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Le prigioni di Mussolini Li venivano prendere dal di lì

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Le prigioni di Mussolini Li venivano prendere dal di lì
Le prigioni di Mussolini
Li venivano prendere dal di lì
Gli antifascisti romagnoli caduti nelle mani dei nazi-fascisti erano concentrati a
Forlì, dove, per contenere il gran numero di prigionieri, fu trasformata in
carcere l’ex caserma Caterina Sforza. Da lì, i condannati alla deportazione
erano caricati sui vagoni destinati in Germania e lì, i tedeschi, venivano a
prelevare gli ostaggi per le loro rappresaglie.
[Forlì] 13 [aprile] = Straordinario è il numero dei prigionieri politici, partigiani, sospettati nelle
nostre carceri, fra romagnoli; italiani, stranieri, o per misure di sicurezza, ovvero per motivi razziali,
militari, catturati e messi a disposizione dei comandi delle SS. o della g.n.r.. I registri matricola si
riempiono paurosamente e gli arrestati, tra cui numerosi cosiddetti renitenti o disertori, come
entrano a frotte ne escono destinati ad altri luoghi figuranti in margine, quali Verona, Bologna,
Mantova, sede dei concentramenti per la deportazione in Germania, ovvero per sentenza avviati al
patibolo, assassinati comunque. E’ l’umanità dolorante che in queste carceri e le altre tutte della
sciagura repubblicana, da mille rivoli giunge e rifluisce angosciata verso ignota sorte, poveri esseri
da un cattivo destino cacciati ad una svolta paurosa, spesso senza colpa alcuna o candidati al
capestro perché nati ebrei. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì)
... alla mattina, ci portarono a Forlì in prigione. E in prigione a i sam stè tri mis e mez. 135 giorni.
Poi, dopo, ci mandarono in Germania. (...) In prigione a Forlì l’era una roba incredebila... perché
c’erano anche i dieci di Cesena, che erano di Cesena e qualcuno di Forlì, che erano dentro che se
suzedeva qualcosa j i duveva fucilé. L’era pó Primo Romagnoli, Pirulon [Pio (Attilio) Fusconi],
Butighina il repubblicano e altri... erano antifascisti conosciutissimi. Non avevano fatto niente
assolutamente, ma loro li portarono a Forlì. Erano lì come ostaggio. Ah! Li avevano presi quindici,
venti giorni [prima] (...) Nell’inverno tra il ‘43 e il ‘44 (...) [Prima o dopo l’azione della vigilia di
Natale?] Forse fu in quei giorni lì che li portarono via. Comunque noi ci presero il 7 marzo. L’8
eravamo in prigione a Forlì. (...) Abbiamo fatto delle cose impossibili eh! Perché il 21 aprile che era
il natale di Roma. Vennero le matrone di Forlì, no? Le signore... così, per portarci la pasta verde,
eccetera... Eravamo in una cella in sei, la rifiutammo e ci mettemmo a cantare. Che venne il capo
delle guardie che era un po’... [uno] grande, grande.. che era un po’ verso di noi (...) “Ma siete
pazzi! Vi ammazzano tutti!”. (Dino Amadori - 1999)
Arrivammo a Forlì [il 28 aprile 1944] (...) prima di tutto ci portarono (...) alla Caterina Sforza, non
alle prigioni. Andammo alla Caterina Sforza... (...) Ci misero tutti lì dentro. Me, Chilon [Leopoldo
Lucchi] e il coso... Lo chiamo il pastore, perché il nome io non lo sapevo, no? Però il pastore dopo
intervenne qualcuno e lo portarono via, perché lui, poverino, proprio non c’entrava per niente (...)
Allora fummo messi lì dentro. (Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
Assieme ai renitenti ed ai prigionieri politici alla Caterina Sforza si
ammassavano anche i prigionieri comuni e questo rendeva la situazione più
penosa per tutti.
Lì c’erano mol[ti]. C’erano anche... [i prigionieri comuni]. I politici [fecero] la rivendicazione per
stare in una zona da soli. Non coi comuni. (Dino Amadori - 1999)
I prigionieri, quando arrivavano a Forlì, avevano già subito diversi
interrogatori nei luoghi dove erano stati catturati e le loro condizioni, come si
può immaginare, non erano delle migliori.
A causa del lavoro svolto, per impegni affidatimi, venni arrestata dal fascio repubblichino e portata
al fascio di Cesena ove fui torturata e sottoposta alle peggiori sevizie che un essere umano possa
sopportare (porto ancora sul corpo i segni di quei terribili momenti). Dalla sede del fascio fui
trasferita con altre compagne alle carceri di Cesena, dove ancora mi torturarono perché rivelassi i
nomi dei compagni Buda [Renzo (Augusto)], [A]Uria [Salvatore], Bilancioni [Mario (?)], Ricci
[Fabio] e altri dei quali non ricordo i nomi. Stancati da tutto quello che mi avevano fatto e senza
aver ottenuto da me alcuna informazione, mi consegnarono nelle mani delle SS e fui portata con
altre compagne a Forlì nella caserma “Caterina Sforza”. Fummo poi trasferite nelle casermette rosse
di Bologna e di lì a Fossoli nel campo di concentramento con destinazione ai campi di sterminio
della Germania. (Giovanna Brandolini in: Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975)
[Forlì] 13 [aprile] = Però non tutti passano per le carceri ricordate, se ne trovano rinchiusi nelle
caserme di Schiavonia, ancor questi a disposizione delle SS. Il cui comando è in mano di criminali
raffinati, seppur ve ne fosse bisogno, giacché la facoltà di torturare e giudicare è estesa alla g.n.r. ed
ai segretari dei fasci repubblicani. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì)
Ci presero in dodici ci misero in fila e pó s-ciafun a tot. Io ero il più piccolo, passavano sopra, bim
bum e me a s’era sota e i n’ um daseva gnint! Ebbi quella fortuna lì (...) E al mattino ci han portato
a Forlì e a lé me a gli ò ‘vudi perché io avevo portato via dalla caserma le tende... non erano quelle
mimetizzate... i teli da tenda e mi ero fatto... e mi ero fatto i calzoni e... e una giacca, ero vestito
così. E i calzoni eran chiusi qui. No? E allora quando mi videro “Eh! Che è vestito da partigiano!
Guarda come è messo...” E Bum! Cun la pistola int la testa. (...) a Capocolle (...) nella macchina (...)
era un poliziotto che aveva due denti grossi (...) un poliziotto fascista. (Dino Amadori - 1999)
Ci scaricarono in piazza, che ora è piazza del Popolo. A Cesena, vicino alla fontana. Quando passo
di lì u m’ ven la péla d’oca. Dovevamo andare su per le gradinate, di qua e di là c’erano due file di
fascisti che erano inferociti (...) Le botte che presi! Me, ma gli altri più di me. Io qualcuna...
qualcuno non m’ha colpito... qualcuno ha avuto pietà perché ero troppo, troppo bambino (...) poi a
un certo punto della scalinata caddi per terra e mi presero... due... due fascisti, uno di qua e uno di
là, e mi portarono dentro per l’interrogatorio. Di nuovo (...) L’era Garafon [Guido Garaffoni],
Batisten [Augusto Battistini] e Sibireni [Aldo Sibirani]. Eran loro tre, ma chi faceva le domande
era... coso... Garafoni. Era Garafoni. Mi interrogò ancora e... chiedeva dov’era mio padre. I soliti
nomi: Ricci [Fabio], Bucci [Quinto], Sozzi [Sigfrido]... coso... l’elettricista, l’avevano a morte con
(...) Benini [Adriano], Benini e così... gli amici di mio padre. A n’ cnuseva nisun... “Ah! Va bene,
non parli e adesso ti do in mano a quelli là fuori...” e’ dis Garafon ch’l’era incazè. Instizzito come
un coso... Erano... eran delle belve! Allora ero spaventato. Un po’ non stavo più in piedi (...) Io
praticamente non dissi niente perché, cosa dovevo dire? Conoscevo sì e no sta gente. (...) Io
guardavo i miei due... come devo dire... compagni di sventura. Erano una maschera di sangue.
Erano una roba d’altro mondo. Chilon Leopoldo Lucchi] i l’aveva masacrè. Chilon l’avevano
massacrato. Ci portarono fuori di nuovo. Dovevamo caricare Chilon sul camion perché lui non
aveva le gambe. Lui era andicappato, Lucchi. Allora noi due. Il pastore e io cercavamo di caricarlo.
E loro ci arrivavano adosso coi calci dei fucili o dei mitra, che io un poco ricordo, allora... E poi, fu
una cosa tremenda, a forza ad dei riuscimmo a buttarlo su, salimmo anche noi due e fortunatamente
partì il camion. Partì e partì per Forlì. C’erano due fascisti... con le armi in pugno su, sul cassone del
camion e... praticamente ci accompagnarono a Forlì così (...) l’unica cosa che facevano... un
delinquente di quelli lì, mi schiacciava le... le cicche delle zigarette sulle mani. (Vittorio (Quarto)
Fusconi - 1998)
Mi ricordo una volta al [palazzo del] capitano che avevo le manette e mi picchiarono in faccia e io
mi ricordo che da quante che me ne avevano date non le sentivo più (...) [Da lì] mi portarono a San
Demetrio e lì mi taccarono su come un maiale, m’avevano tacato su... e... e volevano che io avessi
detto quello che volevano loro. Invece io gli dicevo “Io non so niente!” Anche se sapevo, io non...
bisogna dire... nella mia coscienza, non volevo far nomi perché era... brutto, far la spia, ecco. “E’ lo
stesso. Ne hanno mazzato due, se ne mazzano anche tre è lo stesso” dico “Intanto...” dico “piangerà
un po’ il mio babbo e mia madre... dei figli non ce n’ho... io la spia non la faccio”. E loro volevano
sapere... mi picchiavano e io gli dicevo “Fate quello che volete di me ma io non so niente. Io non
conosco partigiani. Io sono sempre andato a lavorare!”. Mi ero messo in quell’idea lì e non ho
parlato. Mo loro sempre a interrogare (...) [A San Demetrio dove?] Non so... la villa c’è ancora... sì
è una villa sulla destra... e lì di fronte c’era il mulino, mi ricordo... Penso che fosse il mulino, lì. Lì
mi interrogarono, due giorni e due notti son stati lì. A lì c’era Garaffoni [Guido], c’erano i tedeschi,
i fascisti e tutta la banda del fascismo di Cesena. E lì mi picchiarono, giorno e notte e... E dopo cosa
succede? Succede che mi tacarono su e mi port... sì, per i piedi mi tacarono su, come un maiale.
