La traduzione in pratica della responsabilità sociale d`impresa
by user
Comments
Transcript
La traduzione in pratica della responsabilità sociale d`impresa
Università degli Studi di Trento Scuola di Dottorato in Sociologia e Ricerca Sociale Indirizzo Information Systems and Organizations XXIII ciclo La traduzione in pratica della responsabilità sociale d’impresa Abstract Scopo del presente lavoro è quello di indagare i processi di traduzione in pratica della responsabilità sociale d’impresa, per analizzare come essa sia re-interpretata localmente. Il progetto vuole, pertanto, fornire un’analisi accurata dei processi di traslazione che avvengono quando la responsabilità sociale è trasferita in uno specifico contesto d’uso. Questo lavoro si colloca nel framework teorico legato alla responsabilità sociale, agli studi sugli standard ed ai Practice-based Studies. Nel presente progetto si illustra, infine, la metodologia di ricerca, rappresentata dal “case study” e le fasi che strutturano il lavoro empirico. Keywords: Responsabilità sociale d’impresa, standard, Practice-based Studies. Laura Zamparelli [email protected] Indice 1. Introduzione 1 2. Framework teorico di riferimento 4 2.1: la responsabilità sociale d’impresa 2.1.2: L’evoluzione del concetto RSI 4 7 2.2: Gli standard 9 2.3: Tradurre lo standard in pratica: i Practice-based Studies 12 3. Il contesto empirico 15 3.1: L’obiettivo della ricerca 15 3.2: Lo standard SA8000 16 3.3: La metodologia di ricerca: il “case study” 20 3.4: Le fasi della ricerca 20 4. Conclusioni 24 5. Riferimenti bibliografici 26 1: Introduzione Questo progetto si pone come obiettivo lo studio della traduzione in pratica della responsabilità sociale d’impresa, per analizzare come essa sia re-interpretata localmente. La “lente” attraverso cui si vuole studiare la responsabilità sociale in questo progetto è rappresentata dagli standard, che rappresentano uno degli strumenti più importanti utilizzati dalle aziende per gestire e comunicare la responsabilità sociale. L’utilizzo di standard, infatti, garantisce la qualità dei processi messi in atto dal punto di vista sia tecnico che etico (Hinna, 2005) e definisce il grado di responsabilità sociale messo in atto da un’azienda. L’intento di questo progetto è, quindi, quello di fornire un’analisi accurata dei processi di traslazione che avvengono quando uno standard (“o artefatto”) viene trasferito in uno specifico contesto d’uso. Ci si chiede, in particolare, quali siano i meccanismi che nella pratica quotidiana gli attori, umani e non-umani, mettano in atto per traslare e interpretare uno standard, che è espressione di una norma universale. Gli standard, infatti, così come gli altri strumenti che orientano alla responsabilità sociale, possono essere considerati solo come una “linea guida” universale attraverso la quale impiantare un percorso individuale ed originale. Gli standard, infatti, sono generali e astratti mentre solo la pratica è specifica (Brunsson e Jacobsson, 2000: 129). L’intento di questo progetto, tuttavia, non è quello di evidenziare la discrasia esistente tra “lo standard in teoria” (costituito da una norma e dalla sua legislazione che evidenzia regole e procedure da utilizzare) e l’applicazione (o la non applicazione) dello standard in pratica, bensì quello di evidenziare come uno standard viene traslato e tradotto ogni volta che è in uso in uno specifico contesto organizzativo. Si propone, quindi, di analizzare la responsabilità sociale non come espressione di un contesto d’azione globale ma in base a come essa viene tradotta nelle pratiche quotidiane in un contesto d’uso locale. Il lavoro che si sta per presentare è strutturato in due sezioni, non da considerarsi separate ma strettamente interconnesse. La prima è rappresentata dall’illustrazione del framework teorico di riferimento e la seconda dalla descrizione del contesto empirico in cui si vuole condurre l’indagine. Nello specifico, la letteratura a cui si fa riferimento considera ed approfondisce il tema della responsabilità sociale d’impresa (abbreviato con l’acronimo RSI o CSR dalla più nota 1 accezione anglosassone “Corporate Social Responsibility”), gli studi sugli standard ed, infine, i Practice-based studies Il tema della responsabilità sociale d’impresa sarà, quindi, analizzato per primo. Tale tema ha suscitato un interesse sempre crescente nei dibattiti accademici, imprenditoriali ed istituzionali. La crescente attenzione rivolta alla RSI, ha comportato conseguentemente anche un aumento delle interpretazioni rispetto a cosa debba intendersi con questo termine, acquisendo differenti accezioni nelle diverse impostazioni teoriche e aree disciplinari. La ricchezza, sia teorica che empirica, di questi contributi ed il loro carattere pluridisciplinare, hanno tuttavia aumentato anziché ridurre la complessità dell’argomento, generando una moltitudine di nozioni e prospettive analitiche. Negli ultimi anni anche le pratiche e gli strumenti utilizzati dalle organizzazioni per gestire e comunicare la responsabilità sociale sono aumentati in modo esponenziale. L’orientamento gestionale alla RSI richiede, tuttavia, l’adozione di una serie di strumenti tra cui l’utilizzo di standard, che garantiscano la qualità dei processi messi in atto dalle organizzazioni e facilitino la comunicazione con i diversi stakeholder (Hinna, 2005). Anche comprendere il concetto di standard, di conseguenza, risulta fondamentale ai fini della nostra trattazione, poiché, così come quello di responsabilità sociale, non è facilmente definibile. Esso, infatti, può essere considerato un concetto polisemico, a causa dei differenti significati che ha acquisito nella letteratura e a causa del fatto che esso acquisisce una sua identità solo dopo che è stato re-interpretato in uno specifico contesto d’uso. All’interno di questo progetto, tuttavia, non si vuole analizzare lo standard come una conoscenza istituzionalizzata che produce effetti, né come una norma astratta e decontestualizzata a cui rifarsi, ma come la sua realizzazione quotidiana in uno specifico contesto d'uso. Dunque, ciò che si vuole studiare è lo “standard-in-pratica”, inteso come la re-interpretazione locale e situata di una norma astratta. E’ per tale ragione che si fa riferimento allo studio sulle pratiche che considera l’organizzazione non come un’entità statica ma come un insieme di pratiche “situate”, all'interno di un network di azioni e di interazioni, focalizzando l'attenzione sul contesto lavorativo in cui lo standard viene performato e sulla conoscenza che viene prodotta e riprodotta localmente. La seconda sezione del lavoro è rappresentata dall’illustrazione del contesto empirico in cui si vuole condurre l’indagine. 