Comments
Description
Transcript
M. Giorgianni - v. Causa (ED,VI).
Giorgianni Michele Causa del negozio giuridico (dir. priv.) [VI, 1960] Sommario: 1. Premessa. 2. La dottrina italiana sotto il codice del 1865. Il primo trentennio di derivazione francese. 3. La nullità del contratto traslativo per mancanza di causa. 4. La progressiva riduzione dell'area della mancanza di causa. 5. La dottrina tedesca della causa. 6. La sostanziale fedeltà alla tradizione sia da parte dell'ordinamento, sia da parte degli interpreti, in Francia e in Germania. L'ordinamento anglosassone e quello russo: cenni . 7. Confluenze e differenze dei due ordinamenti, germanico e francese. 8. La dottrina italiana dopo il primo trentennio. Il codice del 1942. 9. Nostra opinione sulla odierna rilevanza della causa. 10. Corollari della nostra opinione. Il negozio astratto. La illiceità della causa. 11. Conclusione: la causa del negozio giuridico. 1. Premessa. Chi si soffermi ad esaminare il panorama offerto dalla dottrina italiana contemporanea della causa, ne ricava l'impressione di un cantiere in fecondo movimento, nel quale nuovi materiali affluiscono incessantemente per alimentare lo sforzo di costruzione di un edificio, che, pur poggiando su vetuste e solide fondamenta, non riesce ad assumere ancora un netto contorno, malgrado la maestrìa degli architetti e la pregiatezza dei materiali. Tale spettacolo contrasta stranamente con quello offerto dalla dottrina straniera, ovverosia - per restare in un terreno di tradizione giuridica comune - da quella germanica e francese. Qui la disputa può considerarsi da tempo sopita, attraverso l'accettazione di posizioni che ormai possono considerarsi pacifiche, o quasi. Si è perciò autorizzati a parlare di «crisi» del concetto di causa in Italia? Malgrado l'abuso che si fa spesso di quella parola, occorre rispondere positivamente all'interrogativo, ove si consideri come s'ingrossino sempre più le file di coloro - tra i quali si trovano autorevolissimi esponenti della dottrina - i quali affermano l'esistenza di almeno due distinti concetti di causa, uno riferibile al negozio e l'altro all'obbligazione, ovvero più comprensivamente alla attribuzione patrimoniale. Né occorre trascurare che la giurisprudenza segue compatta tale indirizzo parlando ora di causa del negozio, ora di causa dell'obbligazione, ora di causa della prestazione, naturalmente senza avere la pretesa di porre distinzioni nette in sede teorica, ma spinta solo dalla diversità delle situazioni sottoposte al suo esame. Si è giunti, così, ad affermare che i vari concetti espressi dalla dottrina sono singolarmente esatti, e che esistono quindi diverse nozioni di causa, egualmente valide nell'ambito in cui ciascuna di esse viene posta. D'altro canto, anche coloro i quali sembrano seguire un indirizzo più rigoroso, riferendo la causa solamente al negozio giuridico, si vedono talora costretti a fare riferimento ad una «causa remota», distinta dalla vera e propria causa. Ciò considerato, non può vedersi una esagerata valutazione del problema nell'osservazione, non infrequente, di chi considera la causa come un concetto indecifrabile ovvero «molto vago e misterioso» (1) . Ci sembra che un passo avanti per la comprensione del problema possa essere, perciò, utilmente compiuto ove si tenti di rendersi conto delle ragioni per le quali la dottrina italiana ed essa sola - continua ad affaticarsi intorno ad un concetto di origini tanto vetuste. Codesta indagine, oltre a soddisfare una curiosità, peraltro legittima, potrebbe contribuire a cogliere il senso di un travaglio che, salvo qualche pausa più o meno lunga, dura da quasi un secolo. In tale prospettiva, l'esame della dottrina italiana dal 1865 a oggi ci svelerà probabilmente, pur nell'apparente disordine, i termini essenziali di una evoluzione di pensiero. Il ragionato inventario della dottrina italiana, che ci proponiamo, può essere effettuato oggi in una posizione singolarmente fortunata, essendo ormai trascorso un buon numero di anni dall'entrata in vigore del codice del 1942, i compilatori del quale avevano espressamente dichiarato di preferire una certa nozione di causa. L'autorità del legislatore non è riuscita a fermare il flusso della speculazione dottrinaria né della elaborazione giurisprudenziale, ed anzi le critiche contro la nozione accolta dal codice si fanno sempre più insistenti. Sarà interessante cogliere il significato di codesta ribellione, ed inquadrarla nella evoluzione di pensiero che il legislatore non è riuscito ad arrestare. Avremo, occorre appena soggiungere, necessità di essere assiduamente confortati, oltre che controllati, nella nostra ricerca, dalla tradizione storica. Non avremo necessità, per questo, di invadere il campo riservato agli storici, né avremmo in verità le forze e gli strumenti per farlo. La dottrina italiana ha recato, anche di recente, contributi così preziosi sull'argomento, che anche da questo punto di vista la nostra ricerca può compiersi nelle più favorevoli condizioni. Il ragionato inventario della dottrina italiana - vivificato dalla luce della comparazione delle esperienze straniere a cui essa ha largamente attinto, da un canto, e da quella della tradizione storica, alla quale essa si riallaccia intimamente, dall'altro - ci consentirà di riscontrare talune note comuni. La costante presenza di queste, pur nella diversità delle opinioni in contrasto, varrà a testimoniare la continuità di un pensiero e la sua sostanziale fedeltà alla voce penetrante, anche se talora apparentemente inascoltata, della tradizione. Saremo così in grado, alla fine, di cogliere il significato e le esatte proporzioni della «crisi» nella quale la dottrina italiana sembra dibattersi. Ci considereremo paghi se in tal modo il lettore potrà ricevere una chiarificazione in un argomento, la cui estrema difficoltà costituisce un avvertimento di rito all'inizio di ogni trattazione, e se egli potrà convincersi che la causa non costituisce un prelibato concetto - riservato a una ristretta categoria di savants - ma uno dei pilastri più evidenti dell'ordinamento giuridico privato. 2. La dottrina italiana sotto il codice del 1865. Il primo trentennio di derivazione francese. Nel rifare il cammino percorso dalla dottrina italiana della causa, occorre partire dalla considerazione del dato normativo, offerto dal codice civile del 1865. Il legislatore includeva (art. 1104) la «causa lecita per obbligarsi» tra i «requisiti essenziali per la validità di un contratto», accanto alla capacità, al consenso e all'oggetto, e ribadiva che «l'obbligazione senza causa, o fondata sopra una causa falsa od illecita, non può avere alcun effetto» (art. 1119). Esso soggiungeva che, tuttavia, «il contratto è valido, quantunque non ne sia espressa la causa» (art. 1120), e che questa «si presume sino a che non si prova il contrario» (art. 1121). Infine, esso dava la nozione di causa illecita come di quella «contraria alla legge, al buon costume o all'ordine pubblico» (art. 1122). In tal modo, il nostro legislatore aveva chiaramente seguito la sistemazione del codice francese, il quale contiene le medesime disposizioni, tranne quella dedicata dal nostro art. 1121 alla «presunzione» della esistenza della causa, con la quale si volle risolvere un dubbio sorto tra gli interpreti del codice napoleonico. La chiara derivazione francese della formulazione del nostro codice è sufficiente a spiegare perché la dottrina italiana non si sia discostata, per circa un trentennio, dalla dottrina francese sull'argomento. In questo periodo la causa viene riferita esclusivamente all'obbligazione, e viene intesa come lo scopo (but) che induce ciascun contraente ad assumere il vincolo (tesi cosiddetta subiettiva) (2) . Ci sembra, tuttavia, che le ragioni per le quali in questo primo stadio la nostra dottrina, sulla falsariga di quella francese, riferiva senza contrasti la causa all'obbligazione, meritano di essere approfondite. Non ci sembra giustificato, invero, condannare sommariamente, come sovente è stato fatto, tale tendenza, senza averne prima indagato il significato. Quando l'art. 1104 c. 1865 includeva tra i requisiti del contratto «la causa lecita per obbligarsi», traducendo quasi alla lettera il corrispondente art. 1108 del codice francese (une cause licite dans l'obligation), veniva a riferire la causa a quello che esso considerava l'elemento protagonista del contratto. Com'è noto, la concezione del contratto recepita dal codice francese era esclusivamente quella del contratto obbligatorio (art. 1101). Il cosiddetto effetto traslativo immediato dei contratti diretti al trasferimento della proprietà di cosa certa e determinata introdotto a seguito di una nota tendenza filosofica - non fu inteso dal legislatore francese nel significato rigoroso nel quale noi oggi siamo abituati a formularlo. Quell'effetto viene dal codice napoleonico ricollegato esclusivamente alla obligation de donner, e di livrer la chose (art. 1136 e 1138): esso passa quindi attraverso il filtro della obbligazione (3) . Codesta concezione è, com'è noto, tuttora perdurante nella dottrina francese, la quale continua a seguire una nozione del contratto atta a comprendervi solo quello obbligatorio, e continua quindi a intendere il contratto traslativo nient'altro che come quello che genera un'obbligazione di dare e insieme ne assicura la esecuzione (4) . La preminente considerazione del momento «obbligatorio» del contratto ha avuto in Francia un caratteristico riflesso nel principio promesse de vente vaut vente, solennemente sancito dall'art. 1589 del codice e tuttora seguito dalla dottrina, malgrado recenti attenuazioni (5) , ovviamente imposte dalla necessità delle contrattazioni moderne. Il codice italiano del 1865 si preoccupò di precisare più rigorosamente l'effetto traslativo del contratto, ricollegandolo non già all'obbligazione, ma al «consenso legittimamente manifestato» (art. 1125). Tuttavia, la definizione del contratto contenuta nell'art. 1098 faceva riferimento esclusivamente alla costituzione, regolamentazione o scioglimento di un «vincolo giuridico», ed ancora più chiaramente il codice, nel dare la nozione del contratto bilaterale, parlava di «contraenti che si obbligano reciprocamente gli uni verso gli altri» (art. 1099). D'altro canto lo stesso codice definiva la vendita come «un contratto, per cui uno si obbliga a dare una cosa e l'altro a pagarne il prezzo» (art. 1447), pur affrettandosi a soggiungere che «la proprietà si acquista di diritto dal compratore riguardo al venditore, al momento che si è convenuto sulla cosa e sul prezzo» (art. 1448). È perciò comprensibile che la dottrina italiana abbia continuato per molti anni a ripetere che il contratto genera esclusivamente obbligazioni, pur essendosi resa conto che il nostro art. 1125 aveva definitivamente riferito l'effetto traslativo al «consenso» (6) . Nella delineata nozione di contratto, la obbligazione costituisce, adunque, l'elemento protagonista degli effetti. Tale posizione è più evidente nella dottrina francese, la quale ad esempio anche nei cosiddetti contratti reali (quali il mutuo, il deposito, il comodato e il pegno) finisce col degradare la consegna della cosa a semplice presupposto del contratto (7) . Con ciò è spiegata la ragione per la quale in Francia - sulla falsariga del dato normativo offerto dall'art. 1108 - la causa del contratto viene tuttora identificata, quasi indiscussamente, con la causa dell'obbligazione. Anche il dominio, pressoché incontrastato, in seno alla dottrina francese, della tesi cosiddetta subiettiva, trova la sua spiegazione in modesta nozione di contratto. E invero, una volta che l'elemento protagonista del contratto è costituito dalle obbligazioni, la cui nascita consente il raggiungimento dello scopo avuto di mira dalle parti, è giustificato che la causa venga riferita alle singole obbligazioni, ed identificata in definitiva con lo scopo che ciascuna parte persegue con l'assumere il proprio vincolo. Cosicché, ad esempio, per ripetere una formulazione assai comune - articolata in tali termini nel celebre passo di DOMAT, sul quale più oltre avremo occasione di soffermarci - nella compravendita la causa dell'obbligazione del compratore viene individuata nel raggiungimento della proprietà della cosa, e la causa dell'obbligazione del venditore nel conseguimento del prezzo. 3. La nullità del contratto traslativo per mancanza di causa. Per la piena comprensione della concezione francese, seguita pedissequamente dalla dottrina italiana fin quasi alla fine del secolo scorso, occorre soffermarsi altresì su di un aspetto, solitamente trascurato, il quale riveste per noi una rilevanza di notevole momento, anche perché esso aiuta a comprendere sia le ragioni del sistema tedesco della causa, sia, almeno in parte, le ragioni dell'evoluzione della dottrina italiana dalla fine del secolo scorso. Da quanto è stato detto nel paragrafo precedente, risulta che il codice e la dottrina francese hanno accolto il principio consensualistico della trasmissione della proprietà quasi come una sovrastruttura alle linee tradizionali per le quali il contratto produceva solamente obbligazioni. In verità, si tratta di un principio la cui netta formulazione può esprimersi solo su di un piano, puramente logico, di esaltazione della volontà individuale e della onnipotenza del «consenso». Esso diviene necessariamente poco netto e preciso nella sua positiva attuazione, per le limitazioni derivanti sia dal principio che riduce la efficacia del contratto alle sole parti contraenti, sia dai princìpi, indubbiamente connessi con questo, della pubblicità e del possesso. Ciononostante il principio consensualistico - quale è chiaramente recepito dal codice francese, e ancora meglio precisato dal codice italiano del 1865 - provocò, anche se i contemporanei non ne ebbero chiara coscienza, una fondamentale svolta nel sistema contrattuale tradizionale. A noi pare che i riflessi di codesta trasformazione sulla dottrina della causa meritino di essere attentamente considerati. L'importanza del principio consensualistico del trasferimento della proprietà consiste non tanto nell'affermazione che la proprietà si trasferisce senza necessità di un atto di materiale consegna (la traditio era da molto tempo talmente «spiritualizzata» da costituire ormai, specie per le cose immobili, una pura formula notarile), quanto nella intima compenetrazione dell'atto traslativo e del contratto consensuale, i quali per l'innanzi erano formalmente, e soprattutto concettualmente, distinti con chiarezza (8) . Siffatta compenetrazione non si limitò al puro terreno concettuale, ma, è bene osservare, produsse una conseguenza di notevole momento, e cioè quella di rendere partecipe l'atto traslativo dei vizi del contratto consensuale. Si tratta di una conseguenza di importanza fondamentale, perché la causa era stata nel frattempo elevata a requisito necessario per la validità del contratto (art. 1108 c.c. francese, 1104 c.c. it. 1865), in virtù di una evoluzione lentamente maturatasi in seno al contratto obbligatorio (9) , probabilmente come esplicazione della vecchia exceptio tradizionalmente concessa al debitore sine causa. L'attribuzione della vis traslativa al contratto obbligatorio produsse, conseguentemente, l'affermazione del principio della «nullità» del trasferimento della proprietà nel caso in cui il contratto fosse mancante di causa o avesse causa falsa. In tal modo, la esistenza della causa obligandi venne elevata a requisito indispensabile per la produzione dell'effetto traslativo. Per lo innanzi, invece - se è vero che la nuda traditio non era sufficiente a trasferire la proprietà - si riteneva di solito sufficiente che la volontà ditransferre dominium si appoggiasse ad un preesistente titulus invalido (10) . Consensus adquirendi anche tradentis - putativo diceva il o giurista intermedio - habentis transferendi dominium potestatem, subsistente causa vera vel putativa, ad translationis dominii ordinata, inducit translationem dominii (11) . Di conseguenza la mancanza o il al tradens esclusivamente vizio della un'azione causa personale attribuiva per la restituzione, e cioè la condictio indebiti o sine causa (12) , mentre nei confronti dei terzi essa riceveva la medesima disciplina dei vizi del consenso (13) . Ovviamente codesta natura «astratta» del trasferimento riversava i suoi effetti soprattutto a favore dei terzi acquirenti dell'accipiens. E tanto più evidente era codesta difesa dei terzi, quanto più ampia fosse stata la rilevanza della «mancanza» di causa nei rapporti tra tradens eaccipiens. Si pensi ad esempio alla importanza che codesta salvaguardia degli interessi dei terzi rivestiva, in un momento in cui la rilevanza della causa giungeva per avventura fino a comprendere il successivo venir meno della controprestazione dell'accipiens, ovverosia - per adoperare una terminologia moderna - l'inadempimento dell'altra parte o la impossibilità sopravvenuta (condictio causa data, causa non secuta). Codesta tradizione, che affondava le sue radici nel diritto romano e che era giunta fino a POTHIER (14) , venne spezzata non appena si ebbe coscienza che il principio consensualistico confondeva volutamente - sia pure senza forse rendersi chiaramente conto delle conseguenze - il modus ed il titulus adquirendi, e che esso quindi reclamava l'applicazione al contratto traslativo del principio della «nullità» per mancanza di causa, il quale si era maturato nel terreno del contratto obbligatorio. Occorre a questo punto osservare che la pura e semplice applicazione di tali princìpi veniva a privare di colpo i terzi subacquirenti dei vantaggi di un acquisto della proprietà il più possibile «pura», ovverosia il più possibile svincolata dalle sorti del titolo del dante causa, con grave nocumento alla sicurezza della circolazione (15) . Naturalmente la questione aveva pratico rilievo solo per gli immobili, dati i noti princìpi vigenti in materia di cose mobili, princìpi che non senza significato sono stati spesso considerati come contraddittori rispetto a quello che attribuisce vis traslativa al solo consenso. Si è quindi assistito a un tentativo di ridurre ai minimo le descritte conseguenze dannose alla circolazione, derivanti dalla nullità del trasferimento per mancanza di causa. Sarebbe assai interessante cogliere i momenti attraverso i quali il tentativo ha progredito, ma ciò ci porterebbe troppo lontano. Esso a quel che a noi sembra, si è irradiato in due direzioni: da un canto la dottrina ha cercato di perpetuare il principio per il quale l'azione recuperatoria del tradens, in caso di causa mancante o putativa, conserva carattere puramente personale, ed è esperibile quindi solo verso l'accipiens, dall'altro essa ha favorito il processo, probabilmente iniziatosi da tempo, diretto a indurre l'ambito di rilevanza della «mancanza» e della «falsità» della causa. Per quanto riguarda la prima delle due direttive delineate, è da osservare che i primi interpreti del codice francese vollero applicare rigidamente il principio della nullità del trasferimento e affermarono quindi che, non essendosi effettuato il trapasso della proprietà dal solvens , anche l'atto di disposizione posto in essere da quest'ultimo deve intendersi invalido, e che perciò il terzo subacquirente soggiace alla rivendica del tradens. Ma ben presto venne introdotto un temperamento nel senso che il solvens, pur avendo il diritto di rivendicare la cosa nei confronti del terzo, deve tuttavia - se costui ha acquistato di buona fede e a titolo oneroso - indennizzarlo di tutte le conseguenze della evizione (16) . Nella dottrina italiana, a un certo punto, le conseguenze della «nullità» del trasferimento per mancanza o falsità della causa vengono addirittura ripudiate, mediante il ricorso ai princìpi della «ripetizione dell'indebito», che il codice regolava sicuramente come un'azione personale(17) . Si volle, in altri termini, ricavare della condictio dalla indebiti, perpetuazione il principio della che disciplina l'inesistenza dell'obbligazione di dare non provocava necessariamente la nullità del trasferimento. L'argomentazione aveva sicuramente una base assai fragile, poiché la disciplina della condictio indebiti - riprodotta anche dal codice del 1942 - si riferisce, come avremo occasione di vedere, non già al contratto traslativo, ma al «pagamento», ovverosia all'atto di trasferimento separato dal contratto obbligatorio, del quale anzi costituisce esecuzione. Tuttavia, occorre riconoscere che la linea di separazione non era eccessivamente chiara, specie per una dottrina e per un codice che non avevano ancora ben assimilato il principio consensualistico: ciò serve anche a spiegare le lunghe dispute intorno alla natura contrattuale o meno del pagamento ed alla sua «astrattezza» (18) . Non dovette essere estranea al descritto processo la reazione verso un principio che, ove fosse stato applicato pedissequamente, avrebbe sovvertito la disciplina tradizionale della rilevanza dei vizi del titolo di acquisto dell'alienante. Codesta disciplina, formatasi sin nel seno della restitutio in integrum romana, tendeva a rendere inopponibili al subacquirente i vizi del titolo del dante causa Specie quando essi non fossero facilmente rilevabili. Come è noto, questa disciplina la quale si confonde - sul terreno immobiliare, dove ha maggiore rilievo - con i princìpi della trascrizione, ha avuto compiuta regolamentazione solo nel codice vigente con la sistemazione, appunto, della disciplina della trascrizione. 