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Dalle orecchie al cuorehot! - Parrocchia San Bartolomeo della

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Dalle orecchie al cuorehot! - Parrocchia San Bartolomeo della
DALLE ORECCHIE AL CUORE
Riflessioni sull’Ascolto
a cura di Angela Mazzetti Fanti 1
“Se ti è caro ascoltare, imparerai
se porgerai l’orecchio sarai saggio.” Siracide 6, 34
Riflessioni sull’ascolto laico e religioso
In copertina: la facciata della Chiesa di San Bartolomeo della Beverara (2011)
Le riflessioni e le interviste si riferiscono alle date indicate.
Laddove possibile si sono apportati aggiornamenti.
2
DEDICA
Queste riflessioni sono uscite nel periodico ‘Sotto il campanile’
della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara dal 2002 al 2009.
Oggi, 25 settembre 2011, le riunisco in questa pubblicazione, che dedico,
quale contributo di gratitudine, alla Comunità beverarese intera e al suo Pastore –
don Nildo Pirani – che il 2 ottobre 2011 festeggia il suo 50° anno di sacerdozio.
Tutti mi hanno accolto e sorretto nella fede
e continuano a trasmettermi l’importanza della preghiera, della liturgia, del canto,
e delle relazioni tra fratelli e sorelle.
Note personali:
Abito in Beverara da 41 anni.
Vi ho formato la mia famiglia e vi sto invecchiando con gioia.
Nella comunità beverarese faccio parte del Consiglio Pastorale e di Gruppi Biblici.
Attualmente mi occupo della mia famiglia e sono pensionata universitaria.
Svolgo alcune attività correlate al benessere esistenziale: Coordino
”L’Arte dell’Ascolto - Incontri formativi per sviluppare la capacità di ascolto di sé e degli altri”,
che si svolge al Navile da dodici anni (attualmente in Biblioteca Lame).
Sono esperta e consulente nella scrittura auto-biografica,
e mi impegno nel sostegno alle persone in lutto.
Angela Mazzetti Fanti
3
INDICE
Pag.
3
DEDICA
Pag.
5
ASCOLTARE
Pag.
5
Cos’è l’ascolto? (1)
Pag.
6
Cos’è l’ascolto? (2)
Pag.
7
Una proposta di formazione all’ascolto
Pag.
9
L’ascolto del silenzio
Pag. 10
ASCOLTARE E PACIFICARE
Pag. 10
Sul difficile cammino della pace sulla terra
Pag. 11
La guerra nel cuore
Pag. 13
ASCOLTARE PER CONOSCERE
Pag. 13
La Comunità Ecumenica di Bose
Pag. 15
Noi siamo un colloquio (I gruppi di Auto-mutuo aiuto)
Pag. 16
LEGGERE
Pag. 16
Sogni e futuro
Pag. 17
Il cammino dell’uomo di Martin Buber
Pag. 19
L’arte di ascoltare di Plutarco
Pag. 21
La forma della vita di Cesare Viviani
Pag. 23
ASCOLTARE LA ‘PAROLA’
Pag. 23
La domenica è festa!
Pag. 24
Il lavoro: aspetti biblici
Pag. 27
Pag. 27
BEVERARA - ASCOLTARE E PRATICARE LA FEDE NELLA LITURGIA
Parliamo di Liturgia … e troviamo una comunità in cammino
(intervista ad Antonio Baroncini)
Pag. 31
Il canto liturgico
(intervista a Luciano Catalano)
Pag. 33
Pag. 33
BEVERARA – ASCOLTARE E PRATICARE LA FEDE OGNI GIORNO
I Rom, quanto ne sappiamo?
(intervista ad Alberto Zucchero)
Pag. 35
Volontariato nella carità – Centro di Ascolto Caritas
(intervista a Maria Pia Baroncini)
Pag. 37
Volontariato nella carità – Centro Indumenti Caritas
(intervista ad Anna Di Paola)
4
ASCOLTARE
COS’E’ L’ASCOLTO? (1)
L’ascolto è ‘cammino’ e in quanto tale risente della forza dell’esperienza che ognuno
raccoglie negli anni. Esso è attivo minuto dopo minuto, quasi inconsapevolmente perché fa
parte di noi; è una necessità che sviluppiamo dalla nascita per entrare in contatto e per
comunicare con l’ambiente e le persone che ci circondano.
Va costantemente potenziato e migliorato, ma non è sempre facile accogliere ciò che sentiamo
di essere e armonizzarlo con ciò che sono gli altri, oppure saper comprendere gli altri, senza
dimenticare noi stessi.
Quando questa capacità è bloccata peggiorano i comportamenti e la comunicazione;
può avvenire tra familiari e amici, tra i quali l’affetto tende di solito a sopperire alle
scorrettezze, fino agli eventi più terribili che sono sotto gli occhi di tutti a livello mondiale:
massacri, guerre, oppure anche distrazioni sociali verso intere popolazioni che stentano a
vivere e verso la natura.
Eppure attraverso gli incontri di ogni giorno ci formiamo e fondiamo la nostra vita, non
per chiuderci in un angolo caldo, ma per aprirci, come già fanno tanti, verso un mondo molto
complesso, a volte totalmente disorientante, che vale però la pena di conoscere con attenzione
e in profondità.
Dove individuare errori e carenze nell’ascolto quotidiano che possono creare disagio, se
non addirittura una distorta visibilità di noi stessi e degli altri?
Mi vengono in mente alcune frasi tipiche e alcuni atteggiamenti:
- “Non ho tempo” è una frase frequente: può indicare che si è soliti fare le cose in fretta e con
ansietà: gli incontri, l’ascolto di noi stessi, le attività pratiche. Anche un piatto di spaghetti può
dirci dell’amore o della poca cura con la quale è stato cucinato.
- “Io sono fatto così …” “Tizio è così …” Qui non sono in discussione i valori forti e fermi delle
singole persone, ma gli scogli che qualcuno presenta, quando nei rapporti lascia la
responsabilità di cambiare o di trovare nuovi accordi a totale carico degli altri;
- A volte si parla per “vincere” chi ci interpella, non per accostare alla sua la nostra esperienza;
allora il dialogo può diventare “competizione” e le parole sembrare “spade” sguainate pronte a
ferire;
- Lamentarsi spesso od esprimere teatralmente la fatica che facciamo non è un atteggiamento
che possa portare ad un buon ascolto reciproco; vi sono molti modi per fare presente che si
stanno affrontando dei problemi e per chiedere aiuto;
- Usare linguaggi appresi dai mass media, esprimersi attraverso luoghi comuni o pregiudizi: la
nostra mente si “riposa” ripetendo qualcosa già confezionato da altri, ma la carenza di pensiero
non allarga il nostro cuore e non ci forma.
- Non concedersi tempo, non concedersi silenzi per accogliere i suggerimenti del cuore e le
parole altrui.
Chi vorrà cimentarsi in una sua ricerca personale troverà ogni giorno esempi delle
fragilità che come esseri umani incontriamo, ma anche esempi di buon ascolto da seguire.
E se l’ascolto è cammino, la strada da percorrere è senz’altro quella lastricata di tanta
determinazione e speranza.
Febbraio 2002
5
COS’E’ L’ASCOLTO? (2)
Dopo la distribuzione di "Sotto il campanile" dello scorso febbraio, nel quale ho proposto
questa rubrica sull'Ascolto, mi è stato chiesto di approfondire i punti trattati: dove individuare,
indagando attraverso il linguaggio e i comportamenti, errori e carenze nell'ascolto quotidiano
che possono creare disagio, se non addirittura una distorta visibilità di noi stessi e degli altri?
Una frase ricorrente tra quelle riportate era: "non ho tempo". Essa può indicare che si è soliti
fare le cose in fretta e con ansietà: gli incontri, l'ascolto di noi stessi, le attività pratiche ....
La ricaduta negativa nelle relazioni è evidente. Ansia e fretta non permettono di assaporare il
tempo che viviamo da soli o assieme ai nostri cari; al contrario tali condizioni producono stress
e aggressività.
Poiché poesia e racconto parlano attraverso immagini che vanno direttamente al cuore,
propongo due testi su questo tema. Nel primo (una poesia di Camilla Zammarchi, 10 anni,
di Sant'Arcangelo di Romagna) vediamo con gli occhi di una bambina i nostri affanni; la fatica
nel vedere tanta corsa, e nell'esservi coinvolta, è tale che la seconda parte della poesia si
trasforma in invocazione e proponimento.
I bambini studiavano ...
studiavano, compitavano, leggevano, correvano.
I bambini correvano,
le maestre correvano,
le bidelle correvano,
tutta la scuola correva,
la Direttrice correva, tutti correvano.
Correvano perché non c'era tempo,
correvano per arrivare in tempo,
per ritrovare il tempo,
per conquistare il tempo.
Lo scolaro deve studiare e non ha tempo ...
forse, dopo ...
Le maestre devono correggere i compiti e non hanno tempo ...
forse, dopo ...
La Direttrice deve organizzare la scuola e non ha tempo ...
forse, dopo ...
Bambini, svelti, non ho tempo,
sbrigatevi, ho fretta, non ho tempo.
Vorrei spiegare, ma non ho tempo.
Signore, ho tempo,
ho tutto il tempo che vuoi,
le mie giornate a scuola, i rientri pomeridiani,
le ore dei miei compiti, son tutti miei,
a me farli con calma e senza ansia.
Non Ti chiedo, questa mattina, Signore,
il tempo d'imparare bene questo o quest'altro,
Ti chiedo d'imparare bene nel Tempo che Tu mi dai
ciò che Tu vuoi che io impari.
Il secondo brano è tratto dal "Piccolo principe" di Antoine de Saint-Exupery:
"Buon giorno", disse il piccolo principe. "Buon giorno", disse il mercante. Era un mercante di
pillole che calmavano la sete. Se ne inghiottiva una alla settimana e non si sentiva più il
bisogno di bere.
"Perché vendi questa roba?" disse il Piccolo principe. "E' una grossa economia di tempo - disse
il mercante - gli esperti hanno fatto dei calcoli. Si risparmiano cinquantatré minuti alla
settimana".
"E che cosa se ne fa, uno, di cinquantatré minuti?" "Se ne fa quello che vuole."
"Io" disse il piccolo principe, "se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio
adagio verso una fontana."
Giugno 2002
6
UNA PROPOSTA DI FORMAZIONE ALL’ASCOLTO
Questa volta vorrei presentare e invitarvi a partecipare all’attività di formazione all’ascolto
psichico, denominata “L’ARTE DELL’ASCOLTO – ESPERIENZA DI SE’ E DEGLI ALTRI”, che è
gentilmente ospitata presso la sala bianca della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara –
Via della Beverara, 86 che ha iniziato il nuovo ciclo di lavoro il 30 settembre 2002, e
proseguirà lunedì 28 ottobre dalle ore 18,30 (puntuali) alle ore 22,30 e così via ad ogni lunedì
di fine mese. L’idea e la costituzione di questo programma formativo trae origine
dall’esperienza professionale di Cesare Viviani, psicanalista e poeta, che a Milano coordina dal
1998 la Scuola dell’Ascolto, che ho frequentato dalla sua fondazione.
La persona è considerata e rispettata per la sua unica e preziosa testimonianza di vita. E’
importante quindi che siano espresse il più possibile le diversità: per esperienza umana e
culturale, per età, per idealità, per religiosità o per scelta politica; esse non sono comunque
indagate, ma accolte e fuse in un unico obiettivo comune: la profonda necessità, convinzione e
desiderio di verificare e migliorare la propria capacità di ascolto a livello personale o
professionale.
Lo scambio delle esperienze, attuato liberamente e a qualsiasi livello di profondità,
costituisce un importante arricchimento reciproco ed è teso a liberare da pregiudizi,
schematizzazioni, luoghi comuni e a produrre aperture creative. Molto spesso il linguaggio
quotidiano è finalizzato al “fare”, alla pratica materiale. Può pertanto venire a mancare quella
vicinanza a sé stessi e agli altri necessaria per essere buoni compagni di viaggio nella vita.
La relazione diventa molto autentica, la parola meditata, soppesata è la parola necessaria
del cuore, indica disposizione ed accoglienza. La parola del cuore non ingorga la mente, come
spesso notiamo nell’eccessiva verbosità, ma trova strade maestre per una sintesi del proprio
pensiero. La convivenza serena che si crea stimola ad esprimersi anche le persone più
intimidite.
Ogni nostro incontro è suddiviso in sezioni di lavoro durante le quali è possibile
sperimentare alcune forme di ascolto: di sé, dell’altro, del silenzio e alcune modalità di
relazione: ascoltare senza commentare, riflettere e confrontarsi su temi di vita, interagire per
aiutare e comprendere le proprie difficoltà di ascolto, essere vicini ad una sofferenza, narrare
storie come insegnamento di vita. La formazione è intrinsecamente legata alla partecipazione
Ritengo utile ora completare questa presentazione riportando le voci di alcuni partecipanti:
“Sono da sempre a ricercare sensazioni, emozioni, pensieri, conoscenze, esperienze che mi
insegnino, mi arricchiscano, mi guidino nel cammino della vita. … Con tanta umiltà, credo, ho
cercato e sto cercando di unire le due mani: una che ascolta ed una che racconta della vita. Ma
che fatica !!!!!!!!
Ognuno di noi ha la sua voce, la sua sensibilità, i suoi dolori, le sue ansie; ritengo che la
condivisione di questi aspetti così personali permetta all’essere umano di abbattere qualche
muro che si è eretto attorno e dentro di sé, piano piano nel tempo, con coraggio e buona
volontà …
Ascolti, ascolti e ti predisponi ad ascoltare sempre di più gli altri e te stesso e dopo un poco
scopri che ascoltando i disagi e i conflitti dei tuoi compagni di gruppo sei puntellato meglio ad
affrontare la quotidianità, a volte così cruda e violenta, che continuerà a farti male, ma non
così in profondità, se lo vuoi.”
“Mi si sono presentate diverse opportunità di conoscenza di me. Si è come aperta una finestra
dalla quale vedo una persona in tutto il suo valore, che, se vuole (e vuole), può camminare e
“crescere”. Vedo pregi e difetti con distacco, ma reali. Questa consapevolezza mi ha portato ad
apprezzarmi di più.”
“Ho iniziato a partecipare agli incontri nonostante mi preoccupasse la durata di quattro ore.
Devo dire di essere stata molto contenta, il tempo passa sempre senza accorgermene.
Ascoltare le altre persone è estremamente interessante, mi aiuta a capire meglio gli altri e a
conoscere meglio me stessa. Essere ascoltati ed ascoltare con apertura di cuore è
estremamente gratificante.”
7
“Sulle prime ero intimidito all’idea dell’ingresso in un gruppo precostituito di sconosciuti. Lo
stimolo finale è arrivato riflettendo che è tanto più usuale oggi imbatterci nel ”sentire” che
nell’”ascoltare”. Io stesso, per primo, mi sono reso conto che, nel caso dell’ascolto, d’arte
bisogna parlare, come di qualcosa che vada coltivato e affinato, vivendo in una società che
corre e a malapena “sente” l’altrui e il proprio disagio e, a maggior ragione, è sorda rispetto ad
un ascolto approfondito. … E’ innegabile, uno sforzo deve essere compiuto ogni volta all’inizio
dell’incontro. La vita oggi ti risucchia in un tale vortice di decisioni (non necessariamente
fondamentali!), di fretta, di impegni che si susseguono, che ritrovare la scansione necessaria
all’ascolto e del sé e dell’altro non è risultato semplice.”
“Gli incontri tendono a rasserenare e a fare partecipare le persone alla vita in comune: si
impara ad abbandonare l’egocentrismo, ad accettarsi e a valorizzarsi, a saper chiedere aiuto,
ad essere umili, ad ascoltare e ad accettare gli altri, rivolgendosi ad essi con serenità, ma
anche con garbata fermezza. Si impara a liberarci dagli involucri che ci inducono a false
credenze; si impara ad essere noi stessi nel contesto dell’umanità.
Al termine di ogni incontro si esce liberati da quei fardelli che prima ci opprimevano, facendoci
temere che non ci fosse modo di combatterli e di vincerli. La sensazione di liberazione forse, a
volte, non dura fino al prossimo incontro, ma si mostra sempre un aiuto più che valido.”
“Avevo bisogno di confrontarmi, di riflettere, di approfondire, di “aiutarmi” … e questa mi si è
presentata come un’opportunità. Vivere l’ascolto di me e dell’altro nelle varie sfaccettature che
ogni incontro propone mi aiuta a dare spazio nella mia vita ad attenzioni e valori che mi fanno
sentire bene. “
Ascoltare per comunicare bene quindi, ma anche per dare il giusto peso agli affanni
quotidiani. Più si ascolta attivamente e più si impara o si approfondisce il proprio senso critico.
Ottobre 2002
(L’attività è al 13° anno – 2011/2012 – e si svolge nella Biblioteca Lame con il titolo
“L’Arte dell’Ascolto – Incontri formativi per sviluppare la capacità di ascolto di sé e degli altri)
“Ovunque il guardo io giro/ immenso Dio ti vedo/ nell’opre tue t’ammiro...” versi di Metastasio
8
L’ASCOLTO DEL SILENZIO
Parlare bene
Un dotto che un sabato era ospite della tavola di Rabbi Baruch gli disse:
“Diteci parole di insegnamento, Rabbi, voi che parlate così bene!”
“Prima che io parli bene”, rispose il Rav, “che io ammutolisca.”
Da “I racconti dei Chassidim” di Martin Buber – Ed. Guanda
I Chassidim, i saggi mistici ebrei che vivevano nell’Europa orientale fino agli inizi del
secolo scorso, evidenziano in questo breve racconto l’importanza del ‘FARE SILENZIO’,
situazione veramente favorevole per ascoltare ed esprimere parole importanti.
E allora, perché non farne …
UN’IDEA PER TANTI REGALI!!!???