Dopo viene che mi portarono a Case Finali... da questa villa e volevano che io avessi detto... nella
villa Neri... che avessi detto che io ero andato a prendere i soldi lì... E lì c’era Garaffoni, Sibirani
[Aldo], e un altro, che l’altro non lo conosco. Garaffoni e Sibirani li conoscevo bene e volevano io
avessi detto così. E io dicevo sempre “Della mia carne fate cosa che volete... quello che volete, però
io non so niente”. E cominciavano sempre a picchiarmi e sempre mi picchiavano. Ah! Dei pugni in
faccia... dei schiaffoni, dei calci nel sedere, insomma via.. secondo... E dopo, un altro giorno, mi
portarono giù in prigione [nella rocca di Cesena] e... e un altro giorno mi portarono vicino al ponte
nuovo per andare giù all’ippodromo. A lì che c’era un capannone che c’era un magazzino. E
dicevano che loro davano da mangiare ai partigiani e che andavano a prendere la robba i partigiani
in questo capannone e i fascisti non volevano... E dicevano che io ero andato lì dentro a prendere
dell’olio, a prendere dei salami, insomma della robba... pasta... per mandar su ai partigiani. Io
invece lì... non mi ricordo... Anche il proprietario... chi c’era... disse “No. No. Io non lo conosco
questo qui... Io non lo conosco”. E infatti io non c’ero mai andato. Poi un’altra volta mi portarono a
Gattolino, di nuovo, a vedere se conoscevo qualcheduno che erano nei partigiani. “Io non li
conosco. Vado a lavorare. Ho sempre lavorato la terra. Prima del fronte ero a Forlì, operaio coi
contadini. Dopo sono tornato... l’8 settembre e ne conoscevo pochi... poi c’è stato il fronte...” (...) E
dopo sono andato... m’hanno portato (...) in prigione a Cesena e [poi] mi portarono a Forlì, insieme
alle Buccelli [Ester e Quinta], quelli di Cesenatico [Sebastiano Sacchetti, Gino Cecchini, Adamo
Arcangeli, Gino Quadrelli, Oberdan Trombetti, Urbano Sintoni, Gino Sintoni, Dario Sintoni] e
insieme con il mio (...) compagno (...) Faraoni Armando di Gattolino (...) c’erano anche le sorelle di
Sintoni [Clara Sintoni e Iris Casadio, moglie di Antonio (Dulio) Sintoni]. E dopo tutti assieme
c’hanno portato alla Caterina Sforza di Forlì, in caserma. (Romeo Motta - 1983)
Dop, un dé, i m’ ciapet nenca me. I m’ purtet a là só e ‘vdet che u j era sté Farneti [Elmo] ch’l’era
un oman... L’aveva quarent’en lo. Ch’l’era de’ dó. E sté Motta [Romeo]. Lo il purtet via e i m’ tnet
a lè che i m’ daset la mola la matena dop. Però... i s’ tachet... i tachet só nenca lou eh! J i tachet
cun una corda stila, da tabach, j i geva. (...) Cun al gambi d’in elt e la testa da bas par interoghè.
Però t’an i stasiva una masa, parché se no t’vè dlà! [Appesero tutti e tre in questo modo?] Sé. Me i
m’ l’à det dop ch’ a s’ truvesum in parson, dop a du tri dé. (...) E ‘lora, e’ ven che dop a du dé, un
dé, tri dé... i m’ ciapa nenca me e ‘lora i m’ porta a là só. A m’arcod che i faset... Cume dì? Trata
mel! E lou j i tulet via e j i purtet int la roca e me i m’ tnet a lé, che i m’ interoghet. E pó tot la nota
stuglè a là ma tera, cun al gambi là só d’in elt e al brazi csé. Lighì. Un scador a que... int e’ barbet
(....) e am sfargheva a lè. E cun ona sentinela. Dop, a la matena, i m’ siujet e i m’ mandet zó a pè
cun i tedesch, u j era du sentineli. Me daventi e lurit ad dria. E i m’ purtet int la roca [a Cesena].
(...) E a staset una matena e una nota a lè [a San Demetrio] e a sò ‘vnù int la roca. Dop a du dé...
[C’erano altri?] Int la roca u j era... Osta! J i era. U j era chi du chi à mazè... I Sintoni [Urbano e
Gino] (...) E dop nun i s’interoghet da i fasesta [al palazzo del Capitano] (...) i s’ purtet a e’ fasio
cun un furgon. J avniva cun un furgon ch’ u j era Sibireni [Aldo Sibirani], Garafon [Guido
Garaffoni] (...) un Delvecchio ch’e’ staseva a la Calabra. Che l’era pó sempra stè un gran
antifascesta e pó... e’ muntet só int l’utma. Via! E pó dop i quilet... i s’interoghet. I vleva savé una
masa ad roba: i partigen j era andè int la vela ad quèl a là... ad Almerici. E me i m’ tnet a lè ‘d
dentar. (...) I s’interoghet. A geva dal robi... A geva, no’... dal robi... E alora i s’ mnet ados... tot tri
pó... i s’ à interoghè un a la volta... Con un nerb, che an e’ sò du ch’i s’ l’aves tolt. E dop... e’
Panzon, Farneti, [a] i geva e’ Panzon, mo l’era acsé stil... e’ Mota j i purtet int la vela ad Almerici.
[U] j era andè i partigen però e’ custodi, u n’ get Mota... e’ get che j è’ ‘vnù i partigen mo però me
a n’ e’ cnos che sipa stè lo (...) e sté Farneti il purtet sota e’ pont vec ch’u j era dal demigeni d’oli.
E e’ get acsé. Parché l’era un che... alora e’ marchè nir l’era fat acsé... lo e’ campeva da par lo
st’oman. (Armando Faraoni - 2000)
In uno dei rastrellamenti fu catturato un partigiano di Cesenatico che, interrogato, rivelò tutto
quanto sapeva (…) Era l’agosto del 1944. In conseguenza alla sue rivelazioni furono arrestate
diverse persone fra le quali anch’io. Alcuni furono uccisi subito, altri portati alla casa del fascio di
Cesena. Io ed altre ragazze di Ronta, anch’esse staffette, fummo interrogate e torturate dal capo
fascista Garaffoni [Guido]. Restammo rinchiuse 10 giorni nelle carceri di Cesena. Fummo poi
inviate a Forlì dove restammo per due giorni e successivamente trasferite a Carpi (Modena) in un
campo di concentramento, dove venivano rinchiusi momentaneamente tutti coloro che erano
destinati ai campi di concentramento in Germania. (Giuseppina Manuzzi in: Donne di Cesena
contro il fascismo. - Cesena, 1975)
… fummo portate nella Rocca di Cesena dove ci bastonarono a sangue (…) Ancora ci torturarono
per ottenere informazioni sui partigiani e soprattutto su nostro fratello. (Ester (Terza) Buccelli in:
Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975)
Finiti gli interrogatori cessavano le torture fisiche, ma incominciava una forma
di sofferenza anche peggiore, psicologica, causata dalla continua attesa della
morte. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. Ogni appello poteva essere quello in
cui veniva chiamato il tuo nome.
A Forlì c’erano anche quelli di Cesena. [Primo] Brighi, uno che a i giami Pirulon [Pio (Attilio)
Fusconi] ad soranom, che abitava a Case Finali. Antifascisti che erano dentro perché (...) se
succedeva qualcosa, loro... praticamente portavano via subito lo[ro] e li fucilavano. Quelli erano
tutti antifascisti che avevano tutti sui quanran[t’anni]... ce n’era anche che aveva sessant’anni,
Brighi [Primo]... [Ostaggi] che avevano preso nella primavera del ’44. Eran setto o otto. C’era
anche uno... il soprannome... lo chiamavamo... un repubblicano, Butighina. (Dino Amadori - 2000)
A lui [Ricchi Werther] lo presero credo nel mese di aprile del ’44, se non mi sbaglio. Io so che
quando lo hanno ammazzato eravamo nella cella n. 12 che eravamo in 5, a Forlì. (...) Quando han
saputo [che fu ucciso] c’era Lunedei e io ero andato all’aria. E Arrivai dentro piangeva. Lunedei
Nazario suo cugino. “J à ‘mazè e’ mi cusen” e’ get. Anche le guardie... Le guardie carcerarie... c’era
delle guardie che ci dicevano tutto. Osta! Avevamo la gente che ci informava. Io avevo invece... Io
son stato dodici giorni da solo e in quella cella lì, ogni mattina il secondino (...) [diceva] domattina
vi fucilano. Amo son stato tre giorni che non ho mangiato. Non m’andava giù niente. Ero bloccato.
A Pianzeva! A Pianzeva! Te dla voja te! Coiù! Fin a vant an a s’era stè... Il 10 marzo era la mia
festa. Il sette mi presero e a faset la festa in parson. (...) 135 giorni. Allora. Non eran pochi. (Dino
Amadori - 1999)
Poi tutte le mattine (...) quando era giorno, dicevamo “Oz a s’ sam salvè!” Perché se portavano via
qualcuno lo portavano via al mattino presto. E lì poi conobbi quelli che hanno ucciso... che hanno
impiccato laggiù... i fratelli Latini ... a Bagnile (...) al mattino li portaron via. Noi ci portarono a
Bologna per mandarci in Germania e invece loro (...) li portarono via e li fucilarono. (Dino Amadori
- 1999)
Poi la cosa anche che era... insomma... i condannati a morte... tantissimi. Lì, son venuti a prendere i
primi, mi sembra... i primi dieci li hanno impiccati a... a Pievequinta. Poi, dopo, quattro li hanno
impiccati a... a Bagnile. Li venivano prendere dal di lì. Eran tutti lì. C’è poco da fare. Eravamo
[ostaggi] (...) I tre impiccati a Rimini erano lì. E io li ho riconosciuti, si immagini un po’, dopo tanti
anni, facevo parte del Comitato federale della Federazione giovanile comunista e andai a Forlì a una
riunione. Mi trovai davanti, nel corridoio, le fotografie dei tre impiccati. Erano tre (...) che facevano
parte del gruppo di... di coso... di Edo Bertaccini, che erano stati presi armati a Rimini e poi sono
stati impiccati in piazza. E adesso la piazza Tre martiri è intitolata a loro. Io rimasi scioccato da
queste fotografie. Io non sapevo che fossero morti. Non lo sapevo. L’ho saputo dopo tanti anni
insomma. (...) Lì, poi, son venuti a prendere anche i 18 che han fucilato a... a Meldola... nel... nella
fornace, 17-18 [persone]. Poi ne hanno presi che li hanno fucilati qua sotto a Forlì, un paesino. Mo
in à amazé una masa... Venivano a prendere... Tanti insomma. Lì era un pericolo continuo. Io non
ero poi mica tanto sicuro. Ero un bambino e quindi venivo sempre scartato però... chi lo sa? L’unica
cosa che là non ho avuto... non ho mai subito mai più interrogatori e non ho mai più ricevuto botte.
(Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
... un giorno l’apello sembro interminabile e dieci giovani fra cui in sacerdote di ... furono mandati a
morire a Pievequinta seviziati e poi impiccati. Parte dei circa 60 prigionieri fu spedito nei Campi di
concentramento in Germania ricordo i tre di Rimini Capelli... furono ripresi mentre sabotavano una
trebbiatrice, furono impiccati in piazza a Rimini (...) erano dei nostri, del nostro gruppo(Vittorio
(Quarto) Fusconi - manoscritto 2001)
Tutti i giorni ci venivano a prendere e ogni tanto si sentiva che ne uccidevano qualche d’uno.
Quando hanno ucciso i fratelli Sintoni [Urbano e Gino] eravamo lì dentro. Dico “Questa notte è la
sua, domani notte è la nostra”. Perché lì non c’era tanto da pensare. Dopo invece m’hanno portato
all’interrogazione... (Romeo Motta - 1983)
In prigione si poteva finire per i motivi più futili.
Ci avevano detto che era stato bombardato lo zuccherificio e che c’era i sacchi dello zucchero.
