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Una commedia degli errori? La responsabilità medica fra illecito e
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ISBN 978-88-13-27962-2
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ISSN 0035-6093
N. 3 MAGGIO-GIUGNO
2008
FONDATA E RETTA DA
WALTER BIGIAVI
(1955-1968)
E DA
ALBERTO TRABUCCHI
(1968-1998)
DIREZIONE
C. MASSIMO BIANCA FRANCESCO D. BUSNELLI
GIORGIO CIAN ANGELO FALZEA GIOVANNI GABRIELLI
ANTONIO GAMBARO NATALINO IRTI GIORGIO OPPO
ANDREA PROTO PISANI PIETRO RESCIGNO RODOLFO SACCO
VINCENZO SCALISI PIERO SCHLESINGER
PAOLO SPADA VINCENZO VARANO
REDATTORE CAPO
VITTORIO COLUSSI
OTT. A
ONIO MILANI
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PRINTED IN ITALY
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(conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 1, DCB Milano
Vincenzo Zeno-Zencovich
Prof. ord. dell’Università di Roma Tre
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ
MEDICA FRA ILLECITO E INADEMPIMENTO (*)
Sommario: I. La evoluzione del sistema in Italia: a) La responsabilità medica nella sua evoluzione storica. b) Lo spostamento di prospettiva degli anni ’80: i. il c.d. « consenso informato »; ii. i termini di prescrizione; iii. L’erosione dei « casi di speciale difficoltà » e
l’affermarsi del suo opposto (i casi di « non difficile esecuzione »); iv. Chirurgia estetica
e « obbligazione di risultato »; v. La teoria del « contatto sociale »; vi. Gli interventi di
routine. c) Il nuovo indirizzo giurisprudenziale. d) La prestazione medica e la teoria del
contratto. — II. Una analisi comparata: a) L’esperienza degli Stati Uniti d’America; b)
Il sistema inglese; c) L’esperienza francese; d) L’esperienza canadese; e) L’esperienza
dei paesi scandinavi. — III. Alcune conclusioni: a) La equi-funzionalità dei rimedi; b)
Servono sistemi pubblici di indennizzo?
I. — Negli ultimi sei anni la responsabilità medica ha subito un profondo mutamento: da area prevalentemente retta dalle regole dell’illecito
aquiliano, essa ora appare dominata da regole contrattuali o simil-contrattuali. Le conseguenze, come si vedrà, sono significative e spostano pesantemente i piatti della bilancia della giustizia a favore del danneggiato (o dei
suoi eredi) e contro il danneggiante (e chi deve rispondere del suo operato).
Il cambiamento è integralmente giurisprudenziale, ma con una caratteristica peculiare: mentre tradizionalmente sono i giudici di merito ad aprire la
strada a nuovi orientamenti che solo successivamente e lentamente vengono
recepiti da quelli di legittimità, qui è la Corte di Cassazione che impone la
(*) Nelle more della pubblicazione del presente lavoro la III sezione civile della Cassazione ha avuto modo di ulteriormente consolidare le linee che vengono illustrate nelle pagine che seguono. In particolare meritano di essere segnalate:
— Cass. 13 aprile 2007, n. 8826 (pres. Vittoria, est. Scarano) dove si applicano i
principi della responsabilità contrattuale ad un intervento di rinoplastica, annullando parzialmente la sentenza che aveva rigettato la domanda del paziente, accollandogli l’onere di
provare le cause dell’insuccesso. Onere che, secondo la Suprema Corte, incombeva alla
struttura sanitaria.
— Cass. 26 giugno 2007, n. 14759 (pres. Varrone, rel. Fantacchiotti), annulla una
decisione di merito che aveva negato il nesso causale perché il danno non poteva con certezza essere ascritto al medico. Secondo da Suprema Corte vanno separati l’accertamento
del nesso causale da quello dell’errore. La mancanza dell’errore non è di per sé idonea ad
escludere il nesso causale.
E l’impostazione è stata ancor più di recente confermata dalle sezioni unite civili (Cass.,
sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, pres. Carbone, est. Segreto) in tema di responsabilità da
emotrasfusione.
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VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
nuova strada cassando sistematicamente, sulla base dei principi introdotti,
decisioni delle Corti d’Appello.
Si intendono qui illustrare la genesi della rivoluzione, i contenuti del nuovo regime di responsabilità, le sue conseguenze, anche in campi finitimi, per
concludere con alcune considerazioni comparatistiche (1).
a) La responsabilità medica nella sua evoluzione storica
Assumendo come punto di partenza il codice civile del 1942, va in primo
luogo osservato che per lungo tempo la problematica è stata socialmente, giudizialmente e dottrinalmente marginale per una serie di circostanze fra di loro
convergenti quali il rapporto fiduciario fra medico e paziente, la diffusa suggestione della « fatalità », la scarsa propensione al contenzioso in questo campo.
Ovviamente non è che non vi fossero casi di negligenza medica ma, tranne i casi più gravi, essi non avevano sbocchi giudiziari. Per dirla con una battuta, gli errori dei medici riposavano al cimitero. Dal punto di vista della riflessione teorica, poi, la responsabilità medica scontava la generale marginalità del tema della responsabilità civile. Non è un caso che per molti decenni vi
sono stati in Italia solo due libri, entrambi dedicati alla responsabilità del
professionista, che trattavano l’argomento: quello, accademico, di Giovanni
Cattaneo (2) e quello, pratico, di Carlo Lega (3).
Vi è un ulteriore aspetto che merita di essere segnalato per i suoi duraturi
effetti sul sistema. Per lungo tempo solo i casi più gravi di supposta responsabilità medica cadevano sotto l’attenzione del giudice.
Dunque, la morte del paziente con interessamento dell’autorità giudiziaria penale. Parlare di responsabilità medica significava dunque interrogarsi
sulla sussistenza del reato di omicidio colposo, in maniera non dissimile di
quanto è avvenuto in altri campi, come quella della lesione della reputazione
appiattita sul reato di diffamazione.
La dimensione penalistica — che spesso poi ha svolto un ruolo di apripista (si pensi alla giurisprudenza sulla perdita di una possibilità di guarigione)
— ha inevitabilmente plasmato l’istituto nel senso delittuale.
La giurisprudenza partendo da nozioni, pur contestate, di carattere generale quali quella di obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato inseriva
senza esitazione quella del medico all’interno della prima categoria. L’attenzione dunque si spostava sul modus operandi del sanitario ed in particolare
sulla sua diligenza.
( 1 ) Il mutamento è stato ben colto dalla dottrina più attenta: v. R. De Matteis, La responsabilità medica ad una svolta?, in Danno e resp., 2005, p. 23 (a commento della giurisprudenza che sarà analizzata infra). V. pure U. Izzo, Il tramonto di un « sottosistema »
della r.c.: la responsabilità medica nel quadro della recente evoluzione giurisprudenziale,
in Danno e resp., 2005, p. 130.
( 2 ) G. Cattaneo, La responsabilità del professionista, Giuffrè 1958.
( 3 ) C. Lega, Le libere professioni intellettuali nelle leggi e nella giurisprudenza, Giuffrè
1974 (ma vi è una precedente edizione, sempre con lo stesso editore, del 1952).
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Tuttavia, di fronte alle non poche difficoltà a individuare l’esistenza ed il
contenuto del contratto (nei tanti casi di intervento gratuito, in quelli presso
strutture pubbliche) appariva più appagante, sia per la vittima che per il giudicante, collocare il tutto nell’alveo del grande principio del neminem laedere.
Questo coincide — si parla degli anni ’70 del secolo scorso — con la stagione della « riscoperta » della responsabilità civile, in tutte le sue varie sfaccettature, da quella di presidio di diritti fondamentali, a quella di strumento
di regolazione delle attività economiche, dalla funzione di deterrenza a quella
di compensazione. La responsabilità medica finiva dunque annessa nei mobili
o nobili, che dir si volessero, confini della responsabilità civile (4).
In estrema sintesi la regola era assai semplice: spettava al paziente dimostrare la colpa del medico, il nesso causale fra questa ed il danno subito.
Spettava al medico, in via di eccezione dimostrare l’assenza di questi tre
elementi, e, eventualmente, la « speciale difficoltà » della prestazione per poter invocare, ex art. 2236 c.c., l’innalzamento della soglia di responsabilità
alla sola colpa grave o al dolo.
A guardare le cose dal punto di vista dei grandi numeri l’assetto era più favorevole al medico, in parte perché gravando sul danneggiato l’onere della prova la vasta area grigia dell’incertezza portava al rigetto della sua domanda. In
parte perché il momento chiave del processo, la consulenza tecnica d’ufficio,
era governata da altri medici inevitabilmente portati — come per ogni altra
professione — a non accanirsi nei confronti del collega: hodie tibi, cras mihi.
b) Lo spostamento di prospettiva degli anni ’80
La forte spinta risarcitoria — quel che retoricamente viene chiamata la
« domanda di giustizia » — si è mossa verso il riequilibrio utilizzando — o
riutilizzando — modelli contrattuali o, meglio ancora, negoziali. Si deve, peraltro, osservare che la dimensione contrattuale non è mai stata estranea alla
responsabilità medica, essendo chiaro che, soprattutto nella relazione professionale fra singolo medico e suo paziente, sussistesse un contratto. Tale considerazione è stata però sterilizzata, per di più, attraverso il principio del cumulo delle azioni di responsabilità (contrattuale ed aquiliana). Non era dunque
necessario optare per l’una o per l’altra, con tutte le implicazioni sia teoriche
che pratiche che la scelta comportava (5).
La equipollenza delle azioni aveva un corollario nella equivalenza del parametro di valutazione, individuato nella diligenza professionale e attivato indistintamente attraverso l’art. 1176, comma 2o, l’art. 1218 e l’art. 2043 c.c.
( 4 ) Si spiega in questa prospettiva l’affermazione di M. Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente, Giuffrè 1993, p. 23 secondo cui l’esigenza di tutelare appieno lo saluta e l’integrità fisica « sembra suggerire l’opportunità di ampliare la tutela risarcitoria del paziente oltre
i limiti (almeno tendenzialmente) ristretti della responsabilità contrattuale » (il corsivo è mio).
In senso conforme v. A. Princigalli, La responsabilità del medico, Jovene 1983, p. 4 ss.
( 5 ) La reciproca « metamorfosi » è ben illustrata da R. De Matteis, La responsabilità
medica, Cedam 1995, p. 8. V. pure A. Princigalli, op. cit., p. 14.
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i. Il « consenso informato »
La prima strategia sceglie un campo del tutto diverso e preliminare,
quello del c.d. consenso informato. Il presupposto della liceità dell’intervento
è che il paziente abbia manifestato il suo assenso ad esso.
Sviluppatosi da una costola del principio penalistico del consenso dell’avente diritto (art. 51 c.p.) esso attecchisce rapidamente in contesto civilistico: la prima decisione della Cassazione si rinviene già nei primi anni ’80.
La teoria del « consenso informato » si inserisce su una più ampia politica del diritto volta a tutelare i soggetti ritenuti più deboli, e dunque non solo
il paziente, ma in generale il consumatore, l’utente, il risparmiatore in contesti contrattuali.
Essa, partendo da schemi molto larghi procede rapidamente a formalizzarsi in testi scritti ed in procedure, caratteristiche dell’illecito aquiliano.
D’altronde il termine stesso « consenso » richiama problematiche tipicamente contrattuali ovvero, in una visione più ampia, « negoziale » (6).
Ed è proprio seguendo tale via che la giurisprudenza, sempre della Cassazione, affina la riflessione sulla distribuzione dell’onere della prova: a chi spetta dimostrare che il consenso è stato/non è stato fornito? E l’ampiezza del consenso?
Conviene riportare un lungo passo della sentenza 23 maggio 2001, n. 7027 (7):
« Osserva il Collegio che, secondo la puntuale notazione contenuta nel
quarto mezzo d’annullamento, la Corte d’appello, in effetti, non considerò,
nonostante che fosse stata dedotta, la questione della difficoltà, se speciale o
no, dell’intervento chirurgico compiuto dal medico, in riferimento ai connessi
criteri di imputazione dell’inadempimento (dolo o colpa grave) ex art. 2236
c.c., avendo ritenuto di potere altrimenti risolvere la controversia.
In particolare, la stessa Corte finì con l’affermare che la responsabilità del
sanitario derivava anche dalla violazione del dovere d’informazione su di lui
incombente, non risultando provato che vi avesse ottemperato: il che introduce
la questione, oggetto del quinto mezzo, se sia il medico a dover provare d’avervi
adempiuto o se, all’opposto, il relativo onere probatorio competa al paziente.
Va premesso, in linea generale, che l’attività medica trova fondamento e
giustificazione, nell’ordinamento giuridico, non tanto nel consenso dell’avente
diritto (art. 51 c.p.), come si riteneva nel passato, poiché tale opinione, di per
sé, contrasterebbe con l’art. 5 c.c., in tema di divieto degli atti disposizione
del proprio corpo, ma in quanto essa stessa legittima, volta essendo a tutelare
un bene costituzionalmente garantito, qual è quello della salute.
( 6 ) Evidenzia come in tal modo si confondano due piani, quello del consenso scriminante e quello del consenso contrattuale, V. Zambrano, op. cit., p. 73. La distinzione era già
presente in G. Cattaneo, op. cit., p. 265 ss.
( 7 ) Pubblicata, fra l’altro in F. it., 2001, I, p. 2504; e in Danno e resp., 2001, p. 1165,
con nota di M. Rossetti, I doveri di informazione del chirurgo estetico. La naturale conclusione è che « ai fini della configurazione di siffatta responsabilità [per mancanza del consenso informato] è del tutto indifferente se il trattamento sia stato eseguito correttamente o
meno » (così Cass. 14 marzo 2006, n. 5444, in Danno e resp., 2006, p. 564).
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Dall’autolegittimazione dell’attività medica, anche al di là dei limiti posti dall’art. 5 c.c., non può tuttavia trarsi la convinzione che il medico possa,
fuori di taluni casi eccezionali (allorché il paziente non sia in grado, per le
sue condizioni, di manifestare la propria volontà, ovvero, più in generale, ove
sussistano le condizioni di cui all’art. 54 c.p.), intervenire senza il consenso,
ovvero, a fortiori, malgrado il dissenso del paziente.
La necessità del consenso si evince, in generale, dall’art. 13 Cost., il quale sancisce l’inviolabilità della libertà personale, nel cui ambito dove ritenersi
inclusa la libertà di salvaguardare la propria salute e la propria integrità fisica, escludendone ogni restrizione se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e con le modalità previsti dalla legge. Ma è soprattutto
rilevante in materia l’art. 32 Cost., per il quale “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge (Ia
quale) non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. È proprio in attuazione di tali principi che la legge 13 maggio
1978 n. 180, sulla riforma dei manicomi, ha stabilito che “gli accertamenti e
trattamenti sanitari sono volontari”, salvi i casi espressamente previsti, concetto che è stato di lì a poco ribadito dalla legge 23 dicembre 1978 n. 833,
istitutiva dei servizio sanitario nazionale, il cui art. 33 dispone che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono, di norma, volontari”.
La formazione dei consenso presuppone una specifica informazione su
quanto ne forma oggetto (c.d. consenso informato), che non può provenire che dal
sanitario che deve prestare la sua attività professionale. Tale consenso implica la
piena conoscenza della natura dell’intervento medico e-o chirurgico, della sua
portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili
conseguenze negative, con la precisazione, peraltro, che, nel caso di interventi di
chirurgia estetica, in quanto non finalizzati al recupero della salute in senso
stretto, l’informazione deve essere particolarmente precisa e dettagliata.
Qualora l’informazione sia mancata, in tutto o in parte, si avrà una responsabilità del sanitario colpevole dell’omissione: la quale sarà di natura
contrattuale ovvero di natura extracontrattuale (precisamente: precontrattuale ex art. 1337 c.c.), a seconda che si ritenga che il difetto d’informazione
rilevi sul piano dell’inadempimento di un contratto già pienamente perfezionato, o su quello, semplicemente, delle trattative.
In alcune sue decisioni (v., da ultimo, Cass. 25 novembre 1994 n. 10014,
Cass. 15 gennaio 1997 n. 364) questa Corte ha ritenuto di optare per la seconda alternativa, collegando l’obbligo di informazione al comportamento secondo buona fede cui le parti sono appunto tenute nello svolgimento delle
trattative e nella formazione del contratto.
Peraltro, già con sentenza 29 marzo 1976 n. 1132 la Corte aveva enunciato l’opposto principio, osservando: che il contratto d’opera professionale si
conclude tra il medico ed il cliente quando il primo su richiesta del secondo,
accetta di esercitare la propria attività professionale in relazione al caso prospettatogli; che tale attività si scinde in due fasi, quella preliminare, diagno-
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stica, basata sul rilevamento dei dati sintomatologici, e l’altra, conseguente,
terapeutica o di intervento chirurgico, determinata dalla prima; che l’una e
l’altra fase esistono sempre, e compongono entrambe l’iter dell’attività professionale, costituendo perciò entrambe la complessa prestazione che il medico si
obbliga ad eseguire per effetto del concluso contratto di opera professionale;
che, poiché solo dopo l’esaurimento della fase diagnostica sorge il dovere del
chirurgo d’informare il cliente sulla natura e sugli eventuali pericoli dell’intervento operatorio risultato necessario, questo dovere d’informazione, diretto
ad ottenere un consapevole consenso alla prosecuzione dell’attività professionale, non può non rientrare nella complessa prestazione. Di qui, in definitiva,
la natura contrattuale della responsabilità derivante dall’omessa informazione.
