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I had the touch. Canzoni rock che parlano dell`invecchiamento

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I had the touch. Canzoni rock che parlano dell`invecchiamento
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I had the touch. Canzoni rock che parlano dell’invecchiamento
Jacopo Conti
Quattro canzoni incise da “vecchie glorie” del rock (Beatles, Joni Mitchell, Rolling Stones e
George Harrison) in anni recenti condividono l’uso di una piccola frase riguardante una non
precisata “perdita di contatto”. Questo saggio analizza queste canzoni e le interpreta in un
contesto musicale in cui questi artisti si considerano “vecchi”, non più “in contatto” con il
pubblico, e come la musica veicoli questo messaggio.
A mio padre e mia zia,
che non sono potuti invecchiare
Grow old along with me
The best is yet to be
John Lennon, Grow Old With Me (Milk and Honey, 1982)
Stupisce non poco un elemento comune a quattro canzoni degli ultimi quindici anni di tre o quattro
“vecchie glorie” del rock cosiddetto d’autore: i Beatles, Joni Mitchell, George Harrison e i Rolling
Stones. I brani a cui si fa qui riferimento specifico sono Free As A Bird (The Beatles Anthology vol.
1, 1995), Stay In Touch (Taming The Tiger, 1998), Stuck Inside A Cloud (Brainwashed, 2002) e
Losing My Touch (Forty Licks, 2002)1, mentre l’elemento in comune è la “perdita del contatto” o,
cambiando la traduzione, del “tocco”. Non è strano che dei grandi nomi dell’industria della popular
music riflettano nei loro lavori sulle proprie vicende personali, ma l’utilizzo degli stessi termini è
quantomeno singolare e denota forse, come vedremo, un’ulteriore presa di posizione nei confronti
mondo discografico moderno. Non va dimenticato, a premessa della lettura di questo articolo, che il
rock è un genere musicale prepotentemente associato all’adolescenza e alla prima età adulta, mai
alla maturità o alla vecchiaia. Si prenderanno in considerazione gli stessi elementi per quanto
riguarda
ogni
singola
canzone:
qualche
cenno
riguardo
il
momento
della
carriera
dell’esecutore/autore (in tutti e quattro i casi esecutore e autore coincidono), in un secondo
momento se ne analizzeranno i testi (per ragioni di copyright, non sono stati trascritti i testi
integralmente: si sono inserite solo le parti contenenti la frase presa in esame e si è cercato di
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descrivere il resto), e nel terzo paragrafo si presenteranno brevemente aspetti musicali di base quali
velocità, tonalità, qualche elemento armonico e soprattutto i profili melodici delle frasi riguardanti il
«tocco/contatto», per valutare se, e in che modo, queste vengono messe in risalto (le trascrizioni
sono di chi scrive). Il paragrafo conclusivo riguarderà tutti e quattro i pezzi, mettendo insieme gli
elementi in comune e trattando un ultimo aspetto musicale – la strumentazione – che proporrà
l’interpretazione dei brani suggerita dal titolo.
LEGENDA DELLE ANNOTAZIONI MUSICALI
Per l’annotazione degli elementi musicali all’interno del presente articolo si utilizzeranno i seguenti
caratteri:
•
Nomi delle note singole in minuscolo senza le grazie («Sulle strofe viene tenuto un pedale di
do dal contrabbasso»).
•
I nomi delle tonalità e delle aree armoniche vengono segnalati con la sola prima lettera
maiuscola («Fa lidio e Do ionico»).
•
I nomi degli accordi vengono scritti interamente in maiuscolo; se non viene specificato nulla,
l’accordo è maggiore, come nel normale uso delle sigle («DO» indica l’accordo di do
maggiore, do-mi-sol; «DOm» sta per do minore, ossia do-mi♭-sol)2.
•
Gli accordi costruiti su gradi della scala sono scritti in rilievo,
maggiori e
i minori (« ♭
quelli
» per indicare un accordo maggiore sul primo
grado, uno minore sul sesto, uno maggiore sul sesto abbassato e sul quinto: le frecce indicano il
movimento discendente del basso).
FREE AS A BIRD
1. NOTE DI PRODUZIONE
La vicenda del pezzo pubblicato per primo (1995) è la più affascinante, nonché la più carica di
significati nostalgici. Tra il 1994 e il 1995 i tre Beatles ancora in vita pubblicarono la Beatles
Anthology, un’ampia raccolta3 contenente nuovo materiale dei Fab Four – essenzialmente
versioni demo, prime incisioni, esecuzioni dal vivo di lavori più o meno noti. Di tanto in tanto vi
sarebbero stati – e questo era l’elemento che ebbe maggiore risonanza presso i media – pezzi
inediti, i primi dallo scioglimento del 1970 (non solo out-takes degli anni Sessanta ma anche
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canzoni registrate ex novo).
Naturalmente il problema, se
così lo si può definire, era
l’assenza di John Lennon; l’idea
fu quindi quella di lavorare a
una canzone lasciata incompiuta
dall’autore
prima
di
essere
ucciso nel 1980. La scelta
ricadde su Free As A Bird; i tre
musicisti e il produttore Jeff Lynne lavorarono a partire da una registrazione su cassetta risalente,
stando al booklet del cd4, al 1977, provvista di una traccia singola (fatta con un normale
registratore portatile, insomma) contenente voce e pianoforte che comprendeva solo il chorus,
cui aggiunsero le voci di tutti e quattro, batteria, basso, chitarre acustiche, chitarra elettrica e
slide, una traccia di pianoforte aggiuntiva e una nuova sezione, il bridge, scritta appositamente
da McCartney, Harrison e Starr. La canzone che ne risultò è in forma chorus-bridge –
particolarmente cara ai Beatles5 – e presentava, per la terza volta da sempre, tutti e quattro i
musicisti come autori6. Che sia per le difficoltà tecniche incontrate all’inizio, dovute alla scarsa
qualità della registrazione originale (e alla non separazione delle tracce), per il trasporto emotivo
nel lavorare nuovamente a un pezzo incompleto dell’amico perso tragicamente, per l’essere
tornati di nuovo insieme dopo tanti anni in qualità di Beatles, o forse per tutte queste ragioni
sommate, tutti si dissero assolutamente soddisfatti del risultato finale; per constatare che le
interviste in cui McCartney, Harrison, Starr e Lynne non fossero così entusiastiche solo per
ragioni promozionali, si considerino le dichiarazioni dell’anno successivo riguardanti Real Love
(The Beatles Anthology Vol. 2, 1996), la seconda e ultima canzone con cui si confrontarono i
musicisti, in cui si afferma che la prima registrazione li coinvolse sia musicalmente che
personalmente molto di più, probabilmente perché Free As A Bird era un abbozzo su cui tutti
lavorarono, mentre Real Love era una canzone fatta e finita, cui furono aggiunti solo gli
strumenti. Se i loro entusiasmi fossero stati generati solo da motivi “commerciali”, avrebbero
decantato le lodi anche di Real Love.
