piazza Istria, proprio dove abitava Miriam, cristo, Damiano si era buttato sbronzo nel cassonetto per dormire. Perché era stato così matto? Il fatto mi sembrava impossibile, ma nel pomeriggio all’obitorio del Policlinico Umberto I sarebbe dovuto andarci qualcuno. In base a questo nacquero alcuni casini, in primis, la grana Tarcy. Nessuno aveva il coraggio di parlare con l’amico del cuore, alias Tarcyrotante. Tarcy, quando non era fatto di metadone, era una gazza irritabile e psicotica, capace di tutto. Ancora era passato poco tempo da quando aveva sbattuto la testa contro la roulotte per la morte del suo cane. Dirgli di Damiano sarebbe stato troppo. Così ci recammo in una decina all’obitorio senza di lui. In questa funebre processione di vagabondi c’era spazio solo per il silenzio, nessuno aveva più la forza di piangere e nessuno aveva ancora la forza di credere che Damiano fosse morto. Assieme venne Hoda. Mi ero dimenticato che ci eravamo dati appuntamento. Lei era tutta in ghingheri con un piumino bianco lungo, un cappello di lana grigia e i pantacollant neri con stivaletti della Levi’s. Era la prima volta che saremmo usciti da soli. Nella mia vita da nonbarbone la prima uscita con una ragazza era un rituale perfetto. Non lasciavo nulla al caso, dalle frasi da dire, al portamento con cui presentarmi, fino al posto dove portarla. Oggi ero diverso, ero in balia degli eventi, ero accattone e ancora di più. Non fui troppo felice quando la vidi, mi beccò per caso davanti alla libreria, ero nel posto sbagliato all’ora sbagliata, l’appuntamento era mezz’ora prima al drugstore della stazione. Era alterata, pronta alla prebenda, ma quando le spiegai, capì e pregò di venire con me. Non ci pensai due volte, acconsentii. Forse sbagliai. Nella mia vita avevo sbagliato tante cose, ma ogni volta che facevo un errore, ero consapevole che quell’errore non avrebbe portato danni irreparabili. Portare Hoda a vedere un mio amico diventato polvere mi sembrava davvero una grande cazzata. 89 “Damiano un pezzo di carbone? Non è lui. Non può essere lui!” Mi rassicuravo in continuazione. Mi scivolarono un sacco di cose in testa, la mia memoria sembrava impazzita, vomitava di continuo le immagini della nostra amicizia. Ricordi belli con lui ne avevo tanti. Il vizio in bocca, Le ragazze della Gang Bang lo prendono dietro, furono i buoni motivi intellettuali per cui ci eravamo conosciuti nel cinema a luci rosse di via Tiburtina. Oppure i suoi assoli alla Jimmy Page, sapeva tutto dei Led Zeppelin e di Eric Clapton, completamente delirante per la Joplin, aveva gusti che nessuno più aveva. Una volta lo portai a un concerto dei Sud Sound System e ci fumammo un cannone rollato con il “Corriere della Sera”. Oppure quando vivemmo per qualche giorno in una casa di cartone a cinque km dal raccordo anulare, e che quando la pioggia scendeva quei muri diventavano una pappa e puzzavano di petrolio e noi avvolti di stracci ci abbracciavamo come bambine della scuola materna, lacrimando per il ridere e il freddo. Tutti questi ricordi si accavallavano in testa, si fermavano a quella dannata sera di capodanno, su quel canapé stileresole di Miriam. Pensai che la colpa della morte di Damiano era solo mia. Ero un assassino, avevo lasciato morire un amico, che è ancora peggio di uccidere. Lasciare una persona al proprio destino è come torturarla, infischiarsene delle probabilità di salvarla, ucciderla sarebbe stata meglio. Mi ero lasciato tirare dalla fata turchina Miriam, quella figa blu mi aveva distratto dall’unico dovere. Al day-hospital, un portantino molto maleducato, vestito con un camice celeste svolazzante, con fare scortese ci guidò. Appariva scocciato fino al midollo e non faceva nulla per nasconderlo. Diede strada per un tratto dell’ospedale, eravamo sempre barboni per lui, e ogni volta che passavamo davanti a una medicheria o anche un bagno, chiudeva la porta. Poi ci diceva di non toccare questo e quell’altro, non appoggiarci ai 90 muri scrostati e grondanti umido e muffa, una paranoia dietro l’altra. Finché non arrivammo in un androne semi illuminato dove c’era un tizio in livrea cresima che chiese se c’erano parenti o persone molto vicine. Non ci furono dubbi, tutti indicarono me. Avevo una paura a fottere, non sapevo se il mio cuore avrebbe retto. Il tizio in livrea fece segno che potevo entrare solo io, ma Hoda era troppo risoluta, sapeva quello che voleva, si mise sotto il mio braccio dicendo una cosa bellissima: “Noi due andiamo insieme ovunque, anche alla morte dei nostri amici”. Il tizio in livrea, che per giunta assomigliava a Gastone Moschin, non capì immediatamente. Insistemmo, Hoda fece la parte della gattina tutte fusa osé. Occavolo che atteggiamento paraputtanesco, il tono della voce, l’ammiccamento degli occhi, la forma della boccuccia. Così il buon Gastone chiuse un occhio, e fece passare. Nel 1975 scoppia in Italia la mania Amici miei, un film che nel corso degli anni avrà un seguito in due lungometraggi, rispettivamente Amici miei atto secondo e Amici miei atto terzo. Mentre il terzo è una pallida fotocopia di gag trite e ritrite, i primi due introducono nell’immaginario rincoglionito del popolo italico, la figura dell’antitaliano, l’antipode del taraluccievino Alberto Sordi, il borghese medio che fa di tutto per divertirsi, crudele all’inverosimile: supercazzole, truffe a usurai e dottori, nessuna apertura al sentimento, corna, messe nere, prese per il culo a vedovi, straniere e baldracche. Gli attori sono Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Ugo Tognazzi, Duilio Del Prete. Renzo Montagnani sostituirà quest’ultimo dalla seconda serie in poi. Entrammo in una stanza asettica che pareva una specie di freezer, più da macello comunale che da ospedale, la temperatura era bassa, ma non fredda. Hoda divenne viola, aveva appena intravisto, prima di me, quello che ci aspettava. Un odore forte di ammoniaca trasudava dalle pareti della sala. Troppo spesso di lì passava l’olezzo di nostra signora morte per essere nascosta con il profumo dei disinfettanti. Su una lettiera c’era una cassa quadrata di zinco, di quelle 91 in cui si raccolgono le ossa, dentro avevo capito che c’era Damiano. Era una sensazione troppo forte, mi sentii mancare quando Gastone Moschin disse che dovevo dare un’occhiata ai denti. Poi però pensai che non tutto era perduto. Per un nanosecondo balenò un pensiero positivo rapidissimo. Tirai così un sospiro di sollievo, pensai che almeno la testa fosse rimasta, che non dovevo scavare nella cenere per trovare qualcosa di umano. Invece, c’era solo cenere nera, sembrava carta bruciata. Poi un tronco che pareva il rimasuglio infiammato di un maiale cotto due giorni nel fuoco. Le fiamme avevano consumato i tratti del volto di Damiano, rimaneva un ghigno giallastro incastonato in un cranio scuro sbriciolato. Il brillio di un elemento metallico, come quello di un anello dentro il buco che un tempo era un naso, mi rese tutto chiaro. Il piercing, col suo anellino di ferro aveva resistito, il naso si era estinto nella vampa e l’anello era rinculato dentro il cavo nasale. Rilasciai una dichiarazione di quello che avevo visto, la scrissi a macchina perché era domenica. Gastone Moschin mi guardava sorpreso che avessi saputo usare una macchina da scrivere elettronica; poi firmai il foglio, il tizio in livrea pose un timbro. Il certificato di riconoscimento era bello che fatto. Era tutto troppo grottesco per essere vero. Hoda era seduta su uno sgabello di ferro verniciato nero; era pallida e scarna, il viola del suo viso spaventato pareva essere stato risucchiato dalle occhiaie. Ora aveva borse violacee e ingrossate sotto gli occhi rossi. Scuoteva il capo come per dire “non è possibile”, tremò, bofonchiò qualcosa nella sua lingua e rimise. Vomitò tantissimo. Nessuno si avvicinò per darle un bicchiere d’acqua o ripulire il pavimento dalla chiazza grigia di intestino. Il portantino maleducato addirittura mi mise una pezza in mano: “Lo sapevo che quella avrebbe vomitato, ora se sviene te la porti a casa!”. Presi Hoda, la portai lontano dalla morte. Quel posto era la morte degli uomini, non solo la morte di Damiano. In un bar, prese un tè al limone e poi scoppiò a piangere. Rimanemmo abbracciati su una panchina del giardino nell’ospedale, l’odore della siepe, il brusio dei parenti che anda92 vano a visitare i proprio cari, il rumore fioco del traffico di Roma proveniente dalle spalle dell’ospedale ci resero più calmi, più sereni, forse anche un po’ innamorati. Le baciai lievemente le labbra. Sapevano di limone. Lei fece fare e intrecciò le sue mani piccole e sottili nelle mie. Ci baciammo tutta la sera, in superficie come due adolescenti, non sentimmo altra necessità che restare abbracciati lì, per tanto, anche per sempre. 93 Capitolo 9 IMAGINE, IL REGNO UNITO E RABELAIS 23 gennaio 2000 Passarono oltre due settimane dalla partenza dei miei amici. Sembravo redento causa Hoda, e pareva finita tutta quella faccenda fatta di sbornie a tutte le ore, di canne al silicone, collette selvagge, risse ogni due minuti, montarsi in spalla tossici a rota, sgraffignare viaggiatori, sonnellini in mezzo a cani pidocchiosi, cacciare la lingua in bocca a compagni di sbronze e tanta, tantissima fifa di andare a spasso con carramba e polizei. Sul fronte-Damiano la magistratura aveva fatto il suo dovere lavandosi allegramente le mani, bollando il fatto come morte accidentale e tornando alle solite occupazioni: le querele tra vip e giornali, gli sgomberi di stazioni e centri sociali, le indagini su detenzioni minime di sana erba originale. Tarcy aveva superato lo shock con una spada, lasciandosi alle spalle solo per un giorno il metadone amico dell’uomo. I famosi locali di Termini adibiti per i senza tetto, diventavano sempre più un’incongruente leggenda. Ogni giorno il governo stanziava miliardi e promesse demagogiche. Ogni giorno crepava un barbone. Ogni giorno enti pubblici promuovevano una sfilata di moda con altissime modelle adolescenti. Quasi per una terribile legge del contrappasso ogni giorno una ragazza sprovveduta e malata veniva violentata e lasciata 94 in fin di vita. Una tipa, che faceva l’accattona a Porta Pia, era stata violentata e uccisa da una decina di uomini di nazionalità non italiana. A causa di questo, si era ufficialmente aperta la caccia all’uomo. Nella parte dei cacciatori: le Teste Glabre, alias i fascistoidi. Il delitto era stato mostruoso; una decina di slavi puntarono questa tossica fuori di testa che andava in giro credendosi la madonna. La conoscevano in molti questa tizia, completamente matta e strafatta di metadone migliore amico dell’uomo. Girava con tre giubbotti e un fitto strato di pantaloni e pantacollant, gonne sgargianti e una busta dove si portava dietro il resto dei suoi stracci che non le andavano addosso. Se le parlavi quella blaterava di essere ora la Madonna cristiana, ora la pop star Ciccone in arte Madonna. Dava stupefacenti descrizioni di un concerto a Torino nel settembre del 1987 o sosteneva di apparire a certi trippati come lei. Le fecero un servizietto degno di Arancia meccanica. Fu uccisa con un blocco di cemento. Il corpo, irrigidito e freddo, divenne oggetto di un turpe gioco al massacro. Fu violentata e orribilmente incaprettata. Al mattino, lo spettacolo dei suoi resti aveva creato scalpore, i giornali romani ne avevano dato risalto nelle pagine di cronaca nazionale. Era l’agognato pretesto per il ritorno in pompa magna delle TG. A Tiburtina in molti cominciarono a battere i denti. E non solo per il freddo. Bisogna essere vittime e un po’ rottinculo a ricordare sempre le stesse faccende di skin, statoitalianofedifrago e violenti. Ma qui c’era sul serio da stare in campana, al diavolo davvero le primepagine strillate del “Giornale”, i salotti televisivi con quattro battone in divisa-scioglipalta, i cossigavespadellutri, l’inflazione al 2,5 percento, la privatizzazione dell’Enel e lo sdoganamento del conflitto d’interessi. Cazzo, c’era una fogna a cielo aperto, un universo infame di pidocchiosi esseri mortali, in costante ricerca di metallo prezioso targato zecca di Stato. C’era questo popò di morte in pectore, criminali che stupravano e ammazzavano la nostra Madonna, un fiume di disperazione troppo pesante da essere raccontato. E tutto sembrava uguale, ogni giorno spiaccicato all’altro. 95 Qualcuno questi problemi non li aveva più. Oltre quindici miliardi di lire, spillati a milioni di avidi beoti, erano finiti, causa lotteria, nelle tasche di un fortunello davvero sfacciato. L’esimio tagliando era stato venduto proprio nell’edicola di Nostra Amata Stazione. Primo indiziato di tale bendidio fu Mauri. Erano dieci giorni che non si vedeva più in giro, un serio indizio di colpevolezza. E poteva trattarsi di un miracolo, lo stesso che aveva convertito il nostro durante la lavanda dei piedi papale. Poi senza nessun apparente motivo, qualcun altro aveva messo in giro la palla assurda che il vincitore della lotteria fosse stato niente meno che il sottoscritto. Ben presto questa panzana divenne insopportabile, tutti mi ronzavano addosso e nessuno mi lasciava in pace. Così iniziò un periodo nel quale tutti si sentivano in diritto di chiedermi un prestito o un favore, tutti mi facevano sorrisi e sguardi come per dire sappiamo che sei stato tu. A mio avviso i soldi li aveva vinti per davvero Mauri, il quale, da grande bastardo, aveva messo in giro la balla sul mio conto. Indi, se ne stava bello che in giro con grappoli di femmine per qualche crociera fuori di testa. La notizia dei quindici miliardi piovuti su Tiburtina coincise col mio imborghesimento. Andavo a spasso ripulito per via di Hoda, mi piegai come un burattino di cartapesta ai dettami della sua legge. Così andavo con dei pantaloni scuri, una camicia a righe, un cappottino di lana e cotone e altra robaccia sulla falsariga dell’Emporio Armani. Prezzo: un Caravaggio a Porta fottiiltuoprossimo Portese. Sembravo un giovane di forzaporgimiilculo Italia, uno di quei figuri con il Nokia Genie e la tariffa tris, mamma, babbo e fidanzatina. Non perdevo un secondo per rinfacciare a Hoda la brutta figura che facevo andando in giro così: “Cosa diranno adesso che mi vedono a Tiburtina?”. Ma ero troppo innamorato e così apparivo un sacerdote della borghesia più spinta. Una camicia mi cambiava agli occhi del mondo e per un 96 povero cristo come il sottoscritto cominciò una grandinata di rogne. Ed ecco che non potevi più camminare tranquillo per strada con una sigaretta in bocca. Invece degli assistenti sociali e dei piedipiatti, ti sbucava qualche scroccone che voleva una ciospa; ronzavi davanti a una libreria e un nero incazzato ti rifilava un giornale; ciondolavi con l’aria svagata e ti piantava un pistolotto qualche testedigeova pronto alla fine del mondo. Camminavo sottobraccio a Hoda e si materializzava il paki di turno con un fiorellino da cinquemilalire. Infine i rompicazzo di scientology in gran pompa dappertutto. Se ne erano sentite storie strampalate su questi rompicazzo. Dice che ti facevano fare un test, poi dicevano che avevi un sacco di problemi, che dovevi fare degli esami, ma soprattutto cacciare fuori un sacco di grana. Raccontavano di lavaggi del cervello e roba nazisimili; cosicché ogni volta che un qualche scientologico, travestito da yuppy jettatore, mi veniva incontro attaccavo con la solita solfa: “Ho già un sacco di problemi, non ne voglio uno in più”. E alla domanda quali problemi poteva creare chiacchierare con lo scientologico, rispondevo che la legge italiana organizza viaggi premio al gabbio per chi cambia i connotati alla gente senza il loro consenso. Così rispondevo anche ai testedigeova e a qualche scroccone. Sfiorando sempre l’intervento ex machina di vigili e sbirri. Insomma, solo qualche settimana prima un maglione peruviano e due occhi neri di sbronza mi rendevano un uomo libero di cazzeggiare per romacittàaperta, adesso ero ostaggio di millenaristi e fondamentalisti di qualche setta, scrocconi e compagnia cantante. Roma a volte appariva un’accolta informe di certi straccioni menagramo. Pareva giusto la palestra di una fine del mondo eventuale, tragicamente sanguinolenta, ma sempre e solo eventuale. In più, lavoricchiavo dentro un pub, facevo panini e dio solo sa come. Il posto me lo trovò un amico di Hoda. Si chiamava Mirko, era un giovincello allegro e sfrontato, dotato di grana, che aveva saputo investire bene i suoi danari. Si era aperto un bel pub a un tiro di schioppo da Campo dei Fiori, 97 alias zona di fighetteria selvaggia. Si lavorava da matti e ti pagavano cinquanta carte a sera. In più, capitava che qualcuno mollava una mancia. Non era il massimo, ma per Hoda, questo e tanto altro. Nel locale lavorava anche Franco. Un personaggio ambiguo, poco raccomandabile, pettegolo con la vocazione a rilasciare dichiarazioni compromettenti alle persone sbagliate. Col tempo mi riservò un amaro scherzo. C’erano diversi tipi di panini in tema col nome del locale (Regno Unito); c’era il Cardiff, con pomodoro, bacon e mozzarella; il Belfast con salsa tonnata, filetti di platessa e cipolle; il Glasgow con cotoletta e funghi; il Dover con fontina e melanzane; il Manchester con salame affumicato e cetriolini; e infine, fra tanti, il capolavoro, ossia il London che era anche la specialità della casa: gorgonzola, uova sode di struzzo, pancetta piccante e ketchup alla paprika. Risultato. Se c’era una cosa che più di tutto odiavo al mondo in quei giorni era Londra. Ma non perché odiassi la città del Tamigi e le sue belle anticaglie da capitale europea, ma perché da quasi dieci giorni imbottivo panini London con pancetta e ketchup a ritmo industriale. Ne avevo fino ai capelli. Così per la rabbia ci sputavo dentro o ci mettevo l’uccello come l’immenso Fight Club insegnava, uno di quei libri talmente tosti che appena li finisci ti fanno sentire un escremento sciolto sulla ceramica del tuo amato water. Il cliente tipo che chiedeva questa roba solitamente era un single; il cliente tipo pesava più di ottanta chili; il cliente tipo mangiava senza tovagliolo, strisciando i polsini della camicia sul muso; il cliente tipo ordinava una mezzo litro alla spina di Caesar, la più alcolica birra del mondo (15 gradi), conclusione: la maggior parte dei romani corrispondevano alle caratteristiche sopra elencate. Erano ciccioni single in vena di ubriacarsi di Caesar e mangiare quel dannato London. Con tutto questo popò di lavoro non avevo tempo per sbronzarmi, se non il mercoledì, ma quel giorno portavo Hoda al cinema o a ballare alle feste universitarie. Indi. Buonanotte ai suonatori. Solo oggi capisco che Hoda era una furba matri98 colata, con la storia del lavoro, mi aveva fatto smettere di botto di fare l’accattone, lo sbronzo e il pezzente. Pantagruele e Panurge giunsero finalmente all’oracolo della Dea Bottiglia. Panurge si accostò devoto, con circospetta ansia di commettere blasfemia. “Vorrei conoscere la parola da cui dipende il mio cuore, quella parola che mi toglierà la pena” dichiarò Panurge. E la Dea Bottiglia tutta piena di misteri rispose “Bevete!”