2 Lo studio verrà condotto attraverso la metodologia del “case study” (Eisenhardt 1989; Yin 1994; Stake, 1995), un approccio che si avvale di diverse tecniche di raccolta dati. Il caso di studio individuato in cui si intende condurre l’indagine è costituito da uno specifico contesto organizzativo, rappresentato dalla Sapa S.pA. di Bolzano, azienda che opera nel settore dell’estrusione dell’alluminio, che intende certificarsi allo standard SA8000. Lo standard SA8000, primo standard diffuso a livello internazionale circa la responsabilità sociale, è applicabile volontariamente in aziende di qualsiasi dimensione e settore produttivo operanti in ogni area geografica per valutare se esse ottemperano ad alcuni requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali. Attualmente l’unica restrizione è rappresentata dal fatto che esso non può essere applicato nelle imprese di settore estrattivo e nelle attività lavorative svolte nella propria dimora. La scelta del “case study” in tale circostanza si ritiene valida, in quanto è proprio in tale contesto organizzativo che è possibile studiare come uno standard che ha valenza generale sia traslato in un contesto d’uso locale. Lo standard SA8000 può essere, infatti, considerato in Sapa un ottimo “artefatto” in base al quale studiare come nella pratica quotidiana uno standard possa essere (o non essere) utilizzato, come esso sia “ancorato” (o non ancorato) al contesto organizzativo e quali pratiche quotidiane vengono utilizzate all’interno e all’esterno dell’organizzazione per gestirlo. Dopo questa breve introduzione si passerà, quindi, ad illustrare prima la sezione teorica, rappresentata dall’analisi del framework teorico di riferimento, caratterizzato come detto poc’anzi dalla responsabilità sociale (par 2.1), dagli standard (par. 2.2) ed infine dai Practice-based Studies (par 2.3). Si proseguirà poi con la descrizione del contesto empirico della ricerca, dove saranno illustrate, innanzitutto, la domanda e gli obiettivi di ricerca (par. 3.1). In secondo luogo (par. 3.2), verrà esplicitato quale standard si intende “seguire” e le motivazioni di tale scelta. Si illustrerà, infine, il “case study” (par. 3.3) e le relative fasi della ricerca (par. 3.4). 3 2. Framework teorico di riferimento In questa prima sezione del lavoro si analizza, come accennato nell’introduzione, il framework teorico di riferimento. In primo luogo, si approfondirà il tema e le conseguenti teorie relative alla responsabilità sociale. Successivamente, si proporrà un’analisi del concetto di standard ed, infine, si specificherà il significato della metafora “tradurre lo standard in pratica” facendo, appunto, riferimento ai Practice-based Studies. 2.1.1: la responsabilità sociale d’impresa Differenti sono gli autori (Carroll, 1979; Joyner e Payne, 2002; Chirieleison 2004)1 che hanno tentato di identificare l’evoluzione storica del concetto di responsabilità sociale d’impresa, individuando a parer loro le principali interpretazioni e le differenti teorie attinenti al tema della RSI. Carroll (1979) e Chirieleison (2004), fanno risalire il primo considerevole contributo al tema ad Howard Bowen (1953), che nel testo Social Responsibilities of the Businessman, dà una definizione di responsabilità sociale riferita al “businessman” (solo in un secondo momento si inizierà a parlare di “corporate”social responsibility). Tale apporto risulta considerevole in quanto, sebbene ancora focalizzato sulla responsabilità individuale dei manager piuttosto che sulla responsabilità dell’impresa nel suo complesso, riconosce le imprese come centri vitali di potere, evidenziando come le loro azioni siano in grado di condizionare la vita della società. In particolare l’autore dà una prima definizione di responsabilità sociale vista come:“Il dovere di perseguire quelle politiche, prendere quelle decisioni, o seguire quelle linee di condotta che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei valori riconosciuti dalla società”2. In base a tale definizione risulta chiaro come inizialmente, il dibattito scientifico si concentra sulla responsabilità sociale dei “businessmen”, a cui si riconosce, quindi, la capacità di incidere sul contesto ambientale, avendo obblighi sociali che vanno oltre la funzione di produzione, l’ottenimento di un profitto e la distribuzione di beni e servizi. 1 Sull’evoluzione storica della letteratura in tema di responsabilità sociale si vedano, tra gli altri, Mitnick (1995), Swanson (1995), Frederick (1994), Wood (1991), Rusconi (1997), Di Toro (1993). 2 “It refers to the obligations of businessman to pursue those policies, to make those decisions, or to follow those lines of action which are desirable in terms of the objectives and values of our society”, Bowen H. (1953), p.6. 4 Secondo Joyner e Payne (2002), invece, il primo autore che sottolinea il ruolo sociale delle imprese è Chester Barnard (1938) che, nel testo The Functions of the Executive, evidenzia l’importanza e l’influenza che l’ambiente esterno può avere sui processi decisionali di cui il dirigente di un’impresa è responsabile. In particolare, Barnard sostiene che colui che esercita la leadership deve necessariamente considerare che il successo di un’organizzazione dipende anche dagli incentivi dotati di valore morale che egli è in grado di offrire. Nel decennio tra il 1960 e il 1970, periodo nel quale si afferma definitivamente la locuzione “Corporate social responsibility”, si assiste ad una svolta nel dibattito sul tema della responsabilità sociale, la quale può essere ricondotta alle due posizioni contrapposte rappresentate da Friedman (1962), che considera la massimizzazione del profitto quale unico dovere dei manager e dell’impresa e che discute l’efficacia di una regolamentazione sociale imposta dallo Stato3, e quella condivisa da Davis, Frederick e McGuire, i quali riconoscono ad un’impresa responsabilità più ampie di quelle economiche e di quelle stabilite dalla legge4. Solo verso la fine degli anni 60, così come segnala Chierieleison (2004), Walton evidenzia che la responsabilità sociale deve essere considerata come un processo di attuazione volontario, e non coercitivo, da parte del manager e dell’impresa. In questi anni i contributi al concetto di RSI iniziano ad aumentare notevolmente così come, a causa della vaghezza del concetto, i modelli interpretativi che analizzano da prospettive differenti il tema della responsabilità sociale d’impresa. Diversi sono gli autori che, per cercare di circoscrivere l’ambito di interesse della RSI, tentano di individuare i comportamenti che un’impresa deve possedere per poter essere considerata socialmente responsabile. Davis (1973), ad esempio, analizza le ragioni pro e contro l’assunzione di responsabilità sociale, sostenendo che la RSI comincia dove finisce la legge. Viene quindi, evidenziato 3 Friedman in Capitalism and freedom (1962: 133) sostiene: “Few trends could so thoroughly undermine the very foundation of our free society as the acceptance by corporate officials of a social responsibility other then to make as mach money for their stockholders as possible”, Nella visione di Friedman, pertanto, si afferma il primato della sfera economica, visto quale unico dovere dei manager e dell’impresa. 4 Frederick (1994: 60) sostiene infatti: “The fundamental idea embedded in “corporate social responsibility” is that business corporations have an obligation to work for social betterment.” , mentre Mc Guire (1963: 144) sostiene: “The idea of social responsibility supposes that the corporation has not only economic and legal obligations, but also certain responsibilities to society which extend beyond these obligations”. 