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La politica nell`antichità greca e romana

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La politica nell`antichità greca e romana
Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche
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Capitolo 1 La
politica nell’antichità
greca e romana
Sommario Z 1. Atene e la nascita della politica come scienza. - 2. Le critiche alla de-
mocrazia e il logos tripolitikós. - 3. Dall’eroe alla giustizia. - 4. Legge e
natura nei Tragici e sofisti. - 5. Platone. - 6. Aristotele. - 7. Il pensiero
politico nell’antica Roma
1.Atene e la nascita della politica come scienza
Il pensiero politico della civiltà occidentale nasce nell’antica Grecia nel periodo compreso tra il VII e il VI secolo a.C., quando l’organizzazione della città-stato (la polis)
si sostituisce progressivamente alle forme tradizionali, regali e sacrali di esercizio della sovranità.
È un passaggio in virtù del quale il potere abbandona i palazzi aristocratici in cui era
stato esercitato per secoli per trasferirsi nello spazio pubblico per eccellenza, l’agorà,
la piazza che vede i cittadini protagonisti della vita politica.
Tale passaggio si verifica per la prima volta ad Atene, che resterà il riferimento ideale di organizzazione democratica, intesa come partecipazione diretta dei cittadini alle
decisioni comuni, nonché alla scelta dei titolari delle cariche di governo.
I Sofisti
Il modello della democrazia ateniese cui i pensatori politici dei secoli successivi fanno costantemente riferimento è quello stabilito dalle riforme di Clistene, sul finire del VI secolo a.C.,
proseguite poi da Pericle alla metà di quello successivo.
Secondo tale organizzazione, la sovranità politica si incarna nell’Assemblea (ecclesia) che riunisce tutti i cittadini «di pieno diritto», cioè i cittadini maggiorenni, maschi e di condizione
libera. Nell’ecclesia – supremo organo legislativo e di governo – tutti possono prendere la parola e le decisioni di interesse pubblico vengono sempre prese a maggioranza.
Un consiglio ristretto, cioè il Consiglio dei Cinquecento (bulé), è invece incaricato di affrontare le questioni di carattere più strettamente amministrativo.
Molte delle principali cariche di governo vengono assegnate per sorteggio.
Il modello ateniese istituisce quindi una democrazia diretta e partecipativa all’interno della
quale assumono un ruolo fondamentale il confronto delle opinioni e la discussione pubblica.
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2.Le critiche alla democrazia e il logos tripolitikós
A) Le contraddizioni della democrazia ateniese
La fortuna «teorica» del modello ateniese – testimoniata dai numerosi richiami dei
pensatori dei secoli successivi – contrasta curiosamente con le critiche alla democrazia presenti in larga misura nei pensatori politici dell’antichità.
Si tratta di un paradosso solo apparente: la società e, in primis, quella ateniese, infatti, era comunque fondata sui privilegi degli aristocratici e dei proprietari terrieri, almeno dal punto di vista economico.
L’apertura della sfera politica (con la conseguente affermazione del principio della
isonomia, in base al quale tutti i cittadini sono soggetti alle medesime leggi, pur essendo in aperto contrasto con tali premesse ideologiche) non cambia questo stato di cose.
La democrazia in Atene, infatti, si esercita solo all’interno di una ristretta élite di uomini liberi, restandone esclusi gli schiavi, le donne e i meteci (gli stranieri cui era concesso l’esercizio di attività commerciali e artigianali).
Lo storico Tucidide, narrando lo sterminio dei Melii da parte degli ateniesi durante le guerre del
Peloponneso (431-404 a.C.), ricordava che, al di là dell’organizzazione formale dello Stato, a governare i rapporti tra gli uomini è sempre la legge della forza.
Nello scritto anonimo La costituzione degli ateniesi, il cui autore si inserisce nella corrente di pensiero aristocratica e oligarchica, la democrazia è addirittura presentata come il regime che porta
la «canaglia» al governo della città, consentendole di prevaricare sia i possidenti sia le città vicine.
Una concezione non diversa sarà espressa in maniera molto più compiuta da Platone nella Repubblica (vedi infra).
B) Il logos tripolitikos e la fortuna della democrazia ateniese
Sin dai primordi, una delle principali questioni dei politologi è stata quella relativa alla
migliore tra le forme di governo (o «il giusto ordine politico»).
È, infatti, già nelle «Storie» di Erodoto che trova la sua prima formulazione la tripartizione delle forme di governo che, sebbene variamente articolata, accompagna la riflessione politica dall’antichità ai giorni nostri (il logos tripolitikos):
— il governo di uno (monarchia),
— il governo di pochi (oligarchia),
— il governo di molti (democrazia).
La storia che Erodoto racconta si svolge in Persia, all’indomani dell’uccisione di un mago che aveva usurpato il trono del re legittimo. L’autore riporta le diverse opinioni che si confrontano all’interno del Consiglio dei Sette circa il nuovo assetto da dare allo stato.
Otane, il primo a intervenire, celebra i vantaggi del governo del popolo, che si presenta come il
migliore in quanto riduce i rischi della prepotenza, viene esercitato a turno e sottoposto all’approvazione dell’assemblea.
Un secondo sostiene invece le ragioni del governo dei pochi, che egli chiama aristocrazia, in
quanto si configura come il governo dei migliori (in greco áristoi).
L’ultimo che interviene è Dario che sostiene le ragioni della monarchia, il governo di uno solo,
purché quest’uno sia il migliore tra gli uomini della collettività. Affidare il potere ad un solo indivi-
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duo è, contrariamente a quanto affermato dagli altri interlocutori, l’unico modo per impedire divisioni all’interno del governo e facilitare il processo decisionale.
Ci sono altri due elementi che spingono a considerare in qualche modo «postuma» la
fortuna della democrazia ateniese:
— innanzitutto, le opere politiche di maggiore importanza dell’età classica – la Repubblica, il Politico e Le Leggi, di Platone; la Politica di Aristotele – sono tutte
«schierate» a sostegno del governo delle élites (dunque del governo oligarchico);
— in secondo luogo, e non a caso, tali opere nascono in un momento storico che
vede la democrazia ateniese sconfitta dall’oligarchica Sparta al termine delle
guerre del Peloponneso.
Il già ricordato Tucidide, che quei conflitti ci ha tramandato, annovera tra le cause
della sconfitta di Atene proprio il suo sistema politico che, basato sul sorteggio delle cariche pubbliche e sulla possibilità per tutti di accedere al governo, aveva consentito ad alcuni demagoghi, sostenitori di iniziative non ben ponderate, di ottenere il consenso popolare, trascinando, così, la città alla rovina.
3.Dall’eroe alla giustizia
A) Le virtù degli eroi omerici
I modelli di virtù presenti nella Grecia antica vengono espressi per la prima volta da Omero. L’Iliade e l’Odissea, infatti, costituiscono due strumenti privilegiati per l’educazione dei giovani e presentano una didattica etica basata sulla nobiltà d’animo e sulla virtù universale dei singoli protagonisti, a prescindere dalla loro «appartenenza» politica.
I due poemi descrivono, però, anche un sistema di valori complesso e fragile.
La morale eroica, fondata sulla forza fisica, astuzia e onore, risulta inconciliabile
con il concetto di razionalità del diritto e dello Stato.
Una prima risposta alla contrapposizione tra la forza del singolo eroe e la virtù razionale si trova
nel lento e graduale affermarsi dell’idea di giustizia.
Themis (giustizia) incarna un ordine, una regola comune sia al macrocosmo che al microcosmo
ed esprime un ordine giuridico che è nello stesso tempo divino e religioso.
Questa visione, ancora mitologica, viene progressivamente sostituita da una concezione della
giustizia come dike: ragione oggettiva, sapere consolidato nella memoria collettiva (cioè comune a tutti gli esseri umani) in grado di risolvere i conflitti attraverso un compromesso tra posizioni contrastanti.
La laicizzazione dell’idea di giustizia si accompagna al sorgere dell’idea di colpa individuale.
Non dovendo più farsi carico dei destini di tutta la sua stirpe, il singolo individuo è responsabile solo di sé e delle sue azioni, venendo così meno la concezione dello «ftonos ton téon» in
base alla quale, spesso, i figli nella vita terrena scontavano la colpa degli antenati.
B) L’ideale di «giustizia» da Esiodo a Solone
Un definitivo abbandono della morale eroica si trova in Esiodo. Il sistema di valori
proposto nelle Opere e i giorni, esalta la funzione etica delle attività produttive, forma
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una sorta di epos del mondo contadino e trova nell’idea di giustizia la caratteristica
principale dell’essere umano.
La necessità di far venir meno la concezione della «giustizia» fondata sull’«ordine divino» si afferma decisamente con Eschilo. Il carattere paradossale dell’idea di giustizia divina è rappresentato nell’Orestea, un ciclo di tragedie che narra del ritorno in patria di Agamennone e si conclude
con l’istituzione di un tribunale umano – l’aeropago – che lascia prevalere la saggezza giuridico-politica della città sulla «giustizia divina».
Lo scopo di Eschilo è quello di magnificare le istituzioni politiche di Atene e mostrare come esse,
pur essendo di natura laica, avessero origine divina.
L’idea di Eschilo si conferma nell’ordinamento politico della città di Atene proposto
da uno dei sette sapienti: Solone, arconte nell’anno 594 a.C.
Lo statista, noto per le sue coraggiose scelte legislative democratiche, rappresenta
l’alfiere della cosiddetta eunomia (buon governo), in cui la legge (nomos) di Atene
viene definita «buona» (eu) perché, pur presentandosi come legge umana, è somigliante a quella naturale o divina.
Lo scopo dell’ordinamento di Solone è la concordia cioè conciliare gli interessi e le
posizioni contrastanti tra le classi sociali evitando in tal modo la guerra civile e le
continue lotte tra aristocrazia e popolo (demos).
Solone, dunque, oscilla tra un mantenimento dello status quo e una serie di riforme che tutelano gli strati più bassi della comunità: liberazione della terra, abolizione della schiavitù e abolizione delle ipoteche per debiti.
Il governo di Solone spinge i membri della città a riconoscere la supremazia impersonale di
una legge ed evidenzia il problema della pluralità delle forme di governo e quello della scelta della forma ottimale per governare una città.
4.Legge e natura nei Tragici e sofisti
La dimensione autonoma della legge umana e il suo conflitto con la legge divina è
alla base di due correnti di pensiero elaborate dai Tragici e dai Sofisti:
— nella tragedia Antigone di Sofocle la legge della città prevale su quella dettata dagli dei e dai costumi di un popolo (legge non scritta);
— nella sofistica la legge umana si identifica con l’utile del più forte. Il presupposto
di tale concezione è quello del relativismo assoluto. I Díssoi Logói, un’opera in cui
sono proposte in relazione al medesimo tema argomentazioni contrastanti, mostrano che la verità come principio assoluto non esiste e che ogni punto di vista può essere ritenuto vero se sostenuto da una adeguata argomentazione. Secondo i sofisti
(Gorgia, Protagora, Ippia, Crizia) l’arte politica scade a mera «arte del persuadere», per la formazione del consenso e la perorazione dell’interesse personale.
La riflessione di Tucidide porta a compimento il processo di laicizzazione della legge. Le vicende politiche della città vengono, infatti, ricondotte a cause ben definite e
interpretate come il prodotto di una necessità logica e storica. Non il caso (tyche), ma
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la volontà di potenza e la conquista dell’utile sono il motore principale dell’azione
politica.
Posizione differente assume Senofonte il quale, nella Ciropedia (scritta per l’educazione del Principe Persiano Ciro il Giovane), propone una visione che è al contempo autoritaria e irenica della politica: il governante deve essere paragonato a un padre di famiglia, allo stesso modo in cui
il grande re persiano Ciro lo fu con i suoi sudditi. Solo in veste di dominatore assoluto il sovrano può dedicare tutte le sue forze alla realizzazione del bene pubblico, manifestando così anche la propria magnanimità e la propria benevolenza verso i propri sudditi.
5.Platone
Le principali linee di sviluppo della politica greca, associate alla visione della crisi
della polis, vengono mirabilmente sintetizzate nella filosofia di Platone (428-347 a.C.).
La riflessione di Platone spazia in tutti i campi filosofici dalla politica all’estetica, alla
metafisica e alla morale. Il suo scopo è quello di opporsi al relativismo dei Sofisti ripristinando la misura della giustizia su basi certe.
Lo strumento in grado di raggiungere questo scopo è la filosofia che si oggettiva nella conoscenza dell’Essere e nella contemplazione delle idee, ovvero di valori saldi
e universali che fungono da modelli tanto per la conoscenza, quanto per l’agire morale e il giudizio estetico sulla realtà.
Alla base della teoria politica di Platone si identificano due assunti:
— la filosofia è l’arte principale e guida la politica. La condotta politica trova i suoi
principi nella metafisica, nella contemplazione dell’idea immutabile e unitaria rappresentata dal Sommo Bene;
— la politica è in sé solo una disciplina tecnica, un’ancella della filosofia, ovvero
un’arte che applica nella realtà i risultati dei saperi più nobili.
Caratteri fondamentali della filosofia platonica: la dottrina delle idee
Il cuore della filosofia platonica è la celebre dottrina delle idee. Le idee rappresentano un fondamento oggettivo per la scienza e per la vita politica.
I presupposti della teoria platonica sono:
a) l’intenzione di portare alla luce l’ordine universale sul quale dovrà fondarsi sia la vita
politica che quella filosofica;
b) questo ordine può essere conquistato tramite la conoscenza interiore di ciascun individuo
nel senso specifico di «reminiscenza» (anàmnesis), cioè di ricordo dei contenuti universali presenti nell’animo. La nostra anima, prima di «essere calata» nel corpo, ha già contemplato le essenze eterne della realtà, definite «idee» (dal greco éidos, che significa contemporaneamente «visione», «forma», «modello»).
Discesa successivamente nel corpo, e divenutane prigioniera, l’anima le ha temporaneamente
dimenticate, ma non perdute e così recuperare le idee innate attraverso la reminiscenza, un procedimento maieutico che è contemporaneamente logico, etico e psicologico.
Oggetto della vera conoscenza, secondo Platone, non è dunque ciò che può essere conosciuto attraverso i sensi, la realtà sensibile mutevole e imperfetta, ma solo le idee.
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Mentre il termine «idea» designa nel linguaggio corrente una rappresentazione o un prodotto
concettuale della nostra mente, Platone intende l’insieme delle idee come entità supreme immutabili e perfette che esistono in una dimensione diversa dalla nostra, definita metaforicamente «Iperuranio» (in greco, letteralmente, «oltre il cielo»).
Lo scopo della filosofia, cioè della scienza più alta tra le scienze, è quindi la contemplazione
di tale dimensione superiore che coincide con l’idea del Bene.
A) La Repubblica
I due presupposti della filosofia politica di Platone vengono coerentemente sviluppati
nella Repubblica, dialogo composto fra il 389 a.C.-369 a.C. e nel quale in un immaginario contraddittorio con i sofisti, il filosofo ateniese, espone la sua teoria di giustizia.
La «politica» deve vagliare i suoi effetti alla luce delle conduzione politica di una città: tanto più il governo di una città è giusto, tanto più la giustizia sarà chiara ed evidente ai cittadini.
Quindi in Platone la definizione della giustizia coincide con la definizione della forma migliore di governo di una città: una repubblica di tipo social-comunista in cui
lo Stato costituisce un uomo in grande in cui le varie parti del corpo sono rappresentate dalle singole classi. Tale dottrina viene esposta attraverso Socrate, che costituisce
il personaggio principale dei «dialoghi» platonici.
Così come un essere umano è sano quando desiderio, aggressività e ragione sono in armonia tra
loro, allo stesso modo un governo della città è giusto quando esiste una armonia tra le tre diverse classi rappresentate da:
— chi produce e soddisfa i bisogni dei singoli (desiderio = commercianti etc.);
— chi preserva l’unità della città da attacchi esterni (aggressività = militari);
— chi governa (ragione = filosofi).
I governanti (cioè i filosofi e i guerrieri) non sono eletti su base popolare, ma scelti tra i custodi,
sottoposti, al contrario delle altre classi, ad una educazione collettiva rigida in comunione di
beni e di donne: essi cioè, al fine di impedire che le loro cariche si trasferiscano di padre in figlio,
sono privati di ogni forma di proprietà individuale compreso il matrimonio.
La città deve dunque essere guidata da un ceto cui appartengono le due ultime classi e che vengono «scelti», generazione dopo generazione, tra gli «aristoi», cioè tra i migliori guardiani-filosofi, senza nessuna influenza derivante da parentele o appartenenza.
L’analogia tra istituzione politica e struttura dell’essere umano consente anche di giudicare le altre forme di governo.
Tali forme per Platone sono:
— la democrazia, dominata dal desiderio di possesso e di appagamento collettivo dei bisogni individuali;
— la tirannide, che porta il singolo a prevalere sugli altri grazie alla propria aggressività;
— la timocrazia (governo in base al censo), che sceglie per governare chi è più ricco e non
chi è più capace;
— l’oligarchia viene istituita quando i «migliori» si lasciano sedurre e corrompere dal fascino
dei beni terreni e diventano preda dei loro desideri, dimenticando di perseguire il bene collettivo.
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Queste quattro forme si reiterano nel corso della storia portando dalla oligarchia alla
timocrazia, alla democrazia e, infine, alla tirannide.
Il governo propugnato da Platone retto dai guardiani-filosofi è, invece, razionale perché è stabilito in funzione di un possesso esclusivo e reale dell’idea del vero, che per
Platone coincide con l’idea del bene di cui sono portatori in massimo grado «gli aristoi», cioè i migliori.
Il processo di acquisizione della verità è rappresentato da Platone nel mito della caverna. Solo i filosofi sono in grado di liberarsi dalle catene che tengono prigionieri tutti gli uomini, condannati a prendere per vere non le cose, ma le ombre delle cose proiettate sul fondo di una caverna.
Solo il filosofo riesce a liberarsi dalle catene e a volgere le spalle alla caverna, guardare dapprima le cose riflesse nell’acqua di uno stagno e, poi, illuminate direttamente dalla luce del sole e, infine, il sole stesso. Una volta ritornato nella caverna il filosofo vorrà comunicare ai suoi compagni la vera realtà esteriore, ma questi ultimi, ormai assuefatti all’oscurità della caverna, non gli crederanno, lo allontaneranno e lo isoleranno.
Il mito della caverna, che costituisce uno dei momenti fondanti della filosofia occidentale, è al contempo una metafora della vita di Platone (esposta nella celebre Lettera
VII) e del percorso che la ragione deve compiere per liberarsi dagli errori in cui cade
il mondo dei sensi.
B) Il Politico e le Leggi
Il modello sostanzialmente utopico proposto da Platone subisce una profonda revisione nei dialoghi successivi.
Nella Repubblica il tema della legge non trova spazio: se il governo della città è guidato dalla ragione non è necessario stabilire un sistema di norme in quanto nella città
regnerà sempre armonia e equilibro tra le diverse componenti sociali. Anche nel Politico Platone insiste su questo punto arrivando a sostenere che non si devono legare
le mani a coloro i quali, esperti nelle tecniche di governo, sono essi stessi «leggi viventi».
Una svolta radicale avviene nelle Leggi (nomoi), l’ultimo e sofferto dialogo in cui Platone tenta di trovare una forma di governo che abbia elementi sia della monarchia
persiana che della democrazia ateniese.
Le leggi sono utili a colmare la fragilità strutturale di un ordinamento politico.
Per questo le Leggi trattano di un modello politico, non perfetto, ma di secondo grado (in quanto
riflesso dell’idea di giustizia), all’interno del quale Platone riconosce esplicitamente la necessità
di contemperare il principio di autorità con quello della libertà.
Diviene, così, decisivo riflettere su problemi come la partecipazione e il consenso; così come è
necessario che un governo scenda a patti con il sistema consolidato di valori all’interno del quale si trova ad operare. Così Platone arriva ad accettare ciò che nella Repubblica aveva escluso
per gli appartenenti alle classi al potere: i concetti di famiglia e proprietà privata.
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Capitolo 1
La fortuna filosofica
Il pensiero politico di Platone ha influenzato il pensiero dei pensatori di tutti i tempi.
Particolare effetto ebbe su Tommaso Moro ed Erasmo, sul genere letterario utopico (es.: Città del Sole di Campanella) e su Vico e Marx.
Persino Hegel ne subiva l’influenza nella formulazione del concetto di «eticità immediata» della pólis.
Le idee contenute nella Repubblica ispirate dalla forma di governo di Sparta, anche se di tendenza social comunista, sono state mutuate da filosofi di tutte le correnti ideologiche e piegate ai loro fini.
Così Stenzel ne trae un modello di educazione di ordine politico, così come Hildebrand ne
vede una prefigurazione dello «Stato Socialista», e Popper che considera la «Repubblica»
«un pericolo per le società aperte».
Numerosi altri filosofi (Strauss, Heidegger e Arent), infine, considerano i modelli platonici fonti di ispirazione inesauribili sulle quali è d’obbligo riflettere (Ingravalle).
6.Aristotele
Aristotele (384-322 a.C.) fu allievo di Platone e precettore di Alessandro Magno.
Anche per il pensatore di Stagira, come per Platone, la politica è l’ambito spaziale
all’interno del quale si espande il concetto di giustizia.
La politica, dunque, rappresenta una scienza applicata che muove dall’analisi della
vita associata: questa, (al contrario delle scienze teoretiche o conoscitive che teorizzano ciò che è eterno e immutabile) presuppone la «prassi» che stimola l’agire umano
verso il piacere, l’onore, la virtù e la felicità.
Nella «politica» due sono i punti sui quali la filosofia di Aristotele e quella di Platone
divergono:
— Aristotele non mira alla ricerca di un governo assoluto valido per sempre e dovunque, ma ricerca la forma ottimale da applicare a ogni singola città;
— per il filosofo di Stagira non esiste un modello assoluto e ottimale di «Stato», ma
differenti opzioni politiche per realizzare la migliore forma di convivenza in ciascuna compagine umana (eu zen).
A) L’Etica Nicomachea
Nell’Etica Nicomachea Aristotele analizza il concetto di «etica» e in particolare, il
concetto di giustizia.
Sul piano etico, Aristotele si pone in maniera antitetica rispetto all’idea astratta di
Platone secondo cui è il «sommo bene» che determina le azioni umane.
Il sommo bene, secondo Aristotele risiede nella volontà individuale, appartiene alla
logica dell’azione, non è «piantato» in cielo (nell’Iperuranio), ma si trova nel cuore
degli uomini.
In questo senso, Aristotele concepisce un’etica fondata sulla coscienza dell’individuo. Pertanto, il sommo bene non costituisce l’oggetto di fredda conoscenza intellettuale per cui chi conosce il bene non può non operare il bene.
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Per operare il bene occorre che l’uomo «senta» la validità del bene nella sua coscienza e cioè
in quanto produce l’eudaimonia, cioè la felicità (Socrate). L’idea del bene, dunque, si sviluppa
attraverso il sentimento e si traduce in azione rappresentando la condizione essenziale per il raggiungimento della felicità: solo chi opera il bene è felice (eudemonismo etico).
