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M. Giorgianni - v. Causa (ED,VI).

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M. Giorgianni - v. Causa (ED,VI).
Giorgianni Michele
Causa del negozio giuridico (dir. priv.) [VI,
1960]
Sommario:
1. Premessa.
2. La dottrina italiana sotto il codice del 1865. Il primo
trentennio di derivazione francese.
3. La nullità del contratto traslativo per mancanza di causa.
4. La progressiva riduzione dell'area della mancanza di causa.
5. La dottrina tedesca della causa.
6. La sostanziale fedeltà alla tradizione sia da parte
dell'ordinamento, sia da parte degli interpreti, in Francia e in
Germania. L'ordinamento anglosassone e quello russo: cenni .
7. Confluenze e differenze dei due ordinamenti, germanico e
francese.
8. La dottrina italiana dopo il primo trentennio. Il codice del
1942.
9. Nostra opinione sulla odierna rilevanza della causa.
10. Corollari della nostra opinione. Il negozio astratto. La
illiceità della causa.
11. Conclusione: la causa del negozio giuridico.
1. Premessa.
Chi si soffermi ad esaminare il panorama offerto dalla dottrina
italiana contemporanea della causa, ne ricava l'impressione di
un cantiere in fecondo movimento, nel quale nuovi materiali
affluiscono incessantemente per alimentare lo sforzo di
costruzione di un edificio, che, pur poggiando su vetuste e
solide fondamenta, non riesce ad assumere ancora un netto
contorno, malgrado la maestrìa degli architetti e la pregiatezza
dei materiali.
Tale spettacolo contrasta stranamente con quello offerto dalla
dottrina straniera, ovverosia - per restare in un terreno di
tradizione giuridica comune - da quella germanica e francese.
Qui la disputa può considerarsi da tempo sopita, attraverso
l'accettazione di posizioni che ormai possono considerarsi
pacifiche, o quasi.
Si è perciò autorizzati a parlare di «crisi» del concetto di causa
in Italia? Malgrado l'abuso che si fa spesso di quella parola,
occorre rispondere positivamente all'interrogativo, ove si
consideri come s'ingrossino sempre più le file di coloro - tra i
quali si trovano autorevolissimi esponenti della dottrina - i
quali affermano l'esistenza di almeno due distinti concetti di
causa, uno riferibile al negozio e l'altro all'obbligazione, ovvero
più comprensivamente alla attribuzione patrimoniale. Né
occorre trascurare che la giurisprudenza segue compatta tale
indirizzo parlando ora di causa del negozio, ora di causa
dell'obbligazione, ora di causa della prestazione, naturalmente
senza avere la pretesa di porre distinzioni nette in sede teorica,
ma spinta solo dalla diversità delle situazioni sottoposte al suo
esame.
Si è giunti, così, ad affermare che i vari concetti espressi dalla
dottrina sono singolarmente esatti, e che esistono quindi diverse
nozioni di causa, egualmente valide nell'ambito in cui ciascuna
di esse viene posta. D'altro canto, anche coloro i quali
sembrano seguire un indirizzo più rigoroso, riferendo la causa
solamente al negozio giuridico, si vedono talora costretti a fare
riferimento ad una «causa remota», distinta dalla vera e propria
causa. Ciò considerato, non può vedersi una esagerata
valutazione del problema nell'osservazione, non infrequente, di
chi considera la causa come un concetto indecifrabile ovvero
«molto vago e misterioso» (1) .
Ci sembra che un passo avanti per la comprensione del
problema possa essere, perciò, utilmente compiuto ove si tenti
di rendersi conto delle ragioni per le quali la dottrina italiana ed essa sola - continua ad affaticarsi intorno ad un concetto di
origini tanto vetuste. Codesta indagine, oltre a soddisfare una
curiosità, peraltro legittima, potrebbe contribuire a cogliere il
senso di un travaglio che, salvo qualche pausa più o meno
lunga, dura da quasi un secolo. In tale prospettiva, l'esame della
dottrina italiana dal 1865 a oggi ci svelerà probabilmente, pur
nell'apparente disordine, i termini essenziali di una evoluzione
di pensiero.
Il ragionato inventario della dottrina italiana, che ci
proponiamo, può essere effettuato oggi in una posizione
singolarmente fortunata, essendo ormai trascorso un buon
numero di anni dall'entrata in vigore del codice del 1942, i
compilatori del quale avevano espressamente dichiarato di
preferire una certa nozione di causa. L'autorità del legislatore
non è riuscita a fermare il flusso della speculazione dottrinaria
né della elaborazione giurisprudenziale, ed anzi le critiche
contro la nozione accolta dal codice si fanno sempre più
insistenti. Sarà interessante cogliere il significato di codesta
ribellione, ed inquadrarla nella evoluzione di pensiero che il
legislatore non è riuscito ad arrestare.
Avremo, occorre appena soggiungere, necessità di essere
assiduamente confortati, oltre che controllati, nella nostra
ricerca, dalla tradizione storica. Non avremo necessità, per
questo, di invadere il campo riservato agli storici, né avremmo
in verità le forze e gli strumenti per farlo. La dottrina italiana ha
recato, anche di recente, contributi così preziosi sull'argomento,
che anche da questo punto di vista la nostra ricerca può
compiersi nelle più favorevoli condizioni.
Il ragionato inventario della dottrina italiana - vivificato dalla
luce della comparazione delle esperienze straniere a cui essa ha
largamente attinto, da un canto, e da quella della tradizione
storica, alla quale essa si riallaccia intimamente, dall'altro - ci
consentirà di riscontrare talune note comuni. La costante
presenza di queste, pur nella diversità delle opinioni in
contrasto, varrà a testimoniare la continuità di un pensiero e la
sua sostanziale fedeltà alla voce penetrante, anche se talora
apparentemente inascoltata, della tradizione. Saremo così in
grado, alla fine, di cogliere il significato e le esatte proporzioni
della «crisi» nella quale la dottrina italiana sembra dibattersi.
Ci considereremo paghi se in tal modo il lettore potrà ricevere
una chiarificazione in un argomento, la cui estrema difficoltà
costituisce un avvertimento di rito all'inizio di ogni trattazione,
e se egli potrà convincersi che la causa non costituisce un
prelibato concetto - riservato a una ristretta categoria
di savants - ma uno dei pilastri più evidenti dell'ordinamento
giuridico privato.
2. La dottrina italiana sotto il codice del 1865. Il primo
trentennio di derivazione francese.
Nel rifare il cammino percorso dalla dottrina italiana della
causa, occorre partire dalla considerazione del dato normativo,
offerto dal codice civile del 1865. Il legislatore includeva (art.
1104) la «causa lecita per obbligarsi» tra i «requisiti essenziali
per la validità di un contratto», accanto alla capacità, al
consenso e all'oggetto, e ribadiva che «l'obbligazione senza
causa, o fondata sopra una causa falsa od illecita, non può avere
alcun effetto» (art. 1119). Esso soggiungeva che, tuttavia, «il
contratto è valido, quantunque non ne sia espressa la causa»
(art. 1120), e che questa «si presume sino a che non si prova il
contrario» (art. 1121). Infine, esso dava la nozione di causa
illecita come di quella «contraria alla legge, al buon costume o
all'ordine pubblico» (art. 1122).
In tal modo, il nostro legislatore aveva chiaramente seguito la
sistemazione del codice francese, il quale contiene le medesime
disposizioni, tranne quella dedicata dal nostro art. 1121 alla
«presunzione» della esistenza della causa, con la quale si volle
risolvere un dubbio sorto tra gli interpreti del codice
napoleonico.
La chiara derivazione francese della formulazione del nostro
codice è sufficiente a spiegare perché la dottrina italiana non si
sia discostata, per circa un trentennio, dalla dottrina francese
sull'argomento. In questo periodo la causa viene riferita
esclusivamente all'obbligazione, e viene intesa come lo scopo
(but) che induce ciascun contraente ad assumere il vincolo (tesi
cosiddetta subiettiva) (2) .
Ci sembra, tuttavia, che le ragioni per le quali in questo primo
stadio la nostra dottrina, sulla falsariga di quella francese,
riferiva senza contrasti la causa all'obbligazione, meritano di
essere approfondite. Non ci sembra giustificato, invero,
condannare sommariamente, come sovente è stato fatto, tale
tendenza, senza averne prima indagato il significato.
Quando l'art. 1104 c. 1865 includeva tra i requisiti del contratto
«la causa lecita per obbligarsi», traducendo quasi alla lettera il
corrispondente art. 1108 del codice francese (une cause licite
dans l'obligation), veniva a riferire la causa a quello che esso
considerava l'elemento protagonista del contratto. Com'è noto,
la concezione del contratto recepita dal codice francese era
esclusivamente quella del contratto obbligatorio (art. 1101). Il
cosiddetto effetto traslativo immediato dei contratti diretti al
trasferimento della proprietà di cosa certa e determinata introdotto a seguito di una nota tendenza filosofica - non fu
inteso dal legislatore francese nel significato rigoroso nel quale
noi oggi siamo abituati a formularlo.
Quell'effetto
viene
dal
codice
napoleonico
ricollegato
esclusivamente alla obligation de donner, e di livrer la
chose (art. 1136 e 1138): esso passa quindi attraverso il filtro
della obbligazione (3) . Codesta concezione è, com'è noto,
tuttora perdurante nella dottrina francese, la quale continua a
seguire una nozione del contratto atta a comprendervi solo
quello obbligatorio, e continua quindi a intendere il contratto
traslativo
nient'altro
che
come
quello
che
genera
un'obbligazione di dare e insieme ne assicura la esecuzione (4) .
La preminente considerazione del momento «obbligatorio» del
contratto ha avuto in Francia un caratteristico riflesso nel
principio promesse de vente vaut vente, solennemente sancito
dall'art. 1589 del codice e tuttora seguito dalla dottrina,
malgrado recenti attenuazioni (5) , ovviamente imposte dalla
necessità delle contrattazioni moderne.
Il codice italiano del 1865 si preoccupò di precisare più
rigorosamente l'effetto traslativo del contratto, ricollegandolo
non già all'obbligazione, ma al «consenso legittimamente
manifestato» (art. 1125). Tuttavia, la definizione del contratto
contenuta nell'art. 1098 faceva riferimento esclusivamente alla
costituzione, regolamentazione o scioglimento di un «vincolo
giuridico», ed ancora più chiaramente il codice, nel dare la
nozione del contratto bilaterale, parlava di «contraenti che
si obbligano reciprocamente gli uni verso gli altri» (art. 1099).
D'altro canto lo stesso codice definiva la vendita come «un
contratto, per cui uno si obbliga a dare una cosa e l'altro a
pagarne il prezzo» (art. 1447), pur affrettandosi a soggiungere
che «la proprietà si acquista di diritto dal compratore riguardo
al venditore, al momento che si è convenuto sulla cosa e sul
prezzo» (art. 1448). È perciò comprensibile che la dottrina
italiana abbia continuato per molti anni a ripetere che il
contratto genera esclusivamente obbligazioni, pur essendosi
resa conto che il nostro art. 1125 aveva definitivamente riferito
l'effetto traslativo al «consenso» (6) .
Nella
delineata
nozione
di
contratto,
la
obbligazione
costituisce, adunque, l'elemento protagonista degli effetti. Tale
posizione è più evidente nella dottrina francese, la quale ad
esempio anche nei cosiddetti contratti reali (quali il mutuo, il
deposito, il comodato e il pegno) finisce col degradare la
consegna della cosa a semplice presupposto del contratto (7) .
Con ciò è spiegata la ragione per la quale in Francia - sulla
falsariga del dato normativo offerto dall'art. 1108 - la causa del
contratto viene tuttora identificata, quasi indiscussamente, con
la causa dell'obbligazione.
Anche il dominio, pressoché incontrastato, in seno alla dottrina
francese, della tesi cosiddetta subiettiva, trova la sua
spiegazione in modesta nozione di contratto. E invero, una
volta che l'elemento protagonista del contratto è costituito dalle
obbligazioni, la cui nascita consente il raggiungimento dello
scopo avuto di mira dalle parti, è giustificato che la causa venga
riferita alle singole obbligazioni, ed identificata in definitiva
con lo scopo che ciascuna parte persegue con l'assumere il
proprio vincolo. Cosicché, ad esempio, per ripetere una
formulazione assai comune - articolata in tali termini nel
celebre passo di DOMAT, sul quale più oltre avremo occasione
di soffermarci - nella compravendita la causa dell'obbligazione
del compratore viene individuata nel raggiungimento della
proprietà della cosa, e la causa dell'obbligazione del venditore
nel conseguimento del prezzo.
3. La nullità del contratto traslativo per mancanza di causa.
Per la piena comprensione della concezione francese, seguita
pedissequamente dalla dottrina italiana fin quasi alla fine del
secolo scorso, occorre soffermarsi altresì su di un aspetto,
solitamente trascurato, il quale riveste per noi una rilevanza di
notevole momento, anche perché esso aiuta a comprendere sia
le ragioni del sistema tedesco della causa, sia, almeno in parte,
le ragioni dell'evoluzione della dottrina italiana dalla fine del
secolo scorso.
Da quanto è stato detto nel paragrafo precedente, risulta che il
codice e la dottrina francese hanno accolto il principio
consensualistico della trasmissione della proprietà quasi come
una sovrastruttura alle linee tradizionali per le quali il contratto
produceva solamente obbligazioni. In verità, si tratta di un
principio la cui netta formulazione può esprimersi solo su di un
piano, puramente logico, di
esaltazione della volontà
individuale e della onnipotenza del «consenso». Esso diviene
necessariamente poco netto e preciso nella sua positiva
attuazione, per le limitazioni derivanti sia dal principio che
riduce la efficacia del contratto alle sole parti contraenti, sia dai
princìpi, indubbiamente connessi con questo, della pubblicità e
del possesso.
Ciononostante
il
principio
consensualistico
-
quale
è
chiaramente recepito dal codice francese, e ancora meglio
precisato dal codice italiano del 1865 - provocò, anche se i
contemporanei
non
ne
ebbero
chiara
coscienza,
una
fondamentale svolta nel sistema contrattuale tradizionale. A noi
pare che i riflessi di codesta trasformazione sulla dottrina della
causa meritino di essere attentamente considerati.
L'importanza del principio consensualistico del trasferimento
della proprietà consiste non tanto nell'affermazione che la
proprietà si trasferisce senza necessità di un atto di materiale
consegna
(la traditio era
da
molto
tempo
talmente
«spiritualizzata» da costituire ormai, specie per le cose
immobili, una pura formula notarile), quanto nella intima
compenetrazione
dell'atto
traslativo e
del contratto
consensuale, i quali per l'innanzi erano formalmente, e
soprattutto concettualmente, distinti con chiarezza (8) .
Siffatta compenetrazione non si limitò al puro terreno
concettuale, ma, è bene osservare, produsse una conseguenza di
notevole momento, e cioè quella di rendere partecipe l'atto
traslativo dei vizi del contratto consensuale. Si tratta di una
conseguenza di importanza fondamentale, perché la causa era
stata nel frattempo elevata a requisito necessario per la validità
del contratto (art. 1108 c.c. francese, 1104 c.c. it. 1865), in virtù
di una evoluzione lentamente maturatasi in seno al contratto
obbligatorio (9) , probabilmente come esplicazione della
vecchia exceptio tradizionalmente concessa al debitore sine
causa.
L'attribuzione
della vis traslativa
al
contratto
obbligatorio produsse, conseguentemente, l'affermazione del
principio della «nullità» del trasferimento della proprietà nel
caso in cui il contratto fosse mancante di causa o avesse causa
falsa.
In tal modo, la esistenza della causa obligandi venne elevata a
requisito indispensabile per la produzione dell'effetto traslativo.
Per lo innanzi, invece - se è vero che la nuda traditio non era
sufficiente a trasferire la proprietà - si riteneva di solito
sufficiente che la volontà ditransferre dominium si appoggiasse
ad
un
preesistente titulus
invalido (10) . Consensus
adquirendi anche
tradentis -
putativo
diceva
il
o
giurista
intermedio - habentis transferendi dominium potestatem,
subsistente causa vera vel putativa, ad translationis dominii
ordinata, inducit translationem dominii (11) . Di conseguenza
la
mancanza
o
il
al tradens esclusivamente
vizio
della
un'azione
causa
personale
attribuiva
per
la
restituzione, e cioè la condictio indebiti o sine causa (12) ,
mentre nei confronti dei terzi essa riceveva la medesima
disciplina dei vizi del consenso (13) .
Ovviamente codesta natura «astratta» del trasferimento
riversava i suoi effetti soprattutto a favore dei terzi acquirenti
dell'accipiens. E tanto più evidente era codesta difesa dei terzi,
quanto più ampia fosse stata la rilevanza della «mancanza» di
causa nei rapporti tra tradens eaccipiens. Si pensi ad esempio
alla importanza che codesta salvaguardia degli interessi dei
terzi rivestiva, in un momento in cui la rilevanza della causa
giungeva per avventura fino a comprendere il successivo venir
meno della controprestazione dell'accipiens, ovverosia - per
adoperare una terminologia moderna - l'inadempimento
dell'altra parte o la impossibilità sopravvenuta (condictio causa
data, causa non secuta).
Codesta tradizione, che affondava le sue radici nel diritto
romano e che era giunta fino a POTHIER (14) , venne spezzata
non appena si ebbe coscienza che il principio consensualistico
confondeva volutamente - sia pure senza forse rendersi
chiaramente conto delle conseguenze - il modus ed il titulus
adquirendi, e che esso quindi reclamava l'applicazione al
contratto traslativo del principio della «nullità» per mancanza
di causa, il quale si era maturato nel terreno del contratto
obbligatorio.
Occorre a questo punto osservare che la pura e semplice
applicazione di tali princìpi veniva a privare di colpo i terzi
subacquirenti dei vantaggi di un acquisto della proprietà il più
possibile «pura», ovverosia il più possibile svincolata dalle
sorti del titolo del dante causa, con grave nocumento alla
sicurezza della circolazione (15) . Naturalmente la questione
aveva pratico rilievo solo per gli immobili, dati i noti princìpi
vigenti in materia di cose mobili, princìpi che non senza
significato sono stati spesso considerati come contraddittori
rispetto a quello che attribuisce vis traslativa al solo consenso.
Si è quindi assistito a un tentativo di ridurre ai minimo le
descritte conseguenze dannose alla circolazione, derivanti
dalla nullità del trasferimento per mancanza di causa. Sarebbe
assai interessante cogliere i momenti attraverso i quali il
tentativo ha progredito, ma ciò ci porterebbe troppo lontano.
Esso a quel che a noi sembra, si è irradiato in due direzioni: da
un canto la dottrina ha cercato di perpetuare il principio per il
quale l'azione recuperatoria del tradens, in caso di causa
mancante o putativa, conserva carattere puramente personale,
ed è esperibile quindi solo verso l'accipiens, dall'altro essa ha
favorito il processo, probabilmente iniziatosi da tempo, diretto
a indurre l'ambito di rilevanza della «mancanza» e della
«falsità» della causa.