. La nobile pontefice Bacbuc proclamò che con il vino si diventa divini. Un giorno con Hoda facemmo una discussione strepitosa. Una di quelle chiacchierate che si fanno con la sigaretta in bocca, dentro le lenzuola stracciate, con ancora il sudore addosso di una santa-pruderie. 04.00 del mattino, stavamo per chiudere il locale. Io ne avevo piene le scatole perché quella sera avevo subito la cattoironia di alcune ragazze con suora. Piemontesi, bizzoche, avevano quell’insopportabile accento da montanare tutto cantilenante e parlavano sempre di scuola. Fisicamente corrispondevano a delle liceali, mentalmente avevano l’aria di chi aveva avuto seri problemi con lo sviluppo. Ogni volta che mi avvicinavo facevano un verso, come un fischio strozzato. Alla prima e la seconda e pure terza lasciai perdere. Quando capii che ce l’avevano con me, presi un bicchiere e lo ruppi a un cm dalla madre badessasuperiora che rideva più di tutte. Alzarono i tacchi e fuggirono a rotta. Così risposi male a Hoda quando venne a farmi il milionesimo predicozzo da quando ci conoscevamo. “Cazzo, ma non lo capisci che senza religione vivremmo meglio? Non ci sarebbe quel casino che sta dalle tue parti. Cristo, Maometto, Geova. Ognuno con in testa le sue idee, i suoi principi. Maccheccazzo sono questi principi religiosi se per questo devi ammazzare un altro, ma sbronzatevi tutti, dico, sai che bello, un diluvio di vino invece che di acqua, al posto dei quaranta giorni di piogge torrenziali, un delirio di Aglianico dal cielo, oppure uno chardonnay glaciale da bere. Su questo 99 edificare la nostra civiltà, la nostra tradizione. Immagina un mondo fondato, senza ipocrisie, sopra un bicchiere semipieno e bombato, guardarlo in controluce e dichiarargli: ubriacami”. Appena finii ebbi la sensazione che Hoda non fosse rimasta entusiasta di queste parole. “Ma come parli. Ma ti senti? Ma leggi i giornali? Siamo tutti delle bestie come te?” disse Hoda mordendosi le unghie e con l’espressione di una balia davanti a un moccioso. “Conosco abbastanza, sono proprio curioso di sapere cosa hai da dire. La conosci Imagine di Lennon? Immagina un mondo senza nazioni e senza religioni, cristo… anzi cribbio!” Credevo di averla sorpresa positivamente e le presi le mani dalla bocca. Invece sembrò arrabbiarsi. “Se non ci fosse la religione, ci sarebbe qualcos’altro”. Mi spense. Poi mormorò: “Ma quando Damiano è morto, per un solo secondo, uno solo, non hai pensato che poteva essere in un posto cen-to-mi-lavol-te-me-glio?”. John Lennon muore l’8 dicembre 1980. Lo sanno tutti. Sanno tutti che era il più geniale dei Fab Four. Sanno tutti che ha scritto le canzoni più belle degli anni Settanta. Sanno tutti che l’ultimo album è Double Fantasies. Sanno tutti che era l’unico cantante strafamoso e straricco con un’idea sociale della sua professione. Lo sanno tutti, ma nessuno lo ricorda. Vaffanculo discografici, Marilyn Manson ti odio. Stavamo vicino alla saracinesca del pub, la buttai giù per metà e provai a baciarla. Iniziò un discorso che aveva tutta l’aria di essere molto serio, io invece avevo messo da parte tutte le belle e brave discussioni profonde. Gettai gli stracci con cui pulivo i tavoli, le passai la lingua sul collo e poi gliela cacciai in bocca. Misi la mano tra le gambe: aveva una gonna jeans con uno spacco laterale, sentivo il collant spesso e liscio sotto la mano, poi una mano che mi allontanava. Lasciai perdere. Forse l’avevo amareggiata. Avevo parlato di un argomento troppo serio per lei. Troppo poco conosciuto dal sottoscritto. 100 Ricordo che quando morì Yitzhak Rabin ero in una pizzeria con Chiara. Neanche sapevo cos’era Rabin. In quel locale non ci fu nessuna reazione, nonostante i toni inequivocabili dei tg che parlavano di “Tragedia della Storia”. Nessuno alzò la testa dal tavolo. Se avesse segnato l’ultima squadra del campionato ci sarebbe stato un boato, oppure un battimano, o almeno un brusio. Niente. Quante volte mi era capitato di leggere il giornale e girare la pagina che parlava di Medio Oriente, esattamente come quelle economiche e quelle scientifiche. Ora ero costretto a pensarci seriamente. Causa Hoda il mondo adesso aveva una forma diversa. 24 gennaio 2000 Tutto poteva succedere in quei giorni, ma non che mi arrivasse tra capo e collo un mio vecchio compagno di liceo: Alessandro. Si presentò alle cinque di pomeriggio, invadendomi casa, niente meno che accompagnato da quel relitto di Oblomov. Alessandro era arrivato a Tiburtina con un fuoristrada, un Terrano, irrompendo nella noia etilica di un pomeriggio invernale sporcato dalle luci appena accese. Una volta parcheggiato tra i pullman, in palese divieto di sosta, aveva chiesto di me allo sciame di gente che si era avventato sul suo “catorcio” milionario. Spaesate, le mosche dell’anticapitale, s’avventurarono in balbettii per nulla edificanti e ben poco attinenti con il linguaggio appartenente alla seguente specie: razza umana. Il primo che si illuminò di un barlume di lucidità e si offrì di condurlo nella mia grotta abusiva fu Oblomov. Intanto ero in un momento incasinatissimo. Cercavo un indumento bianco da mettermi addosso, pena il linciaggio del mio padrone, alias Mirko lo schiavista. Alessandro fece regale ingresso e si buttò al collo dandomi baci salivanti. Alla fine dell’abbraccio era come se sulla mia faccia fossero passate una decina di bavose lumache. Vidi che era in piena forma, i capelli ricci e neri, il viso 101 lampadato, gli occhialini azzurri e un sorriso stampato a mille denti. La mia fretta gli fece rizzare le antenne. Ale sapeva tutto di me, le bocche di Dani e Bert non erano state quiete. Così se ne venne dritto dritto al nucleo atomico della mia attuale vita: “Ho saputo che sbavi per una topa!”. Alessandro Bello: compagno di liceo, aveva avuto più storie lui di tutti noi della classe III D del Tito Livio messi insieme. Fu il primo ad avere la macchina e a usarla per scopi seri. Insomma, niente stronzate tipo andare a fare i puttan tour. Grazie a questo, aveva evitato spiacevoli inconvenienti come quello capitato a Daniel. Il buon Dani, alle prese con Sabrina milleforme, si ritrovò in allegra combutta nella casa della suddetta topa. In seguito al fugace servizietto manuale di Sabrina si diresse al cesso per ovvie abluzioni. Dopo aver avuto a che fare con saponi liquidi e asciugamani, candidamente rosa shocking, tipici di un bagno per sole adolescenti (“Ti assicuro non c’è nessuno in casa, sono sola, vieni, in camera ho da leggerti una lettera” aveva assicurato la dolce Sabrina), si andò a sedere sul cesso per un ragionamento sui massimi sistemi. Una volta seduto, si accorse di stare troppo comodo per essere alla prese con la tazza di un cesso; poi avvertì come una spugna pelosa e bagnata in corrispondenza del collo. E infatti stava bello piantato sulla nonna di Sabrina milleforme con il muso della vecchina addosso. La nonna, completamente rincoglionita, si era beccata l’ignobile scena del tramestio di Dani, e in più, si era pure vista scambiata per il gran tarallo del gabinetto. Ad Ale queste cose non potevano capitare; straricco, fanatico del gonzo, non sapeva che significava vivere con due vecchi rincoglioniti incontinenti (come Bert) oppure da orfano, come il sottoscritto. Il suo lavoro d’abbordaggio seguiva una prassi consolidata. Si caricava una topina diciassettenne; la riempiva di fiori e caramelle, cioccolatini e bon bon al gianduia; la portava alla Multisala di Casamassima, alla Baita di Torre Canne a mangiare pesce e vedere le stelle sul mare. Infine, cotta a puntino, la portava alle Vasche. 102 Le Vasche erano desueti piloni dell’acquedotto pugliese a cui si accedeva per tratturi non asfaltati. Chi si andava a imboscare alle Vasche era un privilegiato perché lì ci arrivavano solo i Terrano o i Mitsubishi. Così, dopo le prime uscite mielose, emergeva il vero animo immondo di Alessandro. E la pupa, disperata del lento declassamento, diceva pressappoco queste cose: “Perché eri gentile all’inizio, mi facevi vedere tanti posticini romantici e stimolanti, mi davi le caramelle e ora andiamo solo alle Vasche?”. Alessandro, forte delle sue prerogative, diceva una frase con cui minacciava tutte: “Cara topina, però t’ piesce!”. Traduzione: ti è piaciuto fare certe cose e vantarti con le tue amichette brufolose delle stelle di Torre Canne e del fuoristrada, ora statti buona o saluti e baci. Ale però era un amico sincero e uno con cui si potevano dividere i segreti. Astemio figlio di puttana, andava matto per le robe sintetiche, possibilmente il sonic, che era una pasticchetta con sopra il simpatico folletto della Sega. Ne mandava giù tre a sabato sera. Il programma prevedeva la prima dose per le 21.00, giusto per essere brillanti in piazza. Poi alle 02.00 appena dentro la disco, poco dopo la tecno, mandava giù la seconda. L’ultima la programmava alle cinque, per ripassare di stecca la escort di turno. Perché era qui, Roma Tiburtina, in Nostra Amata Stazione, fu ben presto chiaro. Aveva messo incinta una pupa che non voleva sgravare il moccioso, ma aspettare i fatidici nove mesi. Insomma, Ale era destinato bello e buono a essere padre. Era da me in piena fuga verso la vittoria di scapolo eterno. Ma c’era altro da raccontarmi. Si vedeva lontano da un km che aveva nello sguardo una brama guasta di dirmi o darmi qualcosa. Il tutto emerse in sana e consapevole chiarezza quando mi uscì una lettera di Chiara. Silenzio imbarazzante, poi assunse un cribbio contegno professionale e blaterò: “Ho parlato con Chiara prima di venire qui, ho saputo il fatto, e ti do ragione”. All’inizio non capii che il mio caro portalettere impiccione 103 stava parlando dell’orecchio mozzato. Presi la missiva, la piegai, e la infilai in tasca. Non era affatto cosa buona e giusta leggere la lettera davanti alle orecchie e agli occhi di Alessandro. Poi connessi in fiocca quando disse: “Non credo a quei due, Sandro vuole denunciare Bertowsky che gli ha staccato un orecchio e Chiara dice che in verità è stata Leira. Caspita Franz! Di tutta questa storia l’unica cosa da dire è che tu eri una persona, Chiara ora sta con un pezzo di fighetto. Non sai come la tratta. Si crede dio perché tiene una fabbrica di mobili, la porta a feste e cotillon solo per far vedere che lui sta con quel pezzo di figliola”. Appena disse così mi bollirono i nervi; pensai al calcio che mi aveva sferrato venti giorni prima a Ottaviano, ero livido, ma con un po’ di lucidità gli avrei fatto fare dei ragionamenti sulla sua esistenza. “Senti cocco viziato della mamma, ho un sottile prurito alle nocche della mia mano, me lo vuoi far passare con quel tuo muso bavoso?”. Così gli spiaccicavo un gancio degno di questo cribbionome. La mia sega mentale lavorava, ma Ale raccontava. “La tratta come un oggetto, ma io ho capito che Chiara ancora ti vuole. Sta con quello per la grana, lui la fa divertire, ma non può durare a lungo”. “Lascia stare, Ale, non la conosci proprio Chiara, non è il tipo di ragazza da farsi prendere dalla grana”. Cercai bruscamente di chiudere lì il discorso. Mi strinsi la fibbia degli stivali. Avevo una fretta cagna. Ma Parlamidellatopa era una colonna sonora. In dieci minuti non avevo sentito altro dalla bocca di Ale. Molto gentilmente gli feci capire che avevo un superiore che mi controllava anche quante volte mi sgrullavo l’uccello e che dovevo stare a Campo dei Fiori entro le sei e mezza e che se non la piantava lui, la piantavo io con il lavoro. Quei miei cari amici a cui mi ero affidato “mi raccomando non raccontate nulla di me a nessuno”, avevano cantato un motivo troppo in voga in terronia: i cazzi miei. Ora ero costretto a sparlare delle mie vicende ad Ale, alias il mondo intero. Non potevo tenermelo sulle spine e così gli dissi di Hoda. 104 In due parole raccontai che ero rimasto sotto, che era stata lei a cercarmi lavoro, che mi sentivo pretesco, ma che ero davvero troppo sotto. Dissi il tutto con un tono il più possibile rilassato, ma era evidente che ero un uomo travolto dalla fretta. Ale sembrava non accorgersene e dopo essersi acceso una delle sue Gauloises blu, si prese un sedile e si mise a narrare una vicenda dai contorni lerci. “Franz, sto nella merda. Praticamente ci nuoto. La tipa che ho messo in cinta è uscita di testa”. La storia si faceva intrigante; mi poggiai sulla lavatrice senza cestello facendo fischiare il contenuto di bottiglie. Ci fu uno sciabordio assordante, poi cominciai a sfogliare nervosamente il solito “Latex” interrogandolo: “Solita procedura con il rimorchio?”. “No, era un fottuto osso duro, non gli bastava mai. Si chiama Marta. L’ho dovuta portare una settimana in un villaggio Franco Rosso a Gallipoli, tutte le sere la portavo in giro per il Salento, ora a Otranto, ora a Porto Cesario, ci siamo girati tutti i locali migliori della Puglia. Non mollava mai, cazzo”. “Sputa l’età!” “16”. “Pedo!!” “Pedo il cazzo! Aveva due meloni e un culo da 32 pollici, una Monica Bellucci in miniatura, si trattava di farla crescere”. “Che delusione, sei peggio di Boncompagni”. “E chi è questo?” “Un regista televisivo, mai sentito?” “No”. “Ti ricordi? Quello che faceva Non è la Rai”. “Cacchio! Che non me lo ricordo? Quante seghe…” “Miriana, Mary, Pamela, non mi far pensare… Comunque, dicono che ebbe delle storie con alcune adolescenti. Una di queste è la tipa di Sapore di mare”. “La Rossellini?” “No, la Ferrari”. “See… allora vedi? Non sono solo”. “Ok, ma tu non sei Boncompagni. Tu sei Alessandro Bello. 105 Se vai con una sedicenne tu sei un pirla, lui un eroe. Che ti ha combinato questa Marta piuttosto?” “Mi faceva paranoie perché non l’aveva mai fatto e che la prima volta voleva farlo senza liquirizia”. “Perdiana, non avrai detto sì? Senza cappuccio no! Eccazzo!” “Non fare il moralista. Il succo è proprio questo”. “Allora? Ricapitoliamo. Niente settebello e hai dato lo stesso di stecca? Ma scusami tanto, hanno proibito le pillole giù in terronia?” “No, era semplicemente contraria a tutti metodi artificiali. Si era fatta tante pippe sui contraccettivi naturali, e alla fine l’ho convinta a prenderlo dietro”. “Sei un mostro! Hai inculato una bambina di 16 anni!”