5 con forza l’elemento volontaristico di un’azienda che non può essere considerata socialmente responsabile se si attiene solo a quanto previsto dalla normativa. In tale contesto si inserisce l’innovativo pensiero di Carroll (1979), che in “A three-dimensional conceptual model of social performance”, riconosce che l’impresa ha differenti responsabilità, rappresentate da quelle economiche, giuridiche, etiche ed infine discrezionali. Successivamente Carroll (1991), chiarirà che questi quattro tipi di responsabilità devono essere considerati in senso gerarchico di importanza, collocandoli nella “piramide delle responsabilità sociali di un’impresa”, alla base della quale colloca la responsabilità economica, per sottolineare la preminenza della funzione economica sulle altre, mentre al vertice è situata la responsabilità discrezionale, riguardante le attività puramente discrezionali compiute a favore della comunità. L’orientamento sociale di un’impresa può essere compreso, quindi, considerando l’importanza che viene data alle tre componenti “non economiche” di responsabilità. In questo periodo, quindi, un’attenzione sempre crescente è data al contesto socioculturale di riferimento, che diviene essenziale per definire i compiti delle imprese. Fondamentale appare a tal proposito il rapporto del Committee for Economic Development (CED) del 1971, in cui viene evidenziato come le imprese devono assumersi responsabilità maggiori rispetto a quelle assunte fino a quel momento. Il CED, all’interno di tale rapporto, identifica l’approccio dei “tre cerchi concentrici”, della responsabilità delle imprese. Il cerchio più interno, include la responsabilità primaria dell’azienda, ossia la crescita economica dell’azienda, il cerchio intermedio include tutti quegli elementi che possono stimolare la sensibilità verso i valori o le priorità sociali, mentre il cerchio più esterno, infine, include la disponibilità dell’impresa ad assumersi responsabilità più ampie verso la società. Ackerman e Bauer (1976), infine, ampliando ancor di più la portata concettuale del termine, sostengono che la responsabilità sociale d’impresa deve mirare ad anticipare e a rispondere ai bisogni sociali. Gli autori, in particolare, parlano di “corporate social responsiveness” (traducibile come “sensibilità al sociale da parte dell’impresa”), per indicare la capacità di agire nel senso auspicato dalla società. Nonostante questi primi tentativi definitori il concetto di responsabilità sociale resta ancora controverso, vago e ricco di sfumature. 6 2.1.2: L’evoluzione del concetto RSI Nella letteratura sul tema responsabilità sociale risulta frequente l’associazione tra il concetto di stakeholders e la RSI. E’ tuttavia necessario evidenziare come in realtà i due ambiti non abbiano origine comune e non siano tra loro coincidenti. La prima teoria organica sugli stakeholders (che potremmo tradurre come portatore d’interesse), viene introdotta nella letteratura grazie al contributo di Freeman (1984), che distingue gli stakeholders in senso stretto (o primari), rappresentati da: “tutti quegli individui e gruppi ben identificati da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti, dipendenti, clienti, fornitori, e agenzie governative chiare”, dagli stakeholders in senso ampio (o secondari): “ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche, e processi lavorativi: […] i gruppi di interesse pubblico, i movimenti di protesta, la comunità locali, gli enti di governo, le associazioni imprenditoriali, i concorrenti sindacati e la stampa” (Freeman in Hinna L., 2005: 405). In questo contesto si sviluppa, quindi, sempre più la necessità di coniugare gli interessi e i desideri dei vari stakeholder con le esigenze dell’azienda. Tale esigenza, incorporata nel concetto di“corporate social performance” (CSP), produce un nuova prospettiva dalla quale guardare la responsabilità sociale, in cui la RSI inizia ad essere considerata più come un processo che come un risultato da ottenere una volta per tutte. La gestione delle relazioni con una pluralità di stakeholder può, infatti, come sostiene Freeman, essere considerata come una strategia da utilizzare per sviluppare l’organizzazione all’interno del proprio contesto socio-culturale. La distinzione effettuata da Freeeman è stata, però, messa in discussione in quanto troppo ampia e non idonea a sviluppare una distinzione tra chi dovesse effettivamente essere considerato uno stakeholder. classificazione, Per tale motivo alcuni autori hanno individuato una una “mappa degli stakeholder”, per poter definire con maggiore accuratezza quali interlocutori possano essere coinvolti nelle decisioni riguardanti le conduzioni dell’azienda. Il concetto di responsabilità sociale delle imprese, negli ultimi anni, è stato considerato oltre che un modello di gestione strategica, anche un modello di “governance allargata”. A riguardo, è significativo il contributo di Sacconi (1997; 2002; 2004), il quale considera la RSI come: “un modello di governance allargata dell’impresa in base al quale chi governa l’impresa ha 7 responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder” (Sacconi in Rusconi e Dorigatti, 2004: 91). Sacconi quindi, in tale definizione, evidenzia come la responsabilità sociale deve essere considerata come una “governance allargata”5 – “in grado di conciliare gli interessi delle varie parti interessate nell’ambito di un approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile” - e che deve essere basata su “doveri fiduciari”, nei confronti di molteplici stakeholder, intesi come “il dovere di impiegare un’autorità per il bene di soggetti che concedono e quindi soggiacciono a tale autorità” (Sacconi in Rusconi G. e Dorigatti M. 2004: 113). Il tema della RSI, nonostante non possa essere considerato ben chiaro e definito, è divenuto sempre più attuale, infatti, alle imprese viene in modo sempre crescente richiesto di prendere una posizione rispetto alla propria responsabilità sociale. Oggi infatti, come sostiene Hinna (2005), la gestione della responsabilità sociale va configurandosi come una “condizione necessaria”per restare sul mercato, non più come una mera opzione eticoculturale ma come “perno” su cui far ruotare e ri-orientare la gestione aziendale. Lo scenario attuale, tuttavia, sembra essere ancora in mutamento, poiché si evidenzia un possibile svuotamento di senso della CSR (Capecchi, 2005), che rischia di tramutarsi in mera routine organizzativa, perdendo il suo significato originale. A tal proposito, invece, Rossi (2008), propone dei percorsi di disclosure organizzativa, intendendo con tale espressione “un processo di trasparenza e apertura dell’organizzazione verso gli stakeholder che preveda il loro coinvolgimento (nella forma della consultazione e/o della partecipazione) nella definizione delle stesse strategie di CSR”. Tra i vari strumenti che contribuiscono alla gestione della RSI, uno dei più importanti per le aziende è l’utilizzo di standard, che garantiscono la qualità dei processi messi in atto dalle organizzazioni dal punto di vista sia tecnico che etico (Hinna, 2005)6. Lo standard all’interno di tale progetto diventa, pertanto, la “lente” di lettura attraverso la quale si vuole studiare la CRS, per comprendere come essa sia re-interpretata localmente. 