Per quanto riguarda la prima delle due direttive delineate, è da
osservare che i primi interpreti del codice francese vollero
applicare rigidamente il principio della nullità del trasferimento
e affermarono quindi che, non essendosi effettuato il trapasso
della proprietà dal solvens , anche l'atto di disposizione posto in
essere da quest'ultimo deve intendersi invalido, e che perciò il
terzo subacquirente soggiace alla rivendica del tradens. Ma ben
presto venne introdotto un temperamento nel senso che
il solvens, pur avendo il diritto di rivendicare la cosa nei
confronti del terzo, deve tuttavia - se costui ha acquistato di
buona fede e a titolo oneroso - indennizzarlo di tutte le
conseguenze della evizione (16) .
Nella dottrina italiana, a un certo punto, le conseguenze della
«nullità» del trasferimento per mancanza o falsità della causa
vengono addirittura ripudiate, mediante il ricorso ai princìpi
della «ripetizione dell'indebito», che il codice regolava
sicuramente come un'azione personale(17) . Si volle, in altri
termini,
ricavare
della condictio
dalla
indebiti,
perpetuazione
il
principio
della
che
disciplina
l'inesistenza
dell'obbligazione di dare non provocava necessariamente la
nullità del trasferimento. L'argomentazione aveva sicuramente
una base assai fragile, poiché la disciplina della condictio
indebiti - riprodotta anche dal codice del 1942 - si riferisce,
come avremo occasione di vedere, non già al contratto
traslativo,
ma
al
«pagamento»,
ovverosia
all'atto
di
trasferimento separato dal contratto obbligatorio, del quale anzi
costituisce esecuzione. Tuttavia, occorre riconoscere che la
linea di separazione non era eccessivamente chiara, specie per
una dottrina e per un codice che non avevano ancora ben
assimilato il principio consensualistico: ciò serve anche a
spiegare le lunghe dispute intorno alla natura contrattuale o
meno del pagamento ed alla sua «astrattezza» (18) .
Non dovette essere estranea al descritto processo la reazione
verso
un
principio
che,
ove
fosse
stato
applicato
pedissequamente, avrebbe sovvertito la disciplina tradizionale
della rilevanza dei vizi del titolo di acquisto dell'alienante.
Codesta disciplina, formatasi sin nel seno della restitutio in
integrum romana,
tendeva
a
rendere
inopponibili
al
subacquirente i vizi del titolo del dante causa Specie quando
essi non fossero facilmente rilevabili. Come è noto, questa
disciplina la quale si confonde - sul terreno immobiliare, dove
ha maggiore rilievo - con i princìpi della trascrizione, ha avuto
compiuta regolamentazione solo nel codice vigente con la
sistemazione, appunto, della disciplina della trascrizione.
4. La progressiva riduzione dell'area della mancanza di causa.
Di gran lunga più importante, in quanto ha profondamente
inciso sul concetto di causa, è il processo di erosione dell'area
di incidenza della «mancanza» e della «falsità» della causa.
Alla fine di questo processo, che era in parte già compiuto
quando fu emanato il codice italiano del 1865, la causa non ha
avuto più riferimento alla realizzazione dello scopo di ciascun
contraente, ma esclusivamente al meccanismo idoneo a quella
realizzazione.
Occorre appena osservare che codesto processo di sottrazione
di una serie di fenomeni all'area della causa non riguarda
esclusivamente
i
contratti
traslativi,
ma
anche
quelli
obbligatori. Tuttavia le conseguenze di maggiore peso, se non
le uniche, della trasfigurazione del concetto di causa che ne è
risultata si sono riverberate esclusivamente sul terreno dei
contratti traslativi.
E invero, nei contratti meramente obbligatori, la «nullità», da
qualunque ragione essa derivi, costituisce nella vita del
rapporto obbligatorio, e cioè fino all'adempimento, uno
strumento del tutto ridondante per la difesa del debitore:
la exceptio - e cioè lo strumento tradizionalmente offerto al
debitore - attraverso il quale questi rifiuta legittimamente
l'adempimento, non abbisogna di fondarsi necessariamente su
una «nullità» del vincolo. Solo quando il debitore abbia
adempiuto, e voglia ottenere la restituzione di ciò che ha
dato sine causa, occorre una più precisa determinazione
dell'azione concessagli dall'ordinamento per recuperare quanto
egli ha dato, specie per vederne i limiti nei confronti dei terzi.
Codesta sostanziale differenza tra le due situazioni si coglie
appieno ove si considerino ad esempio l'azione di annullamento
ovvero quella di risoluzione per inadempimento. Il contraente,
a seconda che abbia o meno adempiuto, si trova in posizione
nettamente diversa: nel primo caso egli, se vuole recuperare
quanto ha dato, dovrà provocare addirittura l'annientamento del
contratto, nel secondo caso egli si troverà invece nella più
comoda posizione di
potere semplicemente
«eccepire»
l'invalidità o l'inadempimento, e anzi egli spesso non incontrerà
in codesta difesa alcun limite temporale (quae temporalia ad
agendum, perpetua ad excipiendum, v. art. 1442 ultimo comma
c.c.).
Conseguentemente, finché si è rimasti nel terreno del contratto
puramente obbligatorio, i contorni della «mancanza di causa», e
probabilmente le conseguenze di tale mancanza, poterono
essere lasciati abbastanza ampi e scarsamente definiti. Nei
rapporti tra le parti, invero, la minore o maggiore ampiezza di
quei contorni e la minore o maggiore severità delle
conseguenze, non avevano eccessivo rilievo, posto che il
debitore, attraverso il rimedio abbastanza neutro della exceptio,
poteva
rifiutare
legittimamente
l'adempimento,
mentre
attraverso il rimedio altrettanto neutro della condictio, poteva
ristabilire l'equilibrio che si era rotto. Nei confronti dei terzi,
invece, ove il debitore avesse adempiuto mediante il
trasferimento della cosa, valevano le regole sopra accennate.
Il principio della «nullità» del contratto per mancanza o falsità
della causa, accolto dal codice francese, non avrebbe, pertanto,
apportato alcuna conseguenza degna di rilievo, ove esso fosse
stato, come per l'innanzi, applicato al contratto puramente
obbligatorio. Una volta esteso al contratto traslativo, esso
veniva a significare che il tradens non perdeva la proprietà ove
il contratto fosse stato mancante di causa: in tal modo veniva
introdotta una profonda alterazione al sistema preesistente, nel
quale il tradens aveva a disposizione, non già larevindica,
esperibile quindi anche verso i terzi, ma esclusivamente una
azione personale, esperibile verso l'accipiens, e diretta
alla restituzione della cosa. Ecco perché il processo di cui
stiamo discorrendo ebbe grandissima importanza nel sistema
francese e italiano, che avevano accolto il principio della nullità
del contratto - anche traslativo - per mancanza di causa. In
Germania,
invece,
come
subito
vedremo,
la
diversità
dell'ordinamento non reclamò la necessità di un processo
analogo.
Sarebbe, al proposito, interessante cogliere i nessi tra la
delineata esigenza nella quale l'ordinamento francese venne a
trovarsi, e talune norme contenute, in ordine alla trascrizione
delle domande, nella l. 23 marzo 1855 che disciplinò la
trascrizione degli atti relativi agli immobili. Ma ciò ci
porterebbe troppo lontano.
Come conseguenza del delineato processo, le ipotesi di
mancata «realizzazione» dello scopo dei contraenti sono state
escluse dall'ambito della causa ed hanno quindi trovato la loro
disciplina, non già nella «nullità», ma nell'ambito delle azioni
contrattuali e quindi meramente personali (19) . Cosicché, il
richiamo alla mancata realizzazione della causa, che talvolta
riaffiora ancor oggi nella giustificazione teorica di quei
rimedi (20) , costituisce ormai nient'altro che una vaga
reminiscenza storica. L'autorevole tentativo, fatto abbastanza di
recente in Francia (21) , di restituire alla causa la virtù di
disciplinare anche la effettiva realizzazione dello scopo delle
parti (risoluzione per inadempimento o per impossibilità
sopravvenuta, exceptio inadimpleti contractus, ecc.) deve
perciò considerarsi anacronistico perché contrastante con la
linea di evoluzione sopra descritta.
Si è di recente affermato che il codice napoleonico,
considerando elemento essenziale del contratto la causa intesa
come scopo realizzato, sarebbe caduto nel medesimo equivoco
nel quale erano caduti i suoi ispiratori, e cioè DOMAT e
POTHIER (22) . Non ci è necessario in questa sede controllare
la fondatezza di siffatta accusa, dato che a noi è sufficiente
riscontrare il processo di modificazione, durato per tutto il sec.
XIX, del principio accolto dal codice francese. Certo è,
peraltro, che nel diritto intermedio anche la realizzazione dello
scopo rientrava nell'ambito della causa (23) . Probabilmente il
giurista intermedio, ponendo in risalto il carattere «finalis»
dell'elemento
causale,
intendeva
esaltare
il
momento
psicologico dello scopo del negozio, ovverosia quello del
raggiungimento
degli
interessi
che
le
parti
volevano
soddisfare (24) , né è senza significato che la mutilazione subita
dalla area d'incidenza della causa abbia aperto il campo alle
teorie cosiddette obiettive, dirette appunto a oscurare qualsiasi
anelito della causa verso il futuro, e cioè a mettere in ombra il
carattere «finalis» di essa.
Come conclusione del processo di cui stiamo discorrendo la
causa
è
vista,
nel
sistema
francese,
esclusivamente
nell'obbligazione dell'altra parte (abbiamo già visto quale senso
pregnante assume in Francia l'obbligazione) e non già nella
realizzazione di essa (25) . Il ché vale quanto dire che la causa
va ricercata esclusivamente nel momento statico del contratto,
ovverosia nel solo sinallagma genetico, e non anche in quello
funzionale. Solo un certo tradizionalismo della dottrina
francese, congiunto a una nota riluttanza di fronte alle
derivazioni teoriche, hanno potuto perpetuare l'affermazione di
una tesi subiettiva ridotta ormai a una larva. È, tuttavia,
possibile cogliere qualche, sia pur timida, manifestazione
recente di «obiettivizzazione», nella osservazione che la causa
è lo scopo tipico determinante (26) .
Con maggiore consapevolezza codesta evoluzione è stata
sentita dalla dottrina italiana fin dalla fine del secolo scorso.
Poiché codesta consapevolezza deriva, sia pure in parte,
dall'influsso esercitato dalla dottrina tedesca, è tempo ormai di
fare qualche cenno sullo svolgimento che la dottrina della causa
ha avuto in Germania.
5. La dottrina tedesca della causa.
Per comprendere appieno il significato della dottrina della
causa in Germania occorre por mente - il che, in verità, non
sempre viene fatto - alla diversità di «ambiente» oltre che di
«ordinamento» giuridico.
In Germania, anzitutto, giunsero scarsi echi della ricca
elaborazione del concetto di causa, compiuta ad opera dei
giuristi intermedi italiani e francesi. Codesta scarsa recezione
va indubbiamente ricercata nella maggiore dose di formalismo,
di cui fu permeato più a lungo l'ordinamento germanico, e nella
minore sensibilità di fronte a quel processo di enucleazione
dell'elemento della volontà - e quindi dello scopo perseguito
dalle parti nella regolamentazione dei loro interessi - che
costituì uno dei meriti maggiori delle scuole italiana e francese
nell'epoca intermedia, e che preparò lentamente il terreno sul
quale poi riuscì a germogliare prepotentemente l'affermazione
illuministica e giusnaturalistica della onnipotenza del consenso
delle parti.
La dottrina giuridica tedesca nel secolo XIX - seguendo il passo
di quella filosofica - recepì abbastanza rapidamente il principio
volontaristico, tanto da portare a compimento la mirabile
costruzione del «negozio giuridico», ma non perdette mai
talune tracce dell'antico formalismo.
Altro punto fondamentale da tener presente per «leggere» gli
scrittori
ottocenteschi
della
causa,
è
soprattutto
che
l'ordinamento tedesco non aveva recepito il principio
consensualistico del trasferimento della proprietà, ed era
rimasto perciò fedele sia al principio romanistico della
necessità del modus accanto al titulus adquirendi, sia a quello
collaterale della validità del trasferimento della proprietà
malgrado la mancanza di causa. Nello sganciamento del modus
adquirendi dalla causa del titulus, si volle riscontrare anzi dal
SAVIGNY una affermazione della supremazia della volontà
del soggetto (27) . Il principio «consensualistico», accolto dal
codice francese, fu autorevolmente e attentamente esaminato in
Germania nei suoi conseguenziali riflessi sulla «nullità» del
trasferimento (28) . Ma, malgrado i temperamenti prospettati in
ordine
alle
conseguenze
rigorose
della
«nullità»
del
trasferimento (29) , il B.G.B. finì col respingere quel principio
e col conservare la vecchia separazione tra promessa
obbligatoria e atto traslativo. È stato spesso ripetuto che in
realtà i due sistemi - quello germanico da un lato, e quello
francese e italiano dall'altro - differiscono solo formalmente, e
che in sostanza l'Einigung diretta al trasferimento della
proprietà si confonde ed è tutt'uno col contratto obbligatorio,
mentre d'altro canto nel sistema francese e italiano il principio
consensualistico riceve una attenuazione sia per i mobili che
per gli immobili, rispettivamente nella disciplina del possesso e
della trascrizione (30) . Il che può essere, sotto certi aspetti,
esatto.
Ma, in realtà, non si è forse posto mente abbastanza che la
separazione, sia pure semplicemente concettuale, tra il contratto
obbligatorio e l'Einigung - oltre a costituire un fenomeno
«ambientale» di notevole momento - permette in Germania il
perpetuarsi di quella «astrattezza» del trasferimento, i cui
principali riflessi si colgono, come abbiamo sopra accennato,
nella difesa dei subacquirenti (31) . Codesta esigenza della
tutela dei terzi ha costretto, invece, la dottrina italiana e
francese a quel lento e faticoso lavoro, sopra delineato, di
erosione del concetto di causa e ha altresì perpetuato una serie
di equivoci ai quali più oltre dovremo accennare.
Con tali necessari avvertimenti, la comprensione della dottrina
tedesca della causa è abbastanza agevole. Può, quindi, essere
tentata una sintesi dei suoi aspetti essenziali.
I chiarimenti che precedono precisano la ragione per la quale
quella dottrina sia rimasta fedele per lungo tempo alla
tradizione
romanistica,
richiamandosi
ai
due
filoni
fondamentali ai quali il concetto di causa si riallaccia,
ovverosia alla promessa obbligatoria da un canto, e all'atto di
trasferimento
della
proprietà
dall'altro:
tipicamente
la stipulatio e la traditio. Di codesti due filoni, il secondo era
stato repentinamente troncato nel sistema francese che
riconduceva
al
contratto,
e
quindi
all'obbligazione,
il
trasferimento della proprietà (32) .
Gli scrittori tedeschi dell'800, pertanto, per molto tempo hanno
discusso della causa in due separati luoghi, e cioè nella
trattazione dell'obbligazione, ed in quella dei diritti reali (33) .
La causa era per essi, volta a volta, lo scopo (Zweck) o il
fondamento (Grund), secondo che venisse posto in risalto il
momento della realizzazione dell'interesse avuto di mira dal
soggetto, ovvero l'esistenza di un titolo da cui promanasse la
promessa o la traditio (34) . È possibile riscontrare una qualche
prevalenza della prima considerazione - che possiamo chiamare
subiettiva - nei riguardi della causa della promessa, e una
qualche prevalenza della seconda - che possiamo chiamare
obiettiva - nei riguardi della causa della traditio: ma si tratta,
tuttavia, di semplici sfumature legate alla diversa posizione in
cui si trovano rispettivamente il promittente ed il tradens, e alla
diversità della tutela - exceptio ovvero condictio - a essi
accordata. Il problema di fondo era semmai quello che
riguardava la prevalenza dell'elemento soggettivo della volontà
rispetto alla «causa», intesa come fondamento obiettivo
dell'atto di disposizione (35) .
Quando la promissio e la traditio vennero comprese nell'ampia
nozione di attribuzione patrimoniale (Zuwendung), la dottrina
della causa venne gradualmente trasferita nel terreno del
negozio giuridico - concetto sorto nel frattempo nella dottrina
tedesca - e più precisamente in quello del negozio di
attribuzione patrimoniale. Permase, tuttavia, l'oscillazione tra la
considerazione soggettiva e quella oggettiva, alla quale
abbiamo
accennato (36) :
di
questa
oscillazione,
come
vedremo, fu contagiata la dottrina italiana alla fine del secolo.
Occorre a questo punto osservare che la confluenza, nel
negozio di attribuzione patrimoniale, dei due vecchi filoni
provocò un notevole impaccio nella qualificazione della
rilevanza da assegnare all'elemento causale in seno alle
componenti del negozio giuridico. Ed invero, per le ragioni più
sopra messe in risalto, nell'ordinamento tedesco la causa
avrebbe potuto essere considerata elemento di validità solo per
il negozio obbligatorio (37) , ma giammai per il negozio
traslativo, senza dire che riusciva difficile spiegare come
potesse considerarsi elemento essenziale del negozio anche
la futura realizzazione dell'interesse perseguito dal soggetto che
continuava, e continua, a ricondursi in Germania al principio
della causa (38) . Al quale riguardo può essere interessante
segnalare
il
fallimento
dell'autorevole
tentativo
di
WINDSCHEID, il quale - annegando l'elemento causale nel più
ampio concetto di presupposizione (Voraussetzung) - veniva a
ricondurre alla volontà delle parti anche il successivo venir
meno del contratto a causa di inadempimento o di impossibilità
sopravvenuta (39) .
Ad un certo punto, l'attenzione della dottrina fu attirata dal
problema - evidentemente affiorato per ragioni pratiche
connesse al fiorire dei traffici mercantili - della «astrattezza»
della promessa obbligatoria, ovverosia della forza vincolante di
una promessa che non indicasse la «causa». L'approfondimento
di tale problema permise alla dottrina tedesca di effettuare un
diffuso approfondimento del concetto di causa e dei suoi
rapporti con la volontà, con il richiamo alla vecchia
problematica dei rapporti tra la causa cosiddetta materiale e
quella cosiddetta formale, e della distinzione tra negozi causali
e formali (40) . A seguito di questo studio, che diede importanti
contributi alla dottrina della causa, fu possibile alla dottrina
tedesca raggiungere un principio che nelle grandi linee era già
presente da molto tempo nella dottrina e nella pratica francese e
italiana
attraverso
la
cosiddetta cautio
indiscreta (41) ,
ovverosia quello per il quale la promessa obbligatoria è
vincolante anche senza la indicazione della «causa» di essa.
Tale principio fu codificato nei § 780-81 del B.G.B.
Quanto precede è sufficiente a spiegare perché il legislatore
tedesco - il quale, spesso a torto, è stato accusato di essere
teoricizzante - non solo non ha elevato la causa a requisito del
negozio giuridico, ma ha evitato di parlare della causa persino a
proposito della nullità del negozio contra bonos mores (§ 138
B.G.B.). Può considerarsi egualmente chiara la ragione per la
quale
-
una
volta
respinta
la
impostazione
della
presupposizione, inserita nel progetto sotto l'influenza di
WINDSCHEID - (42) il B.G.B. abbia regolato la «mancanza di
causa»
separatamente
per
la promessa,
e
per
le prestazioni patrimoniali. Nel primo caso il codice attribuisce
al debitore una exceptio, senza limitazioni temporali (§ 821).
