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Nomadismo: “Pronti a muovere…” Il nomadismo mette in campo

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Nomadismo: “Pronti a muovere…” Il nomadismo mette in campo
Nomadismo: “Pronti a muovere…”
Il nomadismo mette in campo scelte spesso difficili in grado di condizionare
pesantemente la produzione delle nostre famiglie di api. Quante e quali famiglie
spostare? Quali fioriture sfruttare? Quando fare il trasferimento delle arnie? Affidarsi
anche alle previsioni del tempo a lungo termine?
Il nomadismo è una pratica dispendiosa per l’apicoltore in termini di lavoro in più
richiesto e anche spesso in relazione alle spese ed al tempo necessari per il
trasferimento nei diversi apiari da controllare. In generale le motivazioni possibili del
nomadismo sono almeno tre:
1. una maggiore produzione di miele
2. il servizio di impollinazione
3. un migliore svernamento delle famiglie con conseguente anticipo nello sviluppo
primaverile
In generale il nomadismo messo in atto per sfruttare fioriture diverse richiede prima di
tutto la scelta delle arnie giuste da spostare. Nuclei e famiglie deboli non danno serie
garanzie di produzione e il rischio è quello di spostare queste colonie con il solo
risultato di rinforzarle un po’ senza produrre gran che. Se ci si sposta per il raccolto su
una fioritura si fa sempre nomadismo con famiglie molto forti. Nel caso invece di
nomadismo per l’impollinazione è il gestore del servizio che stabilisce lo standard
minimo per le arnie da utilizzare (favi di api e covata). Quando si fa nomadismo
finalizzato allo svernamento e ad un precoce sviluppo primaverile sono invece proprio
le famiglie più deboli quelle da spostare sicuramente perché si rinforzino. Può essere
invece interessante preparare i nuclei fatti in pianura la primavera presto facendoli
diventare famiglie forti da sfruttare per le fioriture tardive in alta quota come quella
del rododendro.
Quest’anno le fioriture di fondovalle (robinia e tiglio) sono state deludenti e hanno
avuto un notevole anticipo stagionale, ma in alta montagna la presenza di moltissima
neve fino a primavera inoltrata ha favorito il permanere di temperature molto basse e
la fioritura del rododendro e del prato di alta montagna non subirà certo anticipi o
sarà addirittura in ritardo. Questa condizione permetterà forse eccezionalmente
quest’anno di sfruttare con le stesse famiglie di api le fioriture del tiglio e del castagno
a fondo valle e anche quella del rododendro in montagna. In generale se ci si muove
da un posto dove vi è una piena fioritura in atto verso un altro di montagna dove essa
sta solo iniziando conviene aspettare un po’ perché gli inizi di fioritura non portano
grandi flussi nettariferi. Bisogna considerare che con tempo incerto e variabile le api in
alta montagna non lavorano per niente perché la temperatura resta sotto i 10 gradi,
mentre in pianura e collina nelle stese condizioni sono possibili almeno modeste
produzioni. Proprio per questo motivo è raro fare produzioni importanti in alta
montagna perché il tempo deve essere bellissimo e la fioritura massiccia e nettarifera
senza vento che secchi i fiori o grandine che rada al suolo tutto. Quindi prima di
spostare arnie in alta montagna la consultazione delle previsioni del tempo anche a
lungo termine può essere un elemento importante da considerare.
Bisogna poi scegliere dove andare e quali fioriture sfruttare. Ciascuno ha le proprie
convinzioni e cerca di organizzarsi al meglio. In generale nelle nostre zone della
Valsugana la fioritura più importante è data dalla robinia, ma si possono fare buone
produzioni anche sul tiglio-castagno, sul prato di montagna o sul rododendro. Bisogna
considerare che dopo la prima settimana, la fioritura del tiglio si sovrappone con
quella del castagno e dove le due specie sono abbondanti è impossibile fare un miele
mono-floreale. In generale salvo situazioni particolari di anticipi o ritardi stagionali, la
fioritura del tiglio a 500 metri circa è subito seguita in alta montagna dalla fioritura del
rododendro e del pascolo di alta quota.
La produzione di melata di abete o in ogni caso di melata liquida e commerciabile
come miele di bosco è un obiettivo non facile da raggiungere perché bisogna
azzeccare l’annata giusta, il posto adatto, il momento più opportuno. In generale le
melate arrivano a fine stagione verso il termine della produzione assieme alle
temperature più alte, però incombe sempre il rischio di fare il pieno di “manna” una
melata molto dura che non si riesce a togliere dai favi e a commercializzare. L’anno
scorso nel medesimo periodo mentre quasi ovunque le api portavano “manna” in
alcune zone del Trentino si sono avute produzioni importanti di una ottima melata di
abete. Questo a riprova del fatto che forse serve anche un pizzico di fortuna. Dato che
le melate sono di solito l’ultima produzione in coda alle importazioni di nettare
sfruttare questa risorsa e cercar di produrre melata significa ritardare il blocco della
covata e i trattamenti contro la varroa. Questo è un aspetto negativo per due ragioni:
1. si rischia una maggiore infestazione di varroa (in un mese l’acaro è in grado di
raddoppiare di numero)
2. le famiglie hanno a disposizione meno tempo per ripartire dopo il blocco della
covata e/o la messa a sciame.