Tale orientamento giurisprudenziale, successivamente fatto proprio da
altre decisioni (Cass. 26 marzo 1981 n. 1773, Cass. 8 agosto 1985 n. 4394),
sembra meglio adeguarsi, nel confronto con l’altro, al normale accadimento
delle vicende umane e alle norme che tali vicende sono chiamate e regolare.
Ritenuto dunque che la violazione del dovere di informazione dà luogo ad
un’ipotesi di inadempimento contrattuale, l’onere della prova correlativo si
distribuirà tra le parti in conformità delle consuete norme in materia.
Com’è noto, l’orientamento tradizionale afferma che in materia di obbligazioni contrattuali, è il creditore che deve dimostrare l’inadempimento, oltre
al contenuto della non adempiuta obbligazione, mentre il debitore è tenuto,
dopo tale prova, a giustificare ex art. 1218 c.c. l’inadempimento che il creditore gli attribuisce.
Secondo tale indirizzo, più precisamente, si deve avere riguardo, a questi
fini, all’oggetto specifico della domanda: sicché, a differenza del caso in cui si
chieda l’esecuzione del contratto e l’adempimento delle relative obbligazioni,
ov’è sufficiente che l’attore provi la fonte del rapporto dedotto in giudizio, ossia l’esistenza del negozio e quindi dell’obbligo che assume inadempiuto,
qualora, invece, si domandi la risoluzione del contratto ovvero il risarcimento
dei danni per inadempimento, l’attore è tenuto a provare anche il fatto su cui
la domanda è fondata, ossia l’inadempimento, spettando quindi al convenuto
di dare la prova della non imputabilità di esso (in questo senso, ad esempio,
Cass. 9 gennaio 1997 n. 124, Cass. 24 settembre 1996 n. 8435, Cass. 19 luglio 1995 n. 7863, Cass. Cass. 4 maggio 1994 n. 4285, Cass. 29 gennaio
1993 n. 1119, etc).
Il medesimo orientamento giurisprudenziale è stato seguito, espressamente, dalla citata sentenza Cass. 10014-1994, pur se in contraddizione con le
premesse poste, in quanto riferite (come visto) ad un’ipotesi di responsabilità
precontrattuale. In tempi recenti, tuttavia, si è fatto via via strada, sino a divenire prevalente, il diverso ed opposto orientamento, secondo cui, nell’azione
di adempimento, di risoluzione ed in quella risarcitoria, il creditore è tenuto a
provare soltanto l’esistenza del titolo, e non anche l’inadempienza dell’obbligato, dovendo essere quest’ultimo a provare di avere adempiuto, salvo che
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non opponga l’eccezione inademplenti non est adimplendum, nel qual caso
sarà l’altra parte a doverla neutralizzare, provando il proprio adempimento
o che la sua obbligazione non era ancora dovuta (ex plurimis, Cass. 27 marzo 1998 n. 3232, Cass. 15 ottobre 1999 n. 11629, Cass. 7 febbraio 1996 n.
973, Cass. 5 dicembre 1994 n. 10446, Cass. 31 marzo 1987 n. 3099).
L’idea che è alla base di questo indirizzo è stata volta a volta individuata: a) nell’ontologica distinzione fra responsabilità contrattuale e responsabilità extracontrattuale, che comporta oneri probatori diversi circa l’individuazione dei fatti costitutivi della pretesa, che sono, nell’un caso, la fonte negoziale o legale, e, nell’altro, il comportamento lesivo; b) nel criterio di ragionevolezza, sotteso all’attività ermeneutica delle norme, alla cui luce appare irrazionale che, di fronte ad un’identica situazione probatoria della ragioni del
credito (l’esistenza dell’obbligazione contrattuale e il diritto ad ottenere
l’adempimento), l’onere probatorio si atteggi in maniera diversa a seconda
che il creditore agisca per l’adempimento ovvero chieda il risarcimento del
danno (o la risoluzione) per causa d’inadempimento; c) nel criterio di vicinanza della prova, secondo cui l’onere della prova di un fatto va posto a carico della parte cui esso si riferisce: onde l’inadempimento — che nasce e si
consuma, per così dire, nella sfera d’azione del debitore — non deve essere
provato dal creditore, dovendo invece essere il debitore a provarne l’inimputabilità; d) nel criterio di persistenza del diritto, da intendere nel senso che,
nel caso di pretese creditorie destinate ad essere estinte entro un certo termine
attraverso l’adempimento, il creditore è dispensato dalla prova dell’inadempimento sulla base di quella presunzione; e) nel fatto che, se l’art. 1453 c.c.
consente, a chi ha chiesto l’adempimento, di domandare successivamente la
risoluzione, sarebbe illogico ritenere che, in un caso siffatto, abbia a mutare
la ripartizione dell’onere probatorio, prima richiedendosi all’attore di provare soltanto l’esistenza dell’obbligazione che vuole sia adempiuta e poi, nel
corso del giudizio — pur dopo un’eventuale condanna del convenuto all’adempimento, basata sul mancato assolvimento dell’onere relativo —, pretendendosi che sia lo stesso attore a provare, in, ragione dell’esercitato ius
variandi, l’inadempimento già precedentemente accertato sulla base di una
diversa regola probatoria.
In relazione al nuovo principio, che appare meritevole di completa adesione, appare di particolare interesse, sul punto della persistenza del diritto,
la sentenza 15 ottobre 1999 n. 11629 di questa Corte suprema.
Essa, invero, nel conformarvisi, ha precisato tuttavia che la presunzione
“non opera allorquando siano dedotti non già l’inadempimento dell’obbligazione, ma l’inesatto adempimento o la violazione di un obbligo accessorio
(quale, ad esempio, l’obbligo di informazione) la cui prova incombe al deducente”.
Nel rilevarsi che tali eccezioni risultano perfettamente coerenti con le ragioni giustificative della regola generale — non potendo che essere il creditore, in presenza di un inesatto adempimento, a provare in che cosa consista
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VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
l’inadempimento — non sembra che la violazione del dovere di informazione,
di cui oggi si controverte in causa, sia tale da comportare l’inclusione della
fattispecie nella disciplina derogatoria, sol che si consideri che esso, lungi
dall’essere accessorio o strumentale (rispetto ad un altro), derivando da una
norma di rilevanza costituzionale volta a tutelare un diritto primario della
persona, non può non avere, per ciò stesso, nella complessiva struttura. negoziale, natura e dignità autonome (con autonoma rilevanza, sul piano delle
conseguenze giuridiche, nel caso d’inadempimento).
Ritenuto, allora, che avrebbe dovuto essere il medico a provare il fatto
estintivo del dovere di informazione, ossia di avervi adempiuto — a prescindere dalle difficoltà dell’attività professionale prestata, essendo incondizionato il dovere medesimo —, è da concludere che il giudice d’appello, ritenendo
che il debitore non avesse provato d’avere informato il paziente della natura,
dei rischi, delle conseguenze dell’intervento, non violò le denunciate norme
sull’onere della prova ».
La lunga citazione interessa non tanto per individuare la regola — che
nella giurisprudenza è sempre adattabile alla (e nasce dalla) fattispecie concreta — quanto per evidenziare il non comune sforzo argomentativo e la sua
collocazione in un ambito prevalentemente contrattualistico.
L’attenzione, quasi microscopica, alla fase preliminare del consenso si ripercuote inevitabilmente sul resto della costruzione della responsabilità medica. Essa serve infatti a perimetrare l’area dell’intervento consentito (e, verrebbe da dire, pattuito), e dunque a valutare l’adempimento di quella prestazione e a verificare che il sanitario non abbia agito ultra vires.
In sintesi, un conto è assumere che vi sia stata una generale autorizzazione all’intervento e dunque concentrare l’attenzione sul rispetto dei criteri di
diligenza nell’ottica del neminem laedere. Altro conto è individuare a quale
intervento si è consentito, quali esiti sono stati rappresentati, quali complicanze sono state prospettate, e confrontare quanto è stato fatto ed è accaduto.
Mentre nella prima prospettiva il fuoco dell’attenzione è sulla negligenza,
nella seconda è sull’oggettivo scostamento fra quanto concordato prima e
quanto verificatosi poi, e ciò indipendentemente da profili di colpa professionale che rileveranno in via autonoma.
ii. I termini di prescrizione
Il secondo fattore che sospinge la responsabilità medica verso le braccia
della responsabilità contrattuale è un accidente puramente tecnico: il diverso
termine prescrizionale per l’azione, ordinario decennale per il contratto; quinquennale per l’illecito. In un numero significativo di casi — anche per le
obiettive difficoltà di individuare le cause del sinistro ovvero per il verificarsi
delle conseguenze a distanza di molto tempo dall’intervento — il termine abbreviato è scaduto costringendo il danneggiato a qualificare la sua domanda
come contrattuale.
Inevitabilmente tale preliminare inquadramento si riverbera sugli svilup-
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
305
pi del giudizio avviato in un preciso alveo. Di certo tale esito è favorito dal
principio che esiste nel nostro ordinamento — ma non in altri — del cumulo
delle azioni contrattuale ed extra contrattuale, ponendo il danneggiato in una
posizione processuale più vantaggiosa e consentendogli di « giocare » su due
tavoli traendo i massimi benefici da entrambi. Ma mentre in altri settori — si
pensi a quello dei sinistri da circolazione stradale — il problema e la prassi
del cumulo si sono mantenuti entro limiti, anche numerici, modesti, in quello
della responsabilità medica essi sono costanti e quasi imprescindibili. Ma non
si tratta solo di una questione di termini. Laddove l’evento dannoso si sia verificato a distanza di molti anni il fondamento dell’azione è la riconduzione
causale dell’evento alla condotta posta in essere dal sanitario.
In un contesto extracontrattuale il paziente dunque si trova a dover superare un preliminare ed aggiuntivo ostacolo per entrare nelle aule di giustizia,
controbattendo anche alla ovvia eccezione che egli già da tempo era consapevole delle conseguenze dannose (ed allora il termine è spirato) oppure avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza.
iii. L’erosione dei « casi di speciale difficoltà » e l’affermarsi del suo opposto (i casi di « non difficile esecuzione ») (8)
Una volta accentuata la connotazione contrattuale della responsabilità, le
questioni si pongono su un piano inclinato (gli inglesi direbbero uno slippery
slope) dalle conseguenze prevedibili.
Prima di esaminarle, tuttavia, conviene tornare all’alternativa extra-contrattuale ove la graduazione della responsabilità era (ed è tuttora) possibile
azionando la difesa dell’art. 2236 c.c. che lascia indenne il professionista per i
casi di speciale difficoltà, salvo che non vi sia dolo o colpa grave. Il ricorso
con successo a tale norma si è tuttavia progressivamente assottigliato, vuoi
per l’evoluzione della scienza medica, vuoi per la crescente marginalità delle
ipotesi rispetto all’esponenziale aumento delle controversie in materia.
Il primo segnale è di quasi trent’anni fa avendo affermato la Cassazione
che « La responsabilità di un ente ospedaliero per i danni causati a un paziente dalle prestazioni mediche dei sanitari dipendenti è di natura contrattuale, poiché l’ente, obbligandosi ad eseguire le prestazioni, ha concluso col
paziente un contratto d’opera intellettuale. Pertanto, nel settore chirurgico,
quando l’intervento operatorio non sia di difficile esecuzione ed il risultato
conseguitone sia peggiorativo delle condizioni finali del paziente, il cliente
adempie l’onere a suo carico provando che l’intervento operatorio era di facile esecuzione e che ne è conseguito un risultato peggiorativo, dovendosi presumere l’inadeguata o non diligente esecuzione della prestazione professionale
del chirurgo; spetta, poi, all’ente ospedaliero fornire la prova contraria, cioè
che la prestazione professionale era stata eseguita idoneamente e l’esito peg( 8 ) Riprende l’espressione di R. Sacco di « massime mentitorie » R. De Matteis, La responsabilità medica, cit., p. 123 ss. evidenziando come l’art. 2236 c.c. sia stato « azzerato » e utilizzato per introdurre forme di responsabilità profondamente diverse.
306
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
giorativo era stato causato dal sopravvenire di un evento imprevisto ed imprevedibile oppure dall’esistenza di una particolare condizione fisica del cliente
non accertabile con il criterio della ordinaria diligenza professionale » (Cass.
21 dicembre 1978, n. 6141 [9]).
Tale pronuncia si presenta tuttavia isolata (10), a livello di Suprema Corte, preferendo questa percorrere la strada contrattuale soprattutto per portare
sotto il vincolo della responsabilità quegli istituti di cura — tipicamente case
di cura private — che sostenevano essere estranei al rapporto fra medico e
paziente, essendosi limitati — questa la tesi difensiva — a mettere a disposizione la struttura, ma non aver pattuito alcuna prestazione medica se non di
tipo infermieristico.
Al contrario, l’orientamento espresso dalla citata sentenza 6141/78 sembra contraddetta da decisioni immediatamente successive che si esprimono
ambiguamente sul titolo della responsabilità (« qualunque sia la natura, contrattuale o meno, dell’opera professionale dal medico prestata nei confronti del
paziente », Cass. 8 marzo 1979, n. 1443), ovvero per imboccare solo quella
aquiliana (così Cass. 24 marzo 1979, n. 1716 (11), secondo cui la responsabilità del medico dipendente di un ente ospedaliero « è soltanto extracontrattuale », con conseguente applicazione del termine quinquennale di prescrizione).
iv. Chirurgia estetica e « obbligazione di risultato »
È solo molti anni dopo che, preceduta ad una ampia casistica dei giudici
di merito, la Cassazione sembra portarsi sulla tesi della obbligazione di risultato nel campo della chirurgia estetica. In ogni caso sembrano emergere, a
partire dagli anni ’90 tre percorsi che, per strade diverse, conducono a risultati similari.
Il primo, come s’è detto, è quello della attribuzione in capo al medico di
una obbligazione di risultato (12). Tale orientamento è preceduto da una ampia casistica dei giudici di merito in materia di chirurgia estetica (13).
Le ragioni di tale spostamento sono prevalentemente legate alla percezione sociale di tale branca della medicina che appare avere finalità eminente( 9 ) In F. it., 1979, I, c. 4. Sulla marginalizzazione della norma v. A. Princigalli, op.
cit., p. 147.
( 10 ) Come pure lo è il precedente di Cass. 15 dicembre 1972, n. 3818 (in F. it., 1973, I,
c. 1474) (« Constatata l’estrema gravita della frattura e delle sue conseguenze, e provate le
deteriori modalità dell’intervento a causa delle imprudenti omissioni e delle deficienze sopra ritenute, l’onere probatorio si spostava dalla paziente ai due sanitari »).
( 11 ) In F. it., 1980, I, c. 1115.
( 12 ) Rileva che qualora si utilizzi quale parametro per verificare la colpa la condotta
astrattamente esigibile « la responsabilità [del medico] è allora analoga a quella derivante
dall’inadempimento di un’obbligazione di risultato, poichà la diligenza è chiamata ad operare rispetto a comportamenti già definiti secondo un criterio di buona fede » (V. Zambrano, op. cit., p. 47).
( 13 ) Ex multis v. i casi riportati per esteso da R. De Matteis, op. cit., p. 378 ss. ed i cui
principi si applicano anche in materia odontoiatrica.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
307
mente edonistiche e non terapeutiche, e dunque godere di una condizione giuridica deteriore (14).
A ben vedere ci si potrebbe chiedere il perché di tale atteggiamento che, a
rigore, dovrebbe colpire il paziente — alla ricerca di interventi che alterano la
naturale conformazione del corpo — più che il medico.
E interrogarsi sul perché la salute non può essere oggetto di una obbligazione
(di risultato), mentre la « bellezza », la « piacevolezza » possono esserlo (15).
I « risultati sperati » vengono invece contrattualizzati pur restando in capo al paziente l’onere di provare che essi formano oggetto, anche implicito,
del rapporto giuridico con il medico (Cass. 25 novembre 1994, n. 10014 (16);
Cass. 9 dicembre 1997, n. 12253) (17). Si tenta comunque di porre un argine
distinguendo (a differenza della citata Cass. 10014/94) fra chirurgia estetica
volta a « migliorare le proprie apparenze estetiche » e chirurgia plastica ricostruttiva (v. Cass. 8 aprile 1997, n. 3046 (18), ma con una linea di demarcazione assai incerta).
v. La teoria del « contatto sociale »
Il secondo percorso è quello che scavalca le difficoltà di un rapporto contrattuale facendo derivare conseguenze analoghe grazie alla teoria del c.d.
« contatto sociale » (19): « L’obbligazione del medico dipendente per responsabilità professionale nei confronti del paziente si fonda sul “contatto sociale”
caratterizzato dall’affidamento che il malato ripone in colui che esercita una
professione protetta che ha per oggetto beni costituzionalmente tutelati. La
natura contrattuale di tale obbligazione è individuata con riferimento non alla fonte ma al contenuto del rapporto. Dalla natura contrattuale della re( 14 ) L’equivoco (o quel che a me pare tale) è da tempo presente in letteratura: v. C. Lega,
op. cit., p. 868 (« Attesa la particolare natura dell’intervento in parola e le sue finalità, che salvo le eccezioni suindicate sono di mero interesse privato, si è ritenuto che la responsabilità del
chirurgo [estetico] è più accentuata rispetto agli interventi di chirurgia comune ») riprendendo
il pensiero di G. Cattaneo, op. cit., p. 228. Nello stesso senso v. A. Princigalli, op. cit., p. 42 s.