4. La progressiva riduzione dell'area della mancanza di causa. Di gran lunga più importante, in quanto ha profondamente inciso sul concetto di causa, è il processo di erosione dell'area di incidenza della «mancanza» e della «falsità» della causa. Alla fine di questo processo, che era in parte già compiuto quando fu emanato il codice italiano del 1865, la causa non ha avuto più riferimento alla realizzazione dello scopo di ciascun contraente, ma esclusivamente al meccanismo idoneo a quella realizzazione. Occorre appena osservare che codesto processo di sottrazione di una serie di fenomeni all'area della causa non riguarda esclusivamente i contratti traslativi, ma anche quelli obbligatori. Tuttavia le conseguenze di maggiore peso, se non le uniche, della trasfigurazione del concetto di causa che ne è risultata si sono riverberate esclusivamente sul terreno dei contratti traslativi. E invero, nei contratti meramente obbligatori, la «nullità», da qualunque ragione essa derivi, costituisce nella vita del rapporto obbligatorio, e cioè fino all'adempimento, uno strumento del tutto ridondante per la difesa del debitore: la exceptio - e cioè lo strumento tradizionalmente offerto al debitore - attraverso il quale questi rifiuta legittimamente l'adempimento, non abbisogna di fondarsi necessariamente su una «nullità» del vincolo. Solo quando il debitore abbia adempiuto, e voglia ottenere la restituzione di ciò che ha dato sine causa, occorre una più precisa determinazione dell'azione concessagli dall'ordinamento per recuperare quanto egli ha dato, specie per vederne i limiti nei confronti dei terzi. Codesta sostanziale differenza tra le due situazioni si coglie appieno ove si considerino ad esempio l'azione di annullamento ovvero quella di risoluzione per inadempimento. Il contraente, a seconda che abbia o meno adempiuto, si trova in posizione nettamente diversa: nel primo caso egli, se vuole recuperare quanto ha dato, dovrà provocare addirittura l'annientamento del contratto, nel secondo caso egli si troverà invece nella più comoda posizione di potere semplicemente «eccepire» l'invalidità o l'inadempimento, e anzi egli spesso non incontrerà in codesta difesa alcun limite temporale (quae temporalia ad agendum, perpetua ad excipiendum, v. art. 1442 ultimo comma c.c.). Conseguentemente, finché si è rimasti nel terreno del contratto puramente obbligatorio, i contorni della «mancanza di causa», e probabilmente le conseguenze di tale mancanza, poterono essere lasciati abbastanza ampi e scarsamente definiti. Nei rapporti tra le parti, invero, la minore o maggiore ampiezza di quei contorni e la minore o maggiore severità delle conseguenze, non avevano eccessivo rilievo, posto che il debitore, attraverso il rimedio abbastanza neutro della exceptio, poteva rifiutare legittimamente l'adempimento, mentre attraverso il rimedio altrettanto neutro della condictio, poteva ristabilire l'equilibrio che si era rotto. Nei confronti dei terzi, invece, ove il debitore avesse adempiuto mediante il trasferimento della cosa, valevano le regole sopra accennate. Il principio della «nullità» del contratto per mancanza o falsità della causa, accolto dal codice francese, non avrebbe, pertanto, apportato alcuna conseguenza degna di rilievo, ove esso fosse stato, come per l'innanzi, applicato al contratto puramente obbligatorio. Una volta esteso al contratto traslativo, esso veniva a significare che il tradens non perdeva la proprietà ove il contratto fosse stato mancante di causa: in tal modo veniva introdotta una profonda alterazione al sistema preesistente, nel quale il tradens aveva a disposizione, non già larevindica, esperibile quindi anche verso i terzi, ma esclusivamente una azione personale, esperibile verso l'accipiens, e diretta alla restituzione della cosa. Ecco perché il processo di cui stiamo discorrendo ebbe grandissima importanza nel sistema francese e italiano, che avevano accolto il principio della nullità del contratto - anche traslativo - per mancanza di causa. In Germania, invece, come subito vedremo, la diversità dell'ordinamento non reclamò la necessità di un processo analogo. Sarebbe, al proposito, interessante cogliere i nessi tra la delineata esigenza nella quale l'ordinamento francese venne a trovarsi, e talune norme contenute, in ordine alla trascrizione delle domande, nella l. 23 marzo 1855 che disciplinò la trascrizione degli atti relativi agli immobili. Ma ciò ci porterebbe troppo lontano. Come conseguenza del delineato processo, le ipotesi di mancata «realizzazione» dello scopo dei contraenti sono state escluse dall'ambito della causa ed hanno quindi trovato la loro disciplina, non già nella «nullità», ma nell'ambito delle azioni contrattuali e quindi meramente personali (19) . Cosicché, il richiamo alla mancata realizzazione della causa, che talvolta riaffiora ancor oggi nella giustificazione teorica di quei rimedi (20) , costituisce ormai nient'altro che una vaga reminiscenza storica. L'autorevole tentativo, fatto abbastanza di recente in Francia (21) , di restituire alla causa la virtù di disciplinare anche la effettiva realizzazione dello scopo delle parti (risoluzione per inadempimento o per impossibilità sopravvenuta, exceptio inadimpleti contractus, ecc.) deve perciò considerarsi anacronistico perché contrastante con la linea di evoluzione sopra descritta. Si è di recente affermato che il codice napoleonico, considerando elemento essenziale del contratto la causa intesa come scopo realizzato, sarebbe caduto nel medesimo equivoco nel quale erano caduti i suoi ispiratori, e cioè DOMAT e POTHIER (22) . Non ci è necessario in questa sede controllare la fondatezza di siffatta accusa, dato che a noi è sufficiente riscontrare il processo di modificazione, durato per tutto il sec. XIX, del principio accolto dal codice francese. Certo è, peraltro, che nel diritto intermedio anche la realizzazione dello scopo rientrava nell'ambito della causa (23) . Probabilmente il giurista intermedio, ponendo in risalto il carattere «finalis» dell'elemento causale, intendeva esaltare il momento psicologico dello scopo del negozio, ovverosia quello del raggiungimento degli interessi che le parti volevano soddisfare (24) , né è senza significato che la mutilazione subita dalla area d'incidenza della causa abbia aperto il campo alle teorie cosiddette obiettive, dirette appunto a oscurare qualsiasi anelito della causa verso il futuro, e cioè a mettere in ombra il carattere «finalis» di essa. Come conclusione del processo di cui stiamo discorrendo la causa è vista, nel sistema francese, esclusivamente nell'obbligazione dell'altra parte (abbiamo già visto quale senso pregnante assume in Francia l'obbligazione) e non già nella realizzazione di essa (25) . Il ché vale quanto dire che la causa va ricercata esclusivamente nel momento statico del contratto, ovverosia nel solo sinallagma genetico, e non anche in quello funzionale. Solo un certo tradizionalismo della dottrina francese, congiunto a una nota riluttanza di fronte alle derivazioni teoriche, hanno potuto perpetuare l'affermazione di una tesi subiettiva ridotta ormai a una larva. È, tuttavia, possibile cogliere qualche, sia pur timida, manifestazione recente di «obiettivizzazione», nella osservazione che la causa è lo scopo tipico determinante (26) . Con maggiore consapevolezza codesta evoluzione è stata sentita dalla dottrina italiana fin dalla fine del secolo scorso. Poiché codesta consapevolezza deriva, sia pure in parte, dall'influsso esercitato dalla dottrina tedesca, è tempo ormai di fare qualche cenno sullo svolgimento che la dottrina della causa ha avuto in Germania. 5. La dottrina tedesca della causa. Per comprendere appieno il significato della dottrina della causa in Germania occorre por mente - il che, in verità, non sempre viene fatto - alla diversità di «ambiente» oltre che di «ordinamento» giuridico. In Germania, anzitutto, giunsero scarsi echi della ricca elaborazione del concetto di causa, compiuta ad opera dei giuristi intermedi italiani e francesi. Codesta scarsa recezione va indubbiamente ricercata nella maggiore dose di formalismo, di cui fu permeato più a lungo l'ordinamento germanico, e nella minore sensibilità di fronte a quel processo di enucleazione dell'elemento della volontà - e quindi dello scopo perseguito dalle parti nella regolamentazione dei loro interessi - che costituì uno dei meriti maggiori delle scuole italiana e francese nell'epoca intermedia, e che preparò lentamente il terreno sul quale poi riuscì a germogliare prepotentemente l'affermazione illuministica e giusnaturalistica della onnipotenza del consenso delle parti. La dottrina giuridica tedesca nel secolo XIX - seguendo il passo di quella filosofica - recepì abbastanza rapidamente il principio volontaristico, tanto da portare a compimento la mirabile costruzione del «negozio giuridico», ma non perdette mai talune tracce dell'antico formalismo. Altro punto fondamentale da tener presente per «leggere» gli scrittori ottocenteschi della causa, è soprattutto che l'ordinamento tedesco non aveva recepito il principio consensualistico del trasferimento della proprietà, ed era rimasto perciò fedele sia al principio romanistico della necessità del modus accanto al titulus adquirendi, sia a quello collaterale della validità del trasferimento della proprietà malgrado la mancanza di causa. Nello sganciamento del modus adquirendi dalla causa del titulus, si volle riscontrare anzi dal SAVIGNY una affermazione della supremazia della volontà del soggetto (27) . Il principio «consensualistico», accolto dal codice francese, fu autorevolmente e attentamente esaminato in Germania nei suoi conseguenziali riflessi sulla «nullità» del trasferimento (28) . Ma, malgrado i temperamenti prospettati in ordine alle conseguenze rigorose della «nullità» del trasferimento (29) , il B.G.B. finì col respingere quel principio e col conservare la vecchia separazione tra promessa obbligatoria e atto traslativo. È stato spesso ripetuto che in realtà i due sistemi - quello germanico da un lato, e quello francese e italiano dall'altro - differiscono solo formalmente, e che in sostanza l'Einigung diretta al trasferimento della proprietà si confonde ed è tutt'uno col contratto obbligatorio, mentre d'altro canto nel sistema francese e italiano il principio consensualistico riceve una attenuazione sia per i mobili che per gli immobili, rispettivamente nella disciplina del possesso e della trascrizione (30) . Il che può essere, sotto certi aspetti, esatto. Ma, in realtà, non si è forse posto mente abbastanza che la separazione, sia pure semplicemente concettuale, tra il contratto obbligatorio e l'Einigung - oltre a costituire un fenomeno «ambientale» di notevole momento - permette in Germania il perpetuarsi di quella «astrattezza» del trasferimento, i cui principali riflessi si colgono, come abbiamo sopra accennato, nella difesa dei subacquirenti (31) . Codesta esigenza della tutela dei terzi ha costretto, invece, la dottrina italiana e francese a quel lento e faticoso lavoro, sopra delineato, di erosione del concetto di causa e ha altresì perpetuato una serie di equivoci ai quali più oltre dovremo accennare. Con tali necessari avvertimenti, la comprensione della dottrina tedesca della causa è abbastanza agevole. Può, quindi, essere tentata una sintesi dei suoi aspetti essenziali. I chiarimenti che precedono precisano la ragione per la quale quella dottrina sia rimasta fedele per lungo tempo alla tradizione romanistica, richiamandosi ai due filoni fondamentali ai quali il concetto di causa si riallaccia, ovverosia alla promessa obbligatoria da un canto, e all'atto di trasferimento della proprietà dall'altro: tipicamente la stipulatio e la traditio. Di codesti due filoni, il secondo era stato repentinamente troncato nel sistema francese che riconduceva al contratto, e quindi all'obbligazione, il trasferimento della proprietà (32) . Gli scrittori tedeschi dell'800, pertanto, per molto tempo hanno discusso della causa in due separati luoghi, e cioè nella trattazione dell'obbligazione, ed in quella dei diritti reali (33) . La causa era per essi, volta a volta, lo scopo (Zweck) o il fondamento (Grund), secondo che venisse posto in risalto il momento della realizzazione dell'interesse avuto di mira dal soggetto, ovvero l'esistenza di un titolo da cui promanasse la promessa o la traditio (34) . È possibile riscontrare una qualche prevalenza della prima considerazione - che possiamo chiamare subiettiva - nei riguardi della causa della promessa, e una qualche prevalenza della seconda - che possiamo chiamare obiettiva - nei riguardi della causa della traditio: ma si tratta, tuttavia, di semplici sfumature legate alla diversa posizione in cui si trovano rispettivamente il promittente ed il tradens, e alla diversità della tutela - exceptio ovvero condictio - a essi accordata. Il problema di fondo era semmai quello che riguardava la prevalenza dell'elemento soggettivo della volontà rispetto alla «causa», intesa come fondamento obiettivo dell'atto di disposizione (35) . Quando la promissio e la traditio vennero comprese nell'ampia nozione di attribuzione patrimoniale (Zuwendung), la dottrina della causa venne gradualmente trasferita nel terreno del negozio giuridico - concetto sorto nel frattempo nella dottrina tedesca - e più precisamente in quello del negozio di attribuzione patrimoniale. Permase, tuttavia, l'oscillazione tra la considerazione soggettiva e quella oggettiva, alla quale abbiamo accennato (36) : di questa oscillazione, come vedremo, fu contagiata la dottrina italiana alla fine del secolo. Occorre a questo punto osservare che la confluenza, nel negozio di attribuzione patrimoniale, dei due vecchi filoni provocò un notevole impaccio nella qualificazione della rilevanza da assegnare all'elemento causale in seno alle componenti del negozio giuridico. Ed invero, per le ragioni più sopra messe in risalto, nell'ordinamento tedesco la causa avrebbe potuto essere considerata elemento di validità solo per il negozio obbligatorio (37) , ma giammai per il negozio traslativo, senza dire che riusciva difficile spiegare come potesse considerarsi elemento essenziale del negozio anche la futura realizzazione dell'interesse perseguito dal soggetto che continuava, e continua, a ricondursi in Germania al principio della causa (38) . Al quale riguardo può essere interessante segnalare il fallimento dell'autorevole tentativo di WINDSCHEID, il quale - annegando l'elemento causale nel più ampio concetto di presupposizione (Voraussetzung) - veniva a ricondurre alla volontà delle parti anche il successivo venir meno del contratto a causa di inadempimento o di impossibilità sopravvenuta (39) . Ad un certo punto, l'attenzione della dottrina fu attirata dal problema - evidentemente affiorato per ragioni pratiche connesse al fiorire dei traffici mercantili - della «astrattezza» della promessa obbligatoria, ovverosia della forza vincolante di una promessa che non indicasse la «causa». L'approfondimento di tale problema permise alla dottrina tedesca di effettuare un diffuso approfondimento del concetto di causa e dei suoi rapporti con la volontà, con il richiamo alla vecchia problematica dei rapporti tra la causa cosiddetta materiale e quella cosiddetta formale, e della distinzione tra negozi causali e formali (40) . A seguito di questo studio, che diede importanti contributi alla dottrina della causa, fu possibile alla dottrina tedesca raggiungere un principio che nelle grandi linee era già presente da molto tempo nella dottrina e nella pratica francese e italiana attraverso la cosiddetta cautio indiscreta (41) , ovverosia quello per il quale la promessa obbligatoria è vincolante anche senza la indicazione della «causa» di essa. Tale principio fu codificato nei § 780-81 del B.G.B. Quanto precede è sufficiente a spiegare perché il legislatore tedesco - il quale, spesso a torto, è stato accusato di essere teoricizzante - non solo non ha elevato la causa a requisito del negozio giuridico, ma ha evitato di parlare della causa persino a proposito della nullità del negozio contra bonos mores (§ 138 B.G.B.). Può considerarsi egualmente chiara la ragione per la quale - una volta respinta la impostazione della presupposizione, inserita nel progetto sotto l'influenza di WINDSCHEID - (42) il B.G.B. abbia regolato la «mancanza di causa» separatamente per la promessa, e per le prestazioni patrimoniali. Nel primo caso il codice attribuisce al debitore una exceptio, senza limitazioni temporali (§ 821). Nel secondo caso viene attribuita la condictio (§ 813-20), anche per la ipotesi - esplicitamente prevista (§ 815) - in cui non si sia verificato il risultato avuto di mira dalla parte: la condictio viene estesa anche contro il terzo acquirente a titolo gratuito (§ 822). Inoltre il § 812 prevede altresì un'azione generale di arricchimento, fondata sulla mancanza di un fondamento giuridico (rechtlicher Grund) della prestazione. Codesti princìpi sono stati sostanzialmente recepiti dal codice svizzero il quale, dopo aver stabilito il principio generale dell'ingiustificato arricchimento, precisa che è dovuta la restituzione di ciò che è stato ricevuto senza causa (Grund) valida, ovvero in virtù di una causa che non si è realizzata ed è venuta meno (art. 62). Risulta altresì chiaro in che senso la dottrina tedesca accoglie i negozi «astratti». A tal proposito occorre distinguere tra contratti «reali» e «obbligatori». Nei contratti «reali» la separazione concettuale dell'atto di trasferimento (della cosa o del credito) dalla sua causa, importa la validità del trasferimento anche quando la causa faccia difetto, ma codesta validità non impedisce a colui il quale ha operato la prestazione di chiedere la restituzione (ovvero l'arricchimento) al beneficato e al terzo acquirente a titolo gratuito (43) . Nei sistemi francese e italiano, invece, opera il concetto della nullità del trasferimento per la mancanza di causa, cosicché l'interessato non ha, in linea di principio, perduto giammai il suo diritto e potrà agire (se si tratta di proprietà, con la rivendica) per ottenere il recupero contro l'accipiens e contro qualunque terzo. Ma abbiamo visto che codesto energico rimedio si trova paralizzato, per lo più, in conseguenza dei princìpi del possesso di buona fede e della trascrizione, oltre che a seguito delle limitazioni introdotte dalla dottrina. Nei contratti obbligatori, e cioè soprattutto nella promessa di pagamento e nel riconoscimento di debito previsti dai § 780781 B.G.B., la separazione dell'atto dalla causa avrebbe dovuto produrre, nella mente dei primi scrittori, la perdita della exceptio, nel senso che il debitore, salvi casi eccezionali, sarebbe stato tenuto ad adempiere senza poter invocare la mancanza di causa, salvo poi il rimedio della condictio (44) . Ma, a poco, a poco, si è finito col riconoscere al debitore la possibilità di invocare la mancanza di causa anche in via di eccezione (45) . Giustamente pertanto è stato affermato che anche l'«astrazione» della promessa obbligatoria tedesca può considerarsi meramente processuale (46) , e che essa è stata occasionata in Germania esclusivamente dalla mancanza di una norma, quale quella contenuta nei codici a tipo francese (art. 1132 Code civil), la quale sancisse la validità del contratto malgrado la mancata indicazione della causa (47) . Molto probabilmente il descritto processo, col quale la promessa tedesca ha perduto a mano a mano la sua «astrattezza», è stato provocato dal venir meno delle esigenze alle quali rispondeva il contratto obbligatorio astratto, nel frattempo largamente soddisfatte mediante la diffusione dei titoli di credito. Chiarite in tal modo le ragioni che hanno determinato la descritta disciplina che il B.G.B. ha dedicato alla causa, questa cessa di sembrare, come a prima vista in verità sembra, eccessivamente empirica. Questa disciplina è fondata sulla tradizionale e fondamentale differenza di funzionamento della causa nelle promesse da un canto e nell'effettivo dare dall'altro. Codesta distinzione è tuttora valida, pur con le necessarie trasformazioni dovute alla necessità di tener conto delle nuove situazioni che la vita moderna appresta, diverse dalle tradizionali categorie della promessa di pagamento e del trasferimento della proprietà. Quella distinzione viene perciò rispecchiata in quella recente che distingue i negozi fondamentali (Grundgeschäfte) da quelli di adempimento (Erfüllungs- ovvero Leistungsgeschäfte), a seconda che in essi venga in considerazione la regolamentazione dell'accordo delle parti ovvero la esecuzione di esso a mezzo delle prestazioni previste dal contratto (48) . Né deve recare maraviglia che, come corollario di questo processo, la causa nel negozio obbligatorio causale si cominci a identificare nello scopo tipico, e venga elevata finalmente sia pure con non chiara coscienza - ad elemento del negozio (49) . 