I tre gradi della felicità
In relazione alla felicità Aristotele distingue tre gradi:
1. l’apolausticos bios, ossia la vita del godimento, quella che garantisce una felicità primitiva
e fallace;
2. il politicos bios, ossia la vita di relazione (che per i Greci coincide con la vita politica), in grado di garantire una forma più alta di felicità rispetto al godimento materiale e il cui vertice è
rappresentato dalla filia, l’amicizia;
3. il teoreticos bios, riservato a pochi eletti, capace di assicurare la forma più alta di felicità.
Attraverso la conoscenza l’uomo è in grado di essere realmente felice.
La vita vissuta secondo ragione è propria solo dei saggi, cioè di coloro che sono capaci di distaccarsi dai beni terreni.
In base ai tre gradi di felicità, la virtù si fonda sul criterio della «medietà»: la virtù,
cioè, sta nel «giusto mezzo», fra due estremi, l’eccesso e il difetto.
Dal punto di vista politico i due estremi sono l’eccessiva ricchezza di pochi e la miseria della massa.
In tal modo Aristotele giunge alla distinzione fra virtù etiche e virtù dianoetiche. Le
prime sono quelle per cui il giusto mezzo si raggiunge tramite l’esercizio della prudenza, le seconde attraverso la conoscenza.
Dall’equilibrio di tali virtù emerge il concetto di giustizia intesa come virtù che guida il
comportamento del singolo uomo che per sua natura è considerato un’animale politico.
Tuttavia, il concetto di giustizia non si esaurisce solo nel singolo individuo ma riguarda anche i rapporti intersoggettivi (virtus ad alterum) e può intendersi sia come legittimità sia come uguaglianza nell’ambito della pólis.
Aristotele accoglie il primo significato, ossia giustizia come conformità alle leggi,
dal momento che le leggi mirano sempre all’utilità comune. La giustizia, pertanto, precede tutte le virtù e costituisce la più importante fra esse.
B) La Politica
La tesi secondo la quale la giustizia non riflette un’idea astratta e immutabile, ma le
diverse possibilità in cui può concretizzarsi lo sviluppo della ragione, viene trattata
nella Politica.
Questo scritto può essere analizzato seguendo quattro tematiche di fondo:
— l’analisi della koinomia, cioè della vita associata. Una comunità è il prodotto organico di una stratificazione umana e di una rete complessa di relazioni sociali.
Il potere politico, cioè la sfera pubblica della vita associata, deve perciò differenziarsi dalla sfera privata, che Aristotele identifica nella oikos (la famiglia) sede in
cui i rapporti parentali non rispondono al concetto del «do ut des» (cioè di tipo economico-retributivo), ma sono dettati dall’amore reciproco dei suoi componenti;
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Capitolo 1
— l’analisi del potere pubblico come comando su individui liberi ed eguali. La città
ha radici pluralistiche che devono essere rispettate. La sfera privata della famiglia
e della proprietà devono essere garantite. Il legame politico per eccellenza diviene
filía (amicizia), intesa come principio di armonia e concordia tra i singoli cittadini;
— la definizione delle forme di governo viene classificata in base al numero dei detentori del potere e in rapporto alla sfera del loro interesse (pubblico e privato). Alle
tre forme di governo «sane», monarchia, aristocrazia, politeia, Aristotele fa corrispondere tre forme di governo «degenerate»: tirannide, oligarchia, demagogia.
Queste forme di governo non si susseguono con regolarità, ma sono il risultato di
progressivi rivolgimenti, spesso anche improvvisi (rivoluzioni, colpi di Stato etc.);
— il tema della «costituzione ottimale», definita in termini di stabilità, durata e, quindi, in rapporto a un ideale di vita perfettibile e a un sistema di valori riconosciuto
come migliore. La partecipazione effettiva e l’efficacia all’interno di questo orizzonte determina la costituzione migliore, cioè la più adatta forma di governo in riferimento a un determinato momento storico.
Altro elemento significativo della riflessione politica aristotelica è la necessità di studiare, come avviene nella Costituzione degli ateniesi, il processo storico di ogni singolo Stato che porta alla successiva formazione della «costituzione» che ne rispecchia
i valori fondanti.
7.Il pensiero politico nell’antica Roma
A) La giuridizzazione della politica
Già nel 509 a.C. Roma, cacciando Tarquinio il Superbo, passa dalla monarchia a una
forma di repubblica oligarchica retta prevalentemente dal senato.
Il senato raccoglie i capi della nobiltà e rappresenta il vertice della carriera istituzionale dei patrizi che (in contrapposizione ai plebei) appartenevano alla classe (equites)
dei cavalieri e che godevano nell’Urbe di una serie di privilegi giuridici ed economici.
Le forme di autorità esercitate dal senato erano sostanzialmente due:
— auctoritas: una funzione di guida e orientamento del popolo sulla base della storia e della tradizione, garantite principalmente dalla saggezza e dall’autorevolezza
dei suoi componenti;
— potestas: il potere politico vero e proprio che regola la vita quotidiana.
Il senato, perciò, costituisce un insostituibile guida nella fase repubblicana, mentre in
età imperiale conservò solo una presenza formale nel diverso assetto istituzionale di
Roma.
Il contributo della civiltà romana alla storia della politica deriva dalla sua originale e
efficiente organizzazione giuridica, che ha costituito, nelle diverse epoche storiche, un
insuperato modello di ordinamento giuridico.
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Il diritto romano, in particolare, operò la distinzione tra ius pubblicum e ius privatum.
Il primo riguarda l’organizzazione della città intera, il secondo abbraccia un’insieme
di norme attraverso le quali gli individui regolano i loro rapporti privati.
Lo ius pubblicum concerne la sfera della lex, valida per tutti i sudditi.
Lo ius privatum riguarda la sfera dei singoli che non interferiscono con l’ordine pubblico.
L’insieme delle norme prodotte nel corso dei secoli nel diritto romano, le cui basi sono marcatamente filosofiche, vengono successivamente ordinate e selezionate nel Digesto (533) per volontà dell’imperatore Giustiniano, che raccoglie e sintetizza il pensiero dei migliori e più noti giuristi
dell’epoca classica, e che diverrà il testo base dei principali istituti giuridici moderni, nonché strumento per la formazione di molti intellettuali nell’epoca medioevale e moderna utilizzato in tutte le
università dell’europa continentale che su di essa fonderanno il sistema di «civil law».
La codificazione di Giustiniano
Giustiniano, come i suoi predecessori, volle predisporre una legislazione conforme alle esigenze dei suoi tempi e, tuttavia, così aderente alla tradizione romana da presentarsi come il coronamento e il completamento dell’opera della giurisprudenza classica.
La grandiosa opera di compilazione – il cui risultato fu il Corpus Iuris Civilis – ebbe inizio
con una raccolta di leggi progettata da Giustiniano e dal suo ministro Triboniano.
Nel 528 Giustiniano nominò una commissione con il compito di compilare un nuovo codice,
che condensasse la sapienza giuridica antica e offrisse una solida base normativa all’impero.
L’opera fu compiuta in brevissimo tempo e il codice venne pubblicato il 7 aprile del 529.
Nel 530 Giustiniano ordinò una compilazione dei digesta o pandectae: brani degli scritti dei
giureconsulti romani muniti di ius respondendi e necessari per la comprensione dell’ordinamento giuridico romano.
Giustiniano ordinò inoltre la stesura di un trattato elementare di diritto ad uso scolastico da
sostituire alle Istituzioni di Gaio. Mentre il primo codice di Giustiniano non è giunto fino a noi,
possiamo disporre del Novus Iustinianus codex repetitae praelectionis, che rappresenta una
riforma del primo codice e, promulgato nel novembre del 534, e diviso in dodici libri, a loro
volta suddivisi in rubriche.
Giustiniano non si limitò solo alla pubblicazione di compilazioni giuridiche, ma emanò numerose fonti autonome di diritto: fondamentali furono quelle che disciplinavano le successioni
legittime e i matrimoni.
B) Lo sviluppo delle idee politiche (legge e potere)
Le basi filosofiche del diritto romano possono essere fatte risalire allo storico di origine greca Polibio (200-118 a.C.) autore di «Storiae» che descrive gli eventi politici
dell’Urbe dal 264 al 146 a.C. – nel quale esporre, rifacendosi a canoni aristotelici, le
vicende della coesistenza di diverse forme di governo che caratterizzarono la vita della respublica.
Il merito fondamentale del consigliere di Scipione l’Africano consiste nell’aver compreso che:
1. la storia è lo strumento migliore per comprendere l’attività politica;
2. la costituzione di una città non può essere ricondotta a un modello ideale (monarchia, aristocrazia, repubblica), né a una sua degenerazione (tirannide, oligarchia,
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Capitolo 1
demagogia), ma può costituire una forma di governo mista che sintetizza diverse forme di governo (1);
3. il trapasso da una forma all’altra di costituzione corrisponde quasi ad un naturale
ciclo di degenerazione delle forme politiche consolidatasi nel tempo, che spingono
alla scelta di un’altro sistema di governo che coinvolge una diversa base politica.
Tuttavia, la più compiuta espressione di pensiero politico romano è certamente quella
elaborata da Marco Tullio Cicerone (106 a.C. - 43 d.C.) autore tra l’altro della «Respublica», i cui maggiori contributi sono:
— l’impegno politico come complemento alla mera saggezza contemplativa stratificata nel corso dei secoli;
— la giuridicizzazione della politica.
Il diritto, in particolare, viene inteso come sintesi di iustum (giustizia) e iussum (legalità): cioè riflesso dell’idea di giustizia e oggetto di comando positivo.
A differenza di quanto sosteneva Aristotele, lo spazio della vita pubblica non è regolato dalla philìa ma dal diritto, che è fondamentalmente coercizione e, dunque, potere effettivo di chi governa.
Legge e potere, i due volti del diritto, scandiscono il ritmo della vita politica e le sue
gerarchie:
— la legge, che rappresenta ciò che deve essere applicato;
— il potere, che è lo strumento per l’applicazione concreta della legge.
La sfera del diritto riflette una legge suprema, la legge di natura che è diretta incarnazione della giustizia.
Ma la giustizia nella Respublica ha un forte valore pragmatico ed è definita come fedeltà ai patti.
Come per Polibio, anche per Cicerone il diritto e la sua autorità hanno radici storiche che si concentrano principalmente nella consuetudine (usus), negli usi e nelle tradizioni del senato, il cui
operato risulta necessario a limitare le possibili degenerazioni insite in una forma di governo solo
di carattere assembleare.
Entrambi i pensatori attingono a piene mani dalla cultura giuridica della Grecia che, pur essendo
stata conquistata militarmente da Roma, l’ha successivamente «riconquistata» con la sua «civiltà e cultura delle istituzioni politiche».
Anche le successive correnti filosofiche e politiche, affermatesi come l’Epicureismo e lo Stoicismo
affermatesi a Roma, traggono le loro origini e la loro forza dall’«homus» della cultura ellenica.
(1) Si pensi, ad esempio, alla Roma repubblicana in cui erano previste cariche pubbliche temporanee (due consoli che duravano in carica un anno) o eccezionali (dux, per fronteggiare situazioni di guerra, che durava in carica sei mesi) vicine alla monarchia, altre vicine all’aristocrazia (senato), altre, infine, di carattere democratico
(assemblee popolari) comprendendo, così, in un solo ordinamento tutte le forme di governo.
Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini
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ma celeste, se intellettuali, sarà angelo, e si raccoglierà nel centro della sua unità, fatto uno spirito solo con Dio…»
3.Il concetto di «politica» nell’Umanesimo
L’avvento delle Signorie, che seguirono ai Comuni, contribuisce allo sviluppo
dell’Umanesimo per almeno due ragioni:
— le Signorie, organismi territoriali più estesi di quelli comunali, erano dotati di un
più ampio apparato burocratico-amministrativo e diplomatico, nonché di «corti»
in cui ferveva un dibattito culturale e politico, cui facevano riferimento artisti, pensatori, letterati e personalità di rilievo che stimolarono la crescita del sapere e la
nascita di scuole e accademie istituite presso le singole corti;
— il processo di formazione dei Comuni e delle Signorie favorì l’ascesa dei ceti borghesi e commerciali, anche se non riuscì a trovare una idonea giustificazione di
tipo etico-politico, filosofico-morale al loro accresciuto potere.
È appunto dal mondo antico che l’Italia umanistica delle Signorie trarrà gli spunti e gli esempi più
significativi relative alle virtù civili, di gloria militare, di eroismo personale, di autocontrollo delle
passioni, di raffinato gusto estetico che le serviranno per legittimare la propria originale identità e,
così, discostarsi dal pensiero del Medioevo.
Gli intellettuali umanisti, spesso al servizio di una corte signorile, sono artisti e pensatori eruditi
che studiano in maniera filologica i testi antichi, al fine di stabilirne l’autenticità, la provenienza,
la storicità (così, ad esempio, Lorenzo Valla dimostrò che la Donazione di Costantino fu un «falso»
medievale dell’VIII sec. elaborato artatamente per giustificare le pretese temporali del papato).
Il modello dell’intellettuale impegnato, che si preoccupa dell’interesse e del benessere della città favorendo il dispiegarsi della libertà è il momento centrale del pensiero e dell’attività di Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1370-1444).
Entrambi si sforzarono di ricercare una forma di ordinamento che potesse porsi come
alternativa, ed eventualmente resistere, allo strapotere principesco.
Firenze, in particolare, si trasforma in una fucina in cui emerge la concezione democratica dell’uomo fondata sulla virtù del singolo di agire oltre l’interesse individuale
e a vantaggio della comunità.
La ritrovata atmosfera di armonia politico-ideologica che domina le concezioni degli umanisti pone, però, due ordini di problemi che si aggravano quando, agli inizi
del XVI sec. si profilano, anche nella stessa Firenze, tendenze politiche autoritarie:
— la scissione tra pubblico e privato. Gli ideali dell’umanesimo, validi nella vita
privata, sono messi in discussione nel momento in cui vengono traslati nella vita
pubblica fiorentina;
— l’alternativa tra «Bruto» e «Cesare», cioè il contrasto irrisolto tra chi va contro
le leggi di un ordine costituito per garantire gli ideali della repubblica, e chi, anche
se in veste di tiranno, si fa garante della sola prosperità dello Stato.
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Capitolo 3
A quest’ultimo problema è dedicato il De tyramno (1400) di Coluccio Salutati. Sebbene la tirannide sia una forma di governo inammissibile, è tuttavia necessario valutarne la «legittimità» anche in base al «consenso» tributato dal popolo al tiranno. Cesare, ad esempio, viene chiamato legittimamente ai vertici delle cariche pubbliche
dell’antica Roma e, anche se vi eccede nella sua permanenza (ricoprendo per molti
anni consecutivi il consolato che era una carica «annuale» e «duale»), non può essere, secondo tale corrente di pensiero, considerato un tiranno.
Questa è la via che porterà i due più grandi pensatori dell’epoca, Machiavelli e Guicciardini, a confrontarsi su due questioni fondamentali della scienza politica:
— il rapporto del «principe» con i sudditi e con la «repubblica» o il «principato».
— il rapporto tra definizione della vita politica ideale e la contingenza delle vicende
storiche di ogni singolo Paese.
4.L’Umanesimo giuridico di Andrea Alciato (1492-1550)
Giurista italiano di Alzate (Milano), studiò diritto presso le Università di Pavia e Bologna
e si laureò nel 1516 a Ferrara. Insegnò ad Avignone, Pavia, Bologna, Bourges e Ferrara.
A lui si deve il merito di aver inaugurato una nuova fase dello studio del diritto, che
segnò il momento ufficiale dell’ingresso delle correnti umanistiche nella scienza giuridica (umanesimo giuridico).
Dalla ricostruzione del diritto romano secondo un metodo (storico e comparativo)
che, dal luogo ove lo applicò (Bourges) è stato poi definito «francese», si profilò il problema di stabilire la natura della legge, considerata diretta emanazione della «volontà dell’imperatore», al quale il popolo avrebbe delegato ab immemorabili il potere di
legiferare.
L’imperium del princeps sul proprio territorio, infatti, per il giurista milanese non trae
origine da un’investitura divina, bensì dal consolidato consenso del popolo.
A differenza del tiranno, il principe «giusto» vede limitati i propri poteri da una serie
di vincoli di diritto naturale, di equità, di ius gentium e dall’obbligo di rispettare i patti con i propri sudditi, nonché quelli con l’autorità imperiale considerata originaria e
prevalente rispetto ai poteri dei regnanti territoriali.
5.L’Europa del Cinquecento: l’alba dello «Stato moderno»
A) Laicizzazione dello stato e «ragion di Stato»
Già nel Trecento la possibile forma politica di Stato destinata a prevalere in Europa
era costituita dallo Stato nazionale.
La legittimità del potere, in questa fase, può derivare, però, ancora da una investitura dinastico-divina anche se «laicizzata» in quanto l’autorità dei sovrani era ormai
«sciolta» dalla precedente dipendenza nei confronti dell’autorità ecclesiastica.
Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini
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A ogni motivo di tipo morale, religioso, ma anche giuridico, in quest’epoca viene sempre anteposto l’interesse dinastico a conservare il potere, denominato dagli scrittori
del Cinquecento e del Seicento «ragion di Stato».
B) Lo Stato moderno
La formazione dello Stato rappresenta un processo fondamentale per la storia dell’Europa moderna caratterizzata da una diversa organizzazione del potere, che da spazio
all’affermarsi di contrastanti interessi di classe ove la funzione mediatrice tra le stesse viene esercitata normalmente dagli intellettuali, siano essi giuristi, uomini politici
o filosofi politici.
Proprio nell’Europa di quegli anni, passando attraverso aspre lotte di potere e religiose, si definirono i contorni delle istituzioni e si precisarono i concetti e le formule politiche che sono alla base dell’attuale civiltà giuridico-politica europea.
Le organizzazioni statali del Medioevo avevano molto poco a che fare con la concezione dello «Stato» che si andrà affermando solo nei secoli seguenti.
Il processo che condusse alla formazione dei vari ordinamenti politici presentò notevoli differenze nei diversi Paesi europei, in primis Spagna, Francia e Inghilterra.
Le premesse dello Stato moderno vanno ricercate in specifiche circostanze storiche:
— da un lato, la concezione universalistica della Respublica Christiana, che implicava l’obbligo di riconoscere il primato della sfera spirituale su quella temporale, fu affermata con
tale forza dal Papa (e messa in pratica con la lotta per le investiture negli anni tra il 1057
ed il 1122) da provocare una definitiva, insanabile rottura dei rapporti del Papato con l’imperatore e, dunque, dell’unità politico-religiosa dell’Occidente;
— dall’altro, tale rottura sancì definitivamente l’autonomia della politica dalla religione, e
consentì alla figura del singolo principe di affrancarsi dal potere tanto del Papa, quanto
dell’Imperatore (si ebbe, così, il tramonto dei «due soli» citati nel De Monarchia di Dante).
6.Niccolò Machiavelli (1469-1531)
Con Machiavelli inizia una nuova epoca del pensiero politico che tende a staccarsi
dalla tradizionale indagine speculativa, etica e religiosa per concentrarsi su metodiche
effettuali e principi originali autonomi (iuxta propria principia).
Nato a Firenze nel 1469, Niccolò Machiavelli ricopre la carica di Segretario della Repubblica fiorentina per quattordici anni, dal 1498 al 1512, data in cui è costretto ad abbandonare il suo incarico a causa del ritorno in città della famiglia dei Medici e dell’instaurazione di un nuovo regime signorile a lui ostile. Da quel momento egli sarà esiliato per sempre da Firenze e non eserciterà
mai più quegli incarichi diplomatici e di governo che sentiva come propria autentica vocazione.
Proprio agli anni dell’esilio risalgono le sue opere più importanti, i Discorsi sopra la prima Decade
di Tito Livio (1513-1519 ca.) e il Principe (1513).
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Capitolo 3
A) Il distacco tra etica e politica
Il segretario fiorentino nell’analizzare la mutevolezza dell’animo umano si rende conto che libertà e necessità, virtù e fortuna, politica e morale, passioni e ragioni, sono
sempre in contraddizione e non possono essere in alcun modo «composti» in una definitiva e universale sintesi conciliativa (Barbato); dalla verità effettuale non può
nascere nessuna «scienza politica» in quanto qualsiasi «scienza» deve essere fondata
su leggi immutabili.
Istinti, sentimenti e ragione nella natura umana sono mutevoli e, quindi, non riducibili in schemi universalistici quando si tratta soprattutto dell’«agire politico».
La politica, dunque, non è una scienza, ma una tecnica utilizzata per regolare e comporre i conflitti individuali e sociali. Machiavelli, dunque, nega categoricamente qualsiasi forma di connubio tra etica e politica, e riconosce l’importanza o l’indipendenza della «politica» in quanto determina il destino dell’uomo.
Dalla propria esperienza politica e personale, così come dalla lettura degli autori classici da cui si distacca ideologicamente, Machiavelli matura alcune convinzioni fondamentali che esaltano il suo realismo politico e che influenzeranno tutti i suoi successivi studi di scienza politica:
— la natura fondamentalmente malvagia dell’uomo (pessimismo antropologico);
— la sostanziale immutabilità di tale natura;
— l’inconciliabilità tra politica ed etica, in ragione dell’insanabile scissione dell’essere con il dover essere;
— il concetto di «virtù» del principe in antitesi con quello tradizionale;
— il rapporto dinamico e imprevedibile tra libertà e fortuna in quanto le vicende
umane per metà dipendono dall’una e metà dall’altra.
Nel Principe si legge infatti che «è necessario a chi dispone una repubblica e ordina
leggi in quella presupporre tutti gli uomini rei, e che usano la malvagità dell’animo
loro, qualunque volta ne abbiano libera occasione»; e ancora, nei Discorsi, che «gli
uomini nacquero vissero e morirono sempre con un medesimo ordine».
Tali convinzioni inducono Machiavelli a negare nella politica sia l’esistenza di regole generali perennemente valide, sia l’importanza dello studio del passato al fine di
trarre insegnamenti validi per orientare la condotta politica del presente.
Le opere di Machiavelli offrono non solo spunti di riflessione sulla «teoria politica»,
ma costituiscono anche veri e propri manuali pratici per l’uomo di governo, cui suggeriscono i più idonei comportamenti da tenere e degli errori da evitare per guidare gli
Stati.
B) Il Principe, lo Stato e il realismo politico
Il Principe è opera caratterizzata da un «brutale e schietto realismo politico», il cui
tema principale può essere individuato nella costruzione dello Stato.
Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini
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Fanno da «sfondo» dell’opera (ispirato all’esempio dei crudeli delitti del Valentino, pseudomino
utilizzato per identificare Cesare Borgia) – così come avviene anche per i Discorsi (caratterizzati, al contrario, da un approccio più idealistico) – le vicende politiche dell’Italia del tempo.
Dopo la pace di Lodi (1454) gli Stati italiani avevano vissuto un periodo di relativa stabilità interna e di concordia nelle relazioni reciproche.
A partire dal 1492 tuttavia, cioè dopo la morte di Lorenzo il Magnifico, principale artefice della
politica dell’equilibrio, la situazione cambia radicalmente. La discesa di Carlo VIII nella penisola,
nel 1494, mostrò da un lato la fragilità dei piccoli Stati italiani di fronte alle potenze straniere, dall’altro aprì per la penisola un periodo di radicale subalternità alla Francia e alla Spagna che terminerà solo alla metà del secolo successivo.
L’opera di Machiavelli nasce dunque dalla amara contemplazione della «ruina» d’Italia e dal conseguente desiderio di elaborare un progetto politico in grado di porvi rimedio.