Potremmo preparare molti pacchetti (per davvero o nel nostro cuore) dorati, argentati,
infiocchettati; vi poniamo con cura un poco di SILENZIO e li mettiamo accanto al presepe o
sotto l’albero di Natale. Sarà un omaggio da dedicare a noi stessi, a coloro che amiamo e da
utilizzare in parecchi momenti della giornata. Non costa nulla, IL SILENZIO, non si consuma,
non passa mai di moda, è alla portata di tutti:
Un po’ di SILENZIO dunque …
Per prendere fiato fra tanto rumore …
Per trovare il giusto ritmo nelle nostre parole …
Per portare nel cuore persone e natura …
Per sentire il nostro mondo interiore …
Per dire ‘grazie’ a nostro Signore …
Per lenire il dolore, provare consolazione …
Per non dimenticare speranza e condivisione …
Per ascoltare, ri-ascoltare, comprendere e ricominciare …
Per ritrovare e coltivare la nostra umanità, liberata da competizione e da aggressività …
Per non giudicare un discorso prima che sia finito …
Per distinguere i momenti di discrezione e di intervento …
Per apprezzare le voci piccole e quelle un po’ stentate …
Per stemperare pregiudizi e presunzioni …
Per scoraggiare chi ama turpiloqui e prevaricazioni …
Per reagire a chi parla senza dire …
Per non aggrapparci ai nostri pensieri …
Per affrontare inquietudini e paure …
Per viaggiare con la mente, sognare e risuonare …
Per accogliere tutti i nostri colori …
Potremmo preparare poi altri pacchetti, ugualmente decorati, importanti, ma questa
volta conterranno tutto il SILENZIO da buttare a Capodanno per vivere più leggeri.
Per esempio, ci sarà tutto quel SILENZIO …
Imbronciato, indifferente, punitivo o disattento …
Tutto quel SILENZIO che impedisce di incontrare, ascoltare, rispettare …
… perché sia l’AMORE a fare tanto, tanto, ma molto più …. “RUMORE”.
Dicembre 2002
9
ASCOLTARE E PACIFICARE
SUL DIFFICILE CAMMINO DELLA PACE SULLA TERRA
(Per un sostegno all'impegno permanente, dall'utopia alla pratica quotidiana)
Da "Aforismi e pensieri di Gandhi" - Tascabili Economici Newton
La disobbedienza, per essere civile, deve essere sincera, rispettosa, mai provocatoria, deve
basarsi su qualche principio assimilato con chiarezza, non deve essere capricciosa e,
soprattutto, non deve precedere da alcuna malevolenza od odio. (Young India, 24 marzo 1920)
La scienza della guerra conduce alla dittatura pura e semplice. La scienza della nonviolenza
può condurre soltanto alla pura democrazia. (Harijan, 15 ottobre 1938)
E' una bestemmia dire che la nonviolenza possa essere praticata solo dagli individui e mai
dalle nazioni, che sono composte di individui. (Harijan, 12 novembre 1938)
Il sentiero della nonviolenza richiede molto più coraggio di quello della violenza. (Harijan, 4
agosto 1946)
Da "Pacem in terris" Enciclica di Papa Giovanni XXIII - 11 aprile 1963
... 61. Occorre però riconoscere che l'arresto degli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva
riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso
tempo non si procedesse a un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti,
adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta,
che al criterio della pace che si regge sull'equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio
che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. ....
Da "Addio alle armi?" L'ultima conferenza di P.Ernesto Balducci - 22 aprile 1992 a S.Giovanni
in P. (Bo)
...La convinzione da cui mi muovo per sostenere che è venuto il tempo per dire "Addio alle
armi" si basa sulla constatazione .. che la specie umana è giunta ad un crinale nella sua
ascesa, nella sua evoluzione, al punto dirimente. Lo aveva già intuito dopo l'esplosione di
Hiroshima quel grande genio del secolo, anche un genio morale per la verità, oltre che
scientifico, che è Albert Einstein. Dopo Hiroshima, egli disse che "tutto è cambiato nella storia,
eccetto il modo di pensare" che, ahimè, lo vediamo oggi, nel '92 continua a essere come quello
precedente a Hiroshima. Ormai non c'è che una prospettiva per delineare un'etica del futuro
dell'umanità. Vorrei che assumeste in tutta la sua oggettiva intensità la formulazione
einsteniana che, secondo me, è la fondazione del nuovo umanesimo: "uomini ricordatevi della
vostra comune appartenenza alla specie umana e dimenticate tutto il resto". .... Quindi l'etica
del futuro è un'etica planetaria in quanto assume come principio risolutivo di tutti i problemi il
bene comune, non dell'Italia, dell'Europa, ma del genere umano come tale. Questo è un fatto
nuovo, un'etica nuova, da cui ci difendiamo in mille modi ed è un'etica che mette in imbarazzo,
anzi, direi che mette sotto giudizio radicalmente quello che si può chiamare il mondo moderno.
Dal discorso di Papa Giovanni Paolo II all'Angelus di domenica 16 marzo 2003
Io appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda guerra mondiale ed è
sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno
avuto quest'esperienza: "Mai più la guerra!"
Monito dei lavoratori della Ditta ACMA GD - Via Colombo - Bologna, posto all'esterno
dell'Azienda allo scoppio della guerra contro l'Iraq - 20 marzo 2003
IL LAVORO NON VA IN GUERRA
Da "Il domani" - 12 Aprile 2003 - Intervista a Don Nildo Pirani
"Quella bandiera arcobaleno ha un solo significato: la pace, e quei colori li può avere usati
chiunque, ma il primo è stato sempre Dio". "Vogliamo quella pace per cui si batte il Papa."
Frase di Alice (4 anni) quando vede i pallini rossi sul teleschermo all’inizio di un film
“Quetto film non lo guaddo pecchè c’è dento la guella!”
10
Aforismi di Cesare Viviani (Psicanalista e poeta) pubblicati sul quotidiano Avvenire:
Si stropiccia / gli occhi / il Bambino / Gesù / per vedere / meglio, / incredulo. / “Ma è /
possibile! / Si / ammazzano / come / duemila / anni fa. / E parlano / tutti i giorni / di civiltà.”
22 dicembre 2001
Orrore / i terroristi / hanno ammazzato / degli innocenti. / Diamogli una / lezione / ai terroristi.
/ Ammazziamone / più di loro, / di innocenti. - 12 aprile 2003
Maggio 2003
LA GUERRA NEL CUORE
(Volevo riportare alcune riflessioni sulla nuova terribile guerra che ha scosso ancora il
mondo e sugli atti di terrorismo sventati; volevo trovare parole, citazioni, per dire ancora
dell’apprensione che, ormai a livello ‘planetario’, attanaglia tutti noi, quando ho trovato questo
accorato articolo intitolato : Liberazione. E’ di Aldo Moro, ventinovenne, che scrive sulla rivista
“Studium”, di cui era direttore, nel numero di gennaio-febbraio 1945.
L’ho trovato toccante, e purtroppo, attualissimo.)
“Siamo tutti in attesa di una liberazione. Questa richiesta, questa speranza, che corrono per
tutta la vicenda della storia e danno ad essa un'ansia dolorosa, una perenne inquietudine, un
bisogno di rivelazioni buone, sono soprattutto di questa tragica ora. Noi sentiamo il peso grave
di mille oppressioni e la ferocia di questa storia umana senza umanità ci prende in una morsa
alla quale non è possibile sfuggire.
Chi può ricordare senza raccapriccio il terrore seminato nella nostra vita in mille forme, da
tutte le parti, con una continuità implacabile, con uno zelo feroce? Chi può enumerare tutte le
miserie di questa umanità dolorante; la morte che bussa alle porte di tutte le case del mondo,
il bisogno che stringe senza rimedio, la lotta disperata per sopravvivere, le blandizie di una
disonestà accettata per non finire, vinti dalla fame e dalla disperazione, in un mondo di bruti?
Se la vita non è condannata ad un dolore senza intervallo e senza scampo, noi dobbiamo
essere liberati. Ne abbiamo il diritto, perché siamo uomini che la morte non ha preso ancora;
uomini ai quali la vita sorride, malgrado tutto, come una cosa bella e buona. Bellezza e bontà,
certo, nascoste in un fondo impenetrabile quasi, ma che affiorano irresistibili, vincendo il
dolore, con una promessa che non vuol cedere, essa, al dolore.
In questo mondo cattivo noi aspettiamo una liberazione dal mondo. Questo, cui rinunciammo
nella saggezza innocente del Battesimo, ci ha preso ancora e pesa su di noi. Vogliamo esserne
liberati. Ma questo mondo è fatto da noi, uomini che andiamo intrecciando assurdi rapporti di
odio, che andiamo disperdendo la vita che dovremmo salvare e svolgere in tutto il suo valore.
Non possiamo essere liberati dal mondo, se non ci liberiamo da noi stessi. Ma chi ci libererà da
noi?
Noi sentiamo enunciare, mentre il mondo più soffre, un programma di libertà. Si domanda
libertà dalla paura, libertà dal bisogno. Per questo ideale uomini hanno preso le armi (armi
raffinate e micidiali di una tecnica sapiente), hanno preso le armi in tutti i paesi del mondo, per
liberarsi dalla paura e dal bisogno, per liberarsi dalla ferocia e dal dolore. Per liberarsi dal
bisogno, gli uomini lo accrescono smisuratamente e il terrore domina dove passano gli eserciti
che son fatti di uomini; l'uno contro l'altro, fremendo alla vista del volto umano dell'avversario
da uccidere. Per liberarsi dal dolore, gli uomini ne moltiplicano all'infinito la tragica esperienza.
11
Dove giungono gli eserciti nel gioco alterno della vicenda di guerra, è come se fosse giunta la
libertà. La vita vorrebbe sorridere ancora invitante. Tuttavia noi aspettiamo una liberazione.
L'aspettiamo ancora, perché dove gli uomini si uccidono, la vita è sospesa ed attende, per
tanto insopportabile dolore, una liberazione.
L'aspettiamo ancora, perché la libertà dalla paura e dal bisogno è una piccola cosa di fronte a
quello che, noi sappiamo, può donare la vita.
Attendiamo di essere svincolati dal mondo e di ritrovare la nostra anima. Aspettiamo, in questo
possesso di noi, che tutto quello che è buono, che è bello, che è vero si rivelino.
Anche il dolore, che, accettato e tradotto in amore, promuove la libertà dello spirito.
La più grande delle libertà, quella che è al vertice della piramide e anima e rende buone tutte
le altre, è la libertà interiore che pone l'uomo,in purezza, di fronte a Dio, a se stesso, ai fratelli.
Quella che esclude egoismi e ferocie e terrori e miserie, quella che conserva sempre una
risorsa per superare i dislivelli paurosi della vita. Questa è la libertà dei figli di Dio.
Mentre tutto è così oscuro, e le forze così poche, mentre diffidiamo di noi e degli altri, mentre
la mèta appare sempre al di là del nostro sforzo per raggiungerla, conviene forse ricordare la
preghiera dimenticata. "Liberaci, Padre nostro, dal male".
Perché ci indirizzi in tanto disorientamento, ci conforti in tanta disperazione l'idea che la
suprema liberazione dell'uomo è la vittoria sul male e che gli uomini non sono soli nel
conquistarla".
La nuova cappella del Santissimo Sacramento (2010)
12
ASCOLTARE PER CONOSCERE
LA COMUNITA' ECUMENICA DI BOSE
(Osservazioni, dialoghi e letture)
Bologna, Milano, Santhià con il treno, poi con la corriera per Magnano: dopo sei ore e
mezza di viaggio si arriva in una ridente zona collinare ai piedi delle Alpi, ricca di boschi e
borghi antichi. A pochi passi dalla fermata della corriera si giunge ad una piana verdissima e
assolata. Il Monastero di Bose vi sta nel mezzo. Lo annuncia un cartello e la meraviglia per
l'impatto che procura la vista panoramica allarga subito il cuore. Alcune vecchie case sono
state ben ristrutturate e costituiscono un piccolo villaggio senza chiavistelli ai portoni di
accesso. La chiesa è di recente costruzione e ne domina la parte esterna
La seconda costruzione moderna e bassa che si incontra è quella riservata
all'accoglienza degli ospiti. Un primo disorientamento lo si prova nella ricerca di monache e
monaci con abiti che li distinguano dagli ospiti. Invece vestono sobrie camicette e gonne ampie
le donne, camicie e pantaloni gli uomini; sono i modi semplici e attenti con cui svolgono ogni
servizio che li contraddistinguono.
"Comunità ecumenica è una parola difficile" dice fratello Lino. "Per noi significa passione
e sollecitazione per tutte le Chiese, per quanto danno di testimonianza di Cristo. La verità è
Gesù Cristo e nessuno può dire che c'è una Chiesa che ha un primato. Quello della Chiesa
cattolica romana è di carità, lavare i piedi, servire. La maniera di porsi di Dio è dal basso verso
l'alto." La sua voce è pacata, ma i toni sono determinati.
Continua fratello Lino, a Bose da venti anni: "E' quando si raffredda la carità che facciamo
distinzioni, accampiamo pretese. Ma se le cose si fanno difficili, se vi sono debolezze, ciò
dovrebbe essere occasione di comunione, anziché di difesa. Non riusciamo a metterci in
discussione. Trovare persone più cristiane e farci portare sarebbe una grande esperienza.
Invece di accampare diritti, occorre provare a sottomettersi reciprocamente."
Il Monastero non riceve, per scelta, alcun contributo dalle chiese o dai privati; i monaci
vivono del loro lavoro: dall'orto ricavano ortaggi e frutta per il cibo proprio e l'ospitalità, ma
anche per le marmellate; le erbe per le tisane. Il miele è favorito da parecchie arnie collocate
vicino a zone di ampia fioritura. Si occupano di falegnameria, di lavori in ceramica e di pittura
di icone; dispongono di una tipografia. La ricerca biblica e catechetica sulla grande tradizione
ebraica e cristiana e la traduzione dei padri della chiesa e dei padri monastici produce
numerosi scritti, stampati a cura della casa editrice interna Qiqajon. Nel corso dell'anno a Bose
si tengono corsi biblici, ritiri spirituali o giornate di riflessione; molti di questi sono registrati e
offerti su nastro.
Oltre al lavoro, non mancano preghiera, meditazione, studio, silenzio.
Si può passare a Bose per ricercare un momento di intensa spiritualità che emana
profondamente dalle persone e dall'ambiente, si può offrire la propria opera, riposarsi e
partecipare ad incontri formativi.
Traggo dalle loro pubblicazioni alcune delle cose che dicono di se stessi.
La Comunità Monastica di Bose si definisce così: "una comunità di uomini e donne
provenienti da chiese cristiane diverse, in ricerca di Dio nella preghiera, nella povertà, nel
celibato, nell'obbedienza all'Evangelo, una comunità monastica nella compagnia degli uomini
come spazio di incontro e di libertà." Il suo Priore è fratello Enzo Bianchi che individuò in una
povera casa disabitata a Bose, frazione del comune di Magnano, il luogo per continuare le
preghiere che condivideva da tempo con un gruppo di giovani torinesi. Mancava tutto:
elettricità, fognature, acquedotto. Restò presto solo e visse approfondendo gli studi, la
preghiera e accogliendo chi passava per momenti di silenzio e soggiorno.
E' nell'ottobre del 1968 che si uniscono a fratello Enzo due giovani cattolici, un pastore
riformato svizzero e una sorella della comunità riformata di Grandchamp. Oggi sono una
sessantina. La comunità fin dall'inizio si è composta da fratelli e sorelle appartenenti a diverse
confessioni cristiane, non per averlo voluto espressamente, ma, dicono, "per un grande dono
del Signore". "Vivere radicalmente l'Evangelo" è la vocazione primaria, seguire l'esempio di
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Gesù come mezzo di comunione fraterna. Monaco significa "semplice" per l'ideale di semplicità
e di unificazione interiore che lo contraddistingue.
Padre Ernesto Balducci nel 1970 scriveva della costituzione del piccolo gruppo di
cristiani di diversa confessione che aveva occupato poche povere casupole a Bose e annotava:
"C'è la fede paradossale di questi amici che si propongono di preparare, in assoluta povertà, il
cristianesimo di domani."
L'ospitalità è praticata fin dalle origini della vita monastica. I motivi che spingono
credenti e non credenti, gente a volte ai margini della società o della chiesa a soggiornare a
Bose sono molteplici, ma unico è l'atteggiamento con cui i monaci cercano di accoglierli. Il
monaco si esercita nell'arte del discernimento del volto di Cristo nell'ospite e a far emergere,
nel mistero grande dell'incontro con l'altro, il Cristo nascosto ma presente in ogni uomo. Ciò
rappresenta un ministero di accoglienza e di ascolto, di consolazione per chi è nella prova, di
solidarietà per chi è emarginato.
A tale atteggiamento sono chiamati pure a tutti gli ospiti (ne arrivano anche ottanta e
più contemporaneamente): "Amico, ospite o pellegrino, ....
Qui troverai cristiani di confessione, di tendenza e di sensibilità diverse, uomini non credenti a
volte preoccupati della situazione sociale e politica e anche uomini e donne con un tipo di vita
che forse non approvi: cerca di vedere in essi il volto di Cristo, non ferire nessuno e cerca di
ascoltare tutti fino a capire ciò che più brucia nel loro intimo. Sono tuoi fratelli, uomini come
te: se li ascolti, non li troverai tanto diversi da sentirli avversari.
Per il tuo soggiorno la comunità non esige nulla: nessuno deve essere escluso da questo luogo
per motivi economici ... Però, se puoi, lascia un contributo per le spese nella cassetta
all'ingresso, senza nome, perché il tuo contributo sia sottratto a ogni controllo e curiosità.
Terminato il soggiorno qui, non disdegnare di raggiungere la vita di ogni giorno: Dio vuole fare
di te uno strumento, un testimone che porti il messaggio dell'evangelo là dove vivi, nella tua
famiglia, nel tuo ambiente, nel tuo lavoro, nel tuo riposo, nella tua chiesa locale. Tu non sei
venuto qui per evadere, ma per riconfermarti nella fede e nell'impegno a favore dei
fratelli con cui vivi." (dal foglio lasciato nelle camere)
Luglio 2003
EPICLESI (Invocazione) – Opera scolpita in marmo, Comunità Ecumenica di Bose (2011)
(Provincia di Biella – Piemonte)
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NOI SIAMO UN COLLOQUIO
Molto ha esperito l’uomo/ molti celesti ha nominato/
da quando siamo un colloquio/ e possiamo ascoltarci l’un l’altro.