. Ale non spara palle, pensai. “Le ho detto che dietro si sentiva lo stesso come avanti e non rimaneva incinta…” “Porca puttana che orrore”. “Ascoltami ecchediamine! Lei era tutta emozionata, se ne venne con una gonna a fiori molto leggera e corta, un tacco 12, tutta profumata, i capelli neri sciolti, insomma era tanto tenera… Così quella sera la feci sbronzare con un cabernet e ci diedi di stecca alle Vasche”. “Un classico della tua mostruosità. E poi?” “Lei mi svenne dal dolore”. “Perdio, scommetto che non hai usato…” “No, non ho usato niente, perdio. Franz, non l’ho mai messo su per il culo a nessuna, che cazzo ne sapevo che ci voleva qualche lozione?” “Ma scusa. Ultimo tango a Parigi perché lo hanno fatto?” “Boh? Non so chi sono questi qua”. “Lasciamo perdere. Si tratta di un film che ti sarebbe servito. Là insegnano un sacco di sozzerie. Comunque, mica si rimane incinta per questo!” “Invece no, lei si offese a morte. Non rispondeva mai al telefono. Una volta la incontrai e vidi che si muoveva tutta disarticolata, tipo burattino, e lecca oggi e lecca domani riu106 scii a parlarle e mi disse che non si poteva sedere e non poteva mettersi i 501 e non riusciva più a camminare dritta”. “No, dai. Ma l’hai deformata a 16 anni, renditi conto! Sei un mostro, ma che gente siete!” “L’ho messa incinta lo stesso, lei ha un pancione che è grande quanto un televisore”. E qui Ale presentò un rapido campionario di facce con espressioni che andavano da lhofattagrossa al chissenefrega al aiutatemisonofottuto. “Che cazzo dici, se la sarà sbattuta un altro e per vendicarsi vorrà scaricare il moccioso su di te”. “No. Ho letto da una parte che quando fai del sesso in quel modo c’è una possibilità su cento che la metti incinta, perché c’è un collegamento fra i due siti”. Ale spara palle, pensai. E fuma anche. “’Cazzo parli? I siti?” “Questo libro parlava così, dice che l’uomo può fecondare anche in luoghi alternativi, perché comunque il corpo umano è tutto collegato”. “Che cazzo dici!!! Ma l’hai messa incinta con il pensiero? Ma questa è proprio nuova! Un tizio che mette incinta con il pensiero!” “Non prendermi per il culo, è vero, il medico che l’ha visitata ha detto che è ancora vergine, ha il limene”. “L’imene”. “Quella cosa là insomma”. “E se fosse stato il ginecologo a togliere il limene come dici?” “Che cazzo ha settantanni! Ora Marta è uscita di testa. Sta rintanata in camera, ha le cuffie nelle orecchie tutto il giorno, si sente musica metallara e fuma due pacchetti di Marlboro rosse da venti. Se ne accende una dietro l’altra”. “Non sarebbe il caso di parlare ai genitori della traviata?” “Il fischietto! Il padre, tanto per essere allegri, vuole farmi il culo”. “Chi è il padre?” “Sante Trisciuzzi”. 107 “Lo sbirro?” “Il prefetto”. “Prefetto, prefetto?” “Prefetto totale”. “Oddio che sfiga”. “Lo so, non mi far pensare… Ha fatto sapere che se mi becca mi fa quello che ho fatto alla figlia… con un manganello d’ordinanza antisommossa”. “Scusa… Allora la conosco questa Marta! Non ha 16 anni, ne avrà al massimo 15! Peggio di come credevo, è davvero una bambina”. “Ma ha le tettone”. “Lo so, Ale, ma era davvero ancora un fiorellino, porca puttana. Un abortino? Neanche per idea? Con centomilalire c’è Paolone che fa un lavoro pulito. Ne conosco di gente che si è servita di Paolone”. “Paolone il cazzo! Con i genitori che sanno tutto! Il padre è un cattolico ultra praticante, poi la madre dice che chi abortisce durante l’anno santo muore”. “Ammazza che manicomio. Forse è meglio che stai qui per un po’”. Gli indicai alcuni ostelli, perché tenerlo con me non se ne parlava proprio, e ci salutammo con un bacio sulle guance. Presi come un ladro il 492 senza farmi vedere da nessuno in quel di Tiburtina. Era stranamente vuoto, così mi misi comodo in penultima fila, allungai le gambe sul sedile affianco e presi la lettera di Chiara. 108 Capitolo 10 COMMUNICATION BREAKDOWN “Ehi, ragazza smettila di fare ciò che stai facendo. Hey, girl, you’ll drive me to ruin…” (Communication Breakdown, Led Zeppelin). Led Zeppelin è il primo album del gruppo. Esce nel 1969, ed in questo lp troneggia la Les Paul di Jimmy Page, la furia di Robert Plant, e il formidabile drive di Bonzo Bonham. È un misto di rock psichedelico e blues che manda in estasi il pubblico americano, primi spettatori di una tournée Zeppelin. Pochi mesi dopo esce il volume secondo, Led Zeppelin II, con il capolavoro Thank You. …Ti prego, torna te stesso, vieni qui. Anche se oramai ho un’altro affianco, noi possiamo ancora essere persone civili che si parlano. Non credo nell’amicizia dopo una storia molto lunga come la nostra, ma a un rapporto civile sì. Devo confessarti una cosa. Una volta al mese vado a lasciare una rosa sulla tomba di tua madre. Pensa come sarebbe felice tua madre se quel gesto lo facessi tu. T.v.b., sappi che qualunque cosa farai, posso aiutarti. Tua Chiara. Di tutta la serie di emerite frescacce e paranoie morali queste ultime righe furono le più decenti. Quando terminai la lettera mi era salito un groppone in gola. Mi ero ritirato come 109 una murena sul sedile, con un braccio tenevo le gambe piegate. Mi sentivo teso come la corda di una chitarra. Mi erano piovute in testa tutte le immagini del mondo mio e di Chiara: i vetri appannati della sua Cinquecento, i cinema di pomeriggio, le prime pomiciate durante l’occupazione del ’94, le nargiate insieme quando si andava col mio Si scassato su per i boschi di Palese a farci le canne e le pruderie. E poi Chiara mi aveva fatto scendere le lacrime, al solo pensiero di vederla davanti al sepolcro di Imma. Tutta questa emozione mi passò non appena vidi i capelli biondi di Chiara sul petto nudo del manigoldo. Mi sentii distrutto. Dovevo lavorare tutta la sera e non ne avevo la forza. Entrai in cucina alle 19.00, in ritardo, e con paranoia del principale. Per punizione mi mise a lavare a terra mentre il mio collega, Franco, stava a fumarsi una Chesterfield in faccia al mio olio di gomito. Ero piegato in due con uno straccio grigio e passavo litri di lisoform; Franco mi guardava e sorrideva; sembrava agitato, quasi schizofrenico, ma sorrideva. Chiara aveva ragione, io ero una merda e Sandro era nel giusto. Lui aveva fatto il suo dovere. Io no. Lui se l’era sukata quando era isterica e incazzata, magari anche anoressica o bulimica. Io no. Quando mi misi con lei la filai in una gita di liceo, quando si ha la testa vuota, quando si pensa a marinare la scuola, quando si pensa a tirare una canna furtiva in bagno, quando si pensa al torneo di calcetto, a falsificare le firme, alle seghe, a scrivere sui muri, a limonare con le ginnasiali, a occupare la presidenza, a portare le camicie a quadri Casucci, a bere chinotti pisciati di cognac… Franco continuava a guardarmi. Era alto, per nulla magro, con una ciccia superba al posto degli addominali. Diceva cose insensate, tipo che doveva comprarsi una custodia di caucciù per il cellulare, che in Germania ci sono i condomini con le mignotte vestite da tope far west e che in Giappone avevano inventato i cani elettronici. Poi scoppiò in un pianto dirotto. D’un tratto gli era venuto uno sguardo disperato. Fece una smorfia, e quasi mettendosi in ginocchio, implorava di dargli 110 un Caravaggio per farsi una pera. Ma guarda questo! Direttamente da Torbellamonaca, la patria dell’eroina capitolina, veniva a domandare al demonio l’acqua santa. Ma non ce n’era. Una volta a terra cominciò a rotolare come un maiale al macello, poi mi bestemmiò e fece che, se non lo aiutavo, mi tagliava la gola con il temperino. Gli mollai un cazzotto in mezzo al grugno, e quello giurò di farmela pagare mentre era tutto uno sputacchiare saliva, sangue e denti. Arrivò Mirko e disse che faceva sempre così, “che tra un po’ gli passa, ci ho un amico che era un tossico veramente, uno di quelli con le vene implose, e che per farsi si buttava nella vasca da bagno per gli schizzi di sangue nero dappertutto, e che ci aveva un sacco di malattie micacomequestocretino”. Franco mollò tutto lasciandoci con uno sguardo che faceva paura, gli occhi di fuori, con i capillari incisi. Lo spacciatore migliore amico del tossico aveva fatto subito. Franco era tornato in lui dopo un’ora e una pera che si era procurato dal fedele distributore. Completamente cambiato. Parlava tutto tranquillo, sembrava un uomo in pace. Potenza delle spade di eroina. Si esprimeva in termini colti e desueti, spiegava che quando non era sotto “l’effetto sedante degli oppiacei” diventava una bestia. Ma adesso, adesso stava davvero bene. Allora mi entrò in simpatia e, non so come, uscirono tanti fatti che ci raccontammo: tutta quella faccenda delle collette, il costo del vino in cartone, quanto tempo ci voleva per farsi una pera, che una volta le diedi di brutto a uno sbirro. E lui disse perdavvero?, e io mi vantavo e dissi che durante una carica della polizia, ci avevo dato dentro contro i piedipiatti. Più raccontavo e più lui sgranava gli occhi, più lui sgranava gli occhi, più mi gonfiavo. Passammo il tempo fino alla sera a mangiare patatine fritte riscaldate con una mostarda americana che nessuno voleva. Il vino in cartone viene venduto in larga scala nella metà degli anni Ottanta. Come il vino in polvere e il metanolo, rappresenta l’ennesimo colpo all’arte dell’imbottigliamento. Grazie a questo, ci si può sbronzare a buon prezzo. Oltre al vino Tavernello che presenta una discreta va- 111 rietà (per il rosso usano il sangiovese e per il bianco il trebbiano), ci sono marche a costi ancora più modici. A sole 1900 lire si possono comprare i rosati di Ripatello, 50 lire in meno c’è il Castellino che regala anche le videocassette sui grandi numeri 10 nel calcio. Infine il meno costoso è il Supremo, lire 1800. 112 Capitolo 11 MARLEYDAVIDSON Nel 1971 i Led Zeppelin suonarono a Milano. L’ordine pubblico viene subito sconvolto. Dopo l’esecuzione di Black Dog, i polizei entrano in forze nel velodromo Vigorelli, per riportare la calma in una bolgia di giovani scatenati. Vengono sparati i lacrimogeni, Plant invita i giovani a soffiarci sopra per dissiparli, i piedipiatti caricano con le jeep anche fuori il velodromo. Il Sessantotto non è ancora finito. I Led Zeppelin compaiono anche al Cantagiro, in quella puntata tutti i cantanti che si esibiscono prima di loro vengono seppelliti dai fischi. Chiedere conferma a Gianni Morandi. 28 gennaio 2000 La notte facevo sogni monotematici. La scena era sempre la stessa: una ragazzina distesa su un letto, con la coperta sintetica dei Simpsons, con i Metallica nelle orecchie, una Marlboro in bocca, e il padre nudo in giro per casa con uno sfollagente enorme. E questo uomo trasfigurato da una rabbia schiumosa minacciava Ale facendo battere sul palmo l’enorme attrezzo. Due poliziotti in borghese prelevarono da casa Ale alle tre del mattino e lo condussero in una stanzetta rotonda e poco illuminata; al centro vi era un inginocchiatoio di noce sul quale fu fatto accomodare; un uomo dotato di un manganello cominciò ad armeggiare attorno al culetto di Ale che fu ben presto scoperto fra gli ululati di gioia degli astanti… 113 Di giorno, immaginavo scene di film sado-maso, con poliziotte alte e snelle in guêpière e cappello d’ordinanza che incoraggiavano la sodomia del prefetto “totale” su Ale. Un giorno, mentre lavoravo risi ad alta voce. Franco voleva sapere. Non dissi nulla e gli feci soltanto un sorriso ebete, perché era più pettegolo della commara Tella Tella. Parlava a monosillabi, ma quando si trattava di sparlare sotto effetto di hero era una macchinetta velenosa spargi-fandonie. Quella sera però ne successero davvero a mazzi. Hoda venne a farmi una visitina in cucina. Andavo agghindato con una maglietta bianca sottile e volgare, unta di London, la mia mitica sciarpa verde-arancio con su scritto Marleydavidson legata al collo causa fottuta raucedine da fumo. Utile segnale che in questo mondo la nostra generazione è più unita dai gadget che dai contenuti dei propri status symbol. Quella generazione che sbava per una moto americana da trenta milioni, è la stessa che ascolta il reggae e si fuma l’erba albanese. Hoda era di ottimo umore e cominciò a darmi baci e carezze. Portava un jeans nero stretto e un maglione di lana color perla. Le spiegai che non era tempo di sante pruderie e mentre lo dicevo le avevo già cacciato la mano sotto il maglione ed ero inquieto come una scimmia. Per assumere un decoroso contegno cambiai argomento e chiesi se era venuta sola. Mi scosse la testa e disse di venire fuori, poiché c’erano dei suoi amici di Gerusalemme che erano in visita a Roma. Mi affacciai nella bolgia della sala e vidi una sfilza di topine arabe da far rizzare le budella anche a un morto. Hoda era troppo occidentale sia nei modi che nei tratti, queste erano invece arabe al cento per cento, con la pelle olivastra e un flusso di capelli neri e ricci. In quel mare di topine mi veniva meno l’aria. Tornato a casetta ne sarebbe venuto fuori un bel zuccotto di seghe. Ma Hoda restava la mia preferita, la regina di tutto era lei, con quella chioma, quel corpo, quel viso. Mi inebriavo, fin quando un tizio seduto al bancone mi mise una manaccia sulla spalla e disse con tono lugubre: “Ci conosciamo?”, e mentre diceva così fece i suoi occhi sempre più piccoli per mettermi a fuoco. 114 Al doyouremember, risposi chiaro e squillante: “Amico, levami le zampe di dosso!”. Era una TG, o almeno semi, aveva i capelli rasati e impomatati che parevano pungiglioni, portava un chiodo cortissimo. Era alto, ma proprio alto, un lucernario pronto a cadermi addosso. Affatto no buona impressione. Il tipo insisteva: “Amico, questa sciarpa mi fa fare molti ricordi”. Non collegai subito. Hoda, chissà perché, si mise in mezzo e gli fece, a muso duro: “Vedi di sparire da qui, abuso di ufficio, lo sai come si chiama in Italia, abuso di ufficio…”. Hoda era tutta infervorata ed era diventata rossa come un peperone. Non capivo. Se quel tizio aveva ancora le idee confuse, Hoda gliele aveva schiarite per sempre. “Allora avevo ragione” fece, e prendendomi per il collo mi alitò in faccia. “Sai quel cubo di travertino dove te lo devi mettere la prossima volta che fai la tua protesta del cazzo, comunista di merda?” A questo punto mi vennero in testa tante cose. Ero dalla parte del torto. Qualunque cosa avessi fatto, ero dalla parte del torto. Faccio parte di una generazione che secondo i grandi saggi che scrivono in corsivo è solo una razza bastarda. Eh sì, siamo una via di mezzo, tutto quello che facciamo, una manifestazione, una protesta, uno spinello, un libro molto meglio del Giovane Holden, tutto è stato già fatto e meritiamo solo critiche. Magari pugni, come quello che questo tipo mi sferrò in faccia fino a riaprire lo squarcio sulle gengive, opera del Sandrobatacchio. Doveva avere sì e no un paio d’anni più di me, ma già nutriva odio per gente che avesse voluto far valere le sue ragioni in maniera democratica. La botta mi aprì il cervello e la memoria tornò a puntino. La storia del cubo di travertino non era un vandalismo bello e buono. Anzi il sottoscritto-teppista-totale non era mai stato un romantico casseur sessantottino, tutto, ma non vandalo, ero stato borseggiatore, corriere di maria, mendicante, ubriacone, ingiurioso e quant’altro, ma non avevo mai torto un capello a nessuno. C’era un corteo pro-Ocalan, un rivoluzionario curdo, che 115 stava per essere estradato in Turchia, dove erano pronti a fargli la festa di compleanno. Con i cortei di protesta non andavo molto d’accordo per via di alcune mie esperienza del passato. Vedi il movimento dei medi nella metà degli anni Novanta. Ma nonostante tutto feci il mio dovere di ragazzo incazzato. Dicembre 1994. Andavamo a protestare contro la riforma D’Onofrio, eravamo in migliaia per le strade del mio paese, cori e striscioni. Un serpentone umano che attraversava tutta la città. Il nostro simbolo non era il Che, ma Bart Simpson con le braghe abbassate. Il mio unico scopo era comprarmi qualche panetta di libanese e fumarmela come cristocomanda. Madama comparve all’improvviso alle mie spalle sotto forma di piedipiatti. Le porte cigolanti del commissariato si spalancarono per il mio interrogatorio. Chi te l’ha venduta, dove la trovi, quanta ne fumi e altre domandine piccanti senza possibilità di giocarti un cazzo di jolly. Dicembre 1998. Piazza del Popolo. Ero un normalissimo e innocuo sbronzo di passaggio. Andavo per collette, visto che in quelle manifestazioni c’erano tanti figli di papà con il portafoglio allentato. Ci si abbraccia, ci si mette mani addosso, ci si fa beffe degli sbirri e del governo più timido del mondo, alias quello italiano. Scoppia un petardo bagnato, rispondono i lacrimogeni e le cariche. Non si sa che fare, nel panico, l’unica certezza è correre nella direzione opposta al corteo. Comincia la caccia all’uomo. Possibilmente vanno molto in voga i rasta, ma anche le ragazze. Tra i vari inseguimenti mi inserii in uno dove c’era una ragazza che un energumeno, travestito da Ordine Pubblico, voleva malmenare. Piovevano cubi di travertino dappertutto, se solo uno mi sfiorava finivo dritto al camposanto. Ma quell’istantanea di una ragazza inseguita mi fece paura, mi alabardai di buoni propositi, mi piegai, feci un forte respiro, lo raccolsi e lo lanciai a parabola. La traiettoria del sasso fu lenta, ma pesante, la ragazza se la diede a gambe e io pure. Questo tizio allampanato che mi aveva adesso colpito doveva essere chiaramente il bersaglio del mio pallonetto. Che 116 cazzo ne capiva della vita! L’avessero pagato i nazisti, i talebani, gli stalinisti, oppure Bombolo, avrebbe comunque fatto quello che gli dicevano di fare. Uno che non pensa con la testa meritava il mio rientro nel terreno della sfida. Così mi liberai di Hoda, che mi pregava di lasciar stare, e andai incontro alle mie responsabilità. Fatti sotto nazistronzo! Le topine arabe capirono la malaparata e sgattaiolarono via. Un “coraggioso” amico del polizei, con i capelli arruffati e sudici aveva minacciato di fare piazza pulita del locale a tutti quelli con la pelle scura, compresi mulatti ed ebrei. Ed ecco venirmi in testa un fiume d’immagini: lavoravo come cameriere a Fasano centro italiano del contrabbando e della Sacra Corona Unita, pub Peak, un tizio mi prendeva per il culo e non potevo fargli ingoiare i denti perché era un bastardo affiliato. Se l’avessi fatto ci sarebbe stato il mio congedo dagli esseri verticali. Il tizio era rossiccio dal troppo bere. Infastidiva le ragazze. Brillo, faceva richieste assurde per un pub. Mi chiese una bottiglia di chardonnay. Non avevamo chardonnay. Ruppe una bottiglia di piscioBud sul tavolo, a due cm dal mio naso. Agitò, come un coltellaccio, il collo spaccato della bottiglia. Dissi al titolare di chiamare la polizia. Il titolare disse che l’avevo provocato io. Così non ebbi paura di affrontare il tipo. Non ci sarebbe stato nessuno a dire che l’avevo provocato, nessun mafiosetto sarebbe venuto in suo soccorso. Ero 0-0 e nessuno, nessuno avrebbe mai detto che l’avevo provocato. Lo respinsi con calcio volante alla Ken Shiro. Ken Shiro è davvero un maestro di vita. Viene trasmesso da Italia 7 Gold tutti i pomeriggi alle 19.00. Vive in un mondo in cui le modificazioni genetiche la fanno da padrone, tutti vogliono ammazzare tutti e ognuno è dotato di un’arma all’avanguardia. Ken Shiro conosce alcune arti marziali che nessuno sa. Utilizza la forza del pensiero e spesso, senza alzare un dito, fa secco l’avversario. Studenti medi, liceali e universitari, ma anche apparenti e seri professionisti, funzionari di banca e ingegneri specializzati commentano privatamente con gridolini eccitati le gesta del nostro. 