Erano sacchi bianchi: si potevano tingere per fare vestiti e altro. Così decisi di andare assieme a mia
zia [Alba Caporali]. Quando fummo là dentro prendemmo qualcosa (i sacchi erano già spariti). I
fascisti e i tedeschi facevano entrare ma, quando tornammo indietro, ricattarono me e tutte le altre
dicendo: “Se ci dai dei soldi ti facciamo uscire, altrimenti ti teniamo qui dentro e poi vedremo cosa
fare di te”. Io e mia zia non avevamo soldi. Chi li aveva se ne andò a casa, gli altri rimasero lì
dentro. Nel frattempo arrivarono tutte le camionette di fascisti: ci circondarono, ci presero e ci
portarono alla Rocca, nelle prigioni. Qui ci terrorizzavano dicendo, prima, che ci avrebbero lasciate
e poi, che ci avrebbero fucilate tutte. Per due o tre, alla volta, ci hanno “messi al muro” per fucilarci.
Verso sera ci perquisirono. Mia zia aveva un blocchetto con il quale il giorno prima eravamo andate
dalle famiglie che avevano possibilità a raccogliere soldi per aiutare i partigiani. Se gli avessero
trovato quel blocchetto con sopra la falce e il martello l’avrebbero torturata per farla parlare; così
erano in pericolo anche gli altri partigiani. Ma per fortuna riuscì a tirarsi da una parte e a nascondere
il blocchetto dentro le mutande, sopra l’assorbente. Cosicché quella volta non trovarono niente.
Rimasi chiusa nella rocca per due giorni, poi mi lasciarono tornare a casa. (Dina Fabbri in. Donne di
Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1975)
Una volta dentro si doveva fare molta attenzione alle spie o ai provocatori,
dissimulati fra i prigionieri. Una parola di troppo bastava a condannarti.
… c’ha detto in mezzo [ai prigionieri] c’è un bischero che è una spia. (Primo Pasolini - 2001)
Di qui incominciò… incominciò la tragedia perché fui messo lì a… nella caserma del… adesso [la]
centrale dei carabinieri [di Cesena]. (…) Ci misero in guardina. Ci mandarono subito un
provocatore per vedere se ci poteva… per cavarci qualcosa insomma. C’eran molti ragazzi che non
sono mai più tornati, non sono. E dopo di lì ci portarono… dopo alcuni giorni ci portarono su a
Forlì. A Forlì… [Ma lei era imputato di qualcosa?] No, rastrellato. Basta. Ma era sufficiente. Era la
quarta volta che mi rastrellavano ma mi avevano sempre lasciato libero. No. No. Perché non
avevano le prove non avevano nessuna prova. (Bruno Pagliacci – 1984)
A causa dell’affollamento le condizioni di vita erano pessime.
In cinque in una cella coi materassi per terra che le cimici li portavano via da gran ch’l’era pin. In
cinque siam stati tre mesi (...) In cinque lì, coi materassi per terra e un passaggio così, dietro. (Dino
Amadori - 1999)
Ci mandarono alla caserma Caterina Sforza. Lì ci rinchiusero in una... in una... in una... stanza.
Erevamo una ventina. Non c’era né paglia né niente. Tutti per terra. (Vittorio (Quarto) Fusconi 1998)
Vittorio: La Suntina [Maraldi] l’è la su cusena [della sorella di Leopoldo Lucchi] (…) quela ch’la
m’ avniva a truvè in parson ch’u j era nenca lia [rivolto all’Amedea] (…)
Amedea: Nenca me a i s’ era. Madona! A siva a lè in cla paja… J arviva al porti… Chilon e’
camineva cun al men, e’ puret! Avnema me, la su surela, ad Chilon e la Suntina… Cum a s’
ciamevla (…) la era sota la stazion a Furlé. Cum a i gevi a la parson du ch’a siva vuit?
Vittorio: Nun a sam stè a la Caterina Sforza u n’ pu ‘d dé…
Amedea: La Caterina Sforza.
Vittorio: E po’, dop qualche dé, la Versari [Iris] e Corbari [Silvio] i mazet e’ federel fasesta [il
console della milizia Gustavo Marabini, il 23 maggio 1944]. J inculonet tot e’ i s’ mandet int la
rucaza. A lè dop u j era Edo Bertaccini… A lè u j era tot i partigen. Enzi i panseva che quaicadun
e’ fos arivet a liberes e inveci…
Amedea: Andami in bicicleta a Furlé… me aveva treg quatorg” en. La mi mama, dop, la get “No.
No. Alt! Te e’ basta. Te sté a ca’ tua. U s’ n’ è mort un e e’ basta. Te ‘des t’ a ngn’ i vé piò”. L’a m’
faset smet. Mo l’Irma ad Macin la cuntinuet, lia e la quèla, la Tambarlena [Giuseppina Manuzzi]
ch’ i la mandet in Germania, la Pepina. (Amedea Sama e Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
Come fui arrestato fui condotto alla Caterina sforza di Forlì, cerano molti giovani partigiani e
renitenti rastrellati nelle vallate del savio e del Bidente sui nostri monti, fui rinchiuso in cella con
una decina di giovani fra i quali uno di Ronta Drudi eravamo in una stanza 3x3 senza niente si
dormiva per terra. (Vittorio (Quarto) Fusconi - manoscritto 2001)
C’erano poi la strafottenza e gli scherzi feroci dei fascisti, la mancanza di notizie
sulla fine dei propri famigliari e dei compagni, il terrore dei bombardamenti,
che col passare del tempo si facevano sempre più frequenti.
Mi ricordo, perché io la mamma la vidi dopo 10 o 12 giorni, ma la vidi dalla finestra. Siccome mia
mamma era zoppa e la vidi, ero nel finestrone davanti, che aveva suonato l’allarme e la chiamai e i
fascisti, circondavano la prigione no? Per[ché] non scapasse nessuno... Allora io “Mamma!” e lui
[un fascista di guardia] quando vide mia mamma che aveva portato da mangiare gli diede una spinta
e allora io, cretino, dissi “Oggi noi, domani voi!” e lui Pom! Mi sparò. Dopo quelli, quelli... gli
ostaggi, mi chiamarono e mi dissero “Ma sa fet? Mo ta n’ e’ sé ch’i s’ fa fora tot a nun se t’fé dla
roba ‘csé.” Era così. Io lo facevo poi senza... Non mi rendevo conto della cattiveria di loro (Dino
Amadori 1999)
Il giorno dopo [il nostro arrivo nel carcere di Forlì]... Il giorno dopo i fascisti fuori sghignazzavano e
raccontavano quello che era successo laggiù... per il rastrellamento [del 28 e 29 aprile] (...) Io che
ero dentro capii che erano stati uccisi i Fusconi. Allora cominciai a urlare. Ero un bambino e quando
dissero che i Fusconi erano stati uccisi io urlavo e... i miei compagni di cella cercavano di
calmarmi... però ero un bambino e quindi... Arrivò un fascista di San Martino [in Fiume], che era lì,
che faceva servizio nella... nella cucina. Mi tirò fuori disse... mi disse “Vieni con me.” Mi portò via
dal di lì che c’erano altri quattro o cinque fascisti che sghignazzavano... ridevano... Ne avevano
uccisi dodici, in tutto, quel giorno. E allora mi portò via e quando fummo un po’ lontani disse “Non
è tuo padre. L’è Gino. L’é e’ fradel de’ Gag ch’j à amazé” e’ get acsé, in dialet. “Adesso te vieni
con me, che te ti do da mangiare io”. Allora mi portò in cucina con lui. Quei trenta, quaranta giorni
che io sono stato lì, mi veniva a prendere tutte le mattine e mi portava con lui, quando poi venivano
a bombardare, mi veniva a prendere nella cella e mi portava con lui nello spiazzo della caserma che
avevano fatto una trincea e mi portava sempre con... assieme a lui insomma, perché... Ou! Lì i muri
saltavano da tutte le parti. Era tremendo. Queste cose che lui ha fatto di bene secondo me poi hanno
anche portato del bene a lui perché io ci ho salvato la vita, che quando c’è stato il processo a San
Martino in Fiume non scherzavano mica eh! Io, sollecitato da mio padre, sono andato là e ho detto
le cose come stavano. Ho detto “Guarda che me a sò stè quarenta dé là e lui mi veniva sempre a
prendere. Andavo lì a sbuzeva al pateti, facevo qualcosa. Però, se volevo mangiare, qualcosa io ho
sempre mangiato, di tutto”. Dalla rocca io sono uscito verso la fine di agosto, però devo descrivere
delle cose tremende. Parte i bombardamenti, che mi sono portato dietro per dieci anni oltre che le
botte fasciste che mi hanno pesato, però i bombardamenti, quelli, mi son portati via... dietro, per
tantissimi anni perché... perché è stato terrorizzante per me. Non potere uscire. Un ragazzo di
tredic’anni chiuso lì dentro. I muri ballavano da tutte le parti. L’è stè una cosa tremenda! Bisogna
provare! (Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
Il giorno dopo ci fu un bombardamento alla stazione di Forlì i muri ballavano dallo scoppio delle
bombe, poi il cessato allarme, nel cortile si sentiva un gran vociare e un fascista di ritorno dal
rastrellamento della Bassa Cesenate urlo che i banditi erano stati uccisi disse una quindicina, e
gl’altri arrestati disse fra le grida delle loro donne che anche i Fusconi, erano stati uccisi, alla notizia
scoppiai in lacrime, e urlavo malgrado i miei compagni di cella cercavano di calmarmi, avevo 13
anni, e continuavo ad urlare, a un certo punto la porta della cella si aprì, un signore in camicia nera
mi disse di seguirlo che mi doveva parlare, io lo segui da una parte e sottovoce mi disse che era
Gino Fusconi mio cugino che avevano ucciso, e che mio padre e fratelli erano fuggiti Via, alla
notizia li per li facevo fatica a crederci, gl’altri fascisti cantavano e ballavano con le loro donne
(troie) mi disse che era di S. Martino [in Fiume] e sapeva tutto del rastrellamento i morti secondo
lui, erano una quindicina, tutti Giovani, io guardavo l’uomo che mi stava davanti il quale mi
assicuro che in caso di bombardamento mi sarebbe venuto a prendere è portato nelle trinceie scavate
nel grande spiazzale della caserma, mi assicuro che la mattina seguente mi sarebbe venuto a
prendere mi portava in cucina con lui e altri che dovevano preparare il rangio per tutti. Come aveva
promesso fece; quando bombardavano Forlì vedo ancora il cielo, e lo scoppio delle bombe molto
vicino ando così per 2 mesi, poi un giorno ci trasferirono alla Roccha, io capii che qualcosa era
sucesso ma non capii cosa era veramente sucesso, così finì il trattamento di favore di Marin ad
Manela fascista di S. Martino adetto alla cucina. (Vittorio (Quarto) Fusconi - manoscritto 2001)
M’avevano arrestato una sorella che l’avevano portata a Bellaria in una colonia. M’avevano
arrestato il fratello, era stato con me in prigione (...) lui, lo son venuto a prendere e l’hanno portato a
lavorare nella Todt a là vicino a Pesaro. Cosa succede con me, succede che io avevo la sorella
dentro, il fratello dentro e il mio padre lo avevano tentato di ucciderlo qui al mulino di Calabrina e
‘lora che io cosa ho fatto? Ho detto” Tanto per me la vita è così... morto io morti tutti avevo sempre
avuto quell’idea lì...” (Romeo Motta - 1999)
A Forlì c’era poi questa qui [Aurada Gridelli] che fucilarono, poi dopo, qui alla Rocca [di Cesena] i
partigiani, che l’ammazzarono. Badava dire ”Mo voi ve la cavate bene, vi manderanno…” con
quelli che conosceva perché erano tutti ragazzi, in gran parte, che avevano fatto i ragazzi insieme.