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2. TESTO
Whatever happened to
The life that we once knew?
Can we really live without each other?
When did we lose the touch?
It seemed to mean so much
It always made me feel so free
I testi del chorus e del bridge sono stati scritti se non in momenti o da persone diversi, almeno con
intenzioni differenti. La prima parte è ricca di ripetizioni e molto vaga, nonché piuttosto ingenua (il
volo e le ali sono tra gli elementi più utilizzati nella retorica del pop-rock), per quanto breve;
probabilmente era solo una bozza che Lennon non sviluppò. La seconda (qui riportata), al contrario,
è molto precisa e si tinge nettamente di riflessi nostalgici, riferendosi molto chiaramente ad un solo
argomento, i tempi andati («The life that we once knew»). Si consideri inoltre che entrambe le
sezioni sono costituite da sei versi, ma mentre la prima contiene solo due verbi (secondo e quinto
verso), uno declinato al presente e l’altro al futuro, la seconda ha al suo interno sette verbi7 (più di
uno per verso), cinque dei quali declinati al passato e uno al presente.
In questo caso sembra più opportuno tradurre touch con «contatto» piuttosto che «tocco» a causa
del verso precedente – «Possiamo davvero vivere l’uno senza l’altro?» – e di conseguenza la frase
risulterebbe, parafrasata, «Quand’è che abbiamo interrotto i contatti?», alludendo forse alle vicende
personali dei quattro dopo la separazione. In questa ottica, è particolarmente significativo che sia
McCartney a cantare questo verso (nel bridge cantato da Harrison non è presente), colui in quale
fece causa agli altri componenti del gruppo nel 1970 ponendo ufficialmente fine alla vicenda
discografica della band 8. Ma non va anche dimenticato che nel 1995 erano passato venticinque anni
dallo scioglimento del gruppo più famoso del mondo, durante i quali la popular music anglosassone
era passata attraverso momenti di cambiamento – il progressive rock, il punk, la disco, il reggae, la
world music, il rap, l’heavy metal, le nuove “beatlemanie” figlie di MTV verso artisti come Michael
Jackson, Madonna, Prince, U2, Duran Duran o Take That, e ancora l’irruzione del grunge nei primi
anni Novanta – che avevano al massimo coinvolto solo di striscio gli ex Beatles. Nel 1995 l’unico
nome che ancora garantiva vendite certe tra i tre ex sodali era quello di Paul McCartney, che però
aveva consolidato la sua fortunatissima carriera come songwriter di successo, mettendo da parte la
vena sperimentale e avanguardista che aveva caratterizzato la produzione dei Fab Four. Quel verso
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si può quindi tingere di una malinconia nei confronti di un periodo, ormai lontano, in cui quasi ogni
loro nuovo disco era letteralmente in grado di cambiare le tecniche
produttive del mercato
discografico.
3. Annotazioni di carattere musicale
Il pezzo è piuttosto lento, a 72 bpm, una velocità che un manuale di solfeggio da conservatorio
tradurrebbe con l’indicazione agogica Adagio. Il metro è di .
Il primo grado ( ) cui si fa riferimento è un La maggiore. La linea di basso su cui è costruita
l’impalcatura armonica dei chorus è discendente: |LA FA#m|FA MI| ( ♭
). Utilizzando la
terminologia di Philip Tagg9, questo è un loop di accordi che viene ripetuto tre volte; la quarta volta
intervengono i cambi turnaround, che hanno la funzione di innescare la ripetizione successiva,
anch’essi comunque discendenti, con tanto di “ritardo” (il la all’interno del MIsus4 che risolve solo
nella seconda metà della battuta): |DO – LAm|MIsus4 MI| (♭ sus4
). Il bridge è, al contrario,
costruito su una sequenza ascendente, quasi ripercorrendo gli accordi del chorus all’inverso, ed è
diviso in due parti uguali, con l’eccezione dell’ultimo accordo: ||: FA | RE7/fa# |SOL ||1. LA :||2. MI||
(♭
7
/
♭
( )). Allo stesso modo, la linea melodica corrispondente sale; la frase presa in
considerazione, «When did we lose the touch», è il verso iniziale della seconda metà, collocato sul
secondo ♭
: non è in una situazione di particolare rilievo, arrivando dopo una frase che si impenna
molto verso l’acuto, ma ha comunque un profilo ascendente molto evidente, con sei note in tutto. La
parola «touch», in quanto conclusiva del verso, è resa da McCartney come momento di distensione
(e fa rima con il successivo «much»; Esempio 1).
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Esempio 1
Il bridge si contraddistingue inoltre per il fatto che è cantato da una voce solista (nel primo, intero,
da McCartney, nel secondo, solo le prime quattro battute, da Harrison), mentre nei chorus vi è la
presenza massiccia dei cori, sebbene la voce di Lennon sia in evidenza, soprattutto all’inizio. Non
dimentichiamoci che Lennon aveva scritto e suonato solo i chorus, ragion per cui si resero
necessarie le sovraincisioni dei cori per mascherare la scarsa qualità della registrazione originale,
mentre i bridge sono stati scritti nel 1995.