6. La sostanziale fedeltà alla tradizione sia da parte dell'ordinamento, sia da parte degli interpreti, in Francia e in Germania. L'ordinamento anglosassone e quello russo: cenni . Da quanto precede risulta che sia l'ordinamento francese che quello tedesco, pur nella diversità delle formulazioni normative, sono rimasti sostanzialmente fedeli al concetto di causa, quale ci deriva dal diritto romano e dalla elaborazione intermedia. Altrettanto fedeli sono rimasti gli interpreti, sia dottrinari che - occorre qui aggiungere - giudiziari. La significazione dell'elemento causale - almeno sul terreno del negozio di diritto privato - non si allontana giammai, nel suo svolgimento ormai bimillenario, dalla inerenza a un atto idoneo ad alterare i rapporti patrimoniali preesistenti. Essa sta costantemente a indicare laragione - ovverosia, volta a volta, il titolo, ovvero il fondamento, ovvero ancora lo scopo (50) dell'atto col quale i privati regolano i loro rapporti patrimoniali. La rilevanza di codesta «ragione» dell'atto è riguardata sempre in funzione di una giustificazione delle conseguenze (onde, dal punto di vista logico, la ratio è anche causa delle conseguenze) dell'atto stesso, e cioè, a volta a volta, per impedirle ovvero modificarle ovvero negarne la conservazione, ovvero (in uno stadio avanzato) per farle nascere. Appartiene allo storico ricercare le ragioni per le quali a un certo stadio - indubbiamente connesso al raggiungimento di una maggiore consapevolezza della importanza della volontà rispetto alla forma - sia stato esaltato il momento dello scopo (51) ; come appartiene allo storico il ricercare i rapporti tra la dottrina della causa e la progressiva formazione del moderno concetto di contratto, rapporti collegati alla consapevolezza, acquistatasi lentamente, del momento volontaristico e quindi obbligatorio in situazioni nelle quali l'economia primitiva aveva riscontrato un meccanico scambio di beni: si pensi, ad esempio, oltre al primitivo baratto, alla concezione dei contratti innominati, come di quelli nei quali l'obbligo nasceva dalla res vel factum (52) . A noi preme qui osservare che solamente una chiara coscienza dei rapporti tra ordinamento giuridico e volontà individuale quale, a nostro avviso, solo il moderno storicismo e positivismo giuridico potevano avere - avrebbe potuto accentuare, nel descritto momento di «giustificazione» delle conseguenze dell'atto patrimoniale, la cosciente affermazione di una vera e propria limitazione posta all'autonomia privata dall'ordinamento. Nella tradizione, la funzione della causa - coerentemente alla funzione dell'intero ordinamento dei «privati» - limitava la sua rilevanza ai rapporti tra i soggetti, e serviva a misurare esclusivamente la nascita o il permanere degli effetti obbligatori o reali, ovverosia, per ordinamenti economici ancora embrionali, la nascita o il permanere dell'«obbligazione» o della «proprietà». Donde sorgeva una connessione tra la dottrina della causa e quella delle «fonti» dell'obbligazione da un canto e dei «modi di acquisto» della proprietà dall'altro. L'ordinamento francese, quando pervenne alla codificazione era più maturo di quello germanico, avendo da tempo conquistato la categoria generale del «contratto» ovverosia della «convenzione» obbligatoria, idonea a comprendere qualsiasi regolamento patrimoniale di interessi. L'inserimento - o meglio, la sovrapposizione - del principio consensualistico del trasferimento della proprietà portò alla singolare conseguenza di attribuire concettualmente al contratto obbligatorio la virtù di trasferire la proprietà: ecco perché il libro terzo del code civil (analogamente a quello del codice italiano del 1865) inserì i contratti obbligatori tra le différentes manières dont on acquiert la propriété. Né la dottrina francese ha saputo discostarsi, come abbiamo già accennato, da codesta suggestione. Sono queste le ragioni per le quali la dottrina francese è rimasta sostanzialmente fedele alla nozione di causa formulata dal DOMAT nell'ormai celebre passo delle sue Lois civiles (53) , la quale rappresenta l'ultimo stadio della elaborazione millenaria della dottrina italiana e francese della causa, collegato col raggiungimento di una nozione indubbiamente «moderna» di contratto. In POTHIER codesta nozione ha fatto ancora un passo avanti, colla contratti interessés in conquista della contrapposto categoria a dei quelli de bienfaisance (54) . Da tale inserimento della causa nella convention dovette nascere presumibilmente l'idea che essa costituisse quasi un elemento naturale del contratto. Così si spiega che nel progetto del code civil la causa veniva menzionata solo incidentalmente a proposito della forza vincolante della convention (55) . L'ordinamento tedesco, forse a ragione della più lunga fedeltà al diritto romano, ha recepito più lentamente l'idea generale del contratto e ha mantenuto conseguentemente la separazione tra i modi di acquisto della proprietà e le fonti della obbligazione. È questa forse la ragione per la quale in quell'ordinamento la celebrazione della volontà dei privati è stata vista, non già nel contratto ma nel «negozio giuridico», quale esplicazione della volontà dell'individuo, secondo i canoni della filosofia allora imperante. Tuttavia, i due ordinamenti confluiscono nel ricollegare la causa all'atto col quale si attua uno spostamento patrimoniale, che è per l'uno costituito dalla convention (ovverosia dal contratto obbligatorio), e per l'altro dal Zuwendungsgeschäft (ovverosia dal negozio di attribuzione patrimoniale). E abbiamo già chiarito il senso pregnante che assume nel diritto francese la convention e quindi la obbligazione, come strumento idoneo a provocare qualsivoglia modificazione patrimoniale, e non solamente la nascita di un obbligo. Pertanto la insistenza con la quale la dottrina francese riferisce la causa all'obbligazione risulta sufficientemente spiegata. Essa corrisponde esattamente alla posizione tedesca, la quale riferisce la causa alla attribuzione patrimoniale. Così, quando la dottrina francese ripete che ad esempio nella compravendita la causa della obbligazione del venditore è di avere il prezzo mentre la causa della obbligazione del compratore è di avere la cosa, non ci sembra che essa abbia in tal modo perduto di vista che le due obbligazioni sono intimamente riunite in un composito organismo, quale è il contratto: basti osservare che, se esse fossero smembrate, cesserebbero di essere causa l'una dell'altra. In sostanza, con quella formula - dettata esclusivamente dalla concezione subiettiva - si intende indicare solamente che la causa del contratto di compravendita può essere diversamente valutata dal lato del venditore e dal lato del compratore. L'esclamazione, sia pure autorevole: «La cause d'un contrat, cela ne signifie rien» (56) è, per l'ordinamento francese, profondamente sbagliata, perché dimentica tutto il travaglio secolare col quale quell'ordinamento è pervenuto alla nozione di contratto, quale organismo che comprende e indica non solo il consenso, ma altresì l'oggetto ovverosia le «obbligazioni», e la causa di queste (v. infatti la indicazione degli elementi del contratto, contenuta nell'art. 1108 code civil, e poi nell'art. 1104 del nostro codice del 1865 e nell'art. 1325 di quello vigente). Costituisce, pertanto, osservazione troppo superficiale, dopo quanto si è detto, che il contratto avrebbe allora più di una causa, e cioè una per ognuna delle obbligazioni che lo compongono (57) . Altrettanto superficiale è la posizione dei cosiddetti anticausalisti del secolo XIX, i quali per lo più identificavano la causa col consenso, ma qualche volta - forse in base alla osservazione, di cui però non avevano coscienza, che il «contratto» comprendeva oltre il consenso, anche l'oggetto - ritennero che la causa finisse coll'identificarsi con la prestazione dell'altra parte (58) . Una volta riscontrata la sostanziale fedeltà degli ordinamenti francese e germanico alla tradizione latina della causa (59) , sarebbe interessante il confronto con altri ordinamenti giuridici, di tradizione diversa, quali l'anglosassone e il russo. Codesto confronto ci porterebbe, però, troppo lontano, né lo riteniamo indispensabile per la identificazione del concetto di causa nell'ordinamento italiano. È possibile tuttavia osservare che la consideration, ovverosia il corrispettivo (in senso ampio), assume nell'ordinamento anglosassone il ruolo riservato alla causa negli ordinamenti di derivazione romanistica (60) . Per quanto riguarda l'ordinamento russo, la causa si viene a confondere col fondamento del negozio, ovverosia col fatto passato, presente o futuro che giustifica la modificazione patrimoniale (61) : i negozi astratti sono raramente riconosciuti, ed è stata anzi spiegata in base ai canoni della dottrina marxistica l'esigenza della «astrazione» nella circolazione dei crediti in seno agli ordinamenti capitalistici (62) . 7. Confluenze e differenze dei due ordinamenti, germanico e francese. Le confluenze tra i due ordinamenti, francese e germanico dovute alla comune tradizione romana del concetto di causa hanno significative manifestazioni. Anzitutto in ambedue gli ordinamenti si distingue accuratamente la causa dai motivi, pervenendosi ai medesimi risultati. Codesta distinzione ripete la sua origine da quella nella quale si concretò una importante tappa della dottrina intermedia - della causa in finalis e impulsiva(63) . Con la prima fu indicato il fine ultimo avuto di mira dal soggetto, ad esempio nella compravendita rispettivamente il raggiungimento del prezzo o della cosa, con la seconda i moventi psicologici che hanno spinto ciascuno dei due soggetti. La distinzione si è perpetuata nella dottrina moderna divenendo ovviamente più agevole man mano che si accede ad una nozione «oggettiva» di causa. Quanto all'elemento causale della donazione, i due ordinamenti confluiscono sostanzialmente, malgrado che nell'ordinamento francese si parli di animus donandi, mentre in quello tedesco di causa donandi. Le due diverse espressioni sono, invero, connesse alla diversa derivazione della dottrina della causa, l'una più legata all'elemento soggettivo e quindi a quello della volontà del donante, l'altra più legata al momento del trasferimento della proprietà: solvendi, credendi ovvero donandi causa. È noto che nel diritto romano classico la donazione è concepita come modo generale di acquisto della proprietà (64) . Si è talora affermato che, in realtà, il ricorso all'animus donandi indica che la causa è mancante, e si è quindi affermato che la donazione è un atto senza causa (65) . Codesta concezione verrebbe a far coincidere la causa con la res o col factum, ovverosia in termine moderno con la controprestazione. Essa è stata ripresa, di recente, sotto un angolo visuale diverso, affermandosi che nella donazione la causa è sostituita dalla forma (66) . In verità, la mancanza del riferimento ad un elemento estrinseco costituito dal corrispettivo, induceva i giuristi intermedi a mettere in risalto nella donazione la causa impulsiva, ovverosia i moventi interni del donante, donde la perdurante rilevanza dei motivi. Di conseguenza solo quando alla donazione si trova apposto un modus, l'elemento causale viene intravisto più chiaramente (67) . Sul terreno della «astrazione» ovverosia dell'idoneità dell'atto al raggiungimento ed alla conservazione degli effetti malgrado l'inesistenza della causa, le differenze tra i due ordinamenti sono assai meno profonde di quanto vengano di solito considerate. Per quanto riguarda, invero, il trasferimento dei diritti, reali o di credito, le differenze sono concettualmente evidenti a causa della diversa concezione della «invalidità» dell'atto traslativo per mancanza di causa, ma in pratica esse sono assai ridotte in conseguenza del principio del possesso per i mobili e di quello della trascrizione per gli immobili, oltre che in conseguenza delle attenuazioni arrecate dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Per la promessa obbligatoria la differenza può oggi considerarsi praticamente esaurita a causa della diffusione dei titoli di credito. Invece, come sopra si è avuto occasione di accennare, fino ad una certa epoca, mentre l'ordinamento italiano e francese conosceva la pratica dei cosiddetti billets non causés derivati da istituti evolutisi nel diritto intermedio, quale la cosiddetta cautio indiscreta - l'ordinamento tedesco pare che non conoscesse una eguale astrazione sia pure temporanea della promessa dalla causa, ovverosia della causa formale da quella materiale. Alla astrazione delle promesse, dettata dalle necessità del commercio, l'ordinamento cercava di pervenire attraverso il ricorso alla novazione, al riconoscimento o alla delegazione (68) , finché fu affermata, come si è visto, la natura astratta della promessa o del riconoscimento del debito, accolta poi dai § 780-81 del B.G.B. (69) . Ma l'astrattezza della promessa si è attenuata fino a divenire, a seguito di un processo cui più sopra abbiamo accennato, meramente «processuale», venendo così a coincidere con quella già conosciuta in Francia ed in Italia (70) . Piuttosto le differenze tra i due ordinamenti in ordine alla «astrattezza» possono essere colte sotto un aspetto di solito scarsamente posto in luce. Nell'ordinamento francese può osservarsi la tendenza sia ad includere nel contratto tutte le prestazioni, anche per avventuraseparate temporalmente, sia a ricollegare alla convention o alla obligation le prestazioni che si presentassero, per avventura, isolate. Così, ad esempio, il trapasso della proprietà delle merci nella vendita obbligatoria, viene ricollegato al contratto persino se le merci non esistevano al momento in cui esso veniva posto in essere. Nell'ordinamento tedesco, invece, vi ha una netta separazione tra il contratto (obbligatorio) e la sua esecuzione, la quale viene ricollegata a distinti negozi di disposizione considerati, nel senso più volte spiegato, «astratti» (71) . Onde è sorta la ricordata distinzione traGrundgeschäfte e Leistungs- o Erfüllungs- Geschäfte, ovverosia tra negozi fondamentali e negozi esecutivi. Codesta differenza tra i due ordinamenti - la quale ha rilevantissimi effetti nei confronti dei terzi - deve essere ricollegata indubbiamente alla peculiare concezione del contratto obbligatorio, raggiunta dall'ordinamento francese, atta a comprendere di solito anche il momento esecutivo; la quale concezione è stata talora esasperata fino a provocare gravi perplessità circa la natura del pagamento, ovverosia dell'atto traslativo posto in essere solvendi causa e circa le reazioni della mancanza, in esso, della causa. La suggestione esercitata dal principio della «nullità» per mancanza di causa ha reso incomprensibile ai più la disciplina dettata dal legislatore per la condictio indebiti, mentre ha indotto qualcuno a ritenere che il pagamento debba considerarsi un atto astratto (72) . Il collegamento causale della prestazione con un «contratto», al quale il sistema francese è abituato, ha provocato inoltre gravi perplessità in seno alla dottrina italiana - specie in quella che aveva avuto conoscenza del sistema germanico - di fronte ad ipotesi nelle quali una «prestazione» si presenta scissa dal contratto. Si è parlato, talora, in verità frettolosamente, di negozio astratto: così ad esempio per la cessione dei crediti, per i trasferimenti fiduciari, ecc. Su tali problemi, e su altri analoghi, ci intratterremo in seguito, nel paragrafo dedicato ai corollari della nozione di causa da noi accolta. 