5 Sacconi riprende il concetto di “governance allargata” dal “Libro verde” della Commissione europea (2001) 6 Per un approfondimento sui strumenti per gestione l’orientamento alla CSR vedi Hinna (2004),Il bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche, Franco Angeli, Milano. e Sacconi L. (2005) Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa. 8 Ma cosa si intende precisamente per standard? Come nasce uno standard? Ed infine quali sono i vantaggi (o gli svantaggi) nell’utilizzare uno standard? Per rispondere a queste domande è necessario un approfondimento rispetto a tale concetto. 2.2 Gli standard Anche il concetto di standard, così come quello di responsabilità sociale, non appare così semplice da definire. Ciò è dovuto al fatto che il termine standard (derivante dal francese estendard che significa stendardo, bandiera, insegna) ha acquisito diverse accezioni utilizzate in più aree disciplinari, quali l’economica, la sociologica, la tecnologica e l’area di studi organizzativi. Il termine standard può, infatti, essere considerato polisemico a causa dei differenti significati che ha acquisito nella letteratura e a causa del fatto che esso assume una sua identità solo dopo che è stato re-interpretato localmente. Nelle differenti definizioni che ne sono state date, tuttavia, risultano emergere alcuni aspetti fondamentali. In primo luogo è possibile riscontrare come ad uno standard si aderisce in forma volontaria e non come un’imposizione ed in secondo luogo che l’adesione ad uno standard presuppone l’utilizzo di standard evidentemente già prodotti da “altri”. Ma chi è da considerarsi un promotore effettivo di uno standard? Brunsson e Jacobsson sostengono che i promotori degli standard possono essere considerati, in primo luogo, le organizzazioni private come l’American Nation Standards Institute (ANSI) o il British Standard Institute (BSI), e secondariamente le organizzazioni internazionali non governative come la International Chamber of commerce (ICC) o l’International Committee on Bird Protection (ICBP). Anche le persone private, come i ricercatori o gli scienziati, possono essere considerati “standardizers”, poiché contribuiscono alla creazione di standard che poi devono essere mantenuti e salvaguardati. Infine, promuovono standard anche gli enti pubblici, come i governi o come le organizzazioni governative internazionali come l’UNESCO, l’EU o l’OECD. Il fatto che esistano degli standard e degli enti che li promuovano, tuttavia, non dà la certezza che questi siano effettivamente utilizzati, né che tutte le organizzazioni li considerino e li utilizzino allo stesso modo. Gli standard possono, infatti, essere considerati una strategia (Grindley, 1995) che un’azienda produttrice può utilizzare per ottenere un vantaggio competitivo sul mercato. 9 L’azienda, in base a tale presupposto, ha necessità di stabilire delle regole precise per il sistema tecnico-produttivo e quindi degli standard a cui riferirsi, che costituiscano un riferimento intorno al quale le oscillazioni devono essere ridotte al minimo, per evitare di allontanarsi da ciò che è ritenuto ottimale. Ogni prodotto è così identificabile ed interpretabile in modo univoco dai fruitori presenti nel mercato. Se il prodotto avrà successo l’azienda avrà, ovviamente, un vantaggio competitivo sulle altre aziende produttrici. In base a tale prospettiva lo standard può essere considerato “un set di specifiche tecniche al quale aderisce un produttore, tacitamente o come risultato di un accordo formale (David e Greenstein 1990: 4). Lo standard può essere considerato, oltre che una strategia, anche un obiettivo da perseguire, per creare legittimazione all’interno di un “campo organizzativo”. Una delle teorie che considera ciò è sicuramente rappresentata dal neo-istituzionalismo (Powell e Di Maggio, 1991; Scott, 1995; Czarniawska e Sevon,1996), che cerca di spiegare perché vi è una così sorprendente omogeneità di forme e di pratiche organizzative, all’interno dei “campi organizzativi”, che possono essere definiti come: “un insieme di organizzazioni che, considerate complessivamente, costituiscono un’area riconosciuta di vita istituzionale: fornitori-chiave, consumatori di risorse e prodotti, agenzie di controllo ed altre organizzazioni che producono servizi o processi simili” (Powell e Di Maggio, 1991: 90). L’ipotesi, inoltre, avanzata da Powell e Di Maggio (1991) è che una volta che le diverse organizzazioni operanti in una medesima sfera di attività giungono a strutturarsi in un campo effettivo, si genera un insieme di forze che le inducono a diventare sempre più simili le une alle altre. Vi sarebbe cioè una naturale tendenza all’isomorfismo7. Esiste, dunque, un certo stadio del processo di strutturazione di un campo organizzativo raggiunto il quale, per quanto le singole organizzazioni possano costantemente cercare di cambiare, l’effetto dei loro mutamenti procura legittimazione piuttosto che un effettivo miglioramento delle prestazioni (Mayer e Rowan, in Powell e Di Maggio 1991: 91). Se si considera lo standard come una strategia o come un obiettivo da perseguire, per legittimarsi all’interno di un campo organizzativo, si potrebbe pensare che l’utilizzo di standard può essere vantaggioso. Brunsson e Jacobsson (2000: 169-173), tuttavia, mostrano come l’utilizzo di standard può comportare sia dei vantaggi che degli svantaggi. L’utilizzo di standard, infatti, se da un lato rappresenta una forma di semplificazione che 7 Per un approfondimento sulle tipologie di isomorfismo vedi Il neo istituzionalismo nell’analisi organizzativa, Comunità (2000), pag 94 -111. 10 riduce le incertezze e le ambiguità tipiche di un’organizzazione facilitando i processi decisionali, dall’altro lato, comporta una riduzione del potere decisionale e della libertà d’azione, dovendo affidarsi a dei criteri imposti esternamente. Inoltre, la standardizzazione può sia facilitare la comunicazione con i diversi stakeholder, incentivando la fiducia e la sicurezza8, sia divenire un forte elemento coercitivo per il management, che per restare nel mercato non può far altro che adeguarsi agli standard richiesti dai differenti stakeholder. Lo standard è stato, inoltre, considerato come un modello di riferimento da seguire. In particolare, infatti, Virili (2003) sostiene che se ci manteniamo al significato più ampio e originario della parola standard, esso deve essere considerato come un modello di riferimento che abbia una visibilità oggettiva, che sia condiviso da coloro che lo adottano, riconosciuto anche all’esterno del gruppo che l’adotta e che sostanzialmente sia immutabile nel tempo. Pertanto, se ci manteniamo a tale significato lo standard può essere considerato come un modello di riferimento visibile, condiviso, riconosciuto e sostanzialmente immutabile. Brunsson e Jacobsson (2000: 4), tuttavia, sostengono che seppur ad un livello astratto e generale, uno standard “rappresenta una norma rispetto a cosa dovrebbe fare chi li adotta”, essi evidenziano che per osservare cosa sia effettivamente uno standard è necessario analizzarlo in pratica, nel suo manifestarsi in uno specifico contesto d'uso. Uno standard che ha una valenza globale, infatti, si traduce e acquisisce significato solo in un contesto d’uso locale (Brunsson e Jacobsson, 2000: 128). Per determinare come lo standard si esplica concretamente nella pratica del suo contesto d’uso è, quindi, necessario “seguire” lo standard (Brunsson e Jacobbsson, 2000: 127), individuando con questa metafora la possibilità di determinare le distanza tra ciò che lo standard detta e ciò che esso effettivamente fa ogni volta che esso viene messo in pratica. Pertanto è necessaria una traduzione dal contesto globale a quello locale. Nelle organizzazioni, infatti, il trasferimento e l’interpretazione di uno standard implica la contestualizzazione nel suo ambiente d’uso (Brunsson e Jacobsson, 2000) e, di conseguenza, una trasformazione dell’oggetto stesso (Gherardi e Lippi, 2000). E’ con tale particolare accezione che, in questo progetto, si vuole analizzare lo standard, inteso non come una conoscenza istituzionalizzata che produce degli effetti, né come una 8 Si pensi, ad esempio, alla fiducia che genera un’impresa che rispetta gli standard di qualità e che comunica la qualità dei propri processi produttivi, dei materiali utilizzati, ecc. 11 norma astratta e decontestualizzata a cui rifarsi, ma come la sua realizzazione quotidiana in uno specifico contesto d'uso. Dunque, definisco “standard-in-pratica” la reinterpretazione locale e situata di una norma astratta. 