STAY IN TOUCH
1. NOTE DI PRODUZIONE
Con Turbulent Indigo Joni Mitchell ottenne due Grammy Awards (migliore disco pop vocale e
migliore copertina) e ottime recensioni. Ad esso seguì una raccolta di successi (il classico Best Of
che la casa discografica lancia per ridare luce ad “una stella in declino”) e, nel 1998, Taming The
Tiger. Gli intenti della cantautrice e degli editori sono palesi: mantenere la linea del precedente
successo. Oltre all’etichetta sul jewel box del cd che non lascia spazio ad alcun dubbio («The
anticipated follow-up to her double Grammy® Award-winning release, Turbulent Indigo…»), il
disco ha le medesime sonorità e lo stesso formato: autoritratto incorniciato dell’autrice in copertina,
colonna a sinistra di esso per nome di lei e titolo dell’album che parzialmente vanno a sovrapporsi
alla cornice (la cura dei particolari è inquietante) e, sul retro, un altro quadro, questa volta
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raffigurante un paesaggio10. Come spesso accade, essendo un “seguito” di Turbulent Indigo, non fu
considerato all’altezza del predecessore. In realtà si sarebbero potuti stampare come un disco
doppio, tale è la somiglianza delle atmosfere dei due.
Taming The Tiger, però, aveva una caratteristica che lo
differenziava: era stato annunciato come l’ultimo disco di
inediti che Joni Mitchell avrebbe mai prodotto. Durante gli
ultimi anni della sua attività la cantautrice si era scagliata con
rabbia crescente contro le politiche delle case discografiche,
dicendosi ormai disinteressata a proseguire una carriera nella
quale non veniva più presa in considerazione, preferendo ad
essa la pittura; la realtà dei fatti fa quindi apparire un po’
bizzarre queste affermazioni, dal momento che nel giro di
pochissimo tempo Mitchell pubblicò altri due dischi prima di ritirarsi come annunciato. Al di là
delle considerazioni che si possono sviluppare riguardo la sua coerenza, è utile considerare questa
situazione per “leggere” Taming The Tiger nella sua interezza, e in particolare Stay In Touch (lett.
Rimaniamo in contatto).
2. TESTO
La canzone è composta semplicemente da due chorus, un bridge e immediatamente dopo un altro
chorus finale, come i più celebri standard jazz, cioè il cuore del songbook americano. Ogni chorus
termina con la ripetizione del titolo per tre volte, più un laconico «in touch» finale. (Si riproduce qui
solo il primo chorus).
This is really something
People will be envious
But our roles aren’t clear
So we mustn’t rush
Still
We are burning brightly
Clinging like fire to fuel
I’m grinning like a fool
Stay in touch
We should stay in touch
Oh, stay in touch
In touch
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In tutto il brano ci sono solo due frasi in prima persona singolare, una verso la fine del primo chorus
e l’altra alla fine del bridge. Sin dall’inizio è netta una distinzione tra «noi» e «loro» – coloro i quali
saranno «invidiosi» – ma di fatto tutto ruota intorno a «noi».
La prima strofa da sola potrebbe descrivere la relazione di due amanti di lunga data, in una
situazione che non è chiara nemmeno a loro, mentre la fine della seconda strofa («Till we build a
firm foundation») e soprattutto il bridge sembrano andare in un’altra direzione; in quest’altro caso
potrebbe allora trattarsi della relazione burrascosa della cantautrice con l’industria discografica,
evidentemente non solo di odio ma di amore/odio. La fine della terza strofa, di nuovo, sembra
cambiare ambito; le affermazioni contenute all’interno di essa sono «filosofiche» e riguardano la
vita in generale. I primi quattro versi di essa, inoltre, sono un elenco di cosa è giusto fare,
presentandosi indirettamente come critici nei confronti di ciò che in realtà viene fatto. Ricordare le
posizioni polemiche assunte nel periodo della scrittura della canzone e nel resto dell’album («Tire
skids and teeth marks/What happened to this place?/Lawyers and loan sharks/Are laying America to
waste»11), non solo nei confronti del mondo discografico ma anche a livello politico, ci fa supporre
che quest’ultima sia l’interpretazione più corretta per l’intera canzone.
Ciò che interessa qui, però, è un altro punto: a giudicare dal testo, l’autrice sembra annoverarsi tra i
«saggi» cui fa riferimento nel secondo verso del bridge («during times like these/The wise are
influential»), dal momento che esso è disseminato di consigli che vengono presentati in prima
persona: «We mustn’t rush» (prima strofa), «We must loyal and wary/Not to give away too
much/Till we build a firm foundation» (seconda strofa), «We should just surrender/Let fate and
duty shape us» (terza strofa) e, naturalmente, la chiusura di ogni periodo, «We should stay in
touch». E la saggezza, inutile ricordarlo, è un attributo comunemente non associato alla gioventù;
nel 1998 Mitchell aveva 55 anni, una persona matura, non ancora “vecchia”. Ma sull’elemento
“vecchiaia” torneremo parlando dei suoni.
3. ANNOTAZIONI DI CARATTERE MUSICALE
La canzone è molto lenta, a circa 50 bpm (Largo o Lento come indicazione agogica), sebbene sia
molto arduo stabilire dei battiti regolari a causa degli spostamenti d’accento continui
dell’accompagnamento di chitarra (di base è in , ma spesso capita che a una battuta venga tolto o
aggiunto un ottavo, passando quindi in  o in ) e del metro irregolare dei versi, tra l’altro
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spezzettati in frasi musicali l’una diversa dall’altra e dall’assenza di una sezione ritmica. La
sensazione generale è di un’esecuzione in tempo rubato, con il canto e l’improvvisazione del sax a
dettare la scansione vera e propria.