( 15 ) Dubita che alla chirurgia estetica debbano applicarsi criteri diversi da quelli previsti per altre specializzazioni V. Zambrano, op. cit., p. 18.
( 16 ) In F. it., 1995, I, c. 2913, con nota di E. Scoditti, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale; nonché in Nuova g. civ. comm. 1995, I, p. 937, con nota di G. Ferrando,
Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale.
( 17 ) « Indubbiamente la via tortuosa per giungere alla meta di un trattamento più favorevole (quanto meno sotto il profilo dell’onere della prova) per il paziente danneggiato poteva essere evitata partendo dall’affermazione che l’esito favorevole del trattamento non può, in certi casi, ritenersi a priori solo eventuale. Ma tale criterio, urtando contro la ratio della distinzione tradizionale, non trova cittadinanza neanche in un settore, come la chirurgia estetica, nel quale
l’esperienza, oltreché la logica comune, sembrerebbero postulare l’incondizionata vigenza »
(così M. Zana, Responsabilità medica e tutela del paziente, Giuffrè 1993, p. 38).
( 18 ) In F. it., 1997, I, c. 1801; nonché in Danno e resp., 1997, p. 638.
( 19 ) Da cui derivano obblighi di protezione di genesi dottrinaria tedesca e rispetto ai
quali il principale teorico in Italia è C. Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai
confini fra contratto e torto, in Scritti Mengoni, I, Giuffrè 1995, p. 147.
308
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
sponsabilità del medico dipendente deriva che il regime della ripartizione dell’onere della prova, del grado della colpa e della prescrizione sono quelli propri delle obbligazioni da contratto di prestazione d’opera professionale »
(Cass. 22 gennaio 1999, n. 598 [20]).
In questo modo si ottiene una uniformità di regole applicative sottoponendo tutti i casi ai principi della responsabilità contrattuale.
vi. Gli interventi di routine
Infine si riprende la distinzione sulle tipologie di interventi concentrando
l’attenzione su quelli « di facile esecuzione » ovvero « routinari ». La giurisprudenza precisa che « nel caso di intervento di facile esecuzione, non si verifica un passaggio da obbligazioni di mezzi in obbligazione di risultato, che sarebbe difficile dogmaticamente da giustificare a meno di negare la stessa distinzione tra i due tipi di obbligazioni (come pure fa gran parte della recente
dottrina) ma opera il principio res ipsa loquitur, ampiamente applicato in materia negli ordinamenti anglossassoni (dove la responsabilità del medico è sempre di natura aquiliana), inteso come “quell’evidenza circostanziale che crea
una deduzione di negligenza” » (Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335 [21]; ma anche Cass. 19 maggio 1999, n. 4852 [22] e Cass. 22 gennaio 1999, n. 598 [23]).
E tuttavia la stessa argomentazione non sfugge alla critica di dubbio fondamento dogmatico, giacché nel sistema generale delle obbligazioni ex contractu, fatta salva la previsione dell’art. 2236 c.c., non è dato conoscere una
diversa ripartizione dell’onere della prova avendo riguardo alla maggiore o
minore « facilità » della prestazione.
La classificazione pare dunque esprimere una semplificazione: posto che
la prestazione è di facile esecuzione l’inadempimento risulta più direttamente
percepibile a seguito del verificarsi di un evento dannoso. La natura della
prestazione si porrebbe dunque come punto di riferimento per l’accertamento
della colpa, intesa come non conformità ad un parametro di condotta media.
Ma tale precisazione vanifica l’asserzione iniziale secondo cui non vi sarebbe la trasformazione di una obbligazione di mezzi in una di risultato (24).
( 20 ) A quest’ultima sentenza v. i commenti di R. De Matteis, La responsabilità medica
tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale, in Danno e resp., 1999, p. 777;
V. Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto, ivi,
1999, p. 294; A. Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, in
Corr. giur., 1999, p. 441.
Sul « contatto sociale » v. A. Princigalli, op. cit., p. 15 s.
( 21 ) In Resp. civ., 2001, p. 580 con nota di E. Guerinoni, « Vecchio » e « nuovo« nella
responsabilità del medico.
( 22 ) In Danno e resp., 1999, p. 1104 con nota di G. Comandè; e in Resp. civ., 1999, p.
995 con nota di M. Gorgoni, Disfunzioni tecniche e di organizzazione sanitaria e responsabilità professionale medica.
( 23 ) Cit. retro a nt. 20.
( 24 ) Ed appunto con riguardo alla giurisprudenza sugli interventi di « facile esecuzio-
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
309
Il risultato costituisce l’evidenza dell’inadempimento di una prestazione che,
in quanto di « facile esecuzione », rientrava pienamente nella diligenza esigibile al debitore. La controprova appare condurre al medesimo esito: posto che
il medico abbia espressamente pattuito la guarigione del paziente egli si libererà ex art. 1218 c.c. dimostrando che la mancata guarigione è dovuta a causa a lui non imputabile. Il che è l’equivalente dell’affermazione secondo cui
« il medico, per andare esente da responsabilità, deve provare che l’insuccesso dell’operazione non è dipeso da un difetto di diligenza proprio » (così
Cass. 22 gennaio 1999, n. 598) (25).
La valutazione critica dell’orientamento giurisprudenziale non vuole essere fine a sé stessa, ma piuttosto indicare come talune incertezze ricostruttive
siano alla base di quel che è un’inevitabile conclusione: la generale applicazione dell’art. 1218 c.c. ad ogni tipo di intervento medico, fatta eccezione per
quelli, come s’è detto rarissimi, rientranti sotto la fattispecie dell’art. 2236 c.c.
Ad ogni modo si può dire che fino ai primissimi anni del secolo XXI vi
era un triplice regime: quello dell’art. 2236 c.c. per cui il medico rispondeva
solo per dolo o colpa grave; quello degli interventi « di facile esecuzione » per
i quali il medico rispondeva fatta sempre salva la possibilità di fornire una
prova liberatoria in ordine alla propria diligenza e alla diversa causa del danno; ed una vasta area intermedia governata dalla regola probatoria dell’art.
2697 c.c.: spetta all’attore dimostrare negligenza, nesso causale e danno. Con
la ovvia conseguenza che actore non probante reus absolvitur.
c) Il nuovo indirizzo giurisprudenziale
Nel giro di pochi anni il quadro si è trasformato, portando la giurisprudenza della Suprema Corte su posizioni tanto coerenti quanto estreme, come
si avrà modo di illustrare.
La sentenza che appare esporre meglio la svolta è Cass. (sez. III) 21 luglio 2003, n. 11316 (26) ove, partendo dalla questione della irregolare tenuta
della cartella clinica, enuncia un principio « sintomatico di una linea evolutiva in ordine alla distribuzione dell’onere della prova che, fermi i principi, va
sempre più accentuando la considerazione della “vicinanza alla prova” (nel
senso, di effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla), consentendo un più frequente ricorso alle presunzioni tutte le volte che la prova non
possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro
la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato ».
ne » e la conseguente inversione dell’onere della prova, parla di « contraddittorietà tra la
premessa e le conclusioni » del ragionamento della Cassazione M. Zana, op. cit., p. 38.
( 25 ) Cit. retro nt. 20. Sugli equivoci posti dalla distinzione fra obbligazioni di risultato e
obbligazioni di mezzi, in ambito medico, v. R. De Matteis, La responsabilità medica, cit.,
p. 363 ss.
( 26 ) In Nuova g. civ. comm., 2004, I, p. 265 con nota di C. Pasquinelli, Responsabilità
medica: la Cassazione torna ad interrogarsi sui temi della colpa e della causalità omissiva;
nonché in F. it., 2003, I, c. 2970.
310
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
Nel contempo la categoria degli interventi « di facile esecuzione » viene
estesa a tutta l’area intermedia fino al 2236 c.c.
Il caso andava deciso « anche in base ai criteri di distribuzione dell’onere
della prova in campo contrattuale, secondo i quali compete al medico — tutte le volte che il caso affidatogli non sia di particolare complessità — provare
che l’insuccesso del suo intervento è stato incolpevole e non al paziente dimostrarne la colpa ».
E nella formula « non di particolare complessità » riecheggia quel « non
di difficile esecuzione » della primigenia Cass. 6141/78. Si consideri che la
fattispecie era un caso (assai frequente) di asfissia perinatale con danni cerebrali irrevocabili al nascituro.
La qualificazione dell’assistenza ostetrico-ginecologica al parto come
« non di particolare complessità » solleva non pochi dubbi, giacché si tratta di
una delle aree di maggiore sinistrosità anche nei paesi medicalmente più evoluti, segno, al contrario, di una elevata emersione di complicanze. Ma non
sembra questo il punto da sottolineare: una volta che il parto venga qualificato come intervento « non di particolare complessità » è agevole estendere la
sua disciplina alla gran parte degli altri interventi non classificabili come
« facili ».
Di lì a pochi mesi un cospicuo gruppo di decisioni consolida l’indirizzo. Giova riportare un lungo passo della sentenza Cass. 19 maggio 2004, n. 9471 (27):
« In quei pochi casi in cui l’art. 2236 è stato realmente applicato, la valutazione della non gravità della colpa del medico risulta implicitamente contenuta nel giudizio espresso sulla natura dell’intervento, mentre la regola inversa (elaborata per la prima volta, come si è avuto modo di ricordare, da
Cass. 6141/1978) della facilità dell’intervento e del risultato peggiorativo come presunzione di colpa tout court è risultato il primo passo verso la sostanziale trasformazione dell’obbligazione del professionista da obbligazione di
mezzi in obbligazione di (quasi) risultato. È (anche) alla luce delle considerazioni che precedono, delle linee evolutive del pensiero dottrinario e giurisprudenziale degli ultimi decenni, del sempre crescente favor che ha via via accompagnato e connotato la posizione del paziente sul piano probatorio, che
va oggi predicato, in punto di diritto, il principio secondo il quale, in definitiva, pur gravando sull’attore l’onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si
spinge sino alla necessità di enucleazione ed indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili
soltanto dagli esperti del settore (ché, diversamente opinando, si finirebbe per
gravare il richiedente di un onere supplementare, quanto inammissibile, quale quello di richiedere, sempre e comunque, un accertamento tecnico preventivo onde supportare l’atto introduttivo del giudizio delle necessarie connota( 27 ) In Danno e resp., 2005, p. 30 con nota di R. De Matteis, La responsabilità medica
ad una svolta?.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
311
zioni tecnico-scientifiche), sufficiente essendo, per converso, la contestazione
dell’aspetto colposo dell’attività medica secondo quelle che si ritengano essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non-professionista che, espletando, peraltro, la professione di avvocato, conosca (o debba
conoscere) l’attuale stato dei possibili profili di responsabilità del sanitario
(omessa informazione delle conseguenze dell’intervento, adozione di tecniche
non sperimentate in luogo di protocolli ufficiali e collaudati, mancata conoscenza dell’evoluzione, in una determinata branca, della metodica interventistica nota invece al constans atque diligens homo, ecc., oltre ai classici criteri
di imprudenza, imperizia e negligenza dell’operatore, i cui aspetti sono, oggi,
a loro volta profondamente mutati sotto l’aspetto definitorio — contenutistico, se si pensa che la negligenza è comunemente definita come violazione di
regole sociali — e non più, o non soltanto, mera disattenzione consistente
nello scarso uso dei poteri attivi dell’individuo; l’imprudenza è, a sua volta,
violazione delle modalità imposte dalle regole sociali per l’espletamento di
certe attività — e non più, o non soltanto, mancata adozione delle necessarie
cautele suggerite dall’esperienza; l’imperizia, infine, è violazione di regole tecniche di settori determinati della vita di relazione — e non più, o non soltanto, l’insufficiente attitudine all’esercizio di arti o professioni —) ».
La citazione, oltre a servire da guida nell’evoluzione giurisprudenziale, è
importante perché mette in luce la riflessione retrostante alla decisione, la
quale non è affatto sfoggio di erudizione da parte dell’estensore, bensì esternazione di una valutazione sistematica, all’evidenza condivisa, sulla natura
della responsabilità medica.
La natura condivisa, all’interno della sezione, dell’orientamento trova
espressione in una decisione di qualche giorno successiva (Cass. 28 maggio
2004, n. 10297 [28]) (con diverso estensore e collegio giudicante parzialmente
mutato): « Applicando questo principio all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico deve affermarsi che il paziente che agisce
in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve
provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico
del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano
stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.
La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere
( 28 ) In Danno e resp., 2005, 26 nota De Matteis, La responsabilità medica ad una
svolta?; nonché in F. it., 2005, I, c. 2479.
312
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente
grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.
Porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto
adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il
principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Infatti, nell’obbligazione
di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente
esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l’oggetto è l’attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della
prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia “vicina” a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il
difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto ».
Ed un mese dopo Cass. 21 giugno 2004, n. 11488 (29) (Collegio ed
estensore diversi) scolpisce ancor più i tratti del nuovo indirizzo: « Dando
luogo la relazione che si instaura tra medico (nonché tra la struttura sanitaria) e paziente ad un rapporto di tipo contrattuale (quand’anche fondato
sul solo contatto sociale), in base alla regola di cui all’art. 1218 c.c. compete non già al paziente allegarne e provarne la sussistenza, ma al medico (ed
alla struttura sanitaria) dimostrarne la mancanza. Il paziente ha l’onere di
allegare l’inesattezza dell’adempimento, non la colpa né, tanto meno, la
gravità della colpa; il cui difetto (nel caso “ordinario” di cui all’art. 1176
c.c.) ovvero anche solo la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all’art. 2236 c.c.) deve essere invece allegata e provata
dall’obbligato alla prestazione che si assume inesattamente effettuata, e
dunque dal medico ».
L’avanzata non si ferma neanche di fronte alle antiche (ma fragili) mura
del 2236 c.c. Così Cass. 5 luglio 2004, n. 12273 (30) enuncia che « in linea
con la decisione della Consulta del 22 novembre 1973 n. 166 la giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato che la limitazione, stabilita
dall’art. 2236 cod. civ., della responsabilità del prestatore d’opera intellettuale alla colpa grave — configurabile nel caso di mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione — è applicabile soltanto per la colpa di imperizia nei casi di prestazioni particolarmente
difficili. Non possono invece mai difettare, neppure nei casi di particolare difficoltà, nel medico gli obblighi di diligenza del professionista, che è un debitore qualificato, ai sensi dell’art. 1176, secondo comma, cod. civ., e di pruden( 29 ) In Giust. civ., 2005, 1, I, p. 121 con nota di D. Giacobbe, « Wrongful life » e problematiche connesse; nonché in Danno e resp., 2005, p. 379 con nota di Feola.
( 30 ) In G. it., 2005, c.1409.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
313
za, che pertanto, pur nei casi di particolare difficoltà, risponde anche per colpa lieve ».
d) La prestazione medica e la teoria del contratto
L’inquadramento tutto contrattuale della responsabilità medica sollecita
in primo luogo delle riflessioni d’ordine generale sul ruolo e sulla funzione
dell’istituto della responsabilità in un contesto tanto contrattuale che extracontrattuale (31).
Nel primo caso l’ordinamento soccorre il creditore trasformando il suo
diritto all’adempimento in diritto al risarcimento. La dimensione primariamente ed eminentemente economica del contratto adatta ad essa i rimedi,
modulandoli al fine di conservare il patrimonio del creditore o comunque i
suoi interessi patrimoniali: rinegoziazione del contratto, risoluzione, esecuzione in forma specifica, risarcimento si pongono in connessione fra di loro offrendo un fascio di rimedi. A ciò si aggiunga la disponibilità di strumenti
« collaterali » (tipicamente, le garanzie) ovvero incastonati nel contratto (ad
es. clausole penali) che cautelano il creditore dall’inadempimento (dissuadendolo) o dalle sue conseguenze.
Tale dimensione, assai poco dogmatica e molto concreta, è sempre quella
in cui si muove il contratto moderno. Trasposta con riferimento al rapporto
fra medico/struttura sanitaria e paziente appare problematica sotto più di un
profilo.
In primo luogo si deve considerare che gli interessi che si compongono
nel contratto sono da un lato quello economico del debitore della prestazione (fatto salvo quanto si dirà oltre sulle istituzioni pubbliche) e quello
non patrimoniale del creditore della prestazione. Si dirà che ciò avviene in
numerosi altri casi, come ad esempio le prestazioni artistiche ovvero quelle
volte allo svago. Ma qui, nel rapporto medico/paziente, il diritto alla salute, oltre ad una valenza costituzionale, assume un rilievo che è economicamente incommensurabile (sintetizzato nell’espressione comune « la salute è
tutto »). Con il che non si intende in alcun modo collocare le prestazioni
mediche al di fuori del diritto dei contratti, ma solo evidenziare una loro
peculiarietà che impone, per la storica e connaturata duttilità dell’istituto,
una disciplina particolare. Per intendersi e riprendendo la riflessione
poc’anzi svolta, con riguardo ad un contratto fra medico e paziente non ha
molto senso parlare, nella stragrande maggioranza dei casi, di rinegoziazione, messa in mora, risoluzione, restitutio in integrum, esecuzione forzata.
Si lamenta un inadempimento perché c’è stato un pregiudizio alla salute, il
più delle volte permanente. L’unico rimedio è il risarcimento che deve coprire anche le spese per cure future. Questo tipo di contratto sfugge alle
sapienti tecniche e tendenze di « conservazione ». L’intuitus personae e la
( 31 ) Parla di « osmosi » e di « configurazione giuridica che partecipa dei caratteri di entrambe, senza rivelare una chiara appartenenza ad una di esse » R. De Matteis, La responsabilità medica, Cedam 1995, p. 1.