Eran della zona [di Porta Fiume]. “Ve la caverete con poco. Vi manderanno al massimo in
Germania”. Come se andè in Germania fosse stato una fortuna. “ Mo u j n’ è du tri ch’i la pasa…”
E tra questi du tri a i s’era me. C’ero. E invece ho avuto la fortuna che il fronte è venuto avanti.
Loro son scappati da… da… dalla zona di Forlì, di Cesena e sono andati nel Vicentino e… e hanno
perso tutte le tracce. Chi… Chi era in condizione di potermi accusare non c’era più perché erano
andati via. (…) La chiamavano la Muchina [Aurada Gridelli] non mi ricordo il cognome. Era una
fascista. Aveva due fratelli che cantavano bene… i Gardlin... i Gardela, i Gardela mi pare fosse un
nome così. (Pagliacci Bruno – 1984)
La situazione di chi non aveva saputo resistere alle torture e aveva parlato, era
ancora peggiore, per la vergogna, per il rimorso e per l’isolamento in cui erano
tenuti da parte dagli altri prigionieri.
Devo raccontare un’altra cosa a proposito di... di Dick. Dick... era un partigiano che aveva ceduto
alle torture che aveva detto quello che sapeva... era Sansavini [Albo Sansovini (Dick)] di nome, si
chiamava Sansavini, il nome non lo so. Però l’era Sansavini e il suo nome di battaglia era Dick. Era
un bravissimo partigiano fra i quali aveva del fegato da vendere. Venne al Ronco ad esempio col
cavallo, col berretto con la stella rossa e sfilò per il Ronco armato col mitra e ritornò in montagna...
era troppo spericolato. (...) Sansavini era isolato. Non lo voleva nessuno. E quindi lui ha sofferto
moltissimo perché... perché... Ciou! Era considerato una spia. Era isolato nelle prigioni. Non lo
volevano perché lui aveva fatto i nomi. Si.... Si... Si sapeva che l’aveva fatto... Si sapeva che l’aveva
fatto. (...) allora chi... chi faceva i nomi era un traditore. Anche lo stesso Lucchi Leopoldo che ha
portato i fascisti a... a casa mia, insomma in un primo momento ha avuto da fare, insomma...
Quando è tornato a casa c’è stato da fare perché... non doveva fare un errore di questo genere. Era
stato avvisato. Una donna gli gridava forte, gli gridava forte “Non parlare Chilon! Che sono fascisti!
Non parlare che sono fascisti!” L’hanno puntato col mitra contro il muro che lo volevano fucilare...
Lui poverino... c’è poco da fare... Lui era un rag[azzo], era un giovane. Anche lui aveva la mia età,
20-22 anni. Di modo che Dick è stato quello che ha sofferto di più, se vogliamo. A me mi dispiace,
perché anche lui poi ha fatto la stessa fine [degli altri]. (Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
C’era la possibilità di poter uscire di prigione aderendo alla RSI. Il CLN diede
direttive di accettare le proposte dei fascisti per poi scappare, magari armati,
alla prima occasione. Non tutti però se la sentivano o venivano accettati.
[Quando eravate in prigione nessuno vi chiese di aderire alla RSI?] Il CLN aveva detto “Vengono a
chiedervi, se volete andare nell’esercito…” Non nella repubblichina ma nell’esercito repubblicano,
no? “Vengono, voi dite sì. Poi dopo vi armate, poi quando potete scapate”. Un u n’ i cred! Siccome
io… quello che volevo più bene era Imolesi Attilio… perché lui aveva più… non carattere ma lo
stavano più a sentire… era del 22 era un po’il mediatore del gruppo (…) e alora (…) un giorno
vengono per chiedere a tutti se volevamo andar via. Erano di sotto dove c’era il rifugio. Eran
tedeschi e i fascisti. E alora io vado di sotto, mi chiamano e c’era Imolesi e viene su “Ah! “ dis “In
m’ à tolt”. Perché... aveva mal di cuore (...) e quando io sento così vado via di testa “Oh! Porca
miseria! Se non c’e lui…” e quando me lo chiesero io dissi di no. “Ma perché?” “Perché mia sorella
è morta di TBC e sono malato anch’io… di quello…”. In prigione am s’ era ingrasè… non facendo
niente (…) “Guarda lì, è come un maialino!” Bum! I m’ daset un spinton i m’ tachet int e’ mur “E’
grasso come un maiale e vuol dire che è ammalato…” (…) E mi mandarono via. I m’ daset du tri sciafun, un spinton… ma dissi di no, perché avevo visto Attilio che non l’avevano preso. (Dino
Amadori – 1999)
Per chi rimaneva restava la speranza di fuggire e qualcuno ci riuscì.
... suonava l’allarme. Quindi aprivano le celle e quando aprivano le celle giravamo dappertutto e a
penseva cum a fe’ a scapè via. (…) Abiam tentato due volte di scapare. Ah! Una volta siam rivati.
Dopo arivarono i carabinieri con la baionetta in canna… (Dino Amadori – 1999)
... sono stato in prigione 40 giorni circa alla rocca Caterina Sforza e sono riuscito a scappare per un
bombardamento. E’ stato a fine giugno circa, sono scappato da solo perché durante il
bombardamento vicino alla prigione [il 22 giugno 1944], ci fu una confusione che si può
immaginare, al portone c’erano dei fascisti che scappavano via e in un momento di disattenzione
infilai il portone, in quel momento mi pare passasse un camion o altro. Presi la bicicletta di una
compagna partigiana di Forlì che abitava vicino alla caserma Caterina Sforza, che non conoscevo,
anche se sapevo chi era. Mio babbo poi andò a portare la bicicletta, pensando che mi potesse
capitare l’occasione per scappare, da questa compagna, la lasciò lì. Passando da Coccolia, da S.
Zaccaria, facendo un giro vizioso, venni a casa, a S. Giorgio. (Evangelista Libero - dattiloscritto
1983)
Tutto considerato chi era destinato a finire in Germania si sentiva fortunato.
Andare in Germania, significava restare vivi, avere altro tempo davanti a sé e
magari la possibilità di poter fuggire durante il trasporto.
Dop l’ è ‘vnu che (...) i turnet e [me] get “’Sa i det?” “Ah! J à det ch’i s’ porta in Germania”. E
‘lora. Ciou! “S’ in s’amaza” a gesum nun “andarem in Germania”. E alora a partesum. Dop a du
tri dé i s’ purtet a Furlé, da Furlé, a stasesum du tri dé lè... int la caserma... (...) e pó dop un pu ‘d
dé andesm a Bulogna int un enta caserma dlet militera. (...) Nun a sema chi tri che lè, mo là u j
n’era djit, dop, int la roca. (...) l’era d’agost. (Armando Faraoni - 2000)
Prima della partenza definitiva i prigionieri venivano trasportati, in treno, nei
campi di raccolta, a Fossoli o a Carpi, nel Modenese, a Luzzara nei pressi di
Reggio Emilia, a Peschiera o in altri campi. Poi incominciava il vero e proprio
viaggio per raggiungere la Germania. Un viaggio lungo, che, se tutto andava
bene, poteva durare dalle due alle tre settimane, perché le ferrovie erano
continuamente bersagliate dagli aerei alleati e quasi mai i treni potevano fare
percorsi diretti. I treni carichi di prigionieri, erano anche costretti a lunghe
soste per dare la precedenza a quelli, che venivano in senso opposto, carichi di
truppe e di materiale bellico. La speranza di tutti era che, prima o poi, forse, si
sarebbe presentata l’occasione di fuggire: la confusione causata da un
bombardamento, un momento di disattenzione delle guardie, un attacco dei
partigiani...
E dop andesm a Bulogna e pó da Bulogna, dop un po’ ‘d dé andesm a Fossoli. L’era un chemp ad
concentrament (...) a là, a dri Modna da cal perti che lè. Mo i bdoc a lè! A lé... lè du ch’l’era j
inglis. I tedesch, i parsunir inglis j i miteva a lè. E dop un pu ’d dé i s’ purtet a Peschiera parché u j
era ch’i faseva la tradota. Parché la ferrovia, a só là, l’era sempra atenteda. L’era sempra rota... e
alora lou i s’ purtet a Peschiera. (Faraoni Armando - 2000)
[Il viaggio] è durato un quindici giorni, un dieci-quindici giorni. Perché ci portavano da una parte...
poi ci tenevano lì, fermi in stazione, oppure dentro alle camerate tutti assieme... e è durato dieci o
quindici giorni il viaggio, così. (...) dai vagoni ci facevano uscire dalla finestra (...) Fino che siamo
stati in Italia siamo sempre stati piombati dentro ai vagoni, dopo che siamo andati in Austria...
siamo entrati... eravamo liberi però... dove andavi? (Romeo Motta - 1983)
Il viaggio per raggiungere la Germania [da Carpi] durò una ventina di giorni. Durante tutto il
tragitto rimanemmo chiuse, insieme a tanti altri deportati, in vagoni sorvegliati costantemente da
sentinelle armate senza possibilità di muoverci neppure per adempiere ai nostri bisogni fisici. Il
treno si fermava soltanto quando giungevamo ai vari campi di smistamento dove ci facevano
scendere, sempre scortati dalle sentinelle, per portarci a mangiare. I pasti consistevano in una
brodaglia tanto disgustosa che noi pensavamo che anche i maiali si sarebbero rifiutati di mangiare.