8. La dottrina italiana dopo il primo trentennio. Il codice del 1942. È stato indubbio merito della dottrina italiana, fin sullo scorcio del secolo XIX - ripudiando in questo come in altri campi la sudditanza dalla dottrina francese - di porre la nozione di causa su basi più rigorose. Codesto processo è coevo alla recezione della nozione germanica del «negozio giuridico», operata per primi dagli studiosi del diritto romano (73) , i quali, attraverso la conoscenza dei pandettisti tedeschi, apportarono il lievito di un ordinamento vigente in Germania ancor prima della codificazione del 1896. Si cominciò anzitutto col sostituire giustamente alla «obbligazione», che la dottrina francese adoperava ed adopera, come si è visto, in senso assai pregnante, la espressione «prestazione», verosimilmente ricavata dalla Zuwendung della dottrina germanica. Questa espressione, poi recepita dal codice del 1942, è sicuramente idonea a ricomprendere anche il momento della traslazione del dominio e degli altri diritti, che la dottrina italiana, a differenza di quella francese, si mostrò propensa a considerare un «effetto immediato» del consenso delle parti(74) . Si venne così ad abbandonare, insensibilmente prima, con maggiore coscienza poi, la nozione del contratto come meramente «obbligatorio» in seguito ripudiata definitivamente dal legislatore del 1942, che nella definizione del contratto ha soppresso il richiamo al «vincolo giuridico», contenuto nel codice abrogato, per parlare di «rapporto giuridico patrimoniale». Cominciò allora ad aver fortuna la formulazione della causa come la «funzione», lo «scopo», ovvero la «ragione economico-giuridica» del negozio (75) . Si suole indicare in codesta formulazione, ricavata dalla dottrina tedesca della causa quale scopo (Zweck) o «fondamento» (Grund), la nascita della concezione obiettiva della causa. In realtà, in questo primo stadio, la oscillazione tra concezione «obiettiva» e «subiettiva» - propria, come si è visto, della dottrina germanica - sembra aver contagiato la dottrina italiana, cosicché accanto alla formulazione summenzionata coesiste pur sempre quella che individua la causa per ciascun contraente nello scopo di conseguire la prestazione dell'altro (76) ; per la donazione, inoltre, la causa veniva pur sempre indicata nell'animus donandi (77) . In verità, indicando la causa come la «ragione economicogiuridica» o lo «scopo» o la «funzione» del negozio, si voleva semplicemente adoperare una formulazione atta a comprendere non solo i tradizionali contratti che attuano lo scambio tra le prestazioni, ma anche tutti quegli altri con i quali le prestazioni venissero diversamente combinate (scambio, società, alea) (78) . Di concezione obiettiva vera e propria deve parlarsi, invece, allorché la causa viene sottratta ad ogni legame con la «volontà» e sospinta nel dominio esclusivo dell'ordinamento. Non è senza significato che codesta diversione sia stata opera di due romanisti (79) , i quali avevano a modello un ordinamento nel quale il formalismo aveva sovente il sopravvento sull'elemento psicologico del negozio. Prima di essi un tentativo era stato, in verità, effettuato da un civilista, il quale si era ispirato ai princìpi della sociologia positivistica da un lato ed alla dottrina anglosassone della consideration dall'altro, per individuare la causa nella esistenza di uno svantaggio attuale o potenziale del promittente (80) . Secondo codesta concezione obiettiva, la causa consisterebbe nel «rapporto obiettivo» esistente tra le parti (81) , oppure nella «funzione economico-sociale» del negozio (82) . Di queste due formulazioni, la seconda è stata la più fortunata fino a penetrare nella dottrina manualistica e nella giurisprudenza, le quali non sempre hanno avuto piena coscienza del distacco che con essa si veniva operando dalla tradizione intermedia e dal concetto moderno di contratto (peraltro la giurisprudenza adopera promiscuamente quella formula oggettiva insieme ad altre soggettive, come avremo modo di accennare più oltre). Ad un certo punto la formulazione della «funzione» è stata ripulita da ogni scoria agiuridica con la tesi che intravede la causa nella «sintesi degli effetti giuridici essenziali» del negozio (83) . In tal guisa la causa ha finito, per dichiarazione dei più coerenti sostenitori della formulazione «obiettiva», col coincidere col «tipo» negoziale, ed essere quindi estesa a tutti i negozi giuridici compresi quelli che regolano rapporti non patrimoniali. Di codesta concezione hanno tenuto conto i compilatori del codice del 1942, i quali dichiararono di preferirla(84) senza peraltro avere la possibilità di tradurre la loro preferenza in una formula normativa: ché anzi la causa è stata riferita solo al contratto (art. 1325) ed agli atti unilaterali aventi contenuto patrimoniale (per il rinvio contenuto nell'art. 1324). A noi sembra che la formulazione che fa capo alla «funzione» del negozio ebbe una indubbia utilità e rappresentò un reale progresso di precisazione, fino a quando essa - abbandonando l'angolo visuale che limitava il rilievo della causa alle «obbligazioni» assunte dalle parti - intese dire che lo spostamento patrimoniale tra i soggetti trova la sua giustificazione causale nello stesso negozio che l'ordinamento giuridico abbia, preventivamente, riconosciuto degno di tutela. In tal modo non si era ancora usciti dal solco della tradizione, in quanto la causa indicava pur sempre la ratio del verificarsi o del conservarsi degli effetti giuridici dell'atto che mette in essere uno spostamento patrimoniale. Ecco perché l'elemento causale era visto nello stesso tempo nella «funzione» del negozio e nella «ragione determinante della volontà»(85) . A questa utile precisazione, che rappresentava un indubbio progresso rispetto alle formulazioni di DOMAT e di POTHIER fino allora imperanti, la dottrina italiana era pervenuta per varie vie. Anzitutto essa aveva, sia pure inconsciamente, intuito attraverso la conoscenza di un ordinamento strutturalmente diverso quale quello germanico - che la causa negli ordinamenti a tipo francese esauriva il suo compito all'interno del negozio, ovverosia nella corrispettività delle prestazioni, secondo le formulazioni di POTHIER e di DOMAT: nell'ordinamento germanico, invece, momento esecutivo del la causa serviva contratto. A anche questa al cosciente considerazione «statica» della causa contribuì indubbiamente il principio della «nullità» per mancanza di causa ed il concomitante sfaldarsi dell'area di incidenza della mancanza di causa, cui sopra abbiamo accennato. Non dovette, infine, essere estraneo alla formazione della teoria della «funzione», il fenomeno del moltiplicarsi delle varie combinazioni contrattuali, diverse da quelle tradizionali, il quale fece sorgere la necessità di appoggiarsi ad una formulazione che superasse quella dello «scambio», sia pure inteso in senso amplissimo (86) . La teoria «obiettiva», in questa prima fase manteneva con la tradizione precedente saldi legami, testimoniati dal fatto che i problemi tradizionali che la causa poneva in un ordinamento di tipo francese, quali quelli della mancata menzione della «causa» o quelli dei negozi astratti, continuavano ad essere affrontati e risolti in base ai princìpi già consolidati (87) . Nella seconda fase della tesi «obiettiva», invece, la «causa» viene ad predisposto indicare esclusivamente dall'ordinamento, e il «tipo» serve a negoziale risolvere esclusivamente i rapporti tra la volontà e l'ordinamento, ovverosia il problema dei limiti dell'autonomia privata. Cosicché, i problemi tradizionali della causa vengono risolti col ricorso ad una cosiddetta «causa remota» (88) , ovvero considerati estranei alla causa del negozio e sospinti in quelli della «causa della attribuzione patrimoniale» (89) . Di fronte a questo irrigidimento della tesi della «funzione», la dottrina italiana, passato il primo momento di sorpresa, ha reagito in vario modo, dando vita a quello spettacolo che abbiamo descritto all'inizio di queste note, e cioè ad un rinnovellarsi del problema della causa, dando l'impressione di una vera e propria «crisi». Così, accanto ad una riacutizzazione delle tesi anticausaliste (90) , vi ha chi propone il ritorno puro e semplice alla tesi subiettiva (91) , vi ha chi preferisce parlare di causa della obbligazione o della prestazione o della attribuzione patrimoniale (92) , mentre non manca chi rimane perplesso tra la considerazione soggettiva e quella oggettiva (93) , o chi - pur volendo essere più rispettoso del proposito dei compilatori del codice - si discosta dalla tesi della «funzione» (94) ; e non mancano infine dottrine che finiscono sostanzialmente con l'introdurre concezioni proprie di ordinamenti estranei alla tradizione romana (95) . È, altresì, altamente significativo che negli scritti più recenti sia affiorata l'idea che la «funzione» del negozio costituisca un concetto utile per lo studio dei rapporti fra ordinamento e autonomia privata, ma che esso nulla abbia a che vedere con la «causa». La giurisprudenza, dal canto suo, ha continuato, a seconda delle esigenze del caso, a parlare di causa della obbligazione, o della prestazione, pur accettando nominalmente la tesi che fa coincidere la causa del negozio con la sua funzione» (96) . Anche a noi sembra che la teoria obiettiva, nella sua ultima formulazione, abbia abbandonato il solco tradizionale per entrare in un campo assai diverso. Lo studio dei rapporti tra volontà del soggetto ed ordinamento e del posto che in tali rapporti assume il «tipo» negoziale, risponde ad una indubbia esigenza della moderna problematica del diritto privato, ma codesta esigenza coincide solo in parte con quella che ha tradizionalmente provocato il problema della giustificazione dell'atto che produce uno spostamento patrimoniale. L'area dei due problemi è comune solo in parte, come è dimostrato dal ricorso alla causa «remota» o alla «causa della attribuzione», al quale sono costretti i fautori della tesi obiettiva rigorosa. Nella teoria qui presa in esame non può neanche vedersi il necessario riflesso di una coloritura accentuatamente autoritaria dei rapporti tra volontà e causa. La considerazione «sociale» della causa postula solamente un più vigile controllo dell'ordinamento sulla rispondenza degli spostamenti patrimoniali a scopi utili non solo all'individuo ma anche alla società (97) . Codesto controllo viene esplicato in vario modo ad esempio attraverso la tutela del contraente più debole o a mezzo della sanzione di illiceità di talune convenzioni - e non si esaurisce quindi nel preventivo controllo dei «tipi» negoziali. La «funzione» del negozio non sarebbe da sola sufficiente ad esaurire i rapporti tra volontà e causa neanche in un ordinamento rigidamente formalistico ed estremamente autoritario, nel quale il ruolo della volontà venisse ridotto alla semplice scelta di un «tipo» predeterminato. In un siffatto ordinamento sicuramente configurabile (gli sviluppi estremi del capitalismo e del socialismo potrebbero anche lasciarlo prevedere come non molto lontano) il problema della illiceità del negozio riaffiorerebbe sempre, e per risolverlo sarebbe vano il controllo del «tipo» negoziale prescelto. In definitiva può nascere l'impressione che, per colorire un problema venuto di recente alla ribalta con maggiore evidenza, quale quello dell'autonomia privata, la dottrina italiana abbia, senza necessità, voluto utilizzare un concetto già pronto, quale quello di «causa», per giunta nobilitato da una storia bimillenaria. Il medesimo problema viene altrove studiato senza alcun ricorso alla «causa» (98) , mentre lo stesso codice del 1942 - i compilatori del quale sembravano seguaci della tesi qui criticata - gli hanno dedicato una apposita norma, estranea anche topograficamente a quelle dedicate alla causa, nell'art. 1322 che disciplina l'autonomia contrattuale ed i suoi limiti. 9. Nostra opinione sulla odierna rilevanza della causa. La reazione obiettiva (99) , alle e ultime le manifestazioni confuse perplessità della che teoria l'hanno accompagnata, rischiano di far naufragare anche gli indubbi vantaggi che, nella sua prima fase, essa aveva apportato, nel quadro della puntualizzazione del ruolo assunto dall'elemento causale negli ordinamenti di tipi francese, pur nel rispetto della tradizione. Noi riteniamo che nel nostro ordinamento la «funzione» del negozio assume frequentemente il ruolo di «causa», ovverosia di «giustificazione» dello spostamento patrimoniale attuato col negozio stesso, ma riteniamo altresì che la «causa» vada ricercata talora al di fuori della «funzione» del negozio. Dopo quanto siamo andati fin qui dicendo, possiamo essere spediti nella esposizione della tesi da noi preferita. Vi ha una serie di casi nei quali lo spostamento patrimoniale trova la sua giustificazione causale nel negozio stesso che lo mette in essere. Ciò avviene esemplarmente nei contratti obbligatori, nei quali gli effetti, ovverosia le obbligazioni che sorgono a carico dei soggetti, trovano la loro giustificazione nello stesso negozio, ovverosia nell'intrecciarsi delle obbligazioni stesse. Tuttavia, in un ordinamento, quale il nostro, il negozio giuridico, e più spesso il contratto, esaurisce in se stesso l'attuazione delle «prestazioni» poste in essere dalle parti, dato il principio, al quale più volte abbiamo accennato, che ricollega al «consenso» il trasferimento della proprietà o di altri diritti ovvero la costituzione di essi. In un ordinamento di tipo germanico, invece, solo i Grundgeschäfte e cioè sostanzialmente solo i contratti obbligatori, esauriscono in se stessi l'attuazione degli effetti avuti di mira dalle parti (100) . Nel nostro ordinamento, pertanto, la «funzione» riconosciuta degna di tutela dall'ordinamento giuridico - riconoscimento, si noti, attuato spesso ad altri scopi, ricollegati al problema dei limiti della autonomia privata - è sufficiente nella maggior parte dei casi a fornire contemporaneamente al negozio il suo fondamento causale. La «funzione» del negozio diventa, quindi, «causa» di esso. Vi ha invece un'altra serie di situazioni nelle quali lo spostamento patrimoniale non si presenta come effetto di un negozio che contenga in sé la sua causa. Tali situazioni sono più frequenti, per le ragioni viste, in un ordinamento di tipo germanico, ma non sono estranee ad un ordinamento di tipo francese, e quindi al nostro. In queste ipotesi è possibile rinvenire nel negozio solo l'indicazione dello «scopo» avuto di mira dal soggetto, mentre la giustificazione ed il «fondamento» della prestazione vanno ricercati al di fuori del negozio stesso. L'avere trascurate queste ipotesi o l'averle ricacciate in blocco nel campo dei negozi «astratti» costituisce, a nostro avviso, uno dei principali difetti della teoria della «funzione», sia nella sua prima che, soprattutto, nella sua seconda fase. La prospettata distinzione era avvertita già dal giurista intermedio allorché osservava che i contratti consensuali portano in se stessi la causa (sunt causa sui ipsius), mentre quello di stipulazione deve ricercare la causa fuori di esso (est aliunde causandus) (101) . Essa è stata avvertita anche dal filosofo del diritto naturale (102) . Non è superfluo notare al riguardo che le prestazioni tipiche, le quali costituiscono il contenuto dei contratti patrimoniali, sono di numero abbastanza ristretto: trasferimento della proprietà, costituzione e trasferimento di altri diritti, concessione del godimento, rinunzia ai diritti, trasferimento del denaro e di titoli di credito, assunzione di obbligazioni. Di queste «prestazioni», l'ultima ha il contenuto più vario a causa della mirabile capacità di adattamento rivelata dalla vecchia obligatio romana (103) . Codeste prestazioni, variamente combinate, danno vita ai contratti, nominati o innominati. Per ragioni connesse alla «struttura» del nostro codice civile, qualcuna di queste prestazioni trova la sua regolamentazione in occasione di quella dei contratti tipici: così, nel nostro ordinamento, la disciplina del trasferimento della proprietà si trova attuata più compiutamente a proposito della compravendita, ma essa è valevole, vi sia o non vi sia rinvio esplicito (rinvio vi ha, ad esempio, per i vizi occulti o per la evizione), anche per gli altri negozi nominati o innominati, nei quali si attui il trasferimento della proprietà, quali la permuta, la donazione, la società, la datio in solutum ecc. Altra volta avviene che, per le medesime ragioni connesse alla «struttura» del nostro codice, la prestazione venga disciplinata in sé e per sé senza alcun collegamento con un contratto, come avviene ad esempio per la costituzione o la cessione dell'usufrutto, per la servitù, per l'enfiteusi, ecc. Ma è evidente che non è possibile parlare di «funzione» della prestazione in sé e per sé, e tanto meno di «causa» di essa: l'ordinamento valuta la «prestazione» esclusivamente in termini di liceità e possibilità (art. 1346 c.c.). La singola prestazione riceverà la «funzione» e la «causa» in seno al contratto nel quale sarà inserita, cosicché ad esempio, la costituzione di usufrutto adempirà ad una funzione di scambio se, a fronte di essa, l'altra parte si addosserà a sua volta un'altra «prestazione» di qualsiasi tipo, mentre sarà a titolo gratuito se sarà effettuata animo donandi. Pertanto, il problema dei cosiddetti contratti «misti» va risolto in base alla coesistenza non già di «cause», ma di «prestazioni», e quindi in base alla coesistenza della disciplina propria di ciascuna di queste nel quadro della causa del contratto (che è per lo più data dallo scambio), la quale non può essere che unitaria. La questione del cosiddetto negotium mixtum cum donatione riguarda invece, veramente, la qualificazione causale, poiché essa incide intimamente sulla ragione delle prestazioni che danno sostanza al contratto. Con queste avvertenze è possibile risolvere il problema della causa della società: la varietà delle prestazioni non incide affatto sulla unitarietà della causa di quel contratto. Egualmente è possibile chiarire l'apparente problema della causa della rinunzia, della rimessione, della fideiussione, e simili altri problemi: si tratta di «prestazioni» tipiche le quali ricevono la loro causa in seno al contratto nel quale sono inserite, senza che per questo esse possano essere ritenute atti astratti ovvero a «causa variabile», come è stato talora detto. In quanto esse saranno inserite in un contratto - a titolo oneroso, a titolo gratuito, ecc. - costituiranno una delle prestazioni ovvero l'unica, di esso. Solo se si presentassero isolate, sorgerebbero i problemi cui ora accenneremo. Egualmente si dica della cessione del credito che il nuovo codice disciplina come «prestazione» tipica, a differenza di quello abrogato (art. 1538 ss.) che la regolava come contratto di scambio. Quando, adunque, la prestazione si inserisce in un contratto, o in genere in un negozio, che abbia una propria «funzione», il problema della «causa» di questo si confonde con quello della sua «funzione», nel senso che il giudizio effettuato dall'ordinamento sulla rispondenza della combinazione di prestazioni ad «interessi meritevoli di tutela», soddisfa contemporaneamente l'esigenza di «giustificazione» (ratio) della combinazione stessa. D'altro canto è bene sottolineare che, per le ragioni sopra spiegate, ormai il rilievo della «causa» si manifesta esclusivamente nel momento della nascita del negozio e non accompagna il suo successivo svolgimento. Cosicché, nel nostro ordinamento, basterà ad esempio che, a fronte della volontà di trasferire la proprietà, l'altra parte assuma semplicemente l'obbligo di pagare il prezzo, perché l'esigenza causale venga soddisfatta, ed il trasferimento della proprietà si produca: il successivo inadempimento potrà portare alla risoluzione del contratto, e quindi all'annullamento del trasferimento, ma in base a princìpi diversi da quelli della causa (104) . Può, invece, avvenire che, come si è accennato, la «prestazione» si presenti isolata, ad esempio che taluno prometta di pagare una somma di denaro, ovvero trasferisca la proprietà di una cosa, ovvero costituisca una servitù, ovvero ceda un credito ovvero rinunzi ad un diritto, limitandosi ad indicare lo scopo che egli intende perseguire. Sorge allora il problema della «causa», naturalmente quando la «separazione» della prestazione sia veramente strutturale, e non semplicemente estrinseca, come quando essa si manifesti ad esempio esclusivamente in occasione della documentazione di una sola delle due contrapposte «prestazioni» di un contratto. Per ragioni in parte già dette, in questa seconda ipotesi sarebbe vano ricercare la giustificazione causale dello spostamento patrimoniale nella «funzione» della prestazione ovvero in quella del negozio che la pone in essere. Si pensi, ad esempio, alla «prestazione» attuata per uno scopo illecito, ovvero per adempiere un dovere «morale o sociale» (105) . In entrambi i casi, è sintomatico che persino il codice attuale abbia riguardato il problema sotto il profilo della «ripetizione» della prestazione (art. 2034-35). Il problema ha rilievo anche per la prestazione effettuata per adempiere un obbligo. È abbastanza frequente l'osservazione che qui la «prestazione» - che può essere quella dovuta, ovvero un'altra: datio in solutum - trova la sua giustificazione causale al di fuori di essa, e cioè nell'esistenza di una precedente obbligazione, la quale, è bene osservare, potrebbe anche non avere origine negoziale (ad esempio, risarcimento per atto illecito). Anche in questo caso, si noti, il codice continua a riguardare la situazione sotto il profilo della «ripetizione» dellaprestazione (art. 2033, 2036). Sono altresì da prendere in considerazione i casi in cui la «prestazione» viene effettuata per mero spirito di liberalità, e quelli in cui essa è diretta a retribuire un'altra prestazione, messa in essere «di fatto», ovverosia senza che esista un valido vincolo. La differenza tra le due descritte serie di ipotesi è, nel nostro ordinamento, assai profonda. Nella prima, infatti, la causa, consistendo nella «funzione» del negozio, è desumibile dal contenuto del negozio stesso. Come si è detto, il controllo della rispondenza, del regolamento concreto di interessi attuato dalle parti, ai fini perseguiti dall'ordinamento, è sufficiente anche per la giustificazione causale (ratio) del negozio. Siffatto controllo si esercita sul contenuto concreto del negozio posto in essere dalle parti, ovverosia sul diverso intrecciarsi delle prestazioni del negozio stesso. Nella seconda ipotesi, invece, la «prestazione» - la quale, come si è detto, non ha in sé e per sé una «funzione» - viene ad essere caratterizzata anzitutto dallo scopo indicato dalla parte che la pone in essere. Così, ad esempio, la «prestazione» può essere effettuata per adempiere una precedente obbligazione civile o naturale, ovvero per mero spirito di liberalità, ovvero per retribuire una controprestazione di «fatto». Qui la causa assume di conseguenza due significazioni, l'una spiccatamente soggettiva e l'altra oggettiva: venendo la prima ad indicare lo scopo, e la seconda l'effettiva esistenza del rapporto che giustifica la prestazione. Riferendoci alla prestazione fatta a scopo di adempimento, i due aspetti si manifestano nello scopo di adempiere da un canto, e nella effettiva esistenza dell'obbligo da adempiere dall'altro. Si ripresenta allora quel dualismo, al quale più sopra abbiamo avuto occasione di accennare, tra l'aspetto soggettivo e quello oggettivo della causa - ovverosia tra lo «scopo» ed il «fondamento» del negozio, tra Zweck e Grund -, il quale costituisce un motivo fondamentale della teoria ottocentesca della causa, la quale lo deriva dai due filoni fondamentali della promissio e della traditio. L'aspetto soggettivo - sul quale il giurista intermedio, così attento nello scoprire le manifestazioni di volontà del soggetto, aveva appuntato la sua analisi, indicando la causa come «obiectum intellectus» - (106) sembra essersi gradualmente oscurato attraverso il processo che ha finito con l'identificare la causa nella «funzione» del negozio, e col riservare, per lo più, la rilevanza dell'«intento» ad altri riflessi, diversi da quelli causali. Esso conserva, tuttavia, la sua rilevanza nell'ipotesi in cui la prestazione si presenta, nel senso sopra visto, «isolata». Si spiega così che, in queste ipotesi, si faccia tuttora riferimento all'animus (ad esempio, animus solvendi). Probabilmente, il ripiegamento dell'elemento causale della donazione nell'animus (donandi) è dovuto alla necessità di rinvenire - in assenza di un obiettivo intrecciarsi di prestazioni - la caratterizzazione causale della prestazione fatta donationis causa nello scopo (animus) di chi effettua la prestazione (107) . Come sopra è stato accennato sostanzialmente per tali ragioni si è addirittura dubitato che la donazione, salvo quella modale, abbia una «causa». Né l'apparizione dello «scopo» sulla scena della causa può provocare confusione nella distinzione tra causa e motivi; la data di nascita di questa distinzione - ovverosia di quella tra causa finalis e causa impulsiva - va appunto collegata alla consapevolezza della rilevanza dello «scopo» perseguito dalle parti, ed alla conseguente preoccupazione di distinguerlo dai moventi intimi (108) . La distinzione tra le due ipotesi porta ad una fondamentale differenza in ordine alla rilevanza dell'elemento causale. L'esigenza della presenza della causa, quale «requisito» del negozio, viene appieno soddisfatta nei negozi i quali hanno in sé la propria causa, ovverosia in quelli in cui la «funzione» soddisfa contemporaneamente l'esigenza causale. In essi può, quindi, parlarsi di «mancanza di causa», allorché il negozio posto in essere dalle parti non ha una «funzione» che l'ordinamento riconosce idonea «a realizzare interessi meritevoli di tutela» (art. 1322), ovvero esso - ove si tratta di negozio «tipico» - arrechi in concreto una siffatta alterazione dello schema predisposto dall'ordinamento, da perdere quella idoneità. La «mancanza» di causa viene, quindi, a coincidere con la mancanza di idonea «funzione», cosicché il problema coincide sostanzialmente con quello dei limiti della autonomia privata. Entro l'ambito delineato, e nel rispetto dei rapporti tra «volontà» e «funzione», può venire risolto il problema della cosiddetta conversione del negozio, il quale nulla ha che vedere, quindi, con il concetto di causa. In queste ipotesi il principio della «nullità» per mancanza di causa non può dar luogo a perplessità. Si ripete anzi, dai critici della teoria della funzione, che la causa, intesa come «funzione», non può mai mancare: il che è esatto, pur con i chiarimenti che abbiamo dato, solo per queste ipotesi. Cosicché, se le parti pongono in essere un negozio di compravendita nel quale manchi il corrispettivo, la volontà diretta al trasferimento non è da sola idonea alla produzione di questo effetto, ed esso pertanto non si produce. Il venditore non perde dunque la proprietà della cosa, che potrà sempre rivendicare presso il suo compratore ed altresì presso i terzi, beninteso con i limiti derivanti dalle norme relative alla trascrizione ed al possesso. Il principio della nullità per mancanza di causa ha dato invece, giustamente, luogo a notevoli perplessità nella seconda serie di ipotesi, e cioè allorché la «prestazione» si presenti strutturalmente «isolata». La soluzione del problema deve tener conto dei due aspetti, soggettivo ed oggettivo, che assume qui, come si è visto, l'elemento causale. A noi sembra che, su questo terreno, si perpetui ancora, nel nostro ordinamento, quel fenomeno che, derivato dalla elaborazione intermedia, è stato posto in risalto soprattutto dai pandettisti tedeschi: la presenza dell'elemento soggettivo è sufficiente per la validità del negozio, mentre quella dell'elemento oggettivo è necessaria esclusivamente per la conservazione degli effetti di esso. Codesto principio ci sembra sancito nel nostro ordinamento nelle norme che disciplinano la «ripetizione» dell'indebito, ovviamente applicabili a qualunque «prestazione» e non solo a quella che attua il trasferimento della proprietà. Da esse si ricava con evidenza che la obbiettiva inesistenza dell'obbligo che il solvens intende adempiere, non produce la «nullità», ma semplicemente la «ripetibilità» della prestazione. Cosicché, nell'ipotesi di trasferimento di cosa certa e determinata - nella quale soltanto la questione rileva praticamente, dato che nelle altre ipotesi la pretesa del solvens si risolve in un'azione meramente risarcitoria - il tradens avrà a disposizione esclusivamente un'azione personale verso l'accipiens, mentre di fronte ai terzi avrà azione solo se essi abbiano acquistato a titolo gratuito (art. 2038). In verità, solo la suggestione nascente dal principio della «nullità» del negozio per mancanza di causa - del quale principio ci siamo sforzati, nel corso di questo scritto, di spiegare il significato ed i limiti - ha potuto far nascere gravi perplessità in ordine alla giustificazione dell'azione di ripetizione dell'indebito regolata dagli art. 2033 ss. Il codice, regolando su basi tradizionali codesta azione, ha mostrato - pur senza averne, probabilmente, piena coscienza - che anche nel nostro ordinamento la mancanza di causa può dar luogo talora ad una semplice azione di ripetizione. Il che corrisponde, si noti, anche ad una esigenza di tutela dei terzi subacquirenti, oltre che dello stesso accipiens di buona fede, i quali - mentre nel caso in cui il titolo del dante causa è costituito da un negozio che ha in sé la sua causa potrebbero aver l'onere di controllare il vizio di questa - nella ipotesi in cui il titolo del dante causa è costituito dal trasferimento di beni che si dice attuato in esecuzione di un rapporto preesistente, sia esso una obbligazione civile o naturale, non sono in grado, nella maggior parte dei casi, di effettuare quel controllo. Non deve recare maraviglia che la mancanza di un elemento causale possa non provocare la nullità dell'atto. A parte l'esempio del sistema tedesco, è da osservare che la condictio indebiti, nella sua lunghissima storia, ha sempre avuto la funzione di recuperare - a prescindere da qualsiasi «invalidità» del trasferimento - le prestazioni effettuate sine causa, ed essa è stata come tale accolta sia dal codice abrogato che da quello del 1942. D'altro canto anche il consenso, al pari della causa, si trova elencato negli art. 1325 e 1418 tra i «requisiti» per la validità del contratto, eppure sono note le ipotesi in cui il vizio del consenso produce semplicemente la annullabilità. Né ci sembra azzardato il richiamo all'istituto della simulazione, nel quale si trova conferma che la mancata corrispondenza tra lo scopo dichiarato ad un effettivo «fondamento» del negozio, ovverosia la non «verità» dello scopo, dà luogo ad una invalidità che non pregiudica il terzo (109) . Potrebbe a prima vista recare perplessità il fatto che il nuovo codice, dopo aver conservato l'istituto della condictio indebiti, abbia dimenticato di menzionarlo a proposito della trascrizione, pur così riccamente disciplinata. Probabilmente il legislatore ha ritenuto che la tutela del terzo, nelle ipotesi, certo scarsamente frequenti, di condictio immobiliare, venga sufficientemente assicurata dalla norma che obbliga costui, solo se acquirente a titolo gratuito, a risarcire il solvens nei limiti del proprio arricchimento (art. 2038). Potrebbe, tuttavia, farsi ricorso anche all'art. 2652 n. 6, il quale prevede la trascrizione delle domande dirette ad impugnare il titolo del dante causa (110) . 10. Corollari della nostra opinione. Il negozio astratto. La illiceità della causa. La delineata distinzione permette, a nostro avviso, di risolvere in maniera più aderente al nostro diritto positivo i problemi fondamentali della causa, e cioè quello del negozio astratto problema che include in sé quello della «indicazione» della causa dell'atto di autonomia privata - e quello della causa illecita: si tratta dei due soli problemi residui nel nostro ordinamento, com'è fatto palese dalla stessa normativa del codice, il quale da un canto pone la causa tra i «requisiti» del negozio patrimoniale (art. 1325 n. 2), dall'altro si preoccupa di disciplinare la causa illecita (art. 1343-45). Il problema della «astrattezza» ha aspetti multiformi, che non è facile ridurre a sistema. Con esso si intendono, in realtà, vari problemi, i quali assumono rilevanza diversissima, pur avendo come unico punto di riferimento i legami del negozio con la sua causa: da quello della configurabilità di un negozio senza causa, a quello della necessità della menzione della causa, a quello della reazione dell'ordinamento di fronte alla mancanza di causa, a quello dell'acquisto di un diritto «puro», ovverosia sganciato dalla causa, a quello dell'assunzione di un obbligo che, pur coincidendo con uno preesistente, sia sganciato dalla causa di questo. Non è semplice ridurre a sistema codesti vari aspetti della «astrattezza», né è certo questo il luogo adatto per farlo. Ci limiteremo pertanto ad illustrare brevemente i vari problemi alla luce dei princìpi che siamo andati via via riscontrando nelle pagine precedenti. Occorre anzitutto partire dall'osservazione che nel nostro ordinamento - come negli altri ordinamenti a noi noti - vige il fondamentale principio in base al quale il negozio patrimoniale presuppone una giustificazione causale, cosicché quando questa manchi la legge assicura, alle parti che hanno posto in essere il negozio, il ristabilimento dell'equilibrio: variano soltanto gli strumenti posti all'uopo a disposizione dei soggetti. È da osservare che, per esempio, persino nella promessa astratta di debito, quale sembrava prevista dal § 780 B.G.B. il debitoresine causa poteva esperire l'azione generale di arricchimento, che nell'ordinamento germanico ha un contenuto più ricco della corrispondente azione prevista dal nostro codice. Nell'evoluzione della dottrina germanica, oggi la vecchia promessa astratta è anzi ridotta ad una larva, posto che al debitore viene ormai riconosciuta indiscriminatamente la exceptio fondata sulla mancanza di causa, come più sopra si è avuto modo di vedere. Non ci nascondiamo che la diversità degli strumenti può attraverso la onerosità della prova o le limitazioni di essa, ovvero attraverso le preclusioni che all'esercizio dell'azione derivano dal decorso del tempo - condurre per avventura, nel caso concreto, all'offuscamento del principio della necessità di una giustificazione causale per qualsiasi spostamento patrimoniale. Ma codesto principio ci sembra innegabile, come per altro risulta - su di un piano diverso, s'intende - confermato dal riconoscimento, ribadito dagli art. 2040-2041 c.c., di un'azione generale di arricchimento «senza causa». Di solito si ritiene causale il negozio solo allorché la mancanza della causa venga sanzionata con la «nullità», ed astratto invece quello in cui essa dia luogo all'esperimento di altri strumenti, quale la condictio indebiti. Codesta impostazione del problema corrispondeva sostanzialmente a quella, che fu opera dei pandettisti tedeschi, per la quale è astratto quel negozio nel quale la volontà è sufficiente a far sorgere gli effetti, senza necessità che una «causa» effettivamente esista: la inesistenza della causa darà luogo all'esperimento dellacondictio. Codesto principio, sorto sul terreno del trasferimento della proprietà, è stato poi esteso - soprattutto, come si è accennato, ad opera del BÄHR - alla promessa di pagamento, dando vita alle citate norme dei § 780-781 B.G.B. Nell'ordinamento tedesco, adunque, si configura di solito un negozio astratto allorché la mancanza dell'elemento causale non impedisce il sorgere degli effetti voluti dalle parti, sebbene tale mancanza abiliti le parti a porre in essere successivamente i rimedi idonei a rimuovere quegli effetti (111) . È tuttavia da osservare che sul terreno del trasferimento della proprietà - al quale, come si è detto, era originariamente riservata l'«astrattezza» - l'ordinamento tedesco considera astratto il contratto traslativo (dinglicher Vertrag), anche e soprattutto perché la scissione della causa, da esso posta in essere, opera nei confronti dei terzi (112) . Nasce allora la necessità di distinguere a seconda che l'«astrattezza» venga solo ad indicare una diversità dello strumento che l'ordinamento offre alle parti, che hanno posto in essere il negozio, per reagire alla mancanza di causa, ovvero essa venga ad indicare che effettivamente il «diritto» o l'«obbligo» sorto in capo ai terzo è separato dalla causa originaria. Si potrebbe fondatamente porre in dubbio la legittimità della qualifica di negozio «astratto» nella prima delle ipotesi sopra delineate, essendo forse opportuno riservare la nozione di «astrattezza» esclusivamente alla seconda ipotesi, nella quale si assiste veramente ad una scissione della situazione giuridica dalla sua causa. Comunque, se deve continuare a parlarsi di negozio «astratto» anche nel primo senso, non vi è dubbio che questa categoria abbia cittadinanza in Italia. A tal riguardo, il problema il quale sorge ovviamente solo nella seconda delle ipotesi delineate nel paragrafo precedente, ovverosia in quella di prestazione «isolata» riguarda anzitutto la necessità che il negozio indichi o meno la sua «causa». Il codice abrogato disponeva, sulla falsariga di quello francese, che «il contratto è valido, quantunque non ne sia espressa la causa» (art. 1120), e soggiungeva - risolvendo così un dubbio affacciatosi agli interpreti del code civil - che «la causa si presume sino a che non si prova il contrario» (art. 1121). Si è sempre ritenuto, in Francia e in Italia, che il legislatore abbia voluto riferirsi esclusivamente alle promesse obbligatorie (113) . Non dovette essere estraneo a tale soluzione il mutamento operatosi a seguito del principio per il quale il trasferimento della proprietà era «incapsulato» nel contratto obbligatorio: per il trasferimento della proprietà, adunque, non poteva più configurarsi l'ipotesi in cui esso non palesasse la sua causa. Il nuovo codice non ha ripetuto, nella disciplina generale della causa del negozio, le due menzionate norme, le quali sostanzialmente riappaiono a proposito della promessa di pagamento e della ricognizione di debito (art. 1988), oltre che nella disciplina dei titoli di credito. Sembra, quindi, che il nostro legislatore escluda la validità di un negozio - che attui una «prestazione» diversa dalla promessa obbligatoria (o dal riconoscimento) - posto in essere senza riferimento alla «causa», ovverosia allo «scopo», sia pure erroneo o simulato che le parti si propongono (solvendi, credendi, ecc.), ed al rapporto che ne costituisce il «fondamento» (cosiddetto rapporto fondamentale). Il problema dell'«astrattezza» del trasferimento della proprietà, specie immobiliare, riguarda, tuttavia, anche il quesito se esso possa essere attuato al di fuori dei contratti che adempiono tradizionalmente alla funzione di trasferire la proprietà. La nozione di causa da noi accolta permette agevolmente una soluzione affermativa del problema. Una volta che la «causa» non si confonde col «tipo» negoziale, non può dubitarsi che un idoneo riferimento causale assista il trasferimento attuato dichiaratamente per adempiere un'obbligazione preesistente (adesempio, datio in solutum, ritrasferimento al mandante da parte del mandatario senza rappresentanza), ovvero per adempiere un'obbligazione naturale (ad esempio, esecuzione di fiducia testamentaria), ovvero per uno scopo di garanzia. Ove, poi, il riferimento causale fosse erroneo, non ne conseguirebbe, per le ragioni viste, la «nullità» del trasferimento, ed al tradens competerebbe solo la condictio indebiti ovvero un'analoga azione recuperatoria o risarcitoria. Nelle ipotesi accennate - e specialmente nel trasferimento a scopo di garanzia - si assiste sovente al tentativo di attribuire al negozio la qualifica di «vendita» (a scopo di garanzia) onde giustificarlo causalmente: probabilmente si tratta di una non perfetta individuazione della «prestazione» costituita dal trasferimento della proprietà, la quale, come sopra si è accennato, viene disciplinata dal legislatore a proposito della compravendita esclusivamente per ragioni connesse alla «struttura» del nostro codice (114) . Codesti princìpi vanno messi in correlazione con quello, delineato nel precedente paragrafo, per il quale nel nostro ordinamento la validità del negozio che pone in essere una prestazione «isolata» - che è l'unica ipotesi in cui può sorgere il problema dell'«astrattezza» - è assicurata dall'indicazione dello scopo perseguito dal soggetto, e del «fondamento» del negozio, con le accennate eccezioni per i titoli di credito e per la promessa obbligatoria o riconoscimento