( brano tratto da una poesia di Friedrich Holderlin)
Sono stata recentemente testimone presso il Centro Diurno Psichiatrico del
Dipartimento di Salute Mentale (Azienda USL di Bologna Sud), situato a Casalecchio di Reno, di
un movimento importante: si è formato il coordinamento dei gruppi di auto-mutuo-aiuto e di
varie esperienze riabilitative presenti soprattutto nei distretti di San Lazzaro e Casalecchio (che
comprendono anche i Comuni di Bazzano, Anzola, Zola, Sasso M., Monteveglio, Vergato …),
ma anche a Bologna. Questa realtà, che si sta provando a censire e che per ora è unica nel
bolognese, è collaterale alla gestione dei Servizi dell’Azienda sanitaria, ma rappresenta una
possibilità di riabilitazione e di sostegno coadiuvante. Spesso è il vissuto personale che offre la
spinta per trattare problematiche come le malattie mentali e le dipendenze.
Periodicamente medici, operatori, pazienti e familiari si incontrano per confrontare le
loro esperienze. Si respira un clima di grande fiducia e autonomia e si sprigiona da questi
momenti un fermento vitale che evidenzia come la sofferenza non sia solo uno scacco
esistenziale; essa può essere trasformata in aiuto e ricchezza, perché tutti siamo una risorsa,
anche nella difficoltà: con l’auto-mutuo-aiuto si parte da bisogni e interessi comuni e si cerca
di migliorare la qualità della propria vita in un clima amicale e paritario. Sono promossi anche
momenti formativi: per esempio quello che riguarda la figura del facilitatore per la gestione
della comunicazione all’interno dei gruppi.
E’ anche in questo modo che ci si accompagna e non ci si rassegna, anzi si reagisce
pure alla mentalità ghettizzante e stigmatizzante della paura e all’indifferenza dalle quali sono
circondati i malati e le loro famiglie in molte occasioni e che non fanno che aggravare una
situazione già critica.
“Un malato di mente è una persona come tutte le altre, che esprime e prova sentimenti,
che chiede di essere amata e rispettata come ogni essere umano. L’emarginazione,
l’abbandono, il rifiuto, lo fanno sentire diverso ed inutile, provocando in lui una chiusura e una
ribellione che ostacolano le possibilità di cura e di reinserimento. L’accoglienza e l’amicizia gli
ridanno dignità e speranza.” E’ il monito dell’associazione A.I.T.Sa.M. (Associazione Italiana
Tutela Salute Mentale) che ora, con il “Gruppo Speranza”, opera nel bolognese.
Trattare con un paziente psichiatrico è una delle cose più ardue perfino per chi lo ama.
Vivere i suoi silenzi, l’abbandono della realtà, le fantasie e gli improvvisi sbandamenti,
comporta anche il confronto con la sua profonda sensibilità disorientante, soprattutto perché
sconosciuta.
Da questi movimenti, dal linguaggio dis-armato e intenso utilizzato per parlare di sé e
dei problemi affrontati da parte di tutte le persone intervenute agli incontri ai quali ho
partecipato, arriva un ripetuto (indilazionabile) invito a provare ad ascoltare in modo più
attento quella quotidianità misteriosa, quelle infinite luci ed ombre che l’essere umano
condivide con altre esistenze, a coltivare una semplicità di relazione paziente (Quanti rapporti
frettolosi coltiviamo? Quante situazioni tendenti al “successo” ricerchiamo?) che è la sola a
porci in armonia con l’esistente e a permetterci di accogliere il dono della vita.
Aprile 2004
Dati aggiornati al 2011: per avere notizie più dettagliate di questa utile realtà anche su
altre tematiche: alcolismo, dipendenze affettive, conflitti familiari, genitorialità, giovani in
difficoltà, donne operate al seno,… gli interessati possono rivolgersi alla Segreteria Facilitante
della rete di coordinamento, messa a disposizione dall’Ausl, (Tel. 0516574267 - Cell.
3492346598), oppure visitare il sito: [email protected].
Dal 2009 il Gruppo di Ascolto e di Auto-Mutuo aiuto ‘Crescere Insieme’ sull’adolescenza è
attivo nella nostra zona. Dal settembre 2011 gli incontri si tengono presso la Biblioteca Lame.
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LEGGERE
SOGNI E FUTURO
Lo spunto è tratto dalla cronaca della disavventura capitata ad un ragazzo inglese di
Spondon, colpevole forse di coltivare un sogno diverso da quello dei suoi coetanei undicenni;
Kristopher vuole diventare un ballerino di professione.
Da tempo attorno a lui l’atmosfera non era molto serena. Alcuni compagni di classe,
molti con la passione per il calcio, gli tiravano spesso dei brutti scherzi e lo trattavano a male
parole per questa sua scelta, finché agli inizi di gennaio uno di loro, cogliendolo di sorpresa
mentre giocava in cortile, gli è passato sui piedi con la bicicletta spezzandogli quelle ossa
delicate ed assieme, probabilmente, la speranza di coronare il suo sogno. Si potrà intervenire
chirurgicamente, ma forse non prima che Kristopher abbia compiuto sedici anni. (dalla cronaca
di Popotus – Avvenire, 11 gennaio 2003)
Un sogno così “fisicamente” spezzato pone parecchi interrogativi: l’accanimento a
riportare il movimento fisico di Kristopher a consuetudini comuni è diventato addirittura
fanatica persecuzione e aggressione; pare che i suoi compagni abbiano attivato un “controllo”
della diversità, un lavoro psicologico rovesciato rispetto all’abituale spinta all’autonomia degli
adolescenti. Il cosiddetto “controllo sociale delle devianze” inizia dalla famiglia, ma sarebbe
importante che coincidesse con la comune educazione all’indipendenza e al buon
comportamento nelle relazioni.
I ragazzi cercano solitamente di andare oltre gli insegnamenti acquisiti, entrano in
conflittualità con i genitori e le figure adulte di riferimento per farsi scopritori, tentare di
portare cambiamenti nel mondo circostante e proporre novità personali; le loro proposte
possono apparire a volte “strane” o tentativi di mettere alla prova l’interlocutore.
Ma come può avvenire che già altri adolescenti non condividano a tal punto le scelte
“diverse” di un coetaneo? Un caso isolato? Conviene però chiedersi: quale valore diamo ai
sogni nella nostra vita?
Già in un suo libro, scritto circa venti anni fa, dal titolo “Cosa farò da grande”, Furio
Colombo riportava l’osservazione di un quattordicenne francese che rispondeva ad una
inchiesta sui ragazzi ed il futuro: “Io non so – diceva il ragazzo - se tutti vogliono la stessa
cosa e se tutti hanno le qualità per farcela. Io vedo tra i miei compagni gente molto diversa,
con tanti caratteri, sogni e speranze, come si legge nei libri. Poi ad uno ad uno scompaiono e
stanno zitti. Si vestono tutti uguali, camminano tutti uguali, ballano tutti uguali e lasciano
perdere. Io credo che nel nostro gruppo ci siano molti Mozart assassinati.”
Invece di essere testimoni con la propria vita unica e far sentire la propria voce si
ammutolisce? C’è forse un meccanismo sociale, non scritto, di omologazione attraverso il
quale si riconoscono solo certi comportamenti, certe attività? Quale tipo di paura ingenera una
diversità, anche minima, per arrivare a tanta violenza? In quali altri modi più sottili sono
soffocati lo stupore, il fuoco e il desiderio di percorrere strade trasversali?
Il sogno, se nella tendenza generale è trattato come illusione, se una mentalità
razionale vede solo i fini materiali e la realizzazione economica dell’individuo, non è più
desiderio, né forte propensione vocazionale, da osservare con serietà e fiducia, e da aiutare a
coltivare. La realizzazione personale, il buon inserimento sociale di ognuno sarebbe auspicabile
per tutti; ne ricaveremmo un senso di appartenenza e soddisfazione più diffuso.
E sarebbe un grande aiuto per la pratica spirituale, perché i doni distribuiti a ciascuno
non restino gelosamente chiusi nella persona, ma siano posti al servizio della comunità, a ciò
destinati dallo spirito che li elargisce, come ricorda Paolo nella sua prima Lettera ai Corinzi.
Febbraio 2003
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IL CAMMINO DELL’UOMO
Da una conferenza del 1947, di Martin Buber, ed. Quiqajon - Comunità di Bose
L’autore parla dell’uomo e del suo rapporto con se stesso, con gli altri uomini, con il mondo e
con Dio, con preoccupazione pedagogica.
Buber si rifà ai noti racconti chassidici, di profonda spiritualità ebraica, di cui lui stesso è
un notissimo divulgatore (vedi “I racconti dei Hassidim” ed. Guanda o Garzanti); essi narrano
in modo leggendario di uomini appassionati, gli zaddikim (tradotto in “coloro che hanno
provato ad essere giusti” – il movimento chassidico è il movimento degli entusiasti, dei fedeli
all’alleanza) che vissero nell’Europa orientale nel periodo dal 1700/1750 in poi.
Il proposito spirituale dei racconti è quello di trasmettere entusiasmo e fervore
in ogni pratica quotidiana.
Il libro è diviso in sei brevi capitoli. Incomincia con: “Ritorno a se stessi” che presenta il
racconto di un uomo che desidera conversare con un rabbino provando a smascherare una
contraddizione nelle credenze ebraiche. Come interpretare che Dio dica ad Adamo: “Dove sei?”
chiede l’uomo. “Credete che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le
generazioni e tutti gli individui?” chiede a sua volta il rabbi. “Sì, lo credo” risponde l’uomo.
“Ebbene” continua il rabbino “in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo
mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin
dove sei arrivato nel tuo mondo?’”
Non si creda che tale dialogo tratti un tema rivolto solo a persone credenti. Ciascuno
può trovare in se stesso queste domande in molti momenti della sua vita. Sono le domande
decisive per il cammino interiore.
In questo modo, quella che è iniziata come una chiacchierata chiarificatrice, più
intellettuale, che impegnata profondamente e spiritualmente, porta l’uomo che domanda, e si
aspetta una risposta da un ‘esperto’, a trasformarsi in un uomo che si interroga e che cerca in
sé la risposta: “Dove sei nel tuo mondo? Cosa nei hai fatto dei tuoi giorni?” Ecco l’intento
formativo del ‘maestro’: non nasconderti, non ti dichiarare impotente, cammina, cerca, anzi
‘cercati’. Nel mondo futuro non ti si chiederà “Perché non sei stato Mosè?” bensì: “Perché non
sei stato te stesso?” Perché non sei stato Mario, Anna, Loredana, Carlo … ? E’ un invito ad
essere un originale, unico testimone di vita, autentico, consapevole che la trasformazione del
‘mondo’ (inteso anche come ambiente vicino a sé) può avvenire soltanto attraverso la propria
lenta trasformazione, piccola in apparenza, ma fondamentale. E’ un invito ad essere unità, un
tutt’uno corpo e spirito, a realizzare la propria ‘sacralità’. Qui ‘anima’ ha lo stesso significato di
‘uomo intero’, corpo e spirito fusi assieme.
Il rabbino non ‘spiega’, ma riporta l’uomo che lo interpella ad una riflessione su di sé, lo
invita all’esperienza. Non prendere tante scorciatoie, sembra voler dire; la domanda che il
saggio rinvia all’interlocutore è provocatoria, ma può permettergli di raggiungere la
comprensione di sé e, conseguentemente, il passo biblico. La domanda ‘ribaltata’ può turbarlo,
rendere inutile il suo nascondimento, le sue difese intellettualistiche e razionali e far nascere in
lui il desiderio di ‘venire fuori’ e di mostrare la sua unicità.
Può anche avvenire però che l’uomo voglia proseguire facendo finta di nulla, poiché egli
è capace di dominare le emozioni del cuore. “Indubbiamente, quando questa domanda
giungerà all’orecchio, a chiunque ‘il cuore tremerà’, come succede all’uomo del racconto.” …
“La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo: è ‘la
voce di un silenzio simile a un soffio’, ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita
dell’uomo non può diventare cammino.”
Adamo, nel passo biblico, mostra di ascoltare la voce e di affrontarla, tanto che
confessa “Mi sono nascosto”. Riconoscerlo è pertanto un passo decisivo.
Il capitolo “Il cammino particolare”, inizia con un altro racconto chassidico in cui un
allievo interroga il proprio maestro su quale cammino debba compiere. E il maestro gli ricorda
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che: “… E’ compito di ogni uomo conoscere bene verso quale cammino lo attrae il proprio cuore
e poi scegliere quello con tutte le forze.”
Non occorre imitare i maestri più grandi, bensì cercare il nuovo, ciò che resta ancora da fare:.
“Ogni singolo uomo è cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in
questo mondo.” …“l’uno quella dell’amore, l’altro quella della forza, il terzo quella dello
splendore.”… “Siamo qui in presenza di un insegnamento che si basa sul fatto che gli uomini
sono ineguali per natura e che pertanto non bisogna cercare di renderli uguali.”
E’ possibile raggiungere ciò che c’è di prezioso in ognuno di noi e in nessun altro, se vi
sono schemi sociali che tendono soprattutto ad omologare, a livellare, a rendere simili, o
‘normali’?
“La nostra autentica missione in questo mondo in cui siamo stati posti non può essere in alcun
caso quella di voltare le spalle alle cose e agli esseri che incontriamo e che attirano il nostro
cuore: al contrario, è proprio quella di entrare in contatto, attraverso la santificazione del
legame che ci unisce a loro …”
Nel capitolo sulla “Risolutezza”, veniamo messi in guardia dal camminare a zigzag nella
nostra interiorità; l’andirivieni, l’avanzare e indietreggiare, gli inciampi, i ripensamenti possono
essere frequenti: ci si accorgerà di sentirsi impotenti, contraddittori, complicati. Ciò avviene
perché non siamo unificati, ma molteplici e ‘sfilacciati’. Né l’ascesi può provocare unificazione:
può purificare, concentrare, ma non può proteggere l’anima dalle sue contraddizioni. Né
l’unificazione dell’anima può mantenersi definitivamente.
Però ogni cosa che si fa con animo unificato aiuta a raggiungere un’unificazione più
elevata, finché “si giunge a un punto in cui ci si può affidare alla propria anima perché il suo
grado di unità è ormai così elevato che essa supera le contraddizioni come per gioco. Anche
allora, naturalmente, è opportuno restare vigilanti, ma è una vigilanza serena.”
Nel capitolo “Cominciare da se stessi” la pedagogia di Buber si rifà ad un racconto
chassidico nel quale un Rabbi di nome Isacco è in conflitto con la moglie che per lui
rappresenta una fonte di tribolazione. Consulta allora il suo maestro Rabbi David per chiedergli
se deve opporsi o meno a sua moglie. E questi gli risponde: “Perché ti rivolgi a me? Rivolgiti a
te stesso!”
“Questo racconto” scrive Buber “tocca uno dei problemi più profondi e più seri della
nostra vita: il problema della vera origine del conflitto tra gli uomini.” Di solito spieghiamo le
manifestazioni del conflitto con i motivi riconosciuti coscientemente dagli antagonisti, oppure
descrivendo situazioni e processi oggettivi nei quali le due parti sono implicate; ancora si
cercano i processi inconsci, considerando i conflitti come sintomo di una particolare ‘malattia’
interiore. “L’insegnamento chassidico … rimanda la problematica della vita esteriore a quella
della vita interiore. Ma ne differisce in due punti essenziali …” “… non tende ad esaminare le
difficoltà isolate dell’anima, ma ha di mira l’uomo intero.” La separazione di alcuni elementi o
processi parziali impedisce la comprensione della totalità, e solo questa comprensione può
portare ad una trasformazione e ad una reale ‘guarigione’ prima dell’individuo e poi del
rapporto tra lui e gli altri.
Ciò non impedisce che i dettagli siano presi in considerazione, ma nella loro connessione
vitale con l’unità. L’uomo è sollecitato a ‘rimettersi in sesto’ rendendosi conto che “le situazioni
conflittuali che l’oppongono agli altri sono solo conseguenze di situazioni conflittuali presenti
nella sua anima e che quindi deve sforzarsi di superare il proprio conflitto interiore per potersi
così rivolgere ai suoi simili da uomo trasformato, pacificato, e allacciare con loro relazioni
nuove…”
Per sua natura l’uomo cercherà di eludere questo passaggio, pretendendo che anche
l’altro attore del conflitto faccia la sua parte. “Ma in questo modo l’uomo è soltanto un
individuo di fronte al quale stanno altri individui e non una persona autentica la cui
trasformazione contribuisce alla trasformazione del mondo.” E’ proprio questo errore che
l’insegnamento chassidico cerca di correggere. “Quando l’uomo ha trovato la pace in se stesso,
può mettersi a cercarla nel mondo intero.” Ma bisogna desiderare profondamente la svolta, la
trasformazione, soltanto così l’uomo può ritrovarsi.
Se il conflitto con gli altri ha sempre la radice in se stessi, solo nel “ritorno”, con una
svolta di vita, si può raggiungere l’autentica apertura della relazione IO-TU. Solo con un
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cammino personalissimo, perseguito risolutamente; ma a quale scopo ‘ritornare’, unificarsi,
identificarsi? Non per se stessi, ma per gli altri, per il mondo. E’ vero che la ricerca interiore
potrebbe far temere risvolti egoistici, un’esasperata torsione il cui centro potrebbe restare l’IO.
Ma non lo si potrebbe certamente chiamare ‘cammino’, laddove è evidente che ciascuno di noi,
ciascun IO, se non si mette in relazione con un TU, un altro da sé, resta esiliato nel suo
egocentrismo.
Si arriva pertanto al quinto capitolo: “Non preoccuparsi di sé”. “Cominciare da se stessi,
ma non finire con se stessi; prendersi come punto di partenza, ma non come meta; conoscersi,
ma non preoccuparsi di sé.” Durante il ‘ritorno’ può succedere di pentirsi per il ‘male’ provocato
che si riesce a riconoscere, ma il ‘ritorno vero’ non si ha nella fustigazione del proprio spirito
pensando incessantemente di avere assai poco espiato.
Riconoscere i propri limiti, mantenere il desiderio di migliorare, di correggersi, ma dedicarsi
piuttosto ad “infilare perle per la gioia del cielo!” è l’invito e la meta determinante per l’uomo.