Nel secondo caso viene attribuita la condictio (§ 813-20), anche
per la ipotesi - esplicitamente prevista (§ 815) - in cui non si sia
verificato
il
risultato
avuto
di
mira
dalla
parte:
la condictio viene estesa anche contro il terzo acquirente a
titolo gratuito (§ 822). Inoltre il § 812 prevede altresì un'azione
generale di arricchimento, fondata sulla mancanza di un
fondamento giuridico (rechtlicher Grund) della prestazione.
Codesti princìpi sono stati sostanzialmente recepiti dal codice
svizzero il quale, dopo aver stabilito il principio generale
dell'ingiustificato arricchimento, precisa che è dovuta la
restituzione di ciò che è stato ricevuto senza causa (Grund)
valida, ovvero in virtù di una causa che non si è realizzata ed è
venuta meno (art. 62).
Risulta altresì chiaro in che senso la dottrina tedesca accoglie i
negozi «astratti». A tal proposito occorre distinguere tra
contratti «reali» e «obbligatori».
Nei contratti «reali» la separazione concettuale dell'atto di
trasferimento (della cosa o del credito) dalla sua causa, importa
la validità del trasferimento anche quando la causa faccia
difetto, ma codesta validità non impedisce a colui il quale ha
operato la prestazione di chiedere la restituzione (ovvero
l'arricchimento) al beneficato e al terzo acquirente a titolo
gratuito (43) .
Nei sistemi francese e italiano, invece, opera il concetto della
nullità del trasferimento per la mancanza di causa, cosicché
l'interessato non ha, in linea di principio, perduto giammai il
suo diritto e potrà agire (se si tratta di proprietà, con la
rivendica) per ottenere il recupero contro l'accipiens e contro
qualunque terzo. Ma abbiamo visto che codesto energico
rimedio si trova paralizzato, per lo più, in conseguenza dei
princìpi del possesso di buona fede e della trascrizione, oltre
che a seguito delle limitazioni introdotte dalla dottrina.
Nei contratti obbligatori, e cioè soprattutto nella promessa di
pagamento e nel riconoscimento di debito previsti dai § 780781 B.G.B., la separazione dell'atto dalla causa avrebbe dovuto
produrre,
nella
mente
dei
primi
scrittori,
la
perdita
della exceptio, nel senso che il debitore, salvi casi eccezionali,
sarebbe stato tenuto ad adempiere senza poter invocare la
mancanza di causa, salvo poi il rimedio della condictio (44) .
Ma, a poco, a poco, si è finito col riconoscere al debitore la
possibilità di invocare la mancanza di causa anche in via di
eccezione (45) . Giustamente pertanto è stato affermato che
anche l'«astrazione» della promessa obbligatoria tedesca può
considerarsi meramente processuale (46) , e che essa è stata
occasionata in Germania esclusivamente dalla mancanza di una
norma, quale quella contenuta nei codici a tipo francese (art.
1132 Code civil), la quale sancisse la validità del contratto
malgrado la mancata indicazione della causa (47) . Molto
probabilmente il descritto processo, col quale la promessa
tedesca ha perduto a mano a mano la sua «astrattezza», è stato
provocato dal venir meno delle esigenze alle quali rispondeva il
contratto obbligatorio astratto, nel frattempo largamente
soddisfatte mediante la diffusione dei titoli di credito.
Chiarite in tal modo le ragioni che hanno determinato la
descritta disciplina che il B.G.B. ha dedicato alla causa, questa
cessa di sembrare, come a prima vista in verità sembra,
eccessivamente empirica. Questa disciplina è fondata sulla
tradizionale e fondamentale differenza di funzionamento della
causa nelle promesse da un canto e nell'effettivo dare dall'altro.
Codesta distinzione è tuttora valida, pur con le necessarie
trasformazioni dovute alla necessità di tener conto delle nuove
situazioni che la vita moderna appresta, diverse dalle
tradizionali categorie della promessa di pagamento e del
trasferimento della proprietà.
Quella distinzione viene perciò rispecchiata in quella recente
che distingue i negozi fondamentali (Grundgeschäfte) da quelli
di adempimento (Erfüllungs- ovvero Leistungsgeschäfte), a
seconda
che
in
essi
venga
in
considerazione
la
regolamentazione dell'accordo delle parti ovvero la esecuzione
di esso a mezzo delle prestazioni previste dal contratto (48) .
Né deve recare maraviglia che, come corollario di questo
processo, la causa nel negozio obbligatorio causale si cominci
a identificare nello scopo tipico, e venga elevata finalmente sia pure con non chiara coscienza - ad elemento del
negozio (49) .
6. La sostanziale fedeltà alla tradizione sia da parte
dell'ordinamento, sia da parte degli interpreti, in Francia e in
Germania. L'ordinamento anglosassone e quello russo: cenni .
Da quanto precede risulta che sia l'ordinamento francese che
quello
tedesco,
pur
nella
diversità
delle
formulazioni
normative, sono rimasti sostanzialmente fedeli al concetto di
causa, quale ci deriva dal diritto romano e dalla elaborazione
intermedia. Altrettanto fedeli sono rimasti gli interpreti, sia
dottrinari che - occorre qui aggiungere - giudiziari.
La significazione dell'elemento causale - almeno sul terreno del
negozio di diritto privato - non si allontana giammai, nel suo
svolgimento ormai bimillenario, dalla inerenza a un atto idoneo
ad alterare i rapporti patrimoniali preesistenti. Essa sta
costantemente a indicare laragione - ovverosia, volta a volta,
il titolo, ovvero il fondamento, ovvero ancora lo scopo (50) dell'atto col quale i privati regolano i loro rapporti
patrimoniali. La rilevanza di codesta «ragione» dell'atto è
riguardata sempre in funzione di una giustificazione delle
conseguenze (onde, dal punto di vista logico, la ratio è
anche causa delle conseguenze) dell'atto stesso, e cioè, a volta
a volta, per impedirle ovvero modificarle ovvero negarne la
conservazione, ovvero (in uno stadio avanzato) per farle
nascere.
Appartiene allo storico ricercare le ragioni per le quali a un
certo stadio - indubbiamente connesso al raggiungimento di una
maggiore consapevolezza della importanza della volontà
rispetto
alla
forma
-
sia
stato
esaltato
il
momento
dello scopo (51) ; come appartiene allo storico il ricercare i
rapporti tra la dottrina della causa e la progressiva formazione
del moderno concetto di contratto, rapporti collegati alla
consapevolezza,
acquistatasi
lentamente,
del
momento
volontaristico e quindi obbligatorio in situazioni nelle quali
l'economia primitiva aveva riscontrato un meccanico scambio
di beni: si pensi, ad esempio, oltre al primitivo baratto, alla
concezione dei contratti innominati, come di quelli nei quali
l'obbligo nasceva dalla res vel factum (52) .
A noi preme qui osservare che solamente una chiara coscienza
dei rapporti tra ordinamento giuridico e volontà individuale quale, a nostro avviso, solo il moderno storicismo e positivismo
giuridico potevano avere - avrebbe potuto accentuare, nel
descritto momento di «giustificazione» delle conseguenze
dell'atto patrimoniale, la cosciente affermazione di una vera e
propria limitazione posta
all'autonomia
privata
dall'ordinamento.
Nella tradizione, la funzione della causa - coerentemente alla
funzione dell'intero ordinamento dei «privati» - limitava la sua
rilevanza ai rapporti tra i soggetti, e serviva a misurare
esclusivamente la nascita o il permanere degli effetti
obbligatori o reali, ovverosia, per ordinamenti economici
ancora
embrionali,
la
nascita
o
il
permanere
dell'«obbligazione» o della «proprietà». Donde sorgeva una
connessione tra la dottrina della causa e quella delle «fonti»
dell'obbligazione da un canto e dei «modi di acquisto» della
proprietà dall'altro.
L'ordinamento francese, quando pervenne alla codificazione era
più maturo di quello germanico, avendo da tempo conquistato
la
categoria
generale
del
«contratto»
ovverosia
della
«convenzione» obbligatoria, idonea a comprendere qualsiasi
regolamento patrimoniale di interessi. L'inserimento - o meglio,
la sovrapposizione - del principio consensualistico del
trasferimento della proprietà portò alla singolare conseguenza
di attribuire concettualmente al contratto obbligatorio la virtù di
trasferire la proprietà: ecco perché il libro terzo del code
civil (analogamente a quello del codice italiano del 1865) inserì
i contratti obbligatori tra le différentes manières dont on
acquiert la propriété. Né la dottrina francese ha saputo
discostarsi,
come
abbiamo
già
accennato,
da
codesta
suggestione.
Sono queste le ragioni per le quali la dottrina francese è rimasta
sostanzialmente fedele alla nozione di causa formulata dal
DOMAT nell'ormai celebre passo delle sue Lois civiles (53) , la
quale rappresenta l'ultimo stadio della elaborazione millenaria
della dottrina italiana e francese della causa, collegato col
raggiungimento di una nozione indubbiamente «moderna» di
contratto. In POTHIER codesta nozione ha fatto ancora un
passo
avanti,
colla
contratti interessés in
conquista
della
contrapposto
categoria
a
dei
quelli de
bienfaisance (54) .
Da tale inserimento della causa nella convention dovette
nascere presumibilmente l'idea che essa costituisse quasi un
elemento naturale del contratto. Così si spiega che nel progetto
del code civil la causa veniva menzionata solo incidentalmente
a proposito della forza vincolante della convention (55) .
L'ordinamento tedesco, forse a ragione della più lunga fedeltà
al diritto romano, ha recepito più lentamente l'idea generale del
contratto e ha mantenuto conseguentemente la separazione tra i
modi di acquisto della proprietà e le fonti della obbligazione. È
questa forse la ragione per la quale in quell'ordinamento la
celebrazione della volontà dei privati è stata vista, non già nel
contratto ma nel «negozio giuridico», quale esplicazione della
volontà dell'individuo, secondo i canoni della filosofia allora
imperante.
Tuttavia, i due ordinamenti confluiscono nel ricollegare la
causa all'atto col quale si attua uno spostamento patrimoniale,
che è per l'uno costituito dalla convention (ovverosia dal
contratto
obbligatorio),
e
per
l'altro
dal Zuwendungsgeschäft (ovverosia dal negozio di attribuzione
patrimoniale). E abbiamo già chiarito il senso pregnante che
assume
nel
diritto
francese
la convention e
quindi
la
obbligazione, come strumento idoneo a provocare qualsivoglia
modificazione patrimoniale, e non solamente la nascita di un
obbligo.
Pertanto la insistenza con la quale la dottrina francese riferisce
la causa all'obbligazione risulta sufficientemente spiegata. Essa
corrisponde esattamente alla posizione tedesca, la quale
riferisce la causa alla attribuzione patrimoniale. Così, quando la
dottrina francese ripete che ad esempio nella compravendita la
causa della obbligazione del venditore è di avere il prezzo
mentre la causa della obbligazione del compratore è di avere la
cosa, non ci sembra che essa abbia in tal modo perduto di vista
che le due obbligazioni sono intimamente riunite in un
composito organismo, quale è il contratto: basti osservare che,
se esse fossero smembrate, cesserebbero di essere causa l'una
dell'altra.
In
sostanza,
con
quella
formula
-
dettata
esclusivamente dalla concezione subiettiva - si intende indicare
solamente che la causa del contratto di compravendita può
essere diversamente valutata dal lato del venditore e dal lato del
compratore. L'esclamazione, sia pure autorevole: «La cause
d'un contrat, cela ne signifie rien» (56) è, per l'ordinamento
francese, profondamente sbagliata, perché dimentica tutto il
travaglio secolare col quale quell'ordinamento è pervenuto alla
nozione di contratto, quale organismo che comprende e indica
non solo il consenso, ma altresì l'oggetto ovverosia le
«obbligazioni», e la causa di queste (v. infatti la indicazione
degli elementi del contratto, contenuta nell'art. 1108 code civil,
e poi nell'art. 1104 del nostro codice del 1865 e nell'art. 1325 di
quello vigente).
Costituisce, pertanto, osservazione troppo superficiale, dopo
quanto si è detto, che il contratto avrebbe allora più di una
causa, e cioè una per ognuna delle obbligazioni che lo
compongono (57) . Altrettanto superficiale è la posizione dei
cosiddetti anticausalisti del secolo XIX, i quali per lo più
identificavano la causa col consenso, ma qualche volta - forse
in base alla osservazione, di cui però non avevano coscienza,
che il «contratto» comprendeva oltre il consenso, anche
l'oggetto - ritennero che la causa finisse coll'identificarsi con la
prestazione dell'altra parte (58) .
Una volta riscontrata la sostanziale fedeltà degli ordinamenti
francese e germanico alla tradizione latina della causa (59) ,
sarebbe interessante il confronto con altri ordinamenti giuridici,
di tradizione diversa, quali l'anglosassone e il russo. Codesto
confronto ci porterebbe, però, troppo lontano, né lo riteniamo
indispensabile per la identificazione del concetto di causa
nell'ordinamento italiano.
È possibile tuttavia osservare che la consideration, ovverosia il
corrispettivo (in senso ampio), assume nell'ordinamento
anglosassone il ruolo riservato alla causa negli ordinamenti di
derivazione romanistica (60) .
Per quanto riguarda l'ordinamento russo, la causa si viene a
confondere col fondamento del negozio, ovverosia col fatto
passato, presente o futuro che giustifica la modificazione
patrimoniale (61) : i negozi astratti sono raramente riconosciuti,
ed è stata anzi spiegata in base ai canoni della dottrina
marxistica l'esigenza della «astrazione» nella circolazione dei
crediti in seno agli ordinamenti capitalistici (62) .
7. Confluenze e differenze dei due ordinamenti, germanico e
francese.
Le confluenze tra i due ordinamenti, francese e germanico dovute alla comune tradizione romana del concetto di causa hanno significative manifestazioni.
Anzitutto
in
ambedue
gli
ordinamenti
si
distingue
accuratamente la causa dai motivi, pervenendosi ai medesimi
risultati. Codesta distinzione ripete la sua origine da quella nella quale si concretò una importante tappa della dottrina
intermedia - della causa in finalis e impulsiva(63) . Con la
prima fu indicato il fine ultimo avuto di mira dal soggetto, ad
esempio nella compravendita rispettivamente il raggiungimento
del prezzo o della cosa, con la seconda i moventi psicologici
che hanno spinto ciascuno dei due soggetti. La distinzione si è
perpetuata nella dottrina moderna divenendo ovviamente più
agevole man mano che si accede ad una nozione «oggettiva» di
causa.
Quanto all'elemento causale della donazione, i due ordinamenti
confluiscono sostanzialmente, malgrado che nell'ordinamento
francese si parli di animus donandi, mentre in quello tedesco
di causa donandi. Le due diverse espressioni sono, invero,
connesse alla diversa derivazione della dottrina della causa,
l'una più legata all'elemento soggettivo e quindi a quello della
volontà del donante, l'altra più legata al momento del
trasferimento
della
proprietà: solvendi,
credendi ovvero donandi causa. È noto che nel diritto romano
classico la donazione è concepita come modo generale di
acquisto della proprietà (64) .
Si è talora affermato che, in realtà, il ricorso all'animus
donandi indica che la causa è mancante, e si è quindi affermato
che la donazione è un atto senza causa (65) . Codesta
concezione verrebbe a far coincidere la causa con la res o
col factum,
ovverosia
in
termine
moderno
con
la
controprestazione. Essa è stata ripresa, di recente, sotto un
angolo visuale diverso, affermandosi che nella donazione la
causa è sostituita dalla forma (66) .
In verità, la mancanza del riferimento ad un elemento
estrinseco costituito dal corrispettivo, induceva i giuristi
intermedi a mettere in risalto nella donazione la causa
impulsiva, ovverosia i moventi interni del donante, donde la
perdurante rilevanza dei motivi. Di conseguenza solo quando
alla donazione si trova apposto un modus, l'elemento causale
viene intravisto più chiaramente (67) .
Sul terreno della «astrazione» ovverosia dell'idoneità dell'atto
al raggiungimento ed alla conservazione degli effetti malgrado
l'inesistenza della causa, le differenze tra i due ordinamenti
sono assai meno profonde di quanto vengano di solito
considerate. Per quanto riguarda, invero, il trasferimento dei
diritti, reali o di credito, le differenze sono concettualmente
evidenti a causa della diversa concezione della «invalidità»
dell'atto traslativo per mancanza di causa, ma in pratica esse
sono assai ridotte in conseguenza del principio del possesso per
i mobili e di quello della trascrizione per gli immobili, oltre che
in conseguenza delle attenuazioni arrecate dalla dottrina e dalla
giurisprudenza.
Per la promessa obbligatoria la differenza può oggi considerarsi
praticamente esaurita a causa della diffusione dei titoli di
credito. Invece, come sopra si è avuto occasione di accennare,
fino ad una certa epoca, mentre l'ordinamento italiano e
francese conosceva la pratica dei cosiddetti billets non causés derivati da istituti evolutisi nel diritto intermedio, quale la
cosiddetta cautio indiscreta - l'ordinamento tedesco pare che
non conoscesse una eguale astrazione sia pure temporanea della
promessa dalla causa, ovverosia della causa formale da quella
materiale. Alla astrazione delle promesse, dettata dalle
necessità del commercio, l'ordinamento cercava di pervenire
attraverso il ricorso alla novazione, al riconoscimento o alla
delegazione (68) , finché fu affermata, come si è visto, la natura
astratta della promessa o del riconoscimento del debito, accolta
poi dai § 780-81 del B.G.B. (69) .
Ma l'astrattezza della promessa si è attenuata fino a divenire, a
seguito di un processo cui più sopra abbiamo accennato,
meramente «processuale», venendo così a coincidere con quella
già conosciuta in Francia ed in Italia (70) .
Piuttosto le differenze tra i due ordinamenti in ordine alla
«astrattezza» possono essere colte sotto un aspetto di solito
scarsamente posto in luce. Nell'ordinamento francese può
osservarsi la tendenza sia ad includere nel contratto tutte le
prestazioni, anche per avventuraseparate temporalmente, sia a
ricollegare alla convention o alla obligation le prestazioni che si
presentassero, per avventura, isolate. Così, ad esempio, il
trapasso della proprietà delle merci nella vendita obbligatoria,
viene ricollegato al contratto persino se le merci non esistevano
al momento in cui esso veniva posto in essere.
Nell'ordinamento tedesco, invece, vi ha una netta separazione
tra il contratto (obbligatorio) e la sua esecuzione, la quale viene
ricollegata a distinti negozi di disposizione considerati, nel
senso più volte spiegato, «astratti» (71) . Onde è sorta la
ricordata
distinzione
traGrundgeschäfte e Leistungs-
o Erfüllungs- Geschäfte, ovverosia tra negozi fondamentali e
negozi esecutivi.