Per Machiavelli che si contrappone all’utopismo imperante (Il Principe fu scritto nel
1513, l’Utopia nel 1516) tre sono i paradigmi sui quali poggiare le fondamento dello Stato:
— la disponibilità di milizie proprie e non mercenarie;
— la tutela della religione, considerata non tanto nella sua dimensione spirituale
quanto piuttosto per la sua tendenza a rendere la «popolazione» ubbidiente e unita. A questo proposito, la preferenza di Machiavelli va alla religione pagana, che
più del cristianesimo celebra valori più «sentiti» dall’individuo come l’eroismo, la
dedizione alla patria, l’attivismo;
— il terzo deriva da una qualità del principe, e cioè dalla capacità di pensare e vivere la politica in una dimensione totalmente autonoma rispetto alla morale per
un «efficace e duraturo governo del paese».
La famosa massima «il fine giustifica i mezzi» va intesa all’interno di quest’ultima considerazione. Se il fine della politica e dell’uomo di governo è la saldezza dello Stato,
allora tutti i suoi comportamenti vanno valutati in relazione al raggiungimento di tale
fine senza tener conto dei valori trascendenti, morali o religiosi in base ad una semplice considerazione: «se il fine è buono anche i mezzi utilizzati per raggiungerlo lo sono».
In ciò risiede il realismo politico di Machiavelli, che costituisce il tratto originale caratterizzante della sua opera e del suo pensiero che solleverà nel pensiero che segue (cd.
Machiavellismo – v. infra) polemiche infinite che ancora oggi sono di grande attualità.
C) Il confronto tra Virtù e Fortuna
Altro aspetto originale della dottrina politica di Machiavelli riguarda il rapporto tra
Virtù (che deriva dal latino vir, cioè uomo e che esprime, così, il concetto di astuzia
e risolutezza dell’individuo) e Fortuna (che in latino significa «sorte»), tema ampiamente dibattuto nel Quattrocento.
Innanzitutto, entrambi i concetti vanno intesi in senso «laico».
La fortuna è, dunque, l’insieme degli elementi e dei fatti imprevedibili – capricciosi e
mutevoli – che l’uomo si trova ad affrontare e ai quali è chiamato a dare una risposta
facendo ricorso alle sue qualità virili.
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Capitolo 3
La virtù consiste, come detto, nella capacità di far fronte con prontezza alle diverse
«occasioni» che la fortuna propone, scegliendo il comportamento più adatto al raggiungimento dei propri fini, compreso quello di dichiarare guerra, senza lasciarsi condizionare da considerazioni diverse da quelle strettamente politiche.
Il tema della guerra su cui è incentrato il suo dialogo «Dell’arte della guerra» (in sette libri) è
per il pensatore fiorentino fondamentale perché traduce «le energie civili (del principe) nella
virtù della guerra» e diventa così «epifania» (rappresentazione) della tragicità della politica e
della vita umana (Barbato).
Un’apparente contraddizione interna alla dottrina politica di Machiavelli riguarda la
questione relativa alla migliore forma di governo, se, cioè, sia preferibile la repubblica o il principato.
Anche in questo caso il diplomatico toscano procede seguendo un rigoroso realismo
politico, slegato da schemi etici prefissati e pronto ad adattarsi a contesti sociali e politici diversi che dipendono dalla necessità del momento storico.
Se, infatti, nei Discorsi egli sembra preferire il regime repubblicano (in specie della
Roma repubblicana fondato sulla libertà e sui buoni costumi), la forma di governo celebrata nel Principe è, naturalmente, il principato.
In realtà, ciò che interessa a Machiavelli, ciò che egli considera urgente per porre fine
alla «rovina» d’Italia, è la creazione di uno Stato, di un’organizzazione politicamente
e militarmente forte, guidata con fermezza. La forma istituzionale di tale Stato sembra essere indifferente proprio in considerazione del pragmatismo che connota il pensiero politico dell’illustre politologo.
7.Francesco Guicciardini (1483-1540)
A) Intellettuale e costituzionalista ante-litteram
Francesco Guicciardini rientra in una categoria di intellettuali sempre più diffusa tra
Quattro e Cinquecento, quella dell’intellettuale funzionario.
A differenza di quella di Machiavelli, la carriera politica di Guicciardini è segnata dal
successo in quanto riveste importanti incarichi presso la Repubblica fiorentina, poi
presso i Medici e, infine, presso il Papa.
La visione politica del pensatore spazia tra due poli: la crisi (politica o bellica) che devasta gli Stati e l’ordine che viene imposto da chi governa e che «anestetizza» le convulsioni sociali e le crisi (in particolare liberare l’Italia dall’invasione dei barbari e la
penisola dalla tirannia dei preti).
Guicciardini è, quindi, un «tecnico» che non teorizza nessuna forma di Stato «perfetta», ma mette a disposizione la sua competenza per garantire funzionalità ed efficienza alla gestione della cosa pubblica.
Gli albori della politica moderna dall’Umanesimo a Guicciardini
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In quest’ottica, egli può essere considerato un costituzionalista, essendo la sua attenzione rivolta specialmente all’analisi:
— delle competenze delle varie istituzioni;
— del loro reciproco rapporto e bilanciamento;
— dalla valorizzazione dell’esperienza degli «ottimati», cioè dei migliori chiamati a
governare un Paese.
Dati questi elementi alcuni studiosi hanno definito la teoria politica di Guicciardini un
vero e proprio disegno di «ingegneria costituzionale».
Dopo il 1494, cacciata la potente famiglia dei Medici, a Firenze viene istituita una Repubblica, il
cui organo principale è il Consiglio Maggiore.
Rispetto alla situazione passata il Consiglio è composto da un’ampia parte della popolazione che
comprende, oltre le famiglie di antica nobiltà, tradizionalmente demandate al governo della città,
anche numerosi esponenti degli emergenti ceti borghesi e commerciali.
I primi anni della Repubblica sono, quindi, caratterizzati da forti tensioni tra le diverse fazioni presenti in Consiglio: l’aristocrazia tradizionale, infatti, si opponeva alle aperture «democratiche» proposte
dai nuovi ceti. Il conflitto è reso ancora più aspro dal fatto che al Consiglio era demandato il delicato compito di eleggere tutte le magistrature cittadine, ovvero le cariche titolari del potere esecutivo.
Per far fronte a questa situazione nel 1502 una moderata riforma istituzionale istituisce la carica
di Gonfaloniere a vita, suprema magistratura stabilita per assicurare una certa stabilità al governo che le leggi sulla rotazione delle cariche mettevano costantemente in discussione.
È dalla riflessione sulle realtà del suo tempo che nasce il pensiero politico di Guicciardini che, scagliandosi contro «ambizioni» e «mollizie»della classe al potere, mira a elaborare un congegno di governo che nel rispetto del «particulare» sia in grado di comporre i conflitti sociali, al fine di evitare che la lotta per il potere si trasformi in un
evento distruttivo dell’ordine sociale e politico.
B) Obiettivi politici ed equilibrio tra i poteri
La conservazione dell’ordine costituito può essere raggiunta soltanto attraverso:
— la creazione di un equilibrio tra i poteri che dia «ordine» alla repubblica;
— la scrupolosa definizione delle competenze di ciascun organo di governo;
— la sovranità della legge sugli interessi dei singoli, dal momento che, come l’autore afferma nel suo Discorso di Logrogno, «né è altro la libertà che uno prevalere la legge e ordini pubblici allo appetito delli uomini particulari»;
— la liberazione sia dai «barbari» invasori del territorio nazionale che dalla tirannia dei principi.
La peculiarità introdotta dal pensiero di Guicciardini è la presenza di un terzo organo,
accanto al Consiglio maggiore e al Gonfolaniere, in grado di svolgere funzioni di raccordo tra i due: il Senato, composto da uomini particolarmente maturi ed esperti nell’arte del governo.
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Capitolo 3
Guicciardini loda l’assetto repubblicano di Firenze – il «vivere popolare», cioè la democrazia – ma
intende tale democrazia soprattutto come libertà da forme di governo dispotiche, libertà che deve
essere garantita a tutti i cittadini.
Tuttavia, in merito alla partecipazione effettiva all’attività di governo, Guicciardini resta ancorato
alla tradizionale visione oligarchica del «governo dei migliori». Per governare infatti occorrono
capacità, competenza ed esperienza, per cui l’autore può sostenere che «le città benché siano libere, se sono ben ordinate, sono sostenute dal consiglio e dalla virtù di pochi».
In conclusione, la dottrina politica di Guicciardini anticipa quelle forme di separazione e bilanciamento dei poteri che saranno rielaborate in seguito con anche maggiore chiarezza (Montesquieu) e che troveranno compiuta espressione nelle costituzioni
democratiche successive alla rivoluzione francese.
Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche
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Capitolo 7 L’esaltazione dell’individuo
e la nascita dello Stato
moderno
Sommario Z 1. Lo Stato moderno, la borghesia e il contrattualismo. - 2. La teoria della sovranità in Thomas Hobbes. - 3. Il contratto liberale di John Locke. 4. Baruch Spinoza.
1.Lo Stato moderno, la borghesia e il contrattualismo
A partire dalla fine della guerra dei trent’anni (Pace di Westfalia, 1648) protagonista
assoluta della scena politica europea diviene un unico soggetto: lo Stato inteso in senso moderno come entità sovrana, «autonoma e superiorem non recognoscens».
Lo Stato, dunque, è impegnato in uno sforzo di centralizzazione e razionalizzazione,
sconosciuto ai secoli precedenti, teso ad acquisire progressivamente il monopolio della politica a scapito della pluralità di soggetti territoriali divenuti con il feudalesimo
protagonisti del medioevo e della prima età moderna: in primis la Chiesa e l’Impero.
Per quanto impegnato nel recupero di alcune prerogative sovrane – come la centralizzazione dei poteri, la tutela dell’ordine pubblico, la monopolizzazione della guerra —
lo Stato si base sempre sull’ordine naturale tradizionale di derivazione divina.
Il fondamento teocratico del potere terreno nell’età moderna, comunque, non mette
mai in discussione l’alleanza tra trono e altare.
In linea con questa concezione lo Stato moderno deve considerarsi razionale quanto al suo esercizio e ai suoi fini (che coincidono con la potenza e il benessere dello Stato stesso), ma profondamente tradizionale quanto alla sua origine.
La persistenza del concetto di «ordine naturale» legittima inoltre, sul piano della struttura sociale, disuguaglianze e gerarchie che determinano la supremazia dei ceti privilegiati, cioè il clero
e l’aristocrazia.
In tale clima, l’opera riformatrice dello Stato, non può che essere prudente ed estremamente moderata fino al momento del rovesciamento radicale portato dalle idee illuministiche e dalla rivoluzione francese.
Tuttavia, se a livello istituzionale il soggetto politico di riferimento in questi secoli è
lo Stato, sul piano sociale va delineandosi con sempre maggiore chiarezza un secondo protagonista, che finirà con il diventare l’interlocutore principale dello Stato, e cioè
la borghesia.
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Capitolo 7
Questa classe emergente, infatti, per la sua presenza attiva nell’economia del paese, si
fa portavoce di esigenze nuove come la tutela della libertà del singolo e, soprattutto,
l’intangibilità delle sue proprietà, spesso gravate, durante il medioevo e gli esordi
dell’età moderna, da corvèe a servitù pubbliche, nonché obblighi di conferimento di
beni, denaro e derrate alla corona che ne svilivano il contenuto.
La dottrina politica di questi anni, a cavallo tra l’assolutismo e la rivoluzione, si concentra, dunque, sulla difficile conciliazione tra le esigenze di centralizzazione del potere statale e tutela degli interessi delle nascenti borghesie presenti sulla scena economica e sociale europea.
A) Il soggetto borghese
La dinamica politico-filosofica che si instaura tra l’individuo e lo Stato in questi secoli potrebbe essere definita di attrazione e repulsione: da un lato, infatti, il nuovo «borghese» ha bisogno dello Stato al fine di vedere politicamente riconosciuti una serie di
nuovi diritti da cui il suo ceto è escluso; dall’altro, ha la necessità di difendersi dallo
Stato, al fine di mantenere autonomo sia l’ambito della libertà privata, sia un proprio
spazio nella società, per poter esercitare le proprie libertà.
Tale complessa dinamica trova la sua espressione dottrinale nella teoria del patto, e
in quelle, ad essa legate, della sovranità, della rappresentanza e dei limiti del potere.
B) Il patto
Al fine di garantire la sicurezza e l’ordine auspicati dalla borghesia, si afferma la dottrina del razionalismo filosofico moderno che tende a ricondurre la politica a un ambito terreno, sottratto, cioè, all’ordine divino, e costruito dall’uomo per il raggiungimento dei propri fini.
Per tale motivo, anche se con implicazioni diverse, per Hobbes e Locke, per Rousseau e Kant, lo Stato nasce da un patto (o da un contratto) tra gli individui, che si associano al fine di «uscire» dallo stato di natura ed «entrare» in una dimensione politica. Ciò perché nello stato di natura alcuni diritti «naturali» non sono tutelati (come
in Hobbes e Spinoza) o non lo sono in maniera adeguata (come in Locke e Rousseau).
Tali diritti, dunque, all’interno della dimensione statuale, da semplici e non delineati
diritti naturali, si trasformano in diritti civili e politici.
C) La sovranità e la rappresentanza
Il concetto di sovranità, carattere peculiare dello Stato, in questi secoli, finisce con
l’identificarsi con le istituzioni statuali.
Il leame Stato-Sovranità è riconosciuto da molti filosofi, sebbene ciascuno, pur partendo dalla medesima premessa, giunga a esiti diversi: in Hobbes essa conduce all’assolutismo, in Locke al liberalismo, in Rousseau e in Spinoza alla democrazia e in Kant
allo Stato costituzionale di diritto.
L’esaltazione dell’individuo e la nascita dello Stato moderno
Z 73
Tali esiti dipendono dal diverso grado di «energia politica» che viene concessa ai governanti una volta riconosciuto l’esercizio esclusivo della sovranità allo Stato.
Sorge, infine, il problema della rappresentanza politica attraverso la quale i sudditi
partecipano alla vita delle istituzioni.
2.La teoria della sovranità in Thomas Hobbes
Thomas Hobbes (1588-1679), oltre a essere stato un importante filosofo, storico, scienziato e cultore della classicità, è stato riconosciuto come il padre della filosofia politica moderna per la fermezza con la quale egli prende le distanze dal modo classico
di pensare la socialità e la politicità dell’uomo, così come era stato tramandato nella
Politica di Aristotele.
Mentre nella visione aristotelica la tendenza degli uomini a organizzarsi in rapporti di
convivenza gerarchicamente ordinata rappresenta un processo naturale e spontaneo,
nella visione hobbesiana la nascita della «società politica» è il frutto di un accordo
«artificiale» dettato dalla paura e necessità dei singoli.
La presa di distanza di Hobbes da Aristotele parte dalla considerazione dell’inesistenza di ragioni «naturali» in forza delle quali alcuni uomini siano, per così dire, destinati a comandare e altri a
obbedire. Hobbes sa bene, e lo ricorda nel Leviatano, che Aristotele, nel primo libro della Politica, ha sostenuto che vi sono uomini più saggi, predestinati dalla natura a comandare, e altri
meno dotati, fatti per ubbidire. L’uomo non presenta, da questo punto di vista, le caratteristiche
di certe ordinate società di insetti, come le api e le formiche, le quali sottostanno per naturale predisposizione a un ordine gerarchico preciso, essendo portato per sua natura a una costante competizione con gli altri e a essere gratificato quando si dimostra superiore ai propri simili.
La destrutturazione della socialità naturale di Aristotele rappresenta in effetti il «negativo» delle due tesi principali di Hobbes, tra loro strettamente connesse:
— la naturale eguaglianza tra gli uomini (che impedisce loro di accettare spontaneamente rapporti gerarchici) e che degenera in «diseguaglianza»;
— la spontanea conflittualità e insocevolezza degli individui (che impedisce loro
di convivere pacificamente a meno che non vi siano costretti da istituzioni «artificiali» dotate di potere coercitivo): questo aspetto rimanda a Machiavelli il cui punto di partenza deriva proprio dalla constatazione dell’«egoismo e della smania di
potere del principe» e della «voglia di sicurezza» del popolo.
Il clima storico politico dei tempi di Hobbes
Hobbes costituisce un pilastro nella storia delle dottrine politiche soprattutto in virtù del suo
Leviatano, pubblicato nel 1651 ma composto negli anni precedenti a Parigi, dove l’autore era
stato costretto a rifugiarsi in seguito alla pubblicazione di un’altra sua opera, del 1640, gli Elements of Law, Natural and Politics.
Hobbes vive in prima persona gli anni drammatici della rivoluzione inglese che porteranno,
nel gennaio del 1649, alla decapitazione del re Carlo I Stuart, accusato di aver tradito l’ordinamento fondamentale del regno e di essere, così, venuto meno alla sua missione divina.
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In realtà, il conflitto tra le forze parlamentari, sostenitrici del costituzionalismo tradizionale
inglese, e quelle monarchiche, schierate per l’assolutismo degli Stuart, è responsabile di alcune delle pagine più violente della storia inglese; il clima di conflitto permanente, di costante minaccia alla vita e agli averi in cui gli inglesi vissero negli anni tra il 1641 e il 1660, anno della
temporanea restaurazione degli Stuart, contribuì non poco a determinare le convinzioni di Hobbes circa la natura feroce degli uomini e del conseguente comportamento aggressivo «spontaneo» degli individui, in assenza di un potere costituito che ne freni gli istinti di sopraffazione.
A) La teoria dell’uguaglianza
Hobbes dimostra, con argomenti semplici ma efficaci, che nello stato di natura gli uomini sono eguali e che quindi non è plausibile né legittimo «spacciare» come naturale un qualsiasi rapporto gerarchico tra di essi.
Esempi dall’argomentazione hobbesiana:
— quanto alla forza fisica, gli uomini possono anche differire, ma si tratta di differenze non
dirimenti perché, infine, anche il più debole ha abbastanza forza per uccidere, magari con
l’astuzia o a tradimento, il più forte;
— quanto alle facoltà mentali, la prudenza si acquista con l’esperienza, che ovviamente è
alla portata di tutti.
I sostenitori della ineguaglianza dovrebbero spiegare perché, se gli uomini sono ineguali
quanto alle facoltà dello spirito, accade che ognuno ritiene intimamente di essere più saggio degli altri: «non c’è segno più grande di egual distribuzione di qualcosa, del fatto che
ogni uomo è contento della propria parte».
Gli uomini, dunque, «sono e si pensano eguali», nel senso che anche le disuguaglianze che pur sussistono nella realtà non alterano questo fondamentale status di parità, e
quindi, non potrebbero mai giustificare qualsiasi naturale e spontanea sottomissione
degli uni agli altri.
B) La conflittualità: homo hominis lupus
L’uguaglianza, tuttavia, non è la sola condizione che caratterizza lo stato di natura.
Ad essa si affianca una spontanea conflittualità.
Le linee di ragionamento che spingono Hobbes a sostenere tale tesi sono due:
— in primo luogo, gli individui che si trovassero a vivere in uno «stato di natura» entrerebbero in conflitto per diffidenza: non potendo nessuno essere certo di non venir aggredito e ucciso dagli altri, ciascuno dovrebbe a sua volta aggredire e uccidere in anticipo onde evitare di fare la stessa fine;
— in secondo luogo, gli uomini entrano in conflitto perché animati da quella passione che Hobbes chiama la gloria: la maggior soddisfazione, il piacere più ambito, gli uomini lo provano
nel compararsi con gli altri e scoprirsi superiori a loro; ma se ognuno aspira alla superiorità, il confronto non potrà che trasformarsi in conflitto.
Hobbes teorizza, inoltre, anche una visione della necessità del conflitto di taglio più propriamente giuridico: se si ammette che ogni uomo ha per natura diritto ad autoconservarsi e di
usare tutti i mezzi atti a tale scopo, allora ne consegue che, non essendoci nello stato di natu-
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ra una legge comune condivisa, ognuno è il solo giudice di ciò che è necessario alla propria
autoconservazione.
Si può dire, perciò, che finché non vige una legge comune, ognuno ha diritto a tutto; ma,
poiché tutti hanno diritto a tutto, questi diritti entrano necessariamente in conflitto, e la conseguenza è che gli uomini si ritrovano a vivere in uno stato permanente di conflitto dove nessun
diritto è riconosciuto e garantito.
La radice più profonda del conflitto, sta proprio nel riconoscimento della fondamentale eguaglianza tra gli uomini che della teoria hobbesiana costituisce l’assunto di
partenza: poiché gli uomini sono eguali, nessuno accetterà «naturalmente» di sottomettersi a un altro. E quindi il conflitto potrà nascere in ogni momento, finché gli individui non avranno trovato il modo di istituire, riconoscere e affidarsi a un potere
superiore comune cui obbedire.
Lo stato prepolitico, o stato di natura, caratterizzato dalla mancanza di un potere superiore comune, non può essere pertanto che uno stato di guerra di tutti contro tutti (stato che Hobbes indica con l’espressione latina homo homini lupus).
In quanto conflittuale, lo stato di natura apporta pericolo, insicurezza e morte da cui
gli individui desiderano uscire: ciò spiega una delle note ed eloquenti espressioni di
Hobbes: nello stato di natura, «la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
C) Le leggi di natura
Sono le regole di condotta seguite da tutti e che assicurano la pacifica convivenza.
La legge di natura, infatti, è «una regola generale, scoperta dalla ragione, che vieta a
un uomo di fare ciò che è lesivo della sua vita»: perché qualsiasi torto nei confronti degli
altri, scatenerebbe la guerra e, dunque, metterebbe a repentaglio l’autoconservazione.
Nello stato di natura i comandi non sono veramente vincolanti nei confronti dei singoli.
In assenza di un potere superiore, infatti, nessuno può avere garanzie del fatto che gli altri non gli
faranno torto, non lo aggrediranno, non gli sottrarranno le sue cose, non lo uccideranno, non gli mancheranno di parola: in sostanza, nessun uomo può razionalmente attenersi senza sospetto a ciò che
la legge di natura gli prescrive. Anzi, per ragioni di razionale prudenza, ciascuno deve essere sempre pronto ad attaccare per primo, a non mantenere la parola data, a fare agli altri quei torti che deve
temere da essi. Questo è l’unico comportamento razionale in una situazione dove non esiste alcun
ordine pubblico e dove ognuno deve pensare in primo luogo a salvaguardare se stesso.
D)Il Leviatano
Per liberarsi da questa situazione, gli individui hanno davanti a sé una sola via d’uscita: stringere tra loro un patto in forza del quale ciascuno rinuncia a tutti i diritti di cui
è titolare nello stato di natura e li trasferisce a un sovrano, sotto l’imperio del quale
tutti potranno vivere sicuri.
La formula di questo contratto sono da Hobbes cosi esposte: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizio-
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ne, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto
il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa».
Attraverso tale «patto», quindi, gli individui istituiscono un potere sovrano, in modo
da poter vivere in un ordinamento di pace e di giustizia; la legge naturale viene sostituita dalla legge che il sovrano riterrà opportuno emanare.
Il potere che gli individui, spogliandosi del diritto a governare se stessi, hanno conferito, al sovrano, rappresenta un potere assoluto in quanto, per poter esercitare le proprie funzioni, tale potere non può essere soggetto ai limiti di altri poteri.