Ma la fame era tanta che ingoiavamo tutto. Eravamo all’oscuro di tutto, non sapevamo cosa ci
sarebbe stato riservato e neppure ciò che i fascisti avevano fatto o stavano facendo ai nostri
familiari. Durante le soste del treno, quando ci facevano scendere, non pochi erano coloro che
tentavano di fuggire; ma le sentinelle, sempre pronte ad evitare qualsiasi fuga, sparavano e
uccidevano. Noi non abbiamo mai tentato la fuga perché, nonostante fossimo considerati alla
stregua degli animali, il nostro desiderio, in quei momenti, era quello di poter vivere per tornare a
casa. (Giuseppina Manuzzi in: Donne di Cesena contro il fascismo . - Cesena, 1975)
Il viaggio in treno che ci doveva portare in Germania, durò giorni e giorni, ogni tanto si faceva una
tappa nei vari campi di smistamento in Italia. Eravamo 40 persone rinchiuse per ogni vagone,
normalmente adibito al trasporto di bestiame. Stretti l’uno all’altro, il caldo ci soffocava, la sete era
tremenda. Gli aguzzini buttavano dentro a quel forno, stipato di carne umana, un chilo di pane al
giorno. Diverse volte i vagoni venivano dirottati su binari morti, sotto il sole che ci massacrava,
dove restavamo a volte per giornate intere. Ricordo che una volta il mio vagone fu fermato accanto
ad un altro pieno di prigionieri inglesi. Questi erano trattati diversamente: mentre noi potevamo
vedere la luce attraverso il finestrino con la grata, loro avevano tutta la porta aperta e inoltre erano
riforniti di viveri a sufficienza. In quella occasione riuscimmo ad aprire il finestrino e, allungando le
mani, prendemmo il cibo e la birra che gli inglesi ci porgevano. Purtroppo questo durò poco perché i
tedeschi, accortisi di quanto stava succedendo, spostarono il convoglio e a noi non rimase che
spartirci quello che avevamo “rubato”. Alcune volte ci si è presentata l’occasione di tentare la fuga,
ma avevamo notata nel nostro vagone la presenza di una donna che, da come si comportava,
sembrava una spia. Infatti quando alcuni deportati tentarono di scappare, questa avvisò i tedeschi
che ne uccisero quattro e gli altri li ripresero. Alla stazione di Trento, quando ci fecero scendere,
nella confusione fummo avvicinate da una donna antifascista di quella zona che, appreso che
eravamo deportate politiche, ci offerse un nascondiglio sicuro fintanto che il treno non fosse
ripartito e ci indicò anche il mezzo per raggiungere Forlì. Fummo tentate di accettare, ma
ricordandoci della spia che ci seguiva costantemente, non volevamo mettere nei guai quella donna
coraggiosa e con lei gli antifascisti del luogo. Il treno ci portò ai confini dell’Olanda dove vi era un
campo di lavoro. Qui non ci accettarono perché eravamo munite di documenti che ci qualificavano
“pericolose sovversive” e ci destinarono ad un campo di sterminio in Austria. Il nostro calvario
sembrava non avesse mai fine. Giunte nel lager di Wiesbaden, sul Reno, lungo i confini con la
Francia, per la prima volta la fortuna ci venne incontro. Un vecchio tedesco che fungeva da
interprete, vedendo i nostri documenti, incredulo ci chiese come mai due ragazze facevano paura ai
nazisti tanto da rinchiuderle nei terribili campi dei sovversivi. Rispondemmo di non conoscerne le
ragioni in quanto eravamo state arrestate solo perché sorelle di un partigiano. Gli raccontammo lo
strazio del viaggio e questi si commosse. Aveva quattro figli soldati, uno disperso in Russia e degli
altri non sapeva nulla, ci disse di essere stanco della guerra e della violenza e ci modificò i
documenti facendoci passare per detenute civili. Così restammo in quel campo di lavoro, a ridosso
del fronte. (Ester (terza) Buccelli in: Donne di Cesena contro il fascismo - Cesena, 1975)
A volte l’occasione di scappare si presentava.
Il Federale [di Parma] era un certo Romualdi [Pino] di Forlì; io non lo conoscevo ma lui conosceva
me e mi disse che ero la rovina di mio fratello, il questore [Secondo Larice] ed aggiunse che avevo
finito di fare l’agitatore delle folle forlivesi. (...) “Questi due portateli subito al campo di
concentramento di Luzarra [Luzzara], per essere spediti in un campo di lavoro in Germania.” Il
campo era in mano ai tedeschi, i fermati erano un centinaio, fu da loro che apprendemmo che ci
avrebbero mandati in Germania la stessa notte. Io sapevo qualche parola di tedesco, i tedeschi mi
chiesero dove e quando ero stato in Germania, gli dissi le tappe del 1933 e cioè Dusseldorf - Esein e
Batraf [Dusseldorf, Essen, Bottrop] feci capire che ero entusiasta di ritornare in Germania, tanto che
loro non ci guardavano più. Così fuggimmo e con mezzi di fortuna e a piedi, ritornammo a Forlì.
(Da: Una ciacareda “cun terzo Larice” in: Diario e ricordi del II Bataglione / Terzo Larice (Tigre). Cesena : Tosca, stampa 1997)
... il 22 luglio, io sono andato a vedere la data, perché non mi ricordavo il giorno che riuscimmo a
scapare (...) eravamo alle casermette [di Bologna], io tentai di scappare verso a la stazione. C’era un
fascista di Cesena (...) un povero sciancato, così... andato lì chissà perché e lui mi dice “Prova!
Prova!”. Lo conoscevo. (...) Dopo... verso mezzanotte... l’appello, che ci facevano partire per
mandarci in Germania no? E noi avevamo (...) un capo, lui disse “Oei! Decisi eh! Se troviamo
un’occasione scappiamo. Morire in Italia ma non arrivare in Germania”. Quella era la parola
d’ordine. “Tanto là ci fanno fuori in tutti i modi”. E alora a Borgo Panigale ci gettammo dal camion
perché eravamo una colonna, coi diesel, che me, par tri dé, ho tenuto nelle orecchie il rumore che
ero nel fosso quando passavano no? Oummm, Oummm... L’ho tenuto tre giorni. E allora ci
buttammo giù. Primo si buttò giù Abbondanza [Rino] e’ Gagin (...) e si ruppe il braccio qui, il
fratello di Abbondanza (...) Fabio (...), si buttò giù per primo; poi mi buttai giù io, che Attilio
[Imolesi] e’ get “Dai cun al gambi ‘csé” e alora con le gambe una strisciata lunga che non finivo
più; Nazario [Imolesi], giù anche lui ma non lo vedemmo ch’u s’ spachet tot la testa; mentre prima
di noi, uno di Taranto, che si era buttato giù di fianco l’andet sota e’ camion e ciao bellezza! Noi
l’abbiam saputo dopo non in quel momento lì. Comunque, lì, ci buttammo giù in quattro. [Il vostro
era l’ultimo camion della colonna?] No. Perché quando... a Borgo Panigale... io mi... mi ricordo
che... o la ferrovia o una chiusura eccetera... a Borgo [Panigale] dove ci gettammo dal camion, il
camion dietro noi era rimasto indietro e poi la luce era così... c’era una mezza luna quella sera. (...)
E allora ci buttammo giù. Io andai dalla parte sinistra che dicemmo “Tutti a destra”. Mo ciou! La
bota e via e via... andai a sinistra. ”E’...” io dico “è un sogno...”. Un tedesco vicino al portone, alto
ch’u n’ e’ sa nisun. Cun e’ fucil tachè a lè e’ faseva e’ su bisogn... u s’ tiret só, e’ ciapet e’ fucil e
(...) andò dentro nella villa e io attraversai e caddi nella schiena di Abbondanza. “Porca miseria! Sa
fet!”. E poi attraversammo. L’impressione, quando arrivai io nel fosso, mi misi a sedere, allungai...
sentivo che cerano delle foglie... le mani... c’era dell’uva e dissi “Porca miseria burdel a sam propi
lebar!”. Pareva impossibile. Era un sogno. Di lì rimanemmo nascosti che c’era la canapa. Cantieri
di canapa che era una roba da non credere e poi alla mattina e’ Gagin e’ puren e’ pianzeva, l’aveva
un braz rot in dó perti, l’aveva un mèl ch’un e’ sa nisun. E io dissi... Il più grande ero quasi io,
eravamo tutti così, piccoli e... uno aveva mal di cuore, Imolesi Attilio, l’altro con un braccio così...
quando c’era qualcosa dovevo andare io. E ‘lora c’era una casa. Mi ricordo che c’era fuori il letame
che fumava, no? Arrivai. Bussai e arrivai dentro questa casa. “Ah! “dico “Siamo... Ho un amico che
si è fatto male... Non potete darci due uova così...” Ce le fecero pagare. Par fei, a giami alora in
dialet, una ciareda, no? Lui quando gli misero queste uova un po’ fredde così, la matina... brum, e’
caschet par tera ch’u j avnet fastidi. Io nel girarmi c’era lì un comodino e vidi una... una fotografia
con uno con una bicicletta vestito da fascista. “Putana miseria!” Arrivai a dire con Attilio “Guerda
ch’a sam da i fasesta” Riuscimmo ad andar via. “Amo...” dico “adesso andiamo via”. E alora, il
grano lo tagliavano... era (...) il 22 luglio e stavano tagliando ancora il grano, perché lo tagliavano
poco, perché non lo prendessero i tedeschi (...) “State lì che vado a sentire io con qualcuno”. Arrivai
lì “Siamo...” dico “siamo tre sbandati, siam scappati via (...) che ci avevano preso in un
rastrellamento. Dov’è la strada migliore? Abitiamo a Cesena”. (...) Putana! Un l’alzet la felza e
subito “Venite con me”. Ci portarono... in un... c’era un gruppo di partigiani... ci portarono in questo
gruppo di partigiani e Abbondanza che era messo come era messo, lo portarono via per mettere a
posto il braccio, che poi a casa il dottor Molari u j e’ duvet met a post d’arnov perché avevano
lavorato un po’ male, no? (...) E dopo rimanemmo lì dieci giorni con i partigiani. Dieci giorni. (...)
A Calderara sul Reno. A Calderara sul Reno, la prima azione, andammo a rubar le patate in un
campo di fascisti (...) e poi, eravamo lì da otto nove giorni e si decise una sera di andare a far saltare
una macchina, quelle da battere il grano (...) Cosa successe? Che lo stesso giorno avevano cambiato
il dirigente. Quello che era con noi non era uno che conosceva bene il posto e si sbagliò (...) Porca
miseria! Andammo a finire in un campo di tedeschi con le tende. C’era uno che era il figlio del
podestà di Calderara sul Reno, che era stato... era del 1925, il babbo l’aveva mandato volontario in
Germania, per forza. Ma lui non ne voleva sapere. Quindi era stato tre mesi in Germania (...) e
sapeva il tedesco. Quando... va avanti c’è un tedesco “Alto là!” E lui gli risponde in tedesco. Ma
dietro (...) viene avanti uno col fucile [il tedesco] se ne accorge [e] leva la pistola. Va per sparare.
[l’] altro gli prende la mano e bum! Lo trapassò di qui a qui e lo presero. E noi scappammo. (...) Io
ero con uno che di soprannome, il nome di battaglia, era Toro e aveva una mitragliatrice che era
stata portata via da un aereo... era caduto un aereo americano, no? Raimond era con noi. L’era elt du
metar. Aveva 19 anni. Era con noi l’avevano salvato, l’aviatore. Era nei partigiani con noi. Lì
scappammo via e ci ritrovammo lui, Attilio ed io a scappare. E andavamo verso il punto dove
avevamo la base e l’americano che parlava abbastanza l’italiano disse. “Non buono questo. Se c’era
quello... il dirigente di prima. Niente scappare. Salvare”. Perché lui poi (...) era innamorato della
sorella di quello che era rimasto lì. Una bionda ch’l’era una roba da mat! Io me la ricordo che
aveva la pistola nella borsetta. Me la ricordo che l’ho vista una volta solamente! E quindi andammo
avanti per un chilometro e ogni tanto razzi, in alto, sparavano... Ogni tent a s’arvultama e bum bum
a sparami enca nun (...) arrivammo nel posto, nella base (...) lì arrivarono tutti. Arrivarono i
dirigenti (...) da tutte le parti, perché dopo dicevano “Forse son morti dei tedeschi e domani faranno
il rastrellamento...” Attraversammo il Reno (...) erevamo circa, come minimo (...) un trecento
dissero che erano. (...) Si vede che in quattro-cinque ore li avevano raggruppati tutti. Ci portarono in
un campo grandissimo che c’era del frumento. Tutti lungo le fila del frumento ci portarono da
mangiare a tutti. [Per] attraversare il Reno quattro o cinque passarono prima, si misero con le
mitragliatrici sul... dalla parte opposta, per guardare se veniva qualcuno e poi attraversammo. Al
mattino ci chiesero “Volete venire con noi sulle montagne oppure volete andare a casa. Se andate a
casa, se andate coi vostri amici in Romagna, però vi disarmiamo. Le armi ve le portiamo via”. Noi
gli ridemmo le armi e partimmo. Ci mettemmo cinque giorni a rivare a casa. (...) una roba da pazzi!