Ma dove sviluppare tutto questo? “Là dove ci si trova” è la conclusione. “La maggior
parte di noi giunge solo in rari momenti alla piena coscienza del fatto che noi abbiamo
assaporato il compimento dell’esistenza, che la nostra vita non è partecipe dell’esistenza
autentica, compiuta, che è vissuta per così dire ai margini dell’esistenza autentica. Eppure non
cessiamo mai di avvertire la mancanza, ci sforziamo sempre, in un modo o nell’altro, di trovare
da qualche parte quello che ci manca. Da qualche parte, in una zona qualsiasi del mondo o
dello spirito, ovunque tranne che là dove siamo, là dove siamo stati posti: ma è proprio là, e
da nessun’altra parte, che si trova il tesoro. Nell’ambiente che avverto come il mio ambiente
naturale, nella situazione che mi è toccata in sorte, in quello che mi capita giorno dopo giorno,
in quello che la vita quotidiana mi richiede: proprio in questo risiede il mio compito essenziale,
lì si trova il compimento dell’esistenza messo alla mia portata.”… “E’ qui, nel luogo preciso in
cui ci troviamo, che si tratta di far risplendere la luce della vita divina nascosta.” … “Nessun
incontro – con una persona o una cosa – che facciamo nel corso della nostra vita è privo di un
significato segreto … da questi piccoli incontri, a cui noi diamo ciò che spetta, sgorga, giorno
dopo giorno, un’acqua di vita che irriga l’anima.”
Dicembre 2006
L’ARTE DI ASCOLTARE
di Plutarco Ed. Oscar Mondadori (Ovvero l’ascolto quotidiano)
Ci sono piccoli libri come questo “sempre verdi”, sempre attuali perché parlano
dell’uomo e delle difficoltà che in ogni tempo deve affrontare.
Plutarco di Cheronea, filosofo ed educatore greco, lo scrive attorno al 90 d.C. e lo
indirizza ad un giovane che sta per accostarsi agli insegnamenti filosofici, dopo quelli che oggi
chiameremmo gli studi secondari.
L’autore è convinto che la virtù si possa insegnare, che non sia un concetto
astratto, ma l’armonia e la misura della vita. Non si tratta di una disposizione eroica in poche
anime elette, ma è il frutto di un progressivo formarsi della coscienza morale. C’è una via da
seguire, lunga e impegnativa, scandita da tappe obbligate, la prima delle quali è la conoscenza
di sé, dei propri vizi e difetti, delle proprie passioni. E i mali dello spirito sono più insidiosi di
quelli fisici, poiché è più difficile averne coscienza; la filosofia è medicina per l’anima, riporta
Giuliano Pisani nel commento che accompagna il testo di Plutarco. E l’arte di ascoltare non è
una meta irraggiungibile.
“E la natura, si dice, ha dato a ciascuno di noi due orecchie ma una lingua sola,
perché siamo tenuti più ad ascoltare che a parlare.”
Partendo da questa semplice evidenza naturale, Plutarco enuncia principi pedagogici di
grande importanza e di straordinaria modernità, con una semplicità di linguaggio coinvolgente.
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Nel nostro animo siamo capaci di trovare grande apertura e generosità, ma anche fragilità ed
egoismo. Come dare risalto alle potenzialità migliori e come affrontare le debolezze attraverso
l’ascolto?
Plutarco suggerisce di fare attenzione agli impulsi ed alle azioni che nascono da
immaturità e da falsi ragionamenti. “I più … sbagliano perché si esercitano nell’arte del
dire prima di essersi impratichiti in quella di ascoltare.” L’invito è a guardare in se
stessi, partendo da situazioni di dialogo o di partecipazione a discorsi o a lezioni. Nella parola
infatti sono insiti danni e vantaggi grandissimi. L’arte di ascoltare e quella di parlare vanno
attuate con impegno, senza improvvisazione e con misura.
“I buoni educatori rendono sensibili alle parole le orecchie dei ragazzi insegnando loro a
non parlare molto, ma ad ascoltare molto.” “Il silenzio … è ornamento sicuro … in ogni
circostanza” ma in particolare porta ad evitare di agitarsi o di abbaiare ad ogni affermazione
(dell’interlocutore) e anche se il discorso non è troppo gradito, (l’ascoltatore) pazienta e
attende che chi sta dissertando sia arrivato alla conclusione … Chi si mette subito a
controbattere finisce per non ascoltare e non essere ascoltato.”
Il giudizio va prima trasferito da chi parla a noi stessi, è il monito di Plutarco, per
ascoltarci e valutare se anche noi non cadiamo inconsciamente in qualche errore dello stesso
genere. La domanda da farsi è: “Sono forse anch’io così?” In questo modo la risonanza di ciò
che l’altro ci rimanda, aiuta ad ascoltarci. Inoltre si può trarre profitto sia dai buoni che dai
cattivi discorsi: “Non è difficile muovere obiezioni al discorso pronunciato da un altro, anzi è
quanto mai facile; ben più faticoso invece, è contrapporne uno migliore.”
Occorre quindi immergersi e coinvolgersi nel discorso, i cui “esiti felici” non dipendono
dalla fortuna, ma sono frutto di applicazione, di duro lavoro e di lunga osservazione. Insomma
occorre farne esperienza nel modo più pieno. Come disporsi all’ascolto con partecipazione?
Come e quando porre domande all’interlocutore? Come accogliere un rimprovero e come
reagirvi? Cosa attendersi dal discorso di una persona?
Sono altri dei molti argomenti de “L’arte di ascoltare”, testo semplice ed arguto che non
suggerisce mai atteggiamenti denigratori, né facilmente inclini all’ammirazione, ma nemmeno
invita ad essere ingenui e succubi. Un buon ascolto non è quello che subisce le parole
altrui, ma vi porta rispetto e tuttavia cerca di esercitare una critica attenta e severa
dell’utilità e della veridicità di quanto è detto, ascoltando anche i propri limiti, assieme ai
punti propositivi e all’umanità altrui; una testimonianza quindi di un uso “altro” delle nostre
possibilità psichiche, di determinazione dei valori, un invito a vivere con dignità l’ascoltare e il
dire.
La somiglianza delle nostre fatiche nei rapporti con noi stessi e con gli altri rispetto a
quelle presentate dall’autore, così lontane nel tempo, fanno risultare il testo molto
interessante. Molte di più sono oggi le sollecitazioni al “non ascolto”, forse proprio,
paradossalmente, perché le parole e le immagini che udiamo e vediamo sono così tante che
possono creare una sorta di ingorgo mentale e togliere quel respiro interiore che possiamo
ritrovare prendendoci spazi di comprensione e tempi più ampi e più lenti di quanto la “corsa
quotidiana” permetta se l’assecondiamo.
Quante volte udiamo discorsi che si rifanno a luoghi comuni poco meditati attraverso
l’esperienza? Quante parole arrivano come schiaffi o come sassate alle nostre orecchie perché
pronunciate frettolosamente? Che fare? Possiamo ancora leggere le ultime righe dello scritto di
Plutarco che raccomanda, non di attenersi alla lettera delle sue riflessioni, ma di “…
esercitarsi nella ricerca personale, per acquisire un abito mentale … profondamente
radicato e filosofico, considerando che il saper ascoltare bene è il punto di partenza
per vivere secondo il bene.”
Gennaio 2007
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LA FORMA DELLA VITA
di Cesare Viviani, ed. Einaudi (Un invito alla lettura del libro di poesia di Cesare Viviani,
poeta di quarantennale esperienza, ritenuto figura di grande rilievo nella poesia del secondo
novecento; Mondadori gli ha dedicato un’antologia per gli ‘Oscar Poesia del ‘900’ due anni fa.)
Saper dipingere con le parole era il sogno dell’autore; provarsi ad eguagliare la fortuna
dei pittori “di entrare in una cappella o in una stanza di palazzi patrizii e di lavorare per anni ad
affrescarle.” Ed ecco le sue ‘pennellate poetiche’. Viviani ha iniziato ad “affrescare” alcune
scene comuni di vita negli ultimi cinque anni: “i tempi di permanenza in una stanza”. Il poeta li
descrive come i tempi utili per vivere un’intensa esperienza “coniugata con la durata e la
distanza giusta dal fuoco per sopravvivere alla prova e mantenere la forza inventiva, e con
l’umiltà di un’esperienza che occupa per lungo tempo la vita costringendola a quella verità che
è la concentrazione in un solo interesse, in un solo punto”.
In questo ‘luogo’ Viviani presenta al lettore molte persone, chiamandole con nome e
cognome, “attraverso le frasi semplici, quelle più presenti nei dialoghi quotidiani” per
rappresentarne i molti modi di pensare, di vivere, di amare, di parlare delle proprie fatiche. La
sua penna/pennello rappresenta immagini che si fanno scoperta, ma anche situazioni note
della vita comune.
La narrazione poetica è tesa a tratteggiare, non già i connotati esteriori delle persone
ritratte, bensì quelli interiori, cioè le caratteristiche psicologiche di personaggi e situazioni; ogni
esistenza esplorata è estratta dalla “massa” umana, portata alla luce con una capacità di
sintesi, di ironia e di arguzia magistrali, qualità del resto ben note nella sua scrittura. Nello
stesso tempo al suo pensiero poetico non manca mai la preoccupazione, la compartecipazione,
la compassione per il ‘cuore’ della gente, caratteristica della ricerca di vita dell’autore, poeta e
psicanalista; così queste persone (una settantina) si sfiorano tra di loro, si affiancano, passano
oltre. Perché darsi tanta pena? “C’è il tempo dell’azione, non c’è / lo spazio della riflessione”.
Allora questa scrittura permette di ritrovare capacità di osservazione, tempi più lunghi di
riflessione e di consapevolezza.
Viviani è stato molto vicino a un grande maestro del Novecento, Mario Luzi, e nella sua
opera sembra applicare e condividere quanto Luzi scriveva ne “Le parole agoniche della poesia”
edito da Alfabetica. Egli diceva che funzione del poeta è di preservare il senso della parola
“attraverso un mondo che fa di tutto per alienare l’uomo, alienando anche le parole dell’uomo,
svuotandole e declassandole a puro segno, puro lemma o fonema senza più significato. Può
accadere allora che la parola sia astratta e non abbia più dentro di sé il caldo della sostanza
della cose che dovrebbe nominare: perché l’uomo le sue cose le nomina, volendole e amandole
dà loro il nome.” Ciò che diciamo e facciamo riporta alla nostra forma interiore, ricca o
limitata; vale quindi la pena di porvi molta attenzione.
Scrive Viviani: “Una gioia molto intensa è temuta / perché può spazzare via ogni
interesse / per le cose pratiche, i compiti, gli impegni presi. / Si aggirava una donna per le
periferie, / felice di avere tanto amato, indifferente / a ogni richiesta, insensibile a qualunque
affare: / lei aveva appreso la scienza delle scienze, / il sapere più vero, quello che è inscritto /
nel flusso del sangue, nelle funzioni degli organi.”
Possibile che si arrivi ad allontanare la “gioia”? C’è da dubitare di se stessi! Eppure
”..l’immersione nell’attività / fa perdere la capacità di amare, / perché anche l’amore diventa
un affare.”
La sua parola poetica non è consolatoria, ma riguarda tutti e la comune fatica del
vivere. Non offre rime, come abitualmente potrebbero essere intese – questo poema è molto
vicino alla prosa - ma offre ritmi e musicalità; e se la ritmicità è piuttosto tesa nel corso della
narrazione umana, essa pare invece distendersi quando le parole descrivono panorami
naturali, quieti e accoglienti dell’esistenza, come forse soltanto la natura può fare, se non
manipolata: “Il vento porta via parole come ‘possedere’ “.
Sembra peculiare di questo poema la combinazione della ricerca artistica con quella
filosofica, sociologica e psicologica – ed anche storica; se tra venti anni ci si chiedesse come
21
eravamo alla fine del ‘900, questo libro potrebbe fornire molti indizi sul panorama delle
relazioni, dei desideri, dei luoghi comuni, della religiosità, del rapporto con il lavoro, con gli
affari; un tentativo di cogliere una coralità di un’epoca il cui sviluppo è collocato soprattutto
nella città di Milano.
E se il titolo, “La forma della vita”, poteva apparire desideroso di definire una “forma”
per tutte, ci si rende ben presto conto che “la forma” sfugge continuamente, si immerge nelle
“tante forme”, che le molte pennellate, le molte sintetiche forme, rimandano alle infinite
sfaccettature “della vita”, senza l’intento di esaurirle.
Anzi, favoriti da tanta ricchezza, è forse possibile praticare un esercizio: partendo
dall’esempio dei testi di Viviani, si può continuare ad osservare e a delineare altri ritratti, altre
forme, a dipingere quella vita di cui siamo parte. Se ‘il mondo è bello perché è vario’, esso è
Aprile 2007
anche materia di studio appassionante.
Il bosco dice se stesso: si dice
come sottile pellicola di verde che ricopre
la terra e che sopra ha l’infinito dell’aria,
della luce.
Lègge il sole la terra, la terra il sole,
corre il lettore verso la fine.
Si dicono gli alberi, le foglie, i massi del
monte
una storia senza la fine, senza fine:
una storia senza le parole, o dove le parole
non dicono la storia ma cadono di continuo
come le foglie.
Ogni giorno che passa senza una guerra
presente,
sarebbe da festeggiare la pace
con riti di ringraziamento.
Altrove si continua a combattere:
come se il Dio sconosciuto di ciascun popolo –
non quello riconosciuto e pregato –
fosse lui a combattere, a spingere
irresistibilmente l’uno contro l’altro.
Oscure divinità si combattono,
mettono in campo gli uomini.
I residenti non capivano niente
della presenza degli immigrati, niente
E oggi la violenza più temuta
della loro vita e si chiedevano:
non è quella contro le persone, è quella
contro i beni di proprietà, i soldi, gli oggetti: “Ma cosa ci fanno qui questi stranieri?”
In fondo al cuore provavano ribrezzo,
perché rappresentano la vita, la fatica del
ostilità, si sentivano invasi.
vivere,
Fioccavano i luoghi comuni: “Il tempo
lo sforzo del lavoro e del guadagno,
in cui si poteva stare in casa con la porta
sono la vita, ahimè è tutta lì la vita!
aperta” / o “Sono fannulloni, venuti qui
solo per rubare”.
Richiede più attenzione il nemico
Ma c’erano anche coloro che, sapendo che
che l’amico – per quanto il primo è
siamo
aggressivo,
tutti figli di Dio, si fermavano a parlare
nocivo e portatore di morte.
con loro per strada, a sorridere,
Richiede più affezione: più intenso
l’animo che gli si dedica. Per questo motivo – e tornavano a casa compiaciuti di quella sosta.
Si illudevano di capirli –
pensava Michele – uno guasta le amicizie,
Mentre non si capiva più nessuno ormai,
comincia a sentire ostili le collaborazioni,
nemmeno i più vicini, i figli, perché non si
spezza gli amori: per risuscitarli.
riusciva
che a considerare e a sentire i propri bisogni.
Non c’è storia d’amore memorabile
quanto una storia di amicizia profonda,
Alfredo Galli non sopporta i poveri,
perché non la familiarità o la riconoscenza,
non sopporta i ricchi, né la modestia
ma il sentimento di parità tra due amici
insinuante degli uni, quello strisciare
è il più soave e potente, è ineguagliabile.
che non si arresta di fronte a niente, né la
sicumera
intollerante degli altri, quel rifugiarsi
Oh pensare e giudicare gli altri
nell’orgoglio di fronte a qualunque
secondo la propria esperienza!
condivisione. Non sopporta
Ma sì, non si può fare appello che alla
i clienti, e nemmeno la vecchia donna delle
propria,
pulizie. / E deluso
risponderanno i lettori che hanno sempre
si conforta con il pensiero delle sue collezioni.
mirato / al possesso dell’esperienza.
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ASCOLTARE LA ‘PAROLA’
LA DOMENICA E’ FESTA!
“Senza la domenica non possiamo vivere” è il titolo del Congresso Eucaristico
Nazionale che si è tenuto a Bari nel maggio 2005. La vita pratica dovrebbe prendere stimolo
dalla vita spirituale.
(Sul tema dello Shabbat (nome ebraico per indicare il Sabato Santo, per il calendario
gregoriano e per i cristiani, la Domenica), riporto alcuni appunti delle lezioni tenute da André
Wénin, docente di Antico Testamento e di lingue bibliche della Facoltà di Teologia della
Università cattolica di Lovanio (Belgio), a Bose, comunità monastica ecumenica, agosto 2004.)
Nelle dieci Parole del Decalogo (Comandamenti o Legge), il RIPOSO è centrale. Perché?
Vediamo in Es 20 e in Deut 5, nel quale sono riprese, che Dio ci interpella dandoci del
TU, un modo che riporta ad una vicinanza, ad una confidenza, e le Parole servono proprio per
invitare a non fare cose contro la propria libertà, prima che contro Dio. Infatti esse sono offerte
a un popolo libero di scegliere se aderirvi oppure no, non a uomini inermi o plagiabili.
“ Sei giorni servirai e farai tutta la tua opera; ma il settimo giorno è Shabbat, per
Adonai tuo Dio: non farai alcuna opera, tu e tuo figlio e tua figlia, il tuo servo e la tua
domestica …” (Es, 20, 9-10); fa seguito il rimando a ciò che lo stesso Dio ha fatto dopo aver
creato il mondo, descritto in Gen 2, 2: “Allora Dio … cessò nel settimo giorno da ogni suo
lavoro.” Il Signore si ASTIENE.
Precedono e seguono questo precetto, altre Parole che vietano, oltre alle opere, anche i
sentimenti come la concupiscenza, la bramosia, ossia il desiderio umano che rifiuta il LIMITE;
con esse si indicano concretamente le strade per restare nell’alleanza alla quale siamo stati
invitati da Dio stesso.
Con lo Shabbat si sospendono quindi le opere, si frena la cupidigia: si accetta di perdere
ciò che il proprio lavoro potrebbe dare, non solo in denaro, ma anche in fierezza, orgoglio per
un’attività ben svolta. E colui che dà lavoro rinuncia al potere che esercita su altri, non fa
lavorare. Quindi le Dieci Parole pongono dei “paletti” nei rapporti con il prossimo. Il Faraone
invece faceva lavorare senza ricompensa e senza sosta gli schiavi israeliti, si prendeva tutto il
loro spazio e il loro tempo.
Dio manifesta la volontà di liberare gli Israeliti dalla schiavitù sottoposta a tale
onnipotenza ed essi acconsentono. Non praticare il “limite”, riconosciuto nell’ASTINENZA dalle
opere, come fece Dio dopo la creazione, evidenzia che il proprio dio è il Faraone o Baal, un dio
che serve la bramosia del fare e del consumare.