117 Non fui perfezionista, perché lui non si mosse di un millimetro e mi vergò a dovere con una scarica di pugni. Cercavo di coprirmi con gli avambracci e Hoda piangeva. Mirko, il titolare, la tratteneva, non si poteva, erano polizei. I miei calcoli sulla mafia erano sbagliati, qui era peggio, era tutto legalizzato. Stringere i polsi a una ragazza in ginocchio in lacrime. Legale. Darle della venditrice di tappeti. Legale. Massacrare in tre Ken Shiro. Legale. Erano troppi per me e troppo forti, non c’era nessuno che poteva salvarmi. Uno dei tre mi disse: “Questo è per i tuoi amici slavi di merda”, mentre da terra vedevo solo il suo piede che colpiva le gambe, unico mio argine contro quella pioggia di cazzotti. Ero il capro espiatorio della loro impotenza, non riuscivano ad acchiappare i dieci violentatori della tossica, e se la prendevano con il vostro sottoscritto. Mi lasciarono solo quando videro che non davo segni di vita. Ero svenuto in un lago di sangue. L’ultima immagine del pestaggio fu un frammento del viso di Franco che mi servì come illuminazione; si compose in meno di un attimo un puzzle fuori di testa. Franco a rota più spiffera ai pizzardoni che lavora con lui un tizio più anarchico che vanta di averle date a un piedipiatti più indagine più regolamento di conti uguale Franco è un figlio di puttana. Art. 337 Codice Penale. Resistenza a un pubblico ufficiale: chiunque usa violenza o minaccia a un pubblico ufficiale o ad un incaricato di pubblico servizio mentre compie un atto pubblico di ufficio o di servizio, o a coloro che, richiesti, gli prestano assistenza, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. 118 Capitolo 12 WELCOME TO SALÒ Quando avevo sette anni volevo fare il poliziotto, certamente il mestiere più amato dai bambini, dopo quello del pompiere e del calciatore. Immaginavo il senso di sicurezza, potere, ma anche coraggio che poteva infondere. Crebbi, e un giorno vidi la vedova di un agente. Disperata, piangeva il marito che aveva fatto la fine atroce di un topo, disintegrato come carne da macello nella tragedia di Capaci. La mia stima e il mio desiderio aumentarono. Ero a Valle Giulia proprio laddove se l’erano date sbirri e studenti, uno scontro mitizzato per le parole di Pier Paolo Pasolini che su “Nuovi Argomenti” conflagrò con la poesia Il Pci ai giovani, canto anticonformista dove il poeta si schiera con i poliziotti, veri proletari della situazione. Proprio allora ero a Valle Giulia, ed ero uno sbirro, con le mutande di carta, gli anfibi stretti, un sacco di fifa. A Valle Giulia anche io ero dalla parte degli sbirri, sul fronte opposto c’erano i futuri direttori di giornali e telegiornali del Supremo. Inseguivo roteando un manganello Ferrara e Liguori che mi urlavano “fascista”! Questo ricordo mi ritornò in quello stato di intontimento post-rissa. Poi entrai in uno stato allucinatorio. Ero in un limbo buio e avanti a me in sogno comparve Licio Gelli. Un giorno lessi un libro che parlava della P2. Una specie di massoneria che puntava alla manipolazione della costituzione per fare i cazzoni propri. Molti di questi non erano apparen119 temente criminali, ma risultavano essere niente meno che generali dell’esercito, politici, uomini dello spettacolo e imprenditori. Volevano eliminare lo Stato, metterci al suo posto un mostruoso fantoccio: riduzione dei sindacati, dello stato sociale, abolizione delle ferie, introduzione del carcere duro per gli “pseudo-politici”, abolizione della scuola per tutti e del valore legale dei vostri amati titoli di studio. Licio Gelli era seduto su un trono, mi chiamava con fare affabile ai suoi piedi, mi indicava un posto dove mi sarei dovuto inginocchiare. Poi spiegò che lui era un uomo che si era fatto da solo, che era stato condannato solo per bancarotta, che scriveva bellissime poesie e che aveva vinto alcuni premi letterari in Umbria. Mentre mi prostravo piangevo. Poi iniziai a volare in un profondo tunnel nero. Sembrava di essere trasportati e sospinti da un’aria gelatinosa, da un denso fluido ventoso. Sentivo di avere il terrore di mettere i piedi a terra. Quando li posi mi ritrovai di nuovo Licio Gelli, come ringiovanito di trent’anni. Parlava della nuova strategia dei poteri occulti e mafiosi. “Non vedrete più giudici e intellettuali morti ammazzati, verranno delegittimati. E poi gli metteremo contro lo Stato, ossia noi”. Quando mi ripresi, vidi un alone grigio, attraverso il quale comparivano i volti finti e quasi posticci di alcuni pupazzi: erano degli infermieri. Un tipo tarchiato e dai tratti ruvidi mi canzonava, “Son cazzi tuoi! Son cazzi Tuoi!”. Ero al pronto soccorso. Mi ero trasformato in un luogo comune: italiano, passati i venti non ancora i trenta, apparentemente un pezzente, anarchico ma considerato comunista (perché in Italia anarchico è sinonimo di comunista), pensa con la sua testa, odia Forza Italia, per tutto questo è considerato nemico dagli sbirri e dalla linea editoriale dominante. Sentivo l’odore di mercurio cromo e la voce di questo infermiere. Chiesi stordito che cosa fosse successo. Quello mi fece una faccia, come se avesse avuto avanti un bambino di cinque anni con un gelato per terra. “Figlio mio, la tua ragazza aveva proprio buoni motivi per piangere…” e infatti sentivo sulla mia faccia le guance intorpidite, come se avessi pian120 to io. Ma non erano mie lacrime, erano quelle di Hoda convinta che fossi morto. Mi toccai la testa, avevo una garza e mi guardai attorno. Nel riflesso di una vetrina di medicinali, osservai che avevo la testa rasata a cazzo, uno squarcio sopra, come fatto con un pennarello. Non avevo più i miei gloriosi capelli lunghi. Era l’alba e da lì dove stavo vedevo tutta la gente che faceva uso a quell’ora del pronto soccorso. C’erano processioni di tossici in crisi di astinenza e tipi con la testa rotta come la mia; padri di famiglia che accompagnavano i figli piccoli caduti dal letto; una puttana nera con un graffio sanguinante sotto l’occhio. Ce n’erano di tutti i gusti, di tutte le specie, di tutte le classi: in fila per una porzione di guarigione, per una pillolina alla dopamina, per una penicillina, una garza e due punti, oppure una pomata magica al cortisone. Tutto questo per elemosinare qualche spicciolo di vita in più. E in quel casino, l’unica cosa che volevo era solo Hoda. Ma Hoda dormiva piegata su se stessa su una panca a pochi metri da me. Riuscivo a vederla bene, ma lei non poteva, era nelle braccia di Morfeo. Provai ad allungare una mano immaginando di sfiorarla, ma l’immaginazione non mi bastava. La volevo accanto, tenermi la mano, accarezzarmi il viso, parlarmi, sfiorarmi la testa, darmi baci, trattarmi come si tratta un bambino, avvolgermi nel sudario delle sue tenerezze e pregarmi di amarla. Al suo fianco c’era una signora in pantofole, con l’aria distrutta, le guance cadenti, gli occhi lividi come fondi di caffè. Portava addosso uno scialle di lana e, sotto, la camicia da notte; l’avevano buttata giù dal letto per qualcosa di grave. Sentivo che c’era un tizio in over da qualche parte dell’inferno Pronto Soccorso. Quella sarebbe potuta essere la madre: nella sua aria sacrificata per un attimo passò la santa Imma. Quella mattina non trascorreva mai. Quando uscii andavo malconcio, ammaccato come la carta stagnola, i lividi neri erano grossi come vulcani, le cicatrici erano crateri di sangue, un dolore cane. Poi Hoda. Hoda, Hoda. Aveva fatto tanto per 121 me, aveva messo in moto tutti i suoi amici, mi aveva tenuto teneramente la mano, dato baci lievi e leggeri sul mio viso, proprio come avevo sognato. “Andiamo a casa mia”. Liberaci dall’estetica e così sia. Hoda mi portò nella sua stanza di studentessa modello, quartiere Montesacro. Arrivammo in carrozza con il 40 express, scendemmo ai Monti Cervialto, salimmo lungo un viale ripido attraversando una zona di Roma inedita e quasi irreale. Non c’era traffico, non camminava neanche una macchina. Era primo pomeriggio e Roma era caduta come in un sonno improvviso, un sonno estivo inspiegabile in pieno gennaio. Raggiungemmo la palazzina di Hoda, una vela di pietra degradata, circondata da centri commerciali e bar romanisti. L’architetto di questa roba doveva essere un trippato: l’atrio del palazzo era un corridoio all’aperto che si snodava come un labirinto. Quando arrivammo a casetta di Hoda, mi sembrava di aver vinto la caccia al tesoro. Una volta dentro feci subito amicizia con il mondo degli studenti fuorisede. Un mondo di cui avevo solo sentito parlare, un mondo fatto di turni per pulire, mangiare e addirittura portare gli amici. Un mondo di locatari aguzzini e usurai, un mondo di leggi inesistenti, di dolorose convivenze e sottomarche di detersivi. Ma anche un luogo in cui si iniziava a vivere, in cui si smetteva di ciucciare il biberon dalle braghe paterne, un luogo tanto lontano per chi abbandonava la sua casa, migliaia di km per Hoda da Gerusalemme. Stranamente non c’era nessuno. Potevo sentire Roma dalle finestre. L’eco attutita del pomeriggio metropolitano, il tran tran silenzioso attraverso i muri della casa più accogliente del mondo. Mi sentivo a mio agio, un bimbo col panno pulito, beato, pronto a passare il tempo nel miglior modo possibile. Mi stesi sulla sua brandina e Hoda si allungò affianco a me facendo dei versacci con la bocca per farmi ridere. Era una stanza minuscola ma accogliente, con due librerie traboccanti di volumi dalla dicitura incomprensibile; c’era un poster a grandezza naturale di Gandhi, un vaso con dei fiori di cartapesta, le sedie stracolme di vestiti. Venne l’idea di vedere un 122 film, non ricordo. A me sicuramente quella di darci a un lungo di Pasolini. Magari Salò. Mi sentivo addosso una specie di male di vivere. Salò è un film che racconta la degenerazione del potere, crudele e agghiacciante. I repubblichini che infieriscono su un gruppo di ragazzi strappati alle loro famiglie è l’atroce metafora di un mondo nel quale bene e male si identificano in un’unica zona grigia. Una villa apparentemente elegante diventa luogo per l’applicazione di un codice immorale dove il più forte detta le sue perverse regole. Immagine riflessa oggi di tutto quello è l’espressione “guerra umanitaria”. Usata da diversi politici di destra e sinistra prima dell’intervento nel Kosovo. Su questi presupposti possiamo essere certi di vivere nella zona grigia dove guerra e diritti umanitari sono la stessa cosa. Hoda mi diede un bacio sconvolgente, con la lingua imperversava dentro la mia bocca impastata di ospedale. Dopo il bacio iniziai a implorarla mentre mi accarezzava il petto solo con i polpastrelli: “Ti prego Hoda andiamo a vivere insieme”. Aggressione da parte di alcuni teppisti ieri notte nei pressi della stazione Tiburtina. Protagonista, un vero e proprio branco composto da una decina di elementi che con bastoni e mazze ferrate ha malmenato alcuni barboni. L’aggressione è avvenuta intorno all’una e trenta. Gli inquirenti propendono per un regolamento di conti fra bande di extra-comunitari. Nessuno ha denunciato il fatto. (“Il Messaggero”) 123 Capitolo 13 SENTIERI INTERROTTI Il 25 settembre 1980 Bonzo, il batterista dei Led Zeppelin, viene trovato con il cuore ridotto a una mela marcia. Il ritrovamento avviene in una delle stanze della villa di Jimmy Page appena acquistata dall’attore Michael Caine. L’autopsia rivela che la morte è avvenuta a seguito di una smodata ingestione di alcol. Nell’estate Bonzo aveva subito alcuni malori dovuti al suo alcolismo. Bonzo Bonham era di Bronwich come Plant, aveva suonato per alcuni gruppi come la Band of Joy e i King Snake Crawlers. 29 marzo 2000 Con la primavera arrivarono i giorni più tranquilli da quando ero a Roma. Hoda affittò una camera a Castro Pretorio, in pieno ambiente universitario. Si trattava di un vano con accessori al terzo piano di un palazzo in bocca a La Sapienza. Io trovai lavoro in un’impresa di pulizia e mandai al diavolo il Regno Unito e tutti i suoi panini, la puzza di olio di soia fritto, le patatine congelate, la muffa sulla senape e le rote di Franco. Lei studiava come una matta cose di cui ignoravo l’esistenza, tipo relazioni internazionali e diritto privato europeo; io mi spaccavo il culo dieci ore al giorno senza contributi e assicurazioni per cinquantamila lire. Alessandro si era trovato una stanza a Roma. Non risolse assolutamente la grana Marta: 124 in compenso, si iscrisse a un corso di informatica e cominciò l’avventura da studente fuorisede. Il mio congedo da Tiburtina fu quanto di più triste mi fosse mai capitato nella mia permanenza a Roma. Mi presentai un giorno preoccupato ancora per la faccenda della lotteria, ma tutti sembravano averla dimenticata per far posto a un casino senza precedenti. Un gruppo di Teste Glabre aveva fatto irruzione alle spalle del McDonald’s dove stavano i rumeni; li avevano picchiati con i bastoni mentre quelli dormivano, ed era tutto un urlo, un fiotto di sangue, un fuggi fuggi, e con quel sangue che stava per terra e per i muri, si poteva verniciare tutta la metro. Mi battevano i denti solo a pensarci, avevo grande preoccupazione per loro perché erano come fratelli. Ecchediavolo! Le TG andassero a farsi fottere. Alla mia visione qualcuno pianse, Tarcy forse per il meta forse per la rota da astinenza, si attaccò al braccio, e come una pittima, iniziò a intimarmi di rimanere. Era troppo triste. Il nostro saluto avvenne di fronte all’edicola dove era stato venduto il biglietto miliardario. Mancava all’appello il solo Mauri, ed era ufficiale: quell’assenza era dovuta alla vincita. C’erano proprio tutti, tranne Damiano, pace all’anima sua. C’era Oblomov con un cestello di polistirolo pieno di panini McDonald’s. Me ne offrì qualcuno, ma feci no con un gesto deciso della testa. Poi Jerry che se ne venne con la sua valigia di cartone, rosso come una mela, dicendo: “La vuoi la caramella?”. Il momento più triste fu quando arrivò trafelata e con gli occhi grandi come due fondi di bottiglia, Mary. Aveva un viso ancora più smunto del solito, era ancora più gracile e snella, sembrava non avere più carne. Era ossa e uno strato screpolato di pelle. Oramai del suo culo stellare non c’era che un jeans troppo grande. Era ridotta a una quarantina di chili, aveva degli stivaletti di pelle che facevano un sacco di casino. Un copricapo di pelliccia la rendeva un po’ buffa. Indossava tutta roba che aveva sgraffignato a un’inglesina qualche giorno prima. Se l’era aggirata con frizzi e lazzi e poi con il solito movi125 mento felpato alla Mary. Aveva smesso di fare marchette e si era data a fregare il prossimo. Non faceva distinzione tra inglesi e francesi, purché avessero mani ben fatte. Feci bene ad andare senza Hoda al congedo dei vecchi amici. Mary si fece avanti con un sorriso falso e un fremito di risata isterica, che fermò a malapena. Non era ancora in rota, si era appena strafatta. Flippata, si muoveva a scatti, dando ugualmente l’idea di una morta che camminava. Pareva un cadavere a cui avessero attaccato dei fili elettrici. Si grattava ogni due secondi le braccia e i polpacci. Per come la vidi, mi parve che quella sarebbe stata una delle ultime pere. Facevo questi pensieri, mentre ce l’avevo buttata al collo con le unghie nere conficcate dentro le mie guance, e mi venivano in testa cose terribili. Perché era stata tanto sfigata nella vita Mary, perché io mi ero innamorato di Hoda e non di lei? Forse l’avremmo fatta finita insieme, romanticamente. Su un materasso di paglia, aspettando la morte in mezzo a un lago di sangue con le nostre vene aperte, rivolte verso il bagliore solare. Mi diceva cose insensate, mi diceva che mi voleva sposare, che voleva avere bambini, che voleva costruire una casa a Fregene, a due passi dal mare, costruirla con la sabbia, con l’acqua, come i bambini e i loro castelli. Piangeva toccandomi il tappetino di capelli che avevo in testa. “Dove sono le tue stelle filanti?” e piagnucolava, perché non avevo più i miei capelli lunghi. L’eroina dettava i ritmi delle sue manie. Se non l’avessi conosciuta, avrei scommesso sul suo delirio da tossicomane. Ma era davvero impazzita d’amore, parlava come un’indemoniata, la voce le era diventata cupa e strozzata, mi stringeva fortissimo. Si avvicinò un ragazzo, doveva essere quanto me, aveva i capelli castani lunghi come quelli miei un tempo. Occhi piccoli, un paio di occhialini, portava un vecchio giaccone a vento, una sciarpa nera; prese Mary per la spalla e la portò via senza degnarmi di un saluto. Oblomov disse che era Amedeo, uno che suonava il flauto lì da due mesi. Era l’ultimo compagno di Mary. Forse l’ultimo per sempre, perché Mary sarebbe morta. 