Codesta differenza tra i due ordinamenti - la quale ha
rilevantissimi effetti nei confronti dei terzi - deve essere
ricollegata indubbiamente alla peculiare concezione del
contratto obbligatorio, raggiunta dall'ordinamento francese, atta
a comprendere di solito anche il momento esecutivo; la quale
concezione è stata talora esasperata fino a provocare gravi
perplessità circa la natura del pagamento, ovverosia dell'atto
traslativo posto in essere solvendi causa e circa le reazioni della
mancanza, in esso, della causa. La suggestione esercitata dal
principio della «nullità» per mancanza di causa ha reso
incomprensibile ai più la disciplina dettata dal legislatore per
la condictio indebiti, mentre ha indotto qualcuno a ritenere che
il pagamento debba considerarsi un atto astratto (72) .
Il collegamento causale della prestazione con un «contratto», al
quale il sistema francese è abituato, ha provocato inoltre gravi
perplessità in seno alla dottrina italiana - specie in quella che
aveva avuto conoscenza del sistema germanico - di fronte ad
ipotesi nelle quali una «prestazione» si presenta scissa dal
contratto. Si è parlato, talora, in verità frettolosamente, di
negozio astratto: così ad esempio per la cessione dei crediti, per
i trasferimenti fiduciari, ecc.
Su tali problemi, e su altri analoghi, ci intratterremo in seguito,
nel paragrafo dedicato ai corollari della nozione di causa da noi
accolta.
8. La dottrina italiana dopo il primo trentennio. Il codice del
1942.
È stato indubbio merito della dottrina italiana, fin sullo scorcio
del secolo XIX - ripudiando in questo come in altri campi la
sudditanza dalla dottrina francese - di porre la nozione di causa
su basi più rigorose. Codesto processo è coevo alla recezione
della nozione germanica del «negozio giuridico», operata per
primi dagli studiosi del diritto romano (73) , i quali, attraverso
la conoscenza dei pandettisti tedeschi, apportarono il lievito di
un ordinamento vigente in Germania ancor prima della
codificazione del 1896.
Si
cominciò
anzitutto
col
sostituire
giustamente
alla
«obbligazione», che la dottrina francese adoperava ed adopera,
come si è visto, in senso assai pregnante, la espressione
«prestazione», verosimilmente ricavata dalla Zuwendung della
dottrina germanica. Questa espressione, poi recepita dal codice
del 1942, è sicuramente idonea a ricomprendere anche il
momento della traslazione del dominio e degli altri diritti, che
la dottrina italiana, a differenza di quella francese, si mostrò
propensa a considerare un «effetto immediato» del consenso
delle parti(74) . Si venne così ad abbandonare, insensibilmente
prima, con maggiore coscienza poi, la nozione del contratto
come
meramente
«obbligatorio»
in
seguito
ripudiata
definitivamente dal legislatore del 1942, che nella definizione
del contratto ha soppresso il richiamo al «vincolo giuridico»,
contenuto nel codice abrogato, per parlare di «rapporto
giuridico patrimoniale».
Cominciò allora ad aver fortuna la formulazione della causa
come la «funzione», lo «scopo», ovvero la «ragione
economico-giuridica» del negozio (75) . Si suole indicare in
codesta formulazione, ricavata dalla dottrina tedesca della
causa quale scopo (Zweck) o «fondamento» (Grund), la nascita
della concezione obiettiva della causa. In realtà, in questo
primo stadio, la oscillazione tra concezione «obiettiva» e
«subiettiva» - propria, come si è visto, della dottrina germanica
- sembra aver contagiato la dottrina italiana, cosicché accanto
alla formulazione summenzionata coesiste pur sempre quella
che individua la causa per ciascun contraente nello scopo di
conseguire la prestazione dell'altro (76) ; per la donazione,
inoltre, la causa veniva pur sempre indicata nell'animus
donandi (77) .
In verità, indicando la causa come la «ragione economicogiuridica» o lo «scopo» o la «funzione» del negozio, si voleva
semplicemente adoperare una formulazione atta a comprendere
non solo i tradizionali contratti che attuano lo scambio tra le
prestazioni, ma anche tutti quegli altri con i quali le prestazioni
venissero
diversamente
combinate
(scambio,
società,
alea) (78) .
Di concezione obiettiva vera e propria deve parlarsi, invece,
allorché la causa viene sottratta ad ogni legame con la
«volontà» e sospinta nel dominio esclusivo dell'ordinamento.
Non è senza significato che codesta diversione sia stata opera di
due romanisti (79) , i quali avevano a modello un ordinamento
nel quale il formalismo aveva sovente il sopravvento
sull'elemento psicologico del negozio. Prima di essi un
tentativo era stato, in verità, effettuato da un civilista, il quale si
era ispirato ai princìpi della sociologia positivistica da un lato
ed alla dottrina anglosassone della consideration dall'altro, per
individuare la causa nella esistenza di uno svantaggio attuale o
potenziale del promittente (80) .
Secondo codesta concezione obiettiva, la causa consisterebbe
nel «rapporto obiettivo» esistente tra le parti (81) , oppure nella
«funzione economico-sociale» del negozio (82) . Di queste due
formulazioni, la seconda è stata la più fortunata fino a penetrare
nella dottrina manualistica e nella giurisprudenza, le quali non
sempre hanno avuto piena coscienza del distacco che con essa
si veniva operando dalla tradizione intermedia e dal concetto
moderno di contratto (peraltro la giurisprudenza adopera
promiscuamente quella formula oggettiva insieme ad altre
soggettive, come avremo modo di accennare più oltre).
Ad un certo punto la formulazione della «funzione» è stata
ripulita da ogni scoria agiuridica con la tesi che intravede la
causa nella «sintesi degli effetti giuridici essenziali» del
negozio (83) . In tal guisa la causa ha finito, per dichiarazione
dei più coerenti sostenitori della formulazione «obiettiva», col
coincidere col «tipo» negoziale, ed essere quindi estesa a tutti i
negozi giuridici compresi quelli che regolano rapporti non
patrimoniali. Di codesta concezione hanno tenuto conto i
compilatori del codice del 1942, i quali dichiararono di
preferirla(84) senza peraltro avere la possibilità di tradurre la
loro preferenza in una formula normativa: ché anzi la causa è
stata riferita solo al contratto (art. 1325) ed agli atti unilaterali
aventi contenuto patrimoniale (per il rinvio contenuto nell'art.
1324).
A noi sembra che la formulazione che fa capo alla «funzione»
del negozio ebbe una indubbia utilità e rappresentò un reale
progresso di precisazione, fino a quando essa - abbandonando
l'angolo visuale che limitava il rilievo della causa alle
«obbligazioni» assunte dalle parti - intese dire che lo
spostamento patrimoniale tra i soggetti trova la sua
giustificazione causale nello stesso negozio che l'ordinamento
giuridico abbia, preventivamente, riconosciuto degno di tutela.
In tal modo non si era ancora usciti dal solco della tradizione,
in quanto la causa indicava pur sempre la ratio del verificarsi o
del conservarsi degli effetti giuridici dell'atto che mette in
essere uno spostamento patrimoniale. Ecco perché l'elemento
causale era visto nello stesso tempo nella «funzione» del
negozio e nella «ragione determinante della volontà»(85) .
A questa utile precisazione, che rappresentava un indubbio
progresso rispetto alle formulazioni di DOMAT e di POTHIER
fino allora imperanti, la dottrina italiana era pervenuta per varie
vie. Anzitutto essa aveva, sia pure inconsciamente, intuito attraverso la conoscenza di un ordinamento strutturalmente
diverso quale quello germanico - che la causa negli ordinamenti
a tipo francese esauriva il suo compito all'interno del negozio,
ovverosia nella corrispettività delle prestazioni, secondo le
formulazioni di POTHIER e di DOMAT: nell'ordinamento
germanico,
invece,
momento esecutivo del
la causa serviva
contratto.
A
anche
questa
al
cosciente
considerazione «statica» della causa contribuì indubbiamente il
principio della «nullità» per mancanza di causa ed il
concomitante sfaldarsi dell'area di incidenza della mancanza di
causa, cui sopra abbiamo accennato. Non dovette, infine, essere
estraneo alla formazione della teoria della «funzione», il
fenomeno
del
moltiplicarsi
delle
varie
combinazioni
contrattuali, diverse da quelle tradizionali, il quale fece sorgere
la necessità di appoggiarsi ad una formulazione che superasse
quella
dello
«scambio»,
sia
pure
inteso
in
senso
amplissimo (86) .
La teoria «obiettiva», in questa prima fase manteneva con la
tradizione precedente saldi legami, testimoniati dal fatto che i
problemi tradizionali che la causa poneva in un ordinamento di
tipo francese, quali quelli della mancata menzione della
«causa» o quelli dei negozi astratti, continuavano ad essere
affrontati e risolti in base ai princìpi già consolidati (87) .
Nella seconda fase della tesi «obiettiva», invece, la «causa»
viene
ad
predisposto
indicare
esclusivamente
dall'ordinamento,
e
il
«tipo»
serve
a
negoziale
risolvere
esclusivamente i rapporti tra la volontà e l'ordinamento,
ovverosia il problema dei limiti dell'autonomia privata.
Cosicché, i problemi tradizionali della causa vengono risolti col
ricorso ad una cosiddetta «causa remota» (88) , ovvero
considerati estranei alla causa del negozio e sospinti in quelli
della «causa della attribuzione patrimoniale» (89) .
Di fronte a questo irrigidimento della tesi della «funzione», la
dottrina italiana, passato il primo momento di sorpresa, ha
reagito in vario modo, dando vita a quello spettacolo che
abbiamo descritto all'inizio di queste note, e cioè ad un
rinnovellarsi del problema della causa, dando l'impressione di
una vera e propria «crisi». Così, accanto ad una riacutizzazione
delle tesi anticausaliste (90) , vi ha chi propone il ritorno puro e
semplice alla tesi subiettiva (91) , vi ha chi preferisce parlare di
causa della obbligazione o della prestazione o della attribuzione
patrimoniale (92) , mentre non manca chi rimane perplesso tra
la considerazione soggettiva e quella oggettiva (93) , o chi - pur
volendo essere più rispettoso del proposito dei compilatori del
codice - si discosta dalla tesi della «funzione» (94) ; e non
mancano infine dottrine che finiscono sostanzialmente con
l'introdurre concezioni proprie di ordinamenti estranei alla
tradizione romana (95) .
È, altresì, altamente significativo che negli scritti più recenti sia
affiorata l'idea che la «funzione» del negozio costituisca un
concetto utile per lo studio dei rapporti fra ordinamento e
autonomia privata, ma che esso nulla abbia a che vedere con la
«causa».
La giurisprudenza, dal canto suo, ha continuato, a seconda delle
esigenze del caso, a parlare di causa della obbligazione, o della
prestazione, pur accettando nominalmente la tesi che fa
coincidere la causa del negozio con la sua funzione» (96) .
Anche a noi sembra che la teoria obiettiva, nella sua ultima
formulazione, abbia abbandonato il solco tradizionale per
entrare in un campo assai diverso. Lo studio dei rapporti tra
volontà del soggetto ed ordinamento e del posto che in tali
rapporti assume il «tipo» negoziale, risponde ad una indubbia
esigenza della moderna problematica del diritto privato, ma
codesta esigenza coincide solo in parte con quella che ha
tradizionalmente provocato il problema della giustificazione
dell'atto che produce uno spostamento patrimoniale. L'area dei
due problemi è comune solo in parte, come è dimostrato dal
ricorso alla causa «remota» o alla «causa della attribuzione», al
quale sono costretti i fautori della tesi obiettiva rigorosa.
Nella teoria qui presa in esame non può neanche vedersi il
necessario riflesso di una coloritura accentuatamente autoritaria
dei rapporti tra volontà e causa. La considerazione «sociale»
della causa postula solamente un più vigile controllo
dell'ordinamento
sulla
rispondenza
degli
spostamenti
patrimoniali a scopi utili non solo all'individuo ma anche alla
società (97) . Codesto controllo viene esplicato in vario modo ad esempio attraverso la tutela del contraente più debole o a
mezzo della sanzione di illiceità di talune convenzioni - e non
si esaurisce quindi nel preventivo controllo dei «tipi» negoziali.
La «funzione» del negozio non sarebbe da sola sufficiente ad
esaurire i rapporti tra volontà e causa neanche in un
ordinamento
rigidamente
formalistico
ed
estremamente
autoritario, nel quale il ruolo della volontà venisse ridotto alla
semplice scelta di un «tipo» predeterminato. In un siffatto
ordinamento sicuramente configurabile (gli sviluppi estremi del
capitalismo e del socialismo potrebbero anche lasciarlo
prevedere come non molto lontano) il problema della illiceità
del negozio riaffiorerebbe sempre, e per risolverlo sarebbe vano
il controllo del «tipo» negoziale prescelto.
In definitiva può nascere l'impressione che, per colorire un
problema venuto di recente alla ribalta con maggiore evidenza,
quale quello dell'autonomia privata, la dottrina italiana abbia,
senza necessità, voluto utilizzare un concetto già pronto, quale
quello di «causa», per giunta nobilitato da una storia
bimillenaria.
Il medesimo problema viene altrove studiato senza alcun
ricorso alla «causa» (98) , mentre lo stesso codice del 1942 - i
compilatori del quale sembravano seguaci della tesi qui
criticata - gli hanno dedicato una apposita norma, estranea
anche topograficamente a quelle dedicate alla causa, nell'art.
1322 che disciplina l'autonomia contrattuale ed i suoi limiti.
9. Nostra opinione sulla odierna rilevanza della causa.
La
reazione
obiettiva (99) ,
alle
e
ultime
le
manifestazioni
confuse
perplessità
della
che
teoria
l'hanno
accompagnata, rischiano di far naufragare anche gli indubbi
vantaggi che, nella sua prima fase, essa aveva apportato, nel
quadro della puntualizzazione del ruolo assunto dall'elemento
causale negli ordinamenti di tipi francese, pur nel rispetto della
tradizione.
Noi riteniamo che nel nostro ordinamento la «funzione» del
negozio assume frequentemente il ruolo di «causa», ovverosia
di «giustificazione» dello spostamento patrimoniale attuato col
negozio stesso, ma riteniamo altresì che la «causa» vada
ricercata talora al di fuori della «funzione» del negozio.
Dopo quanto siamo andati fin qui dicendo, possiamo essere
spediti nella esposizione della tesi da noi preferita.
Vi ha una serie di casi nei quali lo spostamento patrimoniale
trova la sua giustificazione causale nel negozio stesso che lo
mette in essere. Ciò avviene esemplarmente nei contratti
obbligatori, nei quali gli effetti, ovverosia le obbligazioni che
sorgono a carico dei soggetti, trovano la loro giustificazione
nello
stesso
negozio,
ovverosia
nell'intrecciarsi
delle
obbligazioni stesse. Tuttavia, in un ordinamento, quale il
nostro, il negozio giuridico, e più spesso il contratto, esaurisce
in se stesso l'attuazione delle «prestazioni» poste in essere dalle
parti, dato il principio, al quale più volte abbiamo accennato,
che ricollega al «consenso» il trasferimento della proprietà o di
altri diritti ovvero la costituzione di essi. In un ordinamento di
tipo
germanico,
invece,
solo
i Grundgeschäfte e
cioè
sostanzialmente solo i contratti obbligatori, esauriscono in se
stessi l'attuazione degli effetti avuti di mira dalle parti (100) .
Nel nostro ordinamento, pertanto, la «funzione» riconosciuta
degna di tutela dall'ordinamento giuridico - riconoscimento, si
noti, attuato spesso ad altri scopi, ricollegati al problema dei
limiti della autonomia privata - è sufficiente nella maggior
parte dei casi a fornire contemporaneamente al negozio il suo
fondamento causale. La «funzione» del negozio diventa,
quindi, «causa» di esso.
Vi ha invece un'altra serie di situazioni nelle quali lo
spostamento patrimoniale non si presenta come effetto di un
negozio che contenga in sé la sua causa. Tali situazioni sono
più frequenti, per le ragioni viste, in un ordinamento di tipo
germanico, ma non sono estranee ad un ordinamento di tipo
francese, e quindi al nostro. In queste ipotesi è possibile
rinvenire nel negozio solo l'indicazione dello «scopo» avuto di
mira dal soggetto, mentre la giustificazione ed il «fondamento»
della prestazione vanno ricercati al di fuori del negozio stesso.
L'avere trascurate queste ipotesi o l'averle ricacciate in blocco
nel campo dei negozi «astratti» costituisce, a nostro avviso, uno
dei principali difetti della teoria della «funzione», sia nella sua
prima che, soprattutto, nella sua seconda fase.
La prospettata distinzione era avvertita già dal giurista
intermedio allorché osservava che i contratti consensuali
portano in se stessi la causa (sunt causa sui ipsius), mentre
quello di stipulazione deve ricercare la causa fuori di esso (est
aliunde causandus) (101) . Essa è stata avvertita anche dal
filosofo del diritto naturale (102) .
Non è superfluo notare al riguardo che le prestazioni tipiche, le
quali costituiscono il contenuto dei contratti patrimoniali, sono
di numero abbastanza ristretto: trasferimento della proprietà,
costituzione e trasferimento di altri diritti, concessione del
godimento, rinunzia ai diritti, trasferimento del denaro e di
titoli di credito, assunzione di obbligazioni. Di queste
«prestazioni», l'ultima ha il contenuto più vario a causa della
mirabile
capacità
di
adattamento
rivelata
dalla
vecchia obligatio romana (103) .
Codeste prestazioni, variamente combinate, danno vita ai
contratti, nominati o innominati. Per ragioni connesse alla
«struttura» del nostro codice civile, qualcuna di queste
prestazioni trova la sua regolamentazione in occasione di quella
dei contratti tipici: così, nel nostro ordinamento, la disciplina
del trasferimento della proprietà si trova attuata più
compiutamente a proposito della compravendita, ma essa è
valevole, vi sia o non vi sia rinvio esplicito (rinvio vi ha, ad
esempio, per i vizi occulti o per la evizione), anche per gli altri
negozi nominati o innominati, nei quali si attui il trasferimento
della proprietà, quali la permuta, la donazione, la società,
la datio in solutum ecc. Altra volta avviene che, per le
medesime ragioni connesse alla «struttura» del nostro codice, la
prestazione venga disciplinata in sé e per sé senza alcun
collegamento con un contratto, come avviene ad esempio per la
costituzione o la cessione dell'usufrutto, per la servitù, per
l'enfiteusi, ecc.
Ma è evidente che non è possibile parlare di «funzione» della
prestazione in sé e per sé, e tanto meno di «causa» di essa:
l'ordinamento valuta la «prestazione» esclusivamente in termini
di liceità e possibilità (art. 1346 c.c.). La singola prestazione
riceverà la «funzione» e la «causa» in seno al contratto nel
quale sarà inserita, cosicché ad esempio, la costituzione di
usufrutto adempirà ad una funzione di scambio se, a fronte di
essa, l'altra parte si addosserà a sua volta un'altra «prestazione»
di qualsiasi tipo, mentre sarà a titolo gratuito se sarà
effettuata animo donandi. Pertanto, il problema dei cosiddetti
contratti «misti» va risolto in base alla coesistenza non già di
«cause», ma di «prestazioni», e quindi in base alla coesistenza
della disciplina propria di ciascuna di queste nel quadro della
causa del contratto (che è per lo più data dallo scambio), la
quale non può essere che unitaria. La questione del
cosiddetto negotium mixtum cum donatione riguarda invece,
veramente, la qualificazione causale, poiché essa incide
intimamente sulla ragione delle prestazioni che danno sostanza
al contratto.