La melodia è molto tortuosa, assecondando continuamente la metrica del testo, ragion per cui
nessun verso è uguale ad un altro. I finali di ogni chorus (quelli contenenti il titolo della canzone) si
distinguono chiaramente per due ragioni: [1] hanno lo stesso, brevissimo testo; [2] sono
caratterizzati da note lunghe e pause ampie della voce tra una ripetizione del refrain e l’altra,
mentre quelle del resto del chorus sono brevi e irregolari. Il bridge ha un disegno melodico più
lineare, tendenzialmente ascendente, e sull’ultimo «No doubt» si abbandona all’unico momento di
rilassato slancio verso l’acuto. Queste caratteristiche di combinazione tra testo e melodia fanno in
modo che le parti più immediatamente memorizzabili siano proprio il refrain del chorus e il finale
del bridge.
Il clima armonico si potrebbe definire bimodale, ove i due poli sarebbero Fa lidio e Do ionico; la
chitarra è in accordatura aperta12. L’armonia13 della prima parte del chorus è il loop di accordi FA
– LAm – MIm – FA, cui va aggiunto il Do che si può scorgere nei cambi tra un accordo e l’altro,
dato che Mitchell lascia risuonare le corde a vuoto. La seconda parte («Stay in touch») ha gli
accordi dell’introduzione, cioè una spola di accordi FA↔DO. L’unica parte in cui l’armonia ha una
“direzione” (ascendente) è il bridge, e questa caratteristica, unitamente agli aspetti melodici descritti
nel capoverso precedente, lo rendono il momento di “schiarita” del pezzo. Gli accordi di questa
sezione sono LAmSImREmMImFA, ripetuti per due volte, con il FA conclusivo a fare da
cerniera con il FA che dà inizio ad ogni strofa e l’ultimo «No doubt» sostenuto dal movimento
ascendente remifa del basso. La canzone termina su di un lungo accordo di Do maggiore.
STUCK INSIDE A CLOUD
1. NOTE DI PRODUZIONE
A un anno esatto dalla morte di George Harrison, nel novembre del 2002, venne pubblicato
Brainwashed, contenente gli ultimi lavori del chitarrista; molte delle canzoni in esso raccolte furono
terminate in studio dal figlio Dhani e dal produttore Jeff Lynne seguendo le indicazioni dell’ex
Beatle. Alcuni pezzi erano stati scritti molti anni prima, mentre altri sono stati ultimati
probabilmente a ridosso degli ultimi trattamenti di radioterapia cui Harrison fu sottoposto;
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inevitabilmente, quindi, si può trovare qualche riferimento alla propria vicenda personale nei testi di
alcuni di essi.
Mentre la maggior parte delle canzoni riguarda
l’argomento prediletto da Harrison dalla metà degli
anni Sessanta in poi, la spiritualità, il brano Stuck
Inside A Cloud è chiaramente ispirato dalla sua lotta
contro il cancro al cervello; la qual cosa permetterebbe
di collocare la sua stesura tra la fine degli anni Novanta
e l’inizio del nuovo millennio. Datarne a grandi linee la
scrittura può esserci utile se non altro per sapere che
almeno il testo fu concepito dopo il progetto dell’Anthology, che fu portato avanti nel 1995-96. È
possibile, quindi, che l’espressione «losing touch» sia rimasta nella mente di Harrison, ma questa
non può che essere una congettura.
2. TESTO
La struttura della canzone è strofa-ritornello, senza bridge o altri elementi, con un testo un po’
diverso per gli ultimi ritornelli:
Never slept so little
Never smoked so much
Lost my concentration I could
Even lose my touch
Data la brevità dei versi, questa canzone è, tra le quattro, la più criptica da decifrare, perché priva di
particolari e colma di immagini sfuggenti. Vi sono però alcuni versi che permettono di identificare
la tematica della canzone: mentre chi canta sa di essere bloccato in una situazione tra la vita e la
morte («incastrato in una nuvola»), la metafora che viene utilizzata per chiudere i primi quattro
versi è proprio quella della perdita del contatto con il mondo (o del tocco; magari, in questo caso
come in quello dei Rolling Stones, da intendersi in senso chitarristico), mentre la medesima
posizione nelle strofe successive è occupata da un’invocazione a Dio («The only thing that matters
to me is to/Touch your lotus feet»; come si è detto la spiritualità, segnatamente orientale, è forse
l’argomento più presente nelle canzoni di Harrison) e da una rassegnata quanto cruda affermazione
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(«I wish I had the answer to give don’t/Even have the cure»). Il pianto disperato di cui si parla nel
ritornello («Crying out loud») rimane drammaticamente inascoltato, forse a rappresentare la
solitudine interiore nell’affrontare la malattia («Only I can hear me»)14. Più difficile identificare la
seconda persona («you») cui si fa riferimento nell’ultimo ritornello: forse Dio, in una richiesta di
non essere lasciato solo, o forse la moglie Olivia.
3. ANNOTAZIONI DI CARATTERE MUSICALE
La velocità del pezzo è a 98 bpm (Andante, magari con qualche altro aggettivo), ed è in .
Ogni frase, come si è visto composta da poche sillabe, copre due battute, sia nelle strofe che nel
ritornello. I versi che chiudono ogni strofa (cioè proprio «Lose my touch» nella prima) sono
caratterizzati da una nota un po’ più lunga delle altre (con un piccolo melisma sulle ultime sillabe) e
in generale da un piccolo movimento verso l’alto, per cui si può dire che, insieme all’ultima parola
di ogni ritornello («Cloud» prima, «Heart» dopo; Esempio 2), svettino su tutto il resto.
Esempio 2
Questo pezzo che non ha un hook, né un ritornello tale da essere facilmente cantabile al primo
ascolto.