2.3: “Tradurre lo standard in pratica”: i Practice-based Studies Con la metafora “tradurre lo standard in pratica”, riprendendo quanto proposto da Gherardi e Lippi (2000) nel loro “Tradurre le riforme in pratica”, si fa riferimento al continuo processo di interpretazione e di contestualizzazione che avviene quando un’organizzazione decide di usufruire di uno standard. Per interpretare tale processo si fa ricorso alla prospettiva dei Practice-based Studies9 (Gherardi 2000, 2006). I Practice-based Studies (PBS) risultano fondamentali perché consentono di studiare la messa in pratica di uno standard in modo situato, all'interno di un network di azioni e di interazioni, focalizzando l'attenzione sul contesto lavorativo in cui lo standard viene performato e sulla conoscenza che viene prodotta e riprodotta localmente. Studiare uno standard in modo “situato” consente, infatti, di comprendere come esso sia tradotto, interpretato e applicato (o non applicato) nel suo contesto d’uso, piuttosto che analizzarlo dal punto di vista dei suoi promotori. I PBS considerano la realtà organizzativa non come un’entità statica o come un oggetto unitario, ma come un insieme di pratiche situate, costantemente ricostruite e riprodotte da un network di azioni. La partecipazione a pratiche situate può portare a considerare le azioni come un sistema che emerge in situ dalla dinamica delle interazioni. Il lavoro e l’attività organizzativa divengono, quindi, attività da realizzarsi attraverso un insieme di pratiche situate all’interno di uno specifico contesto di interazione. Una delle caratteristiche delle pratiche è, però, quella di essere sempre instabili, trasformative e dinamiche, cosa che genera destabilizzazione anziché stabilizzazione negli ambienti d’uso. Il contesto, in questa prospettiva, non viene più ad essere considerato mero “contenitore” 9 Sotto l’etichetta “Practice-based Studies” (PBS), convergono differenti tradizioni di ricerca, tra cui le ricerche sulla conoscenza e l'apprendimento organizzativo (Gherardi e Nicolini 2000), I workplace studies e più in generale gli studi sull’azione situata (Heath e Button 2002, Borziex e Conein 1994, Luff e Hindmarsch 2000), la tradizione dell’activity theory (Engenstrom 1987, Blackler 1999), gli studi sulla tecnologia come pratica sociale (Suchman 1999) ed infine quelli della costruzione sociale della tecnologia nell’Actor-network Theory (Law 1987, Callon 1992, Cooper e Law 1995, Hassard, 1999, Latour 1993). 12 dell’azione ma una situazione in cui si incontrano e si definiscono reciprocamente gli interessi degli attori e le opportunità dell’ambiente (Bruni e Gherardi 2007: 34). Nei processi lavorativi, quindi, acquisiscono fondamentale importanza le interazioni, il rapporto tra gli attori (umani e non umani), la costruzione delle situazioni, la comunicazione situata e soprattutto l’idea che questi elementi siano caratterizzanti di uno specifico contesto di interazione. Il lavoro è, quindi, analizzato come una continua interazione tra attori umani, oggetti, ambiente fisico e contesto situazionale. L’ambiente di lavoro, costituito anche da “artefatti” e oggetti, rappresenta di conseguenza una risorsa e una guida che facilita i compiti di chi vi lavora. Un ruolo determinante è, quindi, da attribuire agli “artefatti”, termine con il quale si fa riferimento sia agli oggetti fisici creati da una specifica cultura, sia alle forme comportamentali (modalità comunicative, riti e cerimonie), sia alle manifestazioni verbali (sia scritte che orali). Gli artefatti, in virtù di tale presupposto, risultano essere un’espressione “situata” di norme culturali, di valori e di assunti (Gherardi e Lippi, 2000: 26). E’ proprio nelle pratiche lavorative e organizzative che gli “artefatti” acquisiscono un valore specifico che dà loro senso e significato (Strati, 2004: 91). I differenti attori, inoltre, condividono un sapere pratico e situato che mettono in uso nelle pratiche lavorative ed organizzative, che si sviluppano dalle interazioni, acquisendo una conoscenza che si sedimenta nel contesto stesso. Il sapere, come suggerisce Strati (2004: 111), è distribuito nella ramificazione delle relazioni, non è localizzato nei singoli soggetti organizzativi, ed è grazie alle conoscenze che si apprendono e si mettono in uso nello svolgimento delle pratiche lavorative ed organizzative. Una dimensione fondamentale del sapere condiviso è rappresentata dalla conoscenza tacita, in cui il sapere è distribuito tra i vari attori ma è anche veicolato dagli artefatti che vengono utilizzati nello svolgimento delle attività pratiche. Per tale motivo per apprendere bisogna avere accesso e partecipare alla pratica. All'interno dei PBS, per interpretare il processo di traduzione e di contestualizzazione che avviene quando uno standard viene “traslato” in uno specifico contesto d’uso, si fa riferimento alla sociologia della traslazione o come è stata definita in seguito (Callon, 1980; Gherardi e Lippi, 2000; Law e Hassard, 1999) Actor-Network Theory. Tale approccio teorico è nato in Francia intorno agli anni 80, nell’ambito della sociologia della scienza e della tecnologia, con autori come Michel Callon e Bruno Latour, è stato successivamente elaborato nel mondo anglosassone da John Law. All’interno di tale approccio si utilizza il 13 concetto di “traslazione”10 per definire l’insieme dei processi di traduzione e di trasferimento che hanno luogo in uno specifico campo, in cui le entità acquisiscono forma e si caratterizzano solo in base alle relazioni che essi stabiliscono con altre entità. Gli attori sociali, in virtù di ciò, sono effetti di un network di relazioni sempre incerto tra diversi attori o “attanti” (termine che indica qualsiasi cosa o persona sia rappresentata nel network, sia essa umana sia essa non umana) (Latour, 1992). Alla base dell’ANT, come sostiene Law (1994), sono da evidenziare alcuni elementi caratterizzanti. L’ANT può essere, innanzitutto, considerata una sociologia modesta, sempre aperta (open-ended), ovvero caratterizzata dall’incompletezza, in cui è sempre possibile aggiungere qualcosa di nuovo. Questa immagine mette in evidenza il passaggio da un sapere generale ed universale all’interesse verso ciò che è specifico e locale. In secondo luogo l’ANT privilegia