126 E infatti, due giorni dopo fu ritrovata fulminata da un arresto cardiocircolatorio davanti alla mia vecchia casa, in mezzo a cocci di bottiglia e merde di cani. Si era sparata una pera con la sua urina; non aveva acidi per sciogliere l’hero e se l’era allungata col piscio, ma il trip di eroina, acido urico e ammoniaca le avevano fatto saltare il cuore. E dalla vita passare alla morsura. Forse si era davvero innamorata di me, era venuta a morire lì perché voleva starmi accanto. Non dissi nulla a Hoda, ma per due settimane ebbi una febbre altissima e non riuscivo a mangiare. Passavo le notti e il giorno a letto, dormivo sotto coperte che mi pesavano una tonnellata, aprivo gli occhi e cercavo di alzarmi senza riuscirci, Hoda cercava di imboccarmi, solitamente un brodo di dado; spesso nella veglia malata sentivo che mi parlava, che diceva che adesso passava tutto, che era un’influenza, che lei mi voleva un mucchio di bene. Venne pure un tizio che in teoria aveva fatto il giuramento di Ippocrate. Molta teoria e poca pratica di questo signore portarono Hoda alle soglie dell’ambulatorio di uno strizzacervelli. Pare che avessi una specie di depressione malinconica. Hoda tornò a casa con alcuni antidepressivi, mi diede il Seroxat, la Fluvoxamina. Paroxetina (Seroxat) è una molecola con un’azione inibitoria potente e selettiva sulla ricaptazione della serotonina (S-idrossitriptamina; SHT) nei neuroni cerebrali, senza interferenze sulla captazione della noradrenalina. La sua efficacia nei trattamenti della depressione, del disturbo ossessivo compulsivo e del disturbo da attacchi di panico è presumibilmente correlata a tale meccanismo. La struttura chimica di Paroxetina non è riconducibile a quella degli antidepressivi triciclici, tetraciclici o di altri disponibili. I principali metaboliti della Paroxetina sono prodotti polari e coniugati di ossidazione e di metilazione, che vengono facilmente eliminati. In considerazione della loro relativa mancanza di attività farmacologica, è estremamente improbabile che possano contribuire all’effetto terapeutico della Paroxetina. Fu solo la prima disgrazia della serie Grandi Incidenti. La 127 seconda mi fu annunciata per telefono. Ale telefonò a Hoda e chiese di parlarmi. Disse che aveva una notizia buona e una bruttissima, che poi era anche buona sotto certi punti di vista. Non capii. Mi disse così la buona, ossia che aveva tra le mani un numero del 1996 di “Max”, dove Claudia Koll stava nuda in bella mostra. Mi tranquillizzai, perché non ero nell’ordine di idee di parlare con un pazzo integrale. Dopo una pausa fatta di commenti compiaciuti per la scoperta, disse che lì alla sua nuova casa romana c’era il Bertowsky. Rimasi sbalordito. Bertowsky a Roma? Il dialogo fu un monologo di due sordi. “Sta qui perché sono schiattati i vecchioni di Bertowsky”. “O dio, povero Bertowsky, come cazzo camperà?” e un bla bla comprensivo sullo stile di “oddiocomesonopreoccupato”. A questo punto iniziò un comizio inspiegabile di Ale: “È una disgrazia! È senza casa perché i nonni sono schiattati col gas e hanno fatto un botto pazzesco. Lui era uscito per andare allo Stargames a farsi una partita di strip poker… questo è davvero il bello. Nemmeno il tempo di una partitina e quei due hanno fatto saltare una bombola, non si sa ancora come. Bertowsky è tornato a casa e non c’era più niente, solo un braciere fumante di pietre. Sai, io vedo il lato positivo delle cose, quella casa doveva cadere prima o poi, oltre a essere abusiva era anche un covo di tarme e di ragni giganti. Sai, Bertowsky avrebbe speso una fortuna per dare una mano di vivibilità a quel cesso. Eppoi i ragni, Berty ha paura dei ragni”. “Bertowsky si è salvato? Passamelo, dai, non è vero!” e lo dicevo con la voce scossa dal terrore, dal fatto che ero sospeso in un limbo di sospetto e incredulità. Ma Ale non me lo mollava. “Bertowsky ora fa ragionamenti fuori di testa. Dice che la morte è una brutta bestia solo quando la si conosce, fa il filosofo. Bert fa il filosofo, checcazzo di storia!” “Passamelo!!!” Ma Ale continuava a blaterare. “Per me, non c’è da piangere di certe cose, la morte ci insegue a tutti ed è andata bene ai nonni del Bertowsky che avevano già un bel po’ di anni. Cacchio quanto erano vecchi, 80… 128 90… pure di più, immagina ogni due ore a cambiargli il catetere e a sentire mugolii sul fatto che ai loro tempi si poteva lasciare la porta di casa aperta, i giovani avevano più rispetto, il prezzo del pane, la tessera annonaria, il governo Badoglio… quella non era vita per Bertowsky. Erano dei vegetali. Bertowsky secondo te perché si sbronzava? Cacchio, quelle larve umane sono state pure abbastanza fortunate che Bertowsky non se la buttava nelle vene o non si flippava con le pilloline o che non li ha ammazzati dieci anni fa con un coltellaccio da cucina o con il nylon attorno al collo. Voglio vedere cosa sarebbe successo se quelli avessero avuto un tossico o uno psicotico come nipote”. “Ti prego Ale!!! La smetti di vaneggiare?” lo rimproverai con tutto il fiato che avevo in petto e mi sentii scoppiare. Volevo Berty e la sua voce. L’avvertii un attimo in sottofondo. Leggeri monosillabi. Qualunque cosa avesse detto, tirai un sospiro di sollievo. “…” “…pronto? Pronto? Franz?” Quando ascoltai la voce di Berty smisi di ascoltare Ale a tutta rotta. Chiusi il telefono. Mi bastava saperlo vivo. E mi vennero in testa Imma, Mary, Damiano. Tanta, troppa gente che conoscevo e a cui volevo bene se n’era andata via per sempre. Anche Chiara era come morta per sempre. Cos’era la mia vita, fatta di continue rotture, sentieri interrotti su cui non edificavo ponti ma abissi dove mi buttavo a capofitto? Ero un perduto, mi tuffavo in tutti i buchi neri che avessi incontrato, mi facevo di erba, mi sbronzavo, non m’impasticcavo né mi flippavo solo perché non ne avevo il coraggio e non avevo i quattrini. Poi guardavo Hoda dal fondo dell’abisso, dal fondo del tunnel nero di una notte polare; era troppo tutto per me, era diventata tutti i personaggi della mia vita inghiottiti dal nulla. Hoda, Hoda, Hoda aveva surrogato Chiara e Imma, fino a farmi sentire l’atomo lampante di una generazione astrusa, senza capo né coda, senza punti di riferimento precisi e modelli, senza nessuno che si fosse alzato a darmi un motivo per non vivere sotto un ponte. Tutto continuava come prima, Damiano ridotto a una spolverata di cenere, Mary stecchita 129 con nelle vene il suo piscio, Imma con litri di alcol e le commesse a vendermi libri, e i farmacisti a svendere antidepressivi scaduti e la domenica giocare duemila lire su cavalli inculaperdenti, e bere un bicchiere al giorno e niente più, leggere gli editoriali del “Manifesto” per sentirsi vivo. Non ce la facevo più, era tutto falso. Come si poteva dare credito a questo o a quello, a un politico seriamente impegnato ai cazzi suoi o a uno scrittore alla moda sempre in tv, a un cantante di grido pieno di grana? Tutti questi pensieri mi frullavano per la testa e non feci nulla per nasconderli a Hoda. Hoda interruppe i suoi studi di diritto privato europeo e mi stette ad ascoltare con pazienza da vendere. Aveva degli occhiali quadrati enormi, che ne davano un’immagine da secchiona, i capelli arruffati e dentro nascosta una matita rosso-blu. Portava una tuta nera e delle pantofole rosse. Nonostante questa aria casalinga trasudava sensualità da tutti i pori. Questo era dovuto alla mancanza di una pruderie da quando stavamo insieme. Non eravamo andati mai oltre un certo tipo di effusioni e ne avevo piene le tasche. Ma adesso questi pensieri mi ammorbavano la testa molto di più. Glieli dissi e per la prima volta le parlai della lettera di Chiara, del mio rapporto con Mary (tralasciando riferimenti a quel famoso pomeriggio in libreria), le spiegai che soffrivo per tante cose insieme: per il fatto che lì a Roma c’era Bertowsky totalmente solo, per la lettera di Chiara, perché mi sentivo pieno di dolori causarissa di due mesi prima, che sentivo addosso un insopportabile malessere. Hoda quella volta era taciturna rispetto a come la conoscevo. Ascoltava e lasciava parlare, era questa la sua forza, non diceva né aggiungeva niente, non puntualizzava né lamentava gelosia se parlavo accorato di Chiara. Le raccontai con foga nera tutto il fastidio che provavo per il manigoldo e per tante altre cose a cui nessuna ragazza sulla faccia della terra avrebbe resistito impazzendo di gelosia. Hoda prese la parola solo quando mi fermai, e fu chiaro che non avrei più parlato. Mi disse che era giusto essere in pace con tutti, essere convinti di certe scelte. Dopo una breve 130 predica sul fatto che avevo lasciato Berty da solo e che di Mary potevo pure metterla al corrente, mi chiese a freddo se pensavo ancora a Chiara quando eravamo insieme. Le mentii spudoratamente dicendo di no, ma sapevo quale era la verità. Pensavo sempre che Chiara ci guardasse, qualunque cosa facevo con Hoda volevo che Chiara lo sapesse. Era una rivalsa bollente che mi era salita in gola e nella testa, e non riuscivo a controllarla dalla sera che l’avevo vista col batacchio, Sandro il picchiatore. Hoda Un pomeriggio Franz volle parlarmi. Sembrava averne assoluta urgenza. Aveva il viso livido. Quando finì ebbi l’impressione che non fosse riuscito a dire quello che voleva. Mi parlò confusamente di certe cose che mi sembravano passate, mi disse di Chiara e di una barbona con cui aveva avuto una storia. Quando mi parlò di Chiara aveva gli occhi illuminati di una emozione vivida, sembrava avesse voluto parlarne a tutti i costi, sembrava avesse tenuto a farmi sapere tutto quello che faceva con Chiara, tutti i film che aveva visto e tutte le cose che le aveva regalato. Era un continuo involontario confronto tra me e lei. E lì perdevo tutti i confronti, non sapevo cosa e chi fosse questa Chiara. Come fosse. Dalle parole di Franz ne veniva fuori un monumento di cemento costruito su un piedistallo inattaccabile. Chiara, Chiara, Chiara, echeggiava anche nella mia testa. C’era Bertowsky nei casini, alcuni suoi amici erano morti da poco, aveva un padre imboscato chissà dove. Era come un bambino, si preoccupava di parlare solo delle cose di cui avrebbe parlato un bambino e non un adulto. Parlava di Chiara e dei modelli che non sentiva più, che tutti erano morti e che doveva andare a fare un pellegrinaggio alla tomba di uno scrittore italiano che non avevo mai sentito. O Dio, mi avevi dato la forza per strapparlo all’alcol, mi avevi dato la forza di strapparlo all’accattonaggio, ti prego Dio, in quest’anno santo dammi ora la forza di salvarlo ancora una volta dal suo passato. 131 La mattina mi sarei dovuto vedere con il messia, alias il Berty. Avevamo appuntamento con un tizio amico di Hoda per una questione di grana. Appena ci incontrammo ci abbracciammo fortissimo. Per la prima volta, da anni, eravamo entrambi lucidi e nel pieno delle nostre capacità mentali. Ci vedemmo in centro a piazza della Repubblica davanti alle bancarelle di libri vecchi e videocassette porno. Stavo con in mano un video dove c’era una topa pazzesca e nuda a cavallo di uno stallone nero. Berty discuteva con un botolo di ciccia, alias il dispensatore di fumetti e pornografia della bancarella, sulla prematura dipartita della fantastica Moana, e se ancora oggi era possibile trovare certi film della divina Ilona Staller. Bertowsky aveva smesso di bere e si era dato di più alla politica. Aveva aderito a un comitato di disoccupati, una cellula che lottava contro la malavita organizzata e le infiltrazioni mafiose nelle istituzioni locali. Una di quelle cose che servono a farsi solo nemici e a renderti, nell’accettabile convenzione sociale di tutti i giorni, un paria occidentale. Era cambiato Bertowsky. Era molto più magro, era più compito, era quasi sciupato, aveva una barba incolta da molti giorni e aveva deciso di trasferirsi a Roma. Mi piacque. Era pieno di propositi, e veramente mi sembrava passata una vita da quella notte di capodanno dove ne combinammo a mazzi. Andammo in giro per Roma, cazzeggiammo lungo la Nazionale in attesa delle dieci. A quell’ora mi sarei incontrato con un amico politicante di Hoda, per poter assumere nello staff elettorale di un movimento il buon Berty cercalavoro. Bertowsky Quando diedero l’ultima mano di calce sul sepolcro dei miei nonni, pensai subito a Franz. Sarei andato di corsa a Roma, ma quando seppi che viveva con quella ragazza araba, decisi di ripiegare su Alessandro. Che tipo Ale, quando gli dissi che erano 132 morti i miei nonni, lui mi disse: “Che culo che non c’eri in casa”, e si mise a ridere. Avevo bisogno di gente leggera come Alessandro, ma anche di amici come Franz. Lo chiamai da Hoda e Hoda mi raccontò una storia assurda fatta di risse e malessere. Io fuggivo da un posto pieno zeppo di criminalità e Franz fuggiva dalla polizia. Il destino era stato davvero strano con noi. Quando lo vidi, mi diede l’impressione di un padre di famiglia, andava molto imborghesito, non c’era nessuna traccia dei suoi trascorsi da mendicante. Portava dei pantaloni neri, una camicia di lino, un cappottino da far accapponare la pelle. Questo era impensabile fino a poco tempo fa, non degnava di uno sguardo i superalcolici e fumava solo sigarette light. Portava un’espressione ansiosa che non tardai a capire. Stava male per Hoda, non riusciva a esprimersi, si sentiva stravolto dai sensi di colpa perché pensava a chi non c’era più: Mary, forse schiattata anche per colpa sua. Franz era l’unico che avesse avuto voglia di farsi un viaggio, saremmo andati da Kafka passando per Jan Palach, e poi saremmo andati fino alla tomba del Che. Venni a Roma per proporre di girare il mondo sulle orme dei nostri idoli, e ce ne saremmo sbattuti le palle del mucchio di stronzate della gentaglia che avrebbe detto che quello è comunista e quello è anti-comunista. Avevo un obiettivo e basta. Bisognava recuperare la saldezza delle nostre convinzioni. Su questi punti fu d’accordo un ragazzo di una decina d’anni più grande di noi che era consigliere comunale di una lista civica indipendente di Roma. Noi fummo puntuali come un treno svizzero, il tipo un po’ meno. Ci fece attendere quella buona mezz’ora. Eravamo in un caffè in piazza della Repubblica e ordinammo due bicchieri di latte macchiato, uccidendo il tempo con un danese di crema al caffè e un paio di pettegolezzi su certe topine di giù. C’era una di quindici anni che faceva filo al Daniel, e un’altra invece che aveva dato buca ad Alessandro e questo fatto non s’era saputo qui a Roma. Come sempre Ale tendeva a celare 133 ben bene i pacchi di merda con le teenagers. Poi Berty cominciò a raccontare le storie che giravano su di me, e davvero in terronia ne frullavano di leggende, dal marchettaro al brigatista tutta la gamma di racconti mi vedevano fuori da questo esclusivo club chiamato Legge Italiana. Dopo l’attesa arrivò un tipo dinoccolato, esile e verboso; era un tipo di Rifondazione o qualcosa del genere. Aveva creato un movimento d’opinione attorno ai senzatetto di Roma. Era uno che lavorava nella Biblioteca Nazionale ed era consigliere comunale. Era un compagno, e sotto la scorza di indipendente si intuiva il rancore serbato verso le istituzioni italiche. Parlava serrato e fitto, diceva che l’Italia era un paese di idioti nel quale c’era sempre bisogno di identificarsi in qualcosa. “Guarda il papa, tutti si identificano nel papa. Guarda quando gioca la nazionale, tutti si identificano nella nazionale di calcio. Oppure, quando c’era Mussolini tutti si identificavano in lui. Insomma, un popolo senza identità”. “Allora perché non si identificano con questi politici?” fece Bertowsky. “Si identificano e come! In un paese civile tutta l’attuale classe dirigente sarebbe in galera per le fandonie che racconta e i soldi che ruba, la stessa sinistra sta fallendo perché si è comportata come in quarant’anni la Dc. Questo è talmente grave… ma nessuno fa niente. Sono cose che ha sostanzialmente predetto Goffredo Parise”. “E chi è?” disse Bertowsky. “Uno scrittore” feci, ma non sapevo dire altro e buttai la testa indietro. “È uno scrittore di cui non si parla più, scomodo ancora all’intellighenzia italiana che incensa chi governa. Questi paggi sono la peggior specie, ho sentito lodare da qualcuno il governo attuale di D’Alema”. “Non lo facevano col Berlusca però…” dissi e poi aggiunsi dopo essermi acceso una fumosa: “Che non sia di attenuante!”