Le strofe sono accompagnate da una spola DO↔FA suonata tre volte che chiude con REm – SOL. I
ritornelli invece sono caratterizzati da un movimento discendente del basso FAMImREmDO e
da una chiusura relativamente “stagnante”, priva di direzionalità (REm – LAm – FA).
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LOSING MY TOUCH
Figura 1. Vignetta di Jeff Stahler del 1997 riportata in BILL WYMAN, Rolling with the Stones,
Mondadori, Milano 2002, p. 501
1. NOTE DI PRODUZIONE
Nel 2002 i Rolling Stones festeggiarono il quarantennale della loro carriera pubblicando una
raccolta dei loro singoli, Forty Licks, contenente, come facilmente desumibile dal titolo, quaranta
canzoni in totale: 36 successi e 4 inediti, uno dei quali, Don’t Stop, fu anche a sua volta singolo e
venne molto trasmesso da MTV. Non era certo la prima volta che veniva pubblicata una raccolta di
successi del gruppo15, ma forse in quel caso si era approfittato dell’anniversario anche per
conquistare il pubblico dei più giovani, dopo diversi anni di tour praticamente ininterrotto e di
assenza di singoli pubblicati. A seguito dell’uscita del disco, la band intraprese l’ennesimo,
ciclopico tour mondiale16: “la più grande rock ‘n’ roll band del mondo” doveva essere all’altezza di
se stessa.
2. TESTO
Tra i quattro inediti vi è un pezzo di Keith Richards17 intitolato Losing My Touch che si allontana
molto dalle atmosfere energiche del resto della raccolta. La canzone è in forma strofa-ritornello; tra
il quarto e il quinto ritornello c’è un solo di chitarra acustica, sul giro armonico della strofa. Questo
è il semplice ritornello:
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I'm losing my touch, yeah
Losing my touch
Losing my touch baby, way too much
Baby, get me out of here
It should be clear
La descrizione nelle strofe sembra riguardare qualcosa di non divertente che accade («It ain’t
funny/How things happen»)18, che inaspettatamente sposta tutto «in avanti», senza che però vi sia
una reazione da parte del soggetto, che al contrario non fa altro che «sedersi» e «aspettare». Nella
seconda strofa parrebbe che ci sia qualcosa di importante (tale da giustificare le «occhiate nervose»)
che viene tenuta nascosta («in a lockdown») all’interessato
(«tutti parlano sussurrando/ Nessuno vuole emettere un
suono»). Dopodiché giunge il ritornello, in cui il cantante
ammette di stare perdendo il suo «tocco» o il «contatto». Le
due strofe successive continuano a mantenere la prima
persona, con il soggetto che dice di entrare di soppiatto nella
casa della «baby» a cui si rivolge (Richards non rinuncia alle
retoriche da blues e rock ‘n’ roll) e di non aver bisogno di
molto tempo per raccattare le proprie cose e il proprio
passaporto; evidentemente si sta preparando una partenza, quasi certamente dopo un avvenimento
spiacevole – che giustificherebbe l’entrata in casa dal retro e il fatto che la donna a cui si rivolge sta
tenendo d’occhio la porta. Le interpretazioni che si possono dare di questo testo sono relativamente
poche per la seconda parte – il protagonista se ne vuole andare – mentre c’è un po’ più di incertezza
sulle prime due: potrebbero descrivere i momenti di attesa prima di sapere una diagnosi riguardante
qualcosa di particolarmente grave (un problema di salute che sopraggiunge in un momento in cui la
vita sembrava essersi sistemata, il personale che parla sottovoce e che fatica a mascherare il
nervosismo, per non farsi sentire dal paziente seduto, il silenzio forzato che circonda la situazione:
saputa la notizia, il protagonista decide di scappare), oppure la presa di coscienza da parte
dell’autore di non essere più un ragazzino (e la decisione di scappare), oppure una banale sbronza
(quindi tutte le descrizioni sarebbero dal punto di vista distorto di un ubriaco, magari in un
momento di tristezza ingrandito dall’alcool; la voce tendente al parlato di Richards suggerirebbe
questa soluzione)19. Ciò che è innegabile è la sensazione di inadeguatezza che sta sopraggiungendo
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in chi canta, manifestata con la formula «I’m losing my touch», ripetuta numerose volte lungo tutto
lo svolgimento del brano.
3. ANNOTAZIONI DI CARATTERE MUSICALE
Anche questo pezzo, come i primi due, è molto lento (62 bpm circa, Larghetto) e in .
Nelle strofe viene privilegiato un uso della voce tra il parlato e il sussurrato, e l’andamento
melodico è estremamente irregolare (Esempio 3). Le poche note che si potrebbero trascrivere
coprono comunque l’estensione di una quinta. Sia qui che nei ritornelli le pause tra un verso e
l’altro sono molto lunghe, ma siccome il profilo melodico di questi ultimi è chiaramente ascendente
(con melisma discendente su ogni «touch» conclusivo Esempio 4), riconosciamo chiaramente la
frase che dà anche il titolo al pezzo, che peraltro viene enunciata spessissimo.
Sulle strofe viene tenuto un pedale di do dal contrabbasso, mentre accenni di chitarra acustica,
pedal steel guitar e pianoforte ci fanno intuire che si stanno facendo i cambi di una spola
DO6/9↔FA(sus9)/do (si è usato il verbo “intuire” perché il silenzio pervade tutta la registrazione, tutti
gli strumenti suonano molto poco). La fissità del pedale viene, nei ritornelli, interrotta dal
movimento omofonico del contrabbasso (sostenuto dal pianoforte) e della voce, proprio sullo hook
«Losing my touch», tramutando la spola nel loop |DO DO/mi | SOL SOL/re SOL/mi SOL |. Dalla
stasi delle strofe al movimento circolare del ritornello, qui è il basso a rinfrescare l’atmosfera e a
sottolineare il testo.