i processi di ordinamento sociale (social ordering), che si esprimono in allineamenti e arrangiamenti di materiali eterogenei. I processi dell’ordinare mettono insieme materiali eterogenei come persone, organizzazioni, macchine, società considerandoli sullo stesso piano. La radicalizzazione del principio di simmetria impone di considerare alla stessa stregua gli attori, o meglio gli attanti, indipendentemente dal fatto che essi siano umani (sociali) o non umani (naturali o tecnici) (Latour, 1992). Anche Lucy Suchman (2005) analizza il forte “potere di affiliazione” degli oggetti, utilizzato per descrivere la relazione dinamica di associazione (o non associazione) che caratterizza l’identificazione tra attori e oggetti. Suchman, in particolare sostiene che gli oggetti non possono essere considerati entità neutre, ma al contrario entità dense di significato per le relazioni che si stabiliscono all’interno dell’ambito organizzativo. Gli oggetti possono, infatti, creare affiliazione ma anche non essere scelti dagli attori umani. E’ possibile quindi identificare una “multiplicity of objects”, in cui sia gli attori umani che gli artefatti contribuiscono a creare una visione maggiormente complessa delle organizzazioni. Un terzo e fondamentale elemento è inoltre rappresentato dal materialismo relazionale (relational materialism), che mostra come il “non umano” sia fondamentale nei processi di ordinamento sociale e come la relazione tra umano e non umano è in continua e reciproca definizione. L’ANT considera come questi attori reticolari, attori rete per l’appunto, si 10 La parola traslation può essere tradotta in italiano sia con traslazione sia con traduzione; Latour (1987: 117) la utilizza sia nel significato linguistico, intesa come mettere in relazione una parola in una lingua con un’altra in un’altra lingua, sia nel significato geometrico, intesa come muovere da un posto a un altro. 14 costituiscano e si stabilizzino dando vita al sociale. Solo tramite un processo di “ingegneria eterogenea” (heterogeneous engineering), che rappresenta una rete di relazioni materialmente diverse, si può dare vita al sociale (Law, 1987). Tramite tale processo, in cui non vengono distinti gli attori umani dai non-umani, è quindi possibile studiare un’organizzazione, da interpretare come l’effetto delle combinazioni delle azioni dei vari elementi. “Seguendo” gli attori (Latour, 1987:15), siano essi umani o non umani, sarà possibile traslare e tradurre uno standard che ha una valenza universale in uno specifico contesto d’uso. Dopo aver analizzato il quadro teorico di riferimento, si ritiene opportuno approfondire il progetto di ricerca tramite una più specifica e dettagliata analisi del disegno di ricerca. 3. Il contesto empirico In questa sezione del lavoro illustrerò le caratteristiche del progetto empirico che intendo attuare. In primo luogo, riprenderò l’obiettivo e la domanda di ricerca; secondariamente illustrerò le caratteristiche principali dello standard che si intende “seguire”, specificando le motivazioni di tale scelta. Si illustrerà, infine, il “case study” e le successive fasi empiriche della ricerca, con i conseguenti strumenti di rilevazione dei dati. 3.1: Obiettivi e domanda di ricerca L’obiettivo della ricerca è rappresentato, così come evidenziato all’inizio di questo lavoro dall’analisi dei processi di traduzione in pratica della responsabilità sociale, per comprendere come essa sia traslata e re-interpretata in uno specifico contesto d’uso. Per poter studiare ciò, come già detto precedentemente, si utilizza come “lente” di lettura gli standard. La domanda che mi sono posta è, quindi, stata: “Come si traduce in pratica uno standard?”. Per poter rispondere a tale domanda “si seguirà” uno standard che rappresenta uno dei più importanti strumenti utilizzati dalle aziende per gestire e comunicare la responsabilità sociale. In base al framework teorico di riferimento è emerso che un ruolo determinante è da attribuire alle pratiche, ma dato che non è così facile definire un’immediata relazione tra le pratiche e lo standard, si è deciso di individuare degli obiettivi più specifici che possono contribuire a definire la domanda di ricerca 15 iniziale. Essi sono: • Definire i processi che nella pratica quotidiana gli attori umani e non-umani, mettono in atto per traslare e interpretare un determinato standard • Definire i processi che hanno contribuito a generare (o non generare) affiliazione tra gli attori e lo standard • Definire le pratiche d’uso quotidiano dello standard all’interno e all’esterno dell’organizzazione • Identificare i processi che contribuiscono “all’ancoraggio” (o al non ancoraggio) dello standard in uno specifico contesto d’uso Tali punti non sono da considerarsi tra loro slegati, ma strettamente interconnessi. Essi risulteranno fondamentali per poter giungere ad un quadro teorico più denso e “ricco di sfumature”. 3.2: Lo standard SA8000 Prima di procedere con una più attenta analisi del contesto empirico della ricerca è, tuttavia, necessario evidenziare quale standard nello specifico si intende “seguire” e le motivazioni di tale scelta. Tra i potenziali standard, in particolare, si è deciso di seguire proprio lo standard SA8000 per due differenti motivazioni. In primo luogo, la SA8000 rappresenta il primo standard diffuso a livello internazionale circa la responsabilità sociale di un’azienda. In secondo luogo, la SA8000 rappresenta proprio lo standard verso cui l’azienda, in cui si intende condurre l’indagine, ha orientato il processo di certificazione. Esso rappresenta, pertanto, un’ottima opportunità per analizzare un “work in progress”. Prima di proseguire è, tuttavia, necessario specificare le principali caratteristiche dello standard SA8000, per delineare l’ambito all’interno del quale ci si muove. Lo standard SA8000 (SA sta per Social Accountability) è stato emanato dalla Council on Economic Priorities Accreditation Agency (CEPAA), ente di accreditamento del Consiglio per le Priorità Economiche ed è stato aggiornato nel 2001 dalla Social Accountability International (SAI). Tale standard è applicabile volontariamente in aziende di qualsiasi dimensione e settore produttivo operanti in ogni area geografica. Attualmente l’unica 16 limitazione è rappresentata dal fatto che non può essere attuata nelle imprese di settore estrattivo e nelle attività lavorative svolte nella propria dimora, a causa della difficoltà e della complessità di effettuare le necessarie attività di monitoraggio. Essa prevede nove requisiti specifici di responsabilità sociale che riguardano i seguenti aspetti (Lepore e D’Alesio, 2004): • Lavoro infantile: in tal caso l’azienda che intende ottemperare alla norma e successivamente certificarsi, deve attenersi a comportamenti non solo caratterizzati da divieti, quale quello di utilizzare e dare sostegno all’utilizzo di lavoro infantile (che deve essere inteso come il lavoro prestato da un bambino di età inferiore ai 15 anni, a meno che la legislazione locale non stabilisca un’età differente), ma anche mettere in campo azioni di rimedio e comportamenti proattivi a sostegno della politica aziendale in materia; • Lavoro obbligato: per il quale si deve intendere “ogni lavoro o servizio ottenuto da una persona sotto minaccia di una qualsiasi penale e