. Berty si illuminò: “Berlusconi è una specie di predicatore americano, uno di quelli che si inventano le sette per scoparsi le adepte schizofreniche. Lui nel ’94 si è inventato di diventa134 re capo del governo per non andare al gabbio!” scherzò. Ma il tipo non rise, poi ripartì, col pilota automatico. Parlava a vanvera di tante cose politiche che mi misero di cattivo umore. Di tutto quel bailamme di chiacchiere ingenue, l’unica cosa che capii fu questa: avevo a che fare con un frou-frou. Era dotato di un succhiotto viola sotto il mento e non lasciava nulla all’immaginazione. Aveva una vocina flautata e non perdeva mai occasione di nascondere, con gesti e smorfie, il gran succhiotto. Ma soprattutto stava sempre con gli occhi puntati sul pacco di Bertowsky: proprio l’amato giannetto, il vecchio gingillo di Leira era lì, indomenicato dentro una guaina. Per questo lo battezzammo Pochette. Pochette era un fiume in piena, completamente privo di inibizioni, gasato dall’entusiasmo bertowskiano e dalla sua esperienza nel comitato antimafia. Così propose di farci vedere uno importante. Del tutto asservito alla guaina, tirò per mano Berty fra i mie frizzi verso la sede del movimento. Salimmo su una Panda inquietante: c’erano giornali dappertutto, adesivi di gruppi del rock italiano progressivo, un mangianastri anni Ottanta che sparava a palla le canzoni dei New Trolls, mozziconi di sigarette, interni in pelle maculata, pupazzetto peloso e indefinito penzolante dallo specchietto. Dopo il bagno di traffico, arrivammo in un sottoscala semilluminato, in piena San Lorenzo, a due passi dalle baracche degli immigrati. Si entrava in un condominio e si scendeva nei bassi, dove un tempo ci sarebbe dovuta essere una fabbrica clandestina di capi d’abbigliamento. Il posto, a differenza delle premesse, era molto accogliente: c’erano diverse scrivanie con computer e gente che lavorava freneticamente nella divisione e distribuzione dei volantini, nella stesura di comunicati stampa, e tavole rotonde a cazzi. Dappertutto c’erano questi tavolini tondi e attorno i cavalierideiliberidirittidiquestoporcomondo. Pochette dimostrava di essere completamente a suo agio e ci portò, diteggiando ordini a questo e a quello, alle soglie dell’Onorevole. “Questo è l’Onorevole Speri” ci disse con ossequio. 135 “Chiamatemi Giorgio” disse il politico più disponibile della storia. Ci era divenuto in un nanosecondo simpatico perché non aveva gorilla attorno, vestiva casual senza giacca e cravatta e indossava un normale maglione. Stava seduto dietro una cattedra di scuola: alle spalle una parete di compensato che lo divideva dal resto dello stanzone. Tutti quelli che lavoravano erano tipi che apparentemente non se la tiravano, senza vestiti alla yuppy dellemiepalle, ma solo una dignitosa e pulita trasandatezza. Poi fece: “Noi lottiamo per tutti i cittadini a cui vengono calpestati i diritti, soprattutto coloro che non possono permettersi una casa”. Parole sante cavolo! Poi raccontò delle sue battaglie, del mondo che non andava come doveva, della classe politica attuale disattenta all’underground giovanile. Mi ricordo questa parola, underground che poi non sapevo cosa esattamente intendesse. Ma a tirare le somme sembrava un tipo davvero cazzuto e Berty sfogò 24 anni di repressione ideologica raccontando tutto se stesso. Poi chiesero quello che succedeva a Tiburtina e in tutti i posti di Roma strapieni di barboni, mi chiesero delle mense che non funzionavano, dei dormitori, delle docce, tutta roba che molti di noi avevano solo sentito e mai provato. Viste le elezioni incombenti, i nostri cari interlocutori politicanti avevano le orecchie ritte come antenne. Così fui molto particolareggiato, critico con questa sinistra di parole, ma giocai al comprensivo e i suoi derivati. Nonostante l’entusiasmo iniziale mantenevo una certa patina di prevenzione, ma a Berty cercalavoro quella roba gli calzava a pennello e alla fine divenni tutto gentile e disponibile neanche fossi stato monsignore Della Casa. Ce ne andammo dopo aver parlato due ore e rifiutato un pranzo a scrocco. Ero incuriosito, ma volevo stare con Hoda e i miei amici. Berty riuscì ad approfittare della conoscenza con Speri e fu ingoiato nello staff elettorale dei giorni a venire. Ogni giorno saettava come un furetto tra i comizi di Speri, i volantini, i megafoni, qualche corteo, cartelloni elettorali, mettere su manifesti ecc. Insomma un lurido galoppino. Tornati dal nostro incontro con le autorità politiche di que136 sta nazione, decidemmo, insieme ad Ale e Hoda, di farci una gita tutti e quattro. La proposta fu messa in votazione e riscontrò esito bulgaro. Ormai, causa Bertygramsci, eravamo diventati democratici come non mai. Ci ritrovammo, quasi per incanto, dentro il fuoristrada di Alessandro con il Bertowsky nei panni del politicizzato navigatore. Direzione Sabaudia e vaffanculo al mondo intero. Hoda mi diceva parole irripetibili, poi, posandomi il naso sulla tempia rasata e gorgogliando con le labbra schiacciate sulla guancia, mollò una confessione che mi lasciò sorpreso: “Ero io la ragazza che quel poliziotto stava malmenando a piazza del Popolo!” “Cosa?” Mi voltai di scatto mentre Hoda faceva pernacchie contro la mia faccia. “Ero io. È stato davvero il caso…” “No no no Hoda, lascia stare il cazzo di caso e le menate sui progetti divini…” Ero rimasto di sale, mi sentivo crollare il mondo addosso. Maccome, un fatto del genere Hoda me lo teneva nascosto così tanto? E poi queste balle trascendenti e trascendentali o come cavolo si dice. No, proprio non c’era da stare a sentire le sue pompose prediche. Ne avevo piene, troppi fatti quasi sovrannaturali, le coincidenze, gente convertita e diventata miliardaria, morti viventi e vivi morenti, ragazze messe incinta con il pensiero, depressioni istantanee. Andai al contrattacco con un fatterello da quattro soldi. “Un giorno Rodolfo II, re di Boemia, si trovò davanti al corteo regale Rabbi Low che chiedeva la revoca del decreto regio contro l’espulsione degli israeliti. I cortigiani cominciarono a lanciare fango e pietre, ma sul corpo di Rabbi Low, il fango e le pietre diventavano fiori. Soluzione del miracolo: i giudei delle prime file tiravano i fiori, i cortigiani tiravano realmente fango e pietre, ma erano troppo lontani per colpire Rabbi Low. Così, tutti i cortigiani, mezzi brilli in quel freddo pomeriggio del febbraio 1592, bevvero la favola del miracolo assieme a qualche goccio di troppo”. 137 “Non volevo dire niente di questo… Come sei suscettibile! Questi racconti tieniteli per te”. Mi riprese bonariamente, dandomi un buffetto sul muso poi mi tirò un succhiotto dolorosissimo sulla spalla. Feci un “oh” cavernoso e mi avvinghiai, sollevandola dal sedile e buttandomela addosso. Ci fermammo sulla rada di asfalto davanti alla spiaggia, Berty e Alessandro si fecero in santa pace un beatospinello in macchina, noi ballavamo davanti al Terrano con gli Smashing Pumpkins. Quando ci scambiammo i ruoli, con me e Hoda dentro a fumarci una canna e i due compari di merende lungo la spiaggia, Hoda scivolò come un’anguilla tra le gambe e dopo essersi legata i capelli con un elastico azzurro, mi baciò. Fu un pomeriggio che ancora oggi spesso rimpiango: con il sole che cadeva nel mare, le balle per far provare lo spino a Hoda, certi racconti agghiaccianti di Bertowsky sui nonni rimbambiti che se la facevano addosso e cadevano dal letto. E poi il correre sulla sabbia, sgommare e poi giostrare come un rallyinfantile sul piazzale antistante la grande spiaggia. Anche Hoda si divertì. Ci mettemmo tutti e quattro a cantare Giannagiannagianna. 138 Capitolo 14 SINCE I’VE BEEN LOVING YOU “Lavorare dalle sette alle undici tutte le sere it really makes my life a drag” (Since I’ve Been Loving You, Led Zeppelin). Nel 1970, il barone Evan Von Zeppelin intenta una causa contro il gruppo per l’uso del nome. A causa di questo, durante un concerto a Copenaghen i Led Zeppelin diventano i NOBS. Quell’anno esce Led Zeppelin III, un album che riscopre l’antico gusto delle romantiche ballate britanniche tanto che fanno raccontare a Plant la sua voglia di trasformare il mondo in un luogo senza frontiere tra paesi. Pochi giorni prima della conclusione dell’incisione dell’album, Robert Plant viene colpito da un collasso. 13 aprile 2000 Erano le sette di sera, ero appena tornato da lavoro. Ero distrutto, avevo pulito tutto il giorno i cessi dell’Università di Tor Vergata, facoltà di legge. Alla faccia del tempio della giustizia, quelli si beavano dei servigi ben retribuiti della nostra ditta, amica dei ciellini. Ma una facoltà che sfornava ragazzi che non mi degnavano di uno sguardo o di un saluto, andava a pennello per simili scelte. Avevo visto studenti abbronzati e impeccabili, su e giù per un mondo che mi sarebbe dovuto appartenere, e che invece potevo conoscere solo di riflesso sulle scritte dei cessi. C’erano fighe tirate a lucido, tailleur targati Gai Mattiolo che cam139 minavano un buon metro sopra la terra con borse Gucci a tracolla, nugoli di studenti in Barbour, professori parcheggiati al bar, indifferenti a chi chiedeva di spostarsi per svuotare i cesti straripanti di pattume. Avevo le mani puzzolenti di candeggina, i vestiti impregnati di sudore, e piene le balle. Quella sera ero solo interessato a un bagno e a qualche lettura edificante tipo Lo scherzo di Milan Kundera. Ero molto vispo quando leggevo quei libri che parlavano di perseguitati e robe varie, mi immedesimavo come una marionetta. Così, non appena a casa m’infilai un triste pigiama femminile flanellato, cominciai a leggere di Ludvik e Lucie e del loro rapporto paradigmatico e impossibile. Mi sentii rinato. Vista Hoda le cominciai a raccontare dell’Università e di tutta quella roba insopportabile che avevo subito. Con Hoda passavamo spesso la notte insonni a parlare di tutto; ogni tanto lei pensava nella sua lingua ad alta voce, e io per non essere da meno, me ne uscivo con bizzarre espressioni dialettali che la facevano scoppiare in una fragorosa risata. Le stringevo le spalle con un abbraccio massiccio, mi aggrappavo a lei sul letto come se fosse stata uno scoglio, l’ultimo rostro liscio tra vita e morte, passato e presente, ingiustizia e giustizia. Poi lei mi scivolava con le sue mani piccole e sudate fra le cosce accarezzandomele, fingendo quasi di suonare una tastiera. Poi, quando spegneva la luce, il clic suonava come un gong, freddo controaltare alle nostre notti calde fatte di un abbraccio infinito, fatte del suo bagnoschiuma alla cannella, dei suoi morsi alle mie orecchie. Erano notti senza rapporti sessuali. Rimanevo sconvolto dal corpo di Hoda, ma non riuscivo ad annullarmi del tutto. Spesso le abbassavo i pantaloni del suo pigiama di lana fino alle ginocchia, lei si metteva a pancia in giù in modo che le coppe regolari del suo sedere fossero a mia disposizione. Le guardavo, le sfioravo con le mani, tiravo pizzicotti e morsi, ci poggiavo il libro di Kundera e le usavo come leggio. Ma tutto finiva lì. La mattina mi svegliavo con il suo odore dappertutto tranne dentro di me. Mancava qualcosa, come se quello che era 140 successo in macchina di Ale fosse stata una pausa, una virgola tra la sua voglia e le sue convinzioni. 26 aprile, dieci giorni dopo le elezioni “Buona volontà? Non hai saputo impedirti di pensare all’Italia…” (Da un quaderno di Franz Kafka) I giorni prima delle elezioni Berty, Ale, Hoda e io passavamo pomeriggi interminabili a parlare. Ale era incontenibile, un cantastorie di avvenimenti farseschi e improbabili, dove il protagonista era sempre lui. Spesso raccontava disgrazie incredibili, come quella dei nonni di Berty, con una lievità agghiacciante. Esaltava il lusso, la società dello struscio, gli Oro Saiwa, i quadrucci in brodo di tacchino della madre, la necessità di una pasticca il sabato, e tante altre cose che non condividevo per nulla. Hoda invece gradiva e rideva in continuazione quando Ale raccontava una qualsiasi puttanata. Berty ascoltava soltanto con, spesso, un libro davanti. Si era messo in testa di leggersi tutto Rifkin e voleva portare a termine quell’impresa. Quasi sempre gli facevo uno scherzo, sostituivo la copertina plastificata della saga “Porno.fetish-club” con quella del suo libro. Immancabilmente, lo vedevi due ore dopo tornare dalla sede del partito per cambiare il libro. Lasciai perdere gli antidepressivi, non mi facevano dormire più, e per questo scoppiò una lite con Hoda. Lei voleva che continuassi a prenderli, per me non se ne parlava nemmeno, mi sentivo meglio. In verità, tutto quel casino di lite che ne venne, erano gli arretrati sul mio comportamento e sulle mie stranezze. Tutta roba che Hoda stentava a capire. Mi presi del Tavor e ricominciai i miei giorni di sonno, simili in tutto e per tutto ai miei letarghi malati appena dopo la disgrazia di Mary. Sognavo una luna carbonizzata, un mare asciugato bevuto fino all’ultima stilla da demoni e gnomi malefici; nel riflesso 141 di un bicchiere di sangue potevo leggere a chiare lettere, in raffinato stile gotico, il mio nome, e da sveglio cacciavo insetti inesistenti. Vedevo il mio spazio visivo invaso da sciami di calabroni e mosche gigantesche, onnivore delle mie idee e della mia passione verso Hoda. Si accendeva e si spegneva intermittente. Soffrivo per quei sonni chimici, sonni che mi stavano consumando. Zoopsia: stato allucinatorio di animali dovuto a stati patologici derivanti da alcolismo e cocainismo. Mi rialzai definitivamente con la testa piena di immagini nebulose: Hoda, i miei amici, il polizei in gran pompa, magistrati travestiti da boia pronti a spaccarmi le ossa. Erano solo visi sfuocati senza storie e senza senso. Per fortuna, a sollevarmi il morale, ci fu una visita di Bertowsky, vestito cresima e allegro come una pasqua ebraica. Si accomodò. Rideva e faceva il misterioso manco era l’oracolo di Delfi, poi sputò il rospo. Elegante, con i capelli impomatati e il codino, sembrava un rappresentante di cassette porno. “Franz, ho trovato il lavoro che mi piace grazie al Pochette. Mi aveva chiesto una mano per le elezioni e sai come sono andate le cose…” “Sì, mi ha detto che lavoravi come addetto dellemiepalle a non so cosa”. “Leggevo i comunicati stampa ai giornalisti e dettavo le notizie Ansa sul sito del partito più altre cazzate elettorali. Ora mi hanno assunto in segreteria. Un milione e duecentomila lire per non fare un cazzo! Lavoro due ore al giorno e poi sono sempre in giro con Speri e Pochette, abbiamo fatto dei convegni in un centro sociale sul disagio dei rom, ora ne dobbiamo fare uno sui senza casa e vorrei che tu parlassi della tua esperienza. Sei disposto, non è vero?” “ Ma io…” stavo per rispondere, ma m’interruppe come se non importasse la mia risposta. 142 “Tante cose. Tante cose per davvero. Giriamo le scuole e le parrocchie, siamo più attivi noi degli istituti di carità. Franz, è bellissimo. La cosa più assurda è che hanno assunto solo me. Mi hanno scelto tra tutti quelli che lavoravano prima delle elezioni. Ti rendi conto!?” “Bert, sono felice!”. E lo ero davvero. Bert faceva una cosa che gli piaceva, faceva politica alla mia faccia che non sapevo che cazzo fare. Piansi pure un pochetto, un po’ per le medicine, un po’ per i sensi di colpa verso Mary, un po’ perché Hoda non era come credevo, che la mia vita era meglio da sbronzo sulle scale della metro, un po’ perché avevo la testa prosciugata di idee. Mi sentivo un cazzone nel piangere davanti a Bertowsky, uno che invece aveva le palle sotto. Lui mi fece lo sguardo triste e mi diede un bacio vicino alle labbra, mi asciugò con le sue guance le lacrime che mi scendevano lentamente. Poi fece una battuta, tipo “Come sono checca oggi!” e ci mettemmo a ridere. Quando Bert se ne andò, presi un altro Tavor e mi rimisi a letto, nonostante Hoda quella sera avesse chiesto di andare al Multiplex. Un sonno, una voglia di dormire, mi sentivo pesante come la montagna del purgatorio, supino con la testa spiaccicata nel cuscino, non vidi più nulla. 