Con queste avvertenze è possibile risolvere il problema della
causa della società: la varietà delle prestazioni non incide
affatto sulla unitarietà della causa di quel contratto. Egualmente
è possibile chiarire l'apparente problema della causa della
rinunzia, della rimessione, della fideiussione, e simili altri
problemi: si tratta di «prestazioni» tipiche le quali ricevono la
loro causa in seno al contratto nel quale sono inserite, senza che
per questo esse possano essere ritenute atti astratti ovvero a
«causa variabile», come è stato talora detto. In quanto esse
saranno inserite in un contratto - a titolo oneroso, a titolo
gratuito, ecc. - costituiranno una delle prestazioni ovvero
l'unica, di esso. Solo se si presentassero isolate, sorgerebbero i
problemi cui ora accenneremo. Egualmente si dica della
cessione del credito che il nuovo codice disciplina come
«prestazione» tipica, a differenza di quello abrogato (art. 1538
ss.) che la regolava come contratto di scambio.
Quando, adunque, la prestazione si inserisce in un contratto, o
in genere in un negozio, che abbia una propria «funzione», il
problema della «causa» di questo si confonde con quello della
sua
«funzione»,
nel
senso
che il
giudizio
effettuato
dall'ordinamento sulla rispondenza della combinazione di
prestazioni ad «interessi meritevoli di tutela», soddisfa
contemporaneamente l'esigenza di «giustificazione» (ratio)
della combinazione stessa. D'altro canto è bene sottolineare
che, per le ragioni sopra spiegate, ormai il rilievo della «causa»
si manifesta esclusivamente nel momento della nascita del
negozio e non accompagna il suo successivo svolgimento.
Cosicché, nel nostro ordinamento, basterà ad esempio che, a
fronte della volontà di trasferire la proprietà, l'altra parte
assuma semplicemente l'obbligo di pagare il prezzo, perché
l'esigenza causale venga soddisfatta, ed il trasferimento della
proprietà si produca: il successivo inadempimento potrà portare
alla risoluzione del contratto, e quindi all'annullamento del
trasferimento, ma in base a princìpi diversi da quelli della
causa (104) .
Può, invece, avvenire che, come si è accennato, la
«prestazione» si presenti isolata, ad esempio che taluno
prometta di pagare una somma di denaro, ovvero trasferisca la
proprietà di una cosa, ovvero costituisca una servitù, ovvero
ceda un credito ovvero rinunzi ad un diritto, limitandosi ad
indicare lo scopo che egli intende perseguire. Sorge allora il
problema della «causa», naturalmente quando la «separazione»
della
prestazione
sia
veramente
strutturale,
e
non
semplicemente estrinseca, come quando essa si manifesti ad
esempio esclusivamente in occasione della documentazione di
una sola delle due contrapposte «prestazioni» di un contratto.
Per ragioni in parte già dette, in questa seconda ipotesi sarebbe
vano ricercare la giustificazione causale dello spostamento
patrimoniale nella «funzione» della prestazione ovvero in
quella del negozio che la pone in essere. Si pensi, ad esempio,
alla «prestazione» attuata per uno scopo illecito, ovvero per
adempiere un dovere «morale o sociale» (105) . In entrambi i
casi, è sintomatico che persino il codice attuale abbia riguardato
il
problema
sotto
il
profilo
della
«ripetizione»
della prestazione (art. 2034-35).
Il problema ha rilievo anche per la prestazione effettuata per
adempiere un obbligo. È abbastanza frequente l'osservazione
che qui la «prestazione» - che può essere quella dovuta, ovvero
un'altra: datio in solutum - trova la sua giustificazione causale
al di fuori di essa, e cioè nell'esistenza di una precedente
obbligazione, la quale, è bene osservare, potrebbe anche non
avere origine negoziale (ad esempio, risarcimento per atto
illecito). Anche in questo caso, si noti, il codice continua a
riguardare la situazione sotto il profilo della «ripetizione»
dellaprestazione (art. 2033, 2036). Sono altresì da prendere in
considerazione i casi in cui la «prestazione» viene effettuata per
mero spirito di liberalità, e quelli in cui essa è diretta a
retribuire un'altra prestazione, messa in essere «di fatto»,
ovverosia senza che esista un valido vincolo.
La differenza tra le due descritte serie di ipotesi è, nel nostro
ordinamento, assai profonda.
Nella prima, infatti, la causa, consistendo nella «funzione» del
negozio, è desumibile dal contenuto del negozio stesso. Come
si è detto, il controllo della rispondenza, del regolamento
concreto di interessi attuato dalle parti, ai fini perseguiti
dall'ordinamento, è sufficiente anche per la giustificazione
causale (ratio) del negozio. Siffatto controllo si esercita sul
contenuto concreto del negozio posto in essere dalle parti,
ovverosia sul diverso intrecciarsi delle prestazioni del negozio
stesso.
Nella seconda ipotesi, invece, la «prestazione» - la quale, come
si è detto, non ha in sé e per sé una «funzione» - viene ad essere
caratterizzata anzitutto dallo scopo indicato dalla parte che la
pone in essere. Così, ad esempio, la «prestazione» può essere
effettuata per adempiere una precedente obbligazione civile o
naturale, ovvero per mero spirito di liberalità, ovvero per
retribuire una controprestazione di «fatto». Qui la causa assume
di
conseguenza due
significazioni, l'una
spiccatamente
soggettiva e l'altra oggettiva: venendo la prima ad indicare lo
scopo, e la seconda l'effettiva esistenza del rapporto che
giustifica la prestazione. Riferendoci alla prestazione fatta a
scopo di adempimento, i due aspetti si manifestano nello scopo
di adempiere da un canto, e nella effettiva esistenza
dell'obbligo da adempiere dall'altro. Si ripresenta allora quel
dualismo, al quale più sopra abbiamo avuto occasione di
accennare, tra l'aspetto soggettivo e quello oggettivo della
causa - ovverosia tra lo «scopo» ed il «fondamento» del
negozio, tra Zweck e Grund -, il quale costituisce un motivo
fondamentale della teoria ottocentesca della causa, la quale lo
deriva
dai
due
filoni
fondamentali
della promissio e
della traditio.
L'aspetto soggettivo - sul quale il giurista intermedio, così
attento nello scoprire le manifestazioni di volontà del soggetto,
aveva appuntato la sua analisi, indicando la causa come
«obiectum intellectus» - (106) sembra essersi gradualmente
oscurato attraverso il processo che ha finito con l'identificare la
causa nella «funzione» del negozio, e col riservare, per lo più,
la rilevanza dell'«intento» ad altri riflessi, diversi da quelli
causali. Esso conserva, tuttavia, la sua rilevanza nell'ipotesi in
cui la prestazione si presenta, nel senso sopra visto, «isolata».
Si spiega così che, in queste ipotesi, si faccia tuttora riferimento
all'animus (ad esempio, animus solvendi). Probabilmente, il
ripiegamento dell'elemento causale della donazione nell'animus
(donandi) è dovuto alla necessità di rinvenire - in assenza di un
obiettivo intrecciarsi di prestazioni - la caratterizzazione
causale della prestazione fatta donationis causa nello scopo
(animus) di chi effettua la prestazione (107) . Come sopra è
stato accennato sostanzialmente per tali ragioni si è addirittura
dubitato che la donazione, salvo quella modale, abbia una
«causa». Né l'apparizione dello «scopo» sulla scena della causa
può provocare confusione nella distinzione tra causa e motivi;
la data di nascita di questa distinzione - ovverosia di quella
tra causa finalis e causa impulsiva - va appunto collegata alla
consapevolezza della rilevanza dello «scopo» perseguito dalle
parti, ed alla conseguente preoccupazione di distinguerlo dai
moventi intimi (108) .
La distinzione tra le due ipotesi porta ad una fondamentale
differenza in ordine alla rilevanza dell'elemento causale.
L'esigenza della presenza della causa, quale «requisito» del
negozio, viene appieno soddisfatta nei negozi i quali hanno in
sé la propria causa, ovverosia in quelli in cui la «funzione»
soddisfa contemporaneamente l'esigenza causale. In essi può,
quindi, parlarsi di «mancanza di causa», allorché il negozio
posto in essere dalle parti non ha una «funzione» che
l'ordinamento
riconosce
idonea
«a
realizzare
interessi
meritevoli di tutela» (art. 1322), ovvero esso - ove si tratta di
negozio «tipico» - arrechi in concreto una siffatta alterazione
dello schema predisposto dall'ordinamento, da perdere quella
idoneità.
La «mancanza» di causa viene, quindi, a coincidere con la
mancanza di idonea «funzione», cosicché il problema coincide
sostanzialmente con quello dei limiti della autonomia privata.
Entro l'ambito delineato, e nel rispetto dei rapporti tra
«volontà» e «funzione», può venire risolto il problema della
cosiddetta conversione del negozio, il quale nulla ha che
vedere, quindi, con il concetto di causa.
In queste ipotesi il principio della «nullità» per mancanza di
causa non può dar luogo a perplessità. Si ripete anzi, dai critici
della teoria della funzione, che la causa, intesa come
«funzione», non può mai mancare: il che è esatto, pur con i
chiarimenti che abbiamo dato, solo per queste ipotesi.
Cosicché, se le parti pongono in essere un negozio di
compravendita nel quale manchi il corrispettivo, la volontà
diretta al trasferimento non è da sola idonea alla produzione di
questo effetto, ed esso pertanto non si produce. Il venditore non
perde dunque la proprietà della cosa, che potrà sempre
rivendicare presso il suo compratore ed altresì presso i terzi,
beninteso con i limiti derivanti dalle norme relative alla
trascrizione ed al possesso.
Il principio della nullità per mancanza di causa ha dato invece,
giustamente, luogo a notevoli perplessità nella seconda serie di
ipotesi,
e
cioè
allorché
la
«prestazione»
si
presenti
strutturalmente «isolata».
La soluzione del problema deve tener conto dei due aspetti,
soggettivo ed oggettivo, che assume qui, come si è visto,
l'elemento causale. A noi sembra che, su questo terreno, si
perpetui ancora, nel nostro ordinamento, quel fenomeno che,
derivato dalla elaborazione intermedia, è stato posto in risalto
soprattutto dai pandettisti tedeschi: la presenza dell'elemento
soggettivo è sufficiente per la validità del negozio, mentre
quella dell'elemento oggettivo è necessaria esclusivamente per
la conservazione degli effetti di esso.
Codesto principio ci sembra sancito nel nostro ordinamento
nelle norme che disciplinano la «ripetizione» dell'indebito,
ovviamente applicabili a qualunque «prestazione» e non solo a
quella che attua il trasferimento della proprietà. Da esse si
ricava con evidenza che la obbiettiva inesistenza dell'obbligo
che il solvens intende adempiere, non produce la «nullità», ma
semplicemente la «ripetibilità» della prestazione. Cosicché,
nell'ipotesi di trasferimento di cosa certa e determinata - nella
quale soltanto la questione rileva praticamente, dato che nelle
altre ipotesi la pretesa del solvens si risolve in un'azione
meramente
risarcitoria
-
il tradens avrà
a
disposizione
esclusivamente un'azione personale verso l'accipiens, mentre di
fronte ai terzi avrà azione solo se essi abbiano acquistato a
titolo gratuito (art. 2038).
In verità, solo la suggestione nascente dal principio della
«nullità» del negozio per mancanza di causa - del quale
principio ci siamo sforzati, nel corso di questo scritto, di
spiegare il significato ed i limiti - ha potuto far nascere gravi
perplessità in ordine alla giustificazione dell'azione di
ripetizione dell'indebito regolata dagli art. 2033 ss. Il codice,
regolando su basi tradizionali codesta azione, ha mostrato - pur
senza averne, probabilmente, piena coscienza - che anche nel
nostro ordinamento la mancanza di causa può dar luogo talora
ad una semplice azione di ripetizione. Il che corrisponde, si
noti, anche ad una esigenza di tutela dei terzi subacquirenti,
oltre che dello stesso accipiens di buona fede, i quali - mentre
nel caso in cui il titolo del dante causa è costituito da un
negozio che ha in sé la sua causa potrebbero aver l'onere di
controllare il vizio di questa - nella ipotesi in cui il titolo del
dante causa è costituito dal trasferimento di beni che si dice
attuato in esecuzione di un rapporto preesistente, sia esso una
obbligazione civile o naturale, non sono in grado, nella maggior
parte dei casi, di effettuare quel controllo.
Non deve recare maraviglia che la mancanza di un elemento
causale possa non provocare la nullità dell'atto. A parte
l'esempio del sistema tedesco, è da osservare che la condictio
indebiti, nella sua lunghissima storia, ha sempre avuto la
funzione di recuperare - a prescindere da qualsiasi «invalidità»
del trasferimento - le prestazioni effettuate sine causa, ed essa è
stata come tale accolta sia dal codice abrogato che da quello del
1942. D'altro canto anche il consenso, al pari della causa, si
trova elencato negli art. 1325 e 1418 tra i «requisiti» per la
validità del contratto, eppure sono note le ipotesi in cui il vizio
del consenso produce semplicemente la annullabilità.
Né ci
sembra
azzardato
il
richiamo all'istituto
della
simulazione, nel quale si trova conferma che la mancata
corrispondenza tra lo scopo dichiarato ad un effettivo
«fondamento» del negozio, ovverosia la non «verità» dello
scopo, dà luogo ad una invalidità che non pregiudica il
terzo (109) .
Potrebbe a prima vista recare perplessità il fatto che il nuovo
codice, dopo aver conservato l'istituto della condictio indebiti,
abbia dimenticato di menzionarlo a proposito della trascrizione,
pur così riccamente disciplinata. Probabilmente il legislatore ha
ritenuto che la tutela del terzo, nelle ipotesi, certo scarsamente
frequenti, di condictio immobiliare, venga sufficientemente
assicurata dalla norma che obbliga costui, solo se acquirente a
titolo gratuito, a risarcire il solvens nei limiti del proprio
arricchimento (art. 2038). Potrebbe, tuttavia, farsi ricorso anche
all'art. 2652 n. 6, il quale prevede la trascrizione delle domande
dirette ad impugnare il titolo del dante causa (110) .
10. Corollari della nostra opinione. Il negozio astratto. La
illiceità della causa.
La delineata distinzione permette, a nostro avviso, di risolvere
in maniera più aderente al nostro diritto positivo i problemi
fondamentali della causa, e cioè quello del negozio astratto problema che include in sé quello della «indicazione» della
causa dell'atto di autonomia privata - e quello della causa
illecita: si tratta dei due soli problemi residui nel nostro
ordinamento, com'è fatto palese dalla stessa normativa del
codice, il quale da un canto pone la causa tra i «requisiti» del
negozio patrimoniale (art. 1325 n. 2), dall'altro si preoccupa di
disciplinare la causa illecita (art. 1343-45).
Il problema della «astrattezza» ha aspetti multiformi, che non è
facile ridurre a sistema. Con esso si intendono, in realtà, vari
problemi, i quali assumono rilevanza diversissima, pur avendo
come unico punto di riferimento i legami del negozio con la sua
causa: da quello della configurabilità di un negozio senza
causa, a quello della necessità della menzione della causa, a
quello della reazione dell'ordinamento di fronte alla mancanza
di causa, a quello dell'acquisto di un diritto «puro», ovverosia
sganciato dalla causa, a quello dell'assunzione di un obbligo
che, pur coincidendo con uno preesistente, sia sganciato dalla
causa di questo.
Non è semplice ridurre a sistema codesti vari aspetti della
«astrattezza», né è certo questo il luogo adatto per farlo. Ci
limiteremo pertanto ad illustrare brevemente i vari problemi
alla luce dei princìpi che siamo andati via via riscontrando nelle
pagine precedenti.
Occorre anzitutto partire dall'osservazione che nel nostro
ordinamento - come negli altri ordinamenti a noi noti - vige il
fondamentale principio in base al quale il negozio patrimoniale
presuppone una giustificazione causale, cosicché quando questa
manchi la legge assicura, alle parti che hanno posto in essere il
negozio, il ristabilimento dell'equilibrio: variano soltanto gli
strumenti posti all'uopo a disposizione dei soggetti. È da
osservare che, per esempio, persino nella promessa astratta di
debito, quale sembrava prevista dal § 780 B.G.B. il
debitoresine
causa poteva
esperire
l'azione
generale
di
arricchimento, che nell'ordinamento germanico ha un contenuto
più ricco della corrispondente azione prevista dal nostro codice.
Nell'evoluzione della dottrina germanica, oggi la vecchia
promessa astratta è anzi ridotta ad una larva, posto che al
debitore
viene
ormai
riconosciuta
indiscriminatamente
la exceptio fondata sulla mancanza di causa, come più sopra si
è avuto modo di vedere.
Non ci nascondiamo che la diversità degli strumenti può attraverso la onerosità della prova o le limitazioni di essa,
ovvero attraverso le preclusioni che all'esercizio dell'azione
derivano dal decorso del tempo - condurre per avventura, nel
caso concreto, all'offuscamento del principio della necessità di
una
giustificazione
causale
per
qualsiasi
spostamento
patrimoniale. Ma codesto principio ci sembra innegabile, come
per altro risulta - su di un piano diverso, s'intende - confermato
dal riconoscimento, ribadito dagli art. 2040-2041 c.c., di
un'azione generale di arricchimento «senza causa».
Di solito si ritiene causale il negozio solo allorché la mancanza
della causa venga sanzionata con la «nullità», ed astratto invece
quello in cui essa dia luogo all'esperimento di altri strumenti,
quale la condictio indebiti. Codesta impostazione del problema
corrispondeva sostanzialmente a quella, che fu opera dei
pandettisti tedeschi, per la quale è astratto quel negozio nel
quale la volontà è sufficiente a far sorgere gli effetti, senza
necessità che una «causa» effettivamente esista: la inesistenza
della causa darà luogo all'esperimento dellacondictio. Codesto
principio, sorto sul terreno del trasferimento della proprietà, è
stato poi esteso - soprattutto, come si è accennato, ad opera del
BÄHR - alla promessa di pagamento, dando vita alle citate
norme dei § 780-781 B.G.B. Nell'ordinamento tedesco,
adunque, si configura di solito un negozio astratto allorché la
mancanza dell'elemento causale non impedisce il sorgere degli
effetti voluti dalle parti, sebbene tale mancanza abiliti le parti a
porre in essere successivamente i rimedi idonei a rimuovere
quegli effetti (111) .
È tuttavia da osservare che sul terreno del trasferimento della
proprietà - al quale, come si è detto, era originariamente
riservata l'«astrattezza» - l'ordinamento tedesco considera
astratto il contratto traslativo (dinglicher Vertrag), anche e
soprattutto perché la scissione della causa, da esso posta in
essere, opera nei confronti dei terzi (112) .
Nasce allora la necessità di distinguere a seconda che
l'«astrattezza» venga solo ad indicare una diversità dello
strumento che l'ordinamento offre alle parti, che hanno posto in
essere il negozio, per reagire alla mancanza di causa, ovvero
essa venga ad indicare che effettivamente il «diritto» o
l'«obbligo» sorto in capo ai terzo è separato dalla causa
originaria.