per il quale detta persona non si è offerta volontariamente”; • Condizioni di salute e di sicurezza dei lavoratori: in virtù delle quali l’organizzazione deve garantire un ambiente di lavoro sicuro e salutare con acqua potabile, servizi igienici, mense, alloggi e dormitori adeguati. Deve svolgere, inoltre, analisi e prevenzione dei rischi e formazione del personale; • Libertà di associazione e il diritto alla contrattazione collettiva: in tal caso la norma SA8000, prevede il rispetto dei lavoratori di riunirsi in associazioni, costituire sindacati e contrattare collettivamente, senza il timore di subire discriminazioni; • Discriminazioni dei lavoratori: poiché lo standard SA8000 deve garantire pari trattamento per assunzioni, retribuzioni, addestramento, promozioni, licenziamento e pensionamento. Inoltre, stabilisce la possibilità di soddisfare esigenze legate a sesso, religione, nazionalità, preferenze sessuali, appartenenza a sindacati o a partiti politici. Infine, deve provvedere l’eliminazioni di abusi gestuali, verbali, sessualmente costrittivi o minacciosi; • Procedure disciplinari: in questo punto la norma fa riferimento al fatto che “l’azienda non deve utilizzare o dare sostegno all’utilizzo di punizioni corporali, coercizione mentale o fisica, abuso mentale”; • Orario di lavoro: lo standard SA8000 stabilisce in tal caso che l’azienda deve 17 adeguarsi alla normativa prevista, nonché ai contratti di settore o d’area stipulati con le parti interessate e tuttavia esso prevede che, in presenza di contrattazione sfavorevole o con oneri eccessivamente onerosi per il lavoratore, l’azienda si attenga alle prescrizioni dello standard stesso che pone limiti definiti11 • Criteri retributivi: la norma stabilisce in quest’ottavo punto che la remunerazione deve corrispondere almeno agli standard legali minimi tale da soddisfare i bisogni primari con sufficiente margine discrezionale per il lavoratore. L’azienda deve inoltre eliminare le riduzioni dovute a cause disciplinari mentre deve garantire la regolarità nelle remunerazioni. A questi si aggiunge un nono criterio relativo all’adozione, da parte dell’azienda di un “sistema di gestione etico” che si configura come “l’insieme di azioni intraprese e di risorse coinvolte per realizzare nell’organizzazione la politica di responsabilità sociale” (Lepore e D’Alesio, 2004) . Tale sistema di gestione, ha la funzione di prevenire e risolvere ogni situazione che possa essere considerata lesiva nei confronti dei lavoratori. Esso suggerisce di utilizzare tecnologie e attrezzature appropriate per garantire un ambiente di lavoro salubre e sicuro, controllando le modalità operative, oltre che le proprie attività interne, anche quelle dei fornitori per assicurarsi che ci si adegui ai requisiti della norma. Inoltre, si ritengono fondamentali i flussi di informazioni sia interni, per monitorare costantemente la situazione ed eventualmente intervenire repentinamente, sia esterni per ascoltare i messaggi provenienti dai diversi stakeholder e per dichiarare l’impegno profuso nella tutela dei lavoratori. Infine, lo scopo del sistema di gestione etico è quello di migliorare continuamente le prestazioni sociali delle organizzazioni e prevenire qualunque forma di sfruttamento. A tal proposito è bene evidenziare che la norma SA8000, seppur sancisca comportamenti che per la maggior parte sono già stabiliti per legge, vuole garantire un sistema di responsabilità sociale che sia costantemente migliorato, che porti l’azienda ad impadronirsi di un comportamento virtuoso che sia in linea con la propria scelta valoriale. Le aziende che realizzano un sistema di responsabilità sociale hanno anche la possibilità di far certificare tale sistema da un organismo terzo indipendente. Ciò ovviamente comporta una serie di vantaggi da parte dell’organizzazione certificata, rappresentati dal 11 Si definisce un limite massimo di ore di lavoro ordinario, pari a 8 ore settimanali, con almeno un giorno di riposo ed un limite massimo di ore di lavoro straordinarie, 12 ore settimanali, adeguatamente retribuito. 18 miglioramento dell’immagine e della reputazione aziendale; dall’aumento della fiducia da parte dei consumatori e da un conseguente aumento della fidelizzazione. Un ulteriore vantaggio per coloro che decidono di certificarsi è rappresentato dalla riduzione dei costi della qualità, determinata dall’ottimizzazione dei processi produttivi ed, infine, dal miglioramento del clima organizzativo, poiché i lavoratori si sentono tutelati dall’organizzazione in cui lavorano e maggiormente coinvolti nel raggiungimento degli obiettivi. Gli organismi di certificazione abilitati a rilasciare il certificato di conformità alla norma SA8000 sono soltanto quelli accreditati dall’organizzazione SAI, che rappresenta l’unico ente di accreditamento a livello internazionale per la certificazione di tale standard. Il certificato di conformità alla SA8000 ha una durata triennale ma può essere ritirato se l’organismo di certificazione riscontri gravi non conformità durante le visite periodiche, che avvengono di solito con scadenza semestrale. Dopo aver analizzato per sommi capi le caratteristiche principali della norma si andrà nel prossimo paragrafo ad illustrare il contesto empirico in cui si intende condurre l’indagine. 3.3: La metodologia di ricerca: Il “case study” Dati gli obiettivi della ricerca appena evidenziati e comprese le caratteristiche dello standard che si intende “seguire” passerò adesso ad illustrare il campo empirico individuato per tale lavoro. La metodologia di ricerca di cui intendo avvalermi è rappresentata dal “case study” (Eisenhardt 1989; Yin 1994; Stake, 1995). Il case study non è una tecnica di raccolta dati, ma un approccio metodologico che si avvale di diverse tecniche di ricerca. Tale approccio può essere focalizzato su un singolo individuo, su un gruppo o su una comunità e può avvalersi di molteplici tecniche di raccolta dei dati come le interviste in profondità, l’osservazione partecipante e utilizzo di documenti. Il caso di studio individuato in cui si intende condurre l’indagine è costituito da uno specifico contesto organizzativo rappresentato dalla Sapa S.p.A di Bolzano. La scelta di condurre l’indagine in questo specifico contesto organizzativo è dovuta al fatto che la Sapa di Bolzano è un’azienda multiculturale in cui l’incontro tra culture differenti genera un campo empirico particolarmente ricco e denso di significato. Tale azienda, che rappresenta il leader mondiale tra le aziende che operano nel settore dell’alluminio, è formata da circa 140 impiegati di cui oltre il 30% è rappresentata da lavoratori stranieri. La Sapa, nata nel 19 1936 per la produzione di alluminio primario è stata successivamente convertita in uno stabilimento di estrusione. Un’altra caratteristica interessante di tale contesto organizzativo è che all’interno di essa gli impiegati sono quasi tutti uomini, mentre solo il 5% circa è rappresentato da donne. Dopo aver illustrato la metodologia d ricerca che si intende utilizzare si passerà adesso ad illustrare più nello specifico le fasi della ricerca. 