Per chi possiede un certo numero di arnie il differenziare la produzione in alcuni apiari
su fioriture diverse e in zone differenti può essere una strategia per ridurre il rischio
che le cose vadano male proprio su tutti i fronti. Certe volte si riesce a dislocare tre
apiari a quote diverse sul medesimo percorso che porta in alta montagna in modo da
poter almeno ottimizzare i viaggi e i tempi di trasferimento necessari.
La certificazione per la sanità delle famiglie spostate è stilata a cura delle Unità
veterinarie di zona ed ha una validità di soli 10 giorni. Questa durata molto breve, se
da un lato darebbe teoricamente maggiori garanzie sanitarie, in realtà rappresenta un
forte limite operativo ed organizzativo perché ogni apicoltore sarebbe teoricamente
tenuto ad una certificazione anche al momento del rientro delle famiglie perché quasi
sempre il periodo di nomadismo dura di più di 10 giorni. Anche un piccolo apicoltore
che agisce facendo nomadismo dalla pianura all’alta montagna con 50 arnie dislocate
in apiari diversi, per rispettare a pieno tutte le norme, dovrebbe teoricamente farsi
fare almeno 10-12 certificazioni ogni anno. Penso che per un professionista le
certificazioni annue necessarie potrebbero arrivare a svariate decine. Personalmente
penso che quando le regole sono troppo complicate ed è oggettivamente molto difficile
rispettarle sarebbe molto meglio cambiarle subito perché, come sosteneva
giustamente Lewin “Le eccezioni non confermano le regole, anzi se esse sono troppo
frequenti in realtà le demoliscono”.
Il nomadismo in generale aumenta la produzione di miele, ma certamente anche i
rischi di furto e di danno da orso o da altre cause. In generale esso sottopone a
maggiore stress le api e le regine allungando il periodo stagionale di bottinazione delle
prime e la durata del periodo di massima deposizione di uova delle seconde che può
durare più del doppio rispetto a quello di una famiglia stanziale. Proprio per questi
motivi chi pratica una apicoltura stanziale può ragionevolmente tenere anche regine di
due o più anni. Chi invece fa nomadismo è bene rinnovi le regine più spesso (ogni
anno o al massimo due) perché esse sono sottoposte ad un ritmo di deposizione forte
che si esprime in un periodo di tempo molto più lungo del normale. Anche i favi
contengono più covata e più a lungo e tendenzialmente invecchiano prima perché
l’annerimento è legato proprio all’accumularsi delle mute che rimangono nelle celle.
Un sicuro vantaggio è dato invece dalla possibilità per le famiglie di accumulare polline
in alta montagna certamente incontaminato di specie vegetali molto diverse fra loro
con un ampio ventaglio di amminoacidi che costituiscono le relative proteine. In alta
montagna (salvo eccezioni legate alla coltivazione di piccoli frutti in quota) si riduce
anche il rischio di contaminazione con agrofarmaci. Il prato di montagna a quote
medie (1100-1300 metri sul livello del mare) è formato da una quantità notevole di
specie erbacee nettarifere e permette di produrre un miele multiflora di ottima qualità
con colore scuro, aroma intenso, molto viscoso e ricco di pollini diversi. In generale si
tratta di un miele certamente più interessante di quello di rododendro puro sia per la
composizione più ricca di pollini e nettari sia per un aroma più intenso e una minore
tendenza a cristallizzare. Il miele di rododendro (colore chiarissimo con una
composizione di zuccheri che lo fa cristallizzare subito) subisce di anno in anno forti
variazioni a seconda che nella fioritura di quella stagione prevalga effettivamente il
nettare di quella specie. Quando la fioritura del rododendro è scarsa la produzione è
minore, ma il colore del miele prodotto diventa più ambrato, l’aroma più intenso, la
composizione più varia con l’apporto importante di specie particolari come il timo,
l’arnica… Insomma il miele prodotto in una stessa zona spesso è molto diverso da
quello dell’anno prima e i clienti più raffinati lo sanno bene. Andrebbe certamente
sfatato il mito del miele mono floreale considerato spesso migliore rispetto ad un
“multiflora”.
Dato l’avvio deludente della stagione con produzioni finora moto scarse, confidiamo
almeno in qualche soddisfazione estiva in alta montagna.
Buon lavoro a tutti
Romano Nesler
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