Tale potere trascende anche le leggi di natura sostituite dalle leggi positive, «poste»
dal sovrano e in quanto tali vincolanti solo per i sudditi; il sovrano per Hobbes è a legibus solutus, ovvero dispensato dall’obbligo di obbedienza alle leggi (è proprio da
questa espressione che deriva il termine italiano «assoluto»).
Lo Stato, dunque, per il filosofo inglese prende la forma immaginifica del «Leviatano»
una creatura marina biblica con il viso femminile e ricoperto di «squame» (rappresentati dai cittadini che ad esso si attaccano per vincere le paure della sopraffazione degli altri
individui) che governa i sudditi e mette ordine in caso di bellum omnium contra omnes.
La libertà dei sudditi in Hobbes
Nonostante il carattere assoluto del potere sovrano, la teoria di Hobbes conserva per i sudditi
un residuo margine di «giusta libertà». Per Hobbes, come per i teorici della cosiddetta libertà
negativa, libertà significa essenzialmente assenza di impedimenti, e quindi vi è sempre libertà finché l’individuo può disporre di spazi d’azione nei quali muoversi a piacimento senza esserne impedito: la libertà dei sudditi, dunque, si esplica in tutte quelle azioni che il sovrano
omette di regolare, come per esempio «la libertà di comprare, di vendere e di fare altri contratti l’uno con l’altro, di scegliere la propria dimora, il proprio cibo, il proprio modo di vita, di
istruire i figli nel modo che pensano sia idoneo e di fare altre cose simili».
3.Il contratto liberale di John Locke
John Locke (1632-1704) (1) affronta i due temi centrali della scienza politica del ‘600
e sistematizza:la dottrina dei diritti naturali a quello del patto sociale, costruendo,
però, una teoria dello Stato opposta a quella hobbesiana.
Locke, infatti, può essere considerato infatti il fondatore del contrattualismo liberale, in cui un ruolo centrale svolgono il tema dei diritti naturali e quello dei limiti che
da tali diritti impongono al potere costituito, in particolare l’intangibilità del diritto
di proprietà, il cui carattere «sacro e inviolabile» costituisce un punto fermo del liberalismo ottocentesco.
(1) Studioso britannico nato per i suoi Escay on the Law of Nature, rimase a lungo inediti, fece parte del mondo politico londinese finché non fuggì, accusato di cospirazione, in Francia e poi in Olanda ove scrisse i famosi due trattati del governo e il saggio sull’intelletto umano (1690) nonché versetti scritti sulla tolleranza religiosa.
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Ciò spiega la fortuna dei testi sulla politica di Locke in Inghilterra, in Francia (ove ha ispirato Montesquieu che ha sviluppato il principio della separazione dei poteri) e negli Stati Uniti ove i suoi testi hanno contribuito in alcuna parte a fondare la «dottrina dei diritti dell’uomo».
A) Lo stato di natura
Nei due Trattati sul governo civile (1690) il filosofo nazionalista britannico si dedica,
come tutti i contrattualisti, alla ricostruzione teorica del cammino che ha condotto l’uomo dall’originario stato di natura alla dimensione politica.
Come Hobbes, anche Locke sostiene che lo stato originario è caratterizzato da una
sostanziale uguaglianza tra gli individui.
Tale tesi risponde, tra l’altro, a un’esigenza polemica nei confronti di Robert Filmer, che nella
sua opera «Il Patriarca o il potere naturale dei re», aveva sostenuto l’identità tra il potere monarchico e il potere – di derivazione biblica – attribuito appunto al patriarca sulla propria famiglia.
La tesi di Filmer costituiva un tentativo di edificare la legittimazione del potere assoluto degli
Stuart basandosi sul fondamento delle Sacre Scritture.
Per Locke, come per Hobbes, non vi sono rapporti di subordinazione o di soggezione
per natura e il potere monarchico non deriva né da quello divino né è assimilabile a
quello paterno. Se Locke condivide col suo illustre predecessore il punto di partenza
dell’eguaglianza originaria, ben diversa è la concezione che egli sviluppa sullo «stato
di natura».
Poiché gli uomini sono eguali e indipendenti, la ragione di ognuno afferma il precetto secondo il quale «nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà
o negli averi» in netta antitesi con la legge di natura hobbesiana.
La legge di natura è, come in Hobbes, la regola: «la pace e la sopravvivenza di tutto il genere
umano»; dove però Locke si discosta dall’autore del Leviatano, è nella tesi per cui «la legge di natura è per tutti vincolante» in quanto obbliga l’individuo in modo pieno, e non solo in foro interno,
come invece aveva sostenuto Hobbes.
La legge di natura in Locke è vincolante perché, anche nello stato di natura, esistono modi per punire i trasgressori: anche in assenza di un potere costituito che determini e applichi le sanzioni, infatti, ognuno davanti alla comunità cui appartiene può
punire coloro che attentanto alla legge, violando, cioè, le norme dettate dalla ragione
e dalla giustizia.
L’uscita dallo stato di natura attraverso il patto che dà vita allo Stato non si giustifica quindi, per Locke, con l’esigenza di istituire un potere coercitivo che obblighi i
singoli individui a rispettare le leggi.
Tale esigenza si giustifica invece con la necessità di tutelare gli uomini dalle potenzialità distruttive dello «stato di guerra» che può scatenarsi da un momento all’altro poiché gli uomini, oltre che dalla ragione, sono spesso guidati dall’istinto e dalle passioni, che li pongono in conflitto tra loro.
Ruolo dello Stato non è, dunque quello dell’oppressore, ma quello di un giudice imparziale in grado di dirimere pacificamente le controversie tra i sudditi.
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Stato di natura e stato di guerra in Locke
Nella concezione di Locke è necessario distinguere tra stato di natura e stato di guerra.
Lo stato di guerra è caratterizzato da inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio e
può essere sia il risultato della degenerazione dello stato pacifico di natura, sia l’interruzione
che si verifica dentro lo stato civile, quando qualcuno vuole sottometterne un altro con la forza.
Lo stato di natura, invece, è uno stato di pace, benevolenza, assistenza e difesa reciproca,
quando gli uomini vivono insieme secondo ragione, senza un sovrano, col potere di giudicarsi tra loro. Tuttavia, c’è sempre il rischio che lo stato di natura possa degenerare nello stato di
guerra che può anche durare ininterrottamente. Per evitare ciò gli uomini devono associarsi tra
loro e istituire un potere sovrano – lo Stato – e un giudice comune in grado di risolvere le
controversie in modo imparziale.
B) La proprietà
Lo Stato civile ha un’altra fondamentale funzione in Locke: la tutela del diritto di
proprietà del singolo.
Per Locke la proprietà rientra tra i diritti «naturali» dell’uomo, tra i diritti cioè che
precedono la formazione della società politica. Anzi, l’importanza storica del liberalismo di Locke sta proprio nell’aver stabilito uno stretto legame tra proprietà privata e libertà individuale.
Questo punto di vista è così «centrale» nell’ideologia di Locke che talvolta il filosofo denomina «proprietà» tutti quei beni che lo Stato deve assicurare all’uomo: vita, libertà e averi.
Su questo punto la teoria lockiana della proprietà si distingue tanto da quella di Hobbes
quanto da quella di Grozio e Pufendorf.
Per Hobbes la proprietà viene solo dopo l’istituzione dello Stato (nello stato di natura tutti hanno diritto a tutto); è lo Stato che decide cosa l’individuo possa considerare come sua proprietà privata, e nessuno se ne deve lamentare.
Per Grozio e Pufendorf la proprietà è possibile anche prima dello Stato, ma a condizione che
vi sia il tacito consenso degli altri uomini.
Per Locke invece la proprietà privata precede lo Stato, e l’individuo la acquisisce legittimamente «facendo tutto da solo», cioè senza bisogno di passare per il consenso dei suoi simili.
Ma come si legittima nello stato di natura, caratterizzato da una fondamentale uguaglianza, l’appropriazione privata di un bene che, per definizione, appartiene a tutti, cioè
la terra?
Sul punto l’argomentazione di Locke parte da un assunto di fondo che esalta il fattore umano: benché la terra sia comune a tutti gli uomini, ciascuno è proprietario della
sua persona. E se l’uomo è proprietario della sua persona, è anche proprietario del proprio lavoro e di ciò che con esso produce.
Il diritto all’appropriazione privata non è, però, illimitato. Ognuno può appropriarsi dei frutti della natura, tanto quanto può consumare; sarebbe contrario alla legge di natura, invece, raccogliere
frutta o pescare pesce sottraendolo alla potenziale raccolta da parte di altri, per lasciarlo marcire.
Lo stesso discorso vale per la proprietà della terra: «Quanto terreno un uomo zappa, semina, migliora e coltiva, e di quanto può usare il prodotto, tanto è di proprietà sua.
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Valore della produttività e valore delle risorse
Con una brillante anticipazione del pensiero economico successivo, Locke introduce la nozione di valore-lavoro e l’idea che la produttività individuale contribuisca, di per sé, al benessere comune (idea che sarà sviluppata con la teoria della «mano invisibile» da Adam Smith, padre del liberismo moderno, nel suo La ricchezza delle nazioni del 1776).
Chi lavora la terra, infatti, ne incrementa la produttività e quindi contribuisce all’accrescimento dei beni che l’umanità ha a sua disposizione. Perciò, chi si appropria della terra e ne fa un
uso produttivo deve considerarsi un benemerito dell’umanità.
Si può però porre ancora un’altra questione: perché il diritto all’appropriazione privata che
viene dal lavoro prevale sull’originario diritto di proprietà in comune?
La risposta di Locke è molto interessante: il valore dei beni è dato molto più dal lavoro che
non dalla materia prima, e, quindi, chi ha impiegato il suo lavoro ha molto più diritto su un
bene rispetto al proprietario della materia prima.
C) L’accumulazione e i fondamenti del liberismo
Lo stato di natura teorizzato da Locke si configura, a ben vedere, come una comunità
di «coltivatori diretti», piccoli proprietari terrieri.
Il tempo nel quale vive Locke è, al contrario, una realtà segnata da profonde differenze patrimoniali e sociali, dove la distribuzione della proprietà e della ricchezza sono
tutt’altro che eque.
Come si giustifica allora questa evidente differenza tra stato di natura e stato civile e,
soprattutto, si tratta di una differenza legittima?
La risposta per Locke è legata all’introduzione del denaro come intermediario di
scambio. Finché non c’era il denaro, i beni non potevano essere più di tanto accumulati, dal momento che la maggior parte di essi erano deperibili. Il denaro, invece, crea
le premesse di un’accumulazione illimitata: diventa possibile, per esempio, comprare, grazie all’accumulazione, grandi estensioni di terra e poi venderne i prodotti.
La legittimità di questa evidente disuguaglianza poggia sul fatto che gli uomini hanno concluso
un tacito accordo circa l’uso del denaro, accordo dimostrato dal fatto che tutti accettano il denaro
e lo scambiano anche se l’accettazione del denaro equivale all’accettazione del principio dell’accumulazione illimitata.
È proprio in virtù della giustificazione teorica della appropriazione privata delle risorse naturali e del capitalismo inteso come accumulazione illimitata e fine a se stessa che Locke è considerato il padre del pensiero liberale.
D)La monarchia costituzionale
L’intento fondamentale per cui gli uomini si assoggettano a un governo, è la salvaguardia della loro proprietà.
Ciò avviene non solo attribuendo allo Stato il ruolo di giudice imparziale, ma anche il
compito di stabilire regole di condotta comuni (funzione legislativa), al fine di creare
condizioni di sicurezza, benessere e prosperità dei consociati. La funzione legislativa
incontra alcuni limiti invalicabili: il rispetto delle leggi di natura; il rispetto dei diritti inviolabili degli individui, primi fra tutti il diritto alla vita e il diritto di proprietà.
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Le diverse funzioni dello Stato, inoltre devono articolarsi in modo da impedire la prevalenza dell’una sull’altra.
La distinzione tra potere legislativo e esecutivo consente al primo di riunirsi, solo periodicamente
e non in permanenza, per legiferare, mentre il secondo deve assicurare costantemente e coattivamente l’obbedienza dei cittadini alle leggi. Chi dispone della coazione non dispone della legge,
e ad essa è anzi vincolato; chi legifera, in compenso, non ha alcun potere diretto di coazione. Il
legislativo è il potere supremo, ma la coazione spetta a quello esecutivo, subordinato al primo.
Il modello di riferimento di Locke è la monarchia costituzionale inglese quale risulta dalla
Gloriosa rivoluzione del 1688-89, i cui principi fondamentali sono contenuti nel Bill of Rights
del 1689. In tale sistema il supremo organo di governo è il King in Parliament, ovvero il re all’interno del Parlamento (Camera dei Comuni), col quale condivide la responsabilità legislativa,
mentre il potere giudiziario è affidato alla camera dei Lords e ai giudici.
E) Il diritto di resistenza
In linea con la sua concezione del carattere non assoluto del potere sovrano, Locke teorizza, a differenza di Hobbes, il principio del diritto di resistenza da parte dei sudditi.
Il diritto di resistenza si fonda sulla legge naturale, che è superiore alla stessa legge
positiva.
Tale diritto, tuttavia, non prevede forme di rivoluzione violenta, se non in ultima istanza. Mancando un giudice superiore cui appellarsi nei confronti di un legislativo che lo
voglia rendere schiavo, il popolo ha diritto di appellarsi al cielo, ovvero a una legge
superiore alla legge positiva che lo autorizza a rovesciare quel governo che venga
meno al suo mandato.
La teoria del diritto di resistenza, però, incorre in alcune contraddizioni che più tardi
Kant metterà meglio in risalto: non essendoci un giudice superiore in grado di dirimere le controversie tra popolo e sovrano, col diritto di resistenza si può correre il rischio
di ricadere nello stato di natura, né più né meno di quanto accade nel caso dell’esercizio del potere dispotico.
4.Baruch Spinoza (2)
Le premesse da cui parte l’analisi politica di Spinoza sono le stesse di Hobbes: anche
per il filosofo olandese, infatti, la costruzione dello Stato deriva dalla necessità di porre fine alla condizione di incertezza e precarietà della vita umana che caratterizza l’originario stato di natura.
Le conclusioni, tuttavia, rispetto ad Hobbes sono radicalmente diverse.
(2) Olandese di famiglia ebraica, Baruch Spinoza (1632-1677) fu espulso dalla comunità israelitica di Amsterdam, dove viveva, nel 1652 in seguito all’accusa di eresia mossagli per la sua interpretazione eterodossa delle Sacre Scritture. Per tutta la vita egli si guadagnò da vivere come levigatore di lenti per microscopi.
Le opere che interessano la storia delle dottrine politiche sono il Trattato teologico-politico, pubblicato nel
1670, e il Trattato politico, rimasto incompiuto al momento della morte dell’autore.
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A) Stato di natura, saggezza umana e patto sociale
Lo stato di natura in Spinoza è uno stato in cui il diritto di ognuno si estende fin dove
arriva la sua potenza. Ciascun individuo ha cioè pieno diritto a tutto ciò che è in suo
potere, e in particolare a conservare se stesso e a perseguire il proprio utile nella misura che la sua «potenza» gli consente.
Tale concezione nasce all’interno di una visione generale, spiccatamente panteistica, secondo
la quale Dio e la natura coincidono (secondo la celebre formula spinoziana «Deus sive natura»).
Così come la potenza di Dio può dispiegarsi in piena libertà, altrettanto può fare la potenza della natura, all’interno della quale è compreso l’uomo con il suo «carico» inscindibile di razionalità e passioni.
Si legge nel Trattato teologico-politico: «per diritto e istituto di natura io non intendo se non
le regole di natura di ciascun individuo, secondo le quali noi concepiamo che ciascuna cosa è
naturalmente determinata ad esistere ed operare in un certo modo: per esempio, i pesci sono
determinati dalla natura a nuotare, e quelli grossi a mangiare i più piccoli; e perciò i pesci per
supremo diritto naturale dispongono dell’acqua, e i grossi mangiano i più piccoli.
È certo infatti che la natura ha diritto a tutto ciò che essa può, cioè che il diritto della natura si
estende fino là dove si estende la potenza di essa: perché la potenza della natura è la potenza stessa di Dio».
L’esempio dei pesci spiega la condizione umana nello stato naturale. Anche tra gli uomini, infatti, vige la regola che «il grosso mangia il più piccolo». In questo senso, la
visione della stato naturale di Spinoza appare addirittura una radicalizzazione del homo
homini lupus di Hobbes.
Infatti, se gli uomini fossero tutti saggi, e vivessero tutti unicamente sotto la guida della ragione, ognuno eserciterebbe il suo diritto senza recare alcun danno agli altri.
La saggezza, però, non è la condizione normale degli uomini: per lo più essi sono
soggetti agli affetti e alle passioni, che spingono ciascuno a ricercare il proprio utile
anche se questo dovesse recare danno agli altri. Anzi, in questa ricerca dell’utile ciascuno non esita a ingannare e tradire pur di raggiungere il proprio scopo.
Se gli individui permanessero nello stato di natura, essi sarebbero condannati a vivere in mezzo
alle inimicizie e agli odi, a danneggiarsi gli uni con gli altri, a non poter godere di una vita tranquilla e sicura, alla quale comunque tutti aspirano.
Ne deriva che, se gli uomini vogliono raggiungere il loro utile e la loro sicurezza, devono «venir fuori» dallo «stato naturale», rinunciare al diritto su tutto e cederlo alla
collettività, stringendo con gli altri un patto sociale. Col patto gli individui rinunciano al loro diritto di natura e lo cedono alla collettività dando, così, vita ad una comunità politica denominata «Stato».
B) Funzioni e organizzazione dello Stato: la democrazia
Lo Stato nasce, per Spinoza, con due compiti fondamentali: imporre le leggi e punire
i trasgressori in quanto la minaccia della sanzione è la modalità più sicura per convincere i singoli ad astenersi dal danneggiare ingiustamente gli altri, trasgredendo la legge.
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Ma come dev’essere organizzato lo Stato?
La risposta di Spinoza segna una decisa inversione di tendenza rispetto a Hobbes. Mentre quest’ultimo prediligeva, infatti, la forma monarchica, Spinoza sostiene invece che
la miglior forma di governo è quella democratica. Nella democrazia, infatti, il diritto
di cui ognuno godeva nello stato di natura non viene trasferito a un individuo particolare (il sovrano), ma ripartito tra tutti coloro che hanno sottoscritto il patto sociale.
L’ordinamento democratico è quello che maggiormente rispetta la libertà che la natura ha
concesso a ognuno: in esso infatti «nessuno trasferisce ad altri il proprio naturale diritto in modo
così definitivo da non essere poi più consultato; ma lo deferisce alla maggior parte dell’intera
società, di cui è membro, e per questo motivo tutti continuano ad essere uguali come erano
nel precedente stato di natura».
Così formulata, la teoria di Spinoza fa coincidere la sovranità con quella che Rousseau, un
secolo più tardi, richiamandosi esplicitamente al filosofo olandese, chiamerà la volontà generale, cioè la volontà espressa dall’insieme degli individui che hanno sottoscritto il patto.
La contrapposizione tra assolutismo e democrazia, che caratterizza le dottrine di Hobbes e Spinoza, si giustifica anche con le differenti realtà politiche in cui i due filosofi
erano calati.
Hobbes, come già sappiamo, vive la guerra civile inglese convincendosi della necessità di un ritorno del «potere forte» degli Stuart, mentre Spinoza vive e opera in quella Repubblica delle Province Unite che, ottenuta l’indipendenza dalla Spagna, si affermò anche a livello internazionale, grazie al protagonismo dei ceti mercantili, l’indipendenza dalla Chiesa e un sistema di governo relativamente rappresentativo e aperto per i suoi tempi.
C) Revocabilità del patto sociale e libertà di pensiero
Vi è anche un ulteriore aspetto per il quale la concezione di Spinoza si distingue da
quella di Hobbes.
Nella prospettiva spinoziana, infatti, il patto sociale, una volta sottoscritto, non è irrevocabile. Gli uomini che lo hanno sottoscritto, lo hanno fatto per meglio garantire
il proprio utile individuale; ma se la società non riesce a realizzare l’utilità comune
che è il fondamento del patto, esso non ha più alcun motivo di esistere, e dunque tale
accordo può anche essere cancellato e riscritto.
Proprio perché la ragion d’essere del patto è la comune utilità, l’autorità sovrana che
col patto viene istituita non ha potere assoluto sui sudditi: nessuno individuo, aderendo al «patto sociale», si spoglia dei suoi diritti al punto da rinunciare a ciò che caratterizza la sua natura di uomo. Per cui è ragionevole ammettere che ciascuno si riservi
quei diritti che, di conseguenza, dipendono dalla sua volontà e non da quella di altri.
La rinuncia ai diritti naturali, insomma, non può essere né totale né illimitata perché in contrasto con la «sacralità» di quei diritti cui l’uomo non può rinunciare senza
cessare di essere tale.
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Il primo di questi diritti inalienabili è per Spinoza la libertà di pensiero (e non la proprietà come affermava Locke).
Lo Stato può vietare determinati modi di agire; ma non può e non deve far nulla
contro la libertà di pensiero, di parola e di insegnamento (salvo nel caso estremo in
cui queste costituissero un pericolo immediato per l’esistenza dello Stato stesso).
Ogni cittadino ha diritto al libero esercizio della sua ragione, anche nel caso in cui
dovesse servirsene per criticare le norme emanate dallo Stato; ciò che allo Stato deve
interessare è il comportamento del cittadino, non le sue idee che sono intangibili.
Quella di Spinoza è dunque una versione del modello contrattualista che pone l’accento sulla valorizzazione della forma di governo democratica e l’irrevocabile affermazione di diritti cui gli
individui non potrebbero rinunciare neanche se lo volessero, perché in contrasto con la stessa natura umana.
Il diritto come pratica sociale
Le teorie tradizionali sul fondamento dell’ordinamento giuridico del diritto cristallizzate nel tempo si caratterizzano per una neutrale operazione conoscitiva sulla realtà giuridica che il legislatore, in primis, impone ai sudditi.
Da ciò deriva il carattere meramente descrittivo dell’interpretazione giuridica che si limita a descrivere l’oggetto, e, in tal modo, il diritto, secondo Weber, si caratterizza per una sua estraneità alla vita e ai suoi accadimenti concreti che rappresentano, invece, il «diritto vivente».
Tuttavia, partendo dalla concezione di Alf Ross del diritto come «pratica sociale» o momento o espressione della cultura giuridica e delle ideologie normative di un determinato Paese,
l’indagine del giurista si dirige verso una concezione «statica» e amorfa del diritto.
Manca del tutto in tale approccio un confronto con una realtà metagiuridica che ha come fine
il bene comune o interessi collettivi o volontà generale e che spinge l’interprete a valutare il diritto come «dover essere», frutto cioè dell’interazione tra l’agire umano e la volontà collettiva
che è la più genuina espressione della comunità sovrana titolare del potere d’imperio.
Secondo questa logica, le relazioni di potere e gli schemi comportamentali (es.: le prassi costituzionali) devono riflettere i valori e la solidarietà di norme socialmente condivise che non è
più mera descrizione del diritto, ma si risolve in una stimolante proposizione di nuovi modelli
d’agire di natura pratica e non teorica che si rifanno al contesto sociale globale.