del debito. Sia la «verità» dello scopo, sia la effettiva esistenza di una situazione idonea a raggiungerlo, non riguardano la «validità» del negozio, ma esclusivamente la conservazione dei suoi effetti; si tratta di princìpi lentamente formatisi attraverso i secoli, che il nostro ordinamento non ha affatto ripudiato. I rimedi offerti a chi ha posto in essere un negozio valido, ma «senza causa», sono perciò diretti alla eliminazione delle conseguenze dell'atto. Essi sono differenti, a seconda che il negozio sia puramente obbligatorio - come nei titoli di credito o nella promessa che non indica la causa -, ovvero abbia posto in essere una prestazione diversa. La diversità si ricollega sostanzialmente ai due vecchi rimedi della exceptio e della condictio. Esistono tuttavia, come vedremo, significative convergenze tra i due rimedi. Ove si tratti di prestazione obbligatoria, ovverosia della promessa di pagamento (o del riconoscimento del debito), il debitore può paralizzare la pretesa del creditore attraverso una eccezione di inesistenza della causa, addossandosi l'onere della prova di codesta inesistenza. Può sorgere solo il dubbio se il debitore abbia l'onere di proporre necessariamente l'eccezione, ovvero se egli possa esperimentare la condictio dopo il pagamento. Al riguardo deve osservarsi che, qualora la promessa di pagamento sia contenuta in taluni atti formali, la legge può disporre che in certi casi la eccezione del debitore non paralizzi la pretesa del creditore (v., ad esempio, art. 63 l. camb.), salvo il rimedio delle azioni recuperatorie. Occorre, al riguardo, osservare che la prova della inesistenza del rapporto fondamentale incombe al debitore, secondo l'opinione che a noi sembra preferibile (115) , non solo quando la promessa (o il riconoscimento) non indichi né lo scopo né il «rapporto fondamentale», nel qual caso si parla di astrazione processuale (116) , ma altresì nell'ipotesi in cui quella indicazione sussista. Vi ha, naturalmente, una maggiore onerosità della prova nella prima ipotesi, rispetto alla seconda nella quale basterà dimostrare l'inesistenza dello specifico scopo indicato nella promessa (117) . Per quanto riguarda il riconoscimento, il problema è però complicato dalla incidenza dello scopo di accertamento (v. Accertamento: negozio di ). Le ragioni per le quali la promessa produce una sostanziale deroga ai princìpi dell'onere della prova, non possono essere qui approfondite. Ci basterà, in questa sede, rilevare una significativa coincidenza con ciò che avviene nel caso in cui la «prestazione» sia diversa dalla promessa (o dal riconoscimento). In tale ipotesi l'ordinamento assicura al soggetto il recupero della prestazione in natura ovvero per equivalente: il rimedio è condensato nella condictio indebiti. Ora, è da osservare che anche qui è tradizionale l'addossamento al solvensdell'onere della prova della «inesistenza della causa», giustificato il più spesso con la considerazione che il solvens, con l'adempiere, ha in un certo senso riconosciuto l'esistenza del debito (118) . In base alle considerazioni di cui sopra ci sembra quindi da respingere la qualifica di negozi «astratti», attribuita ad esempio al trasferimento a scopo di garanzia, ovvero alla solutio o alla consegna della cosa (119) , ovvero alla promessa e alla ricognizione (120) , nei quali non vi ha affatto alcuna rottura dei legami del negozio con la sua causa, né il sopravvento della volontà sulla causa. Di «astrattezza» vera e propria dovrebbe invece parlarsi qualora le parti, attraverso una nuova manifestazione di volontà, avessero il potere di sostituire in maniera completa il rapporto preesistente. Codesta sostituzione potrebbe essere conseguenza di un nuovo negozio che avesse in se stesso la sua causa (ad esempio, transazione ovvero negozio di accertamento), nel qual caso la «astrazione» ha un ruolo assai modesto, considerando da un canto la prevalenza della «funzione» del nuovo negozio, dall'altro la reazione esercitata talora sul nuovo negozio dalla mancanza o dai vizi del rapporto preesistente. Quando, invece, quella sostituzione non è contenuta in un negozio «causale», può dubitarsi se la pura volontà delle parti possa rompere del tutto i legami con la «causa» del rapporto preesistente: in base alla disciplina della novazione (art. 1234 c.c.) il dubbio dovrebbe risolversi negativamente (121) . Una più decisa separazione della situazione giuridica dalla «causa» può aversi talora con l'entrata di un terzo nel rapporto. Le esigenze della circolazione possono talora condurre ad una irrilevanza della «causa» del negozio nei confronti del terzo, il quale acquisti diritti od assuma obbligazioni sulla base di una situazione preesistente. Così, ad esempio, la posizione del giratario della cambiale è diversa da quella del cessionario del credito, ed altresì la posizione del fideiussore è diversa da quella del delegato. La diversità però non consiste nella natura causale o astratta del negozio in base al quale viene acquistato il diritto o viene assunto l'obbligo. Codesto negozio potrebbe essere, per avventura, «astratto» solo nel senso sopra delineato, ove esso non indicasse la sua causa. Ma anche, ad esempio, la girata, come cessione del credito, potrà costituire «prestazione» di un negozio a titolo gratuito ovvero essere attuata per adempiere un obbligo preesistente (122) . La vera e propria «astrattezza» si manifesta, invece, esclusivamente nell'acquisto del diritto di credito, che nella girata è «puro» da ogni vizio della causa (art. 21 l. camb.), a differenza di ciò che avviene nella cessione (arg. ex art. 1409 c.c.). Nel nostro ordinamento, inoltre, a differenza di quello germanico, il trasferimento della proprietà non dà luogo, per le ragioni già sopra spiegate, all'acquisto di un diritto «puro» ovverosia avulso dalla «causa» del negozio di acquisto del dante causa. Si tratta di un principio largamente temperato, tuttavia, da quelli del possesso e della trascrizione. Infine, per quanto concerne la causa illecita, c'è abbastanza concordia nella dottrina italiana, nel senso che essa non possa configurarsi nei contratti nei quali la causa coincide con la «funzione» del negozio: in questi potrà parlarsi semmai di «oggetto» illecito, allorché la prestazione di una delle parti o di entrambe impedisca la formazione di un valido contratto. La causa va distinta altresì dal motivo illecito, il quale è anch'esso idoneo talora, a invalidare il negozio: ipotesi della frode alla legge (art. 1344) (123) , e più in generale, del «motivo illecito comune ad entrambe le parti» (art. 1345). Sono note, pertanto, le perplessità di coloro che - riducendo in ogni ipotesi la causa alla «funzione» del negozio - sono costretti a rilevare che, una volta che l'ordinamento ha riconosciuto idonea la «funzione» del negozio, diventa arduo configurare una causa illecita (124) . A nostro avviso, la illiceità della causa assume piena rilevanza nella sopra delineata ipotesi di prestazione «isolata». In questa ipotesi la illiceità della causa si configura in quella dello «scopo» (di «scopo» parla ad esempio l'art. 2035 a proposito della «prestazione contraria al buon costume») (125) , ovvero in quella del rapporto che costituisce il «fondamento» della prestazione: si pensi all'ipotesi in cui una prestazione venga effettuata per conseguire una controprestazione illecita ovvero per retribuirla (126) . Il negozio, ove palesasse codesto «scopo» ovvero codesto «fondamento» illecito, sarebbe sicuramente nullo per causa illecita. Ove invece il negozio non palesasse il suo scopo, esso sarebbe valido per il principio, sopra delineato, della sufficienza dell'indicazione di uno scopo o fondamento anche se falso, oltre che - ove si tratti di promessa obbligatoria - per quello, anch'esso sopra commentato, che esonera la promessa o il riconoscimento da qualsiasi indicazione dello scopo o fondamento. La reazione alla illiceità della causa sarà affidata allora alla condictio o alla exceptionei confronti dell'altra parte. In ogni caso, varrà la limitazione posta dall'art. 2035 a sfavore del solvens che abbia eseguito la prestazione «per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al buon costume». Sono note le dispute sulla applicabilità di questa norma alle altre ipotesi di prestazione «illecita», ma la risoluzione di esse non appartiene al nostro tema (127) . 11. Conclusione: la causa del negozio giuridico. Ci sembra che l'excursus compiuto sia sufficiente ad individuare i limiti nei quali il concetto di causa può essere ancora considerato fondamentale, ed insieme a spiegare le ragioni della odierna crisi della dottrina italiana. L'occasione della crisi va ricercata, come si è già accennato, nel fruttuoso tentativo di sistemazione, compiuto dalla dottrina italiana fin sullo scorcio del secolo passato, quando essa ebbe coscienza, attraverso lo studio dell'ordinamento germanico, della struttura del nostro ordinamento. Codesto tentativo l'ha indotta ad un certo momento a valicare i confini segnati dalla tradizionale rilevanza che l'elemento causale è in grado di assumere. Nel valicare questi confini, tuttavia, gli scrittori non potevano rimanere sordi al richiamo della tradizione: la cura di risolvere i problemi tradizionali, è stata allora lasciata alla «causa remota» ovvero alla «causa della attribuzione» permettendo così alla «causa del negozio» di prendere il volo al di là dei vecchi confini, quasi liberata da una inutile zavorra. Chi non avesse presente codesta genesi del fenomeno, potrebbe - di fronte alle varie nozioni di causa attualmente utilizzate dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane - legittimamente ricevere l'impressione di una confusione di linguaggi (128) . In realtà, come abbiamo già avuto occasione di notare, il concetto di «causa», riferito al negozio giuridico, ha finito per essere spesso utilizzato per uno scopo estraneo a quello tradizionale, ovverosia per indagare le ragioni ed i limiti dell'autonomia privata nella scelta dei «tipi» negoziali. A noi sembra che anche ponendosi da un punto di vista di sottoposizione della volontà negoziale alla volontà della legge - (129) alla «causa» del negozio può essere assegnato il compito non sappiamo se più modesto o più essenziale, di giustificare di fronte all'ordinamento i movimenti dei beni da un individuo all'altro. La «iusta causa» assunse appunto, nella elaborazione dei giuristi intermedi, codesto significato: in tal senso è esatto che la causa indicò il punto di incontro della volontà individuale con l'ordinamento (130) . Solo una trasposizione ellittica può far pensare che la «causa» si identifichi col «tipo» negoziale, il che può considerarsi legittimo solo fino a quando si rimanga sul modesto terreno di una catalogazione dei contratti (a titolo oneroso, a titolo gratuito, aleatori, di garanzia, ecc.) (131) . Ma non ci sembra possibile andare al di là, e ritenere che la «causa», intesa come «tipo» negoziale, costituisca il limite posto dall'ordinamento alla volontà dei soggetti: ciò rappresenta il frutto di un ulteriore e profondo processo, che ha provocato, a nostro avviso, una vera e propria appropriazione di un concetto, quale quello di causa, singolarmente idoneo ad indirizzare il problema dei rapporti tra volontà individuale ed ordinamento nel senso di una subordinazione della prima rispetto al secondo (132) . Il descritto processo ha provocato lo straripamento della causa su terreni nuovi, quali quello dell'atto negoziale non patrimoniale, dell'atto amministrativo e addirittura dell'atto illecito. Quanto agli atti negoziali non patrimoniali, la dottrina che identifica la causa col «tipo» negoziale, non può ovviamente operare alcuna distinzione a seconda del contenuto, patrimoniale o meno, dei rapporti posti in essere dai soggetti (133) . L'applicazione del concetto di causa al terreno dell'atto amministrativo, è servita ad indicare i limiti della attività della pubblica amministrazione in riferimento alla «funzione» dell'attività medesima: si è potuto così porre su basi sicure il cosiddetto eccesso di potere, inteso quale deviazione dell'atto dalla sua «funzione» (134) . L'applicazione del concetto di causa all'atto illecito, civile o penale, è frutto invece di una nozione estremamente soggettiva della «causa», intesa come «fine» di qualsiasi atto, lecito o illecito (135) . Dopo quanto abbiamo detto, ci sembra superfluo spiegare le ragioni per le quali codeste invasioni operate dalla causa in territori estranei alla tradizione del concetto, non ci sembrano accettabili. Anche se limitassero la loro efficacia ad una sfera meramente terminologica, esse sarebbero pur sempre fonte di confusione. La tendenza ad attribuire alla «causa» nuovi territori ci sembra tanto più ingiustificata, in quanto attraverso i secoli si è sempre assistito ad una progressiva puntualizzazione del concetto, mediante la riduzione dell'area della sua incidenza. La parola «causa», le origini della cui significazione nel campo del diritto sono assai incerte (136) , ha indubbiamente perduto attraverso i secoli parecchi dei suoi significati originari, quale quello generale di ratio (applicato ad esempio alla legge, causa legis (137) ) o di titolo, ovvero quello - ancor più generico - di «presupposto». Così ad esempio non si parla più di «causa del possesso» (vedi invece l'art. 2115 del codice 1865), o di causa dotis, riferito al matrimonio. Riaffiora talora, nel linguaggio legislativo, qualche vecchia accezione. così l'art. 2745 c.c. parla di «causa» del credito nel senso di «fonte». È connessa indubbiamente a tale progressiva puntualizzazione del concetto di causa, la perdita del terreno delle successioni. A parte il significato della espressione mortis causa, la quale serve solamente ad indicare il fondamento dell'acquisto, senza riferimento all'atto di volontà del de cuius, la causa del testamento - nel senso di «ragione» che ha indotto il testatore si è identificata giustamente nel «motivo», sia pure a volte rilevante. In tal senso l'espressione «causa» dell'art. 827 del codice abrogato è stata opportunamente sostituita con quella «motivo» dal corrispondente art. 624 del codice vigente (138) . La vera e propria causa, quale giustificazione dello spostamento patrimoniale, può avere rilievo solo nei rapporti tra i sopravvissuti, nel senso che le disposizioni del de cuius espresse nel testamento ovvero fiduciariamente - possono costituire il fondamento causale di negozi compiuti dall'erede o dal legatario, per adempiere un legato od un modus ovvero una «fiducia» disposti dal testatore. Della perdita, da parte del sistema francese ed italiano, dell'immenso territorio costituito dal cosiddetto sinallagma funzionale, abbiamo già parlato. Essa costituisce una delle fondamentali svolte della dottrina della causa, in quei due sistemi: di essa, come si è detto, solo la dottrina italiana ha saputo trarre le conseguenze sul terreno dogmatico (139) . Con i limiti ed i chiarimenti di cui sopra, crediamo, in conclusione, che il concetto di «causa» possa essere utilmente accoppiato ancora a quello di «negozio giuridico», pur con la piena coscienza delle incertezze a cui quest'ultima figura ha dato luogo nei tempi recenti (140) . La causa, riferita al negozio che attua uno spostamento patrimoniale, può tuttora, nei due aspetti fondamentali sopra delineati, ovverosia quale «funzione» e quale «scopo» ed insieme «fondamento» - che forse riproducono in termini «moderni» la vecchia distinzione tra contratti materiali e formali - considerarsi, sia pure in senso diverso dall'antico, il «vestimentum» che ricopre la nuda manifestazione di volontà permettendole di apparire nel mondo del diritto (141) . >> Note: << (1) Sono parole del FERRARA jr., Teoria dei contratti, Napoli, 1940, 127. (2) Una utile rassegna della dottrina italiana e francese fino alla fine del secolo XIX è contenuta in BARASSI, Causa, in Enciclopedia giuridica italiana, III, 2, sez. I, Milano, 1905, 922 ss. (3) Le norme del codice francese citate nel testo destarono la meraviglia del WINDSCHEID, il quale esclamava di stentare a credere ai propri occhi (Zur Lehre des Code Napoleon von der Ungültigkeit der Rechtsgeschäfte, Düsseldorf, 1847, 33 ss.) (4) Cfr. ad esempio PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, Traité de droit civil, II, Paris, 1957, 16, 99-100. (5) Cfr. BOYER, Les promesses synallagmatiques de vente, in Rev. trim. dr. civ., 1949, 1 ss. (6) Cfr. per tutti, GIORGI, Teoria delle obbligazioni, Firenze, 1891, III3, 7 ss.; IV3, 236. (7) PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, op. cit., II, Paris, 1957, 31; III, Paris, 1958, 743; e più chiaramente COLIN et CAPITANT, Cours élémentaire de droit civil français, II11, a cura di LA MORANDIÈRE, Paris, 1953, 22-23, il quale riduce al solo deposito la categoria dei contratti reali, poiché negli altri casi l'obbligazione nascerebbe indipendentemente dalla consegna. (8) Tale compenetrazione è negata invece, anche per il diritto positivo attuale, dal GORLA, L'atto di disposizione dei diritti, in Ann. Perugia, 1936, 77 ss., dell'estratto. (9) Tale evoluzione è pienamente compiuta in POTHIER, Trattato delle obbligazioni (trad. it.), I, Milano, 1805, 65. (10) Sul problema v. FUNAIOLI C. A., La tradizione, Padova, 1942, 31 ss.; per il diritto romano VOCI, Modi di acquisto della proprietà, Milano, 1952, 138 ss.; cfr. altresì PUGLIATTI, Acquisto del diritto, in questa Enciclopedia, I, 1958, 517. (11) BALDO, ad Cod. 2. 3. 20 (n. 5) Venetiis 1615. Il giurista concludeva: «Quaelibet ergo traditio ordinatur a sua causa». (12) L'elemento volontaristico della traditio fu, come è noto, esaltato dal SAVIGNY, Das Obligationenrecht, II, Berlin, 1853, § 78, 256 ss. (13) POTHIER, op. cit., 65 ss. (14) POTHIER, Trattato del dominio di proprietà (trad. it.), Napoli, 1820, 209-210. (15) Sulla importante funzione del trasferimento «astratto» della proprietà, propria del sistema romano, v. JHERING, L'esprit du droit romain (trad. MEULENAERE), IV2, Paris, 1880, 204 ss. (16) V. da ultimo ESMEIN, Obligations, II, in Traité pratique de droit civil a cura di PLANIOL et RIPERT, VI2, t. II, Paris, 1954, 34. Citazioni dei più antichi autori in GIORGI, op. cit., V3, Firenze, 1892, 179-180. Per la tesi rigorosa della nullità e quindi della rivendicazione si espresse anche il WINDSCHEID,op. cit., 338 ss. (17) Per primo sostenne questa tesi il GIORGI, op. cit., V, 180 ss., seguito a poco a poco da tutta la dottrina italiana (v. citazioni in ANDREOLI, La ripetizione dell'indebito, Padova, 1940, 4, nota 10). Contra, in critica a GIORGI, CAMPOGRANDE, Condictio indebiti, in Dig. it., VIII, 1, Torino, 1896, 636 ss., che accoglie tuttavia la attenuazione introdotta dalla dottrina francese. (18) Cfr. SCUTO, Sulla natura giuridica del pagamento, in Riv. dir. comm., 1915, I, 365 ss. che considerò il pagamento come un negozio astratto al pari del dinglicher Vertrag tedesco. (19) Basta confrontare ad esempio un elenco di casi che si includevano nella «mancanza di causa» in AUBRY et RAU, Cours de droit civil français, IV5, Paris, 1902, 548 nota 7, con quelli che ora vi si fanno rientrare (v. ad esempio ESMEIN, op. cit., t. I, Paris, 1952, 335). (20) Per la risoluzione per inadempimento, v. le citazioni in AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 115 ss. Per la risoluzione per impossibilità sopravvenuta, v. GORLA, Del rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934, 97 ss. In giurisprudenza viene spesso richiamata la «mancanza di causa» a proposito della impossibilità sopravvenuta della prestazione (v., ad esempio, Cass. 21 gennaio 1957, n. 131, in Giur. it., 1957, I, 1, 980). (21) Cfr. CAPITANT, De la cause des obligations3, Paris, 1927, 27 ss., 259 ss. (22) GORLA, Il contratto, I, Milano, 1955, 273 ss., 298 ss. (23) TIRAQUELLUS, esordiva nel suo trattato Cessante causa cessat effectus (Tractatus varii, Lugduni, 1567, 7) osservando che non vi era regola più importante di quella in forza della quale il venir meno della «causa» fa venir meno gli effetti «in legibus, contractibus et ceteris dispositionibus». (24) Codesta esaltazione del momento psicologico del negozio è seguita attentamente dal CALASSO (Il negozio giuridico, Milano, 1959), il quale pone in risalto, in pagine fondamentali, il progressivo affermarsi della prevalenza della volontà sulla forma. (25) Cfr. CROME, Parte generale del diritto privato francese moderno (trad. it.), Milano, 1906, 292 ss. (26) Cfr. PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, op. cit., II, 118. Cfr. altresì MAURY, Le concept et le rôle de la cause des obligations dans la jurisprudence, in Rev. int. dr. comparé, 1951, 485 ss. (27) Cfr. SAVIGNY, loco cit. (28) Cfr. WINDSCHEID, op. cit., 297 ss. (29) In critica a WINDSCHEID, v. CROME, Der Begriff der «causa» bei den Rechtsgeschäften und der Inhalt und das Anwendungsgebiet der art. 1131 bis 1133 «Code civil», in Zeitschr. f. franz. Zivilrecht, XXI (1891), n. 304 ss.; 540 ss., p. 330 ss. (30) V., ad esempio, CROME, la cui autorità è indiscussa, anche per la perfetta conoscenza di entrambi i due ordinamenti (Les similitudes du Code civil allemnand et du Code civil français, in Code civil. Livre du centenaire, II, Paris, 1904, 585 ss.). (31) Sul significato dell'astrattezza dell'Einigung in relazione ai terzi acquirenti, cfr.; da ultimo, LENT, Sachenrecht, München-Berlin, 1949, 28 ss.; WESTERMANN, Lehrbuch des Sachenrechts3, Karlsruhe, 1956, 402 ss. (32) Ancora POTHIER parla della causa della traditio (Trattato del dominio di proprietà, cit., n. 228 ss., 209 ss.). (33) V., ad esempio, ARNDTS, Lehrbuch der Pandekten13, Stuttgart. 