Esempio 3
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Esempio 4
«THIS IS NOT HI-TECH». I SUONI E UNA POSSIBILE INTERPRETAZIONE
Ricapitolando: i brani presi in considerazione sono tutti lenti (tra i 50 e i 100 bpm) e nella
strumentazione comprendono chitarra acustica molto in risalto nel mixaggio, batteria acustica,
basso (con l’eccezione di Joni Mitchell, per cui non c’è sezione ritmica; contrabbasso per i Rolling
Stones), pianoforte (elettrico, dal suono poco invadente, in Stuck Inside a Cloud). Solo nel caso di
Joni Mitchell sono presenti tastiere elettroniche, le quali però impiegano dei pad molto soffusi, privi
di attacco, a sostegno della chitarra acustica, come anche la pedal steel guitar nel pezzo di Keith
Richards; gli strumenti solisti (la chitarra elettrica di Harrison, acustica per i Rolling Stones,
sassofono per Mitchell) hanno tutti suoni puliti, controllati; nel caso della chitarra elettrica dei
Beatles il suono è sporcato da una distorsione, e il registro acuto del solo aiuta a far «spiccare» il
suono sugli altri, ma il grande controllo della vibrazione delle corde di Harrison, esperto di chitarra
slide hawaiana, evita la presenza di feedback o altri rumori “collaterali”. L’impressione generale
che può suscitare l’ascolto del pezzo dei Rolling Stones è quella di un piccolo complesso jazz da
night club anni Cinquanta o Sessanta (batteria suonata con le spazzole, contrabbasso, tutti gli
strumenti suonano poco, accennando solo accordi o piccole frasi), mentre per il pezzo di Harrison
entra in gioco un elemento, apparentemente marginale, che però è un segnale anche per l’ascoltatore
più distratto (magari non cosciente del perché): sui ritornelli, si sente chiaramente un sitar20 che
suona il primo accordo del giro, invadendo poi con i caratteristici ronzii l’ambiente armonico,
probabilmente insieme all’immancabile tambura a sostegno. Questo elemento, in ambito rock, non
può che far venire alla mente il periodo psichedelico del 1965-68.
Un altro elemento importante che accomuna tutti e quattro i pezzi è lo stile interpretativo del
cantato: in ognuno dei casi trattati la vocalità è sommessa, senza una particolare spinta del
diaframma. In tutte le canzoni qui prese in esame il volume non è mai “alto”, compresa la voce, la
quale sembra quasi sussurrare di perdere il contatto con l’ascoltatore.
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Forse, però, sono gli strumenti che non ci sono a dirci di più di queste registrazioni.
I’m going to make a record something like twenty years ago. Just like a rock ‘n’ roll band
making a record. We had real saxes, real guitars, real pianos, real drums; real people
playing real songs21.
I still do it the same as we did thirty years ago or even forty years ago; it’s still in the old
school of music or, you know, in Sixties or Seventies way of doing stuff. It’s not hi-tech,
and it’s not rap or techno or whatever version of it… I used acoustic guitars, played by
people, into microphones, on the tape22.
Le parole di George Harrison appena citate sono estremamente significative. Certo, né lui né gli
altri artisti qui presi in considerazione si sarebbero sognati di incidere, negli anni Ottanta, Novanta o
oggi, un disco come all’inizio della propria carriera (due tracce, magari in mono, tutto in diretta o
con poche sovraincisioni, nessun effetto digitale ecc.); si tenga presente, inoltre, che nel disco Cloud
Nine (1987), per il quale faceva promozione nel momento in cui rilasciò la prima delle due
dichiarazioni, si sente un massiccio uso (ma non invasivo, non chiaramente riconoscibile dai non
esperti) del vocoder, ossia il “raddrizzatore” vocale artificiale molto in auge negli anni Ottanta (e
sempre di più in questo ultimo decennio), per dare un effetto di compattezza ai cori e ad alcune
sezioni strumentali (si ascoltino attentamente i sax e i cori di Got My Mind Set On You: sembrano
tutt’altro che reali…).
Ciò di cui parla Harrison non riguarda l’uso di tutti i trucchi del mestiere possibili per far suonare al
meglio una registrazione23; la «old school of music» a cui fa riferimento è quella che non ha
bisogno di un campionatore per fare musica. Le «vere canzoni» non sono quelle che nascono dalla
riproduzione in loop di una base tratta dal disco di qualcun altro24, in cui basta premere un tasto e la
base è fatta. Il pensiero «la musica vera è quella prodotta con il sudore della fronte, non con i suoni
preconfezionati di un computer» è diffusissimo tra gli appassionati “medi” di musica rock; per
quale motivo un pensiero come questo non dovrebbe essere anche nelle menti di musicisti così
importanti? Si tenga ben presente tutto ciò: in nessuno di questi brani è presente un campionamento,
una batteria elettronica, un rap o uno scratch.
Il riferimento che viene fatto nel titolo di questo articolo è a una canzone di Peter Gabriel tratta dal
suo quarto disco (1982) il cui titolo originale è I have the touch. Nel testo del bridge Gabriel canta
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«Give me the things I understand», ossia «dammi le cose che riesco a capire»: coniugare il verbo al
passato, in questo caso, vuole sottolineare come – forse – la perdita di contatto è riferita anche a una
incomprensione nei confronti di alcune delle ultime mode musicali da parte dei musicisti qui trattati
(in particolare, questa posizione sembra particolarmente evidente in George Harrison e Joni
Mitchell)25.