(...) loro [i partigiani di Calderara] avevano detto prendete un cappello... un cappello di paglia e
prendete una vanga... un qualcosa... e avevamo tutti qualcosa (...) a far finta di essere dei contadini.
Eravamo a Budrio, avevamo attraversato un canale che c’era poc’acqua ma che non si riusciva a
passare, perché il fango, la mèlta, ti arrivava sino qui. Attraversammo. Andammo in un campo...
c’era dell’erba spagna... ci mettemmo lì per pulirci un po’, ci giriamo vengono su due delle SS in
bicicletta. Maglia... camicia nera e la morte bianca davanti. Col mitra tutti e due. Noi, senza scherzi,
non ce lo siamo detto, ci siamo alzati in piedi “Eil Itler!” Tutti e tre così. Ci guardarono male. E
andarono dritto. (...) Poi, piano piano, arrivammo a casa (...) e andammo a finire lì, alla centrale
elettrica (...) e c’era il babbo di Imolesi Attilio che le facevano la barba, lì vicino un pagliaio. La
prima cosa che disse “Vè ad tri pataca! J è tot avnù ca’. Vuit a si ‘vnù ca’ dop a dis dé!”. Quello fu
il saluto. (Dino Amadori 1999)
… in quel campo di concentramento [Fossoli], subimmo un forte bombardamento da parte degli
alleati e in molti riuscimmo a fuggire e a ritornare a casa dopo tanti giorni vissuti nel terrore.
(Giovanna Brandolini in: Donne di Cesena contro il fascismo. - Cesena, 1995)
Ma durante la fuga, le cose non sempre andavano per il meglio.
Disse una delle Sintoni (...) disse “Adesso ci vengono a liberare i partigiani che prima di domani
sera ci portano via di qui e loro ci vengono a liberare”. Invece è passato la sera, è passato dopo...
non c’hanno liberato nessuno. Perché si vede che non potevano venire... Dopo ci hanno portato a
Bologna. Da Forlì ci hanno trasportato a Bologna. A Bologna disse ancora di nuovo che ci venivano
a liberare, che c’avevano dato una parola d’ordine da Forlì a Bologna, c’avevano dato una parola
d’ordine che ci... noi dovevamo dire “Ravenna” (...) e quando loro dicevano “Ravenna“ noi
sapevamo che dovevamo andare con loro. Dopo invece siamo andati... da Bologna non c’è stato più
niente da fare... siamo andati a coso.. a Peschiera... a Fossoli... Peschiera da quelle parti là e di lì ci
hanno (...) messo nei vagoni piombati e ci hanno portati in Germania... e ci hanno spiombati i
vagoni dopo Trento. In Austria. (...) Anzi, dirò di più, che quello di Gattolino, Faraoni [Armando] e
un altro [Elmo Farneti] hanno voluto scappare via. Dicendo che loro non andavano in Germania,
che non ci volevano andare. “Cosa fai te ?” Mi disse con me “Io” dissi “guarda, ormai io ne ho
avuto abbastanza vado là in Germania, andrò prigioniero nel campo di concentramento. Ma io non
esco più. Io non ne posso più. E ho tentato la vita. Sono andato là in Germania... E loro sono usciti
dalla stazione e sono tentati di scappare. Quando è stato un certo punto non sapevano non andare da
una parte e l’altra e hanno chiesto a della gente dove potevano andare per la strada migliore, invece
gli avevano indicato la strada peggiore, d’andare dentro a un campo di concentramento. Quando si
sono accorti... Sì. Era già in Austria. Quelli quando si sono accorti hanno fatto dietro front. Via!
Uno l’hanno preso, Farnedi, il più anziano e l’altro non l’hanno preso è arivato in stazione che il
treno stava per partire e io ero insieme a cal Burdeli ad Strenga [Le sorelle Ester e Quinta Buccelli],
là. E ‘lora che, ce n’era di Rimini, ce n’era di Ravenna, sempre con noi sempre... su per giù, sempre
la stessa causa. Ce n’era uno di Pinarella un giovine e... Alora dissi “Io non esco più, venga la vita
come vuole io vado là in Germania io non esco più!”. Dopo invece loro sono usciti e non sono
riusciti a poter scappare. Uno l’hanno preso lì che l’hanno... a forza di botte l’hanno mazzato,
dopo... i fascisti e i tedeschi. E l’altro è arrivato a salire sul treno, ma [l’abbiamo rivisto] dopo due o
tre stazioni... Là verso Monaco di Baviera è venuto, che ci ha [rag]giunto nel treno e ci siamo
accorti che era nel treno con noi. E lui disse “Sai, sono scappato, ma là c’hanno dato dietro i fascisti
e io sono riuscito... l’altro l’hanno preso. E alora adesso io non tento più. Vengo con te. Andiamo
dritto“. E abbiamo fatto un anno là in Germania in campo di concentramento. Nel primo tempo
abbiamo fatto venti giorni a Berlino, a lì... in un campo di concentramento provvisorio. Dopo di lì ci
hanno mandato a Nordhaus... c’hanno mandato e eravamo dodici-tredici mila prigionieri lì dentro. E
[a] lavorare ci mandavano in una fabbrica sotto terreno, dove lavoravano la V1 [e] la V2, che
facevano quegli apparecchi lì. E lavoravo dalla mattina alle sei sino alla sera alle sei, dalla mattina...
insomma si facevano dodici ore (...) Eravamo trecento metri sotto a terra dentro una galleria, che
anzi, quando bombardavano noi non sentivamo niente... no? Le bombe... niente. E son riuscito a
venire a casa (...) dopo, del ’45, sono arrivato a casa il 5 agosto del ’45, ma purtroppo quando sono
venuto a casa ero già sfinito... (Romeo Motta 1983)
A Peschiera a muntem só, andem, e quand a sam a là dria e’ Brennero sté Farneti [Elmo] ch’l’era
un omn inzien e’ dis “Ciou! Scapema?” “Scapema pu”. E inveci Mota [Romeo Motta] e’ get “No.
Me a n’ scap. A stagh a que”. (...) Alora nun a scapem. A sema a Bronzolo... da cal perti che là...
int e’ Brennero. (...) E alora e’ ven che (...) a caminem, a pasem a lè int un paes. U j era un vec. (...)
A i dmandem du ch’l’è una streda d’andé int un paistin cmé sareb da que (...) andè Lunzen (...)
Ch’a vlami andé in muntagna. (...) me a i degh “Questa strada qui, indove porta? Porta a là su?” (...)
“Si, porta là su” e’ get. E alora e’ dmandet du ch’a n’ avnema, du ch’a n’ andema. E’ Panzon e’get
(...) “Oman (...) nun i s’ porta in Germania a lavurè!” “Amo e noi che lavoriamo tutti i giorni?” E’
dis stu. A get “A si sam mes in entar, parché se no un s’ n’ intreseva, u s’ geva dagli et robi”. E
‘lora e’ get ”Venite indietro, venite in casa mia che andiamo... che andiamo a mangiare” “No” degh
“Lo” degh “s’l’à voja ad dès da magné” al get propi me “ch’u s’ [daga] qualcosa mo a n’ avem
da stè que” “ Va ben”. U s’inveja. Dop un po’ a degh cun e’Panzon. Dop un po’. Sobit. A degh
“Andema via che quest” a degh “che que u m’ è piasù poch”. Avam pasé una caserma di
carabinier. Alora a fasem dusent, tarsent metar... quatarzent metar e a get “Panzon. Fasem un’eta
streda nun? Che nun de’ temp a n’ avem”. Quand e’ ved che a ciapem cla streda che u n’ aveva det
lo dis “E’ questa qua la strada!”. E e’Panzon. Ciou! L’è ‘d dria, e’torna d’indria. Quand l’è [a] una
zerta distenza u n’ dà l’alt? E e’daset tre quatar s-ciuptedi. Però o u n’ aveva piò palotoli o ch’la s’
è incipeda e a curesum pó dlet in stazion (...) E alora... me, quand a fo’ in stazion a zarchet a
scavidé, ch’i n’ m’ avdes in che vagon ch’andeva. E invece e’ Panzon e’ curet dret... dret int la
streda. I l’avdet e il tiret d’indria e il purtet via cun lou. Il purtet int e’ chemp ad Trieste, a lè (...) E
me (...) dop u s’ inveja sté treno, a mont só. Quand a sò là a Innsbruch a scalem zó. Alora i s’aveva
abandunè, alora t’ an andita piò via. A lè u j era sté Mota [Romeo], u j era... u j era la Peppina
[Giuseppina], la Manuzzi, u j era al sureli ‘d Strenga [Ester e Quinta Buccelli] (...) a sami in zenqv.
E lora i get “Du si stè?”. Aveva una sudeda. A get “ A qua... a sami a qua che a sami scapè. I s’ à
dè dria e ‘lora la soluzion... a cor via, a cor in stazion. Sol che e’ Panzon i l’ à ciapè”. Avdesum
che i l’aveva ciapè. Me invece avet la malizia ad fem cuprì, ch’i n’ m’ avdes. Non andè dria da lo. E
‘lora dop andesum a finì in Germania. Andesm a là... [Quando siete scappati nessuno vi
controllava?] No. I tedesch j i era mo... j s’aveva abanduné un po’ e ‘lora arivesm a scapè (...) Lo
[Elmo Farneti] dop l’aveva di pèn, dla roba acsé... a s’ sem sarvì nun, me e Mota, parché lou int
daseva gnint. (...). E dop, inveci, al savem dop che a sem andè ca’ nun, e’ Panzon l’era andè ca’
dop un mes. L’era scapè dlet da lè. L’era ‘rivat a Molinela. A Molinela da e’ su fradel. E dop nun
andesm ch’i s’ mandet... andesm in zir a Nordaus [?] A Innsbruch. La tradotta la era a lè (...) al
sentineli al s’ guardeva un po’ poch (...) A stasesum quatar zencqv dé a lè a Innsbruch e pó’ dop i s’
destinet du ch’avema d’andé a lavuré. E andesum pó qua a Nordaus... ad là da Berlino (...) A
lavuremi int ona galeria sota una muntagna du ch’i lavureva i pez d’aparec, i faseva la V1, ch’a
l’avem savù dop. (...) Set, ot, dis galerii a la sota. Nun a fasemi di pez d’aparec e ‘d là (…) la V1
(Faraoni Armando - 2000)
Verso la fine di giugno, causa il massiccio invio in Germania, il numero dei
prigionieri rinchiusi alla Caterina Sforza si ridusse notevolmente e quelli
rimasti furono trasferiti all’interno del carcere della rocca di Forlì, più piccolo.