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VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
non fungibilità della prestazione ne sono un ostacolo psicologico prima ancora che giuridico.
In secondo, e conseguente, luogo la natura degli interessi in gioco mette in crisi uno dei capisaldi della moderna teoria dei contratti e cioè la
ponderata ed efficiente allocazione dei rischi (con loro eventuale prevenzione). Il rischio del paziente è da lui difficilmente valutabile, e non solo perché è solitamente un profano. La ragione principale è che di solito (l’eccezione di scuola è la chirurgia estetica in favore di un artista) il contratto
con il medico e la struttura sanitaria è stipulato per porre rimedio ad una
patologia. Non rientra in un contesto di relazioni patrimoniali. Spesso è
dettato dall’urgenza.
Ma anche il medico ha i suoi problemi: ciascun paziente è diverso dall’altro e una regola efficiente del risk avoider porta diritti alla c.d. medicina difensiva ovvero ad una attenta selezione dei pazienti con esclusione di quelli
che presentano un « rischio » anche solo latente, il che collide vistosamente
con i principi di deontologia medica (32).
Ma quand’anche si ritenesse valida la dinamica del rischio contrattuale in
quei rapporti in cui il paziente sceglie medico e struttura e contratta per i loro
servizi, essa davvero è assente nell’enorme numero di casi in cui l’esistenza
del contratto è solo simulata (33).
La questione non è quella di polemizzare con la teoria (opinabile in un
senso o nell’altro) del « contatto sociale ».
Trasparente ne sono le finalità equitative, e cioè quelle di offrire tutela a
chi la merita ma rischia di non riceverla. Il punto è un altro: nel rapporto fra
paziente e servizio sanitario nazionale è assente qualsiasi interazione di tipo
economico, da una parte e dall’altra. La struttura sanitaria pubblica è remunerata dalla fiscalità generale; il paziente può contribuirvi proporzionalmente
ai propri redditi (e dunque per nulla se al di sotto dei minimi imponibili) e
con un pagamento (il c.d. ticket) che è davvero difficile qualificare come
« corrispettivo » bensì è più propriamente un « contributo » (ed infatti ne sono esclusi gli indigenti) (34).
Anche qui sono evidenti le ragioni sottese all’inquadramento contrattualistico, ma l’equiparazione ai fini risarcitori non fa venire meno le profonde differenze ontologiche nel rapporto. A voler essere coerenti, interrogandosi sul consenso, sulla causa di tale contratto e sullo scambio che in
ipotesi esso dovrebbe realizzare, si dovrebbe pervenire alla conclusione che
( 32 ) Sulla dimensione imprenditoriale dell’attività sanitaria v. V. Zambrano, op. cit., p.
20; nonché U. Ruffolo (a cura di), La responsabilità medica, Giuffrè 2004, passim.
( 33 ) Ritiene, invece, che in capo alla struttura pubblica o al medico convenzionato sussista « un vero e proprio obbligo a contrarre imposto dalle legge » V. Zambrano, op. cit., p.
28.
( 34 ) Nega l’esistenza di uno « scambio fra prestazioni » e di una corrispettività fra le
stesse V. Zambrano, op. cit., p. 32.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
315
non si tratta in nessun modo di un contratto difettando alcuni suoi requisiti essenziali (35).
Anche qui non si pensa di mettere in discussione un risultato acquisito da
decenni, ma piuttosto evidenziare che le finzioni (36) (quella del « contatto sociale », come quella del « contratto di spedalità ») sono utili se rimangono nel
loro, eccezionale, alveo non se tracimano sommergendo tutto e rivestendo
panni impropri.
Tornano qui con ancora maggiore forza, le notazioni sul contratto come
strumento di efficiente allocazione dei rischi che qualunque affare comporta.
È davvero assai difficile, se non palesemente forzato, cercare di ricostruire
comportamenti economicamente razionali tra soggetti di cui uno ha un obbligo di natura pubblicistica di fornire prestazioni medico-assistenziali nei confronti di chiunque le richieda, senza poter decidere né sull’an, né sul quantum, né, spesso sul quomodo (37). L’altro, il paziente, è « assegnato » ad una
determinata struttura sulla base di ripartizione geografico-amministrativa e
ritiene di avere diritto alla prestazione per il semplice fatto di essere cittadino.
Si deve poi osservare — ma il punto ha una portata generale e verrà trattato meglio nelle conclusioni — che l’estendere, attraverso l’inquadramento
contrattuale, la tutela del paziente che ha subito un danno all’interno di una
struttura sanitaria pubblica ha un effetto estremamente semplice, quello di
far gravare sui contribuenti i risarcimenti liquidati che dovranno essere coperti dalla fiscalità generale e, in assenza di copertura da parte di questa, attraverso la riduzione dei servizi erogati.
Ancora, e più nello specifico, si deve manifestare qualche dubbio su uno degli argomenti che si è visto ripetere nei passi giurisprudenziali prima riportati.
Per sostenere che spetta al medico provare i fatti che lo esonerano dalla
responsabilità, nelle diverse sentenze si indica che egli si troverebbe nella posizione di « vicinanza alla prova ».
Ora è indubbio che, per taluni aspetti, e soprattutto in materia chirurgica,
il medico sia a diretto contatto con il corpo del paziente e dunque sia, con riferimento a quel fatto, il soggetto posto meglio nelle condizioni di sapere e documentare quel che è successo (di qui la giusta importanza attribuita alla corretta
tenuta delle cartelle cliniche). Ma in molti casi non lo è: si pensi alle complicazioni post-operatorie, alle terapie farmacologiche, alla stessa diagnosi.
Se si volesse seguire il teorema della « vicinanza alla prova » si potrebbe
( 35 ) La prestazione sanitaria non sarebbe inquadrabile « in un contratto sinallagmatico di
scambio » se si considerano i criteri per la determinazione del compenso, in nessun modo
« equivalente economico della prestazione resa dal medico » (così V. Zambrano, op. cit., p. 32).
( 36 ) Riprende la tesi della « finzione » di un contratto V. Zambrano, op. cit., p. 34. Finzioni che si ripetono in ambito processuale: v. A. Princigalli, op. cit., p. 47.
( 37 ) Osserva l’impossibilità di utilizzare i consueti canoni di interpretazione del contratto per individuare l’esatto contenuto della prestazione dovuta V. Zambrano, op. cit., p. 49.
Sulla varietà dei rapporti astrattamente ricompresi nel rapporto fra paziente e struttura
pubblica v. A. Princigalli, op. cit., p. 20 ss.
316
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
fondatamente sostenere che il più delle volte il soggetto più vicino alla prova è
il paziente, che manifesta i sintomi, conosce il proprio stile di vita; ha posto in
essere le eventuali condotte autolesive; sa, o dovrebbe sapere, tutta la propria
storia clinica; è al corrente di episodi di familiarità. Si tratta di circostanze
tutte di cui il paziente solo è a conoscenza, né può essere possibile provarle in
punto di fatto e di diritto (si pensi alla incoercibilità di operazioni di c.d.
screening; alla natura sensibile, e dunque non accessibile, dei dati sanitari,
l’impossibilità per il medico di ricostruire l’attività che il paziente ha svolto al
di fuori del rapporto con il medico (38).
A seguire il principio enunciato occorrerebbe, dunque, valutare caso per
caso,stabilendo che spetta al medico provare talune circostanze, alla struttura
altre, e al paziente altre ancora.
Una soluzione chiaramente impraticabile e di dubbia compatibilità sistematica.
Sempre nello specifico va poi analizzata la problematica posta dall’art.
1225 c.c.
Apparentemente destinata a perimetrare l’area del danno risarcibile, la
disposizione investe tutto il progetto contrattuale giacché la prevedibilità delle
conseguenze dell’inadempimento conforma la distribuzione del rischio e delle
scelte delle parti sia nel prevedere talune clausole di esonero della responsabilità, sia nel garantirsi collateralmente (tipicamente con l’assicurazione per
danni a sé o a terzi).
Ancorché la giurisprudenza, nelle poche volte in cui ha affrontato il tema, tenda a considerarlo di scarso rilievo, l’art. 1225 c.c. se applicato coerentemente dovrebbe portare ad escludere il risarcimento del danno per morte
del paziente in tutti quei casi in cui essa è circostanza statisticamente rara (e
dunque imprevedibile) (39). La posizione opposta comporta una radicalizzazione: qualsiasi terapia o intervento può avere esiti letali ovvero gravemente
invalidanti e dunque queste non sono mai imprevedibili (40). Il dilemma rischia, tuttavia, di essere ozioso perché, per via del cumulo delle due responsabilità il danneggiato può sommare i vantaggi, di prova e di prescrizione, dell’azione contrattuale con quelli, di area del danno risarcibile, dell’azione extracontrattuale (41).
( 38 ) E dunque l’impossibilità per il medico di prevedere il rischio e di adottare strumenti preventivi: v. V. Zambrano, op. cit., p. 71.
( 39 ) Sul punto v. V. Zambrano, op. cit., p. 55 ss.
( 40 ) Conclusione giudicata « eccessiva » da V. Zambrano, op. cit., p. 40 perché implica
la responsabilità del medico in tutti quei casi in cui sia pur resa adeguatamente la prestazione non produce un effetto utile.
( 41 ) Per una disamina del principio del cumulo nell’ambito della responsabilità medica
v. in origine G. Cattaneo, op. cit., p. 304 ss. Più di recente v. R. De Matteis, La reponsabilità medica, cit., p. 20 ss. In chiave più generale, e critica, v. P.G. Monateri, Cumulo di responsabilità contrattuale e extracontrattuale (analisi comparata di un problema), Cedam
1989, passim.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
317
II. — La svolta giurisprudenziale italiana trova conforto nell’esperienza
comparata? Non si tratta, beninteso, di svolgere un confronto meccanico e
contabile per individuare gli ordinamenti similari e quelli dissimili, quanto
piuttosto di svolgere una lettura funzionale dei vari sistemi per accertarne in
primo luogo la concreta operatività e poi individuare le criticità.
D’altra parte è presto detto: dal punto di vista teorico, nei sistemi continentali europei prevale l’approccio contrattuale; in quelli di common law
quello extra-contrattuale. Ma la qualificazione di per sé non è indicativa,
giacché vi sono sistemi « contrattuali » che si chiudono utilizzando lo schema
della obbligazione di mezzi; e sistemi « extra-contrattuali » che si aprono introducendo principi quali quello della res ipsa loquitur o altri meccanismi di
inversione dell’onere della prova.
Questo approccio, peraltro, sembra confermato dal fatto che ciascun modello guarda verso l’altro sperando di trovarvi un rimedio alle storture o agli
eccessi. Il che, da solo, la dice lunga sulla flessibilità dei due modelli — qualcuno potrebbe dire neutralità, qualcun altro ambiguità — la cui concreta resa
dipende da fattori che, evidentemente, sono esterni alla loro costruzione teorica.
Scrive l’autore del più importante lavoro comparato in tema di responsabilità medica, Dieter Giesen, che « vi è poca differenza in pratica fra le possibili conseguenze della violazione da parte del medico dei suoi obblighi contrattuali nel campo del diritto sanitario, oppure del suo obbligo di diligenza
nell’ambito della responsabilità extracontrattuale » (42).
È davvero così?
a) L’esperienza degli Stati Uniti d’America
Si assuma come punto di partenza l’esperienza statunitense, nella quale
per prima si è manifestata la esplosione del contenzioso in materia di responsabilità medica. È il caso di osservare che, pur essendo riconosciuto il rapporto contrattuale fra paziente e medico professionista, le azioni del primo nei
confronti del secondo sono prevalentemente fondate sulla responsabilità extracontrattuale. La ragione è semplice: nel campo aquiliano possono essere riconosciuti, quasi sempre, risarcimenti esemplari, che invece nelle azioni contrattuali lo sono più raramente. Inevitabile, e razionale, la scelta dell’attore.
L’inquadramento extracontrattuale non sarebbe di per sé favorevole al
danneggiato — fatto salvo quanto appena si è detto con riferimento alla concedibilità di exemplary damages (43) — se non fosse che esso si inserisce in un
( 42 ) D. Giesen, International medical malpractice law: a comparative law study of civil
liability arising from medical care, Tubinga, Mohr 1988, p. 9; avevo prospettato anch’io la
medesima lettura in La sorte del paziente, Cedam 1994, a p. 84 s. Ciò che cambia, ovviamente, è se in un campo si adotta un onere della prova diverso che nell’altro.
( 43 ) Una valutazione critica dei luoghi comuni in materia di risarcimento esemplare per
responsabilità medica è svolta da M. Rustad-T. Koenig, Reconceptualizing Punitive Damages in Medical Malpractice: Targeting Amoral Corporations, Not Moral Monsters, in 47
318
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
generale movimento di espansione dei torts che sono diventati, nel giro di pochi decenni, uno dei principali fattori di regolazione dei processi economici e
sociali governati dalle corti. In generale tutte le attività d’impresa vi sono state assoggettate, dalla responsabilità del produttore all’inquinamento ambientale, dai mercati finanziari alle attività di trasporto. Da questo punto di vista
il sistema americano si caratterizza per una minore (rispetto al modello europeo) regolazione ex ante dei mercati ma con un forte sistema sanzionatorio ex
post, coerentemente con uno dei binomi della storia politica, sociale e giuridica degli Stati Uniti, quello libertà-responsabilità.
Ciò ha comportato la applicazione anche alla responsabilità medica del
principio res ipsa loquitur, che sorto verso la metà del XIX secolo in Inghilterra (44), ha poi trovato una recezione ben maggiore negli Stati Uniti
(45). È ben chiaro che tale principio comporta una inversione dell’onere
della prova, imponendo al convenuto di dimostrare la sua diligenza.
Esso tuttavia richiede per la sua applicazione la sussistenza di tre requisiti: i. che il sinistro sia del genere che normalmente non si verifica in assenza
della negligenza di qualcuno; ii. che sia stato causato da attività o strumenti
nella esclusiva disponibilità e controllo del convenuto; iii. che il danneggiato
non vi abbia contribuito anche solo parzialmente (46).
Dalla mole di giurisprudenza, accumulatasi nel corso dei decenni con riguardo alla responsabilità medica, emerge un utilizzo cauto del principio: in
particolare esso non viene ritenuto invocabile quando le cause del sinistro sono multiple, oppure quando il rischio per il paziente è stato creato al fine di
evitarne uno maggiore. Esso viene dunque qualificato come una presunzione
semplice di negligenza, che non vincola la giuria e che può essere contrastata
da e con altre prove.
Dal punto di vista del nesso causale la generale tendenza degli Stati americani è verso il principio della condicio sine qua non (« but for test »), ma da
alcuni decenni si è fatta strada — a cominciare dagli autorevoli fori californiani e come reazione alle incertezze e oscurità del primo — quello della causalità adeguata (« substantial factor test ») (47).
Non va peraltro trascurata una altra peculiarità del sistema statunitense:
il contributo tecnico alla comprensione del caso clinico, all’aderenza ai (o violazione dei) parametri di diligenza, del nesso causale è affidato ai consulenti
Rutgers L. Rev. 975 (1994-1995).
( 44 ) Byrne v. Boadle, 159 Eng.Rep. 299 (1863). Byrne, mentre passsava sotto il magazzino di Boadle fu colpito da un barile di farina caduto dal secondo piano. Secondo il giudice, poiché non è normale che i barili piovano dall’alto, i fatti dimostravano una negligenza
del convenuto.
( 45 ) V. T. Silver, One Hundred Years of Harmful Error: The Historical Jurisprudence of
Medical Malpractice, in 1992 Wis. L. Rev. 1193 (1992).
( 46 ) Ex multis R. Furrow et al., Health Law, St. Paul, West Pub. 1995, p. 245.
( 47 ) Si v. l’ampia trattazione in uno dei manuali più diffusi D.B. Dobbs, The Law of
Torts, St. Paul, West Pub. 2000, p. 405 ss.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
319
delle parti (expert witnesses) in contraddittorio fra di loro e con interlocutore
primario la giuria (48). Sono intuibili le differenze rispetto alla procedura del
consulente d’ufficio, di stampo continentale, soprattutto sotto l’aspetto della
formazione del convincimento in ordine alla responsabilità.
In ogni caso, quel che preme sottolineare è che il sistema della responsabilità medica, così come delineato, è sostanzialmente allineato ai generali
principi della responsabilità extra-contrattuale, e ciò nonostante dà vita per
numerosi lustri a quella che viene chiamata la malpractice crisis, e cioè un
profluvio di azioni nei confronti di medici ed istituzioni sanitarie, una impennata dei risarcimenti, la precipitosa fuga degli assicuratori da un settore ritenuto troppo a rischio, l’emergere di tecniche di « medicina difensiva ». Gli effetti sociali della degenerazione del sistema sono visti con preoccupazione in
quanto viene da più parti evidenziato come essa porti ad un eccesso di deterrenza con incremento dei costi senza significativi benefici per la generalità dei
pazienti. E la risposta di gran parte degli Stati è stata quella di introdurre vari sbarramenti sia sostanziali (ad es. limiti al danno risarcibile) che procedurali (ADR, previa valutazione della ammissibilità, ecc.) (49).