1886, II, § 145, p. 286 ss.; III, § 233, p. 106 ss.; e DERNBURG, Diritti reali (trad. it.), Torino, 1907, 163 ss.; ID., Diritto delle obbligazioni (trad. it.), Torino, 1903, 85 ss. (34) Cfr. ARNDTS, loco cit. (35) V. al proposito le osservazioni del SAVIGNY (op. cit., 261 ss.) contro la tesi di LIEBE, il quale riteneva più conforme alle fonti romane la prevalenza del fondamento obiettivo sulla volontà. (36) V., ad esempio, REGELSBERGER, Pandekten, I, Leipzig, 1893, 608 ss., e BEKKER, System des heutigen Pandektenrechts, II, Weimar, 1899, 147 ss. (37) Così, ad esempio, ARNDTS, op. cit., 464, assegnava, sia pure confusamente, al difetto della causa obligandi, la conseguenza di rendere inefficace l'obbligazione. (38) V. ad esempio, BEKKER, op. cit., 147. (39) WINDSCHEID, Die Lehre des römischen Rechts von der Voraussetzung, Düsseldorf, 1850. (40) L'inizio di questo movimento di pensiero si fa risalire al BÄHR, Die Anerkennung als Verpflichtungsgrund, Leipzig, 1855, II ed. 1867, III ed. 1894. (41) Sugli sviluppi storici v. CAPITANT, op. cit., 129 ss.; ASTUTI, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, I, Milano, 1952, 144 ss. (42) Sul I progetto e sulle ragioni della sua revisione, v. FADDA e BENSA, Note a WINDSCHEID, Diritto delle pandette, IV, Torino, 1930, 564 ss. (43) Cfr. per tutti ENNECCERUS-NIPPERDEY, Allgemeiner Teil des bürg. Rechts, II14, Tübingen, 1955, 621 ss.; LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, II, München-Berlin, 1956, 296 ss. Per la cessione del credito cfr. LARENZ, op. cit., 280 ss. (44) Cfr. BÄHR, op. cit., 128 ss. Sulle perplessità cui diede luogo in Germania la connessione tra exceptio e condictio nelle promesse astratte v. LA LUMIA, L'obbligazione cambiaria ed il suo rapporto fondamentale, Milano, 1923, 55 ss. (45) Cfr. BRÜTT, Die abstrakte Forderung, Berlin, 1908, 117 ss.; VON TUHR, Der allgemeiner Teil des deutschen bürg. Rechts, II, 2, Berlin, 1918, 127; ENNECCERUS-LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse14, Tübingen, 1954, 791; LARENZ, op. cit., II, 264-5. Per il diritto svizzero VON TUHR, Partie générale du Code federal des obligations, I, Lausanne, 1926, 233. (46) Cfr. NEUBECKER, Der abstrakte vertrag in seiner historischen und dogmatischen Grundzügen, in Archiv bürg. Rechts, XII (1903), 73. (47) V. ASCARELLI, La letteralità dei titoli di credito, in Riv. dir. comm., 1932, I, 237 ss., 255. (48) V., da ultimo, LARENZ, op. cit., II, 298 ss. (49) Cfr. LARENZ, loco ult. cit., ed ENNECCERUS-NIPPERDEY, op. cit., 622 ss. (50) Cfr. per tutti CALASSO, op. cit., passim, ed i testi ivi richiamati. (51) Come è stato sopra detto, codesta evoluzione è messa magnificamente in risalto nell'opera citata del CALASSO. (52) Cfr., in proposito, le belle pagine di ASTUTI, op. cit.; ID., I princìpi fondamentali dei contratti nella storia del diritto italiano, estr. da Ann. st. dir., 1957, 13 ss. (53) Il DOMAT distingue da un canto i contratti nei quali «l'engagement de l'un est le fondament de celui de l'autre», includendovi anche quelli in cui - come, ad esempio, il mutuo sembra che uno solo dei due contraenti si obblighi; dall'altro le donazioni e gli altri contratti in cui uno solo «fait ou donne» nei quali «l'engagement de celui qui donne a son fondament sur quelque motif raisonnable et juste», soggiungendo che «ce motif tient lieu de cause» (Lois civiles, libro I, Paris, 1777, tit. I, sez. I, n. 5 ss.). (54) POTHIER, dopo aver premesso la nozione generale di contratto (Trattato delle obbligazioni, cit., 15), così individua la causa (p. 65): «Ogni obbligazione deve avere una causa onesta. Nei contratti commutativi la causa dell'obbligazione che contrae l'una delle parti consiste in ciò che l'altra parte le dà, o si obbliga di darle, o nel pericolo che essa si assume. Nei contratti di beneficenza, la liberalità di cui una delle parti vuole usare verso l'altra è una causa sufficiente dell'obbligazione contratta dalla prima». (55) L'art. 711 del Progetto stabiliva che «Toute convention, quelle qu'en soit la cause, fait loi entre ceux qui l'ont formée». Nella Relazione di BIGOT-PREAMENEU si ripeteva che non vi è obbligazione senza causa (v. Motivi delle leggi contenute nel Codice civile dè Francesi (trad. it.), Torino, s.a., 219). (56) Cfr. CAPITANT, op. cit., 26. V. altresì JOSSERAND, Les mobiles dans les actes juridiques du droit privé, Paris, 1928, 148. (57) L'osservazione è per il diritto francese abbastanza frequente da parte dei cosiddetti anticausalisti (v. citazioni infra). Anche in Germania è stato osservato che il negozio, ove consti di più attribuzioni, dovrebbe avere più cause (v. COHN,Zur Lehre vom Wesen der abstrakten Geschäfte), in Arch. civ. Prax., CXXXV (1932), 73. (58) Cfr. per tutti LAURENT, Principes de droit civil, XVI5, Bruxelles-Paris, 1893, 151 ss.; PLANIOL, Traité élémentaire de droit civil, II, Paris, 1930, n. 1037 ss.; GIORGI, op. cit., III, 558 ss., il quale afferma che la causa può identificarsi o con l'oggetto o col consenso. (59) Lo stesso dicasi degli ordinamenti derivati, quali, ad esempio, rispettivamente quello spagnolo e quello svizzero. Per il diritto svizzero v. per tutti GUHL, Le droit fédéral des obligations, Zürich, 1947, 78 ss.; OSER-SCHÖNBERGER, Das Obligationenrecht, I2, Zürich, 1929, 109 ss. Il codice spagnolo del 1888, il quale è modellato sul codice francese (art. 1261 = 1108 c. franc.; 1275 = 1131; 1277 = 1132), ha accolto addirittura una definizione di causa (art. 1274): «Nei contratti onerosi si intende per causa, per ciascun contraente, la prestazione o la promessa di una cosa o di un servizio dell'altra parte; nei contratti remuneratori il servizio o beneficio che si remunera, in quelli di pura beneficenza la mera liberalità del donante». (60) V. le importanti ricerche del GORLA, in vari scritti e ora in Il contratto, cit. Cfr. altresì MANCINI, La «consideration» nel diritto nord-americano dei contratti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 1041 ss. (61) Cfr. GENKIN, nella raccolta Sowjetisches Zivilrecht (trad. ted.), I, Berlin, 1953, 253 ss., e FLEISCHIZ, ivi, II, 387 ss. (62) Cfr. KLEINE, Die historische Bedingtheit der Abstraktion von der Causa, Berlin, 1953, 11 ss. (63) Su tale tappa importantissima della dottrina intermedia della causa v. CALASSO, op. cit., spec. 231 ss., 293 ss. (64) Cfr. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni, Milano, 1955, 677 ss. (65) V. ad esempio PEROZZI, Intorno alla donazione, ora in Scritti giuridici, II, Milano, 1948, 705 ss.; contra FADDA, Teoria del negozio giuridico, Napoli, 1909, 313, e da ultimo, TORRENTE, La donazione, Milano, 1956, 172 ss. (66) Cfr. GORLA, Il contratto, cit., I, spec., 316 ss. (67) Sull'intrecciarsi del modus - ed altresì della condizione - con la causa nella dottrina più antica, v. MILONE, La causa nei negozi giuridici, in Filangieri, 1898, 422 ss. La teoria della «presupposizione» del WINDSCHEID, sopra ricordata, tendeva, com'è noto, a ricomprendere anche il modus, oltre alla causa. (68) V. l'opera fondamentale di VON SALPIUS, Novation und Delegation, Berlin, 1864, 119 ss., 493 ss., 502 ss. (69) Sul ruolo dell'obbligazione astratta nel XIX secolo, v. DE PAGE, L'obligation abstraite en droit interne et en droit comparé, Bruxelles, 1957, 219 ss. (70) Il CAPITANT, invece (op. cit., 359 ss.) ritiene che anche il billet non causé deve considerarsi astratto. La tesi dominante nella dottrina e nella giurisprudenza francese è nel senso della astrazione meramente processuale: cfr. per tutti PLANIOL-RIPERTBOULANGER, op. cit., II, 123. (71) Cfr. per tutti ENNECCERUS-NIPPERDEY, op. cit., 623 ss. (72) Cfr. SCUTO, op. cit., 353 ss.; e per il diritto francese, CROME, Der Begriff der causa, cit., 355 ss. (73) Cfr. soprattutto SCIALOJA, Negozi giuridici, (corso di diritto romano dell'anno accademico 1892-1893), Roma, 1893 (ristampa, 1938); FADDA, op. cit. (74) Che la «prestazione» indichi qualunque spostamento patrimoniale, è indicato tra l'altro dalla espressione «contratti a prestazioni corrispettive», adoperata anche dal codice, la quale include pure i contratti traslativi. (75) Cfr. SCIALOJA, op. cit., 89 ss.; BENSA, Compendio d'introduzione allo studio delle scienze giuridiche e d'istituzioni di diritto civile italiano, Torino, 1897, 160, parlava di «ragion d'essere intrinseca». (76) Cfr. COVIELLO N., Manuale di diritto civile italiano4, parte gen., Milano, 1929, 411; SCIALOJA, op. cit., 90 ss. (77) Cfr. COVIELLO, op. cit., 411. (78) Ciò è evidente nella esemplificazione di COVIELLO, loco cit. (79) BONFANTE, Il contratto e la causa del contratto, (già in Riv. dir. comm., 1908, I, 115 ss.), ora in Scritti giuridici varii, III, Torino, 1921, 131 ss.; BETTI, da ultimo in Teoria generale del negozio giuridico2, Torino, 1955, 167 ss.; ID., Causa del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959; ID., Cours de droit civil comparé des obligations, Milano, 1958, 64 ss. (80) VENEZIAN, La causa dei contratti, Roma, 1892, ora in Opere giuridiche, I, Roma, 1919, 347 ss. (81) BONFANTE, loco cit. (82) BETTI, opere citate. (83) PUGLIATTI, Nuovi aspetti del problema della causa dei negozi giuridici, e Precisazioni in tema di causa del negozio giuridico, ora in Diritto civile. Saggi, Milano, 1951, 75 ss., 105 ss. (84) V. Relazione al codice, n. 613. (85) V., ad esempio, DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, I7, Messina, 1934, 262 ss. (86) Si pensi ad esempio che persino la transazione trovò per lungo tempo la sua giustificazione causale nella «corrispettività»:aliquid datum aliquid retentum (BUTERA, Transazione, in Dig. it., XXIII, I, Torino, 1912-16, 1673). Solo la dottrina della funzione ha potuto dare alla transazione una più adeguata giustificazione causale (per il primo, CARNELUTTI, La causa della transazione, in Studi di diritto civile, Roma, 1916, 492 ss.). Per quanto concerne i contratti aleatori, quali il gioco e la scommessa, v. MANENTI, in GLÜCK, Commentario alle Pandette, XI, Milano, 1903, 647 ss. (87) Cfr. COVIELLO, op. cit., 416 e DE RUGGIERO, op. cit., 266268. (88) Cfr. BETTI, luoghi citati. (89) Cfr. PUGLIATTI, Diritto civile, Saggi, cit. spec. 78. Rimangono perplessi tra la causa del negozio e quella dell'obbligazione o dell'attribuzione, RESCIGNO, Studi sull'accollo, Milano, 1958, 91 ss.; PAVONE LA ROSA, Riflessioni conclusive sulla «causa» del titolo del trasporto marittimo, in Riv. dir. civ., 1957, 491 ss. Cfr. altresì, SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950, il quale tuttavia afferma (245 ss.) che la funzione sociale del negozio è immedesimata nella stessa figura del negozio. Cfr. altresì AURICCHIO, La simulazione del negozio giuridico, Napoli, 1957, 14 ss. È seguace della teoria obiettiva della funzione CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico, Napoli, s.a., 580 ss. (90) Cfr. ALLARA, La teoria generale del contratto, Torino, s.a., 6667; PACCHIONI, Dei contratti in generale2, Padova, 1936, 100 ss.; FERRARA, sr., op. cit., 127 ss., il quale era stato prima seguace della tesi soggettiva (Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano2, Milano, 1914, 73). (91) Cfr. STOLFI G., Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, 22 ss. (92) Cfr. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I8, Milano, 1950, 476; III9, Milano, 1959, 40; ASCARELLI, L'astrattezza nei titoli di credito, in Riv. dir. comm., 1932, I, 385 ss.; BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni2, II, Milano, 1948, 53 ss.; DEIANA, Alcuni chiarimenti sulla causa del negozio e dell'obbligazione, in Riv. dir. civ., 1938, 3 ss., 105 ss.; BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano5, I, Torino, 1958, 407 ss.; FERRARA F. jr., La girata della cambiale, Roma, 1935, 294 ss. (93) Cfr. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile6, Napoli, 1959, 126 ss., 169 ss.; OSTI, Contratto, in Noviss. dig. it., IV, Torino, 1959, 506-508. TRABUCCHI, Istituzioni di diritto civile12, Padova, 1960, 158 ss.; TORRENTE,Manuale di diritto privato4, Milano, 1960, 162 ss. (94) Cfr. REDENTI, La causa del contratto secondo il nostro codice, in Studi in onore di Cicu, II, Milano, 1951, 291 ss. (95) Cfr. GORLA, Il contratto, cit., I, spec. 159 ss. (96) Identificano la causa del contratto con la funzione economicosociale: Cass. 21 ottobre 1955, n. 3406; Cass. 15 gennaio 1947, n. 32, in Monit. trib., 1947, 35; Cass. 28 febbraio 1946, n. 217, in Foro it., 1947, I, 32; identificano la causa del negozio col motivo tipico, immediato o prossimo, che viene equiparato alla funzione economico-sociale: Cass. 14 ottobre 1958, n. 3251, in Giust. civ., 1959, 75; Cass. 28 agosto 1952, n. 2781; Cass. 24 aprile 1952, n. 1139; Cass. 11 aprile 1951, n. 858; distinguono la causa del negozio intesa quale funzione economico sociale dalla causa dell'obbligazione che consiste nella prestazione dell'altra parte: Cass. 29 aprile 1952, n. 1190; Cass. 23 aprile 1948, n. 577, in Giur. it., 1947, I, 1, 446; confondono la causa obligandi con la funzione del negozio: Cass. 16 febbraio 1949, n. 255, in Giur. compl. cass. civ., 1949, II, 340; Cass. 28 gennaio 1943, in Giur. it., 1943, I, 1, 196. (97) Cfr. al riguardo DEMOGUE, Traité des obligations en général, II, Paris, 1923, 525 ss., 540 ss. (98) Cfr. in Francia, DUGUIT, L'État, le droit objectif et la loi positive, Paris, 1901, 165 ss.; in Germania, LARENZ, Vertrag und Unrecht, I, Hamburg, 1936, 36 ss. (99) Anche in Spagna, per un ritorno alla tesi tradizionale cfr. ALBALAVEJO, La causa, in Rev. der. priv., 1958, 315 ss. (100) Lo STAMPE riteneva che per codesti negozi non ha senso il parlare di causa, e che la causa vada riferita solo ai negozi di esecuzione (Das Causa-Problem des Civilrechts, Greifswald, 1904, 24 ss., e Causa und abstrakte Geschäfte, in Zeitschr. ges. Handelsrecht, 1904, 391 ss.). (101) Cfr. BALDO DEGLI UBALDI, Ad Cod. 4, 30, 13 (n. 23), Venetiis, 1615, riportando l'opinione di Nicolò Matarello: «... stipulatio, est contractus aliunde tamen causandus, quod non est in aliis contractibus specificatis, ut in locatione, emptione et venditione et si(milibus?) qui sunt causa sui ipsius». (102) AHRENS (Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto (trad. it.), II3, Napoli, 1885, 170 ss.), notava che il contratto presenta un aspetto obiettivo costituito dal complesso dei rapporti che formano il contenuto o la ragione (causa) della sua esistenza, ed osservava altresì che in certi contratti la ragione non è manifesta. (103) Cfr. GIORGIANNI, Corso di diritto civile (1958-59), Bologna, 1959, 5 ss., 83 ss. (104) Ciononostante, nell'ordinamento francese è pacifico che la risoluzione opera a prescindere dalla «colpa» dell'inadempiente (v. PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, op. cit., II, 203). Le ragioni per le quali, contro la tesi assolutamente dominante, anche in Italia ci sembra che la «colpa» non sia necessaria, v. GIORGIANNI, L'inadempimento, Milano, 1959, 319 ss. In Germania la questione non viene neanche posta, dato il particolare funzionamento dell'istituto, connesso con la condictio sine causa. (105) Cfr. GIORGIANNI, L'obbligazione, I, Catania, 1945 (Milano, 1951, rist. inalt.), 120 ss. (106) Si tratta della nota definizione di BALDO DEGLI UBALDI: «causa enim finalis est obiectum intellectus, sicut signum est obiectum visus, et portus est obiectum navigantium; et quicquid agimus, propter finem agimus» (vedila in CALASSO, op. cit., 301). (107) Laonde non hanno avuto fortuna le formule che richiamano la funzione della donazione (v. FERRARINI, La causa negli atti giuridici, in Filangieri, 1891, 742 ss.). (108) Su codesto processo v. le magistrali pagine del CALASSO, op. cit., spec. 293 ss. (109) Ritiene che il negozio simulato sia valido anche tra le parti AURICCHIO, op. cit. passim, il quale si pone il problema anche sotto il profilo della causa (12 ss.). (110) Il COVIELLO, Trascrizione, I2 (rist.), Napoli-Torino, 1924, 364-365, si poneva il problema della trascrizione della domanda di ripetizione di indebito, risolvendolo negativamente poiché essa non era richiamata nell'art. 1933 c. abr. Il GORLA, Il contratto, cit., I, 508, nota 8, manifesta incidentalmente, e senza alcuna dimostrazione, il dubbio che la nostra condictio indebiti si riferisce probabilmente al caso di pagamento avente ad oggetto una cosa di genere confusa nel patrimonio dell'accipiens, o comunque non più esistente nel patrimonio di costui. Sulle incongruità cui dà luogo il sistema della trascrizione dell'azione di rivendica da un canto e delle azioni dirette a far venir meno il titolo di acquisto dall'altro cfr. TRABUCCHI, Trascrizione della domanda di rivendica e conflitto tra più acquirenti, in Giur. it., 1960, I, 2, 82. (111) Cfr. per tutti ENNECCERUS-NIPPERDEY, op. cit., 524 ss. (112) Cfr. spec. LENT, loco cit. Sul significato che codesta «astrattezza» ha per la tutela dei terzi e per la sicurezza della circolazione, v. DE PAGE,op. cit., 212 ss. (113) V. in proposito l'ampia indagine del CAPITANT, op. cit., 359 ss. (114) Sui problemi del trasferimento a scopo di garanzia, cfr. da ultimo BIANCA, Il divieto del patto commissorio, Milano, 1957, 116 ss. (115) In tal senso v. in giurisprudenza, da ultimo, Cass. 28 ottobre 1958, n. 3512. Sul problema V. da ultimo BRANCA, Delle promesse unilaterali, in Commentario del codice civile a cura di SCIALOJA e BRANCA, Libro IV, Delle obbligazioni, art. 1960-1961, BolognaRoma, 1959, 363 ss. (116) L'astrazione processuale viene intesa dalla giurisprudenza come presunzione, sino a prova contraria, dell'esistenza della causa del negozio: da ultimo, Cass. 16 aprile 1957, n. 1255; Cass. 9 luglio 1949, n. 1748, in Giur. it., 1950, I, 1, 746; Cass. 20 marzo 1947, n. 412, ivi, 1948, I, 1, 18. (117) Cfr. ANDREOLI, La ripetizione dell'indebito, cit., 213 ss. (118) Cfr. SCUTO, loco cit. Notevoli perplessità v. da ultimo in ANDREOLI G., Riflessioni sull'atto solutorio non dovuto, in Studi in onore