“Non farai per te alcuna immagine scolpita, e nessuna forma che è nei cieli lassù …” (Es
20, 4). Questa Parola mostra che con l’idolatria c’è una stretta connessione: l’idolo è qualcosa
che posso fare con le mie “mani” e quindi è rapportabile anche alle opere, al frutto del proprio
lavoro, nel senso che si assolutizza la propria opera, non ci si ferma, si “serve” il proprio lavoro
fino a divenirne schiavi, anziché armonizzarlo con le altre cose della vita. Si origina così una
catena schiavista; facilmente chi è schiavo del proprio lavoro arriva a schiavizzare anche gli
altri. Si produce, si compra. Così facendo si placa la propria angoscia di morte.
Dio invece ha creato l’uomo a sua immagine (Gen 1, 26-31), affinché domini sui pesci,
sui volatili, sulle bestie e sui rettili e lo ha invitato a nutrirsi dei frutti degli alberi e dell’erba che
produce seme, a proseguire, benedicendolo, verso una qualità di vita (siate fecondi), verso una
quantità (moltiplicatevi, riempite la terra). Non ha trattenuto le chiavi della vita nelle sue mani.
Ad imitazione di Dio pertanto si faranno le opere, ma si osserverà anche un momento di
SEPARAZIONE, dominando le proprie potenzialità, per non invadere il proprio spazio, né quello
altrui, perché Dio separandosi ha rivelato che la sua onnipotenza è capace di farsi mitezza,
Luglio 2005
clemenza, moderazione. Potrebbe disporre di tutto il POTERE, ma se ne ASTIENE.
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IL LAVORO: ASPETTI BIBLICI
Note dal fascicolo di meditazione redatto dal monaco Luciano Manicardi
Nel seguire le tanti voci che intervengono e si interrogano sul LAVORO (lavoratori,
imprenditori, sindacati, politici, giuristi, opinionisti ecc.), ho incontrato il pensiero di un monaco
della Comunità di Bose, Luciano Manicardi, che, dopo aver tenuto una conferenza a Biella sul
tema del lavoro e dei suoi aspetti biblici, ha riversato le sue meditazioni in un breve fascicolo.
L’autore avverte nell’introduzione “che non possiamo trasferire di peso le nostre
problematiche e le nostre tematiche moderne direttamente sul testo che è stato prodotto più di
duemila anni fa all’interno di una cultura e di una visione del mondo nelle quali il lavoro non
aveva la stessa importanza, la stessa funzione, la stessa configurazione che ha per noi oggi.
“[…] La Bibbia, d’altra parte, non affronta il lavoro come tema a se stante […] ma solo in
quanto parte dell’esistenza umana […].” Il contributo biblico non sarebbe da intendersi sul
piano sociologico, bensì su quello dell’antropologia teologica.
Tuttavia il percorso attraverso il quale Manicardi conduce il lettore è ricco di stimoli che
possono essere “ascoltati” in rapporto alla vita di oggi, nella quale il lavoro presenta aspetti
molto critici. Il lavoro è una dimensione fondamentale nella vita di ciascuno per l’identità,
l’autonomia e la dignità personale che può fornire e per la stabilità che può agevolare
nell’individuo; così anche un punto di vista spirituale può offrire spunti e riferimenti di qualità,
che si professi o meno una religione.
“La Bibbia”, sottolinea ancora l’autore, “più che fornire una dottrina del lavoro e un’etica
del lavoro, consegna all’uomo una vocazione accogliendo la quale egli può liberarsi
dall’alienazione prodotta dal lavoro così come dall’ozio. Indica la via per una liberazione non
tanto dal lavoro, quanto del lavoro, affinché sia a servizio dell’umanizzazione dell’uomo.”
Ma come definire oggi il lavoro? “’Lavoro’ designa qualsiasi attività, il darsi da fare? O
l’attività faticosa, che esige uno sforzo? O l’attività socialmente utile, che ha una ricaduta sul
bene comune? O l’attività che procura il sostentamento economico per vivere? O l’attività
svolta per conto terzi e compensata con un salario? O l’attività personale e/o collettiva,
manuale e/o intellettuale con cui l’uomo conosce il mondo e, nello stesso tempo, realizza se
stesso nel contesto delle relazioni con gli altri?”
Affrontando la lettura della Bibbia, appare subito evidente, fin dalla Genesi - il primo dei
libri biblici - che è Dio stesso a dare esempio di lavoro: agisce nella creazione e nella
liberazione del mondo e dell’uomo, non solo con la parola, ma anche con il fare, “il fare di Dio
accanto al suo parlare”, la sua parola è efficace e “performante”; egli opera e lavora per
l’uomo. “Il Dio che lavora per l’uomo è il Dio padre, il Dio che ama l’uomo e che non lo vuole
schiavo, ma figlio, non muto esecutore, ma libertà dialogante.” C’è molta differenza con il dio
ozioso di altre religioni dell’antichità che avevano creato l’uomo per essere sgravati dai lavori di
cui si sarebbero dovuti occupare loro stessi.
Ne potrebbe allora derivare, a un livello antropologico riferibile anche alla cultura
odierna, “che il lavoro non deve togliere voce e parola al lavoratore, altrimenti diventa un idolo
che toglie libertà all’uomo. Il lavoro che toglie fiato, alito, voce e parola all’uomo è lavoro
alienante […] Un lavoratore ridotto al mutismo, che non ha più fiato per respirare, è un uomo
ridotto alla schiavitù.” E che “il lavoro non può occupare tutto il tempo dell’uomo”; anche così
diventerebbe idolo e asservirebbe l’uomo, che ha bisogno invece di ritmi vivibili; inoltre il
riposo serve non tanto per riacquistare energie fisiche e ricominciare a lavorare, ma perché
l’uomo rimanga tale e non si abbrutisca. Dicevano gli antichi: “il lavoro più importante e
più essenziale all’uomo è quello di divenire uomo.
Inoltre “Il Dio biblico non solo lavora, ma smette anche di lavorare, si riposa, respira.”
“Dal sabato biblico emerge dunque una valutazione critica della nostra sopravvalutazione
dell’attività, del tempo produttivo, dell’efficienza ad ogni costo. Non si dimentichi che i regimi
totalitari hanno conosciuto un’esaltazione dell’attività forsennata, della fatica estenuante
sopportata con eroismo, dell’utilità sociale e collettiva del superlavoro […]. Il messaggio biblico
sul lavoro ci interpella anche sulla nostra capacità di gioire, di fare festa, di riposare, di
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habitare secum, di vivere non alienati dai ritmi frenetici della vita quotidiana asserviti dagli
idoli dell’efficienza e della produttività, di contemplare e non solo di usare, di gustare e non
solo di gestire, di essere e non solo di fare, di creare e non solo di porci come funzionari a
servizio della tecnica, insomma sulla nostra capacità di gratuità.”
E’ come se lavorare e far festa non fossero antitetici, ma complementari; in questo
modo si evidenzia che le capacità umane non sono legate soltanto all’attività organizzativa e al
lavoro, ma anche alla capacità di godere del prodotto della propria opera e di cantare, danzare,
pregare, raccontare storie, insomma ciascuno dovrebbe poter sviluppare tutte le sue
potenzialità umane. “La festività è un fenomeno universale nella vita dell’uomo. E’ presente in
tutte le culture.” La fatica (sforzo, sudore, lotta, impegno) del lavoro sfocia così nella festa
popolare o religiosa. Quest’ultima è occasione per fare memoria delle opere che Dio ha fatto
per il suo popolo.
Convivono e si intrecciano quindi nel lavoro polarità positive e negative: la gioia e la
fatica, l’appagamento e lo sforzo. Ma anche giustizia e ingiustizia, liberazione e alienazione.
Nella Genesi è scritto che, dopo averlo creato, Dio consegna il mondo all’uomo e alla donna
perché lo abitino, lo esplorino, lo conoscano e lo rendano abitabile e lo custodiscano “bello e
buono” come è stato creato, per sé stessi e per chi verrà dopo, (non dice “soggiogare e
dominare” la terra; la traduzione dall’ebraico dei verbi ‘kavash’è camminare, esplorare, e del
verbo ‘radah’ è guidare, accrescere). L’attualità ci riporta quindi a due responsabilità: quella
ecologica – rendere la terra “casa” dell’uomo, quindi “responsabilità nei confronti del mondo e
degli altri uomini.”- e quella di rendere il tempo vivibile, non disumanizzante: “Non avere ritmi
e orari di lavoro schiavizzanti, alienanti”.
Ci sono poi passi biblici in cui c’è un richiamo alla consapevolezza dell’uomo sul fatto che
“il debitore o il salariato è una persona non ‘forza lavoro’, non ‘risorsa umana’ ”, oppure ci sono
passi in cui “si chiede giustizia nelle retribuzioni salariali facendo leva su elementi che cercano
di creare compassione e comunione” verso gli altri, in particolare verso i poveri e si condanna
“il lavoro che viene separato dalla persona umana venendo considerato fine e non mezzo.”
Nell’Apocalisse è condannato chi asserve il suo lavoro favorendo il potente di turno e
ricevendone in cambio vantaggi economici, così come il potente che richiede atti di
‘adorazione’, perché entrambi operano nella menzogna e nell’ingiustizia. Inoltre nell’Esodo
sono ricordate le ingiustizie patite fuori dalla propria nazione, la fatica per il lavoro e si
raccomanda di fare memoria di esse di fronte ai forestieri che saranno nel proprio paese per
lavorare, affinché la memoria dell’ingiustizia subita si tramandi dal padre e non diventi
vendetta per il figlio, ma comprensione.
“Il lavoro radicalmente liberato dalla menzogna è quello che paradossalmente, più che
produrre qualche cosa, toglie ogni ingombro perché l’immagine dell’uomo rimanga libera sì da
farsi pura accoglienza. Coniugando lavoro e giustizia appare anche la dimensione sociale del
lavoro e il suo essere ordinato alla solidarietà. Lì viene anche superata la possibile dicotomia
tra lavoro individuale e lavoro collettivo. Ogni uomo con il suo lavoro è importante per l’altro
nella costruzione della com-munitas.”
Cosa aggiungere poi sulla ripetitività che è connotazione principale della maggior parte
delle attività? Ripetitività è “occasione di approfondimento, di assunzione di competenza, di
specializzazione e di abilità, ma anche di noia, di fastidio, di stanchezza, di frustrazione.
Lavorare significa accogliere la limitatezza della condizione umana, la temporalità della
condizione umana, la corporeità della condizione umana. E anche la mortalità della condizione
umana: si lavora per vivere, ma il lavorare non ci libera dal morire. Anzi, possiamo dire che
una delle idolatrie più comuni dell’uomo sia quella dell’attivismo, del lavoro dissennato che
consente l’illusione dell’immortalità. E’ la tentazione dell’uomo che vuole darsi vita
moltiplicando il fare e l’operare, che si definisce in base a criteri di efficienza e di produttività.
Di fronte a questo rischio non vi è altra via che l’assunzione della limitatezza e finitezza della
condizione umana e dunque del lavoro.”
Il lavoro “è a servizio di una relazione, esso procura il cibo, dunque provvede al
sostentamento delle persone, alla loro vita. In questo senso il lavoro è a servizio del desiderio
dell’uomo che è desiderio di amore e di vita, di senso e di relazione. Il lavoro mi consente di
dare continuità e sostentamento a una relazione con la persona che amo, con la mia famiglia.
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E’ a servizio del senso che ho assegnato al mio vivere. La convivialità, il desco familiare è
luogo in cui la fatica del lavoro diviene festa domestica e manifesta in pienezza il suo essere a
servizio del desiderio dell’uomo […]”
Vivere con equilibrio il proprio oggi e quindi anche l’impegno lavorativo. Non lasciarsi
andare alla pigrizia e all’indolenza, ma nemmeno avere atteggiamenti idolatrici del lavoro.
Guadagnarsi da vivere per essere autonomi, essere maturi nel “mestiere di vivere”, che si
esprime anche nella capacità di lavorare in modo serio ed equilibrato. Lavorare per non rubare,
avere dignità e condividere con chi ne ha bisogno e non può farlo. Lavoro inteso pure come
dono e non solo come affermazione di sé. Nessuna idealizzazione del lavoro quindi, ma
nemmeno l’espiazione di una caduta originaria.
Dicembre 2007
Il portale della Chiesa in occasione della Decennale 2010
“Parola Pane di vita e Pane per la salvezza del Mondo”
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BEVERARA - ASCOLTARE E PRATICARE
LA FEDE NELLA LITURGIA
PARLIAMO DI LITURGIA…
E TROVIAMO UNA COMUNITA’ IN CAMMINO
“Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i
nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato […] noi
lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.” (1Gv 1,1-3)
Parliamo di LITURGIA con Antonio Baroncini, componente del Consiglio Pastorale e
della Commissione Liturgia, che accetta questa intervista, registrata e riorganizzata con il suo
avallo.
Antonio, pressoché ogni domenica e durante le messe solenni, presenzia e coordina
l’azione liturgica. Il dialogo tra noi comincia dalla presentazione di sé come “ragazzo di
Parrocchia”, con ricordi molto vividi sulla sua attività di chierichetto, di gioco e di studio: “La
Parrocchia è stata anche il luogo di ritrovo, degli amici, delle compensazioni, degli affetti, il
luogo dove nascondersi dalle paure e dalle insidie del mondo, il luogo dove fare le proprie
furbate, le proprie monellate, cioè il luogo della giovinezza.”
Conosce quindi a fondo, per averle vissute in prima persona, la storia e la vita
parrocchiale di questi ultimi quarant’anni e proviene da una famiglia molto religiosa. La
consapevolezza della fede? E’ un problema che non è si è posto subito; però fu senz’altro
rapito dalla fascinazione dei pastori che si sono succeduti alla Beverara! E dal nonno materno,
molto influente nella sua vita. Don Celso Ligabue è stato un punto di riferimento molto
importante per la sua crescita negli ultimi anni dell’infanzia, il primo prete incontrato alla
Beverara. Poi Don Nildo Pirani, Parroco di San Bartolomeo da trent’anni.
Fare il chierichetto, assistere il celebrante, per un dodicenne poteva essere anche un
modo per mettersi in mostra di fronte ai genitori, ai parenti, agli amici e alle ragazzine, ma per
quanto riguarda la consapevolezza della fede, Antonio ricorda di essere stato spinto da una
forte curiosità, di essersi posto sempre un’infinità di domande; nel tempo è diventato un
grandissimo appassionato di storia della Chiesa e vaticanista.
“Non mi sono mai abbandonato troppo al sentimentalismo e al misticismo - da ragazzo
intendo - e ciò che mi ha dato qualcosa è stata questa curiosità. Molte cose non mi tornavano
in quello che veniva mostrato come fede, molte cose non mi tornano a tutt’oggi; però in questi
anni ho guadagnato una certa consapevolezza; dovuta in gran parte a questa figura
inaspettata che proveniva da San Sigismondo, Don Nildo appunto, che si è rivelato un
autentico dono di Dio, sia dal punto di vista comunitario, sia dal punto di vista umano. E’
diventato una figura fondamentale della mia vita, nel tempo, in modi diversi, regalandomi un
dialogo molto complesso, relativo soprattutto al “fare sul serio” nella sequela di Gesù,
all’attenzione umana come fondamento dei rapporti, all’educazione alle scelte.
Don Nildo è sempre stato molto severo nel giudicare chi sta troppo in parrocchia. Chi
cresce all’ombra del campanile non si ciba della “pietanza” giusta rispetto all’audacia della
proposta del Vangelo; bisogna uscire dal proprio recinto e andare. La parrocchia non deve
sostituire altri momenti importanti della vita, ma deve esser qualcosa che si vive anche con
fatiche e poca voglia, luogo dove le cose importanti si fanno per scelta.“
Ti vedo sempre presente e attento a tutto quello che riguarda la liturgia.
“Adesso dopo molte metamorfosi e molti rivolgimenti, io aiuto nell’ambito della liturgia
e delle liturgie principali, in particolare aiuto la conduzione della chiesa, senza avere un
impegno fisso, perché collaboro con grande piacevolezza con Quirico Roberti che è il
sacrestano ufficiale. Non mi piace avere un ruolo ufficiale di capo o di altro. Ritengo però che
ogni mio gesto, ogni mio atteggiamento, soprattutto alla presenza della comunità, abbia
comunque un riverbero sulla comunità stessa, ben sapendo che la comunità è il primo grande
incontro con la reciproca testimonianza”
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Prima del nostro incontro ho letto parti del catechismo e dei documenti conciliari, interventi di
pastori della Chiesa su questo tema e a un certo punto mi è stato evidente che la Liturgia è un
modo per poter condividere, metterci in comunione, prendere quel cibo che è la parola, il corpo
e il sangue di Gesù per tornare alla fonte e poi ripartire, ciascuno verso la propria vita!”
“Hai riassunto cosa significhi parlare di Liturgia!
Essendo nato quarant’anni fa, io sono profondamente figlio, dal punto di vista intellettuale e
della fede, della teologia liturgica esposta dal Concilio Vaticano II, di cui la costituzione
dogmatica Sacrosanctum Concilium è il motore primo, e la prima pubblicata. La Liturgia è il
culmine e la fonte di tutta la vita cristiana, è ciò a cui tutto tende e ciò da cui tutto nasce,
perifrasi solo in apparenza inconciliabile. L’attenzione riservata alla Liturgia deve essere
fondamentale nella vita cristiana, è il momento in cui la comunità cristiana incontra
direttamente Cristo morto e risorto attraverso la Liturgia della Parola e la Liturgia Eucaristica,
due momenti assolutamente compenetranti e complementari. Gli aspetti comunitario e
partecipativo sono importantissimi e sono sentiti come tali nella nostra comunità, almeno per
quanto riguarda la predicazione e le intenzioni. Nella prassi è molto difficile da attualizzarsi. Da
noi la Liturgia è un momento creativo e partecipativo per eccellenza. Quando ci sembra che le
cose non funzionino, le sottoponiamo con rigore a riflessione, a consiglio e a indagine:
sappiamo che c’è ancora spazio per un ulteriore sviluppo nella cura del canto, del servizio e del
segno liturgico.
La Liturgia è importante anche quando non ci sono forme di partecipazione solenni. Il
nostro parroco del resto è figlio di una cultura liturgica attentissima; che non significa barocca,
ridondante, rituale, ma molto attenta ai segni, al rispetto, alla sobrietà, al significato delle cose
e molto attenta a togliere da questo ciò che è in più, ciò che potrebbe far nascere suggestioni
altre nell’animo delle persone e non già una totale adesione all’evento della Parola e all’evento
Eucaristico”
Il Concilio è proprio intervenuto per fare in modo che il fedele fosse più consapevole della sua
partecipazione; il parroco voltava le spalle ai presenti e la Messa era recitata in latino.