Ed è in questo contesto che da parte di alcuni dei più autorevoli giuristi
americani viene avanzata la proposta di inquadrare la responsabilità medica
nell’alveo contrattuale (50). Si può partire da un (ormai risalente) scritto di
Richard A. Epstein (51), uno degli esponenti più rappresentativi della c.d.
scuola di Chicago, per il quale i limiti dell’approccio aquiliano sono:
i. La circostanza che le regole extracontrattuale hanno una portata
tendenzialmente generale. Una volta affermate nei confronti di uno devono
essere riprodotte, per un principio di elementare giustizia, nei confronti di
tutti. Ciò comporta una rigidità e l’impossibilità di tenere conto delle particolarità che discendono dal rapporto fra le parti.
( 48 ) Per una critica delle tesi che tendono a vedere nella giuria uno dei principali fattori
di lievitazione della malpractice crisis e della inflazione dei risarcimenti v. N.S. Marder,
The Medical Malpractice Debate: The Jury as Scapegoat, in 38 Loyola L. A. L. Rev. 1267
(2004-2005). E contesta la tesi che le giurie non siano in grado di comprendere gli argomenti scientifici N. Vidmar, Are Juries Competent to Decide Liability in Tort Cases Involving Scientific/Medical Issues? Some Data From Medical Malpractice, in 43 Emory L. J. 885
(1994).
( 49 ) V. P.M. Danzon, The Effects of Tort Reforms on the Frequency and Severity of Medical Malpractice Claims, in 48 Ohio St. L.J. 413 (1987).
( 50 ) Non si tratta, peraltro, di una prospettiva nuova: v. A.J. Miller, The Contractual
Liability of Physicians and Surgeons, 1953 Wash. U. L. Q. 413; e a livello statale esistono
una serie di intersezioni anche legislative: v. J.C. Mochalsky, Medical Malpractice, Contract or Tort: The Vermont Statute of Frauds, in 10 Vt. L. Rev. 99 (1985). Da tempo, poi, si
predicava la necessità di sistemi di assicurazione obbligatoria: v. A.A. Ehrenzweig, Compulsory Hospital-Accident Insurance: A Needed First Step toward the Displacement of Liability for Medical Malpractice, in 31 U. Chi. L. Rev. 279 (1963-1964).
( 51 ) R.A. Epstein, Medical Malpractice: The Case for Contract, 1976 Am. B. Found.
Res. J. 87.
320
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
ii. L’istituto della responsabilità extracontrattuale offre ai giudici la
possibilità (e la tentazione) di risolvere questioni di diritto privato con soluzioni di politica del diritto, in cui le corti diventano « ingegneri sociali ». Alla
fine è la giurisprudenza e non il mercato a fissare le regole per la prestazione
di servizi medici. Si introducono sistemi di assicurazione sociale, si allocano le
perdite e si distribuiscono i rischi.
iii. La responsabilità extracontrattuale opera normalmente quando fra
danneggiante e danneggiato vi è un rapporto di estraneità se non di casualità;
ma nella relazione paziente-medico vi è una costante interazione fra le condizioni, i sintomi, i desideri, le aspettative, le richieste del primo e la condotta
del secondo, che è in qualche misura necessitata ovvero obbligata (nel senso
privatistico del termine).
iv. Il principio della responsabilità oggettiva (strict liability) non può
trovare applicazione con riguardo ad obblighi di prestazione, perché questi
nascono dal consenso fra le parti. Senza tale consenso al medico non potrebbe
in alcun modo essere imposto di curare un malato.
v. Nel rapporto medico-paziente vi è la rappresentazione e l’assunzione
di rischi la cui corretta distribuzione non può essere generalizzata, ma deve
tener conto delle particolarità della fattispecie, a cominciare dalle qualità soggettive della parti (grado di specializzazione, disponibilità di mezzi tecnici in
capo al medico; condizioni di salute del paziente).
vi. A fronte di una generalizzata (ed oggettiva) responsabilità il medico
può difendersi innalzando le sue tariffe; ma questo non corrisponde ad un maggior livello di garanzie. In altre parole, chi paga di più non ottiene un servizio più
sicuro né si premunisce contro i rischi. Il che non è né razionale né efficiente.
vii. La responsabilità oggettiva del medico trasforma un contratto per
la prestazione di servizi in una garanzia del risultato di tali servizi.
viii. Vi è una insanabile contraddizione fra l’insistere sulle procedure di
consenso informato — che ipotizzano scelte razionali ed una attenta valutazione dei rischi, tipiche del contesto contrattuale — e, una volta acquisito
questo consenso, trascurarlo del tutto per stabilire la natura e l’estensione degli obblighi dovuti nei confronti del paziente, che vengono fissati dalla corte
in un contesto extra-contrattuale.
ix. Infine la concreta applicazione del principio della res ipsa loquitur
porta le corti a ritenere, in maniera sempre più lata, che il danno rientri fra
quelli che normalmente non si verificano in assenza di negligenza. Dove il
concetto di normalità è assolutamente soggettivo e privo di serio fondamento
scientifico (52).
( 52 ) Opportunamente, ma con riferimento all’esperienza canadese, D. Jutras, Reflexions
sur la reforme de la responsabilite medicale au Quebec, in 31 Cahiers de Droit 821 (1990)
a p. 835 che quel che è « normale » per la scienza medica non è affatto detto che lo sia per
il diritto.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
321
Le opinioni di Epstein — in parte ripoposte in un suo volume del 1997
(53) — sono contestate da un altro autorevole tort lawyer Gary T. Schwartz,
dell’UCLA (54). Al di là del suo valore intrinseco il punto di vista di Schwartz
è importante perché rappresenta bene la vivacità del confronto sul tema negli
Stati Uniti e la varietà delle impostazioni metodologiche. Queste, in sintesi, le
critiche a Epstein:
i. Gli orientamenti giurisprudenziali in materia di responsabilità medica sono rimasti sono rimasti sostanzialmente costanti dalla metà dell’800, e
radicati nella law of torts e non nel diritto dei contratti.
ii. I vari tentativi della classe medica — ma anche di altre profesioni liberali — di limitare la propria responsabilità nei rapporti con i clienti per via
contrattuale hanno sempre incontrato l’opposizione delle corti sulla base di
principi di public policy legati al particolare ruolo svolto da tali soggetti nella
società e la fiducia che ricevono e che devono assicurare.
iii. Sicuramente vi è stato un ampliamento del principio della res ipsa
loquitur ma non di natura tale da stravolgerne la portata.
iv. Le statitistiche indicano che se è vero che vi è stato un notevole aumento del contenzioso in materia di responsabilità medica, non per questo sono
aumentate le percentuali di esiti positivi delle azioni, che si attestano attorno ad
un terzo, una percentuale assai inferiore ad altri settori di responsabilità.
v. La crisi del settore è dunque data dall’aumento assoluto del contenzioso, in linea con una generale propensione statunitense alla litigation, e all’aumento dei risarcimenti concessi, anche qui in linea con tendenze generali.
vi. Affidate le regole di responsabilità alla libera contrattazione fra le
parti è ragionevole ritenere che tutti i medici chiederebbero, e sarebbero in
grado di imporle, clausole di esonero, con il risultato che la via contrattuale
porta solo alla negazione della responsabilità. Un risultato non accettabile dal
punto di vista della giustizia correttiva e inefficiente dal punto di vista economico (il paziente prima di rivolgersi al medico, per qualsiasi questione, dovrebbe auto-assicurarsi).
La contrapposizione fra le due tesi risulta, alla fine, evidente: secondo
Epstein il modo corretto per risolvere la malpractice crisis ed avere un sistema razionale ed efficiente è l’inquadramento contrattuale della responsabilità
medica. La tesi di Schwartz è opposta: la malpractice crisis non è dovuta alla
( 53 ) R.A. Epstein, Mortal Peril. Our Inaleniable Right to Health Care?, Addison-Wesley
Pub., Reading, Mass. 1997; e, in precedenza, Id., Market and Regulatory Approaches to
Medical Malpractice: The Virginia Obstetrical No-Fault Statute, in 74 Va. L. Rev. 1451
(1988). Peraltro il dibattito sulla prospettiva contrattualistica è sempre stata presente nella
dottrina statunitense: v. i numerosi contributi nel fascicolo monografico di 49 Law & Cont.
Prob. 1 (1986) dedicato a Medical Malpractice: Can the Private Sector Find Relief?, fra cui
un saggio dello stesso Epstein, Medical Malpractice, Imperfect Information, and the Contractual Foundation for Medical Services (ivi, p. 201).
( 54 ) G.T. Schwartz, Medical Malpractice, Tort, Contract and Managed Care, 1998, U.
Ill. R. Rev. 885.
322
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
prospettiva extra-contrattuale e lo spostamento verso quello contrattuale sarebbe iniquo e poco efficiente.
b) Il sistema inglese
Gli studiosi della questione nel diritto inglese amano prendere le mosse
da due antichi casi: nel primo, Waldon v. Marshall (55), la doglianza era che
« praedictus Johannes manucepit equum praedicti Willelmi de infirmitate, et
postea praedictus Johannes ita negligenter curam suam fecit quod equus suus
interit ». La decisione riguarda la conformità della domanda alla formalistica
rigidità delle forms of action. Quel che interessa osservare è che questa azione
di responsabilità veterinaria è collocata nella azione simil-aquiliana dell’epoca e cioè il writ di trespass in consimili casu (« on the case »). Peraltro va detto che l’azione generale di inadempimento contrattuale (qualificata come assumpsit, e cioè che il convenuto aveva assunto super se una obbligazione)
emergerà solo alcuni decenni più tardi (56). Pochi anni dopo, nel Surgeon’s
Case (57) (riguardante l’errata cura di una mano) la difesa del convenuto era
che non si era obbligato a curare l’attore. La domanda viene decisa su un punto
di procedura, ma anche qui essa era prospettata come trespass on the case.
Si constata dunque una ambivalenza: si agisce extra-contrattualmente
ma tuttavia, dimostrato un contratto, si potrebbe anche percorrere l’altra
strada (58). Benché quest’ultima sia decisamente marginale, l’impostazione di
fondo è che entrambe le scelte sono a disposizione dell’attore, ma solo se vi è
stato un rapporto privatistico medico-paziente, all’infuori dunque delle prestazioni del servizio sanitario nazionale (59).
La responsabilità medica risente, dunque, delle tendenze generali (e restrittive) della responsabilità extracontrattuale nel diritto inglese in cui la diligente esecuzione dell’intervento costituisce la prima e più importante difesa
del convenuto. Nonché di una applicazione molto puntigliosa del principio
della condicio sine qua non che include la prevedibilità del danno nei parametri per l’accertamento della negligence (60).
( 55 ) [1370] Y.B. Mich. 43 Ed. 3, f.33, pl.38 (riportato in C.H.S. Fifoot, History and
Sources of the Common Law, Londra, Stevens 1949, p. 81).
( 56 ) Ed in effetti in Marshal’s Case [1441] Y.B. Hil 19 Hen. 6, f. 49, pl. 5 (riportato
anch’esso da C.H.S. Fifoot, op. ult. cit., p. 345) la azione di risarcimento per la negligente
cura di un cavallo viene rigettata perché il convenuto non assumpsit super se la cura.
( 57 ) [1375] Y.B. Hil. 48 Ed. 3, f. 6, pl. 11 (riportato anch’esso da C.H.S. Fifoot, op.
ult. cit., p. 82).
( 58 ) V. E. Jackson, Medical Law, OUP, 2006, p. 105.
( 59 ) R. Nelson-JonesF. Burton, Medical Negligence Case Law, II ed. Londra, Butterworths 1995, p. 26; M.A. Jones, Medical Negligence, Londra, Sweet&Maxwell 2003, p.
57. Ma v. gli argomenti in senso contrario di A. Grubb, Principles of Medical Law, II ed.,
OUP, 2004, p. 316 ss.
( 60 ) V. I casi citati da A Hockton, The Law of Consent to Medical Treatment, Londra,
Sweet&Maxwell 2002, p. 45 ss.; nonché in generale, M.A. Jones, Medical Negligence, Lon-
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
323
Si potrebbe dunque pensare che il danneggiato potrebbe essere avvantaggiato dal (ed incoraggiato al) ricorso all’azione contrattuale (61). Ma come
fanno notare i più autorevoli studiosi inglesi della materia « i vantaggi percepiti non esistono. In generale le obbligazioni assunte dal medico con il contratto rispecchieranno quelle dell’illecito e in ogni caso l’attore dovrà confrontarsi con tutte le questioni di nesso causale che si riscontrano nelle azioni extracontrattuali » (62). Ciò avviene in quanto, essendo il contratto fra medico e
paziente generalmente verbale esso viene riempito, per definire il contenuto
delle prestazioni pattuite, da implied terms (clausole implicite) le quali riproducono i generali principi di diligenza professionale applicati nel contesto extra-contrattuale (63).
Questo atteggiamento di equivalenza delle azioni è ben espresso da uno degli
autori inglesi cui si devono alcune delle pagine più ricche e affascinanti in materia
tanto contrattuale che extracontrattuale, P.S. Atiyah (64). Chiamato ad esaminare, da una prospettiva inglese, la malpractice crisis statunitense, Atiyah offre alcuni spunti che sono particolarmente interessanti in una prospettiva comparata:
i. In primo luogo osserva la osmosi fra rimedi contrattuali ed aquiliani
e la costante tendenza ad utilizzarli alternativamente fra di loro per superare
ostacoli incontrati nell’altro campo. Tale relazione non è solo storicamente influenzata dalla comune genesi (che si è vista) delle azioni di trespass on the
case e di assumpsit, ma si ritrova in altri casi come nella responsabilità del
produttore, oscillante a seconda delle epoche fra illecito aquiliano e mancanza
di garanzie implicite [e se si guarda al continente europeo il confronto anglotedesco è illuminante su cosa costituisce illecito in un ordinamento e inadempimento in un altro (65)].
ii. In secondo luogo che nei sistemi di common law la preferenza verso
l’azione aquiliana trova radici anche nell’esigenza di superare i ricorrenti problemi di consideration e di privity of contract: laddove non vi fosse stata una contropromessa (tipicamente la mercede) non vi poteva essere contract. E quando quedra, Sweet&Maxwell 2003, p. 375 ss.; R. Nelson-Jones-F. Burton, Medical Negligence Case Law, II ed. Londra, Butterworths 1995, p. 67 ss. Si v. inoltre i numerosi saggi dedicati al
tema nel volume di I. Freckelton-D. Mendelson (a cura di), Causation in Law and Medicine, Ashgate-Dartmouth, Aldershot 2002.
( 61 ) M.A. Jones, Medical Negligence, Londra, Sweet&Maxwell 2003, p. 64.
( 62 ) Cosi I. Kennedy-A. Grubb, Medical Law, III ed., Londra, Butterworths 2000, p. 272.
( 63 ) A. Grubb, Principles of Medical Law, II ed., OUP, 2004, p. 318 s. Con il risultato
che qualche autore trascura del tutto dei considerare la prospettiva contrattuale: v. R.
Francis-C. Johnstone, Medical Treatment. Decisions and the Law, Londra, Butterworths
2001.
( 64 ) P.S. Atiyah, Medical Malpractice and the Contract/Tort Boundary, in 49 Law &
Cont. Prob. 287 (1986); e di cui vanno ricordati i fondamentali The Rise and Fall of Freedom of Contract, Oxford, Clarendon 1979; e Accidents, compensation and the law, Londra
Butterworths 1993.
( 65 ) V. B.S. Markesinis-H. Unberath, The German law of Torts: A Comparative Treatise, IV ed., Oxford, Hart 2002.
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VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
sto era riconosciuto le azioni che ne derivavano spettavano solo alle parti e non
agli eventuali terzi cui il contract « neque prodere neque nocere potest ». Ancorché si tratti di problematiche tipiche del diritto inglese (più che di quello americano) servono a spiegare la preferenza per un rimedio anziché un altro.
iii. Contrariamente ad un approccio « classico » il diritto dei contratti
non riguarda solo la vincolatività delle promesse e la creazione di ragionevoli
affidamenti, bensi si è riempito di valori di tipo sociale e svolge anche funzioni ri-distributive. Vi è dunque un errore di fondo (e la critica va alle tesi di
Epstein) nel contrapporre contratto e illecito, immaginando che il primo sia il
regno della libertà individuale ed il secondo quello della responsabilità imposta dalle corti.
iv. L’efficienza del mercato è assicurata non soltanto dalle scelte volontarie e razionali effettuate con il contratto, ma anche da una serie di regole di
natura diverse (fra cui quelle sanzionatorie).
v. Le ragioni che hanno portato un rapporto all’origine essenzialmente
contrattuale verso una disciplina extracontrattuale sono, secondo Atiyah, almeno tre:
— la qualificazione dei danni alla persona come una categoria speciale e unitaria;
— la considerazione che, quale che fosse il rapporto medico-paziente (ed ovunque si svolgesse), lo standard of care (e cioè il grado di diligenza)
debba essere identico;
— le complessità connesse con l’accertamento di responsabilità contrattuali in relazioni nelle quali non solo vi sono numerosi prestatori d’opera,
ma anche l’uso di beni strumentali e di prodotti, ciascuno dei quali può dare
vita, in connessione con gli altri, ad ulteriori danni.
vi. Vi è costantemente una asimmetria informativa fra paziente e medico che rende problematica la conclusione di un contratto realmente efficiente. Oltretutto nel caso dei minori appare discutibile che gli esercenti la potestà
possano, in un contesto rigidamente contrattualistico, negoziare la rinuncia al
diritto di azione in cambio di una riduzione del prezzo.
vii. Sostenere che il divario di conoscenze e di potere contrattuale fra
medico e paziente possa essere superato da accordi generali fra enti esponenziali dei primi e dei secondi comporta la negazione del principio su cui fonda
la teoria contrattualista, e cioè la migliore adattabilità di quest’ultima ai bisogni, le esigenze, le necessità, le caratteristiche di ciascun soggetto. Si avranno
prestazioni medie per soggetti medi.
viii. Va inoltre considerato che il rapporto medico-paziente è tendenzialmente di lunga durata e vi un forte disincentivo del paziente ad abbandonare un medico con il quale vi è un rapporto da molti anni ed il quale dispone
di una mole di dati anamnesici che gli consentono di valutare meglio diagnosi
e terapia. Il che non favorisce la mobilità tipica di un mercato governato dal
contratto.
ix. Se uno dei principali obiettivi per abbandonare la responsabilità
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
325
extracontrattuale è che essa fissa dei criteri troppo elevati di diligenza professionale o comunque tende a favorire i pazienti rispetto ai medici, non vi è alcuna prova che, al momento di verificare la diligenza professionale non si applichino gli stessi criteri e in generale non vi sia un favor creditoris.
x. In realtà, conclude Atiyah, la malpractice crisis appare il risultato
più che di un errata scelta fra illecito e contratto, quello della sindrome dell’apprendista stregone il quale ha riposto nelle corti le speranze di riforma
dell’ordinamento, sottovalutando l’attivismo delle stesse.