di Messineo, I, Milano, 1959, 1 ss. (119) DALMARTELLO, La consegna della cosa, Milano, 1950, 181 ss. (120) BETTI, Ricognizione di debito e promessa di pagamento secondo il nuovo codice, in Studi in memoria di Segrè, Milano, 1943, 3 ss. (121) Sui problemi di cui nel testo, v. NICOLÒ, Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione dell'obbligazione, in Ann. Messina, 1932-33, 386 ss.; e GIORGIANNI, Accertamento (negozio di), in questaEnciclopedia, I, spec. 233 ss. (122) Per la giurisprudenza più recente che identifica la causa del titolo di credito nel rapporto sottostante cfr., da ultimo: Cass. 5 luglio 1958, n. 2419; Cass. 10 marzo 1958, n. 799, in Banca, borsa, tit. cred., 1958, II, 201; Cass. 19 ottobre 1957, n. 3980; Cass. 26 settembre 1955, n. 2627. Ravvisa la causa della cambiale di favore «nella convenzione di favore e cioè nell'obbligarsi cambiariamente per consentire ad altri di utilizzare la cambiale»: Cass. 3 maggio 1957, n. 1520, in Dir. giur., 1958, 573, con nota di richiami. (123) In tal senso, CARRARO, Il negozio in frode alla legge, Padova, 1943, 51 ss. (124) Cfr., ad esempio, CARIOTA-FERRARA, op. cit., 599 ss.; BETTI, Teoria generale, cit., 371 ss. (125) La giurisprudenza identifica la causa illecita nello scopo illecito: Cass. 13 giugno 1957, n. 2213; Cass. 14 maggio 1955, n. 1378 in Monit. trib., 1955, 263; Cass. 22 marzo 1955, n. 861; Cass. 28 aprile 1944, n. 301; ovvero in un rapporto sottostante illecito: Cass. 24 gennaio 1953, n. 209, in Giust. civ., 1953, 309; Cass. 20 giugno 1951, n. 1647. Talora, nell'applicazione dell'art. 2035 c.c. si distingue la causa tipica del negozio dallo scopo «in qualche modo obiettivato»: Cass. 5 luglio 1956, n. 2441. (126) Tuttavia, si ritiene di poter considerare lecita la prestazione effettuata per «retribuire, definitivamente una relazione concubinaria considerandola come donazione lecita: FERRARA sr., Teoria dei contratti, cit., 115-16. La giurisprudenza, mentre considera illecita la causa quando la prestazione è effettuata al fine di iniziare o continuare una illegittima relazione carnale (Cass. 28 aprile 1944, n. 301) ritiene valida, invece, la prestazione effettuata per risarcire il danno subito dalla donna in conseguenza di una illegittima relazione more uxorio(Cass. 17 gennaio 1958, n. 85; Cass. 17 luglio 1948, n. 1147, in Foro it., 1949, I, 951). (127) La giurisprudenza è concorde nell'affermare che la norma contemplata nell'art. 2035 c.c. si applica soltanto al contratto immorale ob turpem causam e non ai contratti illeciti od in frode alla legge. V.: Cass. 7 giugno 1956, n. 1953; Cass. 28 marzo 1952, n. 849; Cass. 22 maggio 1951, n. 1272, in Giur. compl. cass. civ., 1951, 144; Cass. 4 ottobre 1951, n. 2625. (128) Si fa sempre più insistente l'osservazione, come abbiamo avvertito all'inizio di queste note, che esistono diverse nozioni di causa, a seconda dei vari punti di vista da cui si parte (v. da ultimo, MAJELLO, Custodia e deposito, Napoli, 1958, 11, nota 56). (129) Si assiste, come è noto, ad una sempre più decisa reazione alla eccessiva sottoposizione degli ordinamenti «privati» a quello dello Stato: cfr. da ultimo ROMANO SALV., Ordinamenti giuridici privati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1955, 249 ss. (130) V. CALASSO, op. cit., 41. (131) In tal senso la causa è utilizzata anche dalla dottrina francese (cfr. TERRÉ, L'influence de la volonté individuelle sur les qualifications, Paris, 1957, 230 ss.; MAURY, op. cit., 485 ss.; ma v. contra, BRETHE DE LA GRESSAYE, in Rev. int. dr. comparé, 1951, 506 ss.). (132) La dottrina francese rimane invece fedele ad una prevalenza della volontà (cfr. TERRÉ, op. cit., 305 ss.). (133) La dottrina italiana esclude ormai, nella quasi totalità l'applicazione del concetto di causa ai negozi non patrimoniali. In particolare, per il matrimonio, v. DOSSETTI, La violenza nel matrimonio in diritto canonico, Milano, 1943, 7 ss. In senso affermativo, da ultimo, GRAZIANI, Volontà attuale e volontà precettiva nel negozio matrimoniale canonico, Milano, 1956, 29 ss. (134) Cfr. ROMANO Santi, Corso di diritto amministrativo3, Padova, 1937, 259 ss.; BODDA, La nozione di «causa giuridica» della manifestazione di volontà nel diritto amministrativo, Torino, 1933, 49 ss.; ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, I7, Milano, 1954, 313, ed ivi ulteriori citazioni. Si dimostrano scettici verso il concetto di causa dell'atto amministrativo GIANNINI M. S., Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, I, 316 ss.; ID., Atto amministrativo, in questa Enciclopedia, IV, 176; ALESSI,Sistema istituzionale del diritto amministrativo italiano2, Milano, 1958, 289. ss. (135) CARNELUTTI, Teoria generale del diritto3, Roma, 1951, 243 ss., il quale, coerentemente, propone di sostituire la parola «causa» con quella «fine». (136) Sulla origine della parola «causa» e sui vari significati da essa assunti nel diritto, cfr. CALASSO, op. cit., 39 e nota 12; ASTUTI, I contratti obbligatori, cit., 35 ss.; GORLA, Il contratto, cit., I, 296 ss.; ORESTANO, Obligationes e dialettica, in Jus, 1959, 16 ss., dove ulteriori citazioni. Il BONFANTE, op. cit., 131, rileva che la parola «causa» costituisce radice della nostra parola «cosa». (137) Sulla causa legis, v. CALASSO, op. cit., 225 ss. Contro la nozione di causa della legge tributaria cfr. ROMANELLI, Metodologia del diritto finanziario, in Riv. dir. pubbl., 1960, 18 ss. (138) Si continua invece a parlare talora di causa del testamento, v. da ultimo, CRISCUOLI, La causa del testamento (estr.), Circ. giur., 1959. (139) Ammettono tuttavia l'azione di ripetizione d'indebito anche quando «la causa del contratto venga successivamente meno»: Cass. 10 febbraio 1953, n. 327; Cass. 16 marzo 1943, in Giur. it., 1943, I, 1, 245. È inoltre da osservare che la giurisprudenza, formatasi sull'art. 1988, parifica la prova dell'inesistenza del rapporto fondamentale a quella del suo «successivo venir meno» (Cass. 4 giugno 1958, n. 1870; Cass., 9 luglio 1949, n. 1748, in Giur. it., 1950, I, 1, 746). (140) Il riferimento della causa all'«atto» (ovverosia al negozio) e non più al «contratto», proposto in Francia dalla Commissione di riforma (Travaux de la Commission de réforme du code civil, 194748, Paris, 1949, 277), ha dato luogo a notevoli perplessità (Travaux 1945-46, Paris, 1947, 191 ss.). (141) Sulla dottrina del «patto nudo» cfr. CALASSO, op. cit., 261 ss.; ASTUTI, I princìpi fondamentali, cit., 31 ss. LETTERATURA. AHRENS, Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto (trad. it.), II3 , Napoli, 1885, 162 ss.; ALBALAVEJO, La causa, in Rev. der. priv., 1958, 315 ss.; ALESSI, Intorno ai concetti di causa giuridica, illegittimità, eccesso di potere, Milano, 1934; ID., Sul concetto di «causa» del negozio giuridico, in Temi emil., 1933, II, 162 ss.; ANDREOLI, La ripetizione dell'indebito, Padova, 1940; ID., Riflessioni sull'atto solutorio non dovuto, già in Temi, 1956, 391 ss., ora in Studi in onore di Messineo, I, Milano, 1959, 1 ss.; ASCARELLI, L'astrattezza nei titoli di credito, in Riv. dir. comm., 1932, I, 385 ss.; ASTUTI, I contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, Milano, 1952; ID., I princìpi fondamentali dei contratti nella storia del diritto italiano, in Ann. st. dir., 1957, 13 ss. estr.; AUBERT, La répétition des prestations illicites ou immoralez en droit français, en droit suisse et dans la jurisprudence belge, Lausanne, 1954, 163 ss.; AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942; AURICCHIO, La simulazione nel negozio giuridico, Napoli, 1957; BÄHR, Die Anerkennung als Verpflichtungsgrund, Leipzig, 1855, (II ediz., 1867, III ediz., 1894); BARASSI, Causa, in Enciclopedia giuridica italiana, III, 2, Milano, 1905; ID., La teoria generale delle obbligazioni2 , Milano, 1948; BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano5 , Torino, 1958, 407; BATTISTONI, La causa nei negozi giuridici, Padova, 1932; BEKKER, Pandekten, I, Leipzig, 1893, 607 ss.; BENSA, Compendio di introduzione allo studio delle scienze giuridiche ed istituzioni di diritto civile italiano, Torino, 1897, 160 ss.; BETTI, Ricognizione di debito e promessa di pagamento secondo il nuovo codice, in Studi in memoria di Segrè, Milano, 1943, 3 ss.; ID., Teoria generale del negozio giuridico2 , Torino, 1955; ID., Cours de droit civil comparé des obligations, Milano, 1958, 64 ss.; ID., Autonomia privata, in Noviss. dig. it., I, 2, Torino, 1958, 1559; ID., Astrazione (negozio astratto), ivi, 1469; ID., Der Typenzwang bei den römischen Rechtsgeschäften und die sog. Typenfreiheit des heutigen Rechts, in Festschrften für Wenger, I, München, 1944, 249 ss.; ID., Causa del negozio giuridico, in Noviss. dig. it., III, Torino, 1959; BIGIAVI, La delegazione, Padova, 1940, 295 ss.; 349 ss.; BIONDI, La causa della espromissione, in Foro it., 1956, I, 1335 ss.; BLOMEYER, Allgemeines Schuldrecht2 , Berlin-Frankfurt a. M., 1957, 89 ss.; BODDA, La nozione di «causa giuridica» della manifestazione di volontà nel diritto amministrativo, Torino, 1933; BONFANTE, Il contratto e la causa del contratto, già in Riv. dir. comm., 1908, I, 115 ss., ora in Scritti giuridici vari, III, Torino, 1921, 125 ss.; ID., Sulla causa illecita, già in Riv. dir. comm., 1917, II, 231 ss., ora in Scritti, cit., 104 ss.; BRÜTT, Die abstrakte Forderung, nach deutschen Reichsrecht, Berlin, 1908; CALASSO, Causa legis, in Riv. st. dir. it., 1956, 25 ss.; ID., Il negozio giuridico, Milano, 1959; CAPITANT, De la cause des obligations3 , Paris, 1927; CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico nel diritto privato italiano, Napoli, s.a.; CARNELUTTI, Teoria generale del diritto3 , Roma, 1951; CARRARO, Il negozio in frode alla legge, Padova, 1943; CARUSI, La causa dei negozi giuridici e l'autonomia della volontà nel diritto privato italiano, Napoli, 1948; CHÉVRIER, Essai sur l'histoire de la cause dans les obligations, Paris, 1929; CLAPS, Intorno alla teoria della «causa» e della «presupposizione» nei negozi giuridici, in Giur. it., 1901, IV, 318 ss.; COHN, Zur Lehre vom Wesen der abstrakten Geschäfte, in Arch. civ. Prax., 1932, 67 ss.; COVIELLO N., Manuale di diritto civile italiano4 , parte gen., Milano, 1929, 410 ss.; CRISCUOLI, La causa del testamento, estr., Circ. giur., 1959; CROME, Les similitudes du Code civil allemand et du Code civil français, in Code civil, Livre du centenaire, II, Paris, 1904, 585 ss.; ID., Teorie fondamentali delle obbligazioni nel diritto francese (trad. it.), Milano, 1908; ID., Parte generale del diritto privato francese moderno (trad. it.), Milano, 1906; ID., Der Begriff der causa bei den Rechtsgeschäften und der Inhalt und das Anwendungsgebiet der art. 1131 bis 1133 Code civil, in Zeitschrift für fränz. Zivilrecht, 1891, n. 304, ss., 540 ss.; DABIN, La théorie de la cause, Liège, 1919; DE GENNARO, I contratti misti, Padova, 1934, 23 ss.; DEIANA, I motivi nel diritto privato, Torino, 1939; ID., Alcuni chiarimenti sulla causa del negozio e dell'obbligazione, in Riv. dir. civ., 1938, 1 ss., 105 ss.; DEMOGUE, Traité des obligations en général, II, Paris, 1923, 524 ss.; DE PAGE, L'obligation abstraite en droit interne et en droit comparé, Bruxelles, 1957; DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile7 , I, MessinaMilano, 1934, 262 ss.; DIKOFF, Les actes juridiques abstraits et le Code Civil français, in Rev. trim. dr. civ., 1932, 327 ss.; ENNECCERUS-LEHMANN, Recht der Schuldverhältnisse14 , Tübingen, 1954; ENNECCERUS-NIPPERDEY, A llgemeiner Teil des bürgerlichen Rechts14 , Tübingen, 1952-1955; ESMEIN, in PLANIOL-RIPERT, Traité pratique de droit civil français2 , VI, Paris, 1952, n. 249 ss., 316 ss.; FADDA, Teoria del negozio giuridico, Napoli, 1909, 332-333; FERRARA sr., Teoria dei contratti, Napoli, 1940; ID., La causa illecita, in Scritti per Chironi, I, Torino, 1915, 119 ss.; ID., Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano2 , Milano, 1914; FERRARA jr., La girata della cambiale, Roma, 1935; FERRARINI, La causa negli atti giuridici, in Filangieri, 1891, 742 ss.; FLEISCHIZ, in Sowjetisches Zivilrecht (tr. ted.), Berlin, 1953, 387 ss.; FORTI, I motivi e la causa negli atti amministrativi, già in Foro it., 1932, III, c. 289 ss., ora in Studi di diritto pubblico, I, Roma, 1937, 477 ss.; FUNAIOLI C. A., La tradizione, Padova, 1942; GAUDEMET, Théorie générale des obligalions, Paris, 1937, 111 ss.; GENKIN, in Sowjetisches Zivilrecht (trad. ted.), I, Berlin, 1953, 253 ss.; GIANNINI M. S., Atto amministrativo, in questa Enciclopedia, IV, 1959, 176 ss.; GIORGI, Teoria delle obbligazioni nel diritto moderno italiano3 , Firenze, 1890-1893; GIORGIANNI, L'obbligazione, Catania, 1945, rist. inalt., Milano, 1951, 120 ss.; ID., Il negozio d'accertamento, Milano, 1939; ID., Accertamento (negozio di), in questa Enciclopedia, I, 1958, 205 ss.; ID., Negozi giuridici collegati, in Riv. it. scienze giur., 1937, 175 ss. dell'estratto; GORLA, Il contratto, Milano, 1955; ID., Del rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934; ID., L'atto di disposizione dei diritti, in Ann. Perugia, 1936 (estr.); ID., La «causa» nel pensiero dei giuristi di Common law, in Riv. dir. comm., 1951, I, 344 ss.; ID., Causa, consideration e forma nell'atto d'alienazione inter vivos, ivi, 1952, I, 173 ss., 257 ss.; GUHL, Le droit fédéral des obligations, Zürich, 1947, 78 ss.; IONASCO, Les récentes destinées de la théorie de la cause dans les obligations, Paris, 1931; JHERING, L'esprit du droit romain (trad. MEULENAERE), Paris, 1880; JOSSERAND, Les mobiles dans les actes juridiques du droit privé, Paris, 1928; KLEIN, Die Natur der causa solvendi. Ein Beitrag zur Causa und Kondiktionen Lehre, (Bonner Dissertation), 1903; KLEINE, Die historische Bedingtheit der Abstraktion von der Causa, Berlin, 1953; KLINGMÜLLER, Causa und Schuldversprechen, in Zeitschr. ges. Handelsrecht, 1906, 152 ss.; LA LUMIA, L'obbligazione cambiaria ed il suo rapporto fondamentale, Milano, 1923; LARENZ, Lehrbuch des Schuldrechts, I, München-Berlin, 1953; LAURENT, Principes de droit civil, XVI5 , Bruxelles-Paris, 1893; LENT, Sachenrecht, München-Berlin, 1949, 28 ss.; LEVI A., La fonction de la cause dans les actes juridiques, in Scritti minori, II, Padova, 1957, 277 ss.; LIEBE, Die Stipulation, Braunschweig, 1840; LOTMAR, Ueber causa in röm. Recht, München, 1875; MAJELLO, Custodia e deposito, Napoli, 1958; MANCINI, La «consideration» nel diritto nordamericano dei contratti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 1039 ss.; MANENTI, in GLÜCK, Commentario alle Pandette, XI, Milano, 1903, 647 ss.; MAURY, Le concept et le rôle de la cause des obligations dans la jurisprudence, in Rev. int. dr. comparé, 1951, 485 ss.; MAZZONE, La causa ed i titoli di credito, in Studi in onore di Vivante, II, Roma, 1931, 561 ss.; MESSINEO, Dottrina generale del contratto3 , Milano, 1948; ID., Manuale del diritto civile e commerciale, I8 , Milano, 1950, 476 ss., III9 , Milano, 1959, 40 ss.; MILONE, La causa nei negozi giuridici, in Filangieri, 1898, 422 ss.; MIRABELLI G. jr., contratti in generale, Torino, 1958; ID., L'atto non negoziale nel diritto privato italiano, Napoli, 1955, 47 ss.; ID., Il vizio della causa del negozio giuridico, in Dir. giur., 1950, 257 ss.; ID., Causa, oggetto, funzione, interesse, in Arch. giur., 1950, 91 ss.; ID., Causa subiettiva e causa obiettiva, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1951, 323 ss.; MORTATI, La volontà e la causa nell'atto amministrativo e nella legge, Roma, 1935; MOSCO, La conversione del negozio giuridico, Napoli, 1947; MOTTA, La causa delle obbligazioni nel diritto civile italiano, Torino, 1929; NEUBECKER, Der abstrakte Vertrag in seinen historischen und dogmatischen Grundzügen, in Archiv bürg. Recht, XII (1903), 34 ss.; NICOLÒ, Il negozio delegatorio, Messina, 1932; ID., Il riconoscimento e la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della novazione dell'obbligazione, in Ann. Messina, 1932-33, 377 ss.; ID., Adempimento dell'obbligo altrui, Milano, 1936; ID., Adempimento (diritto civile), in questa Enciclopedia, I, 1958; ID., Aspetti pratici del concetto di causa, in Riv. dir. comm., 1939, II, 10 ss; ID., Attribuzione patrimoniale, in questa Enciclopedia, IV, 1959; ID., Sulla promessa di pagare il debito altrui, in Foro it., 1936, I, 1466 ss.; OPPO, Adempimento e liberalità, Milano, 1947; OSER-SCHÖNBERGER, Das Obligationenrecht, I2 , Zürich, 1929, 109 ss.; OSILIA, Considerazioni sulla causa del contratto, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1949, 344 ss.; OSTI, Contratto, in Noviss. dig. it., IV, Torino, 1959; PACCHIONI, Dei contratti in generale2 , Padova, 1936; PAVONE LA ROSA, Riflessioni conclusive sulla «causa» del titolo del trasporto marittimo, in Riv. dir. civ., 1957, 491 ss.; ID., Cambiale, in questa Enciclopedia, V, 1959, 850 ss.; PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, Traité de droit civil, II, Paris, 1957; PUGLIATTI, Precisazioni in tema di causa del negozio giuridico, in Diritto civile. Saggi, Milano, 1951, 105 ss.; ID., Nuovi aspetti del problema della causa dei negozi giuridici, già in Scritti in memoria di Venezian, Messina, 1934, 187 ss., ora in Diritto civile, cit., 75 ss.; ID., Animus, in questa Enciclopedia, II, 1958; ID., Autonomia privata, ivi, IV, 1959; RAGUSA MAGGIORE, La causa del contratto di società, in Dir fall., 1959, 13 ss., 108 ss.; RAVÀ T., Causa e rappresentanza indiretta nell'acquisto, in Banca, borsa tit. cred., 1952, I, 259 ss.; REDENTI, La causa del contratto secondo il nostro codice, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1950, 894 ss.; RENARD VIEUJEAN HANNEQUART, Théorie générale des obligations, Bruxelles, 1957; RESCIGNO, Incapacità naturale e adempimento, Napoli, 1950; ID., Studi sull'accollo, Milano, 1958, 91 ss.; RIPERT, La régle morale dans les obligations civiles2 , Paris, 1926; RÜMELIN, Zur Lehre von der Schuldsversprechen und Schuldanerkentnissen des B.G.B., in Arch. civ. Prax., 1905, 211 ss., 1906, 169 ss.; SALEILLES, De la déclaration de volonté. Contribution à l'étude de l'acte juridique dans le Code civil allemand, Paris, 1901; VON SALPIUS, Novation und Delegation, Berlin, 1864; SANTINI, L'azione causale nel diritto cambiario, Padova, 1955; SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto civile6 , Napoli, 1959; VON SAVIGNY, Das Obligationenrecht, II, Berlin, 1853; SCALFI, Tipicità della causa del negozio giuridico, in Temi, 1954, 91 ss.; SCIALOJA V., Negozi giuridici4 , Roma, 1938; SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio giuridico, Napoli, 1950; SCUTO, Sulla natura giuridica del pagamento, in Riv. dir. comm., I, 1915, 353 ss.; ID., Il modus nel diritto civile italiano, Catania, 1909; STAMPE, Causa und abstrakte Geschäfte, in Zeitschr. ges. Handelsrecht, 1904, 387 ss.; ID., Das Causa-Problem des Zivilrechts, Greifswald, 1904; STOLFI G., Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947; TORRENTE, La donazione, In Trattato di diritto civile, diretto da CICU e MESSINEO, Milano, 1956, 171 ss.; ID., Concessione di garanzia e donazione indiretta, in Foro it., 1958, I, n. 127 ss.; ID., Manuale di diritto privato4 , Milano, 1960; TRABUCCHI, Arricchimento, in questa Enciclopedia, III, 64; ID., Istituzioni di diritto civile12 , Padova, 1960, 258 ss.; TRIMARCHI, Atto e negozio giuridico, Milano, 1940; VASSALLI F., Sommario delle lezioni sulla teoria dei negozi giuridici, Roma, 1934; VEDEL, Essai sur la notion de cause en droit administratif français, Paris, 1934; WINDSCHEID, Zur Lehre des Code Napoléon von der Ungültigkeit der Rechtsgeschäfte, Düsseldorf, 1847; ID., Die Lehre des römischen Rechts von der Voraussetzung, Düsseldorf, 1850; WINDSCHEID-KIPP, Lehrbuch des Pandektenrechts, II8, Frankfurt a. M., 1900, 289 ss., 765 ss., 834 ss.