In questa prospettiva si può anche leggere in senso positivo la teoria di Carl Schmitt del diritto inteso come regola o decisione che deve discendere da un ordinamento ideale e condiviso che esprime, con metodo persuasivo, una verità generale.
La sovranità, dunque, lascia spazio all’indagine sociologica cui aspira per dar vita al «diritto vivente» (Ehrlich).
Occorre, dunque, abbandonare qualsiasi dottrina meramente formale del diritto e ricorrendo al
principio dell’effettività, aprirsi agli orientamenti politici e culturali condivisi, nonché alle dinamiche concrete dei fatti normativi al fine di mirare al conseguimento di regole giuste ed
eque come fattore fondamentale di dialogo nella corretta interazione tra cittadini e Stato.
Il benessere collettivo, espressione più genuina della sovranità del popolo, deve essere sempre considerato prioritario dinanzi a interessi di parte o di politicanti che tendono alla affermazione di «poteri personali» o di «casta», dimenticando che in tutti gli ordinamenti democratici
la sovranità appartiene solo ed esclusivamente al popolo.
Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche
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Capitolo 15 Lo Stato sociale e la crisi
del nuovo secolo
Sommario Z 1. Lo Stato sociale (Welfare State). - 2. Critica e crisi dello Stato sociale. - 3. Sinistra e destra davanti alla crisi dello Stato sociale. - 4. Rawls,
Dworkin, Nozick, Rothbard, Giddens.
1.Lo Stato sociale (Welfare State)
La riflessione politica del secondo dopoguerra si concentra su un problema di fondo:
la connessione tra Stato sociale e cittadinanza, che implica l’affermarsi del principio della necessità e dell’universalità delle prestazioni sociali indispensabili che devono essere erogate dallo Stato (sanità, scuola etc.) e il formarsi, su questa base, della cittadinanza come «valore democratico» dello «Stato sociale».
A questo fenomeno sono collegati altri due:
— il progressivo espandersi dei compiti dello Stato, la cui azione coinvolge l’intera vita dei cittadini senza, però, assumere l’entità, lo spirito e la pressione dello
Stato totalitario;
— la possibilità di estendere la propria visione politica oltre i limiti del potere assoluto dello Stato e la tutela dei diritti «intangibili» degli individui che, a prescindere dalla loro cittadinanza, condividono le stesse garanzie in relazione ad essi.
La formazione dello Stato sociale è connessa con un ampliamento dello «Stato di diritto» che nasce dalla Costituzione la quale riconosce a tutti gli individui i diritti di
uguaglianza e libertà che, però, senza i correttivi e le regole imposte dallo «Stato sociale», non possono trovare effettiva applicazione.
Le Costituzioni assumono, così, le dimensioni di veri e propri «contenitori» di programmi per governare lo Stato e disciplinano la complessa rete di rapporti tra Stato e cittadini.
Così, per quanto i caratteri dello Stato sociale (che esalta il terzo principio enunciato
dalla rivoluzione francese: la fraternità, che oggi viene chiamata solidarietà) siano da
rintracciarsi già nella politica di Bismarck (seconda metà dell’Ottocento), le costituzioni del ’900 sanciscono un insieme di misure che fanno parte delle politiche sociali.
Si tratta dunque di un modello che tende a superare i limiti formalistici dello Stato
con lo scopo di realizzare una «Great Society», sull’esempio di quella americana di
Kennedy e Johnson (principio presente anche nella politica sociale del centro-sinistra
italiano degli anni ’70 -’80).
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Capitolo 15
A) Cittadinanza e classi sociali
Il paradigma di questa concezione si riscontra nel sistema britannico degli anni Cinquanta, epoca caratterizzata da un modello di politica «consociativa», a tutela dei diritti intangibili dell’uomo, che accomuna conservatori e progressisti.
Esponente di spicco di questa concezione è T.H. Marshall (1893-1981) secondo il
quale il compito fondamentale dello Stato è il riconoscimento generalizzato di tutti
i principi e le norme sottesi ai diritti sociali.
Ciò comporta una modifica del concetto di «cittadinanza», non solo in senso giuridico, ma in un significato più ampio che tende all’equiparazione dello status di tutti gli
esseri umani (in ossequio soprattutto al principio di uguaglianza di fronte alla legge).
In età contemporanea, infatti, scompare il concetto di status come causa genetica di
disuguaglianze, anche se si è ancora lontani dalla condizione di un concetto di cittadinanza universale completamente paritaria.
La cittadinanza viene distinta in tre dimensioni: civile, politica e sociale.
A ciascuna corrispondono specifici diritti fondamentali: dalla libertà di pensiero e di parola all’insieme dei diritti civili.
Anche per quanto riguarda i diritti politici, Marshall postula una radicale estensione, mentre per
i diritti sociali auspica la fondazione di istituzioni statali nuove come il sistema scolastico e i servizi sociali per assicurare il benessere collettivo.
Il pensiero di Marshall, comunque, non prevede una società senza classi o una generica forma di
socialismo, bensì una società che legittima, nel rispetto dei diritti umani, le differenze di classe.
A questi temi si collegano quelli relativi alla «centralità» della dimensione sociale
dello Stato, collegata al sorgere di una società «opulenta», con la conseguente crescita del ceto medio e dei problemi legati all’integrazione tra le classi come alternativa al
superamento degli antagonismi della lotta di classe (J.K. Galbraith).
Sulla dimensione negativa del concetto di classe insiste, invece, Ralf Dahrendorf
(1929-2009) che nota come anche nella società attuale, fatta di «arrivisti e falsi profeti», non si possa fare a meno di elogiare una serie di intellettuali (da Erasmo a Moro,
fino ai recenti Aron, Popper e Berlin) che non si fanno «comprare» dal sistema escludendo dal loro pensiero ogni forma di servilismo, dogmatismo e opportunismo per obbedire solo alla ragione, dignità e libertà e che consentono, a chi li rispetta, di camminare a «testa alta» e con la «schiena dritta».
Dopo un serrato confronto con le teorie di Marx e un’analisi della società industriale
(un genere di cui il «capitalismo» è solo una specie), Dahrendorf definisce la società attuale considerandola «post-capitalistica».
In polemica con i teorici dell’integrazione, il pensatore rivaluta la necessità del conflitto di classe, considerato come motore dialettico dello sviluppo sociale. Ciò, in particolare, presuppone una concezione dello Stato inteso come protagonista della vita economica di una nazione e non come semplice arbitro nei contrasti tra capitale e lavoro.
Questa visione, implicita nelle teorie keynesiane degli anni Trenta, caratterizza le scelte di politica economica degli Stati occidentali.
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
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B) Le critiche liberali e conservatrici
Tutte queste teorie confermano la teoria di Daniel Bell (1919-2011) secondo cui la politica del secondo dopoguerra è segnata dalla fine delle ideologie e dall’abbandono del
marxismo a favore delle istanze liberaldemocratiche e rivaluta l’individualismo metodologico del singolo e le sue opinioni motivanti dinnanzi al «sistema».
La riqualificazione del liberalismo emerge nella riflessione di Friederich August von
Hayek (1899-1992) che, ignorando gli eventi del 1929, anticipa le critiche di stampo
neoliberale mosse allo Stato sociale e propugna una politica liberista ispirata al laissez
faire come garanzia di fronte al proliferare di nuove ideologie e totalitarismi (1).
La giustizia sociale per il filosofo viennese, noto avversario di Keynes, deve essere considerata
un miraggio e deve essere sostituita da una complessiva riforma della liberaldemocrazia che
deve ripristinare la sovranità del diritto e le regole spontanee che governano il mercato.
Lo «Stato sociale» rappresenta un blocco al dinamismo della società e il momento iniziale di una
burocratizzazione ipertrofica. La concezione di Hayek si regge sul presupposto della superiorità
del mercato su ogni altra forma di meccanismo sociale. Se è vero che la casualità delle regole
del mercato genera disuguaglianza, è anche vero che proprio il fatto che le sue regole non siano
predeterminate rende possibile che la disuguaglianza non colpisca un insieme determinato di persone. Proprio perché non risponde a una intenzione, ma a una dinamica impersonale, la disuguaglianza, generata dal mercato, non è ingiusta.
Il pensiero di von Hayek riassume tutte le forme di neoconservatorismo del Novecento (e anche quella di Augusto Del Noce), cioè di quelle linee di pensiero che vedono nello Stato sociale il frutto del dissolvimento di valori etici della libertà economica, criticando dalle fondamenta il pensiero socialista, malato di «costruttivismo»
che consiste nell’autorizzata pianificazione dell’attività economica e sociale dello
Stato.
L’alternativa non è però la proposta di un nuovo insieme di valori, ma una riflessione
sul concetto di autorità ancorata a presupposti metafisici o, più in generale, sostanziali.
Centrale in queste linee di pensiero fortemente neo-conservatrici è il rischio che lo
Stato sociale possa dare spazio a quel dispotismo della maggioranza teorizzato da
Tocqueville.
Dal punto di vista politico von Hayek sostiene la cd. «demarchia» cioè una forma di
governo affidato a due assemblee, una legislativa e l’altra governativa, che regolino
l’ordinamento.
Più genericamente si parla, cioè, del tramonto del senso di responsabilità (Riesmann),
del livellamento conformistico dei comportamenti individuali (Schelsky), dell’affermarsi della tecnocrazia (Freyer, Heidegger), fino a giungere a un gruppo di teorie relative alla decomposizione dello Stato (Fohrsthoff, Gehlen).
(1) Grave difetto dello Stato sociale è il fatto che il suo operato subordina l’individuo a un insieme di norme
astratte (e fortemente connotate sul piano etico e politico) sulle quali non è mai possibile raggiungere un accordo unanime. Ogni teoria della pianificazione e del bene comune per von Hayek cela in realtà un insieme di interessi particolari e tende a conseguire e conservare posizioni di privilegio.
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Capitolo 15
C) Le critiche di sinistra degli anni ’60
Negli anni che seguono la fine della guerra il boom economico allontanò ancora di più
l’Europa dal socialismo: nacquero diverse forme sociali, formate prevalentemente dal
«ceto medio» che non si identificarono con le istanze del socialismo.
Sebbene la questione sociale fosse rimasta ancora «viva», il persistere delle disuguaglianze venne risolto attraverso un patto sociale tra Stato e cittadini.
Si affermò, così, una forma di economia mista (disciplinata dalla Costituzione Repubblicana agli artt. 41-54) nella quale coesistono imprenditori pubblici (nelle industrie di base) e privati (nelle industrie satelliti), che rappresentano un compromesso
tra capitalismo e teorie socialiste, sostenute anche (ma non solo) da partiti di sinistra
che in alcuni Stati (Italia, Francia) costituiscono forze di opposizione, che come tali,
non contribuirono attivamente a determinare il corso politico, economico e sociale
dello Stato.
L’idea «socialista» perde adepti nei Paesi occidentali in seguito al degenerare della «dittatura del
proletariato» dell’Unione Sovietica, dove permase una forma di totalitarismo sancita dalla repressione della rivolta ungherese del 1956.
La cd. «dittatura del proletariato» che non è mai riuscita a conseguire integralmente il «progetto comunista» mette in luce il disagio globale (di destra e sinistra) della società bellica. Tale disagio si riscontra in Jean Paul Sartre (1905-1980).
Sebbene il marxismo venga assunto da Sartre in una fase iniziale del suo pensiero come esempio di rivoluzione permanente a livello politico le sue posizioni sono critiche nei confronti del
«presunto» comunismo, sia di stampo sovietico, sia di quello del partito comunista francese.
In una direzione diversa agiscono le critiche di O. Kirchheimer che, ispirandosi alle teorie della
Scuola di Francoforte, sottolinea come il vero fattore di integrazione nella società contemporanea
sia il consumo e considera il lavoro non come espressione di un valore ma come condizione che
lo allontana da qualsiasi forma di struttura collettiva (Stato, cittadinanza, sindacato).
D)L’Italia
La politica italiana degli anni Sessanta è fortemente influenzata dalle teorie socialiste
che si affermano nel movimento operaio.
Si tratta di teorie che non si arrestano alla sola critica del mondo capitalistico, ma tendono a mostrare in positivo come, nel quadro delle società capitalistiche, il movimento
operaio abbia sempre assunto una funzione dinamica tesa a rallentare lo scoppio delle contraddizioni dell’età borghese preconizzate da Marx, grazie a una accorta politica sociale e di tutela di lavoratori (v., ad esempio, lo «Statuto dei lavoratori» del ’70).
E) La Germania (la filosofia del futuro di Bloch)
Particolarmente importante è la componente utopistica del marxismo, che si sviluppa
nella filosofia tedesca e fa capo al pensatore, di origine ebraica, Ernst Bloch (18851977) concentrato a individuare la matrice teologica della carica rivoluzionaria implicita nel marxismo considerato una filosofia rivolta al futuro che, invece di contemplare il mondo, cerca di trasformarlo.
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
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Nella società attuale sono presenti le condizioni che esprimono una concezione ottimistica del futuro, in contrapposizione al momento attuale che ricerca la sola verità
per cui l’individuo deve imparare a sperare (così fu per Eraclito, nell’eros platonico
e nella «potenza» insita nella materia di Aristotele).
Questo, in sintesi, è ciò che Bloch definisce «Principio di speranza» asserendo che
dove c’è speranza, c’è religione.
Su questo stesso fronte, ma critico nei confronti di Bloch, si muove Hans Jonas (19031993) che, nel corso della riflessione sullo sviluppo tecnico e sul principio di responsabilità collettiva, tenta di rivalutare la storicità concreta dell’essere umano in alternativa all’utopia di Bloch.
F) La Francia e il terzo mondo
Una svolta per la cultura marxista è l’avvento dello strutturalismo e il confronto con
la psicanalisi.
Una sintesi di questi orientamenti è data da Luis Althusser (1918-1990) il quale punta su una rifondazione del materialismo storico inteso come concezione scientifica,
che si afferma dopo la cesura epistemologica operata da Marx nei confronti dell’umanesimo e dell’hegelismo.
Per il filosofo di origine algerina la principale distinzione non è tra «scienza borghese»
e «scienza proletaria», ma tra scienza e ideologia: l’ideologia marxista, per Althusser, è antiumanistica (il capitale e non l’uomo, è il vero protagonista del marxismo).
Il rifiuto di un’interpretazione umanista del marxismo privilegia l’indagine di certe dinamiche sociali indipendenti dai soggetti che le incarnano e, dunque, dei rapporti di
sfruttamento, di produzione etc. (che costituivano il nocciolo della riflessione matura
di Marx) e che sono le «strutture» che muovono il mondo (questo, in sintesi, è lo spirito dello Strutturalismo).
Un ultimo gruppo di critiche allo Stato sociale riguarda il cosiddetto Terzo mondo
sfruttato dai Paesi «democratici» e «capitalisti» sulla base dei concetti di sviluppo e
sottosviluppo, dipendenza e scambio ineguale (soprattutto nei Paesi monoculturali,
come Cuba, concentrata nella prevalente produzione di canna da zucchero).
G)La geopolitica, le organizzazioni interregionali, regionali e il problema della guerra
La condizione politica del dopoguerra (1945) segna la fine della moderna concezione
del diritto internazionale considerato come «interazione» paritaria tra Stati sovrani.
Questa concezione è già presente in Kelsen, ma l’avvento della guerra fredda e il conseguente ordine mondiale bipolare (cd. mondo diviso in due blocchi) nel pensiero del
maestro viennese inaugura un nuovo tipo di rapporti di equilibrio tra macrosfere di influenza determinate da un punto di vista politico e geografico.
Questa contrapposizione stimola, tra l’altro, la formazione di un organismo sovranazionale europeo (Le Comunità europee oggi sostituite dall’«Unione europea») e di
altre organizzazioni regionali mondiali che aggregano diversi soggetti politici limitro-
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Capitolo 15
fi per favorire, in primis, gli scambi per poi aprirsi all’integrazione politica (esempio:
il MERCOSUR nell’America latina).
Si tratta di concezioni derivanti dall’idea di «federalismo europeo» che si rifà a Luigi Einaudi (1874-1961) che si concentrano maggiormente sul problema della crisi
dello Stato sovrano, al quale viene sostituita una visione della società come sistema
complesso, multinazionale e globale.
Queste concezioni vengono ulteriormente consolidate dalla riflessone di Jean Monnet che propone la formazione su scala continentale di istituzioni che, inizialmente
prive di valore politico, presentano però una forte connotazione tecnica e controllano,
con l’adozione di una politica economica comune degli Stati membri, alcuni settori
strategici (esempio: siderurgia, sviluppo delle centrali atomiche etc.) più rilevanti nel
contesto «europeo».
In questo periodo, oltre al tramonto del colonialismo si deve segnalare un radicale mutamento della concezione della guerra.
Prerogativa di una sola nazione dominante (gli USA), la guerra si sgancia da motivazioni reali e assume diversi significati e ruoli, come guerra di contenimento, guerra preventiva, azione di polizia internazionale nei confronti di un nuovo nemico globale: il comunismo sovietico, cinese e cubano.
La riflessione sulla geopolitica, che trova il suo capostipite in Schmitt, diviene con Raymond Aron
(1905-1983) motivo di comprensione storica delle radici culturali dell’Europa, dell’avvento dei totalitarismi e dell’affermazione del modello pluralistico-costituzionale rappresentato, in primis,
dagli USA.
La formulazione di un’«etica della saggezza» improntata alla moderazione e alla prudenza conduce Aron alla concezione secondo la quale «la pace è impossibile, ma la guerra è improbabile».
La guerra, cioè, è uno strumento della politica considerata l’unica via per limitare la distruzione reciproca che potrebbe scaturire dallo scoppio di una guerra atomica totale.
L’apocalisse nucleare che avrebbe potuto coinvolgere, in primis Usa, URSS e Cina comunista, ha condizionato le riflessioni filosofiche-politiche della seconda metà del Novecento e in particolare quella di Gunther Anders (1902-1992) che vede nella «minaccia
atomica» lo strumento per l’aprirsi di un territorio sconosciuto della nostra esistenza.
L’uomo, liberatosi dalle potenze arcane e delle suggestioni mitologiche, fa oggi l’esperienza di sentirsi onnipotente, considerando sé stesso il «creatore» o «distruttore» del
mondo. Ma alla potenza positiva della creazione si sostituisce la potestas annihilationis (il potere dell’annichilazione) che si concentra nelle mani di coloro che posseggono i mezzi potenzialmente in grado di scatenare una guerra atomica, biologica e chimica.
A queste riflessioni si accompagnano altri importanti fattori e correnti di pensiero
che condizionano l’esistenza dell’uomo attuale:
— il sorgere dell’ecologismo, del pacifismo e dei movimenti antinucleari, che si accompagna alla politica del disarmo progressivo delle grandi potenze atomiche
all’insegna del principio universalmente riconosciuto della coesistenza pacifica;
— la formulazione della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, adottata
dall’ONU nel 1948, in cui si condanna severamente la guerra atomica e si rivalutano i diritti (con la dichiarazione United for peace) del singolo dinnanzi allo Stato;
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
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— un rinnovamento dei principi della Chiesa cattolica (Concilio Vaticano II) che incrementa la sua funzione sociale abbandonando la sua «neutralità politica» e intervenendo fattivamente nel processo di «decolonizzazione dei Paesi del terzo mondo».
2.Critica e crisi dello Stato sociale
Gli anni Sessanta, stagione di grandi esperienze politiche, non possono essere considerati un periodo «di pace».
Pur attenuandosi la tensione politica e militare tra Est e Ovest è stato inevitabile il sorgere di nuove contraddizioni, sia all’interno dei singoli Stati, sia all’interno dei grandi blocchi geopolitici.
In questi anni matura la situazione politica che aprirà successivamente il nuovo millennio.
A) Decolonizzazione e imperialismo
Uno dei fenomeni più significativi della politica internazionale è rappresentata dalla
decolonizzazione, promossa dal movimento dei Paesi non allineati capeggiati dalla
ex Jugoslavia del defunto presidente Tito, che prende vita nella Conferenza internazionale di Bandung.
Tra il 1945 e il 1983 questo processo causa lo scoppio di numerose guerre civili.
Le più importanti varianti teoriche che si diffondono nei Paesi del terzo mondo sono:
— la teoria della négritude del senegalese L.S. Senghor;
— quella del panafricanismo del ghanese K. Nkrumah;
— la dottrina della non violenza di M.K. Gandhi.
Queste concezioni non possono essere ridotte alla mera riscoperta di tradizioni ancestrali, ma si contrappongono alla crescente «occidentalizzazione» del mondo rispondendo al «nuovo» con la valorizzazione di elementi tradizionali all’interno di progetti politici di sviluppo le cui caratteristiche, senza correttivi adeguati, si dimostrano
inattuabili nei Paesi del Terzo Mondo.
Si noti che quello che viene definito «Terzo Mondo» riguarda un insieme diversificato di territori in
cui le situazioni politiche, economiche e sociali sono eterogenee e nei confronti delle quali non
può essere adottata una soluzione politica unitaria per la riuscita della cooperazione internazionale e lo sviluppo.
Momenti topici di quest’epoca possono essere considerati:
1) La decolonizzazione in Africa. Una delle più significative contraddizioni interne
alla politica nei Paesi del Terzo Mondo è relativa alla impossibilità di esportazione tout court del sistema di valori occidentale in alcuni Paesi arretrati come quelli dell’Africa Nera.
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Capitolo 15
Indicativo in questo senso è il pensiero di F. Fanon, che propone una teoria della liberazione
dei colonizzatori attraverso la violenza, compresa la liberazione, dagli stereotipi propri dell’immagine dei popoli colonizzati, in favore della restaurazione di una presunta autenticità tribale africana.
Ispirandosi alla dialettica «servo e padrone» di Hegel, Fanon ritiene che le colonie sono dominate da una radicale asimmetria, che trova il suo apice nei concetti di razzismo e apartheid in Sudafrica e in Zimbawe (ex Rodesia del Sud).
Il sistema coloniale viene meno una volta che si afferma a livello planetario il principio di
uguaglianza, per cui il colonizzato comprende che la sua vita e i suoi diritti non possono essere diversi di quella di chi lo colonizza.
L’irruzione nella storia della parità di diritti naturali tra dominatori e dominati innesca il processo di decolonizzazione che smaschera la fallace tendenza di processo graduale di ammodernamento orchestrato dalle potenze colonizzatrici, mettendo in luce la prosecuzione in
forme diverse di un rapporto di dominio degli Stati occidentali nei territori delle ex-colonie.
La soggettività dei dominati è la spinta delle aspirazioni nazionali che fungono da «Starter»
della lotta per l’indipendenza.
2) L’ascesa della Cina. La funzione delle masse rurali, e più in generale della massa popolare, accomuna anche la visione della decolonizzazione che maturano in
estremo oriente.
Di stampo marxista, tali teorie possono essere sintetizzate con l’immagine della
campagna che accerchia la città, secondo la riflessione del dirigente comunista cinese Lin Piao (1907-1971) e di Mao Zedong (1893-1976).
L’intervento attivo delle masse, la «rivoluzione culturale» e una graduale tendenza alla «tecnicizzazione dell’amministrazione» rappresentavano i caratteri fondanti della Repubblica Popolare Cinese, nata nel 1949.
Dal punto di vista politico il pensiero di Mao, leader storico della Cina Comunista, presenta tre
caratteristiche:
1) il primato del politico;
2) la linea della massa;
3) la centralità delle zone di campagna nel processo rivoluzionario.