L’idea che il «touch» di cui si è parlato in questo articolo sia, a ben guardare, il contatto con il
pubblico o con il mondo discografico è simile a quella secondo cui Dinosaur (THRAK, 1995) dei
King Crimson sia un modo, da parte del gruppo, di autodefinirsi “dinosauro” del rock26, e si è
cercato di fornire dei dati a sostegno di questa. Si tenga comunque presente il fatto che questi artisti
hanno mantenuto un loro (folto) pubblico negli anni e che, probabilmente, questa sorta di
“straniamento” rispetto al mondo musicale è rivolto principalmente alla discografia più attenta al
mercato giovanile: contrariamente a quanto insinuato da Harrison, esistono ancora gruppi di grande
successo commerciale che suonano per intero nei loro dischi senza ricorrere a campionamenti; molti
di questi, anzi, si dedicano esclusivamente alla musica acustica27. Sempre in questa ottica, si
tengano presente i numerosi artisti che, negli ultimi anni, hanno pubblicato raccolte di
reinterpretazioni di classici altrui o propri, come Rod Stewart, James Taylor o Sting. Non hanno
(ancora) scritto brani in cui affermano di «perdere il contatto» con il pubblico o il «tocco» in senso
musicale, ma di certo questo è il sintomo di uno sguardo – più che legittimamente, certo – rivolto al
passato.
Un’ultima, piccola annotazione di carattere linguistico: in tutti i casi appena trattati, dal momento
che siamo nell’ambito popular, sarebbe da molti considerato fuori luogo parlare di “tardo stile”…
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BIBLIOGRAFIA
FRANCO FABBRI, Il suono in cui viviamo, Il Saggiatore, Milano 2008 (terza edizione).
SIMON FRITH, Il rock è finito. miti giovanili e seduzioni commerciali nella musica pop, EDT, Torino 1990
(ed. orig. Music for pleasure, Routledge, New York 1988).
GEORGE HARRISON, I Me Mine, Rizzoli, Ginevra-Milano 2002 (ed. orig. I Me Mine, Simon & Shuster, New
York 1980)
MARK LEWISOHN, La grande storia dei Beatles, Giunti, Firenze 1996.
BRIAN ROBINSON, Somebody is Digging My Bones: King Crimson's 'Dinasaur' as (post)Progressive
Historiography, in Kevin Holm-Hudson (a cura di), Progressive Rock Reconsidered,
Routledge, New York & London 2002, pp. 221-42
PHILIP TAGG, Everyday Tonality. towards a tonal theory of what most people hear, The Mass Media
Scholars’ Press Inc., New York & Montral 2009 (ed. italiana La tonalità di tutti i giorni. armonia,
modalità, tonalità nella popular music: un manuale, Il Saggiatore, Milano 2011).
RIFERIMENTI DISCOGRAFICI
BEATLES, The, Rubber Soul, EMI 0777 7 46440 2 0, 1965
–
, Revolver, EMI PMCQ 31510, 1966 (con Tomorrow Never Knows).
–
, Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, EMI 0777 7 46442 2 8, 1967 (con Good Morning, Good
Morning).
–
, Magical Mystery Tour, EMI C2 0 777 48062 2 0, 1967 (con Flying).
–
, The Beatles, EMI 7243 4 96895 2 7, 1968 (con Piggies e Blackbird).
–
, Let It Be, EMI 0777 7 46447 2 3, 1970 (con Dig It e Maggie Mae)
–
, The Beatles Anthology 1, EMI 7243 8 34445 2 6, 1995 (con Free As A Bird).
–
, The Beatles Anthology 2, EMI 7243 8 34448 2 3, 1996 (con Real Love).
HARRISON, George, All Things Must Pass, EMI Parlophone 7243 550474 2 9, 1970.
HARRISON, George (& Friends), Concert For Bangladesh, EMI , 1971.
HARRISON, George, Living In The Material World, EMI LITMW 1, 1973.
–
, Dark Horse, EMI CDP 7980792, 1974.
–
, Somewhere In England, Parlophone 7243 5 94235 2 4, 1981 (con All Those Years Ago).
–
, Cloud Nine, Parlophone 7243 5 94237 2 2, 1987 (con Got My Mind Set On You).
–
, Brainwashed, EMI 7243 5 43747 0 8, 2002 (con Stuck Inside A Cloud).
–
, The Dark Horse Years 1976-1992, Parlophone GHBOX 1, 2004 (con il DVD eponimo).
KING CRIMSON, THRAK, Discipline Global Mobile, KCCDY 1 7243 8 40313 2 9 (con Dinosaur).
LENNON, John, John Lennon/Plastic Ono, EMI 7243 5 28740 2 6, 1970.
–
, Imagine, EMI 7243 5 24858 2 6, 1971.
MITCHELL, Joni, Turbulent Indigo, Reprise Records 9362-45786-2, 1994.
–
, Taming The Tiger, Reprise Records 9362-46451-2, 1998 (con Stay In touch e No Apologies).
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ROLLING STONES, The, Forty Licks, Virgin 724381337820, 2002 (con Losing My Touch).
–
, A Bigger Bang, Virgin 0094633799424, 2005 (con This Place Is Empty).
1
L’ordine in cui le canzoni vengono presentate è quello supposto cronologico di composizione (per questa ragione si è
collocata prima la canzone di Harrison rispetto a quella dei Rolling Stones, anche se Brainwashed è uscito nel
novembre 2002 mentre Forty Licks è stato pubblicato in ottobre).
2
Per ulteriori specificazioni, cfr. Philip Tagg, Everyday Tonality. Towards a tonal theory of what most people hear, The
Mass Media Scholars’ Press Inc., New York & Montral 2009, pp. 139-158.
3
Si tratta di tre dischi doppi, un grosso volume di memorie con ampia documentazione fotografica e otto videocassette,
poi riedite in dvd.
4
Booklet di The Beatles Anthology 1, a cura di Mark Lewisohn, EMI 7243 8 34445 2 6, 1995, p. 4.
5
Cfr. Franco Fabbri, Il Suono In Cui Viviamo, Il Saggiatore, Milano 2008, pp. 155-196.
6
I precedenti ufficiali furono lo strumentale – l’unico del gruppo – Flying (Magical Mystery Tour, 1967) e Dig It (Let It
Be, 1970), una jam cantata di cui furono pubblicati solo pochi secondi. Maggie Mae (Let It Be, 1970) era invece un
brano tradizionale, solo arrangiato dal gruppo. L’Anthology Vol. 2 (1996) svelò l’esistenza di un ulteriore pezzo
strumentale registrato durante le sessioni per Rubber Soul (1965) spartanamente intitolato 12-Bar Original, anch’esso a
firma di tutti e quattro.