30 aprile 2000 E fui sveglio. Non sapevo che giorno fosse, se fosse passata una sola ora dall’incontro con Berty oppure un mese. Vidi Hoda, era agitata, riempiva una caffettiera, sospirava. Poi mi venne vicino e mi abbracciò, avvolgendomi con le sue braccia piccole e nervose. Alla fine di quell’abbraccio, la guardai in faccia e vidi che teneva gli occhi umidi. Dopo aver posato la sua mano piccolina sulla mia testa, mi chiese se l’avessi amata e se l’avessi mai tradita. Sentivo il sangue in ebollizione per certe domande, mi illividivano. Erano frasi che mi sussurrava sempre Chiara, 143 magari dopo una litigata furiosa, ma anche dopo una scopata strepitosa. Hoda mi gettava queste sue parole truci e spinose, che mi ferivano, dal nulla. Le chiesi di tacere perché per la prima volta da quando stavamo insieme, avevo l’impulso irrefrenabile di prenderla con la forza. Ma non come si può volere una persona. Non era roba di farmi una pruderie in santa pace, no! Era voglia di essere lei, di mangiarla viva, far sanguinare le parti vitali del suo corpo, azzannarla come una tigre, lacerarle il collo come un vampiro ed essere un cannibale, serrarle le braccia e farla inciampare nella ragnatela dei miei sensi. Ma la mia era una dolce e tenera trappola, che Hoda infranse con un “Franz perdonami”, e piantò una smorfia. Si coprì con gli avambracci come se l’avessi dovuta malmenare, scorgevo lo sguardo monello dietro i gomiti, nei suoi occhi leggevo un’aria di sfida, voleva essere battuta, voleva la rissa amorosa, voleva il reciproco contatto, ma quel contatto doveva essere solo violenza. Passarono attimi vuoti che non sapevo con che parole riempire, punti interrogativi, certo, ma non ebbi abbastanza tempo per domandare. “Mi sono baciata con Alessandro…” balbettò. Mi sembrò uno scherzo, oppure un sogno, “…mi sono baciata con Alessandro…”, può darsi che dosi massicce di tranquillanti portino ad allucinazioni, “…mi sono baciata con Alessandro…”, quello che nessuno immagina ritorna dentro Oniria, nello scatolone notturno della fase rem di un delirio alcolico, “…mi sono baciata con Alessandro…”, spesso immaginiamo cose che non vogliamo che mai succedano, “…mi sono baciata con Alessandro…”, le nostre paure sono fantasticate per essere esorcizzate, “…mi sono baciata con Alessandro…”, a volte pensi che lavorare serva a dimenticare la morte, “…mi sono baciata con Alessandro…”, dovremmo essere sempre con la mente impegnata per aspettare, “…mi sono baciata con Alessandro…”,“…mi sono baciata con Alessandro…”, cento volte nella testa, con in sottofondo la voce lieve di Hoda. Poteva essere stato anche con la mia ombra, non m’importava un fico secco. Sarei andato dritto a farle male. Rimanem144 mo in silenzio per un po’. Per la testa mi passavano in continuazione le immagini del corpo di Hoda e Alessandro, intrecciati tra loro e uniti dalle labbra. Sapevo che doveva esserci anche dell’altro. Ma era come se la mia immaginazione si fosse fermata, non andava oltre il bacio tra Ale e Hoda. Hoda spiegò che era andata a parlare di me con lui, erano i giorni in cui stavo sotto cura di tranquillanti. Dice che non sapeva come fosse successo, che non se lo spiegava, implorava scusa, dice che Ale piangeva dalla mattina alla sera, dice che ero strano, che si sentiva sottovalutata, che non sapeva che fare quando dormivo venti ore di fila, dice che stava male quando mi sentiva raccontare di Mary e Chiara, dice che voleva ridere, dice che ero terribilmente solitario e serio, dice che le facevo paura, dico al diavolo! Così feci la cosa peggiore che potevo farle. Andarmene, fare fallire il suo odioso progetto divino di recupero-animeperse, questa cazzo di rottamazione del mio ego perduto nel reparto grandi-falliti: doveva cessare una volta per tutte. Ero troppo stufo di farmi sbeffeggiare in quel modo dalla sua vocazione da crocerossina cattolica. Raccolsi il minimo indispensabile in un cartone. Hoda mi guardava con occhi lucidi, disperata, paralizzata dalla insicurezza. Ma non aveva il coraggio di parlare e di piangere, era evidente che c’era qualcosa che le bloccava sul nascere la forza di strillare. Soffocai le mie sensazioni. Riempii subito un cartone con due magliette, qualche ricambio, alcuni libri, e basta. “Il resto puoi bruciarlo, con te è finita”, feci il duro, ma mi venne una voce sottile e rauca come quella di Mafalda. Hoda mi sorrise amaramente, per smorzare, ma sapeva che non ero un duro. Così cercai di non lasciar trasudare altre emozioni. Chiusi, per andare nella mia vera casa. Stazione di Tiburtina, stazione di smistamento del dolore, traffico di metadone, odore di vino e bisolfito, whisky e silicone, sudore e acido ascorbico. Hoda mi supplicò sulla porta di parlare, ma fui risoluto. Sgusciai come una biscia e a velocità di formula uno abbandonai casa. Solo quando fui ben lontano da Hoda, solo quan145 do seppi che non avrebbe potuto raggiungermi, rallentai il passo e cominciai a vedere il film della mia vita. Ero sulla Nomentana, nei pressi della zona dove si era schiantato il divino Rino Gaetano, terrone e anarchico come il sottoscritto. La pellicola della mia vita scorreva rallentata e monotona. In sottofondo andarono le canzoni di Rino, Il cielo è sempre più blu, Aida, Ping Pong, Nuntereggaepiù, Berta filava. Nonostante quella colonna sonora, la mia vita sembrava noiosa e nauseante, fatta di ripetizioni: tutto questo continuo fuggire, da casa, da Chiara, da Tiburtina, da Hoda, da me stesso, che era poi fuggire da scelte nette, dalla stessa esistenza. E poi c’era il mio continuo conflitto col mondo: poliziotti, fasci, figli di papà, puttanelle, ragazze per cui si rimane sotto ecc. Eppure, se avessi dovuto raccontare qualcosa di me non c’era un bel niente da dire. Mi potevo spremere le meningi fino a farmi sanguinare le vene del cervello, ma di me non avrei saputo parlare. Avevo addosso la terribile sensazione di non aver vissuto, di aver non risposto alla chiamata, di essermi imboscato, di essere nulla e di non aver fatto nulla di buono. Mi vennero in mente le parole del mio prof di italiano. Era conosciuto come Jeremy Irons per la somiglianza con l’attore inglese. Fu davvero un’illuminazione; mi venne il ricordo di una sua lezione su Svevo, non mi ricordo che cazzo c’entrasse, ma si mise a parlare di Proust e del fatto che Proust aveva scritto un’opera, di non so quanti volumi, solo basata sull’analisi introspettiva delle sue esperienze. Insomma disse che Proust non aveva fatto nella sua vita niente di eccezionale, ma era riuscito a scrivere un libro sulle sue sensazioni. E quello era uno dei libri più belli che fossero stati scritti. Jeremy disse che tutto stava nel saper vivere le cose, saperle capire. Ero tanto preso dai miei pensieri, che non mi accorsi di essere a pochi metri da una fermata del 492, il buon vecchio 492! L’amico di tante scorribande! Lo arrembai a velocità supersonica, e in un baleno mi trovai diretto a Nostra Amata Stazione. Mi 146 misi Proust e le idee di Jeremy Irons in saccoccia, feci un respiro profondo e tirai dritto. Il 492 compì un giro pazzesco e lunghissimo, inghiottito e sputato dal traffico a velocità penosa. Finalmente il bus mi vomitò proprio davanti a casa di Oblomov, alias la 127. I passeggeri sciamarono in stazione, io invece andai a bussare sul vetro posteriore della 127. Fece capolino, dietro un finestrino appannato, la capoccetta di un uomo assonnato e col muso gonfio. Non era passato molto tempo dall’ultima volta che l’avevo visto, ma c’era un tale disordine nella mia testa che mi apparve come un estraneo. “Oblomov, esci fuori! Sono Franz, non mi riconosci?” e mentre dicevo così mi vidi spuntare a lippa una tizia. Ebbi un’impressione di stupore nel vedere il personaggio che si presentò. Non era una vecchia, non era nemmeno una signora, era una cosa. Non si capiva, a metà strada fra un uomo e una carcassa putrida, il viso tappezzato di pustole nerastre, i capelli bigi come il cielo di Milano e bianchi alla base, gli occhi strizzati come due tagli profondi, nelle loro orbite non si distingueva la pupilla. Era Nonna Speranza che si ergeva dietro Oblomov; mi venne un capogiro solo a pensare che tra quei due vi fosse stato un contatto fisico. Oblomov mi fece cenno di smammare, capii che lui doveva ancora cominciare a dare di stecca. Corsi in Nostra Amata Stazione. Qui, fui accolto dal solito branco; l’allegra combriccola presentava diversi componenti inediti, dal vedovo di Mary, Amedeo, fino a un tipo che era chiamato Meno. Questo tipo era detto Meno perché era uno che riusciva a stupirti sempre in peggio. Pensavi per un attimo di parlare con un idiota che capiva poco, e dopo un paio di battute ti accorgevi che era uno che ne capiva ancora meno. Meno lo conobbi per la prima volta in quella circostanza, prima per me era solo una figura mitologica, ascritta a metà strada tra l’invenzione popolare e le stronzate avvolgenti di Jerry Barbetta. Quando Jerry mi presentò Meno mi venne la pelle d’oca. Jerry era tutto fuorché un signore dell’alta borghesia terriera; cosicché, non appena mi vide mollò una scora micidiale che 147 fece girare mezza Roma, e mi disse: “La vuoi ’sta caramella?”. Poi dopo avermi chiesto dello spicciolame, mi diede in pasto Meno. Ciao come ti chiami, e quello ti rispondeva che fuori c’era un bel sole. Più che meno, questo era un tipo dissociato, dava alle parole significati diversi che il resto dell’umanità. Erano tutti a suonare e fare baldoria; fui accolto come un cristo tra i dodici apostoli e notai che tutti erano più ripuliti e in carne. Cribbio che effetto, tutto questo essere ripuliti. C’era Tarcy che stava con una tipa di Lecce che studiava arte all’accademia, ma che era lì, cosciente e consapevole di essere nel ghetto d’Italia. Era una topina niente male, si chiamava Sandra, e aveva un visino monello, pelo biondo e ondulato, bassina, ma a mio modesto parere una professionista di maratone sessuali davvero estenuanti. In quel ben di dio, Tarcy ci stava sguazzando come un orso nel miele ed ero felice per lui. Il metadone lo prendeva, ma molto meno di prima. Da tre dosi al giorno, era passato a una. Chiesi come mai quest’aria di risurrezione, se per caso fosse passato da quelle parti un tizio con barba folta e corona di spine in testa a liberarli dal male. Tarcy rise e fece un discorso di senso compiuto per la prima volta nella sua vita. Venni a sapere che un giorno sì e uno no, all’ora di cena – Tarcy che parlava di cena era un paradosso – si presentava un tale, tutto compito e impaludato, tipo Ambrogio dei Ferrero Rocher, con un pulmino. Prelevava tutto il gruppo e lo portava in un posto a pochi km da Roma, lungo la strada che conduce a Ostia Lido (una prece for PPPasolini). Lì, in una villa sciccosissima, con delle colonne di tufo e statue di granito, mangiavano cibi raffinati e rari, assaggiavano bevande esotiche e liquori sopraffini serviti da camerieri gagà, e indomenicati come vescovi. Poi c’erano musici azzimati come amorini, che pizzicavano note celestiali su arpe d’oro e viole di cristallo. Infine, quando ti ubriacavi e dovevi spurgare, trovavi un bagno meraviglioso, con i lavandini di porcellana e i rubinetti d’argento, gli specchi ovunque, pure sul water più fastoso della storia, con ghirigori e appendiabiti d’argen148 to. Per chi non riusciva a sfilarsi l’uccello per aver troppo bevuto, accorrevano infermiere floffer che aiutavano lo sbronzo davanti a queste tazze pregiate. Alla fine di questa storia credevo solo a una cosa: avevano inventato la più bella droga del mondo; quella che riduceva il cervello solo a poltiglia di fantasia e vaneggiamenti, esattamente come mi sembrò in quel preciso istante la testa di Tarcy. E invece lui disse di aspettare la sera e vedere. Vedere cosa? Le loro bislacche invenzioni? Ma vaffanculo. Ero talmente sconcertato e con gli occhi sbarrati dallo sbalordimento di quella bubbola che mi andai a fare una grappa. Decisi: basta col lavoro, basta con Hoda, piantiamo tutto e santifichiamo questo anno, si ricomincia con l’autodistruzione. La mia cancellazione dalle liste umane doveva avvenire per mano del sottoscritto avente diritto. Per prima cosa bisognava avere metodo e rigore nella scelta dei compagni di distruzione: il mio alter ego poteva essere solo Tarcy. L’uomo del metadone, della topa leccese e dei vaneggiamenti sulle ville del piacere. Tarcy mi invitò a casetta sua, alias la roulotte più maleodorante della storia repubblicana, il nido di rote e sbronze diviso sino a poco tempo prima con l’illustre scomparso Damiano paceallanimasua. Quando andammo in questa roulotte, in un campo leggermente fuori mano da Roma, era già sera. Strinsi subito amicizia con Sandra parlando con lingua sciolta e battuta automatica. Più la vedevo e più mi gustava questa topina pittrice, con quelle manine doveva essere brava non solo a fare disegni. Così malignai che, magari, quando il buon Tarcy era a terra per la rota di metadone, ci ripassavo di stecca la topina. Una volta arrivati a destinazione, proprio davanti alla roulotte più arrugginita del dopoguerra, capii che qualcosa sarebbe andato di traverso al progetto serale. Un omaccione tarchiato e massiccio ciondolava davanti al bidone a due ruote di Tarcy. Non appena ci vide venne incontro minaccioso, sfregandosi le mani come se avesse fatto tombola. Sandra sibilò preoccupata: “Papà!!” 149 Quelle due sillabe illuminarono di una luce mortale Tarcy, che mi fece, rauco come un pappagallo: “Quello mi s’incula”. Occazzo pensai, tutti i padri delle ragazze italiane pensano a una cosa! Prima il prefetto con lo sfollagente per la storia di Alessandro, ora questo fuso del padre di Sandra. E già, tanto dritto non doveva essere, per andare a prendere la figlia in quella specie di campo nomadi dove abitava Tarcy. Così cominciò una corsa nel fango e un nascondino più o meno divertente attorno alla roulotte, con tutti i zinchi, gli albania, i tossici e il maledetto popolo senzatetto a guardare con silenziosa curiosità. Il padre di Sandra sembrava più Mario Brega che un genitore, Tarcy era un pupazzo in preda al panico, aveva la faccia sconvolta dalla fifa e la voce alterata dalla paura di prenderle. Mi stavo divertendo, Tarcy un po’ meno, soprattutto quando l’energumeno fece il ratto della figlia e schiaffeggiò Tarcy, urlandogli di non infastidire la sua bambina. Poi Tarcy raccolse un bastone fradicio di pioggia sotto la roulotte e provò a darlo sulla spalla di Mario Brega. Non l’avesse mai fatto. La mazza rimbalzò senza danni per l’omone, che si girò e mollò uno schiaffo sonante, ancora più fragoroso di quelli di prima. Questa volta il buon Tarcy non ebbe scampo, in ginocchio pregava di far rimanere la topa, con la faccia rosacea come quella di un’aragosta, ma quello se la svignò, trascinando la bimba strillante di forza. E già, Tarcy, con la sua rota di metadone, le clave fradice, quel secchio della spazzatura della roulotte, non era il miglior partito per una donna, ma porca eva, fu un peccato anche per me la dipartita a rotta della Sandra. Quel fiore di topa mi rimase in gola e mi sarei dovuto dare di Federica, la mano amica, per metterci una pietra sopra. Così quando finì la sceneggiata fu presa all’unanimità la decisione di sbronzarci come ai vecchi tempi. I giri furono a mie spese, e fu cosa eccellente, perché condussi il romeo dal cuore infranto in una bara etilica. Ci sparammo del gin secco secco, mettemmo del ghiaccio e l’allungammo con della Sambuca Molinari dolcissima tanto per spezzare quel retrogusto asettico. Non eravamo soddisfatti; 150 nonostante una buona decina di giri di questo cocktail, cominciò la disfida. La disfida consisteva nello scolarsi a morire bicchierini di grappa finché non c’era uno che diceva basta, o comunque crollava. Non valeva pisciarsi addosso e vomitare sull’avversario: bisognava trattenerla in corpo. Il luogo prescelto per la disfida era un bar ad angolo all’imbocco della Salaria, il Devetsil. Non capii come cazzo che ci trovammo sulla strada per Viterbo, eravamo già in pelliccia etilica da parecchio e non riuscivamo a raccapezzare il senso dell’orientamento. Il bar era molto civettuolo, pieno di arabeschi e fotografie di vip dell’immaginario comune nazionalpopolare, Nino Manfredi, Alberto Sordi, Iva Zanicchi e un mucchio di cantanti italiani bacucchi tranne il migliore, il divino Luigi Tenco. Nelle vetrinette, zeppe di cesti invenduti di Pasqua, c’erano invitanti bottiglioni di spumanti e champagne; dietro il bancone luccicavano le bottiglie dei liquori più amati dagli italiani, come file di soldatini pronti a immolarsi alla sete dell’alcolista: Petrus, Vecchia Romagna, Montenegro, Amaretto di Saronno, Sambuca Molinari, Martini dry, Aperol, Zabov, J&B, Ballantine’s, Bayle’s, Unicum, Fernet Branca. Evviva! Come gioivo di quel ben di dio, quello era la mia vita e avevo gli occhi gonfi di eccitazione. Mi sedetti sullo sgabello rotante di fronte al barman e poco mi fotteva che mi versava Grappa Julia oppure alcol etilico, l’importante era che mi facesse morire. “Due grappe bibo, riempici sempre il bicchiere quando finisce” feci con tono alla Gibson in Arma letale. Ma in realtà mi venne un fioretto di voce che parevo David Gnomo. Il barman era poco più che un ragazzino brufoloso, annerito dalla fatica di stare fino a quell’ora a lavorare a mula; aveva una faccia sulla quale era scritto tutto il disgusto e lo schifo che provava verso Tarcy e me. Tarcy non scherzava mica. Era un insulto all’umanità e al progresso umano; era un insulto a tutti gli scienziati e poeti che avevano onorato il genere umano, barcollava anche da seduto, aveva le occhiaie blu, della pagliuzza in testa, gli occhi 151 cerulei, le mani tremolavano come un malato del morbo di Parkinson, le braccia lunghissime e le spalle curve lo facevano sembrare uno scimmione avvinazzato. “Su, dai, insisti, bevi” lo spronai: era la terza grappa e lo vedevo già in crisi. Invece fu tutta una squallida messa in scena, lui beveva a un ritmo che non reggevo e mi faceva star male. Mi accorsi, di punto in bianco, che perdevo poco alla volta la sensibilità di alcune parti del mio corpo. Alcune vennero travolte da un ipertensione ingiustificata, come la lingua con la quale leccavo come un camaleonte il bordo del bicchiere; altre parti del mio corpo parvero staccarsi dal mio controllo: non sentivo più le gambe e le braccia, non rispondevano più. Ero sbronzo. Si vede che era tardi e l’omino che mi aveva dato da bere si dava da fare con ramazza e stracci per pulire il bar. Usava