Questi elementi portano alla realizzazione del marxismo in una società che versava in una condizione molto diversa da quella ipotizzata da Marx. Centrali sono
in questo senso anche la funzione del singolo individuo della rivoluzione e l’uso
dell’inchiesta sulle trasformazioni che intervengono nella struttura sociale cinese.
3) La decolonizzazione come momento di affermazione dei diritti intangibili dei
popoli. L’esperienza cinese indica una linea di tendenza che tende a valorizzare il
concetto di popolo che precorre il processo di decolonizzazione di alcuni paesi del
Medioriente (es. l’Egitto di Gamal Abdel Nasser) o del Sudamerica (es. il populismo giustizialista di J.D. Peron in Argentina), o ancora dell’estremo oriente (il
Vietnam di Ho Chi Minh) in cui il consenso del popolo (comunque raggiunto) rappresenta un momento fondamentale della vita politica.
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
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A questi movimenti si affiancano anche quelle concezioni filo-marxiste che considerano la decolonizzazione come il prodotto di una guerra di popolo, come nel caso della «guerra di
guerriglia» condotta da Ernesto «Che» Guevara. La sua visione politica (sintetizzata
nell’espressione«patria o morte») dimostra sul campo la possibilità che le forze popolari possano sconfiggere gli eserciti regolari (più attrezzati, ma meno motivati al combattimento) e che
la rivoluzione può essere portata a termine anche quando non siano ancora mature le condizioni. Il «teatro» di scontro rivoluzionario in America Latina è definito fochismo e abbraccia
quell’insieme di dottrine che verranno successivamente applicate in molte esperienze di guerriglia nel Sudamerica.
B) La rivoluzione in occidente
1) Il Sessantotto. I conflitti del Terzo mondo, e in particolare quello del Vietnam avvenuto fra il 1964 e 1969 (conclusasi con una clamorosa disfatta dell’imbattuto
esercito degli Stati Uniti) condizionano la situazione politica dell’occidente non
solo per la crescente quantità dei movimenti pacifisti sorti dapprima in USA e poi
nel resto del mondo occidentale contro la guerra di oppressione perpetrata nel VietNam, ma anche perché i conflitti scoppiati nelle diverse parti del mondo radicalizzano la contrapposizione tra mondo capitalista e mondo comunista.
In questa nuova dimensione globale si spiega il fenomeno complesso del Sessantotto.
Al di là delle diverse chiavi interpretative di questa esperienza cruciale per l’età contemporanea, infatti, i movimenti che nascono alla fine degli anni Sessanta hanno come punto in comune la critica al bipolarismo USA-URSS, e, come conseguenza, la messa in discussione
della concettualità della politica e in particolare dei concetti di potere e di soggetto.
Questi sono i tratti rintracciabili nella rivolta studentesca, nella ripresa delle lotte operaie, nella critica alla società del benessere e al modello della produzione di massa.
I presupposti filosofici e culturali che accompagnano questi fenomeni sono riscontrabili non
solo nell’ortodossia marxista, che torna nuovamente di attualità per il suo potenziale critico,
ma anche nelle teorie critiche della Scuola di Francoforte (e in particolare quelle di Marcuse), oltre che allo sviluppo della psicanalisi, intesa come strumento per reagire alla repressione della sessualità e al ruolo conservatore del «costume» della società borghese.
L’analisi di Marcuse (vedi ante), soprattutto nella celebre opera L’uomo a una dimensione,
critica la tendenza totalitaria della società capitalistica che fagocita la libertà e i desideri individuali a favore di una presunta superiorità della tecnocrazia.
2) Foucault. Su un piano parallelo, anche se diverso, si pone il pensiero del francese
Michel Foucault (1926-1984). Nel clima di crescente diffusione dello strutturalismo, (vedi ante) Foucault focalizza la sua attenzione sui processi di «soggettivazione del soggetto». La soggettività non è una funzione naturale, per così dire innata del soggetto, ma il risultato di dinamiche che si evidenziano in rapporti di sapere e di potere determinati.
Nella Storia della follia, ad esempio Foucault mostra come la ragione, per costruire la propria
identità, avesse avuto bisogno di costruire anche il suo altro da sé: il pazzo, che, al contrario, in età contemporanea viene considerato un «malato di mente», entità «dissociata» costrui­
ta dal dispositivo di oggettivazione della scienza medica.
Questa «archeologia delle scienze umane» mette a nudo l’impianto antiumanistico del pensiero di Foucault che, tuttavia, non perde di vista la questione del soggetto. Anzi, l’esperien-
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Capitolo 15
za del Sessantotto mostra come ogni aspetto della vita quotidiana abbia la sua valenza politica, essendo, cioè, riconducibile a rapporti con le strutture di potere.
Foucault afferma l’esistenza di un mezzo indissolubile tra forme del sapere e diagramma
del potere che solleva l’esigenza di operare un’anatomia della politica, che metta in luce
come quest’ultima non sia riducibile alla dialettica marxista tra struttura e sovrastruttura, ma
una microfisica del potere che mostri come gli autentici luoghi dell’esercizio del potere si
sottraggano alla sfera pubblica della cultura, ma vadano rintracciati nelle istituzioni tecniche
(fabbriche, caserme, scuole, ospedali, prigioni, etc.) e nei saperi che sono loro connessi.
Dalla stretta relazione tra forme di sapere e rapporti di potere deriva la regressione dei concetti di sovranità e consenso in quelli di dominazione e assoggettamento, mentre l’obiettivo della conquista del potere diviene resistenza all’antagonista che delle «relazioni di potere» è membro ineliminabile.
Foucault, infine, concepisce negli ultimi anni della sua riflessione il concetto di biopolitica che mette a nudo la suddivisione tra governanti e governati, proponendo una visione della cittadinanza
come «corpo della popolazione», nei confronti della quale la politica esercita una funzione di regolazione il cui fine ultimo è di «lasciar vivere o lasciar morire il corpo stesso» (v. cap. seguente).
3) Il femminismo. Il pensiero di Foucault sulla dimensione politica del quotidiano rappresenta una prospettiva feconda per lo sviluppo di movimenti a tutela delle minoranze e dei soggetti biologicamente più deboli, e, su tutti, del movimento femminista.
La dominazione di genere viene vista come lo sfondo delle grandi «narrazioni filosofico-politiche», dei rapporti sociali e interpersonali, che devono essere messi
in discussione nella misura in cui pretendono di stabilire, una volta per tutte, i confini e i limiti della politica.
La critica femminista apre un confronto tra uguaglianza e differenza. Il compimento dell’idea
moderna di uguaglianza, infatti, deve essere cercato nella legittimazione di una differenza che
non può essere assorbita da un modello che pone una visione esclusivamente maschilista.
In questa direzione sono significative le riflessioni di Betty Friedan, di Simone de Bouvoir
e, in anni recenti, di Luce Irigaray, che accusa Freud di aver rimosso «l’assassinio della donna-madre dalla scena del parricidio fondatore della civiltà».
Il pensiero «al femminile» della differenza deve essere contrapposto a quello essenzialmente maschile della identità.
Più in generale gli sviluppi del pensiero femminista hanno dato un forte impulso ai gender
studies, che mostrano il forte l’impatto della cultura femminista in tutti i campi del sapere.
4) I movimenti afro-americani. Sempre dal Sessantotto, e a partire da una riflessione sull’uguaglianza come pensiero della differenza, prendono le mosse le proteste afroamericane dei «neri» in America.
Dopo l’assassinio di Martin Luther King (1968) le rivolte dei neri d’America dilagano a macchia d’olio e anche la pratica della protesta non violenta, da lui teorizzata, viene duramente repressa dalla istituzioni pubbliche americane.
Per M.L. King la restituzione dei diritti fondamentali agli afroamericani non costituisce la conseguenza spontanea del processo di integrazione, ma la risultante di
un più profondo mivimento (a diversi livelli) di ricostruzione dell’intera società.
Più radicali sono figure come quello di Malcolm X e di M. Gervey, che arrivano a stabilire una
interrelazione tra capitalismo e razzismo da una parte, e socialismo, superiorità razziale dei
neri e restaurazione islamica dall’altra.
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
Z 225
L’idea della conquista di un potere autonomo da parte degli afroamericani (black power) coincide infine con la formazione del Partito della Pantera Nera, che degenera successivamente in movimenti terroristici alcuni dei quali probabilmente «provocati» ed «enfatizzati» dagli
stessi sistemi capitalisti.
C) Diritto allo sviluppo individuale e collettivo
Il «diritto allo sviluppo» costituisce un nuovo «diritto individuale» recentemente riferibile agli esseri umani considerati nella loro individualità nel rispetto del principio di non discriminazione.
La Dichiarazione sul diritto allo sviluppo del 1986 emanata, nell’ambito della politica delle Nazioni Unite, attribuisce ad esso una dimensione anche collettiva: l’art. 1, infatti, riconosce il diritto allo sviluppo come «diritto inalienabile dell’uomo in virtù del quale … tutti i popoli hanno il diritto di partecipare e di contribuire ad uno sviluppo economico, sociale, culturale e politico» (par.
1), [ed afferma che il suo godimento] «presuppone altresì la piena realizzazione del diritto dei
popoli all’autodeterminazione, che comprende … l’esercizio del loro diritto inalienabile alla piena sovranità su ogni loro ricchezza e risorsa naturale» (par. 2); [ancora, il successivo art. 2, par.
2 pone in capo a tutti gli esseri umani] la responsabilità dello sviluppo su un piano sia individuale, sia collettivo.
L’affermazione di «avanzati» e «intangibili» principi, però, non deve indurre a ritenere che il diritto allo sviluppo sia un diritto collettivo tout court, la cui titolarità è pienamente riconosciuta a tutti i popoli, ma la sua dimensione collettiva va più correttamente circoscritta al fatto che i popoli sono allo stesso tempo:
— beneficiari dello sviluppo, nella misura in cui il «diritto allo sviluppo», garantito
al singolo individuo attraverso la promozione dei diritti civili, politici, economici,
sociali e culturali, possa generare ricadute positive sull’intera collettività e non favorisce solo le classi al potere;
— attori dello sviluppo, essendo titolari del diritto di disporre delle proprie ricchezze e risorse naturali corollario del più ampio diritto all’autodeterminazione.
Anche il problema dell’ambiente affonda le radici nel passato. Non è solo Rousseau a identificare per primo la «stato di natura» definendolo l’ambiente ove vive l’uomo che non necessita della madiazione di niente e di nessuno, in quanto consente a ciascuno di vivere di pesca
e di caccia senza affannarsi in accumulazioni di nessun genere.
Anche Marx vede nell’accumulazione capitalistica una forma di distruzione della «natura» che
il comunismo deve ristabilire.
Così Heiddeger critica lo Stato, colpevole, principalmente della creazione di grandi infrastrutture, esercitando una forma di violenza alla natura e all’ambiente.
La critica dell’ideologia della crescita, che coincide con la messa in evidenza delle debolezze
dello Stato sociale si trasforma in critica alle idee di sviluppo e di progresso, in dibattito sul rapporto tra uomo e natura, nella definizione delle strategie per tutelare l’ecosistema di fronte alla
spregiudicata manipolazione tecnica e aggressione ecologica della terra soprattutto da
parte dei Paesi industrializzati.
Tutti questi temi sono legati alla definizione dei limiti dello sviluppo economico e tecnologico, alla riflessione sulla catastrofe ecologica alla quale va senza indugi posto un argine prima che da essa daranno conseguenze negative e irriversibili per il pianeta.
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Z
Capitolo 15
Secondo B. Commoner, all’attuale età dello «spreco» seguirà un’età di crescita zero.
L’uomo, dunque, è allo stesso tempo protagonista e vittima delle «violenze ambientali» denunciate anche dalla scienza e dalla religione (in primis, buddismo e induismo). Oggi, pertanto, nelle varie legislazioni nazionali e Convenzioni internazionali il «diritto all’ambiente» e
«alla difesa del territorio» rientra tra i diritti primari, insopprimibili, naturali, imprescrittibili a
tutela dell’individuo e della comunità planetaria.
3.Sinistra e destra davanti alla crisi dello Stato sociale
A) Caratteri generali
Nel 1973 si assiste a una grave crisi petrolifera che pone fine all’espansione economica dell’epoca post-bellica (1946-1973).
Prende, così, il via una fase di incertezza economica, politica e sociale che, come detto, trova nel Sessantotto uno dei suoi momenti topici.
L’istituzione che va in crisi per prima è quella dello Stato assistenziale, vittima delle
contraddizioni nate dall’accumulazione propria del capitalismo e le sue istanze di legittimazione filosofica, economica e ideologica.
Secondo l’economista J. O’Connor tale contraddizione culmina nell’affermarsi nelle masse popolari di una nuova consapevolezza dei propri diritti e, soprattutto, del diritto alla sopravvivenza materiale che si unisce alla rivendicazione dei diritti delle
donne e delle categorie più deboli, e alle lotte delle minoranze e dei vari gruppi di opposizione.
Diviene così improcrastinabile l’adozione di nuove politiche sociali che mirano a una
più equa redistribuzione della ricchezza e della spesa pubblica.
L’aumento della pressione fiscale non è, infatti, sufficiente a risollevare, da sola, la
situazione economica di un Paese, per cui ritorna di attualità una prospettiva di organizzazione di tipo socialista dello Stato.
B) L’Italia
La discussione marxista sullo Stato interessa in particolare l’Italia, teatro di una forte
conflittualità sociale caratterizzata da un forte aumento del terrorismo di matrice non
chiara, che vede i cd. «poteri deviati dello Stato» vestire poco credibilmente i panni
sia della sinistra che della destra extraparlamentare.
Sul piano politico, la situazione italiana assiste a una irreversibile spaccatura tra il partito comunista e la sinistra extraparlamentare, tra «Eurocomunismo» sostenuto da Enrico Berlinguer e le posizioni più intransigenti dei gruppi del «Manifesto» e di «Lotta
Continua» e altre formazioni extraparlamentari.
Sul fronte della critica al marxismo si assiste alla discussione sulla valenza politica
delle teorie di Marx da parte di Norberto Bobbio (1909-2004) vicino al normativismo
di Kelsen. Come Bobbio, anche Mario Tronti (1931) sostiene la separazione tra la
sfera della politica e quella dello sviluppo del mondo operaio.
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
Z 227
In alternativa a questa concezione si pone la riflessione di Antonio Negri che individua nel «farsi Stato della classe operaia», un processo che costituisce il filo rosso della politica del Novecento e anche il motivo dominante della crisi dello Stato contemporaneo.
La crisi di quest’ultimo deve essere evidenziata attraverso un’enfatizzazione dell’antagonismo proletario che, ponendosi come entità autonoma, tenta di gettare le basi
per una nuova rivoluzione di stampo marxista.
Superamento del principio di rappresentanza politica e «invenzioni» del «governo tecnico»
Alla fine del 2011 in Italia, i maggiori partiti di destra e di sinistra hanno «inventato» un’anomala forma di governo non rappresentativo che fosse in grado di imporre alla nazione, per risanare il bilancio pubblico, una serie di sacrifici e di scelte politiche «impopolari» (che avrebbero ridimensionato il consenso e i voti di un governo politico che li avesse adottati) per traghettare il Paese nel periodo di crisi e poi riconsegnarlo all’elettorato alla scadenza naturale delle
Camere (primavera 2013).
È così è sorto dal nulla il salvifico, quanto impopolare, «Governo Monti».
Il triennio del Governo Berlusconi IV (2008-2011) ha portato avanti una politica disorganica e
confusa che, complice anche la grave crisi mondiale dell’economia, ha trascinato l’Italia nel baratro sia a livello interno che internazionale.
Così, il capo del governo in carica, prima di arrivare al «voto di sfiducia» ha «passato la
mano», con la complicità di parte delle minoranze, ed ha favorito la nascita di un «governo
tecnico» guidato da Mario Monti e affidato a Ministri potenzialmente dotati di capacità adeguate e di conclamate competenze specialistiche per governare il Paese.
A prescindere da ogni considerazione di merito sulla legittimità «costituzionale» di un governo
tecnico, tale governo «atipico» (già in passato sperimentato col governo Dini) suscita diverse perplessità:
— sia perché non rappresenta il popolo, ma è l’espressione di un non chiaro compromesso
tra le forze politiche che, dovendo ricorrere all’adozione di misure impopolari, per non perdere una parte del proprio elettorato, demandano «a terzi» la responsabilità di scelte politiche inevitabilmente dolorose, ma necessarie;
— sia perché un siffatto governo, voluto fortemente dal Capo dello Stato e da lui «sponsorizzato» (anche preceduto da una inaspettata nomina a Monti a senatore a vita), può riportare l’Italia a una forma di parlamentarismo dualistico. Tale forma di governo, tipico della monarchia costituzionale pura, ammette la possibilità che il Presidente della Repubblica possa imporre (e non suggerire) la nomina del primo ministro assumendo in tal modo la veste
di organo politico (che mal si concilia con il nostro sistema parlamentare che prevede una
figura presidenziale «neutrale» in considerazione anche del fatto che allo stesso Capo dello Stato è riconosciuto il potere di sciogliere le Camere).
Se tale situazione di «emergenza» dovesse trasformarsi in prassi consolidata, per l’accumulo
di poteri determinatosi nelle mani del Capo dello Stato, si instaurerebbe un super-presidenzialismo (espediente pericoloso), che potrebbe aprire le porte anche a forme più o meno latenti di dittatura.
C) Le matrici neoconservatrici e neoliberiste del mondo anglosassone
Con la caduta dell’«impero sovietico» il dibattito sulla «politica» si allontana dalla riflessione sul marxismo e si riscontra nella cultura mondiale e occidentale l’affermarsi di dottrine economiche e politiche di matrice neoconservatrici e neoliberiste.
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Capitolo 15
Proprio la crisi economica nei principali Paesi del mondo consente ai «liberisti» di
mettere in luce le insufficienze del Welfare State e di proporre soluzioni diverse e alternative.
La spirale dell’ingovernabilità che mina le basi dello Stato sociale, e che viene riscontrata da Crozier, Huntington e Watanuki nel rapporto sulla governabilità delle democrazie alla commissione trilaterale (1975), può essere evitata attraverso un ridimensionamento dei compiti dello Stato
sociale, una contrazione della sua azione entro i suoi limiti strutturali e tramite un nuovo impulso
all’economia di mercato attraverso l’introduzione di criteri di differenziazione sociale e di un progressivo decentramento politico-amministrativo.
Queste teorie si accompagnano al monetarismo di Friedman e Phelps, che mette in
evidenza il carattere utopico dello Stato sociale e, attraverso la proposta di una politica economica orientata a una regolazione verticistica da parte dello Stato dei flussi
monetari, giunge a teorizzare alcune pratiche come quella della privatizzazione delle istituzioni pubbliche (sanità, scuola, gestione delle opere pubbliche) e quella della
deregulation, che influenzano la politica di Ronald Reagan (in USA) e di Margareth
Thatcher (in Gran Bretagna).
Da un altro punto di vista la politica delle potenze occidentali è caratterizzata da una
ripresa del costituzionalismo che evidenzia i limiti dell’esercizio di ogni forma di potere (Friedrich), anche di quello democratico, e che nella pratica si risolve in un calcolo razionale delle aspettative di ogni singolo individuo, nonché delle modalità di aggregazione delle scelte individuali di base (Buchanan, Tullock).
D)La Germania e la «complessità sociale» di N. Luhmann
Le teorie neoliberiste si avvalgono dei risultati della sociologia contemporanea per
descrivere il rapporto tra Stato e individuo organizzato sulla base di interessi comuni.
Questo modello, detto neocorporativismo (Lehmbruch, Winkler, Schmitter), si affianca alla teoria di Niklas Luhmann (1927-1998) che considera (Scienza della società: 1990) l’intera società come «sistema» il cui funzionamento è assicurato da quattro fattori fondanti (mezzi comunicativi): il sapere scientifico (verità); l’apparato
burocratico-amministrativo (potere); l’economia (il denaro); la riproduzione (cessione).
Aspetto centrale del pensiero di Luhmann è la «complessità sociale», che mette in discussione i concetti cardine della politica moderna (Stato, sovranità) attraverso l’assolutizzazione delle dinamiche interne a ogni sistema sociale che mettono in luce la
capacità di autorganizzarsi e di auto-poiesi (cioè di produzione interna degli elementi che lo compongono) non riconducibile a nessuna dimensione soggettiv individuale.
Questa «processualità» immanente ai sistemi sociali, fonte di una ipertrofica burocratizzazione degli apparati sociali e di partito, può essere limitata attraverso l’esercizio
delle procedure formalizzate del sistema politico (voto elettorale, procedimento amministrativo e giudiziario), con cui l’individuo rappresenta parte attiva ed elemento di
stabilità del sistema politico.
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
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4.Rawls, Dworkin, Nozick, Rothbard, Giddens
A) Rawls: contrattualismo, giustizia sociale e collaborazione globale
All’inizio degli anni Sessanta si registra negli Stati Uniti una nuova dottrina politica,
inaugurata da «Una teoria della giustizia» di stampo kantiano del pensatore statunitense John Rawls (1922-2002), tesa a consentire la convivenza pluralistica di differenti ideologie, nel rispetto, però, dei diritti fondamentali che costituiscono la struttura di base di ogni società democratica.
In questa opera Rawls tenta un recupero della tradizione contrattualistica che emerge in situazioni di crisi generale per riformulare, in termini più attuali, un nuovo «patto sociale».
Contro le teorie utilitaristiche che hanno spesso reso «non governabili» gli Stati, Rawls
oppone una sintesi tra i concetti fondamentali del liberismo e le critiche rivolte dal socialismo che sfociano nel trionfo della socialdemocrazia nella quale convivono sia gli
interventi pubblici dell’economia (tipici del socialismo) che la diseguaglianza sociale generata dalla leggi del mercato (tipiche del capitalismo).
La teoria del contrattualismo viene riconfigurata tenendo conto delle teorie relative
alle scelte pubbliche e alle decisioni razionali dei governanti.
Il contrattualismo, infatti, rappresenta una scelta razionale perché solo una «condotta politica»,
garantita da fattori di razionalità, può risolvere il problema della giustizia sociale che mira alla
creazione di uno Stato giusto.
La sua teoria, infatti, più che legittimare il potere politico, si pone come baluardo dell’equità per
costruire una società più giusta.
L’accordo originario tra gli individui (contratto) è indice di una radicale simmetria,
scandita da due principi:
— il primo riguarda i diritti fondamentali garantiti dalla tradizione liberale e si concentra sulla proclamazione del primato delle «libertà» sull’uguaglianza;
— il secondo principio è il perseguimento del fine della giustizia sociale, che si raggiunge, nei Paesi capitalisti, con una politica fiscale orientata a criteri di progressività e proporzionalità in grado di realizzare equi interventi redistributivi di reddito e ricchezza al fine di mitigare le inevitabili disuguaglianze sociali derivanti
dalla sfrenata libertà economica che esaspera il concetto di iniziativa privata arricchendo alcune classi sociali e impoverendone altre.
In conclusione nella visione di Rawls l’eguale distribuzione dei diritti di libertà porta automaticamente all’eguaglianza e alla moralità collettiva in una società in cui il
concetto di «giusto» prevale su quello di «benessere».
Viene, così, superato, in nome dell’equità e della giustizia distributiva, il concetto
di appartenenza ad una determinata classe giungendo, con l’affermazione del principio generale di cooperazione globale, cioè di tutti (a prescindere dalle diseguaglianze sociali e reddituali), a beneficio sia della società che dei singoli.