[Forlì] 21 [giugno] = ... in Germania (...) sono avviati centinaia di detenuti e persino donne
anch’esse dalle carceri rilevate e molti rastrellati ancora se anziani (...) Tedeschi e g.n.r. hanno
rilevato nella giornata dalle carceri circa ottanta detenuti, compresi i minorenni e diversi a
disposizione dei tribunali militari: ho già detto la destinazione che i primi ne fanno ed ignoro invece
quella stabilita dagli ultimi, poco rosea certo. (Dal diario di Antonio Mambelli - Forlì)
... ando così per 2 mesi [maggio e giugno], poi un giorno ci trasferirono alla Roccha, io capii che
qualcosa era sucesso ma non capii cosa era veramente sucesso (...) (Vittorio (Quarto) Fusconi manoscritto 2001)
... [il 23 maggio 1944] uccisero il console fascista [Gustavo Marabini] a Rocca San Casciano.
Corbari e la Versari fecero fuori il console. A noi ci radunarono tutti quelli che eravamo lì. Quelli
che erano rimasti perché una parte li avevano già portati via, li avevano già portati in Germania. Noi
lì in quella fila! Mo erevam molti! Mo eravamo Mamma mia! Io non li so mica contare! Mo
eravamo una fila lunga... di straccioni. Mo! Non avevamo niente. Non avevamo niente. Perché me,
l’avniva... veniva la mia cugina. Aveva una forza da leone a venire lì. Lì nella fossa dei... dei leoni.
Veniva ogni quindici giorni. Portava qualcosa da mangiare e dei vestiti da cambiare. (...) Eran tutti
giovani... ma che politici... era tutta gente che non aveva voluto fare il militare... Che non sapeva
niente, come non sapevo niente io. Che la parola... non so... comunista, la sentiva per la prima volta.
Perché la verità sacrosanta è quella lì. Io ancora non avevo capito niente. (...) Gli altri li han portati
in Germania nei campi di concentramento. Ecco... Drudi, di Ronta prima. C’era Drudi di Ronta
prima. Si immagini che uno di San Giorgio l’ho rivisto l’anno scorso [1997] alla manifestazione a
Marzabotto. (...) [Ne portarono via molti in Germania?] Sì. Moltissimi. Moltissimi andarono in
Germania. Drudi, lui e tanti altri. Poi dopo ci incolonnarono... mo eravamo molti, eravamo molti.
Tutti giovanissimi. Chi non andò in Germania fu messo nella rocca. Io la chiamo la roccaccia.
Proprio nella... nella rotonda. Tutti là dentro sdraiati. Eravamo più di quaranta. Stesi per terra senza
paglia e senza niente. Eravamo lì. Be è stato lì che dopo ho trovato Fulmine [Edo Bertaccini] che
era commissario di brigata Garibaldi... [Li erano tutti politici?] No. Lì erano tutti partigiani che
erano stati presi in montagna, però, politici, io mi rifiuterei di dire politici... Erano tutta gente presa
in brigata nel rastrellamento. Più io e coso... io e... Chilon, cioè Lucchi Leopoldo (...) e gli altri
erano tutti ragazzi presi nello sfascio che c’era stato nell’8a. brigata Garibaldi e quindi eravamo
tantissimi, tantissimi. E’ stata una cosa tremenda. Una cosa terribile. (...) Era tutta gente presa in
montagna fra Bagno di Romagna e Santa Sofia nello sbandamento della brigata Garibaldi e tutta
gente presa... anche della gente presa come me in ostaggio perché aiutava i partigiani. Perché
c’erano anche della gente che era più anziano. Ma non erano tanti. Erano pochi. Più che altro erano
giovanissimi. Tutti giovanissimi. E fu lì che avevano creato un gruppo fra i quali io ero... come
dire... la mascotte. Sì, io ero invitato.(Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
Una volta nella rocca le possibilità di fuga erano minime, restava solo la
speranza di un intervento dall’esterno, come era già successo a Cesena e per
mantenerla viva, all’interno del carcere ci si preparava in vista di una simile
possibilità.
Loro [gli altri partigiani prigionieri] si aspettavano un’azione partigiana come avevano fatto a
Cesena alla rocca. Anzi (...) quando si seppe a giugno che c’erano andati per la seconda volta e che
avevano tirato fuori dei prigionieri condannati a morte. (...) Fulmine [Edo Bertaccini] in particolare
era quello che organizzava il gruppo, nel senso di dire che stiamo pronti... che se arrivano almeno
quei due tre che sono qui [di guardia] li prendiamo noi, insomma, ecco... Ma non avvenne mai,
ecco. Non avvenne mai. Finché arrivò una sera che portarono via anche lui e altri tre o quattro. Loro
in generale prendevano quattro o cinque per volta. Lui dove è stato fucilato non lo so. So che è stato
fucilato (...) Del resto mangiare veniva sempre mia cugina. La Maraldi... la Maraldi... nun a la
ciamema Suntina. Aveva un fegato da vendere. Lei veniva... veniva sempre nelle carceri e mi
portava, vestiti... [Portava anche notizie dal di fuori?] No. No. Si aspettava che fossero arrivati i
partigiani... non si sapeva niente di niente. Niente. Niente. (Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
I famigliari potevano venire a trovarci ma dei mie[i] nessuno poteva venire sarebbe stato arrestato
Così ogni quindici giorni venivano le cugine Maraldi Marina e Sama Amedeia, seppi da loro che i
miei erano salvi tutti, e che ci avevano trasferiti alla Roccha perche era stato ucciso il console
fascista a Roccha Sanchasiano, cosa che era trapelata fra i prigionieri, e anche il secondo assalto alla
Roccha di Cesena gia sapevamo, Edo Bertaccini con un gruppo sicuro di ex partigiani un giorno
disse che anche a Forli avrebbero fatta la stessa cosa, i giorni passavano le settimane pure ma non
succedeva mai niente, tranne l’apello alla sera che ci faceva tremare, chi veniva chiamato sapeva la
fine che andava incontro (Vittorio (Quarto) Fusconi - manoscritto 2001)
Prepararsi alla fuga era difficile. Il controllo era molto stretto e le prigioni
erano piene di spie. Bastava un sospetto per andare a finire molto male.
Strano, lo chiamavano così perché era un tipo eccentrico (…) Era una spia dopo la guerra era a
Roma che guidava la macchina di un generale. (…) era in prigione che lo presero [con noi]. Lo
tennero lì otto dieci giorni poi lo lasciarono. (Dino Amadori – 1999)
Poi quando fummo a Forlì ci misero in galera ancora a la Sforza. Caterina Sforza. E lì dentro c’era
Primo, un vecchio antifascista [di Cesena], Brighi. Brighi. C’era Brighi c’erano altri… c’era anche
Fusconi [Pio (Attilio)] (...) che prese tante botte poverino, dalle SS. Per causa di uno… di una spia.
Dissero che noi stavamo per preparare una fuga e invece, credo, non fosse vero. Vennero le SS ci
misero tutti in fila. Guardi, se in quel momento mi avessero fucilato... non capivo niente, perché il
sangue mi era andato alla testa e me a n’ capiva piò gnint! C’era sto Fusconi. Lo chiamavan Pirulon
[Pio (Attilio) Fusconi]… che era un antifascista anche lui e un altro che era un repubblicano
[(Butighina)] e questo invece non mi viene il nome (…) Ma le botte che gli dettero… si seppe... da
matti. (Bruno Pagliacci – 1984)
Per quelli rimasti le speranze si facevano sempre più fioche fino a che, con
sorpresa di tutti, le porte del carcere si spalancarono e comparve una donna,
armata di mitra, che invitò tutti a fuggire. Era il 4 ottobre 1944. Nei giorni
successivi, una parte degli evasi, quelli che non avevano nulla da temere, si
ripresentarono spontaneamente per non incorrere nel reato di evasione.
Un importante avvenimento avviene a Forlì nella prima decade di ottobre: il comando partigiano è
informato che i nazisti si propongono di deportare in Germania i detenuti politici che sono rinchiusi
nel carcere giudiziario della città. Sono circa una sessantina di antifascisti minacciati di morte e per
salvarli non è un’impresa facile. Il carcere si trova nelle vicinanze del centro del capoluogo e
sorvegliatissimo giorno e notte. Il comando provinciale discute del grosso problema col comando
della 29a Brigata G.A.P. Questo si impegna a trovare gli uomini specializzati nei colpi di mano
audaci. Dopo pochi giorni, gli uomini disposti a penetrare nel carcere e liberare i detenuti sono
trovati (...) Gli uomini non sono numerosi, vengono frazionati in gruppi di tre e procederanno a poca
distanza da uno all’altro. Infatti, nella serata ancora in pieno giorno, uno dei gruppi si presenta al
portone centrale d’entrata, dando al guardiano false generalità, chiedendo di entrare all’interno - un
sardo baffuto dall’aspetto severo - apre il portone. Immediatamente, gli uomini entrano e fanno
segno agli altri gruppi del seguito di avanzare con celerità. Il portone si richiude prontamente ed i
gappisti presentano le armi automatiche al guardiano, invitandolo a rimanere calmo e a ubbidire ai
loro ordini, pena la morte. L’uomo non si fa ripetere l’invito, avanza a passo lesto verso il corpo di
guardia, seguito dai gappisti. All’interno del corpo di guardia vi sono diversi militi della guardia
repubblichina che giocano a scopone. Alla vista dei “forestieri” tutti si alzano in piedi e si
irrigidiscono sull’attenti: <<ai vostri ordini, signori!>> Ed aggiungono: <<faremo quello che ci
ordinate e in pochi minuti.>> Dopo un quarto d’ora circa, tutte le celle dei politici sono aperte ed i
detenuti escono, mentre le guardie ed i militi vengono rinchiusi nelle stesse celle e le chiavi
rimangono al capo drappello che dirige l’azione. Un ordine categorico viene impartito al direttore
del carcere, accorso sul posto in seguito al rumore provocato dal trambusto dell’aprire e chiudere le
grosse porte delle celle: <<Non informate le autorità nazifasciste di quello che sta avvenendo in
questo carcere prima dell’ora X e cioè prima di un’ora (...)>> (...) Nel piazzale esterno del carcere,
la colonna si incontra con una pattuglia di nazi-fascisti, questi chiedono: <<chi siete e dove siete
diretti?>> I gappisti puntano le loro armi contro la pattuglia avversaria e l’invita a mettersi da parte
per lasciar passare i detenuti antifascisti (...) La pattuglia avversaria non si fa ripetere l’invito e si
ritira in un angolo. (Da: La guerra di liberazione nazionale e la resistenza nel forlivese / Adamo
Zanelli. - [s.l.] : Galileo, stampa 1966)
Il 4 ottobre a Forlì una squadra composta da due gruppi G.A.P: e uno S.A.P. per un totale di tredici
patrioti, tra cui una donna, penetrarono in pieno giorno nelle carceri. Disarmarono le guardie e
liberarono 36 detenuti politici. L’azione fu improvvisa. Al Comando della 29a era giunta notizia dei
preparativi della loro fucilazione. (Da: Resistenza in Romagna / Sergio Flamigni, Luciano
Marzocchi. - Milano : La Pietra, c1969)
Le autorità locali - ognuna per la sua competenza - avevano iniziato la liberazione graduale di tutti i
detenuti politici, rinchiusi nelle carceri giudiziarie. Tale operazione non è stata portata a
compimento a causa dell’intervento di un gruppo di sconsigliati, che hanno, nel tardo pomeriggio
del 4 corrente effettuata la liberazione in massa dei rimanenti detenuti violando, con la forza, ogni
disposizione di legge ed aggravando di un nuovo reato - quello dell’evasione - la posizione dei
liberati stessi. Con l’occasione sono evasi pericolosi detenuti responsabili di reati comuni. Ciò
premesso, si invitano gli evasi, di alcuni dei quali era stata già disposta la liberazione, a presentarsi
all’Autorità di Pubblica Sicurezza, senza tema di ulteriori provvedimenti a loro carico. (Comunicato
del questore Col. R. Voltarelli - Forlì, 6 ottobre 1944. Riportato in: Resistenza in Romagna / Sergio
Flamigni, Luciano Marzocchi. - Milano : La Pietra, c1969)
A seguito di precedente comunicazione, si rende noto che fin ora sono stati rimessi definitivamente
in libertà dieci detenuti politici che, dopo la nota evasione, si sono spontaneamente presentati. Gli
altri che non ottempereranno all’invito di costituirsi a loro volta - pur sapendo che non hanno da
temere provvedimenti a loro carico - oltre al reato per cui erano in istato di detenzione,
risponderanno altresì di quello di evasione. (Comunicato del questore Col. R. Voltarelli - Forlì, 10
ottobre 1944. Riportato in: Resistenza in Romagna / Sergio Flamigni, Luciano Marzocchi. - Milano
: La Pietra, c1969)
Qualcuno, era già riuscito a scappare anche prima. Il 21 agosto, quando già il
grosso dei fascisti era fuggito al nord, per uno strano caso, forse a causa di un
bombardamento, il carcere rimase privo di guardie. In quell’occasione, invitati
da una donna, probabilmente una partigiana che si era affacciata al portone,
Vittorio (Quarto) Fusconi e qualche altro prigioniero riuscirono a fuggire. La
vicenda, se è vera e non abbiamo motivi per non ritenerla tale, deve avere
implicato pochissime persone, dal momento che di essa non resta alcuna traccia.