“Per aderire alla teologia della Sacrosanctum Concilium, si cerca una partecipazione
assoluta, anche una sclericalizzazione. Voglio dire: il celebrante ha un ruolo preciso,
importante, ma non è più l’unico asse portante e quando lo è, lo è perché parti della comunità
non riescono ad essere partecipative come dovrebbero. I passi da fare sono ancora molti. Per
esempio, il servizio liturgico, è attualmente quasi ridotto alle sole bambine; questo va a lode
delle stesse, ma a detrimento delle altre parti della comunità. Siamo decisi a proporre, come
dovrebbe essere, il servizio liturgico a uomini e donne di ogni età; tutti dovrebbero essere in
grado di servire la messa, cioè “di apparecchiare la tavola dove si va a mangiare assieme”.
Per quanto riguarda le letture, c’è la volontà di fare leggere quante più persone
possibili, ma tenendo presenti due altri fattori importanti: chi legge deve essere consapevole di
ciò che legge e deve saper leggere minimamente bene, ovvero farsi comprendere e saper
proclamare. Quindi essere attenti qui non significa che tutto sia fatto da tutti, ma significa fare
in modo che tutti possano partecipare secondo il loro carisma, secondo le loro qualità; fare in
modo che nessuno si senta escluso. E poi che tutti facciano “assieme”: quando ci si
inginocchia, lo si fa tutti, quando si ascolta, si ascolta tutti, quando si canta si canta tutti,
quando si risponde, si risponde tutti.
Durante la nostra Messa, a differenza di altre comunità, non si fanno altre cose, come le
confessioni, recita di rosari, accensioni di candele. Certo bisogna tener conto delle varie
componenti e delle abitudini delle persone. Io ricordo quelle che erano le costumanze
parrocchiali quando ero bambino e vedo come vanno ora. C’è stato un incremento di
consapevolezza. Le persone vengono a Messa volentieri e partecipando. Non sempre, non
comunque, non tutti, però c’è una bella partecipazione.
Poi la Liturgia è figlia anche di quelli che sono i modi di vivere delle famiglie e dei singoli. Per
cui fa le spese del week end, delle vacanze, del bel tempo. E qui bisogna che la comunità si
confronti con le necessità, o con quelle che sono ritenute tali, della donna e dell’uomo moderni.
La Chiesa necessita di un profondissimo cambiamento.
La parrocchia della Beverara, rimanendo silenziosa su molti argomenti, e parlando
invece con ugola possente su altri, e senza prendere delle posizioni non ortodosse, cerca di
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comprendere le esigenze e i conflitti dell’uomo moderno e della donna moderna, anche per
quanto riguarda i loro rapporti con la Liturgia.
Il sacramento della confessione è un sacramento assolutamente in crisi, non sentito,
che forse subirà nei prossimi decenni o secoli dei mutamenti. La confessione a tutti i costi è
cosa meno buona della confessione consapevole o dell’incontro personale e profondo con Dio.
E’ chiaro che questo discorso personale deve sempre essere confrontato con la comunità. La
lealtà con la comunità è fondamentale nell’essere cristiani. Non si può essere ambigui,
ambivalenti nei confronti dei fratelli che appartengono alla stessa famiglia e quindi è chiaro che
la confessione, come momento di rivelazione di sé al testimone della comunità, potrebbe
essere fatta anche a livello comunitario.
Da noi non c’è un momento preciso in cui la confessione viene effettuata, ma Don Nildo
è pastore assolutamente ortodosso e, per quanto estremamente progressista e avanzato, è
cercatore della verità e non va in nessuna cosa contro il magistero ufficiale della Chiesa.
Al tempo stesso ha un modo di porgere il magistero e la dottrina che privilegia
l’attenzione alla persona umana, piuttosto che l’attenzione al fatto dottrinale e basta. Ovvero
ciò che giustifica il fatto dottrinale e certe regole morali, comunitarie, liturgiche, dogmatiche è
innanzitutto l’uomo, soggetto principale dell’amore e dell’attenzione di Gesù. E’ questa la
visione profondamente umanizzata, antropologica e confrontata con la parola di Dio nuda e
semplice che ci è stata restituita dal Concilio Vaticano II.
Accanto alla Sacrosanctum Concilium, si pone poi un’altra grandiosa costituzione
conciliare, la Dei Verbum, che ha rivoluzionato completamente il modo di vedere la “parola di
Dio” e, al tempo stesso, di considerarla anche in ambito comunitario. La Parola è restituita alle
genti; la lettura diretta della Parola di Dio è fonte diretta di salvezza, di bellezza, di crescita, di
pace e di amore. Quindi è un momento particolare della Liturgia, tenuto in grande
considerazione, assieme all’Omelia. Secondo alcuni l’Omelia dovrebbe essere estremamente
spersonalizzata e didattica tout court: in verità la predicazione di Don Nildo è assolutamente
attenta a quella che è la parola letta in chiave umana – e pertanto accolta con attenzione da
parte di chi ascolta - ma non mistificata da sentimentalismi, da buonismi, da esempi a basso
prezzo, o da giudizi.”
Non c’è il foglio domenicale.
“E’ per favorire la dimensione dell’ascolto comunitario. Il foglio è un modo per distrarsi
più facilmente dalla Messa, per vedere quando finisce. Ma senz’altro la lettura che viene
proclamata deve penetrare attraverso la voce, la parola che viene spiegata deve penetrare
attraverso la voce.
L’ascolto implica una partecipazione più diretta. Io stesso ho i messalini, a volte seguo
leggendo, però mi sono imposto di ascoltare molto, quando ci riesco è molto più penetrante.
I segni devono essere segni veri.
Sempre si cerca di non fare mascherate. Tutto quello che si fa, lo si fa perché ha un senso e va
fatto con serietà. Che non significa seriosità, ovvero esibirsi e nascondersi in un ruolo preciso,
e usarlo più per scopi personali che per altro”
Vengono anche persone non credenti?
“E’ difficile parlare di non credenti oggi. Un tempo era un fatto contenuto nella sfera
dottrinale. Oggi il grande problema è che tutti in qualche modo credono e che pochi
partecipano fino in fondo a quello in cui dicono di credere.
La sete di Dio, di un Amore più grande di quello che vediamo con i nostri occhi è una
“nostalgia che è stata impressa dalle mani di Dio nelle rughe del nostro cuore” - per citare
Sant’Agostino - a cui difficilmente si resiste. Per quel che so la comunità che partecipa
all’evento liturgico è abbastanza variegata e la comunità della Beverara è una comunità
allargata, che non emargina nessuno.
Ho avuto discussioni, molto proficue per me, con Don Nildo su questo; è saltato fuori
che la nostra è una comunità che non si sente tradita ad accogliere con consapevolezza, anche
persone che, secondo certi dettami della Chiesa ufficiale, sono in difficoltà. La nostra comunità
deve fare del cammino, a cominciare da me, però è una comunità, nei fatti, che va molto oltre
quelli che sono i confini di una normale comunità parrocchiale.
Sono sempre molto di più le comunità che si trovano in queste condizioni.
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Resta il fatto che né il nostro parroco, né gli educatori, né coloro che fanno pastorale,
non hanno mai fatto dei proclami contro questa o quella cosa, pur avendo idee chiare e forti
nell’animo; evitare certi argomenti imbarazzanti ha fatto sì che non si facesse sentire alcuno
escluso”
Non mancano quindi manifestazioni di una certa fatica di vivere, di camminare nella fede, ma
dove uno stile attento e aperto può creare ricerca e confronto.
“Vivendo in Parrocchia ho imparato a non chiudermi occhi e orecchie di fronte a niente e
ad interrogarmi sempre su tutto. Resta il fatto che questa è una comunità che ha persone in
crisi e persone di successo, che conta anche esempi familiari insigni, però è anche la comunità
in cui coloro che sono nati nel 1966 come me e si sono sposati, sono tutti divorziati. E’ anche
una comunità nella quale sono successi drammi grossi, condivisi. Percorsa da tutta una serie di
chiacchiere, di fermenti positivi e negativi. Sono morte tante persone, anche bambini, si sono
uccise delle persone. Dove alcuni matrimoni sono andati in crisi in maniera violenta e forte.
Questo fatto non è del tutto estraneo anche al nostro modo di vivere la Liturgia.
Certamente la messa della Beverara è un luogo di ritrovo di tante esperienze, di
momenti bellissimi e di momenti drammatici, e di persone anche in difficoltà, di persone che
sono alla ricerca, di persone che non possono dirsi incardinate in una situazione o in un'altra.
E’ anche il luogo dove ci sono tante famiglie regolari e osservanti, individui singoli osservanti.
Ma è un luogo dove tutti sono costretti a confrontarsi con la realtà della vita: i problemi
dell’oratorio, della sua gestione, dove si sfiora la possibilità di atteggiamenti realmente violenti,
della droga, comportamenti che non sono né cristiani né civili in senso lato. Vi è la forte
volontà di accogliere donne e uomini di ogni latitudine del mondo e l’Ecumenismo è un
imperativo molto sentito.
A cominciare dalla Liturgia si può vedere che la nostra è una comunità che non chiude
le porte assolutamente a nessuno: si ritrova a fare la comunione una bambina nomade di fede
islamica, un ragazzino ha fatto la comunione prima del suo tempo, per curiosità. Ci sono
parecchi concubini, divorziati, divorziati e risposati che fanno la comunione. Ciò non significa
che il nostro parroco non sia in imbarazzo o non faccia uno sforzo, ma lui, apertamente, non
nega la comunione a nessuno.
Durante la Liturgia ci sono mamme che allattano nelle aule adiacenti la chiesa, alcuni
bambini vanno a disegnare in sacrestia; tutto sommato c’è una notevole attenzione all’ascolto
dell’Omelia; non c’è un’eccedenza ritualistica che potrebbe annoiare, e ciò va a favore di una
profondità e di uno spessore liturgico maggiore.
Credo che la Chiesa cattolica abbia i suoi momenti di verità maggiore proprio nelle piccole
comunità locali piuttosto che nei movimenti, nelle associazioni, piuttosto che nei moti della
Chiesa ufficiale, cioè ai suoi più alti livelli della gerarchia, che a volte mostra straordinari
momenti di fedeltà e testimonianza alla parola di Dio, a volte invece mostra una grande
distanza dalla vita delle persone. Nella nostra comunità non c’è tanto una discussione sulla
dottrina, ma è la vita che tenta di confrontarsi con la parola di Dio.
A me piace molto come è fatta la nostra comunità, sento che si tratta di un modo di
vivere la fede cristiana molto efficace e personalmente devo molto a questo.
Inoltre la nostra Parrocchia è socialmente molto attenta e lontana dalle logiche di mercato,
lontana dalle logiche di potere, assolutamente pacifista, sedotta dal tema della povertà, molto
legata al tema della pace, con alcune punte all’interno di questo clima generale, ora in una
direzione, ora in un’altra, ma questa è la ricchezza dei vari carismi”!
Gennaio 2007
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IL CANTO LITURGICO
Ora lasciatemi cantare la tenerezza dell’amore. Ora lasciateci cantare tutta la forza della vita.
Ora lasciateci cantare tutta la nostra gioia. Ora lasciateci cantare Cristo risuscitò.
L’ascolto si rivolge al CANTO LITURGICO che accompagna la Messa e che è una
componente molto importante della Celebrazione Liturgica. Ne parlo con Luciano Catalano,
Fondatore, assieme ad Anna Fin, e Maestro del Coro della Parrocchia di San Bartolomeo della
Beverara ormai da 33 anni e componente del Consiglio Pastorale e della Commissione Liturgia.
Quanto riportato è il frutto di un dialogo da cui abbiamo estratto le parti ritenute essenziali per
chiarire il tema.
Parlaci della funzione del canto liturgico.
Il canto è un’espressione liberatoria e la liberazione ha come legame la gioia perché il
liberato esplode in una invocazione, un inno, in una elevazione di gioia. La musica suonata e
cantata insieme e quindi, la musica assembleare, lega, accomuna la gioia di tutti per una
elevazione di tutti, anche per una consapevolezza di se stessi e del proprio senso umano. Il
canto liturgico ha questa caratteristica di fondo.
Se canto con l’intento di pregare, anche se canto le stesse parole da anni, posso arrivare ad un
risultato: cantando la stessa cosa o pregando la stessa Ave Maria, alla fine della vita posso
aver colto, sviscerato nei suoi significati più profondi ogni singola parola.
Lo si ripete perché è un approfondimento costante.
All’interno di questa tensione, quale attenzione tu e i coristi ponete al “saper cantare” e al “fare
liturgico”?
Certo è importante una tecnica, e non trascuriamo la preparazione; ma soprattutto,
come base, cerchiamo di avere una coesione e una consapevolezza di gruppo per quanto
riguarda il servizio liturgico. Non solo a livello di coro, ma per tutti coloro che partecipano e
che si coinvolgono nella liturgia. Noi siamo componente liturgica con un ruolo guida anche e
dobbiamo vivere questo servizio perché la liturgia possa avere il maggiore effetto attraverso
l’assemblea.
Il canto è la consapevolezza che, mentre tu stai cantando, stai pregando e quindi esprimi la
tua invocazione, il desiderio di incontro con Dio; così ti elevi a Dio.
Sarebbe bello che tramite questo percorso, questo incarico di trasmettere, stimolare,
coinvolgere, si offrisse effettivamente la propria autenticità.
Durante l’esecuzione di un canto si riesce a cogliere un’autenticità espressiva che riesce a
coinvolgere, si sente una unità corale che abbraccia e unisce, e anche l’assemblea partecipa
unendosi. Più si è consapevoli di questo e più è efficace.
Poi il senso di unità è fondamentale. L’unità vissuta con questi segni concreti, liturgicamente,
vuole dire: essere uniti tra di noi con la presenza di colui che aggrega, che è Cristo stesso.
Penso che si tratti di un miracolo liturgico. Più ci sentiamo uniti, con il coinvolgimento di
fede e con le nostre espressioni, e più ci avviciniamo a quella che è l’unità con Cristo.
Noi entriamo in ciò che è diverso, ci trascende. Non prestiamo una voce, stiamo vivendo
un’esperienza alta. Tutta l’assemblea converge a questo apice: la presenza concreta di Cristo.
Allora cosa suggeriresti ad una persona che crede di non saper cantare o che teme di stonare?
Uno può cantare benissimo, ma se lo fa per sé e non lo fa per l’altro… Ciò che importa è
l’incontro di liberazione: se anche uno è stonato ma si coinvolge, si intona, c’è un
perfezionamento che avviene dentro di lui. Incontrando Cristo non c’è più ebreo, pagano, né
maschio o femmina, o stonato. Ciascuno incontra la pienezza. Iniziamo con l’esperienza
terrena a stimolare, ricordare e perseverare in questa ricerca. Abbiamo un ritorno di grazia.
Forse non ci rendiamo conto dell’efficacia dell’incontro.
Vi tendiamo, ne abbiamo una minima percezione, ma la nostra parte interiore ce lo
conferma: quando ci coinvolgiamo nella gioia e nell’unità, abbiamo un senso di pace, di
realizzazione del nostro senso di appagamento.
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Entrando in questa dimensione totalmente diversa anche da noi è necessario un
perfezionamento, una verifica nostra, i primi tempi anche dolorosa.
Come sei arrivato a pensare di fare il maestro di un coro liturgico, come ti ha coinvolto la
musica, pur non trasferendo questo nella tua attività lavorativa?
Ho cominciato a studiare musica dalla seconda media; ora ho cinquantuno anni, ma ho
avuto la mia vocazione. L’ho maturata proprio nella Chiesa della Beverara, avevo due o tre
anni, frequentavo l’asilo e mi sono detto: “Questa è una cosa che mi piacerebbe fare da
grande”. Avevo delle sensazioni fortissime. A me la musica sacra ha sempre dato delle
vibrazioni interne a livello nervoso-cerebrale. Mi sconvolgeva, mi scuoteva.
Sentii cantare una volta, forse ero più grandino, 6 o 8 anni, e mi dissi ancora: “Come
sarebbe bello averlo sempre!” Lo pensai e mi sono adoperato per questo.
Per trasformarla in attività lavorativa avrei dovuto studiare molto di più e poi volevo
fare questo. Ho sempre detto “Quando sarò più anziano e non lo potrò più fare, spero che
questa tradizione vada avanti, che ci sia qualcun altro che vi spende le proprie energie”.
Come ti poni con la tua vocazione e la tua consapevolezza di servizio di fronte ai cantori?
Cosa ritieni importante ci sia nella relazione tra voi per suscitare coinvolgimento ed elevazione
in tutti?
L’intensità che il maestro espande, e che viene colta senz’altro, è importante per il
modo stesso di porsi dei cantori. Io con loro dicevo, qualche anno fa: “Il nostro rapporto
dev’essere un rapporto d’amore. Come io mi offro a voi, così voi dovete rispondere, è una
osmosi: voi vi dovete affidare e io devo ricevere fiducia.” Io posso comunicare solo se c’è
un’apertura nei miei confronti, sennò rimango sterile, asettico. Se uno non mi riceve, non mi
può dare. E’ per quello che noi dobbiamo liberarci di noi stessi, perché io libero un modo di
sentire l’espressione musicale, la offro e la chiedo, voglio una compartecipazione di questa mia
offerta.
Il tuo atto liberatorio, il tuo atto interpretativo, nelle tue corde interiori, nel tuo
travaglio interpretativo-esistenziale – perché poi il canto è anche questo – è l’espressione del
profondo. Devi essere aperto all’altro, farti entrare l’altro dentro di te, farlo diventare una cosa
tua, è questa la compartecipazione. Vivere “ama il prossimo tuo come te stesso” è proprio
questo: l’apertura, l’incontro umano è questo. La parola che incontra l’altro, l’autenticità della
parola. Noi abbiamo paura di chi non conosciamo. Ma quando lo incontriamo nella sua intimità
e viviamo noi stessi nell’altro ci sentiamo appagati, rincuorati, consolati.
E quindi non è più minaccioso. Per cui, anche l’assemblea, unendosi alla vostra “unità” corale,
risponde all’abbraccio offerto, partecipa e si eleva, nell’invocazione al Signore, in una circolarità
nella quale ciascuno si impegna in prima persona e tutto questo provoca un ritorno anche a
voi!