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Capitolo 15
Nella sua opera del 1999, The law of peoples, infine, estende la sua teoria della giustizia anche all’ordinamento internazionale che deriverebbe dall’incontro, a livello planetario, tra i popoli ragionevoli in grado di rispettare i principi naturali e l’equità nei
rapporti tra i singoli Stati.
B) Dworkin e il neogiusnaturalismo
La riflessione di Rawls dà impulso a un nuovo dibattito sui diritti che viene portato
avanti da Ronald Dworkin (1931), che si rifà alla teoria giusnaturalistica e che esalta i diritti individuali preesistenti alla codificazione e derivanti dalla recta ratio.
Il «diritto» per Dworkin si divide in tre macrocategorie a seconda se sia basata su:
— obiettivi;
— diritti;
— doveri.
Questa teoria si propone di conciliare la teoria dei diritti fondamentali con le istanze
inviolabili e assistenzialistiche dello Stato sociale.
Anche in questo caso assume notevole importanza il problema della redistribuzione
del carico fiscale che permette il finanziamento e l’ampliamento dei compiti dello Stato, che culmina in una proposta di tassazione progressiva sul reddito per finanziare
sussidi sociali, sanitari e disoccupazione.
C) Nozick (teoria dello Stato minimo)
Uno dei critici più aspri e reazionari della teoria di Rawls, Robert Nozick ebreo russo nato a Brooklybn (1938-2002) docente dell’università di Harward, che nel suo saggio Anarchia, Stato e Utopia, pur ammirando il vigore della teoria della giustizia, oppone una prospettiva liberale dello Stato minimo (unica forma di Stato moralmente
legittimo e tollerabile) fondato sulle leggi mercato, libera iniziativa privata e meritocrazia, teso a limitare l’eccessiva ingerenza dello Stato-persona (governo, Pubblica
amministrazione, etc.) sullo Stato-comunità.
Prioritaria appare, dunque, la meritocrazia (di stampo calvinista) contrapposta al potenziale appiattimento dello Stato sociale prefigurato dagli esiti neoliberisti di Friedmann, di cui si è già detto.
Nozick prende le mosse dalla teoria della proprietà di Locke, considerata come la unica fonte valida dei diritti, per arrivare a sostenere che solo il libero scambio è in grado di realizzare la vera giustizia redistributiva.
Lo Stato sociale, per Nozick, implica lo scivolamento da una concezione della libertà
come proprietà su se stessi (questa l’idea di Locke) a una concezione della «libertà
come proprietà su altri» tanto che paragona le funzioni dello «Stato minimo» a quelle di un «guardino notturno».
Contro tale presunta «violenza» esercitata dallo «Stato sociale», contrapponendo «forza contro forza», Nozick riabilita il capitalismo nella sua «purezza» e qualifica la sua
Lo Stato sociale e la crisi del nuovo secolo
Z 231
teoria come «liberista», proponendo una forma di associazionismo e di mutua protezione tra gli individui per superare gli «inconvenienti interni e esterni» derivanti
da chi è titolare del potere dell’uso della forza.
Il docente statunitense si arrocca su tali posizioni neoliberaliste estreme dal momento che prende atto delle lacerazioni strutturali presenti nella trama della cooperazione sociale che, anche
nei Paesi più evoluti, non è stata mai attuata completamente (si pensi al problema dell’assistenza sanitaria ancora parzialmente irrisolto in un Paese pur progredito come gli USA motore
dell’espansione economica mondiale).
D)Il libertarismo di Murray Newton Rothbard
Il filosofo statunitense di origine ebraica rappresenta il massimo difensore della visione libertaria che, sulla scia di Locke, si batte per eliminare ogni forma di violenza che
parte proprio dalla violenza istituzionalizzata che lo Stato opera direttamente sui cittadini.
In tal modo lo Stato nega ai singoli i «diritti naturali»: così «istituzionalizza» l’omicidio di massa definendolo «guerra», la schiavitù ricorrendo alla coscrizione dei militari, la rapina con la pressione fiscale supportata dal consenso collettivo estorto anche
attraverso l’uso dei media.
Appoggiano l’uso surrettizio di questi mezzi fraudolenti una classe di «intellettuali di
corte» che giustificano il potere statuale mistificandolo come «benessere sociale» e dimenticando l’esitenza di una legge naturale che ci fa capire, con l’ausilio della ragione, ciò che è meglio per l’uomo in un dato momento storico: ciò perché ciascun individuo è posto dalla natura in condizione di pensare, valutare, agire, imparare e sviluppare le proprie capacità.
L’intereferenza forzata e violenta dello Stato è, dunque, da considerarsi anti-umana e
anti-sociale.
E) La terza via di Anthony Giddens: welfare positivo e nuova socialdemocrazia
Giddens distingue la socialdemocrazia classica, caratterizzata dal welfare state generalista (che protegge i cittadini «dalla culla alla tomba»), dalla cd. «terza via» (rispetto al liberalismo e alla socialdemocrazia) la quale si caratterizza per alcune importanti novità che si possono così riassumere:
— democrazia cosmopolita: sia le identità nazionali che quelle etniche sono artificiali perché nessun individuo può considerarsi biologicamente un «purosangue»,
a causa delle mescolanze genetiche derivanti dall’immigrazione, che di solito si dimostra vantaggiosa per il Paese ospite (nazionalismo cosmopolita) che vede, così,
incrementata la sua forza lavoro;
— governo mondiale: sia il rischio ecologico che la riduzione dell’ineguaglianza
mondiale non possono essere risolti a livello locale; nell’età dell’informazione «il
territorio non è più così importante per gli stati-nazione come in passato, le conoscenze individuali e le capacità competitive contano molto di più delle risorse naturali»;
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Capitolo 15
— comunità, tale «formazione sociale» non si deve intendere come recupero di forme perdute di solidarietà locale, ma come forma di associazione di volontariato,
imprenditorialità sociale, banca del tempo, progetti di microcredito, organizzazione non governativa, ed altri gruppi. Ulteriori forme importanti di cosmopolitismo
provengono, infine, dal basso (Greenpeace, Amnesty International etc.).
Esiste, dunque, nell’immaginario collettivo, uno spazio globale depoliticizzato
che, secondo l’Autore, «richiede regolamentazione, nonché l’introduzione di nuovi «diritti e obblighi»;
— welfare positivo: dove «welfare» assume connotazioni negative (mirato essenzialmente al sostentamento dei poveri, come negli Stati Uniti), causando inique le divisioni sociali; i programmi contro la povertà vanno sostituiti con diverse forme
solidali fondate sulla comunità: «Chiesa, famiglia e amici» sono le fonti principali della solidarietà sociale per cui lo Stato dovrebbe intervenire soltanto quando
queste istituzioni non arrivano ad adempiere pienamente i propri obblighi».
Fondamentale è l’investimento pubblico nell’istruzione, che costituisce l’occasione per redistribuire possibilità di crescita intellettiva ed economica, nonché la protezione della famiglia soprattutto favorendo l’inserimento delle donne nei nuovi
luoghi e tipi di di lavoro come, ad esempio, il telelavoro.
Quanto detto introduce il tema della «sostituzione» del welfare state da parte della welfare society: gli organismi del «terzo settore» sono dunque, chiamati a svolgere un ruolo piu’ importante come fornitori di servizi di welfare positivo al di sopra degli ambiti nazionali, anche se vi sono tuttavia ambiti nei quali i movimenti sociali, le ONG (organizzazioni non governative) ed anche i mercati non possono sostituirsi al governo.
La denominazione «terza via» non va confusa con altre «terze vie» del passato (come
nel caso del «fascismo» che si poneva come «terza via» prendendo le distanze sia dal
liberalismo che dal socialismo), giacché quella proposta da Giddens è definita «terza» in quanto «nuova» rispetto alla socialdemocrazia classica e al neoliberismo.
Il welfare state della socialdemocrazia classica, secondo l’Autore, «oggi crea quasi
tanti problemi quanti ne risolve». Inoltre, la separazione socialismo-capitalismo assume molto meno rilievo rispetto ai contrasti libertario-autoritario e moderno-tradizionalista.
Edizioni Simone - Vol. 33/5 • Compendio di Storia delle Dottrine politiche
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Capitolo 16 Attuali
«sfide» della politica contemporanea
Sommario Z 1. Quadro generale. - 2. La globalizzazione e il nuovo scenario mondiale.
- 3. Dopo l’11 settembre. - 4. Le possibili soluzioni attuali. - 5. Biopolitica: la nuova «questione sociale» tra fenomeno migratorio e neo-schiavismo. - 6. La politica dell’impero tra presente e futuro. - 7. Il punto sul
passato, presente e futuro dell’ecologismo sociale.
1.Quadro generale
A) Generalità
La società del benessere si trasforma, sul finire degli anni Settanta, in una rete di conflittualità o, secondo la definizione conservatrice di Urlich Beck (1944), in una «società del rischio».
Sul piano internazionale le politiche finanziarie e monetarie attuate in USA generano
una situazione economica mondiale instabile che assegna una progressiva preminenza
del ruolo della moneta più forte (il dollaro) che si trasforma in principale strumento di pagamento internazionale e la conseguente crescita dei generali capitali finanziari che determinano la competitività (ma anche una nuova linea politica a livello
multinazionale, prima che nazionale).
I risultati del processo di decolonizzazione portano, inoltre, all’affermarsi di una visione multinazionale e delocalizzata della ricerca di mercati ove il minor costo dei
fattori produttivi garantisca più alti profitti.
Questo processo irreversibile inizia già alla fine degli anni Ottanta quando, dopo la
caduta del muro di Berlino, prende il via il processo di smantellamento del socialismo
reale a partire dalla Jugoslavia e via via, fino alla frantumazione dell’URSS in una
moltitudine di repubbliche indipendenti che hanno perso la forza di costituire, accanto
alla Cina, un «unitario blocco» che si contrappone agli Stati Uniti.
Il decennio che porta dalla fine degli anni Settanta alla caduta del muro è molto denso
di riflessioni politiche, tutte consapevoli del fatto che uno sviluppo indiscriminato
dell’economia capitalistica guidata da una sola «superpotenza» porterebbe a una situazione che Francis Fukuyama non ha esitato a definire «fine della storia», cioè a una
uniformazione ed omologazione delle tendenze politiche e sociali del pianeta, tutte
indirizzate sul modello del capitalismo U.S.A., alla spasmodica ricerca del profitto,
esasperando, così, le contraddizioni già presenti nella società contemporanea.
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Capitolo 16
Proprio per questo motivo la filosofia politica contemporanea viene posta di fronte a
nuove realtà e sfide di cui si dirà a breve.
B) Il dibattito filosofico-politico
La crisi generalizzata che investe il pianeta si pone alla base della rinascita della filosofia politica che si spinge ben oltre il recinto delle istituzioni accademiche nelle
quali per molto tempo era stata confinata.
Il dibattito che ha per oggetto i temi relativi ai rapporti tra politica e società contemporanea, dal punto di vista metodologico non può prescindere dalla consolidata diversità tra filosofia analitica, filosofica e continentale.
Analitici e continentalisti tra filosofia e scienza
Nel Novecento si sono delineati due orientamenti filosofici che, pur condividendo l’idea che
il linguaggio sia il tema primario della filosofia, si sono sviluppati lungo percorsi teoretici
diversi, fino a determinare un contrasto, ritenuto da molti insanabile, tra due modi di fare e di
essere, di concepire la filosofia.
Questi due orientamenti prendono comunemente il nome di «filosofia analitica» e «filosofia
continentale».
La ricostruzione delle tesi che hanno contraddistinto la filosofia «analitica» e quella «continentale» investe la discussione su alcuni «argomenti-chiave» comuni a entrambe le prospettive, tra i quali: il problema del significato, il problema della tradizione, il metodo che contraddistingue la filosofia dalla scienza.
Gli esponenti di questi due orientamenti costituiscono altrettanti punti di riferimento della filosofia del Novecento: per il movimento analitico, Frege, Wittgenstein, Carnap e Quine;
mentre, per quanto riguarda la filosofia continentale, Heidegger e Gadamer.
Nel suo complesso, la distinzione tra le due correnti può essere ricondotta a una differenza di
«stile» nell’esercizio del filosofare in quanto la filosofia analitica è basata su un’analisi scientifica e razionale che si concentra sui dettagli, mentre la filosofia continentale studia prevalentemente i grandi concetti nella loro totalità (ad es. il senso della vita) e dei rapporti interpersonali (il rapporto con l’Altro, il ruolo dell’Uomo nella società) assicurando un atteggiamento più scettico riguardo ai problemi relativi alle capacità conoscitive della scienza.
C) Germania: la critica alla strumentalizzazione della comunicazione di massa
Il dibattito tedesco è esaltato dalle teorie dell’agire comunicativo di Jürgen Habermas
(1929) e di Karl Otto Apel (1922) che, sebbene con accenti diversi, sviluppano una
vera e propria teoria discorsiva della ragione e della politica attraverso il linguaggio
e l’agire comunicativo che consente di rifondare la razionalità nei suoi aspetti filosofici, etici e politici partendo da un trascentalismo linguistico e sociale che connota
sia le scienze empirico-analitiche, che storico-ermeneutiche che critica riflessiva come
le scienze sociali.
Comune a entrambi gli autori è la critica all’agire strumentale della tecnica di comunicazione di massa e la presa di coscienza dell’esistenza di una crisi di legittimità della società e degli ordinamenti democratici.
Ma la «pragmatica» trascendentale di Appel è dominata dall’esigenza di pervenire a
una scoperta ultima della verità e, di conseguenza, dell’etica come risultante di un
Attuali «sfide» della politica contemporanea
Z 235
agire fondato che deve aprirsi ad una macroetica planetaria che deve estendersi a
tutti gli ordinamenti in un dialogo ampio, libero e non coatto.
Per il filosofo di Düsseldorf, dunque, la comunicazione comporta il ricorso a norme immutabili e universali che costituiscono le «quattro pretese universali di verità» che rappresentano l’etica del discorso e che sono:
—
—
—
—
la comprensione dell’argomentazione;
la verità generale del discorso;
la sincerità e la persuasività di ciò che si argomenta;
la giustezza (e correttezza) delle ragioni argomentative.
Colui che «argomenta» deve misurarsi con due tipi di comunità:
— la «comunità reale» di cui fa attualmente parte;
— la «comunità ideale» composta da coloro che sono in grado di comprendere i suoi argomenti che è illimitata sia nello spazio che nel tempo.
Apel si ispira al principio aristotelico di non contraddizione per individuare una norma primaria in grado di definire la natura etica di un’azione.
Nel caso di Habermas, invece, l’accento viene posto sulla natura dinamica delle relazioni sociali, a partire dalla comunicazione linguistica, condotta con un’originaria intenzione di entrare in
reciproco accordo tra i soggetti.
Tale intenzione trae origine dal mondo della vita, la quale non è ancora sottoposta a una razionalizzazione concettuale e a una istituzionalizzazione della società che si riflette nella formazione di sistemi e sottosistemi sociali. Questa contrapposizione tra fatti e norme (mondo della vita
e istituzioni) mette in evidenza anche la relazione che Habermas stabilisce tra diritto e morale.
La condizione fondamentale per la vita della democrazia è la sua nuova e strutturale
apertura al vaglio critico della società civile, che attualmente viene fortemente condizionata dallo sviluppo dei media detentori del potere comunicativo e che invece
deve basarsi su una ricerca scientifica senza fini politici specifici e, soprattutto, senza
alcuna forma di oppressione.
Un’altra direzione significativa del dibattito tedesco, che oscilla tra la posizione di Apel
e di Habermas è quella della riabilitazione della filosofia pratica (Riedel, Ritter, Ilting),
che si pone come obiettivo quello di riflettere sulla dimensione etica della politica a
partire da una ripresa dell’etica classica e in particolare dei concetti di prudenza e
saggezza (phronesis) come alternativa alla crisi di valori e al proliferare dello scetticismo e del relativismo.
D)Stati Uniti
Negli USA è concentrato sul dibattito sulle teorie di Rawls sui concetti di giustizia,
legittimità e consenso.
Il lavoro di M. J. Sandel, inaugura anche poi la riflessione sul comunitarismo che contrappone
alle astrattezze della visione rawlsiana del soggetto (che Sandel interpreta come «soggetto minimo»), una concezione dell’individuo come risultante di una rete di credenze, appartenenze, finalità, legami comunitari.
Si tratta di una concezione che mette in luce il carattere dinamico della soggettività e della sua
continua autointerpretazione della realtà come alternativa alla conservazione dello status quo.
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Capitolo 16
La conseguenza è una enfatizzazione del soggetto in sé considerato come prezioso ed esclusivo titolare di una ragione critica che precede la politica e ne orienta gli sviluppi. Ne consegue la
riflessione sul nascere di una nuova religione civile fondata su questi assunti (come nel caso di
R. Taylor).
Si rende allora necessario rivedere la teoria della giustizia di Rawls sotto almeno tre
profili fondamentali:
— radicamento dell’io e sua appartenenza a un contesto;
— problema della tolleranza;
— questione delle minoranze e della non esclusione di esse dallo spazio democratico.
Questi tre problemi sono affrontati da Richard Rorty (1931-2007) ormai consapevole, anche sulla scorta del pensiero di Nietzsche e di Heidegger, che è vano rivolgersi a una sola immagine dell’io fondata filosoficamente.
A quella di Rorty, che può essere definita come una forma di liberalismo borghese
postmoderno, si oppone il paradigma del pensiero americano-repubblicano il
quale, più orientato all’osservazione della prassi politica, trova le sue istanze fondamentali in concetti come virtù, partecipazione e libertà, intese come assenza di dominio e nel patriottismo costituzionale, inteso come adesione dei cittadini all’insieme di valori universalmente riconosciuti nella civiltà occidentale.
E) Francia (destrutturazione e decostruzionismo)
La «destrutturazione» di ogni forma di identità stabile del soggetto, così come il
pensiero della differenza, del differimento, dello scarto a partire dal quale si forma la
ragione occidentale, sono il principale momento della riflessione filosofica francese.
La presa d’atto della «crisi» della ragione unita alla crisi della politica, è al centro
della definizione della condizione postmoderna da parte del filosofo di Versailles
Jean-François Lyotard (1924-1998).
Mentre il «moderno» si concentra sulle «grandi narrazioni» derivanti da «giochi linguistici» finalizzati ad una pluralità di scopi imposti dalla convivenza umana da cui scaturiscono «metaracconti» che perdono ogni giorno di credibilità, il postmoderno si impone sia per abattere il moderno
e la sua volontà progettuale che per combattere ogni tentativo di totalizzazione e accentuare,
così, l’elemento spirituale e «inventivo» della libertà (Reale-Antiseri).
Secondo Lyotard l’effetto di lungo periodo del capitalismo è quello di rendere impossibile una rappresentazione del mondo come immagine coerente dotata di una univoca identità.
Questa impossibilità viene posta anche al centro delle discussioni politiche e filosofiche
del Novecento, interpretate come grandi e sovrabbondanti récits (cioè racconti,
narrazioni), prive di fondamento unitario e riflesso, o piuttosto di particolari giochi
linguistici, la cui unica regola è quella della efficacia tecnica di convincimento e della
sua performatività.
La fine dell’epoca delle «grandi narrazioni» comporta la fine dei loro presupposti: l’immagine
cartesiana dell’unità dell’io è sostituita da una concezione dell’io come entità frammentaria e
Attuali «sfide» della politica contemporanea
Z 237
plurale; la concezione della società come totalità organica è sostituita da una atomizzazione del
sociale costituita da una «rete elastica di giochi linguistici». Esempio concreto di questa frantumazione sono i grandi drammi del XX secolo, e in particolare la Shoah, determinata dal primato
della rappresentazione e dalla ossessione dell’unità degli ebrei.
In questo stesso contesto si colloca la riflessione dell’algerino Jacques Derrida (19302004) nota come decostruzionismo.
Punto di partenza del «decostruzionismo» è per Heidegger la critica all’«essere» che da Parmenide e Nietzsche non è stato mai riferito alle condizioni storiche del tempo in cui viene studiato,
ma sempre legato a concetti metafisici universali che formano gerarchie concettuali che, invece, per effetto dell’esistenzialismo, vanno «rovesciate», «distrutte» o «decostruite».
Per Derrida tale «decostruzione» deve partire dal linguaggio dei testi, a cominciare da quelli filosofici nei quali la valenza di «indizi» e «spie testuali» (come parole, richiami e fasi) ci fanno scoprire una nuova e differente «gerarchia» di concetti e di significati che fanno venir meno le certezze
assolute su cui si basa l’indagine metafisica: per il decostruzionismo, dunque la metafisica è
morta!
Il decostruzionismo applicato alla politica, travolgendo le gerarchie concettuali tradizionali
dalle regole giuridiche, creano premesse nuove con cui ogni ordinamento, specialmente se «democratico» copre gli occhi sulle «incostrazioni» storiche derivanti dal «credo politico» e ribaltando,
così, principi, interessi e regole tradizionali che da secoli calpestano i singoli e i loro diritti naturali.
Caratteri del «decostruzionismo», dunque, sono:
— la critica al logocentrismo che non è più da considerarsi, cioè, assoluto e infallibile;
— la decostruzione (cioè la scomposizione «storico-critica») della storia e in particolare della storia dell’ontologia è, cioè, dell’attitudine propria della metafisica
occidentale di fondare la molteplicità degli enti sull’unità dell’essere.
Sul piano politico questi presupposti portano a una concezione votata all’apertura
all’altro, alla legittimazione delle differenze, alla tolleranza sociale e religiosa e alla
fondazione di una teoria del cosmopolitismo sganciato dalla idea tradizionale di di
«Stato» e «sovranità» la quale deve essere sostituita da una politica dell’ospitalità.
Il tema della «differenza» è sviluppato, infine, da Gilles Deleuze (1925-1995) e Felix
Guattari (1930-1992) che sviluppano una concezione della filosofia come arte di
inventare e libera creazione di concetti. Da qui una concezione della politica orientata al pluralismo e alla destrutturazione degli ordinamenti politici imposti dalla
«storia» e della funzione di controllo da loro effettuata in favore di una concezione del
nomadismo come riflesso dell’impossibilità di sistematizzare i diversi territori del
sapere e dell’agire.
2.La globalizzazione e il nuovo scenario mondiale
La crisi dei «modelli classici» di fare filosofia politica trova conferma nella discussione sull’ordine politico, economico e sociale che accompagna il mondo nel nuovo
millennio e che si è soliti definire globalizzazione.
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Capitolo 16
Con questo termine si intende un fenomeno complesso caratterizzato dalla:
— fine del bipolarismo tra capitalismo e comunismo che finisce per «consegnare in toto»
il mondo alla maggiore superpotenza mondiale, gli U.S.A., e alle multinazionali;
— deregulation, che liberalizza la circolazione mondiale dei capitali, favorisce la finanziarizzazione dell’economia e la delocalizzazione produttiva con la conseguenza che molte industrie dei Paesi più progrediti, a causa dell’alto costo della
manodopera, sono costrette a chiudere, mettendo così in crisi la classe dei lavoratori di tali Paesi.
La «geografia politica» così, viene trasformata in un orizzonte uniforme di produzione di merci e smaltimento di scorie, mentre dal punto di vista sociale la più ampia
apertura delle frontiere tra gli Stati provoca nuovi movimenti migratori e una conseguente omologazione culturale globale.