Si sono riportate ampiamente le posizioni di Atiyah perché fanno emergere, all’interno di sistemi apparentemente simili (entrambi di common law,
entrambi scelgono la strada dell’illecito per trattare i casi di responsabilità
medica), quel che i comparatisti definiscono questioni « mentalità », una nozione impalpabile ma che le garbate critiche all’autarchia giuridico-culturale
statunitense mettono chiaramente in luce (66).
c) L’esperienza francese
Negli Stati Uniti vige un sistema di responsabilità extracontrattuale ma vi
è chi lo ritiene profondamente insoddisfacente e vorrebbe che ci si convertisse
alla prospettiva contrattuale. In Gran Bretagna vi è pure un sistema aquiliano
ma le spinte verso il contratto — peraltro già applicabile in un numero limitato di casi — sono inesistenti. E in Francia dove da lungo tempo si è scelto
l’alveo contrattuale?
Vale la pena evidenziare subito che la netta scelta d’Oltr’Alpe verso l’inquadramento contrattuale appare motivata con argomenti che sarebbero piaciuti ad
Epstein: laddove le parti hanno volontariamento pattuito un certo assetto del reciproci rapporti non vi è motivo per alterare la sacertà del vincolo con scelte esterne (67). Sicuramente i giudici e accademici francesi, all’epoca, non erano in alcun
modo influenzati dalla (ancora da nascere) scuola di Law & Economics, e l’argomento appare rispondere più ad un esprit de géométrie, che ad un esprit de finesse. Quel che interessa però notare è che la decisione mira a razionalizzare il sistema processuale tagliando uno dei corni del dilemma: posto che in astratto la condotta colpevole del sanitario è qualificabile tanto come inadempimento che come
illecito, le due azioni sono alternative o cumulabili? La Cassazione francese risolve il problema alla radice: se c’è un contratto è questo, con le sue azioni ed i suoi
rimedi, a prevalere. Il che, indubbiamente, porta ad una notevole semplificazione
del quadro. Come spesso capita, tuttavia, quel che in Francia si guadagna dal la( 66 ) V. pure F.H. Miller, Medical Malpractice Litigation: Do the British Have a Better
Remedy?, in 11 Am. J.Law&Med. 433 (1985).
( 67 ) Cass. civ. 20 marzo 1936, Mercier il cui principio è: « Il se forme entre le médecin
et son client un véritable contrat comportant pour le praticien l’engagement de donner des
soins attentifs, consciencieux et, sous réserve faite de circonstances exceptionnelles, conformes aux données acquises de la science; la violation, même involontaire, de cette obligation
contractuelle est sanctionnée par une responsabilité de même nature, également contractuelle ». Per gli echi italiani, v. A. Princigalli, op. cit., pp. 30 e 34.
326
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
to della procedura, lo si perde si perde dal lato della giurisdizione, mantenendo
quella del Consiglio di Stato per tutti gli incidenti verificatisi all’interno di strutture sanitarie pubbliche (68).
D’altra parte la contrapposizione fra le due strade appare sterile giacché
la giurisprudenza e la dottrina francese hanno cura di elaborare ed affinare la
teoria delle obbligazioni di mezzi e delle obbligazioni di risultato. Alla fine dei
conti dunque, è del tutto irrilevante che l’azione si basi sull’art. 1147 Cod.
Nap. piuttosto che sul successivo art. 1382. In ogni caso occorre verificare se
ed accertare che la condotta del medico sia stata negligente. E questo onere
grava sul danneggiato. Una situazione speculare, fino a non molto tempo fa, a
quella italiana in cui, comunemente introdotta l’azione ex art. 2043 c.c.,
spettava all’attore dimostrare colpa, nesso causale e danno. La migliore dimostrazione della equivalenza delle due impostazioni, di cui nessuno, da un
lato e dall’altro delle Alpi si doleva.
Tale specularità la si registra anche nella progressiva estensione degli obblighi e delle responsabilità, muovendo verso forme di responsabilità oggettiva.
In primo luogo la consacrazione dell’obbligo di informazione con l’onere,
in capo al medico, di avervi adempiuto (69). Ma soprattutto attraverso l’inversione dell’onere della prova in una serie di casi:
i. Le infezioni ospedaliere, e cioè quelle infezioni che non erano presenti al momento del ricovero e che si sono manifestate almeno 48 ore dopo il ricovero (70).
ii. Il danno arrecato da dispositivi medici utilizzati nel corso di un intervento ovvero forniti dall’istituto sanitario.
È interessante notare che in questi casi i giudici parlano di « obligations
de sécurité-resultat » ritenendo che si tratti di prestazioni estranee a quella
assunta dal medico con il contratto che lo lega al paziente.
La prova liberatoria, che in questi casi deve essere fornita, sussiste solo se
il medico dimostra che esiste una « anomalia » che ha reso la lesione della salute inevitabile al fine di effettuare la terapia (71).
( 68 ) Peraltro è solo con l’arrêt Epoux V. del 10.4.1992 (in Gaz. Pal. admin. 183) che il
Consiglio di Stato allinea il parametro di diligenza a quello del giudice ordinario. In precedenza, infatti, mentre bastava la colpa anche lieve per la responabilità negli « atti di gestione », occorreva dimostrare la « colpa grave » per gli atti medici. V.J Clerckx, L’abandon
par le Conseil d’Etat de la faute lourde en matière de responsabilité médicale: incertitudes
et réticences, in Rev. rech. jur., 2001, p. 1811.
( 69 ) Cass., 1ere civ., 25 febbraio 1997, in Gaz. Pal., 1997 jur. 274; e in D. 1997 somm.
319, con nota di J. Penneau; ma soprattutto l’arrêt Clinique du Parc, Cass., 1ere civ., 7 ottobre 1998, in Gaz. Pal., 1999 somm. 317; e D. 1999 jur. 145 (con nota di S. Porchy) ed ivi,
1999, somm. 259 (con nota di D. Mazeaud).
( 70 ) Si v. le decisioni della Cass., 1ere civ., 20 maggio 1999 (in Gaz. Pal., 1999, jur.
678); Cass., 1ere civ., 13 febbraio 2001 (in Gaz. Pal., 2002, jur. 512 con nota di F. Chabas
e in D., 2001, somm. 3083, con oss. di J. Penneau).
( 71 ) Cass., 1ere civ., 23 maggio 2000, in Gaz. Pal., 2000, jur. 2449.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
327
Lo sviluppo di questa giurisprudenza è che una obbligazione medica è di
risultato quando il suo adempimento non è soggetto ad una « forte alea » (72).
La elaborazione della nozione di « alea terapeutica » viene attribuita al Consiglio di Stato che l’ha definita come « un rischio la cui esistenza è conosciuta
ma la cui realizzazione è eccezionale e rispetto alla quale non vi è alcuna ragione di pensare che il paziente vi sia esposto in modo particolare » (73). Tuttavia essa non veniva accolta dalla Cassazione (74), creando così un serio contrasto di orientamenti a seconda della natura giuridica della struttura nella
quale si era verificato il sinistro. Il ragionamento del giudice di legittimità
parte dalla definizione: l’alea terapeutica consiste nel « verificarsi di un rischio accidentale inerente all’atto medico e che non può essere controllato »;
proprio per questo non vi può essere responsabilità. Non sfuggirà invece la similitudine fra la posizione del Consiglio di Stato e la giurisprudenza italiana
in materia di interventi di facile esecuzione.
Di qui una serie di critiche della più attenta dottrina francese. Secondo
Geneviève Viney il contrasto porta ad una alterazione del principio della colpa, riscontrandola in casi sempre più ampi al fine di riconoscere un risarcimento alle vittime ritenute meritevoli (75). Ciò provocherà un crescente conflitto fra medici e pazienti risolvibile solo per via legislativa. François Chabas,
dal canto suo, nell’evidenziare come il presupposto della nozione di alea terapeutica è l’assenza di colpa del sanitario, osserva che il suo recepimento da
parte della giurisprudenza civile è « inutile » essendosi sufficientemente
espansa la nozione di « obligation de sécurité-resultat ». La soluzione dunque
è nella creazione o di un fondo di garanzia per le vittime oppure l’auto-assicurazione (76). Jacques Penneau sottolinea gli effetti perturbatori della nozione di « alea terapeutica » sia nel campo della responsabilità medica che in
quello dei progetti di indennizzo, giacché essa si fonda su « une définition en
général immensement floue du dommage indemnisable » nella misura in cui
non è chiaro se comprenda o escluda il danno legato all’aggravamento non
previsto della malattia (77). Denis Mazeaud sintetizza in poche battute la posizione della Cassazione: si può anche avere responsabilità senza colpa (o con
colpa presunta), come avviene nelle « obligations de sécurité », ma non si può
avere responsabilità senza nesso causale (come nell’alea terapeutica) (78). E
( 72 ) Cosi J. Gontier-J. Icard-F.J. Pansier, Bilan jurisprudentiel des trois dernières années en matière de responsabilité médicale, in Gaz. Pal. 2002 doct. 1748.
( 73 ) È l’arrêt Bianchi del 9.4.1993 (in JCP, 1993, II, 22061 con nota di J. Moreau).
( 74 ) Ex multis v. Cass, 1ere, 8 novembre 2000, in JCP, 2001, II, p. 10493 con nota di
F. Chabas; e JCP, 2001, I, p. 340 con le penetranti osservazioni di G. Viney.
( 75 ) V. op. cit. nota precedente.
( 76 ) V. op. cit. nota precedente; nonché Ph. Larroumet, L’indemnisation de l’alea
thérapeutique, in D., 1999 chr. 33.
( 77 ) Oss. a Cass. 8 novembre 2000, cit., e a Cass. 27 marzo 2001, in D., 2001, p. 3083.
( 78 ) In conformità a quanto stabilito dalla giurisprudenza secondo cui l’obbligazione di
328
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
conclude: « Spetta allora al legislatore, per non lasciare le vittime senza riparazione, immaginare un sistema di indennizzo indipendente da ogni idea di
responsabilità e fondata su quella di solidarietà. Fondo di garanzia, auto-assicurazione: le soluzioni non mancano, ma il tempo stringe » (79).
Raramente invocazioni del giurista accademico sono state così prontamente esaudite. Il 4 marzo 2002 il Parlamento francese ha approvato la l. n.
2002/303 « sui diritti del malato e la qualità del sistema sanitario », detta
anche Loi Kouchner, dal nome del ministro della salute proponente (e fondatore della famosa organizzazione « Médecins sans frontières »). Il testo della
legge è estremamente complesso (oltre un centinaio di articoli) e tocca una
molteplicità di questioni anche amministrative, previdenziali e deontologiche.
Ai fini del tema qui trattato interessano:
a) L’art. 1 il quale stabilisce i limiti al diritto a ottenere il risarcimento
del danno per una nascita con handicap dovuto a colpa medica; il risarcimento spetta tanto al nato quanto ai suoi genitori e vengono individuate le voci di
danno risarcibili (80).
b) L’art. 11 ove viene minuziosamente disciplinata la procedura del
consenso informato, sia nei suoi contenuti sia nella sua prova (che spetta al
medico o alla struttura sanitaria).
c) L’art. 98 che introduce nel « Code de la santé publique » un nuovo
Titolo IV dedicato alla « réparation des consequences des risques sanitaires ».
Al suo interno rilevano le seguenti disposizioni:
i. L’art. L. 1142-1, comma 1o, in base al quale, fatti salvi i casi di
danno da prodotto, gli esercenti una professione sanitaria e le strutture in cui
prestazione sanitarie vengono erogate sono responsabili per le conseguenze di
atti di prevenzione, diagnosi o cura solo in caso di colpa.
ii. Le strutture sanitarie sono responsabili per i danni da infezioni
ospedaliere salvo che non dimostrino il caso fortuito (sempre l’art. L.
1142-1).
iii. Fuori dei casi di colpa o di infezioni ospedaliere il paziente che
risultato non implica una presunzione di nesso causale: Cass., 1ere, 16 ottobre 2001, in Rev.
trim. dr. civ., 2002, p. 514 (con nota di P. Jourdain che amplia il principio alla responsabilità medica).
( 79 ) Oss. a Cass. 8 novembre 2000, cit., in D., 2001, p. 2236.
( 80 ) La disposizione è anche detta anti-Perruche dal nome del controverso arrêt della
Cassazione francese (ass. pl. 17.11.2000) la quale aveva riconosciuto il diritto del risarcimento del danno subito dal minore per la ritardata diagnosi delle malformazioni subite a
causa della rosolia contratta dalla madre durante la gravidanza. Il punto, che qui non si
tratta, è quello del paradosso della c.d. wrongful life: le malformazioni non avrebbero mai
potuto esere curate; l’unica soluzione poteva essere l’interruzione della gravidanza, ma con
ciò il soggetto non sarebbe mai nato e dunque non avrebbe potuto agire in giudizio. La l.
2002/303 taglia ogni discussione: « Nul ne se peut prévaloir d’un préjudice du seul fait de
sa naissance ». La disposizione, estesa da una norma transitoria anche ai casi pendenti all’entrata in vigore della legge, è stata però ritenuta contraria alla Convenzione europea dei
diritti umani: v. la decisione della CEDU nel caso Draon c. Francia, del 6.10.2005.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
329
abbia subito un danno ha diritto ad un indennizzo « a titolo di solidarietà nazionale » qualora le prestazioni sanitarie hanno avuto « delle conseguenze
anormali » e gravi. Tale « gravità » è determinata per decreto in una percentuale di invalidità superiore al 25% (art. L. 1142-1, comma 2o).
iv. L’art L. 1142-2 secondo cui i liberi professionisti e le imprese private erogatrici di servizi sanitari sono tenuti ad assicurarsi per i danni a terzi.
v. Gli artt. L. 1142-4 ss. che prevedono una procedura preventiva di
conciliazione delle controversie in materia sanitaria.
vi. Qualora la commissione di conciliazione ravvisi una responsabilita invita l’assicuratore a fare un offerta che se accettata costituisce transazione della controversia (art. L. 1142-14).
vii. Qualora la commissione di conciliazione non ravvisi una responsabilità determina essa stessa l’importo dell’indennizzo da offrire al danneggiato (art. L 1142-17).
Dunque, e in sintesi, è riaffermata la responsabilità per colpa (da dimostrare), tranne che per le infezioni ospedaliere dove essa è presunta. La « alea terapeutica » non dà luogo a risarcimento, ma, quando comporta conseguenze di una
certa gravità apre la strada ad un indennizzo pubblico. Il contenzioso è dirottato
verso forme alternative di risoluzione delle controversie. Il peso economico dei risarcimenti viene a gravare su un sistema di assicurazione obbligatoria (81).
Tutto risolto per il meglio, dunque? Dal profluvio di commenti critici
sembrerebbe legittimo dubitarne. C’è chi contesta nella composizione, nel
merito e nelle procedure le commissioni di conciliazione (82). Chi ritiene che
abbia portato ad una unificazione della procedure, civile ed amministrativa
(83). C’è chi lamenta la scarsa chiarezza della legge « nel suo insieme, nelle
nozioni che i suoi autori non hanno voluto definire, nelle sue procedure ». E
dove non è oscura è ambigua (84). I consolidati principi causali sono messi in
discussione (85). Essa comunque segna un arretramento, dal punto di vista
della tutela dei pazienti, rispetto alla giurisprudenza pre-esistente, in partico( 81 ) Fra i vari commenti, oltre a quelli critici citati infra, v. Ph. Hubinois, Législations
et indemnisations de la complication médicale en France et en Europe, Bruxelles, Bruylant
2006, p. 123 ss.; M. Bernard, État actuel de la responsabilité médicale en matière civile, in
J. Med. Leg., 2003, 297; L. Angeletti, La responsabilité civile médicale après la loi du 4
mars 2002, in Rev. Rech. Jur., 2003, 1965; C. Caille, La responsabilité médicale nouvelle,
in Rev. Gen.Dr. Med., 2003, 59;
( 82 ) M.O. Bertella-Geffroy, Le point de vue d’un praticien sur les nouvelles dispositions concernant les risques sanitaires incluses dans la loi du 4 mars 2002 sur les droits des
malades, in Gaz. Pal., 2002 doct. 1753.