Eravamo rimasti 7-8 e venne la liberazione da parte dei partigiani, una donna col mitra in mano ci
apri la porta e ci disse di fuggire atraverso i campi, cerano ancora i tedeschi che prima di andare ci
avrebbero fucilati tutti (...) atraversai il Ronco e il Savio ero salvo ma la casa e falegnameria non
cera più un amasso di rovine, l’incontro con i famigliari avenne di notte in casa di un Contadino
Spadon dove io fui accolto per diversi giorni. (Vittorio (Quarto) Fusconi in: Come salvare uno della
reopubblica Sociale - manoscritto 2001)
… uscimmo eravamo rimasti in 5. (…) Altri affermano che i prigionieri liberati furono 26, io ero li
non li o visti (Vittorio (Quarto) Fusconi – manoscritto 2004)
E arriva... un giorno, così, all’improvviso... arriva una donna. Una giovane. E gridò forte “Uscite
tutti che i fascisti sono andati via! Arrivano i tedeschi e vi ammazzano tutti!”. (...) In agosto... In
agosto. Ma ancora forse non avevano abbandonato completamente la città. I fascisti. Però lì dalle
carceri erano fuggiti. E allora sta ragazza gridò forte così... Noi... c’erano le porte aperte, uscimmo
fuori. Ci fu un signore che era di coso... Era l’unico che aveva una certa età e disse con me “Tu devi
andare verso Cesena. Ho capito dove devi andare. Devi andare e cercar di orientarti guardando
Bertinoro. Mi raccomando. Guarda Bertinoro e attraversa i campi. Se ti prendono ancora, ti
fucilano! Anche se sei un bambino”. (...) Quando [sono] uscito dal portone, che non c’erano più le
mura che coprivano, ho guardato, ho visto subito Bertinoro. Mi sono incamminato in mezzo ai
campi. Il primo ostacolo è stato il fiume Ronco. (...) Ho attraversato il fiume. Mi sono incamminato
ed a un certo punto ho visto che c’era un paesone che poi dopo, più tardi, ho saputo che era
Forlimpopoli, no? Io l’ho evitato perché cercavo la ferrovia perché io sapevo che orientandomi
verso la ferrovia, piano piano... poi dopo sapevo anche andare a casa. Infatti raggiunsi la ferrovia e
stando poi a debita distanza perché sapevo che la ferrovia non era più sicura. (...) E allora stavo
nascosto. Prima di attraversare una strada guardavo da tutte le parti (...) Ero da solo. Chilon non era
con me, perché Chilon lui era andicappato e non aveva neanche il carrello, non poteva venire. Lui
rimase là. Sì, lui rimase là. Poi, dopo, venne a casa che lo andarono a prendere (...). I suoi fratelli lo
andarono a prendere. Io (...) arrivai nello stradone (...) di Pievesestina perché c’era traffico. C’era
camion militari tedeschi che ogni tanto passavano e... io aspettai il momento opportuno poi
attraversai la strada e arrivai al fiume. Arrivato al fiume Savio ero a casa praticamente. Ero a Ronta
prima. Andai giù vicino al fiume, arrivai a casa e come arrivai a casa... Non lo so come fosse, c’era
il mio cugino Sama [Lamberto (Bruno)]. Mi venne incontro, mi abbracciò... e poi era finita. Ah!
Alla sera... Alla sera incontrai i miei (...) eravamo tutti salvi e non era poco, perché lì, avevano in
parecchi lasciato la pelle. (...) il giorno dopo uccisero Barbieri [Ernesto] [e] Colombo Barducci e
presero (...) Urbano Fusconi lì, a Ronta. Ai confini tra San Giorgio e Ronta. Loro furono uccisi il 22
di agosto. Quindi, praticamente, io sono venuto a casa il 21 di agosto. (...) Io mi sono sempre
chiesto come mai fosse stato abbandonato il carcere. Va be che eravamo rimasti pochissimi eh! (...)
Io non ero mai stato con mio padre nel rifugio. Allora scappammo quando sapemmo che Barbieri
era stato ucciso lì a due chilometri, a tre chilometri... allora scappammo e andammo da una famiglia
di contadini, che era una famiglia che ospitava sempre i partigiani quando tornavano dalle azioni dei
GAP. (Vittorio (Quarto) Fusconi - 1998)
Chi fu sfortunato fu trasferito più a nord, in altre carceri italiane, sempre con la
funzione di ostaggio; oppure in Germania. E di questi, chi ritornò, ritornò solo a
guerra finita.
Per causa di uno… di una spia. Dissero che noi stavamo per preparare una fuga e invece credo non
fosse vero. Vennero le SS ci misero tutti in fila guardi se in quel momento mi avessero fucilato non
capivo niente perché il sangue mi era andato alla testa e me a n’ capiva piò gnint (…) E dopo alcuni
giorni io ed altri giovani incatenati uno con l’altro. Undici eravamo, undici. Uno legato all’altro no?
Ci misero in un camion e ci portarono su a Bologna. Non le dico lungo la strada perché senza
mangiare, senza bere, senza poter far niente perché legati in quella maniera lì. E ogni tanto
arrivavano gli apparecchi che mitragliavano e sicché… a sami in cal cundizion che lè via… eravamo
messi così. E dopo alcuni giorni invece, quelli di Cesena, Brighi [Primo] [e] loro vennero liberati
dai partigiani [il 4 ottobre 1944]. E io, si vede che il destino doveva essere quello lì. Mi portarono a
Bologna (…) a San Giovanni in Monte (…) E mi portarono su (…) guardi, io, la fame che ho patito
nel carcere di Bologna non glielo dico. Ci davano una ciotola così, nera, di legno, dove c’erano…
una brodaglia… erano più i vermi che la minestra. La minestra sembrava fatta con la plastica. Era
coi fagioli e poi un pezzettino di pane così e non se ne parlava per 24 ore. (…) e sa con chi ero in
carcere? Con il figlio della Cianciulli (…) di quella che la chiamano la saponificatrice. Il suo figlio.
E poi c’era uno di Mon[zuno], di sopra di Bologna, che era dentro. Aveva avuto mi pare il carcere a
vita. Che aveva ammazzato la moglie. Ci avevano messo insieme ai delinquenti veri e propri
insomma. E lì ho trascorso un buon periodo fino… al novembre. E… e poi e come dico, questo qua
che mi dava la sua mezza pagno[tta], quel pezzo di pane, lo dava me perché io non resistevo dalla
fame. Tant’è vero che… io penso che più di quaranta chili non ero. Poi di lì un giorno viene un
tenentino dell’esercito (… ) mi chiama… e chiama me e quel... quell’anziano, anziano non era…
era un quaranta… o poco più, quarantenne… Ci chiama e dice “Voi perché siete qui dentro?” “Ah!”
io dico “Bisognerà che lo chieda a voi perché sono qui dentro? M’hanno preso e m’hanno portato
qui”. E ho raccontato tutta la storia perché sapevo che loro non avevan niente in mano di mio. Ben...
e alora mi dice sto tenente “La tua città è stata occupata” disse “da... dagli eserciti alleati. Allora tu
devi venir con noi devi venire…” e con l’altro disse “Lei, è grande, può anche andare per conto
suo”. E me mi portarono su a Verona. A Verona mi fecero fare… mi misero in una cosa... in una
mensa militare poi, in sostanza, dove convergevano tutti quelli che erano corsi con loro. Magari
forse più che altro per paura e… avevo le scarpe di tela in pieno inverno. E mi misero a lavorare lì e
ho fatto lo sguattero per alcuni mesi e poi ci fu un capitano... Era di Bologna, ma era una brava
persona, non certo fascista, era andato lì per necessità forse o che... era nelle poste. Mi portò là alle
poste e poi arrivarono gli americani, fu il 29. Il 28-29 aprile [1945]. Una notte d’inferno perché
fecero saltare tutti i ponti e… e… e così. E poi dopo son tornato a piedi. Son tornato a piedi con
alcuni bolognesi e abbiam fatto tutta la strada. Soprattutto con l’aiuto della sorella di Alberti [Berto]
che si trovava lassù a Verona e che io ho incontrato. E che c’è stata di grande aiuto perché, quando
noi tornammo, dopo Verona, alla distanza di 5 o 6 chilometri, le chiamavano le fortezze dove
c’erano i depositi di ar[mi]… una volta (…) ci arrestarono ancora. Mo stavolta ci arrestarono i
partigiani. Ci misero dentro in galera ma noi… come eravamo in condizione [di spiegare chi
eravamo]… Fu la sorella di Alberti che andò su… tornò su a coso… a Verona. Fece in modo e
maniera di… di… di lasciarci un lasciapassare dicendo che questi ragazzi non erano… non erano
fascisti e riuscimmo a tornare per mezzo suo. Tornammo giù e passammo un ponte… Mi ricordo e
andammo tutto lungo la ferrovia, passammo un ponte. Quando fummo dall’altra parte i contadini ci
dissero “Ma da dove siete passati? Attraverso il ponte? Mo l’è tot miné!”. (…) A Bologna... a
Bologna sempre per merito di quest’Alberti trovai un camion che mi portò fino a Forlì… Ci portò
tutti e due fino a Forlì. E a Forlì andai dalla Sozzi [Norma Balelli]. La moglie di Gastone che era di
Forlì. E da Forlì tornai a casa in bicicletta. (…) Non le dico i patimenti del carcere, la fame che ho
patito. Alora mi rendo conto di coloro che son morti di fame nei campi di concentramento. Io dico
“I poveretti cosa avran mai provato!” perché io, per alcuni mesi, solo a mangiar così poco, io
piangevo (…) Son tornato il 5 di maggio. Il giorno più bello della mia vita. (Pagliacci Bruno - 1984)
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