Sì, per esempio, quando cantano i bambini alla Messa delle sei di pomeriggio del
sabato. Si sente proprio un impeto, il canto liberato per la gioia, il loro fervore.
A volte è più difficile per l’adulto liberarsi, affidarsi agli uomini e a Dio. Cosa diresti
all’assemblea per invitarla a cantare?
Come prima fase penso ci sia proprio questo: predisporsi all’ascolto e “disporsi
all’ascolto” vuole dire liberarci di tutto ciò che ci impedisce di ascoltare. In primis di noi stessi,
tutte queste voci nocive interne. Dobbiamo arrivare ad aprirci; solo così ci possiamo unire:
iniziando ad ascoltare; non ad ascoltarci nel nostro continuo travaglio di scontentezze, di
pesantezza della vita, di dolore, di sofferenza, non nel rimuginare continuamente: per es. che
vorremmo avere una vita diversa; così diventiamo tristi.
Questo lo lasciamo fuori e ci liberiamo, chiediamo uno sforzo a noi stessi, ma ci apriamo
e ascoltiamo. I pensieri più cattivi e tenebrosi vengono a dileguarsi appena incontriamo una
persona che ci dà questa motivazione diversa, ci dà questa ventata di aria fresca, e il nostro
umore cambia, cambia la visione della vita in quel momento, e riceviamo.
Il canto è un momento di gioia, di esaltazione, entri proprio nella luce, in un’altra dimensione,
ti elevi e ciò ti fa allontanare da quello che ti trattiene, dalle pastoie, da tutto ciò che non ti fa
esprimere.
Aprile 2007
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BEVERARA - ASCOLTARE E PRATICARE
LA FEDE OGNI GIORNO
I ROM, QUANTO NE SAPPIAMO?
Avevo da tempo l’intenzione di conoscere l’impegno dei gruppi parrocchiali e delle singole
persone della nostra comunità nell’applicazione quotidiana della Parola, per stimolare la discussione
e possibili vocazioni al volontariato, sempre necessarie e bene accolte.
Nei giorni scorsi i problemi relativi alla clandestinità, all’incendio di campi rom, alla sicurezza e
all’accoglienza, sono stati al centro dell’attenzione nazionale e internazionale. Oltre alla cronaca, è
stato uno scritto di Alberto Zucchero, insegnante di religione presso la scuola media Volta, e
impegnato con la Comunità Papa Giovanni XXIII nel Servizio civile volontario e nel cammino a
fianco di una decina di famiglie rom da vari anni, che mi ha indirizzato verso questo tema.
Cosa sta succedendo, Alberto, in particolare nella nostra città su questo problema?
Nel Paese sui rom il clima si è fatto pesante. Cresce in tanti la paura, alimentata con
compiacimento dalla televisione; ma anche il solo semplice ‘fastidio’ per come sono e per come
fanno diverso da noi. Così stiamo perdendo l’idea che vi sono tanti rom (vuol dire ‘uomini’),
tanti caratteri, storie, speranze, pianti, splendori e sciagure, come in tanti siamo anche ‘noi’
(tutti uguali?). I rom sono irrimediabilmente ‘una cosa’ diversa e indistinta. Poi ci aspettiamo
che ‘collaborino’ con buona volontà al nostro bisogno di ridare ordine e senso alla nostra vita
sociale. “Ma come, con l’aria che tira?”… Invece loro rimangono se stessi, irriducibili fieri
ostinati. Questo ci provoca, ci irrita. L’insofferenza cresce nascosta, vederla sfociare in violenza
è un attimo.
A Bologna per fortuna gli animi non si sono surriscaldati, anche se a giudicare da certi
volantini c’è chi prova a ‘lisciare’ la paura della gente. Però non ci sono nemmeno molte
proposte costruttive in giro. Ogni tanto scatta regolare lo sgombero: non fa più notizia.
Quando si sgombera si rimettono ‘i problemi’ -le persone- per strada, cioè direttamente sulle
spalle della gente. Questo non è risolvere i problemi, è solo spostarli. Devo dire che qualcosa
funziona: i rom della Romania sono regolari in quanto cittadini comunitari, con possibilità nel
campo lavorativo dell'edilizia. Con fondi europei e regionali il Comune ha avviato progetti di
inclusione: per chi ‘sta ai patti’ questo significa avere un posto dove abitare e mandare
regolarmente a scuola i figli (ne ho anch'io nella mia scuola a Borgo).
E nel nostro quartiere?
Qui oltre ai rom della Romania ci sono quelli della ex Yugoslavia. 'Abitano' dalle nostre
parti da parecchi anni. I loro genitori sono arrivati in Italia negli anni Settanta e Ottanta. Altri
nei Novanta con i conflitti balcanici. Hanno incontrato l’Italia. Ottenuto il permesso di
soggiorno. Poi sono cambiati i tempi, e le leggi. E quei permessi non sono stati più rinnovati.
Oggi sono extracomunitari irregolari. O meglio il più delle volte: nati in Italia, ma senza
cittadinanza italiana. Apolidi di fatto, ma non giuridicamente. Non sono entrati illegalmente,
quindi nemmeno la nuova legge sul reato di clandestinità li colpirà. Non sono espellibili, perché
la Bosnia non li riconosce come propri cittadini.
Semplicemente: ci sono, con tutti i loro figli dietro, sfornati ai ritmi che vediamo.
Irregolari, scarsamente scolarizzati, raccoglitori di metallo (e di altro), senza altre competenze
lavorative. Vivono alla giornata, spesso di espedienti, un piede nella legalità l’altro fuori.
Sfuggenti, diffidenti, furbi, pronti a ‘sfruttarti’ classificandoti per il tipo di aiuto che gli dai.
Se li incontri per strada e non hai una relazione che ti lega a loro, provi facilmente antipatia o
avversione: sono sporchi, chiassosi, insistenti, vivono su camper o furgoni scassati, i bimbi
fanno la cacca dove capita, ad esempio nei parcheggi dove dormono dopo l’ultimo sgombero,
oppure davanti alle Bottego... E giù i genitori a raccogliere firme per farli andare via...
Ma sono davvero poveri?
Passano le giornate all'Ipercoop e comprano, non sempre generi di prima necessità. I
giovani soprattutto. Il danaro non gli manca. Ma la povertà qui da noi oggi è non averli o
averne e vivere a quel modo, cioè senza andare a scuola, evitati da tutti? Prendiamo una
famiglia che conosco. C’è una donna che vediamo spesso al Ca’ Bianca, il marito sempre
mezzo bevuto e sette figli dietro. Il piccolo nel fagotto, il grande è già stato al Pratello, poi al
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Centro dove lavora Cristiana (mia moglie). Dormono su un furgone, sequestrato due volte dai
vigili questo inverno. Hanno dormito anche a casa di qualcuno di noi, adesso li teniamo in un
cortile della comunità terapeutica a Castel Maggiore. Ma sono sempre al Ca' Bianca! Abitavano
in via Benazza, terreno comprato, poi sgomberato per abuso edilizio: avevano tirato su una
‘casa’ di assi di legno. Sono stati nel campo di via Dalla Volta, ma adesso anche quello è stato
chiuso. I bimbi alle Silvani li hanno sempre mandati, e anche adesso li manderebbero con
maggiore regolarità, se non dovessero partire la mattina a piedi da Sabbiuno di Castel
Maggiore. Non è pietismo, né buonismo. Mi arrabbio con loro un giorno sì uno no.
Cosa pensate di fare come Comunità Papa Giovanni XXIII?
Pensiamo che prima di tutto ci vuole un posto dove stare. E subito dopo la scuola: i bimbi
rom devono stare con gli altri bimbi. Stiamo al loro fianco, impariamo ad accettarli un po’ di
più, cerchiamo di fare amicizia con loro. Ne ospitiamo 9 a Sabbiuno, 6 a Casadio dove il più
delle volte ne arrivano altri 10 perché i parenti si appoggiano a loro. Un'altra famiglia di 10 (dal
nonno ai nipoti) sono stati con noi 2 anni e mezzo; ora sono tornati a chiederci un posto, che
al momento non c'è. Sono qui con permesso di soggiorno e con partita Iva: ogni anno
producono reddito e ottengono il rinnovo. Ma nessuno affitta loro un appartamento; non ci
sono terreni abitabili da comprare; il Comune dice di non averne a disposizione. Dormono nei
parcheggi, come tanti altri.
Come vedi questa tendenza diffusa a vedere nei ROM il “nemico” da emarginare e cacciare?
Il 'nemico' è tale perché tu decidi di viverlo così. Ma poi rimani nell’odio, e nella paura. Ed
è un problema tuo. Non vedi più l’uomo che hai davanti, che si porta dentro sogni e paure,
miseria e santità, proprio come te. Se invece decidi di vivere, in colui che hai davanti, l'‘amico’,
ti si schiude un orizzonte vasto di umanità. La ricchezza infinita dell’umanità, della tua
umanità, dell’umanità ricchissima di quel rom. Ripenso ai numeri che ti ho snocciolato e vedo
che sbaglio.
Non si tratta di mostrare i muscoli della solidarietà, di fare a gara a chi è più bravo.
Almeno per me, tra le tante miserie con cui mi arrabatto, succede che quando Gesù ti libera
nella vita uno spazio di amore (la tua famiglia, i tuoi genitori, gli zingari perché no!?) trovi con
limpidezza il senso della vita, la fai finita con tante menate, evaporano paura rabbia e
tetraggine, come quelle di questi tempi, di questa politica, di tanti di noi italiani. Ma perché noi
che ci diciamo cristiani, che ci cibiamo dell’Amore della Croce, non mettiamo questa cosa una
volta per tutte davanti a tutto, così, con semplicità? Eviteremmo la sciagura di reputarci giusti
e già salvi, la tendenza a mettere rom e clandestini (un tempo qualcuno metteva gli ebrei..)
alle origini di tutto il ‘morto’ che c’è in noi svanirebbe di colpo.
Cosa si potrebbe fare per aiutarli? Raccolta di fondi o aiuto nell’integrazione?
Qualcuno in parrocchia ha proposto di versare l’ICI risparmiata quest’anno per progetti a
loro vantaggio. Un bel coraggio, bisogna essere proprio convinti! Io ero d’accordo. Anche se a
far andare a rotoli i progetti capita che siano proprio loro!
Ma se la paura di buttare via i soldi fosse un ostacolo, sarebbe già sufficiente come genitori
di scuola, frequentatori dell'oratorio, consumatori dell'Iper, animatori della vita del quartiere,
decidere nel cuore un altro 'viaggio': decidere cioè di mettersi in relazione con loro,
promuoverli noi -arbitrariamente e gratuitamente- a nostri vicini di casa a tutti gli effetti.
In pratica come proporresti di sviluppare questo ‘viaggio’?
Potremmo fare tante cose soprattutto per i bimbi: aiutarli nell’andare a scuola tutti i giorni,
nel frequentare i nostri figli, portarli dal dottore, a calcio, all'estate ragazzi, alle crescentine,
alle feste... Fare qualcosa al pomeriggio, durante la scuola, per quelli in età di scuola media…
Io da settembre provo a ridurre un po' il mio impegno lavorativo, per affiancarli in modo più
stabile. Il problema che sento più grosso non è solo la fattibilità tecnica (cala lo stipendio ma
qualche soldo per un progetto forse si riuscirà a farlo saltare fuori), ma soprattutto i miei limiti
personali.
Se saremo una comunità che accoglie, che anima, che fa festa, che va a scuola,
che fa i compiti, che fa famiglia, che fa la spesa CON LORO avremo molte possibilità in più...
Io comunque cerco un posto dove organizzare due pomeriggi alla settimana con i bimbi, e
anche qualche ‘volontario’: io come animatore valgo poco…
Settembre 2008
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VOLONTARIATO NELLA CARITA’ (1)
CENTRO DI ASCOLTO CARITAS
Per approfondire l’impegno delle persone della nostra parrocchia nell’applicazione quotidiana
della Parola, ho intervistato questa volta Maria Pia Baroncini responsabile da 25 anni del Centro di
Ascolto Caritas e Anna Di Paola, responsabile da 28 anni del Centro Indumenti Caritas; ho pensato
che fosse interesse di molti conoscere la loro esperienza di servizio per un territorio sempre più
allargato, rivolto soprattutto a persone di altre religioni e di altre etnie, compresi i Rom, che restano
coloro che ne manifestano sempre di più il bisogno, assieme a pochi italiani.
Il Centro di Ascolto è situato a lato degli uffici parrocchiali - Intervista a Maria Pia Baroncini
Puoi spiegare in che cosa consiste il tuo servizio nel Centro di Ascolto Caritas?
Il servizio è Caritativo e, per come è strutturato ora, consiste nel mettere a disposizione
alcune decine di borse-spesa del valore di circa 25 Euro, o altre di 15 Euro, per i bisognosi che
ne fanno richiesta. I fondi necessari provengono dal Centro Indumenti, da qualche offerta dei
parrocchiani e dal Banco Alimentare della Diocesi di Bologna, che si trova ad Imola. Non
possiamo elargire le borse-spesa più di una volta al mese e di solito ce n’è a sufficienza per
una trentina di famiglie. Non è facile organizzarsi: per cercare di essere equa avevo
consegnato un bigliettino con il timbro parrocchiale e la data in cui venivano; quando
tornavano dovevano esibirlo. Per cinque mesi ha funzionato, poi mi sono accorta che la
maggioranza tendeva a raggirarmi e veniva più volte al mese.
Io vengo qui al Centro di Ascolto alcune ore, sia al mattino che al pomeriggio; ascolto le
persone che mi parlano delle loro necessità materiali, chiacchiero con loro, cerco di capire, ma
è molto difficoltoso: i più sono sfuggenti anche quando mi parlano della loro vita e così è quasi
impossibile comprendere il loro stato reale di bisogno. La slealtà… mi colpisce, forse adottano
questi atteggiamenti perché sono nel bisogno? Non so. Capisco pure che con quello che noi
diamo una famiglia non possa viverci per un mese. E allora vanno dappertutto e ritornano… e
trovano vari modi per ottenere di più. Si cerca di volere loro bene, ma…
C’è più dialogo con gli italiani, che sono soltanto tre o quattro.
Qualche tempo fa cercavamo di fornire la borsa della spesa una volta a settimana, in più
provavamo a soddisfare anche la richiesta di copertura di alcune bollette di casa. Anche
adesso, se rimane qualche fondo ne valutiamo di volta in volta la destinazione.
Come funziona il Banco Alimentare?
E’ un Centro Caritas diocesano che ha sede ad Imola e raccoglie alimentari che vengono
definiti “non commerciabili”; alcuni sono donati dalle aziende produttrici; altri provengono da
una raccolta che avviene attraverso la gente che va ai supermercati. Quando all’entrata
troviamo i volontari che forniscono una sportina vuota e chi lo desidera restituisce parte della
sua spesa, i prodotti vanno anche a finire lì. Poi una volta al mese, il Banco ha il compito di
suddividere queste risorse tra i vari Centri di Ascolto delle parrocchie diocesane che, come noi,
si occupano della ridistribuzione.
Qui mi aiuta Cesare Nanetti che si reca al Banco e torna carico di roba da suddividere nelle
borse. Per riempirle chiedo aiuto ad Anna Di Paola, e a quei parrocchiani che sono pratici del
nostro servizio. Pasta, latte a lunga conservazione, riso…arriviamo a fare una ventina di sporte.
Poi ci sono spese che vado a fare io con i fondi raccolti dal Centro Indumenti. Mi aiuta Quirico
Roberti e mio marito Norberto; compriamo olio, latte, tonno, pasta, formaggini…
Il Banco fornisce pure rimanenze di alimentari, scaduti o la cui scadenza è vicina; questi li
diamo agli italiani, perché non vogliamo dare adito a fraintendimenti linguistici; non possiamo
assumerci questa responsabilità. Chi li prende sa della scadenza e, se vuole, li usa con le
cautele del caso.
Allora ci sono Centri di Ascolto che non svolgono questo servizio?
Sì, questo è un servizio non strettamente legato al territorio parrocchiale della Beverara.
Vengono dalla parrocchia della Noce, della Bertalia, dal centro del Lazzaretto e da via Barbieri,
dove abitano tanti stranieri. So che pagano moltissimo per dormire anche in tre in una camera.
Quindi restano pochi soldi per mangiare. Teniamo conto che ci sono parrocchie vicine che
hanno chiuso i servizi: il Sacro Cuore offriva la mensa, l’Arcoveggio dava la borsa della spesa.
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Ora sono calate le risorse per tutti. La Caritas ha cercato varie strade, per esempio, quella
informatica, per mostrare i prodotti presenti nei vari Centri per uno scambio, ma tutto si
complica. Io ho scelto di non informatizzare il servizio.
Le persone le conosco abbastanza bene quasi tutte. Anche se hanno nomi strani, difficili da
trascrivere, ho ben presenti i volti, i modi di fare. Confondo invece le fisionomie delle donne
musulmane per via del velo… pazienza, cos’altro si può fare? Ci sto attenta il più possibile.
Ti ho visto svolgere altri servizi…
Questo servizio Caritativo si svolge bene se si è da soli e non si suddivide l’esperienza.
Aiuti ne chiedo, ma ci deve essere un unico gestore, sennò si fa più confusione e non si
riescono a conoscere le persone che ci frequentano. Che ti cercano mattina e pomeriggio. Poi
ci sono i conti da seguire…
Ma in effetti svolgo anche tanti altri servizi. Seguo le Messe, le prenotazioni per
commemorare i defunti e ne faccio gli elenchi settimanali, poi mi occupo dei fiori in chiesa,
assieme ad Anna Fin. Do una mano all’Oratorio per le cene, le serate. Altre piccole cose che
non sto ad enumerare, ma c’è sempre bisogno. Inoltre organizzo le due ‘pesche’ annuali; le
spese qui sono rimborsate dai biglietti venduti. In questi casi collaboro con altri parrocchiani
che a rotazione presidiano le ‘pesche’ e aiutano a rifornirci degli oggetti necessari.
Sono soprattutto straniere le persone che accogli. Da quali nazioni? Anche i Rom?
No, i Rom di solito non vengono, da anni. Loro gli alimenti li hanno, vanno a chiedere
indumenti invece. In passato hanno risposto alla nostra accoglienza disfacendo e portando via
tutto.
A volte sono contenta di non vederli più, sia perché era tutta una ruberia, sia perché penso
che forse stanno bene; vedo le donne, che erano bambine, ora sono mamme e rubano. Un
destino così triste!