7
Made e il servile can sono contati come un tutt’uno con i verbi che reggono (mean e feel).
8
Se la fine del quartetto fu sancita, dal punto di vista legale, dalla causa intentata da McCartney, dal punto di vista
mediatico ciò avvenne con una sua dichiarazione alla stampa datata 10 aprile 1970 (Mark Lewisohn, La grande storia
dei Beatles, Giunti, Firenze 1996, p. 349). McCartney, tra l’altro, nel periodo immediatamente successivo lo
scioglimento dei Beatles si dimostrò il più restio a suonare nei dischi degli ex sodali: mentre Starr suonò la batteria in
John Lennon/Plastic Ono (1970) di Lennon e All Things Must Pass (1970), Concert For Bangladesh (1971), Living In
The Material World (1973) e Dark Horse (1974) di Harrison, che a sua volta suonò in Imagine (1971) di Lennon,
McCartney scrisse e suonò per il solo Starr, a causa dei rapporti tesi con gli altri due. Collaborò per la prima volta con
Harrison solo nel 1981, facendo i cori per All Those Years Ago (Somewhere In England, 1981), il cui testo è dedicato
alla memoria di Lennon.
9
P. Tagg, Everyday Tonality, cit. Cfr. in particolare pp. 199-240.
10
Entrambi i libretti contengono i testi delle canzoni, ma ça va sans dir: essendo Joni Mitchell una cantautrice
“impegnata”, è necessario che ci siano.
11
È il ritornello di No Apologies, che precede di tre tracce Stay In Touch. In realtà le canzoni che fanno esplicito
riferimento alla situazione politica contemporanea sono sempre frequenti nella produzione di Joni Mitchell.
12
Per Joni Mitchell è quasi la norma, specialmente se l’accordatura è insolita. In questo caso, è in Do maggiore aperto,
con le due corde più gravi intonate su due do ad un’ottava di distanza, risuonando in maniera piuttosto invasiva.
13
Per quanto annotabile: anche gli arpeggi e gli accordi di passaggio sono soggetti a cambiamenti frequenti dovuti
all’interpretazione. Qui si trascrive l’impalcatura generica.
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Si sottolinea interiore: la famiglia gli rimase sempre vicinissima. Se si vuole collegare il verso a questo significato, è
forse da interpretare come «unica persona a combattere con la malattia».
15
Senza contare i dischi dal vivo, furono pubblicate ben ventitre (!) raccolte ufficiali del gruppo, ma mai che
racchiudessero tutta la loro produzione come in questo caso.
16
Dal settembre 2002 al novembre 2003, con due pause nel dicembre 2002 e nel maggio 2003, per un totale di 117
concerti.
17
Ciò significa che, seppure sia registrato a nome Jagger/Richards, è stato scritto interamente da Richards: Jagger, tra
l’altro, non vi fa nessun coro, né suona l’armonica o la chitarra ritmica
18
Può al contrario essere divertente notare che un pezzo cantato da Richards nel disco successivo del gruppo intitolato
This Place Is Empty (A Bigger Bang, 2005), anch’essa una ballad acustica, presenta come frase iniziale di ogni
ritornello proprio l’opposto di quella scritta qui: «It’s funny how things go around/It’s crazy but it’s true».
19
Data la fama di Keith Richards, né la prima né la seconda opzione escluderebbero la terza.
20
Non accreditato nel booklet, stranamente.
21
Dvd di The Dark Horse Years 1976-1992, Parlophone GHBOX 1, 2004, [0:28].
22
Dvd aggiunto all’edizione speciale di Brainwashed, EMI 7243 5 43747 0 8, 2002, [1:44].
23
Sarebbe contraddittorio: è stata proprio la sua generazione (e i Beatles in particolare) ad aver dato un input fortissimo
alle innovazioni in quel campo.
24
Questo elemento va sottolineato: in Tomorrow Never Knows (Revolver, 1966), i Beatles usarono – forse per primi nel
loro ambito – i loop e i campionamenti, ma si trattava di pattern ritmici e suoni di vario genere che effettivamente erano
stati suonati dai quattro e dai tecnici di studio, non presi in prestito da altri dischi. Gli unici suoni pre-registrati che
possiamo sentire nei dischi dei Beatles sono il finto pubblico in tutto il disco Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band
(1967) e gli animali in esso presenti (Good Morning, Good Morning…) e nel White Album (Piggies, Blackbird…).
25
Harrison dimostrò di non avere particolare simpatia per la popular music a lui contemporanea neanche nella sua
autobiografia, scritta nel 1979, indicando come alcuni elementi dei nuovi chitarristi lo infastidissero: per esempio,
parlando del bending (la tecnica chitarristica con cui la mano sinistra piega le corde lungo il manico per far loro
raggiungere note più alte) affermava (la frase tra parentesi è carica di ironia): «Quando si suona la chitarra blues, si
tratta di spingere la corda come puoi e provare, a orecchio, a ottenere il tono giusto (sapete, la maggior parte dei
chitarristi odierni non ha assolutamente orecchio per il tono, e sembra che questo non abbia più importanza)». George
Harrison, I Me Mine, Rizzoli, Ginevra-Milano 2002, p. 56.
26
Cfr. Brian Robinson, Somebody is Digging My Bones: King Crimson's 'Dinasaur' as (post)Progressive
Historiography, in Kevin Holm-Hudson (a cura di), Progressive Rock Reconsidered, Routledge, New York 2002, pp.
221-42.
27
Va però sottolineato che un interesse per la musica esclusivamente acustica è rinato nel mercato mainstream a cavallo
tra il XX e il XXI secolo, e non al tempo delle dichiarazioni di Harrison.
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