una sottomarca del Mastro Lindo. Porco cane, non l’avesse mai usata! Vidi a un tratto Tarcy totalmente fuori di testa che si versava il Mastro Lindo nel bicchiere e trangugiava come un dannato. Due dita di quel detersivo a rotta nell’intestino. Roba da ospedale. Ma non successe un bel niente. E così si alzò e uscì fuori a fare l’uccello di bosco. Io non riuscivo ad alzarmi da quello sgabello, avevo un terrore che se lo facevo cadevo come un salume. Non riuscivo nemmeno a vedere bene, avevo davanti ai miei occhi una patina che non mi permetteva di capire quello che succedeva a un palmo dal naso. Così, quando il tipo del bar mi cacciò, mi resi conto solo col passaggio climatico da caldo a fresco, che non ero più in luogo chiuso. Quando fui fuori cercai disperatamente Tarcy, ma riuscivo a malapena a strisciare al muro, e caddi per terra avvolto da un sonno malato. Tarcy si buttò addosso e lo tenni lì, che russava saliva alcolica. Dormimmo sul marciapiede, fra blatte e scarafaggi, sorci e pattume. La mattina ci svegliammo alle cinque, pieni di fitte su tutto il corpo, ai reni, alla milza, alla pancia. Mi bruciava la testa da morire, ma si resisteva; di certo perché mi ero accoccolato su un bordo di granito molto spigoloso con addosso il Tarcy ubriaco. Arrivammo a Tiburtina verso le sette, cammi152 nando abbarbicati l’uno sull’altro e ondeggiando come zombie. Nostra Amata Stazione era il solito casino di gente con valige in mano e zaini in spalla. Una fila interminabile di gente per un cazzodibigliettofs. Tutti albania in gran pompa, urla, piumini bucati e puzza di sudore, nessuno che rispettava questa cazzo di fila; i treni per il nord immobili sui binari ad aspettare l’orda, borsoni monstre e bambini strillanti dappertutto. Le madri di questi piccoli albania erano davvero fighette da paura, e se non stavo così male, mi sarei fermato a tentare il ratto di qualche topina balcanica. Jerry scuro e minuscolo, era lì. Vicino alle scale che portavano alla metro, ci intimò urlando di fermarci e mi disse che la sera erano venuti a cercarmi una bella ragazza con i capelli rossi non italiana, e un tipo molto trendy. Trendy per Jerry significava essere vestiti alla cristocomanda e non alla cazzo come noi. Connessi in fiocca e capii che erano Ale e Hoda. Il dolore sotto la milza mi aumentò a palla e cominciai a non respirare bene. Persi i sensi in quell’istante. Percepivo appena Jerry che chiedeva se mi sentissi bene; Tarcy rideva, credeva scherzassi e diceva “L’ho bevuto io il Mastro Lindo, mica tu”. Le mie gambe si piegavano e tutto il pianeta mi sembrava essere catapultato verso l’alto, oppure io verso il basso, il cielo d’un tratto mi mancò e mi mancò anche Roma, l’aria, i suoni, le voci delle persone divennero un tutto indistinto e infine un limbo, nero e coagulato. 153 Capitolo 15 WHEN THE LEVEE BREAKS Nel 1971 uscì il quarto album dei Led Zeppelin. Il più importante. Includeva, accanto a capolavori come Stairway to Heaven e Going to California, canzoni di assoluto valore come The Battle of Everymore, Rock and Roll (il capolavoro della rock session) e Four Sticks. Quell’album destò scalpore perché non c’era nessun titolo né il nome della band, ma solo quattro simboli misteriosi più un anziano con indosso una fascina di legna secca. Un album targato Atlantic che consacrò i Led Zeppelin come uno dei più grandi gruppi rock di quei tempi. L’ultima canzone dell’album era When the Levee Breaks ossia “Quando si rompe la diga”. Canta Plant a un certo punto: “Don’t it make you feel bad. When you’re tryn’ to find your way home, you don’t know which way to go?”. 2 maggio 2000 Arriva un momento nella vita in cui devi scegliere da che parte stare. Vuoi stare con i buoni? Ok. Ma tutto sta a sceglierli e a sapere chi sono: sono quelli che credono in Dio e non nella chiesa, quelli che credono nella chiesa e non in Dio, sono quelli dell’usa il preservativo o quelli dell’amore solo da sposati, sono quelli delle battaglie antiproibizioniste oppure quelli della lotta alla droga, sbirri e ladri, quelli del sabato sera in disco con la musica nel cervello e quelli della domenica pomeriggio, al concerto per la musica del cervello, quelli che con i figli si deve dialogare, quelli che con i figli sanno dialo154 gare, quelli che giocano a pallone, quelli che lo vedono soltanto, quelli che parlano della droga e non la conoscono e quelli che la provano e non ne parlano. Sì, tra tutto, ho scelto una sola cosa. Una sola parola che non è Fine e non è Addio, ma una parola unica e onnipotente. Tutti attorno mi guardano, ci sono davvero tutti, troppi; c’è il Bertowsky troppo impomatato per essere vero, c’è il mio traditore Alessandro, ha gli occhi tristi e so che non è colpa sua se gli piace la topa, e poi con la ragazza del tuo amico c’è più gusto, ci sono Jerry, Tarcy, Oblomov, ci sono anche quelli che non ci sono, Imma e Damiano, Mary e Chiara; tutti mi guardano, veri o immaginati, mi sento amato e io amo loro. Vedo su di loro le sovrimpressioni di Andrea Zanzotto, Giovanni Paolo II, Licio Gelli, Pier Paolo Pasolini, il prefetto con lo sfollagente, papà Kafka. Ce ne sono talmente tanti che molti protestano, un signore affianco a me ha dei tubi in testa. Un altro ha flebo ovunque, paiono molluschi aggrappati con lo sputo alla vita. Dunque, sto in un ospedale. Non c’ero stato molte volte. Mi ricordo quando fui spedito in hospital dopo la visita di leva assieme a una comitiva di nani, gobbi, uomini con le tette e aspiranti suicidi. Mi rimisero pimpante e allegro. Ero entrato tremando, causa delirium tremens dell’alcolista e froceria, ne riemersi come un dio dell’Olimpo, perché mi avevano bello che riformato. Ma ora è tutto diverso. Sin troppo. Sto con le mani intrecciate come quelle di un morto, ma non lo sono, anche se ci sono andato vicino, anche se ho in faccia un colore giallino, seducente per nostra signora morte. Eppure di tutto questo casino che mi è successo ricordo il prima, il dopo, ma non il durante; la peritonite acuta mi ha perforato l’intestino e i miei salutari succhi gastrici si sono sparpagliati per i miei organi vitali. Morale della favola, l’intervento mi ha riportato in vita, ma non ho più funzionali i miei reni e il mio fegato, crudele legge del contrappasso. A proposito, da che parte ho deciso di stare? Tutti mi hanno chiesto: allora, da che parte stai? Mi scuo155 tevano, mi davano incoraggiamenti, e facevano tutto quello per cui si vuole essere un domani ricordati dentro un testamento, tra eredi e legati, tra amici e parenti, tra congiunti in fila per essere ringraziati il giorno del matrimonio, della nascita di tuo figlio, il giorno della tua sepoltura. È una domanda che fanno tutti e che si fa a tutti, magari nascosta tra altre centinaia di domande, magari nascosta dietro un’altra domanda. Con una metafora, con un nome di persona. Allora? Certo che lo so. Che domande! Dalla parte di Hoda. Qualche volta un ideale, un sogno, un qualunque desiderio può realizzarsi aspirando a una persona, dandosi a lei. Ero ancora più innamorato di prima, masochisticamente alla sua mercé, ma non mi fregava un emerito piffero. Certo, un giorno potrebbero derubarci del nostro cervello, del nostro pensiero, potranno far sparire dai libri di letteratura Pasolini, Moravia, Montale, Parise, Fortini, Penna, Tondelli e Bellezza con qualche scusa del cazzo: tipo che sono stati comunisti oppure froci magari, ecco… spero che quel giorno non arrivi mai, e se arrivasse, allora sì che ci sarà di nuovo da combattere, da uscire le palle, da sputare in faccia al mostro dei mediocri, ed esserci… Oppure amare a mille una persona come Hoda, difficile, impossibile e unica. Chissà, magari illuminati dalla fiaccola dell’Anarchia, da quella dell’Internazionale, dalle 35 ore, dalle sirene globalizzanti… O da un seducente attico con terrazza e parabola satellitare, moglie frigida e figli scemi, inquadrato in qualche livello pubblico, aspettando le ferie, pregando prima di mangiare, passando le tue giornate alla posta, dormendo otto ore con la tv accesa, comprandoti un placebo, massacrandosi per l’eredità di un congiunto schiattato, spirando tra le mani di un notaio, seppellito tra cumuli di carte bollate, preghiere, fiori di plastica e scritte in oro. 156 Epilogo LA TURPE VITA 8 luglio 2000 Lentamente sento il dolore salire, ho come un fuoco caldo in testa, e non vedo più, un buio fatto di colori sfumati, una foschia senza toni predominanti. E poi attorno il rumore appare attutito, riunito in un solo ovattato brusio. Il dolore sale, ho un solo flash, lo spazio visivo si dirada e sento qualcosa uscire dalla mia testa, un piccolo stagno rosso risale per terra, diviene palude, lago, sterminata distesa, immenso oceano dal tono brunito, e il male mi sale alle ginocchia, al collo, al petto e non sento più nulla e prendo infernale commiato da me stesso. Un volo nel vuoto di oltre 15 metri. Schiantandosi sull’asfalto. È questa l’ipotesi che prende corpo tra gli investigatori della Mobile. Francesco Maria, il giovane trovato esanime, aveva 25 anni, con piccoli precedenti penali. Era da diverso tempo alcolista. È deceduto sul colpo, pare che alcuni amici abbiano assistito al gesto folle del Maria. È morto in via Tasso dove decine di romani furono torturati dalle SS e dalle bande fasciste. Non è casuale il suicidio in questa via, su un biglietto reso pubblico dagli investigatori, ha lasciato scritto che il suo ultimo lamento sarebbe stato accompagnato dai lamenti degli eroi. Perché a volte l’armonia è la follia di scegliersi degli ideali modi di scrivere THE END. (“Il Messaggero”) 157 Bertowsky La notizia arrivò come un vento ghiacciato, un refolo infernale direttamente dal deserto delle nevi, ci distrusse il morale e ci spezzò il cuore. Eravamo con Speri e Pochette al Gay Pride, chi per lavoro, chi per piacere. Quel giorno si rimorchiava a secchiate, ma per Pochette non ce ne fu affatto, e imprecava contro tutto e tutti. C’erano assieme a noi quattro tipi direttamente dalla Sicilia, Vincenzo, Alberto, Alessio e Marco lasciati rispettivamente dalle loro ragazze perché erano lì, in fila con noi, a fare un baccano infernale per i nuovi diritti civili negati. C’erano persone che ballavano, stand di libri gay stracolmi di gente, il palchetto dei razionalisti agnostici, un fiume di caroselli colorati e festosi, musica, tanta musica, altri che raccontavano le loro esperienze, un mare di gente nuda e maschi con le zinne. Ma per me, il baccano divenne ben presto silenzio. Qualcuno mi allungò uno spino, ma non lo volli fumare, ero diventato di sale. Se la notizia era vera, per me era una cosa terribile, la cosa più terribile della mia vita. Quando ti muore un amico non è come quando ti muoiono due nonni col gas; un amico te lo scegli, il destino te lo presenta mimetizzato in un fascio di persone e lì fai la tua scelta, che poi è una scelta di vita. L’amicizia è un valore di merda oggi, tutto è utilitarismo e opportunismo, ma quando trovi qualcuno che fa solo cazzate per te e gli altri suoi amici, allora che opportunismo è? Quante cazzate ha fatto Franz. L’accattonaggio volontario, l’alcolismo istrionesco, le sue cotte adolescenziali, i suoi ideali di carta. Tutto è un immenso calderone di ricordi che mescolo e rimescolo in questi momenti in cui la notizia mi rimbalza nella testa. È una pallina di aghi che ha un moto perpetuo, mi distrugge le tempie e mi fa disperare, piangere come un bambino. Speri mi diede via libera, fece un viso comprensivo, mettendosi una mano in testa e con l’altra indicandomi un angolo appartato del Circo Massimo lontano da drag queen, travesta, e soprattutto dai lamenti di Pochette. 158 Mi trovai d’un tratto solo, con le ultime parole di Franz in mano. Erano parole di paura, una fottuta paura della morte che lo stava cogliendo, ogni volta pensava al dolore e piagnucolava come un moccioso. Odiavo la messinscena, ma era troppo cambiato per sapere che i suoi pistolotti morali erano dovuti a una sua svolta interna. Un giorno mi disse testualmente: “Potrebbe arrivare un giorno che alcuni nomi verranno cancellati dai libri di storia e che altri nomi saranno aggiunti. Potrebbe arrivare un momento in cui qualcuno o qualcosa che tu credevi fosse giusto, invece divenga, per uno strano incantamento del destino, la cosa più sbagliata di questo mondo. Già domani potrebbero dire che il vento non soffia sempre nella stessa direzione, ma cambia. Certo, un giorno potrebbero derubarci del nostro cervello, del nostro pensiero, potranno far sparire dai libri di letteratura Pasolini, Moravia, Montale, Parise, Fortini, Penna, Tondelli e Bellezza con qualche scusa del cazzo: tipo che sono stati comunisti magari, oppure froci ecco… Spero che quel giorno non arrivi mai, perché bisognerà resistere…”. Cristo, aveva ragione, ma la battaglia che tutti i giorni fanno le persone che credono nelle idee e in qualche ideale, si fa da vivi, e su questo ha avuto torto marcio… Eppure, con Hoda le cose sembravano essersi aggiustate; l’ultimo mese fu un balletto di eventi in cui Franz decise di gettarsi anima e corpo. Hoda se la diede a gambe a Gerusalemme, visto che c’erano dei problemi di famiglia, e non si fece sentire per un po’, Franz diede di testa perché senza Hoda oramai non capiva più niente. Cristo, mi sembra ieri sentirlo imprecare contro Leira che mi aveva plagiato… Hoda un giorno lo chiamò da Gerusalemme e gli disse che non tornava più a Roma, che se voleva poteva rimanere in quella casa che era stato il loro nido, ma che lei aveva nel cuore un’altra persona. Chissà chi era, chissà come cazzo era, fatto sta che aveva umiliato per l’ennesima volta Franz. Umiliato dal ragazzo di Chiara, umiliato da Ale e umiliato da questo sconosciuto nuovo ragazzo. Era troppo buono, era troppo innamorato di Hoda, non c’è altra spiegazione ai suoi fallimenti. Glielo dissi l’ultima volta che ci eravamo parlati; era stato già scaricato da 159 Hoda, e a velocità supersonica si era sbronzato. Sembrava la solita roba, e invece aveva in mente di lanciarsi. Di colpo la vita troncata di Franz sembrò la conclusione di un periodo della mia esistenza. Come se le nostre vite fossero state le stesse, come se Hoda, Leira, Daniel, Alessandro non fossero mai venuti a Roma, e nemmeno esistiti. Come se io avessi vissuto per mesi in mezzo ai barboni, io, e non Franz; come se la verità di tutta questa storia fosse una verità terribile legata al mio vissuto che non so se ho vissuto davvero. A un diario intimo che non so se sia stato scritto davvero. Allora può succedere che ti immagini tutto, che la tua vita non è come vuoi, che pensi a chi sta peggio e a chi sta meglio, che tutto un giorno cambi, che non sei quello che credevi di essere stato per tutto questo dannato tempo. Tutto in questo dannato posto che è Roma, cesaropapista in pieno terzo millennio, tra fiumi di barboni, quartieri precari, baraccopoli in piena Europa, fra regge parioline, vippazzi e antenne vaticane, vecchi e nuovi privilegi in perenne decadenza, dove l’aria della dolce vita si respira sempre meno e sempre per meno gente, dove la vita è sempre più turpe per tanti, sempre più. 160 CREDITS E INFO Congedo del viaggiatore cerimonioso di Giorgio Caproni; La grande Jeanne di Luciano Erba; Amen di Giovanni Raboni; Morte segreta di Dario Bellezza, i Diari di Franz Kafka, Bevo vino, dunque sono di Tullio Gregory. I titoli di alcuni capitoli citano una poesia di Andrea Zanzotto (Carità romane), un film di Pasolini (Porcile), quattro canzoni dei Led Zeppelin (Stairway to Heaven, Communication Breakdown, Since I’ve Been Loving You, When The Levee Breaks). Oblomov è dal libro di Ivan Goncarov, Nonna Speranza da una poesia di Guido Gozzano, Mauri Mauri da un libro di Maurizio Maggiani, il Galateo in bosco da un’opera di Andrea Zanzotto, Power to the People è una canzone di John Lennon. 161 RINGRAZIAMENTI A Luciana che mi ha salvato nel gennaio del 2000, a Marika che mi ascolta sempre, ai miei che hanno riempito la casa di libri invece che di giocattoli, ad Alessandra che è stata la prima a credere in quello che facevo, a Marcello che mi invitò ad insistere con questo racconto, a Marco e Antonio che sono stati come fratelli maggiori per tutti questi mesi, a Cinzia per il titolo, ai ragazzi della Tiburtina, ad Alberto, Alessio e Vinci con cui ho diviso quella “vita”, a coloro che mi hanno letto e consigliato: Roberto, Sergio, Daniela, Michelangelo. Infine un ringraziamento speciale a Giuseppe che mi ha sempre incoraggiato. L’autore sostiene la causa dei ragazzi della “Maizza”. Resistere! 162 INDICE INTRO 9 Capitolo 1. CARITÀ ROMANE 11 Capitolo 2. FOTO DI GRUPPO CON WHISKY 22 Capitolo 3. ACCATTONI 37 Capitolo 4. ONIRIA 53 Capitolo 5. PORCILE 56 Capitolo 6. MILLENNIUM BAR 65 Capitolo 7. STAIRWAY TO HEAVEN 82 Capitolo 8. ADDIO RAGAZZI DI VITA VIOLENTA 86 Capitolo 9. IMAGINE, IL REGNO UNITO E RABELAIS 94 Capitolo 10. COMMUNICATION BREAKDOWN 109 Capitolo 11. MARLEYDAVIDSON 113 Capitolo 12. WELCOME TO SALÒ 119 Capitolo 13. SENTIERI INTERROTTI 124 Capitolo 14. SINCE I’VE BEEN LOVING YOU 139 Capitolo 15. WHEN THE LEVEE BREAKS 154 Epilogo. LA TURPE VITA 157 CREDITS E INFO 161 RINGRAZIAMENTI 162 Stampa Arti Grafiche Stibu Urbania, febbraio 2003