Tornano invece i nomadi italiani di via Erbosa… Poi vengono gli stranieri che si sono
insediati in zona, ma ci sono altri da più lontano, perché si passano la voce. Vengono anche da
Corticella, Borgo Panigale, dal centro città. E’ così che sono riuscita a capire che vanno in giro
in tutti i centri.
Poi ci sono signore musulmane, e anche uomini, una decina. Abitano qui nei dintorni nelle
case dell’Acer. So che alcune sono badanti, uomini che arrivano con grandi macchine. A volte
mi portano un dolcino, un modo per essere grati. Ma quando chiedo: “Di dove venite?”
“Marocco!” è sempre la risposta. Sembra impossibile che vengano tutti di lì. “Ma qui a Bologna
dove vivi?” Ripeto. Alcuni vivono al Lazzaretto, o nei Centri Sociali; ma ti sviano, oppure sono
reticenti: le razze che vedo sono molte; io tento di memorizzare l’apparenza… per riconoscerli.
Riesci a capire, dal tuo osservatorio, se qualcuno è riuscito a migliorare la sua posizione?
No, io devo ancora incontrare qualcuno che si sia “redento”, ossia davvero integrato, e
sono più di venti anni che sono qui. La signora che hai incontrato poco fa erano almeno dieci
anni che non la vedevo. E’ tornata adesso che ha avuto un altro figlio, il terzo. Provo anche
delle soddisfazioni in questo servizio, per esempio quando ho gli alimenti da offrire, e li ho
spesso. Poi quando ricevi una parola buona… Altre volte come ti ho detto, devi invece discutere
con le persone che vengono tutte le mattine a chiedere, soldi, alimenti… e questo non è
possibile affrontarlo.
Ci vuole costanza e pazienza per un servizio così...
In me le trovo. Ci sono persone che fanno arrabbiare, c’è la difficoltà della lingua, i furbi
che fanno finta di non capire… o che cercano di rubare… marocchini non solo nomadi, persone
litigiose, caratteri difficili. A un certo punto abbiamo fatto una scelta precisa più verso la
fornitura di alimentari piuttosto che di danaro. I soldi fanno gola a tutti. Ma la distribuzione dei
pacchi spesa ti fa capire che hanno bisogno di mangiare, di questa prima necessità. E’
umiliante andare anche alla porta di una Parrocchia e chiedere, chiedere… A volte con i
disguidi, il menefreghismo… ci si arrabbia, però facciamo quello che possiamo e sappiamo che
questo è utile.
La bolletta la paghiamo proprio se capiamo che c’è una necessità estrema e li conosciamo.
Oppure una piccola somma saltuaria alle persone che sappiamo avere molti figli, o che non
hanno lavoro.
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Ma tanto raccogliamo e tanto spendiamo… diceva un nostro parrocchiano che nella cassa
dei poveri non ci devono essere rimanenze… e così avviene.
Sembra che non sia facile “amare” lo straniero o il bisognoso! Cosa si può fare per integrarci
meglio, a parte la cena musulmana ormai tradizionale?
Non è facile l’integrazione. Come comunità parrocchiale questo è quello che possiamo fare.
I bambini musulmani vanno a scuola, quelli dei nomadi sono abituati ad andare a fare
l’elemosina con gli adulti e non so quanto frequentino.
Ci sono compiti della comunità civile tutta...
Ottobre 2009
VOLONTARIATO NELLA CARITA’ (2)
CENTRO INDUMENTI CARITAS
Intervista ad Anna Di Paola, responsabile da 28 anni del Centro Indumenti Caritas,
collocato al piano terra esterno della casa di Via Beverara al n.70.
Anna, come si attiva il volontariato presso il Centro Indumenti Caritas?
Prendiamo gli indumenti che ci portano i parrocchiani e facciamo una distinzione. Alcuni
capi vanno al mercatino mensile. Quelli che teniamo noi vengono selezionati per tipologia e
riposti negli scaffali. Quando le persone vengono al Centro ci chiedono di vedere quello che gli
serve e se va bene ci facciamo dare un contributo che va da 0,50 Euro (per gonne, maglie,
camicie e scarpe) a 1,50 Euro per un giubbotto. Prezzi simbolici per evitare l’accaparramento
senza scelta. Tempo fa li ritrovavamo buttati per la strada.
Vogliamo che li prendano perché servono, non perché li buttino.
Se consideriamo il numero dei pezzi distribuiti, siamo il negozio che vende più di Bologna.
Forse anche 1.500 pezzi al mese, comprese coperte, panni, giubbotti… Lo spazio per farlo è
piccolissimo, ma ci siamo abituati, teniamo gli scatoloni per i cambi di stagione su scaffalature.
Teniamo il minimo che sappiamo utile; del resto, ne arriva sempre di roba.
Ufficialmente apriamo il venerdì dalle 9 alle 11,30. E in questo giorno vengono soprattutto
i nomadi. Poi, dato che i musulmani non tollerano i nomadi, apriamo per loro il giovedì
pomeriggio e così vengono altri della parrocchia. L’apertura è breve, ma c’è molto lavoro
dietro.
Chi svolge il servizio al Centro con te?
C’è Paolo Salsi; è un aiuto, ma anche una presenza maschile utile perché i rom non
ascoltano molto noi donne. Quindi, se c’è bisogno di far rispettare delle regole, è lui che ci dà
una mano. Paolo è anche il nostro contabile e ogni settimana consegna il ricavato al Centro di
Ascolto di cui è responsabile Maria Pia Baroncini, che ha già detto come li utilizza. Nulla resta
alla Parrocchia.
Poi c’è Roberto Ragona, che è attivo presso di noi con una borsa lavoro dell’AUSL.
C’è l’Angela Giordani, mia cognata che viene da San Donato e la figlia Giovanna.
Questa conduzione, in parte familiare, è cominciata con una richiesta di aiuto – delle volte
ci vediamo anche la domenica pomeriggio per riordinare - e poi è andata avanti. Abbiamo
iniziato nel 1980, ventotto anni fa. Ci siamo un po’ specializzati nei settori: scarpe, camicie…
io non sopporto di piegarle, e le lascio a mia cognata, per esempio. Giovanna ci porta via tutti i
sacchi degli indumenti che non andranno venduti. Succede spesso quando muore qualcuno e la
famiglia ci porta tutti gli abiti, anche vecchi di decine di anni fa; noi sappiamo che sono da
smaltire perché non li indosserà più nessuno. A volte ci danno della roba rotta, scarpe bucate…
ma sono da mandare direttamente nel bidone.
E’ il lavoro più noioso e tedioso da fare. La Caritas ha già troppa roba e questa non la
vuole. Poi bisogna stare attenti. Ho telefonato all’Hera: in via Tolmino si possono portare dei
sacchi come privati, ma come Parrocchia dovremmo pagare. Figurati se andiamo a pagare per
buttare via della roba vecchissima! Ma queste sono le regole e dobbiamo cercare i cassonetti
per vestiti. Giovanna ha il camioncino, li carica e li smaltisce. Lei è specializzata in questo!
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La Caritas in passato li vendeva ad industrie di Prato per la cernita della lana, cotone, ecc.
Ora i cinesi vendono gli indumenti a poco prezzo e il riciclo verrebbe a costare troppo.
Hai detto che vengono soprattutto nomadi e musulmani…
I nomadi scelgono di solito le gonne lunghe, quando ci sono. Le ragazze scelgono sempre
di più i jeans stretti, i giubbotti in vita, tendono a vestirsi alla moda. Per i bimbi scelgono
indumenti colorati, né bianchi, né neri. Ma i ragazzi sono pieni di soldi; glielo dico sempre che
qui da noi non possono pensare di trovare le cose che hanno indosso. Una volta usati, non li
tengono, non li lavano, finita la stagione li buttano via.
Vengono saltuariamente pochi italiani, a volte anche per scambiare qualche parola in
amicizia; quando si sistemano non vengono più. Mentre i Rom, li vediamo crescere, di famiglia
in famiglia. Poi vengono anziani marocchini, tunisini, clienti di vecchia data. Sono tranquilli,
sappiamo già cosa vogliono.
Per quanto riguarda i musulmani vengono più spesso gli uomini che comprano anche per le
donne, tranne le signore che abitano qua vicino e hanno i mariti che lavorano di giorno.
Sono difficili da accontentare, e non amano cucire. Non attaccano nemmeno un bottone.
Seguono i bimbi, lo vedi, sono vestiti bene e puliti; loro pure sono in ordine e cambiano spesso
i loro completi: tuniche e pantaloni, sono belli ed eleganti.
Ma con noi ce l’hanno, lo senti quel rancore che ti trasmettono.
Fondato su che cosa?
Sulla religione. Non ne parliamo mai, non è il luogo. Se loro dicono qualcosa, rispondiamo.
Si capisce però che vorrebbero parlare della loro religione, ma non vogliono sentire della
nostra. Il luogo forse non è adatto per farlo, ma ci provano, provocano.
Sui nomadi “Sotto il campanile” ha riportato mesi fa la lettera appassionata di Alberto
Zucchero. Cosa vedi tu da questo ‘osservatorio’?
C’è una cosa da cui resto sempre colpita: la loro gioia di vivere. Li vedo allegri, sorridenti.
Quando arrivano per cercare vestiti, a me e ai compagni di gruppo chiedono sempre come
stiamo. Se trovano altri gruppi di nomadi si abbracciano, si fanno le feste, sono fraterni.
Noi italiani spesso brontoliamo per il cattivo tempo, i doloretti fisici, loro non sembrano toccati
da queste cose; non parlano dei loro disturbi e per loro il tempo sarà sempre bello.
Poi, i bimbi: mi colpisce che non piangano, a dieci giorni, due mesi… avranno pure le
coliche, insomma, non piangono e non mi sembra che stiano molto bene nel fazzolettone che
le mamme portano attorno alla loro cintura!
Piangono se glielo dicono i genitori, oppure quando prendono le botte: ne prendono tante…
calci nel sedere, sberle… è il loro modo di educare.
Però di recente a diverse famiglie hanno portato via i bimbi. Le mamme, dopo due mesi
sono ancora inebetite. Vengono da noi la mattina, forse per passare il tempo. Non comprano e
le vedo disorientate, ora che passano la giornata senza i loro bimbi!
Tu dici che loro si dedicano alla cura dei bambini, mentre noi li vediamo andare in giro a
chiedere l’elemosina coi bimbi e li giudichiamo per questo…
Nel loro modo vogliono molto bene ai loro bimbi. Se un bimbo viene ricoverato
all’ospedale, tutti si muovono per andarlo a trovare. Noi pensiamo che li “sfruttino”, ma fa
parte del loro modo di vivere, sono venuti su così i grandi e lo trasmettono ai piccoli.
Potranno dare uno scappellotto, ma non ho visto mai un bimbo con un occhio nero. Non mi
sembra che ci siano correzioni violente.
Da quale campo li hanno presi e dove li hanno mandati questi bimbi?
Hanno disfatto il campo di via Della Volta e coloro che vi si erano stabiliti continuavano ad
andare in giro qua attorno in furgoni dove si faceva tutto ed era tutto sporco, accatastato,
condiviso… A Casadio, vicino ad Argelato, l’Istituto Giovanni XXIII ha messo delle famiglie in
alcuni appartamenti, due o tre. In pochi casi quindi hanno mantenuto la famiglia compatta, che
sarebbe l’unica strada.
I bambini presi ai genitori di recente sono stati messi in famiglie aperte e in istituto. Io
vedo quello che soffrono le mamme, passa il tempo e soffrono come il primo giorno. Ma penso
anche a quanto soffrono i bimbi. Sarà già una tragedia lavarsi tutti i giorni. Poi come
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passeranno il loro tempo? Non usano i giocattoli, neanche si perdono con una palla o le
macchinine. I puzzle, sono al di fuori della loro mentalità. E’ fatto senz’altro tutto per il loro
bene. Ci sono psicologi e assistenti sociali che avranno valutato.
Però i bimbi sono sempre dietro ai genitori, fanno cose da adulti. Ho chiesto ad Alberto se
si poteva fare qualcosa. Ma anche lui non sapeva cosa suggerire.
Hanno tanti figli i nomadi, cominciano a quattordici, quindici anni. Otto, nove. A trent’anni le
mamme sono già nonne. Forse solo nostro Signore può metterci le mani, per noi uomini è
dura… Quando vengono al Centro, anche se ti avvicini a loro con amicizia, tentano di fregarti,
sono indisponenti, e a volte ti arrabbi…
Ma i Servizi glieli hanno presi per sempre?
Secondo me sì, per sempre, all’improvviso, uno shoc per tutti, ma come vivevano…
Quando faccio un esame di coscienza, mi chiedo: se io avessi vissuto in un campo nomadi,
cosa avrei fatto? Divento come il fariseo che ringrazia perché non è come loro. A volte dico a
Don Nildo che non lo faccio più questo servizio nel Centro Indumenti, perché alla fine faccio più
peccati che se me ne stessi a casa mia. Mi arrabbio anche con i musulmani…, poi penso che mi
sarei arrabbiata anche con i cattolici o gli italiani, forse anche di più e allora… vado avanti.
Ma i rom hanno mantenuto la cultura musicale, l’artigianato del rame…?
Hanno perso quasi tutti i loro valori, come nel resto del mondo. Furti, ma anche droga e
prostituzione, oramai sono in mezzo a loro. Arrivano da noi con tanti soldi, li spendono troppo
facilmente, quasi li buttano quando li hanno, poi restano in bolletta…
Non si accontentano più, come tutti noi del resto. Ma noi cerchiamo di lavorare e di
scegliere rispetto al guadagno. Loro non si pongono questa remora: “Mi piacerebbe, ma non lo
posso comprare”.
Se non hanno, appena possono se lo prendono. Quando non avevano che un pezzo di pane da
mangiare, lo consideravo quasi giusto andare a prendersi una gallina, ma adesso…
Per loro il furto non è una ‘mancanza’, quando hanno bisogno di qualcosa, vanno da chi
ne ha. Che poi è tutto relativo. Il telefonino l’hanno quasi tutti; l’hanno rubato?
Ma ti posso anche dire che mi è capitato di visitare il campo nomadi di via Gobetti,
quando accadde la tragedia della Uno Bianca. Ci fecero una festa grandissima… tirarono fuori il
salamino, il vino. Erano contenti. Ma è comunque è difficile fare breccia a livello di amicizia.
Ci sono persone che vengono al Centro Indumenti da venti anni, erano ragazzi, eppure
ci dicono il nome sbagliato. Tu cerchi di dare fiducia, di essere affabile, ma loro restano sulla
difensiva.
Un’altra cosa che mi infastidisce è che non riconoscono di “dare fastidio… o di
ostacolare gli altri”; vedono un posto per parcheggiare il pulmino e lì si fermano. Non si
pongono il problema di intralciare chi vuole uscire da un cortile. Gli si dice. “Spostalo!” e loro
rispondono “Che fastidio dà a te?”
Però se fossero loro a dover uscire da un cortile e trovano un’auto che li intralcia, non credo
che darebbero in escandescenze come noi. Aspetterebbero. L’orologio per loro non esiste.
L’ idea di “tempo” e di “spazio” sono molto diverse da quelle che intendiamo noi!
Anche quelle di ordine… e di pulizia! Quando hanno aperto i campi qua vicino, c’erano le
docce, con acqua calda. Nel tempo le hanno rotte senza ripristinarle. Lasciano in giro i
pannolini dei bimbi, gli escrementi… non si preoccupano di chi verrà dopo. Diventano
discariche e sporcizia dove si aggirano i topi. I bimbi cadono, si sbucciano un ginocchio, chi li
disinfetta? Piuttosto che pulire, incendiano la roulotte.
Se si organizzasse una cena con loro, tu pensi che i nostri parrocchiani parteciperebbero?
Penso di sì, i parrocchiani ci sarebbero, ma non i musulmani; sono molto lontani i loro
principi culturali. Ma penso pure che sia difficile trovare i gruppi rom da invitare. Sono un po’
sparsi ora che il campo di via Della Volta è stato chiuso. Adesso si spostano con la roulotte e
trovano difficoltà ovunque. Non possono fermarsi. Da un lato non è chiudendo i campi che si
risolvono i nostri problemi con loro. E forse nemmeno facendo un altro campo: dopo dieci
giorni le docce sarebbero rotte, la corrente elettrica staccata… né gradirebbero controlli.
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I rom, sinti… seguono qualche forma religiosa’
Assomiglia più alla superstizione. O forse la usano in modo strumentale, per quello che
vedo io. Se vogliono uno sconto: “Fammelo così Dio ti benedice!” Quelli che abitavano al
campo di via Gobetti facevano dire messa a Don Nildo. Ora tutto è cambiato, in peggio.
Se tu potessi invitare la nostra comunità a un cambiamento di mentalità, quale pensi possibile?
E se potessi invitare i nomadi a un cambiamento, cosa proporresti? E’ un’utopia grande forse,
ma proviamo a sognare, a fare un ‘viaggio’…come suggeriva Alberto Zucchero…
Direi che dobbiamo volerci tutti bene, come cristiani è il minimo. Ascoltarli di più, quindi,
ma senza essere permissivi e pietistici… Il rispetto reciproco, insomma.
I nomadi invece dovrebbero mandare i figli a scuola… vengono da noi e chiedono abiti per i
figli da mandare a scuola, ma non li mandano. Li vestono per andare dall’assistente sociale a
chiedere soldi; pur avendone, li chiedono.
Dovremmo puntare sulla scuola. Con gli adulti ormai non si può fare più nulla. Investire sui
bambini sì. Se vogliamo sognare… perché vadano a scuola si potrebbe dare loro un incentivo
congruo in denaro… altrimenti ai genitori conviene che i figli vadano ad elemosinare.
Per quanto riguarda questo nostro Centro Indumenti, a volte ragioniamo se conviene
tenere aperto il servizio. Ma è vero che rappresenta un contatto tra i parrocchiani e la chiesa,
la comunità dei dintorni e la parrocchia. Uno sportello aperto e… andiamo avanti…
per accogliere soprattutto.
Dicembre 2009
Il coro della Parrocchia di San Bartolomeo della Beverara (2011)
Come già riferito altre volte, ho intenzione di continuare queste interviste per altri servizi già esistenti e
per stimolare possibili vocazioni al volontariato; sarà un piacere essere contattata dagli interessati che
vogliono parlare della propria esperienza. Grazie. Angela Mazzetti Fanti (Tel. 0516345116).
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