( 83 ) J. Coelho, Responsabilité médicale: réflexions sur l’unification des règles de compétence juridictionnelle, in Rev. Gen. Dr. Med., 2004, p. 153.
( 84 ) Cosi G. Memeteau, Redefinition de l’obligation contractuelle du médecin comme
une obligation de moyens (nota a App. Rouen 16 marzo 2005), in JCP, 2005, II, p. 10178.
( 85 ) P. Vayre-D. Planquelle-H. Fabre, Le lien de causalité en matière de responsabilité
médicale, in Med.et dr., 2005, p.78.
330
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
lare nei casi in cui era riconosciuta una « obligation de sécurité-resultat »
(86). E comunque sarebbe venuto meno il principio della responsabilità contrattuale (87). Ma anche il diritto al risarcimento pieno dei genitori in caso di
mancata informazione sulle malformazioni del feto (88). E contro tale mutamento d’imperio la giurisprudenza si ribella, sforzandosi di affermare il proprio primato (89) e ignorando l’esistenza della legge (90).
d) L’esperienza canadese
Nel quadro della comparazione non si può non dare conto dell’esperienza
canadese, anche sotto questo aspetto ricca di indicazioni per la natura « mista » (common law/civil law) del suo sistema giuridico e per una ormai connaturata apertura mentale del suoi giuristi. Nel sistema federale canadese
coesistono province anglofone e la grande provincia francofona del Québec
creando un singolare miscuglio di regole (91).
Infatti nelle province di common law, pur prevalendo l’impostazione delittuale non manca una particolare attenzione ai profili contrattuali, creando
talvolta anche delle incertezze sulla cause of action (92). Peraltro, poiché raramente le condizioni del contratto sono precisate per iscritto si ricorre agli implied terms i quali configurano quel che in un contesto di civil law si qualificherebbe una obbligazione di mezzi. Ma talvolta l’azione contrattuale punta
proprio a denunciare il mancato conseguimento di un risultato (93). Nella
prassi forense si tende ad agire su entrambi i piani e si fa osservare — e si
tratta di considerazione che si è vista assai diffusa — che il risultato è sostan-
( 86 ) G. Memeteau, op. ult. cit.
( 87 ) V. F. Dreifuss-Netter, Feue la responsabilité civile contractuelle du médecin?, in
Resp. civ. ass., 2002, fasc. 10, p. 4.
( 88 ) V. App. Amm. Parigi 13 giugno 2002 (in Gaz. Pal., 2002 doct. 1714) che annulla,
sulla base della nuova legge, il risarcimento più ampio concesso dal giudice di primo grado.
( 89 ) E. Terrier, Responsabilitè medicale: retours pour le future (nota a App. Parigi 4
marzo 2005), D., 2005, p. 2131.
( 90 ) V. appunto App. Parigi 7 ottobre 2004, in Gaz. Pal., 2005 somm. 1382 (con nota
di H. Vray) dove si qualifica come obbligazione di risultato quella del dentista rispetto alla
protesi inadeguata.
( 91 ) Ben rappresentato dai numerosi saggi pubblicati nel volume curato da B.M. Knoppers, La responsabilitè civile des professionels au Canada, Cowansville, Yvon Blais, 1989.
V. pure J.M. Gilmour, Overview of Medical Malpractice Law in Canada, in 3 Annals Health L. 179 (1994).
( 92 ) V. Allard v. Boykhowich [1948] 1 WWR 860 (Sask. KB) (un caso di responsabilità
del dentista in cui l’attrice oscilla fra tort e contract).
( 93 ) È il caso LaFleur v. Cornelis [1979] NBR (2d) 569 in materia di chirurgia estetica
al seno in cui le assicurazioni del medico in ordine al risultato sono state giudicate come garanzia contrattuale (v. il commento di M. Bergquist, Legal Liability of Cosmetic Surgeons,
21 Alberta L. Rev. 533 (1983).) O in quello Doiron v. Orr [1978] DLR (3rd) 719 (Ont.
HC) in materia di fallito intervento di sterilizzazione.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
331
zialmente uguale (94). Vi sono tuttavia ipotesi in cui l’azione contrattuale si
presenta più attraente per l’attore in quanto deve solo allegare l’inadempimento rovesciando sul convenuto l’onere della prova dell’esatto adempimento; e può agire anche per la sola perdita di una chance, senza dover dimostrare il danno. Come pure il termine precrizionale è più lungo. Di converso
l’azione aquiliana presenta vantaggi in ordine all’area del danno risarcibile
che comprende anche quello imprevedibile, che invece è limitato dalla prevedibilità nell’azione contrattuale (95).
Nel Québec si registra una divergenza di vedute fra i suoi più autorevoli
civilisti (96): e così, mentre Paul-André Crepeau sposa la tesi contrattualista
(97), Jean Louis Baudouin opta per quella aquiliana (98). La giurisprudenza,
poi, da lungo tempo, in un contesto extra-contrattuale, aveva adottato un
principio di res ipsa loquitur (99) con parole sostanzialmente uguali all’antesignano caso inglese che si è citato prima (100). Ma aveva anche sposato la tesi
della rapporto contrattuale paziente-ospedale (101) e riconosciuto che in taluni
casi si è di fronte ad una obbligazione di risultato (102) e mutuato dalla Francia il concetto di obligation de sécurité (103).
La molteplicità di esperienze e di approcci ingenera nei commentatori un
prudente scetticismo sulle possibilità di cambiamento: « Non bisogna sopravalutare il potere riformatore del diritto » (104). Ma anche una valutazione critica sulle cause dell’aumento del contenzioso e sulla sua reale portata (105).
( 94 ) V. E.I. Picard-G.B. Robertson, Legal Liability of Doctors and Hospitals in Canada, Toronto, Carswell 1996, p. 344.
( 95 ) V. E.I. Picard-G.B. Robertson, Legal Liability of Doctors and Hospitals in Canada, Toronto, Carswell 1996, p. 344 s.
( 96 ) Per una sintesi v. P. Deslauriers-S.E. Chebin, Perspectives quebequoises sur la responsabilité médicale, in Rev. Notariat, 1999, p. 299 (e in Travax de l’association Henri
Capitant, vol. L-1999, La responsabilitè. Aspects nouveaux, Parigi, LGDJ 2003, p. 221).
( 97 ) P.A. Crepeau, La responsabilité civile du médicine et de l’établissement hospitalier,
Montréal, Wilson et Lafleur 1956.
( 98 ) A. Lajoie-P.A. Molinari-J.L. Baudouin, Le droit aux services de santé: legal ou
contractuel, in 43 Revue du Barreau 675 (1983); J.L. Baudouin, La reforme de la responsabilité médicale: responsabilité ou assurance, in 22 Rev. Gen. Dr. 151 (1991).
( 99 ) V. il caso deciso dalla Corte suprema canadese Parent c. Lapointe [1952] RCS
376.
( 100 ) V. retro nt. 44.
( 101 ) V. il caso Lapointe c. Hopital Le Gardeur, [1989] RJQ 2619 (App).
( 102 ) V. Hopital de Chicoutimi c. Battikha, [1997] RJQ 2121 (App) (l’inadempimento
riguardava il numero di pasticche medicinali da somministrare).
( 103 ) Rizk c. Hopital du Sacre Coeur de Montreal [1999] RRA 197 (CQ).
( 104 ) D. Jutras, Réflexions sur la reforme de la responsabilité médicale au Quebec, in
31 Cahiers de Droit 821 (1990) a p. 841.
( 105 ) v. D.N. Deweees-M.J. Trebilcock-P.C. Coyte, The Medical Malpractice Crisis: A
Comparative Empirical Perspective, in 54 Law & Contemp. Probs. 217 (1991) (con raffronto
332
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
e) L’esperienza dei paesi scandinavi
Per concludere è necessario fare un breve accenno alla situazione nei
paesi scandinavi, dove da lungo tempo la riflessione sulla riparazione del
danno si unisce ad una generale tendenza legislativa in tale direzione.
A cominciare dalla Svezia, ma poi in Finlandia, Norvegia e Danimarca
sono stati introdotti, a partire dagli anni ’70, sistemi di tipo previdenziale di
indennizzo delle vittime di incidenti in contesto medico-sanitario. Tali sistemi, come è naturale che sia, prescindono dall’accertamento della colpa ed anzi questo è uno dei loro obiettivi. Essi si inseriscono in quadro di progressivo
riconoscimento di uno « statuto » dei diritti del paziente, destinato a diffondersi nel resto d’Europa (106).
La legge svedese del 1975 sulla patientforsakringen (107) è la più risalente e dispone che le strutture sanitarie si assicurino (assicurazione obbligatoria
dal 1997) contro i danni che possono risultare nell’esercizio della loro attività. La copertura si applica ai casi in cui l’esito di una cura consiste in un inatteso aggravamento delle condizioni del paziente,purché vi sia una relazione
causale fra la prima ed il secondo; nel caso di errore del macchinario; nel caso
di errata diagnosi; nel caso di infezioni ospedaliere; in generale per danni legati alle prestazioni sanitarie. Il massimale per sinistro era fissato in circa P
500.000 per persona a ristoro di danni alla persona e di danni psichici derivanti da lesioni alla persona. La compagnia assicuratrice, a seguito della denuncia (che il più delle volte è predisposta dalla stessa istituzione ove si è verificato il sinistro), fa una offerta al danneggiato, il quale, se non la ritiene
congrua può rivolgersi ad una Commissione rappresentativa degli interessi
degli interessi dei pazienti e degli enti locali (che finanziano le strutture sanitarie pubbliche), la cui decisione viene trasmessa alla compagnia, ma non è
per questa giuridicamente vincolante. Qualora il paziente sia insoddisfatto
della decisione della Commissione dovrà investire della questione un collegio
arbitrale. Alcune cifre sono indicative (pur tenendo conto che la Svezia ha solo 9 milioni di abitanti): nei primi 20 anni di applicazione della legge i casi
trattati sono stati oltre 100.000; di questi circa 3000 sono stati riferiti alla
Commissione; non più di 300 sono finiti davanti a collegi arbitrali. Il costo
complessivo è stato stimato in 174 milioni di Euro. Tale importo viene suddiviso in un 38% per danni alla persona, 18% per spese mediche ulteriori, 17%
per perdita di reddito, 27% per danno morale e esistenziale (108).
della situazione anche negli Stati Uniti e in Gran Bretagna); G.B. Robertson, The Efficacy of
the Medical Malpractice System: A Canadian Perspective, in 3 Annals Health L. 167 (1994).
( 106 ) V. L.H. Fallberg, Patients Rights in the Nordic Countries, in 7 Eur. J. Health L. 123
(2000); nonché, ampiamente, A. Simoni, Una macchina risarcitoria. Regole, attori, problemi
nel « modello svedese » di riparazione del danno alla persona, Giappichelli 2001, p. 129 ss.
( 107 ) Ampiamente analizzata nel volume di C. Oldertz-E. Tidefelt (a cura di), Compensation for Personal Injury in Sweden and other Countries, Stoccolma, Juristforlaget 1988.
( 108 ) I dati sono tratti da L.H. Fallberg-E. Borgenhammar,The Swedish No Fault Patient Insurance Scheme, in 4 Eur. J. Health L. 279 (1997).
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
333
Il modello danese, introdotto nel 1987 (109) ma entrato in vigore nel
1992 è leggermente diverso in quanto ab initio prevede per il paziente la
possibilità o di adire direttamente le corti ovvero di rivolgersi, sulla base del
patientsforsikringsforeningen al consorzio di compagnie assicuratrici le quali
gestiscono l’insieme delle domande di indennizzo (110). Il suo ambito di applicazione riguarda soggettivamente le istituzioni sanitarie pubbliche e oggettivamente, oltre ai casi di negligenza, quelli in cui il trattamento è stato
sub-ottimale rispetto a quello che sarebbe stato prestato da uno specialista;
quando la complicazione non si sarebbe verificata qualora fosse stata praticata una terapia alternativa altrettanto accettata; quando si è verificato un
aggravamento anormale delle condizioni del paziente. Si fa tuttavia notare
che, in concreto, gli orientamenti del fondo sono fortemente influenzati da
quelli, paralleli, giurisprudenziali e la sua qualifica come sistema no-fault
dipende più che dalla realtà dei fatti (la maggior parte degli indennizzi dipende da casi di negligenza) dalla non menzione della colpa nelle sue decisioni (111).
Anche nel sistema danese vi è un tetto all’indennizzo pari a circa P
400.000, non vengono considerate le invalidità lavorative inferiori al 15% e
gli importi vengono ridotti per pazienti oltre i 55 anni.
Le decisioni del fondo possono essere appellate di fronte ad una Commissione costituita presso il ministero della salute, a composizione mista. Le sue
decisioni possono, infine, essere impugnate davanti alla Corte suprema.
Dal punto di vista delle ordinarie azioni giudiziarie (112), la situazione in
Danimarca presenta una particolarità procedurale ma di effetto sostanziale:
spetta alle parti presentare alla corte pareri medici in ordine alle cause del sinistro e alla negligenza o diligenza del sanitario. Di fronte a contrastanti posizioni, tuttavia, è prassi che il giudice chieda un parere ad un « Consiglio medicolegale », organo semi-pubblico, il quale finisce dunque per dettare le regole in
materia di responsabilità medica (113). Parimenti vanno segnalate decisioni
della Corte d’appello che in caso di esiti particolarmente gravi in interventi di
routine, ritengono che vi sia una inversione dell’onere della prova (114).
( 109 ) L. 19.8.1987, n. 426.
( 110 ) V. E. Segest, Patients’ Complaint Procedures, in a Scandinavian Perspective, in 3
Eur. J. Health L. 231 (1996); M. Erichsen, The Danish Patient Insurance System, in 20
Med & Law 355 (2001).
( 111 ) In tal senso v. E. Segest, Patients’ Complaint Procedures, in a Scandinavian Perspective, in 3 Eur. J. Health L. 231 (1996) (a p. 239).
( 112 ) V. E. Segest, Legal Aspects of Cases of Medical Malpractice in Denmark, in 12
Med.&Law 617 (1993).
( 113 ) Si v. i numerosi casi citati da E. Segest, Patients’ Complaint Procedures, in a
Scandinavian Perspective, in 3 Eur. J. Health L. 231 (1996) (a p. 243 s.).
( 114 ) V. E. Segest, Patients’ Complaint Procedures, in a Scandinavian Perspective, in 3
Eur. J. Health L. 231 (1996) note 53 e 54.
334
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
Va poi ricordata la prassi, diffusa, di ricorrere all’istituto dell’Ombudsman per disfunzioni sanitarie di tipo amministrativo (115).
In Norvegia dal 1988 esiste un Fondo per l’indennizzo dei danni ai pazienti finanziato (Norsk Pasientskadeerstatning), basato su criteri no-fault e
interamente finanziato dallo Stato. Esso non ha, a differenza di altri modelli
scandinavi, una natura assicurativa ed il suo fondamento normativo è rappresentato da un accordo fra il Ministero degli affari sociali e della salute con gli
enti locali, che gestiscono le strutture sanitarie (116). È necessario tuttavia che
sia accertato un nesso causale fra il trattamento e il danno subito, ma non se
si tratti di una complicanza tipicamente connessa con la terapia e la condotta
dei sanitari sia stata professionalmente adeguata. Quando invece il danno subito non rientra nel rischio ordinariamente connesso con il trattamento allora
è possibile concedere un indennizzo. Ancorché non vengano fissati dei massimali all’indennizzo, questo copre solo il danno alla persona e la perdita di
guadagni. Se mancano questi ultimi sono indennizzabili solo le invalidità superiori al 15%. Questo fondo non fa venire meno la possibilità di ricorrere al
giudice ordinario lamentando la colpa del sanitario (117).
In Finlandia il paziente può agire tanto in via giudiziaria che ricorrendo
al Fondo di indennizzo dei pazienti costituito con la l. 585/86 (118). Si tratta
di un fondo costituito dalle compagnie assicuratrici ma che copre anche le
istituzioni sanitarie che non avessero copertura assicurativa (circostanza peraltro rara, essendo questa obbligatoria, sia per gli enti che per i professionisti). Il sistema si basa sull’oggettivo verificarsi di un sinistro, ma esclude quelli che rientrano nell’alea normale e prevedibile del trattamento. L’indennizzo
copre le spese mediche, la perdita di reddito o di sostentamento, la sofferenza,
la invalidità permanente, il danno estetico permanente, le spese funerarie. Le
decisioni del Fondo possono essere impugnate tanto davanti ad una commissione di appello governativa che in sede giudiziaria (119).
Mentre vi sono valutazioni positive per taluni di questi modelli, in particolare quello norvegese e quello finlandese, non mancano critiche ai sistemi
no-fault in quanto essi non creano alcun incentivo/deterrente per il miglioramento della qualità del servizio da parte del personale medico e parame( 115 ) E. Segest, The Ombudsman’s Involvment in Ensuring Patients’ Rights, in 16
Med&Law 473 (1997).
( 116 ) V. R.G. Jorstad, The Norwegian System of Compensation to Patients, in 21
Med&Law 681 (2002).
( 117 ) K. Sonderland, Medical Malpractice - The Legal Situation in Norway, in 3 Eur. J.
Health L. 173 (1996).
( 118 ) Su cui v. P. Kokkonen, The Finnish Patient Injury Law of 1986, in 40 Int’l Digest
Health Leg. 242 (1989); nonché Ead., The New Finnish Law on the Status and Rights of a
Patient, in 1 Eur. J. Health L. 127 (1994).