I processi di globalizzazione sono contraddittori e multidimensionali, oltre che effettivamente
percepibili, nella misura in cui il mondo appare più unificato che mai. Le «entità statali» non sono
più gli unici protagonisti della vita politica, che ora è regolata da organismi sopranazionali (Nazioni Unite, Unione europea, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale etc.). Di conseguenza, anche l’economia delle nazioni rappresenta un orizzonte di sempre più difficile definizione.
Dal punto di vista politico si consolida una terza via tra socialdemocrazia e liberalismo, viene gradatamente meno la rete assistenziale dello Stato sociale e, dal punto di
vista ideologico, il pluralismo («sole» della democrazia) si trasforma nella uniformità del pensiero unico.
Un tema di capitale importanza nell’epoca della globalizzazione è quello del lavoro.
La caduta dello Stato sociale provoca un aumento della disoccupazione strutturale, la
diffusione di lavori atipici, la flessibilità occupazionale, la deterritorializzazione e la
smaterializzazione di numerosi processi produttivi.
Il dibattito sul multiculturalismo assume un ruolo centrale e per i pensatori che si
collocano entro i margini della tradizione liberale (Taylor, Kymlicka), i quali, pur
ponendosi il problema della coesistenza di diversi gruppi all’interno di un unico orizzonte sociale, osservano che i processi di integrazione non tengono nel dovuto conto
della «dinamica», dei processi di identità e di cultura e delle «contraddizioni» derivanti dalla continua contaminazione culturale.
La fine del bipolarismo e la formazione di un sistema internazionale è poi fonte di una radicale
conflittualità che si esplicita nelle numerose guerre etniche (ex Jugoslavia), territoriali (ex
URSS, guerra in Cecenia) e motivate da contrasti religiosi (Medioriente).
Emerge il discutibile e unilaterale concetto di «guerra giusta» e diviene sempre più difficile, a livello internazionale, discernere l’intervento umanitario dall’intervento di polizia e di «guerra preventiva».
Restano comunque aperte le alternative tra la progressiva omologazione della cultura
e il diritto a legittimare una particolare identità etnica, culturale, nazionale e, dunque,
politica. Tanto che S.P. Huddington, in Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
mondiale (1996), ha messo in discussione la possibilità di separare la definizione dei
confini geopolitici da quelli dello sviluppo di una determinata civiltà.
Attuali «sfide» della politica contemporanea
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In merito alla concezione degli effetti complessivi della globalizzazione si registra
infine la dialettica tra due posizioni:
— la prima incarnata nel pensiero di D. J. Elazar opta per una soluzione costituzionale ai problemi della globalizzazione e arriva a ipotizzare una confederazione tra
Stati sottomessi a organismi sovrastatali, o poststatuali, come l’Unione europea etc.;
— l’altra, fortemente critica (e impersonata da M. Hardt e A. Negri) definisce la
globalizzazione in termini imperialistici e la considera come il prodotto dell’estensione dell’economia capitalistica a tutto il pianeta. L’alternativa di tale dottrina è
una politica della moltitudine che libera l’«impero» dal comando capitalistico e
riorganizzi le forze sociali in nuove e più democratiche forme di cooperazione e
integrazione fra gli Stati.
3.Dopo l’11 settembre
L’attentato alle «torri gemelle» di New York, portato a termine l’11 settembre del
2001 segna una netta «cesura» nella vita politica internazionale e inaugura una stagione di guerre globali che investono la comunità internazionale governate da dinamiche
molto diverse da quelle del Novecento.
Si tratta di uno stravolgimento delle categorie della politica mondiale (amico o nemico) che è tuttora in atto, ma i cui effetti possono già essere messi, anche se solo parzialmente, a fuoco.
A) Il dialogo Habermas-Derrida e lo scontro tra le «teologie» politiche
Una delle più feconde reazioni agli attentati dell’11 settembre è rappresentata dal
dialogo tra Jürgen Habermas (Gommersbach 1929) e Derrida, pubblicato in «Filosofia del terrore. Dialoghi con Jürgen Habermas e Jacques Derrida» (2003).
Habermas parla dell’11 settembre come momento in cui ha luogo il primo evento
storico-mondiale del nuovo millennio, condizionato dalla politica unilaterale degli
Stati Uniti e dall’accrescersi del fondamentalismo islamico, espresso in una forma di
terrorismo «globale» che genera «impotenza» a chi lo combatte perché rivolto a un
nemico che con i metodi tradizionali non può essere sconfitto.
Per la soluzione di tale conflitto si deve riorganizzare la scena mondiale puntando su
una riabilitazione della democrazia come comunicazione razionale, rispetto alla
quale il terrorismo non è che una deformazione.
Derrida definisce la strategia degli attentati come «atto immunitario», cioè come
una forma di «suicidio» mediante il quale la potenza americana combatte ciò che ha
creato avendo fornito essa stessa gli strumenti tecnici per portare a termine l’attacco
terroristico (addestramento ai piloti e formazione militare dei terroristi).
Da qui Derrida desume che le conseguenze di questo atto autoimmunitario non sono
ancora pienamente dispiegate e che il peggio potrebbe ancora venire ritorcendosi
proprio verso chi lo ha provocato.
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Capitolo 16
Dal punto di vista dello «scontro ideologico» tra civiltà, cultura e religione, Derrida
sostiene che l’11 settembre rappresenta l’apice di uno scontro tra due teologie politiche sorte da uno stesso ceppo abramico.
Tale scontro, enfatizzato dai media occidentali che surrettiziamente identificano l’islamico con il terrorista, creando «esemplari» figure negative del mondo islamico.
Questa distorsione mediatica dovrebbe essere evitata soprattutto dell’opea delle organizzazioni internazionali, unici soggetti capaci di rendere presente una democrazia
«a venire» in grado di esprimere una «tensione ideale» tra «presente» e «futuro» che
miri alla pace e alla giustizia delle Nazioni.
B) I problemi della politica attuale
La situazione che si crea dopo l’11 settembre apre una diversa «fenomenologia» dei
problemi della politica attuale chiamata a sciogliere i seguenti nodi:
— definizione del ruolo della religione che non può essere considerata «strumento
politico» e base per la proliferazione di «fondamentalismi eversivi»;
— la funzione degli organismi sovrastatali, in un momento in cui, dopo la dichiarazione di guerra degli USA all’Iraq, l’ONU, contraria a tale intervento, non è stata
in grado di impedirne l’attuazione, perdendo di credibilità ed entrando, così, in
crisi di credibilità;
— la definizione del concetto di guerra globale: una guerra, cioè, che non ha confini,
ma che si dispiega su scala mondiale e si pone come conflitto tra «visioni del mondo», «scale di valori», «istanze culturali»;
— la regressione dello Stato sociale, che tutela e protegge la cittadinanza, a Stato
penale, incentrato sul controllo e la «repressione» delle diverse devianze.
4.Le possibili soluzioni attuali
I tentativi di soluzione dei primi anni duemila mirano a controllare le dinamiche e
tensioni mondiali e a ipotizzare la costruzione di un ordine politico alternativo in
grado di tener loro testa.
Tra le tesi più significative di questi ultimi anni possono essere annoverate:
— le ipotesi conservatrici, che derivano dal «realismo politico» che connota la politica USA e che accentuando la funzione politica della guerra preventiva, mirano a
estendere su scala mondiale i valori del liberismo americano e quelli della destra
protestante.
Sostenitore di questa ipotesi è il gruppo dei neo-conservatori americani (Wolfowitz,
Perle, Kagan, Bush);
— le riprese del progetto moderno che mira a proteggere il mondo dalla «impotenza della potenza» (Badie) per favorire l’instaurazione di una governance globale fondata sulla pace mondiale e sulla cooperazione in grado di riabilitare la
Attuali «sfide» della politica contemporanea
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contraddittoria funzione equilibratice dell’ONU e, così, di assicurare un ripristino
della legalità anche su scala transnazionale. Sostengono questa ipotesi pensatori
come O. Höffe, A. Sen e M. Nussbaum;
— l’orizzonte della biopolitica (Foucault, Agamben, Esposito) (vedi par. seguente).
Prende le mosse dal pensiero di Foucault e tende a svincolare l’orizzonte della politica
dall’orizzonte giuridico del rapporto tra individuo e Stato per riproporre una microfisica del potere in termini foucaultiani: (cioè di benessere e felicità globale) in quanto il «Potere» non va studiato solo su opere teoriche ma soprattutto nelle «stanze
oscure» di chi lo detiene e che lo esercita nelle singole scelte politiche del quotidiano.
Per raggiungere tali «obiettivi criptati» il «Potere» si serve dell’uso spregiudicato
e fuorviante dei media (detto, appunto, «quarto potere») per cui vanno attentamente analizzati i rapporti tra forme di sapere e rapporti di potere nell’ottica
della possibile connivenza per il dominio delle menti.
A questo punto la lotta politica di chi resiste al potere si trasforma nella vigilante
resistenza alla diffusione surrettizia di qualsiasi forma di sapere (dal notiziario a
tutte le altre manifestazioni ed espressioni dei media) per lasciare libero il fruitore
dei media di non uniformarsi passivamente al «sapere» imposto dalla videocrazia
(e altre forme mediatiche). Il singolo, cioè nell’affermare la sua identità, deve
contrastare tale forma di dominio per tentare di destabilizzare i meccanismi di
potere che, per come sono strutturati, non gli lasciano alcuna possibilità di autoaffacciarsi non solo sulla via della libertà di pensiero, ma anche di agire liberamente per vivere a pieno la propria individualità.
Il rapporto tra politica e vita, così, ha assunto una dimensione importante e fondante: i conflitti politici interessano la sua vita economica del singolo che le
«questioni sociali vitali» (aborto, fecondazione assistita, omosessualità).
Il nesso politica-vita-società assume un carattere liberatorio nella misura in cui
rende possibile una produzione di norme che parta dalla vita concreta e non sovrasti l’individuo affinché conservi la sua identità.
5.Biopolitica: la nuova «questione sociale» tra fenomeno migratorio
e neo-schiavismo
A) Crescita e «felicità» dei sudditi
Questa dottrina teorizzata da Foucault era inizialmente già nota come Polizeiwissenschaft (stato di polizia) affermatasi già nel XVIII secolo in Austria.
Con essa lo Stato, per accrescere il suo peso e la sua potenza militare ed economica,
cercava di «acquisire» il maggior numero di sudditi possibile facendo il miglior uso
della sua forza sia per mantenere l’ordine, che per offrire ad essi le migliori condizioni di vita e convivenza in vista del raggiungimento della «felicità comune» e, per
raggiungere tali scopi, stimolava la crescita del clima collaborativo della forza-lavoro
e, quindi, la produzione nazionale.
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Capitolo 16
La Polizeiwissenschaf prevedeva l’adozione di una serie di misure che portassero alla
crescita «canalizzata» della ricchezza dei singoli per assicurare un maggiore vantaggio
collettivo dello Stato.
Ciò perché lo Stato-persona si rende conto che la popolazione è una risorsa fondamentale: considerazione che in passato aveva un grande valore diplomatico-militare
in quanto accresceva il numero dei sudditi soldati da addestrare per essere meglio in
grado di affrontare le conquiste territoriali e l’espansione coloniale.
Successivamente tale legame si è polarizzato sul binomio popolazione e ricchezza
per accrescere il benessere soprattutto delle classi detentrici delle leve economiche.
L’individuo costituisce un importante fattore produttivo, la forza lavoro: ciò accresce
l’interesse dei «poteri costituiti» verso la risorsa umana che, attraverso una «mirata»
politica sanitaria e sociale, va mantenuta in «efficienza» per consentirle di «produrre»
di più e nelle migliori condizioni possibili (Santoro).
B) Flussi migratori e neo-schiavismo
In quest’ottica si comprendono le attuali finalità della regolamentazione dei «flussi
migratori» che consentono allo Stato ospitante di accrescere il suo potenziale produttivo anche con l’ausilio (e lo sfruttamento) degli immigrati che versano quasi sempre
in condizioni di sudditanza sia giuridica (perché non godono degli stessi diritti dei
cittadini) che economica (percepiscono salari più bassi e le somme così risparmiate
retribuiscono meglio gli altri fattori produttivi: in primis capitale e capacità imprenditoriale), facilitando, così, l’accumulazione capitalistica.
Questo processo è stato in molti Paesi, compresa l’Italia e gli Stati dell’Unione europea,
accompagnato da un programma politico che più che mirare all’«integrazione», talvolta porta alla criminalizzazione dei migranti.
Questa politica ha generato, soprattutto con le destre al potere, una normativa che,
sfruttando o limitando l’ingresso «regolare» per motivi di lavoro, ha creato una condizione giuridica, psicologica e sociale di inferiorità per tutti i migranti clandestini
la cui presenza illegale sul territorio ne criminalizza lo status.
A questa situazione ha fatto da controaltare la lentezza e le eccessive burocratizzazioni — supportate da una xenofobia manifesta di molti cittadini — per l’accesso alla
cittadinanza anche per i migranti già integrati nella società e regolarmente muniti di
permesso di soggiorno.
Ecco perché è indispensabile (ma nessuna organizzazione internazionale fino ad oggi
se ne è fatto seriamente carico) che siano rese trasparenti e più agili le normative
nazionali per l’accesso alla cittadinanza al fine di raggiungere l’abolizione di una
inaccettabile e costituzionalmente illegittima situazione di discriminazione tra cittadini e immigrati che, di fatto, perpetua le condizioni di schiavitù abolita ufficialmente
a livello internazionale già ai tempi del congresso di Vienna (1815).
La regolamentazione dell’immigrazione, dunque, fa da «rubinetto» per l’ingresso di forza lavoro e crea problemi di politica economica per le numerose implicazioni giuridiche, economiche e
sociali derivanti e costituendo una delle principali questioni sociali.
Attuali «sfide» della politica contemporanea
Z 243
Tale problema va risolto a livello internazionale urgentemente, soprattutto nei Paesi ad economia
«matura» ove le condizioni di welfare globale aggravano il gap tra cittadini e migranti capovolgendo le premesse ideologiche della Polizeiwissenschaft (felicità di tutti i sudditi per il mantenimento
della coesione sociale) e di «biopolitica» affermatesi già dai tempi di Maria Teresa d’Asburgo nel
regno Austro-Ungarico (XXVIII secolo).
Grazie alla «biopolitica» e alla conseguente migrazione (che sono lo strumento più
agile e conveniente per l’accumulazione umana) gli Stati più forti possono, manipolando a loro piacimento i flussi di forza-lavoro, accrescere/decrescere a loro piacimento lo sfruttamento delle risorse umane a fini produttivi.
Nasce così la visione del neo-schiavismo che ha caratterizzato lo sviluppo economico
degli ultimi due secoli e che ha spostato l’attenzione della politica nazionale alla progettazione dell’espansione della forza della coesione sociale nell’ottica di favorire la
maggioranza autoctona che detiene le «leve» del potere creando una classe «ufficiale» di schiavi, composta prevalentemente da emigrati che, pur contribuendo al benessere economico del Paese, versano in una condizione giuridica palesemente discriminatoria rispetto ai cittadini in quanto non fruiscono dei diritti civici, in primis il diritto
al voto.
6.La politica dell’impero tra presente e futuro
A) Concetto di «impero»
L’«impero» costituito dalle multinazionali e dall’oligopolio delle grandi potenze
mondiali (NEGRI) ha creato un governo del mondo di particolare complessità che ha
profondamente modificato i concetti di Stato e di sovranità, cancellando il Welfare
State e, con esso, mettendo in pericolo i diritti e le libertà degli individui.
Il nuovo governo del pianeta, come afferma J. Attali (Domani, chi governerà il mondo?, 2012), non ha punti di riferimento, né identità statuale, né edifici identificabili
come «palazzi di potere» (1), ma soprattutto non ha coscienza di sé e delle proprie
devastanti e irreversibili potenzialità, avendo abbandonato ogni speculazione filosofica basata sui principi essenziali della convivenza civile e della forma di Stato.
L’«impero» si condensa in una serie di «poteri» diffusi e non conoscibili che hanno un
solo fine comune: accumulare ricchezza a vantaggio di pochi e a spese di tutti, attuando una politica dissennata che finisce per cancellare il welfare state nei Paesi ricchi
e rendere ancora più insostenibili le già precarie condizioni di vita dei Paesi più poveri.
B) I protagonisti
Al vertice dell’«impero» figurano, accanto alle multinazionali, le grandi potenze
economiche: in primis gli Stati Uniti, poi l’Unione europea, la Cina, la Russia, il
(1) Non sarà concesso, dunque, ai posteri un nuovo «abbattimento» della «Bastiglia» che oggi costituisce «il
palazzo che non è visibile» tanto che i vari G7, G8 … G20 cercano «rifugi» nascosti e sempre diversi per «sfuggire» agli «strali» della «contestazione globale».
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Capitolo 16
Giappone, a cui si vanno aggiungendo il Brasile e altri Stati «emergenti» caratterizzati da un forte tasso di sviluppo (Corea del Sud, India etc.).
Il «cuore» di questa «anomala» forma di governo mondiale è, comunque, rappresentato
dagli Stati Uniti che si pongono in affianco o, talvolta, al di sopra delle Nazioni Unite,
e si sono autoproclamati «paladini della sicurezza, della pace e dell’ordine mondiale».
Accanto agli Stati più forti cercano di far sentire la loro voce (a livello globale) numerose organizzazioni internazionali (locali e sovranazionali, con finalità generali, filantropiche o particolari): la principale a fini universali è senza dubbio l’ONU che, al
momento, appare non più in grado di perseguire quei fini universalistici che inizialmente si era proposta, perché altre istituzioni internazionali – Banca Mondiale, FMI, BIRS
(Banca per la ricostruzione e lo sviluppo) etc. – hanno creato una propria autonoma
governance senza passare più per il vaglio né del Consiglio di Sicurezza né dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ponendosi, anzi, spesso in concorrenza con essi.
Attualmente numerose convenzioni internazionali stipulate direttamente da singoli Stati si sono sostituite all’attività delle istituzioni sovranazionali, privandole sia
della loro leadership ideale, sia, soprattutto, del loro controllo istituzionale sull’applicazione di accordi già raggiunti. Così gli Stati trattano direttamente della distruzione degli arsenali nucleari, dell’uso delle armi batteriologiche etc.
Secondo molti commentatori, dunque, il mondo di oggi è dominato in maniera crescente da poteri «incogniti e oscuri» che perseguono «fini malefici» per impadronirsi del governo del pianeta al di sopra della volontà degli Stati e delle organizzazioni
internazionali e a scapito dei diritti e delle libertà dei singoli.
Ciò trova conferma nel fatto che la globalizzazione ha creato, a livello planetario,
un’anarchia di potere che non consente ad alcuna forza politica di far valere una
trasparente volontà di pace, sicurezza, solidarietà e giustizia nel mondo.
Una situazione che appare foriera di un futuro «privo di regole», che certo non potrà
produrre alcunché di positivo per l’umanità!
Il marcato disequilibrio politico-economico e l’anarchia dei poteri provocano le attuali minacce allo sviluppo democratico che pesano sul presente e sul futuro dell’intera umanità. Il rischio è che il caos che domina il mondo potrebbe portare fatalmente a
una richiesta collettiva di ordine di tipo totalitario per allontanare tali minacce.
C) Le ideologie ambientaliste
Un ruolo importante sarà quello giocato dalla crescente ideologia ambientalista che
si va affermando alla luce degli effetti dell’incontrollata industrializzazione sulle condizioni di salute del pianeta destinate a breve a manifestarsi in maniera sempre più
evidente e irreversibile, rivelandosi ben più gravi di quelli provocate da uno tsunami
o da analoghe catastrofi.
Il quadro politico-economico e ambientale del mondo attuale necessita urgentemente
di una decisa inversione di rotta della politica mondiale che peraltro è teoricamente
ancora possibile, potendo le attuali competenze tecnologiche e le risorse finanziarie
interrompere l’ormai incombente «disastro ambientale».
Attuali «sfide» della politica contemporanea
Z 245
Una tale «svolta» potrebbe favorire, in ogni area del globo, condizioni sociali «sostenibili», nel rispetto dei diritti e delle libertà dei singoli, che il pensiero politico ambientalista attuale ha posto come fondamenta indispensabile per la sopravvivenza di
tutta l’umanità.
7.Il punto sul passato, presente e futuro dell’ecologismo sociale
A) Gli sviluppi della disciplina
Al politologo l’ecologia non interessa come «scienza pura», ma come corrente eticopolitica che vede «Dio» proiettato nel mondo (Deus, sive natura: Spinoza) e che
porta all’affermarsi di una nuova filosofia: l’«ecosofia» (Arne Næss), cioè la «saggezza ecologica» che si collega ad una «ecologia profonda» ispirata alla rivalutazione
delle «culture» arcaiche che nella natura colgono le «radici ultime» comuni a tutti gli
esseri viventi.
Oggi i cultori dell’ecosofia si denominano «verdi» noti per il motto «non siamo né di
destra né di sinistra» … siamo avanti!
A partire dalle «stragi ecologiche» di Hiroshima e Nagasaki (1945) e di altri gravi
esperimenti nucleari avvenuti successivamente, l’ecologia, grazie all’opera di Rachel
Carson (contro il pesticidio) e di Barry Commoner (battutosi per spiegare all’opinione pubblica i rischi della radioattività) fa numerosi passi avanti, ma si afferma con
vigore con l’ecomarxismo di O’ Connor che affianca ai «rapporti di produzione»
anche lo studio delle «condizioni (ecologiche) di produzione» (che determinano le
relazioni tra economia e ambiente) a tutela dell’Habitat in cui vive l’uomo.
L’austro-americano Fritjof Capra (maggior ecologista contemporaneo) nel volume
«Tao della fisica» (1975) si fa precursore e paladino dello sfruttamento prioritario
delle «energie rinnovabili» (solare, eolica e marina) per la salvaguardia della salute
del mondo schierandosi contro il nucleare (energia non rinnovabile) e allo stesso
tempo considerato unanimemente il «fondatore» di una nuova mentalità collettiva
ecologista.
B) La presenza dei «Verdi» come movimento politico
Questo movimento, nato in Germania (patria del panteismo filosofico di Goethe e
Humboldt e dell’idealismo soggettivo estetico di Shelling) e riscoperto nello spirito
«dionisiaco» di Nietzsche trova le sue più illustri origini.
Fu nel ’68 che l’ideologia dei verdi iniziò a prendere piede come «movimento rivoluzionario» e antisistema (scaduto talvolta anche in atteggiamenti «fondamentalisti») di
matrice anti-americana e anti-capitalista.
Successivamente i verdi hanno costituito l’«avanguardia» del federalismo europeo
per poi affermarsi come nuovo e importante movimento politico-ecologico in tutto il
mondo (Livorsi).
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Capitolo 16
Oggi la «questione ambientale», che mette a nudo tutti i rischi irreversibili di una
disordinata espansione industriale senza precedenti, resta ineludibilmente aperta ed è
all’ordine del giorno in tutte le «agende» di produzione e sviluppo dei singoli Stati e
delle organizzazioni internazionali, essendo divenuta oggetto sia della «mentalità
collettiva del mondo» che dei «programmi politici» dei Paesi che vogliono salvare
il pianeta da una sicura e irreversibile catastrofe ambientale.
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