Si potrebbe fondatamente porre in dubbio la legittimità della
qualifica di negozio «astratto» nella prima delle ipotesi sopra
delineate, essendo forse opportuno riservare la nozione di
«astrattezza» esclusivamente alla seconda ipotesi, nella quale si
assiste veramente ad una scissione della situazione giuridica
dalla sua causa.
Comunque, se deve continuare a parlarsi di negozio «astratto»
anche nel primo senso, non vi è dubbio che questa categoria
abbia cittadinanza in Italia.
A tal riguardo, il problema il quale sorge ovviamente solo nella
seconda delle ipotesi delineate nel paragrafo precedente,
ovverosia in quella di prestazione «isolata» riguarda anzitutto la
necessità che il negozio indichi o meno la sua «causa». Il
codice abrogato disponeva, sulla falsariga di quello francese,
che «il contratto è valido, quantunque non ne sia espressa la
causa» (art. 1120), e soggiungeva - risolvendo così un dubbio
affacciatosi agli interpreti del code civil - che «la causa si
presume sino a che non si prova il contrario» (art. 1121). Si è
sempre ritenuto, in Francia e in Italia, che il legislatore abbia
voluto
riferirsi
esclusivamente
alle
promesse
obbligatorie (113) . Non dovette essere estraneo a tale
soluzione il mutamento operatosi a seguito del principio per il
quale il trasferimento della proprietà era «incapsulato» nel
contratto obbligatorio: per il trasferimento della proprietà,
adunque, non poteva più configurarsi l'ipotesi in cui esso non
palesasse la sua causa.
Il nuovo codice non ha ripetuto, nella disciplina generale della
causa del negozio, le due menzionate norme, le quali
sostanzialmente riappaiono a proposito della promessa di
pagamento e della ricognizione di debito (art. 1988), oltre che
nella disciplina dei titoli di credito. Sembra, quindi, che il
nostro legislatore escluda la validità di un negozio - che attui
una «prestazione» diversa dalla promessa obbligatoria (o dal
riconoscimento) - posto in essere senza riferimento alla
«causa», ovverosia allo «scopo», sia pure erroneo o simulato
che le parti si propongono (solvendi, credendi, ecc.), ed al
rapporto che ne costituisce il «fondamento» (cosiddetto
rapporto fondamentale).
Il problema dell'«astrattezza» del trasferimento della proprietà,
specie immobiliare, riguarda, tuttavia, anche il quesito se esso
possa essere attuato al di fuori dei contratti che adempiono
tradizionalmente alla funzione di trasferire la proprietà. La
nozione di causa da noi accolta permette agevolmente una
soluzione affermativa del problema. Una volta che la «causa»
non si confonde col «tipo» negoziale, non può dubitarsi che un
idoneo riferimento causale assista il trasferimento attuato
dichiaratamente per adempiere un'obbligazione preesistente
(adesempio, datio in solutum, ritrasferimento al mandante da
parte del mandatario senza rappresentanza), ovvero per
adempiere un'obbligazione naturale (ad esempio, esecuzione di
fiducia testamentaria), ovvero per uno scopo di garanzia. Ove,
poi, il riferimento causale fosse erroneo, non ne conseguirebbe,
per le ragioni viste, la «nullità» del trasferimento, ed
al tradens competerebbe
solo
la condictio
indebiti ovvero
un'analoga azione recuperatoria o risarcitoria. Nelle ipotesi
accennate - e specialmente nel trasferimento a scopo di
garanzia - si assiste sovente al tentativo di attribuire al negozio
la qualifica di «vendita» (a scopo di garanzia) onde giustificarlo
causalmente: probabilmente si tratta di una non perfetta
individuazione della «prestazione» costituita dal trasferimento
della proprietà, la quale, come sopra si è accennato, viene
disciplinata dal legislatore a proposito della compravendita
esclusivamente per ragioni connesse alla «struttura» del nostro
codice (114) .
Codesti princìpi vanno messi in correlazione con quello,
delineato nel precedente paragrafo, per il quale nel nostro
ordinamento la validità del negozio che pone in essere una
prestazione «isolata» - che è l'unica ipotesi in cui può sorgere il
problema dell'«astrattezza» - è assicurata dall'indicazione dello
scopo perseguito dal soggetto, e del «fondamento» del negozio,
con le accennate eccezioni per i titoli di credito e per la
promessa obbligatoria o riconoscimento del debito. Sia la
«verità» dello scopo, sia la effettiva esistenza di una situazione
idonea a raggiungerlo, non riguardano la «validità» del
negozio, ma esclusivamente la conservazione dei suoi effetti; si
tratta di princìpi lentamente formatisi attraverso i secoli, che il
nostro ordinamento non ha affatto ripudiato.
I rimedi offerti a chi ha posto in essere un negozio valido, ma
«senza causa», sono perciò diretti alla eliminazione delle
conseguenze dell'atto. Essi sono differenti, a seconda che il
negozio sia puramente obbligatorio - come nei titoli di credito o
nella promessa che non indica la causa -, ovvero abbia posto in
essere una prestazione diversa. La diversità si ricollega
sostanzialmente
ai
due
vecchi
rimedi
della exceptio e
della condictio. Esistono tuttavia, come vedremo, significative
convergenze tra i due rimedi.
Ove si tratti di prestazione obbligatoria, ovverosia della
promessa di pagamento (o del riconoscimento del debito), il
debitore può paralizzare la pretesa del creditore attraverso una
eccezione di inesistenza della causa, addossandosi l'onere della
prova di codesta inesistenza. Può sorgere solo il dubbio se il
debitore abbia l'onere di proporre necessariamente l'eccezione,
ovvero se egli possa esperimentare la condictio dopo il
pagamento. Al riguardo deve osservarsi che, qualora la
promessa di pagamento sia contenuta in taluni atti formali, la
legge può disporre che in certi casi la eccezione del debitore
non paralizzi la pretesa del creditore (v., ad esempio, art. 63 l.
camb.), salvo il rimedio delle azioni recuperatorie.
Occorre, al riguardo, osservare che la prova della inesistenza
del rapporto fondamentale incombe al debitore, secondo
l'opinione che a noi sembra preferibile (115) , non solo quando
la promessa (o il riconoscimento) non indichi né lo scopo né il
«rapporto fondamentale», nel qual caso si parla di astrazione
processuale (116) , ma altresì nell'ipotesi in cui quella
indicazione sussista. Vi ha, naturalmente, una maggiore
onerosità della prova nella prima ipotesi, rispetto alla seconda
nella quale basterà dimostrare l'inesistenza dello specifico
scopo indicato nella promessa (117) . Per quanto riguarda il
riconoscimento, il problema è però complicato dalla incidenza
dello scopo di accertamento (v. Accertamento: negozio di ).
Le ragioni per le quali la promessa produce una sostanziale
deroga ai princìpi dell'onere della prova, non possono essere
qui approfondite. Ci basterà, in questa sede, rilevare una
significativa coincidenza con ciò che avviene nel caso in cui la
«prestazione»
sia
diversa
dalla
promessa
(o
dal
riconoscimento). In tale ipotesi l'ordinamento assicura al
soggetto il recupero della prestazione in natura ovvero per
equivalente: il rimedio è condensato nella condictio indebiti.
Ora, è da osservare che anche qui è tradizionale l'addossamento
al solvensdell'onere della prova della «inesistenza della causa»,
giustificato il più spesso con la considerazione che il solvens,
con l'adempiere, ha in un certo senso riconosciuto l'esistenza
del debito (118) .
In base alle considerazioni di cui sopra ci sembra quindi da
respingere la qualifica di negozi «astratti», attribuita ad
esempio al trasferimento a scopo di garanzia, ovvero
alla solutio o alla consegna della cosa (119) , ovvero alla
promessa e alla ricognizione (120) , nei quali non vi ha affatto
alcuna rottura dei legami del negozio con la sua causa, né il
sopravvento della volontà sulla causa.
Di «astrattezza» vera e propria dovrebbe invece parlarsi qualora
le parti, attraverso una nuova manifestazione di volontà,
avessero il potere di sostituire in maniera completa il rapporto
preesistente. Codesta sostituzione potrebbe essere conseguenza
di un nuovo negozio che avesse in se stesso la sua causa (ad
esempio, transazione ovvero negozio di accertamento), nel qual
caso la «astrazione» ha un ruolo assai modesto, considerando
da un canto la prevalenza della «funzione» del nuovo negozio,
dall'altro la reazione esercitata talora sul nuovo negozio dalla
mancanza o dai vizi del rapporto preesistente. Quando, invece,
quella sostituzione non è contenuta in un negozio «causale»,
può dubitarsi se la pura volontà delle parti possa rompere del
tutto i legami con la «causa» del rapporto preesistente: in base
alla disciplina della novazione (art. 1234 c.c.) il dubbio
dovrebbe risolversi negativamente (121) .
Una più decisa separazione della situazione giuridica dalla
«causa» può aversi talora con l'entrata di un terzo nel rapporto.
Le esigenze della circolazione possono talora condurre ad una
irrilevanza della «causa» del negozio nei confronti del terzo, il
quale acquisti diritti od assuma obbligazioni sulla base di una
situazione preesistente. Così, ad esempio, la posizione del
giratario della cambiale è diversa da quella del cessionario del
credito, ed altresì la posizione del fideiussore è diversa da
quella del delegato.
La diversità però non consiste nella natura causale o astratta del
negozio in base al quale viene acquistato il diritto o viene
assunto l'obbligo. Codesto negozio potrebbe essere, per
avventura, «astratto» solo nel senso sopra delineato, ove esso
non indicasse la sua causa. Ma anche, ad esempio, la girata,
come cessione del credito, potrà costituire «prestazione» di un
negozio a titolo gratuito ovvero essere attuata per adempiere un
obbligo preesistente (122) . La vera e propria «astrattezza» si
manifesta, invece, esclusivamente nell'acquisto del diritto di
credito, che nella girata è «puro» da ogni vizio della causa (art.
21 l. camb.), a differenza di ciò che avviene nella cessione
(arg. ex art. 1409 c.c.).
Nel nostro ordinamento, inoltre, a differenza di quello
germanico, il trasferimento della proprietà non dà luogo, per le
ragioni già sopra spiegate, all'acquisto di un diritto «puro»
ovverosia avulso dalla «causa» del negozio di acquisto del
dante causa. Si tratta di un principio largamente temperato,
tuttavia, da quelli del possesso e della trascrizione.
Infine, per quanto concerne la causa illecita, c'è abbastanza
concordia nella dottrina italiana, nel senso che essa non possa
configurarsi nei contratti nei quali la causa coincide con la
«funzione» del negozio: in questi potrà parlarsi semmai di
«oggetto» illecito, allorché la prestazione di una delle parti o di
entrambe impedisca la formazione di un valido contratto. La
causa va distinta altresì dal motivo illecito, il quale è anch'esso
idoneo talora, a invalidare il negozio: ipotesi della frode alla
legge (art. 1344) (123) , e più in generale, del «motivo illecito
comune ad entrambe le parti» (art. 1345).
Sono note, pertanto, le perplessità di coloro che - riducendo in
ogni ipotesi la causa alla «funzione» del negozio - sono
costretti a rilevare che, una volta che l'ordinamento ha
riconosciuto idonea la «funzione» del negozio, diventa arduo
configurare una causa illecita (124) .
A nostro avviso, la illiceità della causa assume piena rilevanza
nella sopra delineata ipotesi di prestazione «isolata». In questa
ipotesi la illiceità della causa si configura in quella dello
«scopo» (di «scopo» parla ad esempio l'art. 2035 a proposito
della «prestazione contraria al buon costume») (125) , ovvero
in quella del rapporto che costituisce il «fondamento» della
prestazione: si pensi all'ipotesi in cui una prestazione venga
effettuata per conseguire una controprestazione illecita ovvero
per retribuirla (126) . Il negozio, ove palesasse codesto «scopo»
ovvero codesto «fondamento» illecito, sarebbe sicuramente
nullo per causa illecita. Ove invece il negozio non palesasse il
suo scopo, esso sarebbe valido per il principio, sopra delineato,
della sufficienza dell'indicazione di uno scopo o fondamento
anche se falso, oltre che - ove si tratti di promessa obbligatoria
- per quello, anch'esso sopra commentato, che esonera la
promessa o il riconoscimento da qualsiasi indicazione dello
scopo o fondamento. La reazione alla illiceità della causa sarà
affidata
allora
alla condictio o
alla exceptionei
confronti
dell'altra parte. In ogni caso, varrà la limitazione posta dall'art.
2035 a sfavore del solvens che abbia eseguito la prestazione
«per uno scopo che, anche da parte sua, costituisca offesa al
buon costume». Sono note le dispute sulla applicabilità di
questa norma alle altre ipotesi di prestazione «illecita», ma la
risoluzione di esse non appartiene al nostro tema (127) .
11. Conclusione: la causa del negozio giuridico.
Ci
sembra
che
l'excursus compiuto
sia
sufficiente
ad
individuare i limiti nei quali il concetto di causa può essere
ancora considerato fondamentale, ed insieme a spiegare le
ragioni della odierna crisi della dottrina italiana.
L'occasione della crisi va ricercata, come si è già accennato, nel
fruttuoso tentativo di sistemazione, compiuto dalla dottrina
italiana fin sullo scorcio del secolo passato, quando essa ebbe
coscienza, attraverso lo studio dell'ordinamento germanico,
della struttura del nostro ordinamento. Codesto tentativo l'ha
indotta ad un certo momento a valicare i confini segnati dalla
tradizionale rilevanza che l'elemento causale è in grado di
assumere. Nel valicare questi confini, tuttavia, gli scrittori non
potevano rimanere sordi al richiamo della tradizione: la cura di
risolvere i problemi tradizionali, è stata allora lasciata alla
«causa remota» ovvero alla «causa della attribuzione»
permettendo così alla «causa del negozio» di prendere il volo al
di là dei vecchi confini, quasi liberata da una inutile zavorra.
Chi non avesse presente codesta genesi del fenomeno, potrebbe
- di fronte alle varie nozioni di causa attualmente utilizzate
dalla dottrina e dalla giurisprudenza italiane - legittimamente
ricevere l'impressione di una confusione di linguaggi (128) . In
realtà, come abbiamo già avuto occasione di notare, il concetto
di «causa», riferito al negozio giuridico, ha finito per essere
spesso utilizzato per uno scopo estraneo a quello tradizionale,
ovverosia per indagare le ragioni ed i limiti dell'autonomia
privata nella scelta dei «tipi» negoziali. A noi sembra che anche ponendosi da un punto di vista di sottoposizione della
volontà negoziale alla volontà della legge - (129) alla «causa»
del negozio può essere assegnato il compito non sappiamo se
più modesto o più essenziale, di giustificare di fronte
all'ordinamento i movimenti dei beni da un individuo all'altro.
La «iusta causa» assunse appunto, nella elaborazione dei
giuristi intermedi, codesto significato: in tal senso è esatto che
la causa indicò il punto di incontro della volontà individuale
con l'ordinamento (130) . Solo una trasposizione ellittica può
far pensare che la «causa» si identifichi col «tipo» negoziale, il
che può considerarsi legittimo solo fino a quando si rimanga sul
modesto terreno di una catalogazione dei contratti (a titolo
oneroso, a titolo gratuito, aleatori, di garanzia, ecc.) (131) .
Ma non ci sembra possibile andare al di là, e ritenere che la
«causa», intesa come «tipo» negoziale, costituisca il limite
posto dall'ordinamento alla volontà dei soggetti: ciò rappresenta
il frutto di un ulteriore e profondo processo, che ha provocato, a
nostro avviso, una vera e propria appropriazione di un concetto,
quale quello di causa, singolarmente idoneo ad indirizzare il
problema dei rapporti tra volontà individuale ed ordinamento
nel senso di una subordinazione della prima rispetto al
secondo (132) .
Il descritto processo ha provocato lo straripamento della causa
su terreni nuovi, quali quello dell'atto negoziale non
patrimoniale, dell'atto amministrativo e addirittura dell'atto
illecito.
Quanto agli atti negoziali non patrimoniali, la dottrina che
identifica la causa col «tipo» negoziale, non può ovviamente
operare
alcuna
distinzione
a
seconda
del
contenuto,
patrimoniale o meno, dei rapporti posti in essere dai
soggetti (133) . L'applicazione del concetto di causa al terreno
dell'atto amministrativo, è servita ad indicare i limiti della
attività della pubblica amministrazione in riferimento alla
«funzione» dell'attività medesima: si è potuto così porre su basi
sicure il cosiddetto eccesso di potere, inteso quale deviazione
dell'atto dalla sua «funzione» (134) . L'applicazione del
concetto di causa all'atto illecito, civile o penale, è frutto invece
di una nozione estremamente soggettiva della «causa», intesa
come «fine» di qualsiasi atto, lecito o illecito (135) .
Dopo quanto abbiamo detto, ci sembra superfluo spiegare le
ragioni per le quali codeste invasioni operate dalla causa in
territori estranei alla tradizione del concetto, non ci sembrano
accettabili. Anche se limitassero la loro efficacia ad una sfera
meramente terminologica, esse sarebbero pur sempre fonte di
confusione.
La tendenza ad attribuire alla «causa» nuovi territori ci sembra
tanto più ingiustificata, in quanto attraverso i secoli si è sempre
assistito ad una progressiva puntualizzazione del concetto,
mediante la riduzione dell'area della sua incidenza. La parola
«causa», le origini della cui significazione nel campo del diritto
sono assai incerte (136) , ha indubbiamente perduto attraverso i
secoli parecchi dei suoi significati originari, quale quello
generale di ratio (applicato ad esempio alla legge, causa
legis (137) ) o di titolo, ovvero quello - ancor più generico - di
«presupposto». Così ad esempio non si parla più di «causa del
possesso» (vedi invece l'art. 2115 del codice 1865), o di causa
dotis, riferito al matrimonio. Riaffiora talora, nel linguaggio
legislativo, qualche vecchia accezione. così l'art. 2745 c.c. parla
di «causa» del credito nel senso di «fonte».
È connessa indubbiamente a tale progressiva puntualizzazione
del concetto di causa, la perdita del terreno delle successioni. A
parte il significato della espressione mortis causa, la quale
serve solamente ad indicare il fondamento dell'acquisto, senza
riferimento all'atto di volontà del de cuius, la causa del
testamento - nel senso di «ragione» che ha indotto il testatore si è identificata giustamente nel «motivo», sia pure a volte
rilevante. In tal senso l'espressione «causa» dell'art. 827 del
codice abrogato è stata opportunamente sostituita con quella
«motivo» dal corrispondente art. 624 del codice vigente (138) .
La vera e propria
causa, quale
giustificazione dello
spostamento patrimoniale, può avere rilievo solo nei rapporti
tra i sopravvissuti, nel senso che le disposizioni del de cuius espresse nel testamento ovvero fiduciariamente - possono
costituire il fondamento causale di negozi compiuti dall'erede o
dal legatario, per adempiere un legato od un modus ovvero una
«fiducia» disposti dal testatore.