( 119 ) V. M. Mikkonen, The Nordic Model: Finnish Experience of the Patient Injury Act
in Practice, in 20 Med & Law 347 (2001); Id., Prevention of Patient Injuries: The Finnish
Patient Insurance Scheme, in 22 Med.&Law 251 (2004).
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
335
dico (120). Mentre con riguardo alle Commissioni costituite nel quadro del sistema assicurativo se ne lamenta la scarsa trasparenza (121).
III. — Il quadro che si è delineato, nel quale chi ha un sistema aquiliano preferirebbe quello contrattuale, e viceversa; e dove si guarda come ad un frutto
proibito ai sistemi indennitari, salvo pentirsene dopo averlo assaggiato, sembra
riflettere un centone di equivoci: scespirianamente, una commedia degli errori
(clinici e giuridici). Contratto ed illecito sono due gemelli separati alla nascita e
quando si trovano nello stesso luogo (in questo caso la controversia sulla responsabilità medica) danno vita ad una serie di disavventure, scambiati l’uno per l’altro ed accusati per quanto non hanno fatto (perché competeva all’altro). E lo
stesso avviene ai loro schiavi gemelli, l’assicurazione e i sistemi indennitari.
Su un piano meno poetico le considerazioni che se ne possono trarre sono
diverse.
a) La equi-funzionalità dei rimedi
Si conferma un punto fermo nelle indagini comparate in tema di responsabilità: il danneggiato — ed il suo legale — non si curano, né mai si sono curati, dell’inquadramento teorico della azione ma hanno sempre optato per
quella che, in relazione alle circostanze del caso, è apparsa più promettente in
astratto: sono rilevanti a tal fine i profili della legittimazione attiva e di quella
passiva, i termini prescrizionali, l’onere della prova, il danno di cui si chiede
il risarcimento. Essendo peraltro chiaro che tale valutazione non viene fatta
sulla base di astratte considerazioni dogmatiche o anche solo manualistiche,
bensì sulla base dell’esperienza concreta, formatasi attraverso le prassi forense e la giurisprudenza. Laddove le due strade siano apparse precluse o impervie si è ricorso a rimedi alternativi, tanto in ambito privatistico (tipicamente
l’ingiustificato arricchimento), quanto in campo pubblicistico/amministrativo
(i molteplici sistemi di riparazione o indennizzo del danno). Scelte sub-ottimali ma non per questo scartate, soprattutto in relazione all’entità del danno
sofferto. Ed in ciascun ordinamento la inter-relazione fra i diversi rimedi fa sì
che ove se ne comprima uno se ne espanda un altro. Alla fine, l’area complessiva coperta dai sistemi risarcitori/indennitari sarà sostanzialmente simile,
anche se gli importi potranno variare (122).
Sotto questo aspetto appare corretta l’affermazione secondo cui il ricorso
( 120 ) V. L.H. Fallberg-E. Borgenhammar, The Swedish No Fault Patient Insurance
Scheme, in 4 Eur. J. Health L. 279 (1997) a p. 284. Per altri rilievi critici, v. A. Simoni, op.
cit. a nt. 106, p. 135 ss.
( 121 ) E. Segest, Patients’ Complaint Procedures in a Scandinavian Perspective, in 3
Eur. J. Health L. 231 (1996) (a p. 251).
( 122 ) La grande differenza è data dal sistema statunitense e dai suoi punitive damages.
V. in generale J.M. Grossen-O. Guillod, Medical Malpractice Law: American Influence, in
Europe, in 6 B. C. Int’l & comp. L. Rev. 1 (1983) (ove si sostiene che l’esempio statunitense
funge da deterrente).
336
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
ai rimedi contrattuali piuttosto che a quelli aquiliani si presenta come equivalente, ma non tanto in una dimensione nazionale (ed in effetti in taluni paesi,
come la Francia, l’alternativa è negata in radice) quanto in chiave comparata.
Qui emerge la vera similitudine fra sistemi: in tutti i paesi della tradizione giuridica occidentale le regole della responsabilità medica sono di orgine
giurisprudenziale. E non solo, come è ovvio, negli ordinamenti di common
law, ma anche in quelli di civil law. Se questa osservazione è banale con riguardo alla responsabilità aquiliana, comunque governata da un numero ridottissimo o comunque scarno di norme, essa va però riferita anche alla prospettiva contrattuale: la costruzione della figura di un contratto di cura è affidato integralmente alle corti, anche perché, come si è visto ovunque, i rapporti fra paziente e medico ovvero fra paziente e struttura sanitaria sono solitamente verbali e raramente trovano suggello in un documento scritto. Manca
dunque una prassi diffusa e consolidata tale da far emergere un tipo contrattuale sociale costruito attorno allo stratificarsi di clausole omogenee e iterate.
Anche qui, dunque, sono le corti a dire quando c’è un contratto, con chi si è
concluso, quali sono le sue clausole, le sue condizioni, le regole di responsabilità e di prova. Le regole generali sono sicuramente richiamate, ma esse vengono piegate ed integrate da una forte dose di creatività giudiziale.
Nella prospettiva del giudice, la responsabilità sanitaria è soltanto una
delle tante sfaccettature dei rapporti economico-sociali di natura contenziosa
che vengono sottoposti al suo esame. Le decisioni sono inevitabilmente influenzate dal ruolo che il giudice si dà all’interno della società con riguardo
alla risoluzione delle controversie e alla fissazione di equilibri fra posizioni
giuridicamente rilevanti.
Il regime della responsabilità civile in un determinato paese dunque, più
che riflettere la natura del sistema, costituisce uno specchio della posizione
del giudice.
A voler essere ancor più gius-realisti è del tutto indifferente la collocazione aquiliana o contrattuale della responsabilità medica, non perché le loro regole siano uguali (sappiamo che non lo sono) ma perché il giudice le utilizzerà in maniera funzionale all’obiettivo che ritiene corretto raggiungere (123).
Laddove ritenga che le posizioni di medico e paziente si pongano su piani
equi-ordinati allora si limiterà ad applicare le ordinarie regole di un campo o
dell’altro. Qualora invece ritenga che l’interesse del paziente sia espressione di
valori (costituzionali, di diritti umani etc.) superiori altererà le regole del giu( 123 ) Secondo D.N. Deweees-M.J. Trebilcock-P.C. Coyte, The Medical Malpractice Crisis:
A Comparative Empirical Perspective, in 54 Law & Contemp. Probs. 217 (1991) (a p. 250) in
Canada un terzo circa dell’aumento del contenzioso può essere ricondotto al mutamento di
orientamento giurisprudenziale in materia. La restante parte è da attribuirsi alla generale maggiore propensione alla litigation, peraltro comune a tutti i paesi presi in esame. Peraltro gli AA.
fanno una considerazione interessante (p. 251): l’aumento del contenzioso si è verificato prima
dei mutamenti giurisprudenziali, il che per un verso fa dubitare della incidenza sia di questi ultimi sulla malpractice crisis, sia, in senso contrario, delle ipotesi di riforma.
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
337
dizio, mettendo il dito sul piatto della bilancia e modificando, come fa in molti altri casi, le regole causali o sull’onere della prova (124).
Dunque non è la scelta della strada contrattuale che porta o può portare
in una certa direzione (come vorrebbe l’impostazione dogmatico-ideologica di
Epstein); né la responsabilità extracontrattuale è quella che assicura risultati
individualmente e socialmente più accettabili (come sostiene ottimisticamente
Schwartz). A voler rappresentare il concetto con una metafora, ancorché nessuno metta in dubbio le intrinseche differenze fra due mezzi di trasporto come l’automobile (espressione della autonomia privata) e l’autobus di linea
(espressione di una programmazione pubblica), non sono questi che determinano, se non in minima parte, la destinazione finale che invece è decisa da chi
li guida.
Con il che ci si avvede che la critica alla « svolta » giurisprudenziale della
Cassazione non coglie il segno se pretende di imputare alla prospettiva contrattuale effetti di over-deterrence e di potenziale apertura di una malpractice
crisis in Italia. Essi avrebbero potuto essere raggiunti altrettanto facilmente
« manipolando » le regole della responsabilità aquiliana, come è avvenuto
tante volte nel corso dell’ultimo secolo.
L’approccio non vuole essere piattamente relativistico, sfociando nell’indifferenza per i risultati. In realtà le scelte della giurisprudenza — italiana o
straniera — possono essere più utilmente valutate assumendo parametri diversi.
Il primo è quello della coerenza motivazionale e della credibilità estrinseca delle decisioni. Nei casi di responsabilità medica si fronteggiano da un lato
una menomazione della vita e dell’integrità fisica che nessuna somma potrà
realmente compensare, dall’altro una scienza — e coloro che la praticano —
che si fonda, per una intrinseca scelta epistemologica che è alla base della sua
straordinaria evoluzione, sulla incertezza, sulla parzialità dei risultati, sulla
singolarità di ciascun paziente. In una concezione galenico-aristotelica della
medicina la responsabilità consisterebbe nella deviazione da una enunciazione dogmatica. Da Vesalio in poi l’approccio sperimentale-induttivo rende difficile il dialogo con la concezione — tipica degli ordinamenti di civil law —
teorico-deduttiva. La sentenza deve apparire « giusta » ma non solo perché
questa è l’essenza del giudicare, ma soprattutto perché la vittima deve poter
comprendere il confine fra responsabilità e fatalità. Così come il medico — o
meglio i suoi colleghi — deve poter trarre una regola di condotta concretamente attuabile in occorrenze future (125). Si errerebbe nel pensare che solo il
paziente ha un interesse non patrimoniale, quello alla salute, che si vede costretto a monetizzare per la negligenza altrui. Il medico ha ben più che il suo
( 124 ) Per una analisi critica delle finzioni giurisprudenziali v. R. De Matteis, op. cit., p.
393 ss.
( 125 ) In una prospettiva contrattuale, le decisioni giurisprudenziali finiscono per svolgere, a posteriori, una funzione integratrice del contratto (così V. Zambrano, op. cit., p. 42).
338
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
patrimonio e la sua reputazione da perdere nella contesa con il paziente, ed è
la nozione stessa di professione medica.
Il secondo parametro sulla cui base valutare le scelte giurisprudenziali è
quello degli effetti sistematici. Se convincentemente motivate esse troveranno un
consenso sociale diffuso. Ma occorre assicurarsi che, ove si ritenga di affermare
una regola particolare per il rapporto fra paziente e medico, questa specialità della disciplina non intacchi la coerenza del sistema. In altre parole che non si manifestino « effetti domino » in settori che non hanno la stessa singolarità e delicatezza di quello sanitario. Tale rischio è latente quando vengano coniati principi di
carattere generale che si giustificano in relazione alla particolarità degli interessi
in gioco, ma non altrettanto se trasposti in altre relazioni: si pensi ai principi della res ipsa loquitur, della « vicinanza alla prova », della « facile esecuzione ».
Il terzo parametro è quello, purtroppo assai negletto, della statistica giudiziaria. Per valutare la resa di un modello, la sua evoluzione, le variazioni rispetto
al passato occorre disporre di una attendibile e stratificata base statistica. Nel
campo della responsabilità medica i dati che appaiono essenziali sono quante
cause, nei confronti di chi (singoli professionisti, strutture private, strutture pubbliche), per quali specializzazioni (126), per quali sinistri, con quale esito monetario. Senza di essi non solo non si sa da dove si viene ma non si sa neppure dove si
va. Le previsioni sono aruspicali, le proposte di riforma rabdomantiche (127).
b) Servono sistemi pubblici di indennizzo?
L’ultima considerazione dovrebbe ridimensionare, almeno per il nostro
paese, la prospettiva di un sistema di indennizzo del tipo francese oppure
scandinavo, non essendo possibile valutare con sufficiente precisione il quadro sul quale verrebbe ad incidere. D’altra parte, se il principale obiettivo potrebbe essere quello di una deflazione del contenzioso non si dispone ancora,
nemmeno, di sufficienti dati sulla riforma francese, la quale peraltro, ha anche voluto toccare alcuni aspetti di diritto sostanziale e non solo remediale.
Peraltro essa non può essere esclusa a priori e potrebbe rendersi necessaria in
casi di eventi di danno alla salute diffusi e di grandi dimensioni, come in passato
per il danno da vaccinazioni obbligatorie e da trasfusioni di sangue infetto.
Né può trascurarsi la circostanza che il sistema della responsabilità medica costituisce solo un tassello di un complesso sistema in larga parte amministrativo volto ad assicurare a tutti i cittadini un livello adeguato di prestazioni
sanitarie (128).
( 126 ) Nell’indagine svolta da D.N. Deweees-M.J. Trebilcock-P.C. Coyte, The Medical
Malpractice Crisis: A Comparative Empirical Perspective, in 54 Law & Contemp. Probs.
217 (1991) (a p. 251) si è constatato un aumento generalizzato fra tutte le specializzazioni.
( 127 ) Per un tentativo di inquadramento multidisciplinare che tenga conto anche di
questi fattori v. i vari contributi contenuti nel volume di G. Comandè-G. Turchetti (a cura
di), La responsabilità sanitaria. Valutazione del rischio e assicurazione, Cedam 2004.
( 128 ) È un punto su cui opportunamente insistono B.S. Markesinis-S. Deakin, Tort Law,
V ed., Oxford, Clarendon 2003, p. 262 ss. È opportuno, peraltro, un riferimento alle espe-
UNA COMMEDIA DEGLI ERRORI? LA RESPONSABILITÀ MEDICA
339
Come pure deve essere tenuta in massima considerazione la crescente
comunitarizzazione del diritto sanitario, come del resto di gran parte del diritto (129).
Su un punto tuttavia la riflessione merita di essere approfondita: in un
sistema sanitario in cui la maggior parte delle prestazioni è resa da soggetti
pubblici ha un senso il pieno risarcimento degli errori medici? A favore si
può addurre il senso di equità che vieterebbe di scriminare fra danneggiati
in relazione alla struttura — pubblica o privata — in cui il sinistro si è verificato; e evidenziare la portata « classista » che la proposta avrebbe in alcune regioni dove l’assistenza pubblica è assai precaria e dunque chi dispone
di mezzi si indirizza verso strutture private. D’altra parte, a rendere complessa la distinzione, vi è la presenza di un settore intermedio di strutture
private che rendono prestazioni convenzionate con il servizio sanitario nazionale.
Nel contempo, tuttavia, non ci si può nascondere la circostanza
che condannare al risarcimento un ente pubblico comporta semplicemente
trasferire la spesa sulla fiscalità generale, oppure, peggio, sottrarre risorse
al funzionamento del servizio sanitario. La condanna, poi, ha un effetto
deterrente quasi inesistente (130), anche perché, il più delle volte, l’errore
medico è causato anche da disfunzioni organizzative e da una generale carenza di mezzi (131), rispetto ai quali il singolo medico non ha alcuna possibilità di intervenire se non operando un ancor più dannoso e poco deontologico « sciopero bianco ». Privata della sua funzione general-preventiva
rimarrebbe solo quella compensatoria che potrebbe essere comunque assicurata introducendo alcune limitazioni di importo ovvero di voci risarcibili.
Di fronte a questo scenario di incertezze alcune riflessioni di Epstein,
svolte trent’anni fa all’alba della malpractice crisis americana appaiono ispirate da una saggezza tuttora attuale: « C’era un’epoca nella quale potevamo
forse nutrire grandi speranze sulla capacità del sistema giuridico o della professione medica di elaborare una serie di regole che avrebbero dato soddisfarienze tedesca ed austriaca di camere conciliative delle controversie fra medici e pazienti su
cui v. ampiamente S. Winkler, L’esperienza delle camere conciliative tedesche ed austriache, in U. Izzo-G. Pascuzzi (a cura di), La responsabilià medica nella Provincia Autonoma
di Trento: Il fenomeno. I problemi. Le possibili soluzioni, Trento, Provincia Autonoma di
Trento 2003, p. 171; nonché U. Izzo, La responsabilità medica: verso un modello alternativo di risoluzione delle controversie?, ivi, p. 13.
( 129 ) V. a titolo indicativo T.K. Hervey-J.V. McHale, Health Law and the European
Union, CUP 2004; nonché H. Nys, Comparative Health Law and the Harmonization of Patients’ Rights in Europe, in 8 Eur. J. Health L. 317 (2001).
( 130 ) La conclusione è raggiunta persino nel privatistico/economicistico sistema statunitense: v. M.M. Mello-T.A. Brennan, Deterrence of Medical Errors: Theory and Evidence for
Malpractice Reform, in 80 Tex. L. Rev. 1595 (2001-2002).
( 131 ) Per una analisi della difesa delle risorse scarse nel diritto inglese v. V. Harpwood,
Negligence in Healthcare, Londra, Informa Pub. 2001, p. 58 s.
340
VINCENZO ZENO-ZENCOVICH
zione a tutte le pretese giuste e solo a quelle (132). Ma la responsabilità medica
è una materia che per la sua stessa sfuggente natura può dare solo risultati
molto imperfetti. La domanda dunque non è come costruire un sistema perfetto perché ciò non può essere fatto. L’unica domanda che vale la pena porsi
è come possiamo rendere il sistema migliore di quanto non lo sia oggi. Piccoli
miglioramenti incrementali e non riforme messianiche sono all’ordine del
giorno » (133).
( 132 ) Una considerazione simile è svolta da I. Kennedy, The Patient on the Clapham
Omnibus, in Id., Treat Me Right, Oxford, Clarendon 1988, p. 174 (a p. 179).
( 133 ) R.A. Epstein, Medical Malpractice: The Case for Contract, in 1976 Am. B. Found.
Res. J. 87 (a p. 91).
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