Della perdita, da parte del sistema francese ed italiano,
dell'immenso territorio costituito dal cosiddetto sinallagma
funzionale, abbiamo già parlato. Essa costituisce una delle
fondamentali svolte della dottrina della causa, in quei due
sistemi: di essa, come si è detto, solo la dottrina italiana ha
saputo trarre le conseguenze sul terreno dogmatico (139) .
Con i limiti ed i chiarimenti di cui sopra, crediamo, in
conclusione, che il concetto di «causa» possa essere utilmente
accoppiato ancora a quello di «negozio giuridico», pur con la
piena coscienza delle incertezze a cui quest'ultima figura ha
dato luogo nei tempi recenti (140) . La causa, riferita al negozio
che attua uno spostamento patrimoniale, può tuttora, nei due
aspetti
fondamentali
sopra
delineati,
ovverosia
quale
«funzione» e quale «scopo» ed insieme «fondamento» - che
forse riproducono in termini «moderni» la vecchia distinzione
tra contratti materiali e formali - considerarsi, sia pure in senso
diverso dall'antico, il «vestimentum» che ricopre la nuda
manifestazione di volontà permettendole di apparire nel mondo
del diritto (141) .
>> Note: <<
(1) Sono parole del FERRARA jr., Teoria dei contratti, Napoli, 1940,
127.
(2) Una utile rassegna della dottrina italiana e francese fino alla fine
del secolo XIX è contenuta in BARASSI, Causa, in Enciclopedia
giuridica italiana, III, 2, sez. I, Milano, 1905, 922 ss.
(3) Le norme del codice francese citate nel testo destarono la
meraviglia del WINDSCHEID, il quale esclamava di stentare a
credere ai propri occhi (Zur Lehre des Code Napoleon von der
Ungültigkeit der Rechtsgeschäfte, Düsseldorf, 1847, 33 ss.)
(4) Cfr. ad esempio PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, Traité de
droit civil, II, Paris, 1957, 16, 99-100.
(5) Cfr. BOYER, Les promesses synallagmatiques de vente, in Rev.
trim. dr. civ., 1949, 1 ss.
(6) Cfr. per tutti, GIORGI, Teoria delle obbligazioni, Firenze, 1891,
III3, 7 ss.; IV3, 236.
(7) PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, op. cit., II, Paris, 1957, 31;
III, Paris, 1958, 743; e più chiaramente COLIN et CAPITANT,
Cours élémentaire de droit civil français, II11, a cura di LA
MORANDIÈRE, Paris, 1953, 22-23, il quale riduce al solo deposito
la categoria dei contratti reali, poiché negli altri casi l'obbligazione
nascerebbe indipendentemente dalla consegna.
(8) Tale compenetrazione è negata invece, anche per il diritto
positivo attuale, dal GORLA, L'atto di disposizione dei diritti, in
Ann. Perugia, 1936, 77 ss., dell'estratto.
(9) Tale evoluzione è pienamente compiuta in POTHIER, Trattato
delle obbligazioni (trad. it.), I, Milano, 1805, 65.
(10) Sul problema v. FUNAIOLI C. A., La tradizione, Padova, 1942,
31 ss.; per il diritto romano VOCI, Modi di acquisto della proprietà,
Milano, 1952, 138 ss.; cfr. altresì PUGLIATTI, Acquisto del diritto,
in questa Enciclopedia, I, 1958, 517.
(11) BALDO, ad Cod. 2. 3. 20 (n. 5) Venetiis 1615. Il giurista
concludeva: «Quaelibet ergo traditio ordinatur a sua causa».
(12) L'elemento volontaristico della traditio fu, come è noto, esaltato
dal SAVIGNY, Das Obligationenrecht, II, Berlin, 1853, § 78, 256 ss.
(13) POTHIER, op. cit., 65 ss.
(14) POTHIER, Trattato del dominio di proprietà (trad. it.), Napoli,
1820, 209-210.
(15) Sulla importante funzione del trasferimento «astratto» della
proprietà, propria del sistema romano, v. JHERING, L'esprit du droit
romain (trad. MEULENAERE), IV2, Paris, 1880, 204 ss.
(16) V. da ultimo ESMEIN, Obligations, II, in Traité pratique de
droit civil a cura di PLANIOL et RIPERT, VI2, t. II, Paris, 1954, 34.
Citazioni dei più antichi autori in GIORGI, op. cit., V3, Firenze,
1892, 179-180. Per la tesi rigorosa della nullità e quindi della
rivendicazione si espresse anche il WINDSCHEID,op. cit., 338 ss.
(17) Per primo sostenne questa tesi il GIORGI, op. cit., V, 180 ss.,
seguito a poco a poco da tutta la dottrina italiana (v. citazioni in
ANDREOLI, La ripetizione dell'indebito, Padova, 1940, 4, nota 10).
Contra, in critica a GIORGI, CAMPOGRANDE, Condictio indebiti,
in Dig. it., VIII, 1, Torino, 1896, 636 ss., che accoglie tuttavia la
attenuazione introdotta dalla dottrina francese.
(18) Cfr. SCUTO, Sulla natura giuridica del pagamento, in Riv. dir.
comm., 1915, I, 365 ss. che considerò il pagamento come un negozio
astratto al pari del dinglicher Vertrag tedesco.
(19) Basta confrontare ad esempio un elenco di casi che si
includevano nella «mancanza di causa» in AUBRY et RAU, Cours
de droit civil français, IV5, Paris, 1902, 548 nota 7, con quelli che
ora vi si fanno rientrare (v. ad esempio ESMEIN, op. cit., t. I, Paris,
1952, 335).
(20) Per la risoluzione per inadempimento, v. le citazioni in
AULETTA, La risoluzione per inadempimento, Milano, 1942, 115
ss.
Per la risoluzione per impossibilità sopravvenuta, v. GORLA, Del
rischio e pericolo nelle obbligazioni, Padova, 1934, 97 ss.
In giurisprudenza viene spesso richiamata la «mancanza di causa» a
proposito della impossibilità sopravvenuta della prestazione (v., ad
esempio, Cass. 21 gennaio 1957, n. 131, in Giur. it., 1957, I, 1, 980).
(21) Cfr. CAPITANT, De la cause des obligations3, Paris, 1927, 27
ss., 259 ss.
(22) GORLA, Il contratto, I, Milano, 1955, 273 ss., 298 ss.
(23) TIRAQUELLUS, esordiva nel suo trattato Cessante causa cessat
effectus (Tractatus varii, Lugduni, 1567, 7) osservando che non vi era
regola più importante di quella in forza della quale il venir meno
della «causa» fa venir meno gli effetti «in legibus, contractibus et
ceteris dispositionibus».
(24) Codesta esaltazione del momento psicologico del negozio è
seguita attentamente dal CALASSO (Il negozio giuridico, Milano,
1959), il quale pone in risalto, in pagine fondamentali, il progressivo
affermarsi della prevalenza della volontà sulla forma.
(25) Cfr. CROME, Parte generale del diritto privato francese
moderno (trad. it.), Milano, 1906, 292 ss.
(26) Cfr. PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, op. cit., II, 118. Cfr.
altresì MAURY, Le concept et le rôle de la cause des obligations
dans la jurisprudence, in Rev. int. dr. comparé, 1951, 485 ss.
(27) Cfr. SAVIGNY, loco cit.
(28) Cfr. WINDSCHEID, op. cit., 297 ss.
(29) In critica a WINDSCHEID, v. CROME, Der Begriff der
«causa» bei den Rechtsgeschäften und der Inhalt und das
Anwendungsgebiet der art. 1131 bis 1133 «Code civil», in Zeitschr.
f. franz. Zivilrecht, XXI (1891), n. 304 ss.; 540 ss., p. 330 ss.
(30) V., ad esempio, CROME, la cui autorità è indiscussa, anche per
la perfetta conoscenza di entrambi i due ordinamenti (Les similitudes
du Code civil allemnand et du Code civil français, in Code civil.
Livre du centenaire, II, Paris, 1904, 585 ss.).
(31) Sul significato dell'astrattezza dell'Einigung in relazione ai terzi
acquirenti, cfr.; da ultimo, LENT, Sachenrecht, München-Berlin,
1949, 28 ss.; WESTERMANN, Lehrbuch des Sachenrechts3,
Karlsruhe, 1956, 402 ss.
(32) Ancora POTHIER parla della causa della traditio (Trattato del
dominio di proprietà, cit., n. 228 ss., 209 ss.).
(33) V., ad esempio, ARNDTS, Lehrbuch der Pandekten13, Stuttgart.
1886, II, § 145, p. 286 ss.; III, § 233, p. 106 ss.; e DERNBURG,
Diritti reali (trad. it.), Torino, 1907, 163 ss.; ID., Diritto delle
obbligazioni (trad. it.), Torino, 1903, 85 ss.
(34) Cfr. ARNDTS, loco cit.
(35) V. al proposito le osservazioni del SAVIGNY (op. cit., 261 ss.)
contro la tesi di LIEBE, il quale riteneva più conforme alle fonti
romane la prevalenza del fondamento obiettivo sulla volontà.
(36) V., ad esempio, REGELSBERGER, Pandekten, I, Leipzig,
1893, 608 ss., e BEKKER, System des heutigen Pandektenrechts, II,
Weimar, 1899, 147 ss.
(37) Così, ad esempio, ARNDTS, op. cit., 464, assegnava, sia pure
confusamente, al difetto della causa obligandi, la conseguenza di
rendere inefficace l'obbligazione.
(38) V. ad esempio, BEKKER, op. cit., 147.
(39) WINDSCHEID, Die Lehre des römischen Rechts von der
Voraussetzung, Düsseldorf, 1850.
(40) L'inizio di questo movimento di pensiero si fa risalire al BÄHR,
Die Anerkennung als Verpflichtungsgrund, Leipzig, 1855, II ed.
1867, III ed. 1894.
(41) Sugli sviluppi storici v. CAPITANT, op. cit., 129 ss.; ASTUTI, I
contratti obbligatori nella storia del diritto italiano, I, Milano, 1952,
144 ss.
(42) Sul I progetto e sulle ragioni della sua revisione, v. FADDA e
BENSA, Note a WINDSCHEID, Diritto delle pandette, IV, Torino,
1930, 564 ss.
(43) Cfr. per tutti ENNECCERUS-NIPPERDEY, Allgemeiner Teil
des bürg. Rechts, II14, Tübingen, 1955, 621 ss.; LARENZ, Lehrbuch
des Schuldrechts, II, München-Berlin, 1956, 296 ss. Per la cessione
del credito cfr. LARENZ, op. cit., 280 ss.
(44) Cfr. BÄHR, op. cit., 128 ss. Sulle perplessità cui diede luogo in
Germania la connessione tra exceptio e condictio nelle promesse
astratte v. LA LUMIA, L'obbligazione cambiaria ed il suo rapporto
fondamentale, Milano, 1923, 55 ss.
(45) Cfr. BRÜTT, Die abstrakte Forderung, Berlin, 1908, 117 ss.;
VON TUHR, Der allgemeiner Teil des deutschen bürg. Rechts, II, 2,
Berlin, 1918, 127; ENNECCERUS-LEHMANN, Recht der
Schuldverhältnisse14, Tübingen, 1954, 791; LARENZ, op. cit., II,
264-5. Per il diritto svizzero VON TUHR, Partie générale du Code
federal des obligations, I, Lausanne, 1926, 233.
(46) Cfr. NEUBECKER, Der abstrakte vertrag in seiner historischen
und dogmatischen Grundzügen, in Archiv bürg. Rechts, XII (1903),
73.
(47) V. ASCARELLI, La letteralità dei titoli di credito, in Riv. dir.
comm., 1932, I, 237 ss., 255.
(48) V., da ultimo, LARENZ, op. cit., II, 298 ss.
(49) Cfr. LARENZ, loco ult. cit., ed ENNECCERUS-NIPPERDEY,
op. cit., 622 ss.
(50) Cfr. per tutti CALASSO, op. cit., passim, ed i testi ivi
richiamati.
(51) Come è stato sopra detto, codesta evoluzione è messa
magnificamente in risalto nell'opera citata del CALASSO.
(52) Cfr., in proposito, le belle pagine di ASTUTI, op. cit.; ID., I
princìpi fondamentali dei contratti nella storia del diritto italiano,
estr. da Ann. st. dir., 1957, 13 ss.
(53) Il DOMAT distingue da un canto i contratti nei quali
«l'engagement de l'un est le fondament de celui de l'autre»,
includendovi anche quelli in cui - come, ad esempio, il mutuo sembra che uno solo dei due contraenti si obblighi; dall'altro le
donazioni e gli altri contratti in cui uno solo «fait ou donne» nei quali
«l'engagement de celui qui donne a son fondament sur quelque motif
raisonnable et juste», soggiungendo che «ce motif tient lieu de
cause» (Lois civiles, libro I, Paris, 1777, tit. I, sez. I, n. 5 ss.).
(54) POTHIER, dopo aver premesso la nozione generale di contratto
(Trattato delle obbligazioni, cit., 15), così individua la causa (p. 65):
«Ogni obbligazione deve avere una causa onesta. Nei contratti
commutativi la causa dell'obbligazione che contrae l'una delle parti
consiste in ciò che l'altra parte le dà, o si obbliga di darle, o nel
pericolo che essa si assume. Nei contratti di beneficenza, la liberalità
di cui una delle parti vuole usare verso l'altra è una causa sufficiente
dell'obbligazione contratta dalla prima».
(55) L'art. 711 del Progetto stabiliva che «Toute convention, quelle
qu'en soit la cause, fait loi entre ceux qui l'ont formée». Nella
Relazione di BIGOT-PREAMENEU si ripeteva che non vi è
obbligazione senza causa (v. Motivi delle leggi contenute nel Codice
civile dè Francesi (trad. it.), Torino, s.a., 219).
(56) Cfr. CAPITANT, op. cit., 26. V. altresì JOSSERAND, Les
mobiles dans les actes juridiques du droit privé, Paris, 1928, 148.
(57) L'osservazione è per il diritto francese abbastanza frequente da
parte dei cosiddetti anticausalisti (v. citazioni infra). Anche in
Germania è stato osservato che il negozio, ove consti di più
attribuzioni, dovrebbe avere più cause (v. COHN,Zur Lehre vom
Wesen der abstrakten Geschäfte), in Arch. civ. Prax., CXXXV
(1932), 73.
(58) Cfr. per tutti LAURENT, Principes de droit civil, XVI5,
Bruxelles-Paris, 1893, 151 ss.; PLANIOL, Traité élémentaire de droit
civil, II, Paris, 1930, n. 1037 ss.; GIORGI, op. cit., III, 558 ss., il
quale afferma che la causa può identificarsi o con l'oggetto o col
consenso.
(59) Lo stesso dicasi degli ordinamenti derivati, quali, ad esempio,
rispettivamente quello spagnolo e quello svizzero. Per il diritto
svizzero v. per tutti GUHL, Le droit fédéral des obligations, Zürich,
1947, 78 ss.; OSER-SCHÖNBERGER, Das Obligationenrecht, I2,
Zürich, 1929, 109 ss.
Il codice spagnolo del 1888, il quale è modellato sul codice francese
(art. 1261 = 1108 c. franc.; 1275 = 1131; 1277 = 1132), ha accolto
addirittura una definizione di causa (art. 1274): «Nei contratti onerosi
si intende per causa, per ciascun contraente, la prestazione o la
promessa di una cosa o di un servizio dell'altra parte; nei contratti
remuneratori il servizio o beneficio che si remunera, in quelli di pura
beneficenza la mera liberalità del donante».
(60) V. le importanti ricerche del GORLA, in vari scritti e ora in Il
contratto, cit. Cfr. altresì MANCINI, La «consideration» nel diritto
nord-americano dei contratti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1953, 1041
ss.
(61) Cfr. GENKIN, nella raccolta Sowjetisches Zivilrecht (trad. ted.),
I, Berlin, 1953, 253 ss., e FLEISCHIZ, ivi, II, 387 ss.
(62) Cfr. KLEINE, Die historische Bedingtheit der Abstraktion von
der Causa, Berlin, 1953, 11 ss.
(63) Su tale tappa importantissima della dottrina intermedia della
causa v. CALASSO, op. cit., spec. 231 ss., 293 ss.
(64) Cfr. BIONDI, Successione testamentaria e donazioni, Milano,
1955, 677 ss.
(65) V. ad esempio PEROZZI, Intorno alla donazione, ora in Scritti
giuridici, II, Milano, 1948, 705 ss.; contra FADDA, Teoria del
negozio giuridico, Napoli, 1909, 313, e da ultimo, TORRENTE, La
donazione, Milano, 1956, 172 ss.
(66) Cfr. GORLA, Il contratto, cit., I, spec., 316 ss.
(67) Sull'intrecciarsi del modus - ed altresì della condizione - con la
causa nella dottrina più antica, v. MILONE, La causa nei negozi
giuridici, in Filangieri, 1898, 422 ss.
La teoria della «presupposizione» del WINDSCHEID, sopra
ricordata, tendeva, com'è noto, a ricomprendere anche il modus, oltre
alla causa.
(68) V. l'opera fondamentale di VON SALPIUS, Novation und
Delegation, Berlin, 1864, 119 ss., 493 ss., 502 ss.
(69) Sul ruolo dell'obbligazione astratta nel XIX secolo, v. DE
PAGE, L'obligation abstraite en droit interne et en droit comparé,
Bruxelles, 1957, 219 ss.
(70) Il CAPITANT, invece (op. cit., 359 ss.) ritiene che anche il billet
non causé deve considerarsi astratto. La tesi dominante nella dottrina
e nella giurisprudenza francese è nel senso della astrazione
meramente processuale: cfr. per tutti PLANIOL-RIPERTBOULANGER, op. cit., II, 123.
(71) Cfr. per tutti ENNECCERUS-NIPPERDEY, op. cit., 623 ss.
(72) Cfr. SCUTO, op. cit., 353 ss.; e per il diritto francese, CROME,
Der Begriff der causa, cit., 355 ss.
(73) Cfr. soprattutto SCIALOJA, Negozi giuridici, (corso di diritto
romano dell'anno accademico 1892-1893), Roma, 1893 (ristampa,
1938); FADDA, op. cit.
(74) Che la «prestazione» indichi qualunque spostamento
patrimoniale, è indicato tra l'altro dalla espressione «contratti a
prestazioni corrispettive», adoperata anche dal codice, la quale
include pure i contratti traslativi.
(75) Cfr. SCIALOJA, op. cit., 89 ss.; BENSA, Compendio
d'introduzione allo studio delle scienze giuridiche e d'istituzioni di
diritto civile italiano, Torino, 1897, 160, parlava di «ragion d'essere
intrinseca».
(76) Cfr. COVIELLO N., Manuale di diritto civile italiano4, parte
gen., Milano, 1929, 411; SCIALOJA, op. cit., 90 ss.
(77) Cfr. COVIELLO, op. cit., 411.
(78) Ciò è evidente nella esemplificazione di COVIELLO, loco cit.
(79) BONFANTE, Il contratto e la causa del contratto, (già in Riv.
dir. comm., 1908, I, 115 ss.), ora in Scritti giuridici varii, III, Torino,
1921, 131 ss.; BETTI, da ultimo in Teoria generale del negozio
giuridico2, Torino, 1955, 167 ss.; ID., Causa del negozio giuridico, in
Noviss. dig. it., III, Torino, 1959; ID., Cours de droit civil comparé
des obligations, Milano, 1958, 64 ss.
(80) VENEZIAN, La causa dei contratti, Roma, 1892, ora in Opere
giuridiche, I, Roma, 1919, 347 ss.
(81) BONFANTE, loco cit.
(82) BETTI, opere citate.
(83) PUGLIATTI, Nuovi aspetti del problema della causa dei negozi
giuridici, e Precisazioni in tema di causa del negozio giuridico, ora in
Diritto civile. Saggi, Milano, 1951, 75 ss., 105 ss.
(84) V. Relazione al codice, n. 613.
(85) V., ad esempio, DE RUGGIERO, Istituzioni di diritto civile, I7,
Messina, 1934, 262 ss.
(86) Si pensi ad esempio che persino la transazione trovò per lungo
tempo la sua giustificazione causale nella «corrispettività»:aliquid
datum aliquid retentum (BUTERA, Transazione, in Dig. it., XXIII, I,
Torino, 1912-16, 1673). Solo la dottrina della funzione ha potuto
dare alla transazione una più adeguata giustificazione causale (per il
primo, CARNELUTTI, La causa della transazione, in Studi di diritto
civile, Roma, 1916, 492 ss.). Per quanto concerne i contratti aleatori,
quali il gioco e la scommessa, v. MANENTI, in GLÜCK,
Commentario alle Pandette, XI, Milano, 1903, 647 ss.
(87) Cfr. COVIELLO, op. cit., 416 e DE RUGGIERO, op. cit., 266268.
(88) Cfr. BETTI, luoghi citati.
(89) Cfr. PUGLIATTI, Diritto civile, Saggi, cit. spec. 78. Rimangono
perplessi tra la causa del negozio e quella dell'obbligazione o
dell'attribuzione, RESCIGNO, Studi sull'accollo, Milano, 1958, 91
ss.; PAVONE LA ROSA, Riflessioni conclusive sulla «causa» del
titolo del trasporto marittimo, in Riv. dir. civ., 1957, 491 ss. Cfr.
altresì, SCOGNAMIGLIO, Contributo alla teoria del negozio
giuridico, Napoli, 1950, il quale tuttavia afferma (245 ss.) che la
funzione sociale del negozio è immedesimata nella stessa figura del
negozio. Cfr. altresì AURICCHIO, La simulazione del negozio
giuridico, Napoli, 1957, 14 ss. È seguace della teoria obiettiva della
funzione CARIOTA-FERRARA, Il negozio giuridico, Napoli, s.a.,
580 ss.
(90) Cfr. ALLARA, La teoria generale del contratto, Torino, s.a., 6667; PACCHIONI, Dei contratti in generale2, Padova, 1936, 100 ss.;
FERRARA, sr., op. cit., 127 ss., il quale era stato prima seguace della
tesi soggettiva (Teoria del negozio illecito nel diritto civile italiano2,
Milano, 1914, 73).
(91) Cfr. STOLFI G., Teoria del negozio giuridico, Padova, 1947, 22
ss.
(92) Cfr. MESSINEO, Manuale di diritto civile e commerciale, I8,
Milano, 1950, 476; III9, Milano, 1959, 40; ASCARELLI,
L'astrattezza nei titoli di credito, in Riv. dir. comm., 1932, I, 385 ss.;
BARASSI, La teoria generale delle obbligazioni2, II, Milano, 1948,
53 ss.; DEIANA, Alcuni chiarimenti sulla causa del negozio e
dell'obbligazione, in Riv. dir. civ., 1938, 3 ss., 105 ss.; BARBERO,
Sistema istituzionale del diritto privato italiano5, I, Torino, 1958, 407
ss.; FERRARA F. jr., La girata della cambiale, Roma, 1935, 294 ss.
(93) Cfr. SANTORO-PASSARELLI, Dottrine generali del diritto
civile6, Napoli, 1959, 126 ss., 169 ss.; OSTI, Contratto, in Noviss.
dig. it., IV, Torino, 1959, 506-508. TRABUCCHI, Istituzioni di
diritto civile12, Padova, 1960, 158 ss.; TORRENTE,Manuale di
diritto privato4, Milano, 1960, 162 ss.
(94) Cfr. REDENTI, La causa del contratto secondo il nostro codice,
in Studi in onore di Cicu, II, Milano, 1951, 291 ss.
(95) Cfr. GORLA, Il contratto, cit., I, spec. 159 ss.
(96) Identificano la causa del contratto con la funzione economicosociale: Cass. 21 ottobre 1955, n. 3406; Cass. 15 gennaio 1947, n. 32,
in Monit. trib., 1947, 35; Cass. 28 febbraio 1946, n. 217, in Foro it.,
1947, I, 32; identificano la causa del negozio col motivo tipico,
immediato o prossimo, che viene equiparato alla funzione
economico-sociale: Cass. 14 ottobre 1958, n. 3251, in Giust. civ.,
1959, 75; Cass. 28 agosto 1952, n. 2781; Cass. 24 aprile 1952, n.
1139; Cass. 11 aprile 1951, n. 858; distinguono la causa del negozio
intesa quale funzione economico sociale dalla causa dell'obbligazione
che consiste nella prestazione dell'altra parte: Cass. 29 aprile 1952, n.
1190; Cass. 23 aprile 1948, n. 577, in Giur. it., 1947, I, 1, 446;
confondono la causa obligandi con la funzione del negozio: Cass. 16
febbraio 1949, n. 255, in Giur. compl. cass. civ., 1949, II, 340; Cass.
28 gennaio 1943, in Giur. it., 1943, I, 1, 196.
(97) Cfr. al riguardo DEMOGUE, Traité des obligations en général,
II, Paris, 1923, 525 ss., 540 ss.
(98) Cfr. in Francia, DUGUIT, L'État, le droit objectif et la loi
positive, Paris, 1901, 165 ss.; in Germania, LARENZ, Vertrag und
Unrecht, I, Hamburg, 1936, 36 ss.
(99) Anche in Spagna, per un ritorno alla tesi tradizionale cfr.
ALBALAVEJO, La causa, in Rev. der. priv., 1958, 315 ss.
(100) Lo STAMPE riteneva che per codesti negozi non ha senso il
parlare di causa, e che la causa vada riferita solo ai negozi di
esecuzione (Das Causa-Problem des Civilrechts, Greifswald, 1904,
24 ss., e Causa und abstrakte Geschäfte, in Zeitschr. ges.
Handelsrecht, 1904, 391 ss.).
(101) Cfr. BALDO DEGLI UBALDI, Ad Cod. 4, 30, 13 (n. 23),
Venetiis, 1615, riportando l'opinione di Nicolò Matarello: «...
stipulatio, est contractus aliunde tamen causandus, quod non est in
aliis contractibus specificatis, ut in locatione, emptione et venditione
et si(milibus?) qui sunt causa sui ipsius».
(102) AHRENS (Corso di diritto naturale o di filosofia del diritto
(trad. it.), II3, Napoli, 1885, 170 ss.), notava che il contratto presenta
un aspetto obiettivo costituito dal complesso dei rapporti che
formano il contenuto o la ragione (causa) della sua esistenza, ed
osservava altresì che in certi contratti la ragione non è manifesta.
(103) Cfr. GIORGIANNI, Corso di diritto civile (1958-59), Bologna,
1959, 5 ss., 83 ss.
(104) Ciononostante, nell'ordinamento francese è pacifico che la
risoluzione opera a prescindere dalla «colpa» dell'inadempiente (v.
PLANIOL-RIPERT-BOULANGER, op. cit., II, 203).
Le ragioni per le quali, contro la tesi assolutamente dominante, anche
in Italia ci sembra che la «colpa» non sia necessaria, v.
GIORGIANNI, L'inadempimento, Milano, 1959, 319 ss.
In Germania la questione non viene neanche posta, dato il particolare
funzionamento dell'istituto, connesso con la condictio sine causa.
(105) Cfr. GIORGIANNI, L'obbligazione, I, Catania, 1945 (Milano,
1951, rist. inalt.), 120 ss.
(106) Si tratta della nota definizione di BALDO DEGLI UBALDI:
«causa enim finalis est obiectum intellectus, sicut signum est
obiectum visus, et portus est obiectum navigantium; et quicquid
agimus, propter finem agimus» (vedila in CALASSO, op. cit., 301).
(107) Laonde non hanno avuto fortuna le formule che richiamano la
funzione della donazione (v. FERRARINI, La causa negli atti
giuridici, in Filangieri, 1891, 742 ss.).
(108) Su codesto processo v. le magistrali pagine del CALASSO, op.
cit., spec. 293 ss.
(109) Ritiene che il negozio simulato sia valido anche tra le parti
AURICCHIO, op. cit. passim, il quale si pone il problema anche
sotto il profilo della causa (12 ss.).
(110) Il COVIELLO, Trascrizione, I2 (rist.), Napoli-Torino, 1924,
364-365, si poneva il problema della trascrizione della domanda di
ripetizione di indebito, risolvendolo negativamente poiché essa non
era richiamata nell'art. 1933 c. abr. Il GORLA, Il contratto, cit., I,
508, nota 8, manifesta incidentalmente, e senza alcuna dimostrazione,
il dubbio che la nostra condictio indebiti si riferisce probabilmente al
caso di pagamento avente ad oggetto una cosa di genere confusa nel
patrimonio dell'accipiens, o comunque non più esistente nel
patrimonio di costui.
Sulle incongruità cui dà luogo il sistema della trascrizione dell'azione
di rivendica da un canto e delle azioni dirette a far venir meno il
titolo di acquisto dall'altro cfr. TRABUCCHI, Trascrizione della
domanda di rivendica e conflitto tra più acquirenti, in Giur. it., 1960,
I, 2, 82.
(111) Cfr. per tutti ENNECCERUS-NIPPERDEY, op. cit., 524 ss.
(112) Cfr. spec. LENT, loco cit. Sul significato che codesta
«astrattezza» ha per la tutela dei terzi e per la sicurezza della
circolazione, v. DE PAGE,op. cit., 212 ss.
(113) V. in proposito l'ampia indagine del CAPITANT, op. cit., 359
ss.
(114) Sui problemi del trasferimento a scopo di garanzia, cfr. da
ultimo BIANCA, Il divieto del patto commissorio, Milano, 1957, 116
ss.
(115) In tal senso v. in giurisprudenza, da ultimo, Cass. 28 ottobre
1958, n. 3512. Sul problema V. da ultimo BRANCA, Delle promesse
unilaterali, in Commentario del codice civile a cura di SCIALOJA e
BRANCA, Libro IV, Delle obbligazioni, art. 1960-1961, BolognaRoma, 1959, 363 ss.
(116) L'astrazione processuale viene intesa dalla giurisprudenza
come presunzione, sino a prova contraria, dell'esistenza della causa
del negozio: da ultimo, Cass. 16 aprile 1957, n. 1255; Cass. 9 luglio
1949, n. 1748, in Giur. it., 1950, I, 1, 746; Cass. 20 marzo 1947, n.
412, ivi, 1948, I, 1, 18.
(117) Cfr. ANDREOLI, La ripetizione dell'indebito, cit., 213 ss.
(118) Cfr. SCUTO, loco cit. Notevoli perplessità v. da ultimo in
ANDREOLI G., Riflessioni sull'atto solutorio non dovuto, in Studi in
onore di Messineo, I, Milano, 1959, 1 ss.
(119) DALMARTELLO, La consegna della cosa, Milano, 1950, 181
ss.
(120) BETTI, Ricognizione di debito e promessa di pagamento
secondo il nuovo codice, in Studi in memoria di Segrè, Milano, 1943,
3 ss.
(121) Sui problemi di cui nel testo, v. NICOLÒ, Il riconoscimento e
la transazione nel problema della rinnovazione del negozio e della
novazione dell'obbligazione, in Ann. Messina, 1932-33, 386 ss.; e
GIORGIANNI, Accertamento (negozio di), in questaEnciclopedia, I,
spec. 233 ss.
(122) Per la giurisprudenza più recente che identifica la causa del
titolo di credito nel rapporto sottostante cfr., da ultimo: Cass. 5 luglio
1958, n. 2419; Cass. 10 marzo 1958, n. 799, in Banca, borsa, tit.
cred., 1958, II, 201; Cass. 19 ottobre 1957, n. 3980; Cass. 26
settembre 1955, n. 2627. Ravvisa la causa della cambiale di favore
«nella convenzione di favore e cioè nell'obbligarsi cambiariamente
per consentire ad altri di utilizzare la cambiale»: Cass. 3 maggio
1957, n. 1520, in Dir. giur., 1958, 573, con nota di richiami.
(123) In tal senso, CARRARO, Il negozio in frode alla legge,
Padova, 1943, 51 ss.
(124) Cfr., ad esempio, CARIOTA-FERRARA, op. cit., 599 ss.;
BETTI, Teoria generale, cit., 371 ss.
(125) La giurisprudenza identifica la causa illecita nello scopo
illecito: Cass. 13 giugno 1957, n. 2213; Cass. 14 maggio 1955, n.
1378 in Monit. trib., 1955, 263; Cass. 22 marzo 1955, n. 861; Cass.
28 aprile 1944, n. 301; ovvero in un rapporto sottostante illecito:
Cass. 24 gennaio 1953, n. 209, in Giust. civ., 1953, 309; Cass. 20
giugno 1951, n. 1647. Talora, nell'applicazione dell'art. 2035 c.c. si
distingue la causa tipica del negozio dallo scopo «in qualche modo
obiettivato»: Cass. 5 luglio 1956, n. 2441.
(126) Tuttavia, si ritiene di poter considerare lecita la prestazione
effettuata per «retribuire, definitivamente una relazione concubinaria
considerandola come donazione lecita: FERRARA sr., Teoria dei
contratti, cit., 115-16. La giurisprudenza, mentre considera illecita la
causa quando la prestazione è effettuata al fine di iniziare o
continuare una illegittima relazione carnale (Cass. 28 aprile 1944, n.
301) ritiene valida, invece, la prestazione effettuata per risarcire il
danno subito dalla donna in conseguenza di una illegittima relazione
more uxorio(Cass. 17 gennaio 1958, n. 85; Cass. 17 luglio 1948, n.
1147, in Foro it., 1949, I, 951).
(127) La giurisprudenza è concorde nell'affermare che la norma
contemplata nell'art. 2035 c.c. si applica soltanto al contratto
immorale ob turpem causam e non ai contratti illeciti od in frode alla
legge. V.: Cass. 7 giugno 1956, n. 1953; Cass. 28 marzo 1952, n.
849; Cass. 22 maggio 1951, n. 1272, in Giur. compl. cass. civ., 1951,
144; Cass. 4 ottobre 1951, n. 2625.
(128) Si fa sempre più insistente l'osservazione, come abbiamo
avvertito all'inizio di queste note, che esistono diverse nozioni di
causa, a seconda dei vari punti di vista da cui si parte (v. da ultimo,
MAJELLO, Custodia e deposito, Napoli, 1958, 11, nota 56).
(129) Si assiste, come è noto, ad una sempre più decisa reazione alla
eccessiva sottoposizione degli ordinamenti «privati» a quello dello
Stato: cfr. da ultimo ROMANO SALV., Ordinamenti giuridici
privati, in Riv. trim. dir. pubbl., 1955, 249 ss.
(130) V. CALASSO, op. cit., 41.
(131) In tal senso la causa è utilizzata anche dalla dottrina francese
(cfr. TERRÉ, L'influence de la volonté individuelle sur les
qualifications, Paris, 1957, 230 ss.; MAURY, op. cit., 485 ss.; ma v.
contra, BRETHE DE LA GRESSAYE, in Rev. int. dr. comparé,
1951, 506 ss.).
(132) La dottrina francese rimane invece fedele ad una prevalenza
della volontà (cfr. TERRÉ, op. cit., 305 ss.).
(133) La dottrina italiana esclude ormai, nella quasi totalità
l'applicazione del concetto di causa ai negozi non patrimoniali. In
particolare, per il matrimonio, v. DOSSETTI, La violenza nel
matrimonio in diritto canonico, Milano, 1943, 7 ss. In senso
affermativo, da ultimo, GRAZIANI, Volontà attuale e volontà
precettiva nel negozio matrimoniale canonico, Milano, 1956, 29 ss.
(134) Cfr. ROMANO Santi, Corso di diritto amministrativo3,
Padova, 1937, 259 ss.; BODDA, La nozione di «causa giuridica»
della manifestazione di volontà nel diritto amministrativo, Torino,
1933, 49 ss.; ZANOBINI, Corso di diritto amministrativo, I7,
Milano, 1954, 313, ed ivi ulteriori citazioni. Si dimostrano scettici
verso il concetto di causa dell'atto amministrativo GIANNINI M. S.,
Lezioni di diritto amministrativo, Milano, 1950, I, 316 ss.; ID., Atto
amministrativo, in questa Enciclopedia, IV, 176; ALESSI,Sistema
istituzionale del diritto amministrativo italiano2, Milano, 1958, 289.
ss.
(135) CARNELUTTI, Teoria generale del diritto3, Roma, 1951, 243
ss., il quale, coerentemente, propone di sostituire la parola «causa»
con quella «fine».
(136) Sulla origine della parola «causa» e sui vari significati da essa
assunti nel diritto, cfr. CALASSO, op. cit., 39 e nota 12; ASTUTI, I
contratti obbligatori, cit., 35 ss.; GORLA, Il contratto, cit., I, 296 ss.;
ORESTANO, Obligationes e dialettica, in Jus, 1959, 16 ss., dove
ulteriori citazioni. Il BONFANTE, op. cit., 131, rileva che la parola
«causa» costituisce radice della nostra parola «cosa».
(137) Sulla causa legis, v. CALASSO, op. cit., 225 ss. Contro la
nozione di causa della legge tributaria cfr. ROMANELLI,
Metodologia del diritto finanziario, in Riv. dir. pubbl., 1960, 18 ss.
(138) Si continua invece a parlare talora di causa del testamento, v.
da ultimo, CRISCUOLI, La causa del testamento (estr.), Circ. giur.,
1959.
(139) Ammettono tuttavia l'azione di ripetizione d'indebito anche
quando «la causa del contratto venga successivamente meno»: Cass.
10 febbraio 1953, n. 327; Cass. 16 marzo 1943, in Giur. it., 1943, I,
1, 245. È inoltre da osservare che la giurisprudenza, formatasi
sull'art. 1988, parifica la prova dell'inesistenza del rapporto
fondamentale a quella del suo «successivo venir meno» (Cass. 4
giugno 1958, n. 1870; Cass., 9 luglio 1949, n. 1748, in Giur. it.,
1950, I, 1, 746).
(140) Il riferimento della causa all'«atto» (ovverosia al negozio) e
non più al «contratto», proposto in Francia dalla Commissione di
riforma (Travaux de la Commission de réforme du code civil, 194748, Paris, 1949, 277), ha dato luogo a notevoli perplessità (Travaux
1945-46, Paris, 1947, 191 ss.).
(141) Sulla dottrina del «patto nudo» cfr. CALASSO, op. cit., 261
ss.; ASTUTI, I princìpi fondamentali, cit., 31 ss.
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