3.4.: Le fasi della ricerca La prima fase del lavoro si può considerare già avviata, poiché è iniziata a Dicembre 2007 ed è stata finalizzata ad ottenere l’accesso al campo, garantendo alla ricercatrice la presenza per tutta la durata del progetto e ad effettuare un approfondimento del materiale bibliografico relativo alla responsabilità sociale, agli standard e ai Practice -based Studies. Tale lavoro, tuttavia, dovrà proseguire ulteriormente, poiché si ritiene necessario approfondire oltre che gli argomenti citati anche altri come lo studio degli artefatti e la cultura organizzativa. La seconda fase, che corrisponde all’operazione di raccolta dei dati, rappresenta anche la fase in cui si entra effettivamente a contatto con il campo. Tale fase è descritta più nel dettaglio, attraverso tre sezioni di lavoro, che illustrano più chiaramente gli obiettivi e gli strumenti della rilevazione. La prima sezione attualmente in progress, che va da Febbraio 2008 a Gennaio 2009, è finalizzata ad ottenere una descrizione del contesto organizzativo con particolare riferimento alle pratiche correnti che l’azienda mette in atto per iniziare un processo di gestione della responsabilità sociale. Tale sezione, può essere ricondotta alla metafora “Fotografare l’organizzazione”, con la quale si intende effettuare “una descrizione quanto mai nitida e dettagliata dell’organizzazione, di una rappresentazione assai fedele all’originale” (Strati, 2004: 101). Tale metafora vuole però essere considerata sia nella sua accezione statica, in cui l’organizzazione viene “fermata” in un momento temporale specifico, sia in quella più dinamica in cui si considerano il fluire delle azioni e delle pratiche quotidiane. Ciò, tuttavia, non va a modificare il principio di “rappresentazione” della realtà organizzativa. In tal sezione, quindi, la ricercatrice utilizzerà come strumenti di ricerca sia un 20 questionario con domande chiuse e domande aperte sia l’osservazione partecipante. La scelta del questionario con domande chiuse e domande aperte, uno strumento non prettamente qualitativo, è dovuta ad alcuni motivi specifici. Innanzitutto, così come ricordato precedentemente, oltre il 30% dei lavoratori in Sapa è composto da personale straniero, che risiede solo da poco tempo in Italia. A tal proposito è risultato necessario utilizzare uno strumento che facilitasse la comprensione linguistica e che offrisse all’intervistato già un ventaglio di risposte chiare e definite. Tuttavia, dato che questi lavoratori hanno competenze linguistiche alquanto eterogenee e che le risposte offerte non hanno un uguale significato per tutti (Corbetta, 1999: 190) e poiché in azienda sono presenti anche lavoratori italiani, si è deciso di inserire all’interno del questionario anche delle domande aperte in modo da cogliere le “sfumature” che con le domande chiuse non è possibile osservare. Una seconda motivazione all’utilizzo del questionario come strumento di rilevazione è rappresentata da altri due fattori tra loro strettamente connessi: la politica di coinvolgimento attuata dalla direzione dell’azienda ed il tempo di somministrazione per questionario. In particolare durante la fase di accesso al campo è stato richiesto che tutti i lavoratori potessero partecipare attivamente a questa fase e che la durata massima della somministrazione dovesse essere intorno ad un’ora, per evitare che il processo produttivo fosse interrotto. Per tale motivo si è deciso di effettuare la rilevazione tramite questionario su tutto il personale presente in azienda dedicando circa un’ora per lavoratore. Il questionario utilizzato è composto da 7 sezioni: dati socio-anagrafici di base, ambiente fisico di lavoro e servizi per il personale, carico di lavoro, i rapporti in Sapa: io e la mia squadra di lavoro, io e i colleghi delle altre squadre di lavoro, io e il mio superiore, le aspettative professionali. La rilevazione si sta effettuando tramite una modalità di rilevazione faccia a faccia, che ha garantito una più facile compilazione del questionario, soprattutto per coloro i quali non hanno facilità con i processi di scrittura nella lingua italiana. Rifacendomi agli studi di etnografia (Gobo, 2001) e in particolare all’etnografia organizzativa (Bruni, 2003), il secondo strumento di ricerca che intendo utilizzare è rappresentato dall’osservazione partecipante per studiare le dinamiche e le pratiche che in azienda sono utilizzate per iniziare un processo di gestione della responsabilità sociale. Si vogliono osservare, nello specifico, tutte le attività quotidiane che l’azienda mette in atto per gestire la sua responsabilità sociale, sia quelle più formalizzate come riunioni interne 21 ed esterne con l’ente di certificazione, sia le attività che in modo non formalizzato l’azienda produce quotidianamente, come riunioni informali svolte durante l’ora di pausa pranzo e le cene di lavoro. A tal proposito è utile ricordare che l’osservazione partecipante che si intende utilizzare mira a coinvolgere diversi aspetti della realtà organizzativa: gli attori umani e non umani, gli spazi, la struttura, le relazioni e attività formali ed informali. L’osservazione partecipante non verrà abbandonata nella prosecuzione del progetto, per garantire un’analisi sempre più accurata e ricca di dettagli. La seconda sezione di rilevazione dati, che va da Febbraio 2009 a Giugno 2009, è invece finalizzata ad analizzare le pratiche di gestione della fase di certificazione dello standard SA8000. L’osservazione partecipante, in tal caso, avrà come obiettivo quello di comprendere la messa in pratica dei processi utilizzati per gestire la certificazione etica. In particolare, si porrà attenzione ai processi in pratica messi in atto dagli attori organizzativi che porteranno l’azienda ad ottenere (o non ottenere) la certificazione allo standard SA8000. Sarà fondamentale a tal proposito individuare le diverse comunità che compongono l’organizzazione, definendo i valori, le credenze e le pratiche che le contraddistinguono. Fare osservazione partecipante risulta, in tale fase, fondamentale per comprendere a fondo i processi d’azione in base alla prospettiva degli stessi osservati. La terza sezione, che va da Luglio 2009 a Luglio 2010, è finalizzata a studiare i processi in pratica di gestione dello standard dopo la sua introduzione nel contesto organizzativo, osservando le trasformazioni delle pratiche correnti. In particolare all’interno di tale fase si vuole “seguire” lo standard inserito in azienda per vedere come esso nella pratica quotidiana sia stato o meno traslato e interpretato dagli attori umani e non-umani. Per usare le parole di Latour (1987: 15) potremmo dire che intendiamo “seguire gli attori e il senso delle loro azioni”. Attraverso l’osservazione partecipante sarà, quindi, necessario comprendere se si è generata affiliazione con lo standard, definire le sue pratiche d’uso quotidiano ed, infine, comprendere se e quali ricadute ha la messa in pratica di uno standard all’interno e all’esterno del contesto organizzativo. In questa sezione si utilizzerà anche un altro strumento di raccolta dati rappresentato dalle interviste in profondità (Cardano 2003, Silverman 2002) in cui l’intervistatrice si limiterà a definire i temi che intende sviluppare nel corso dell’intervista. L’intervistatrice, durante l’intervista, non imporrà alcun ordine nella trattazione dei temi che le interessano, ma li lascerà emergere spontaneamente in base al rilievo che essi hanno per l’intervistato. All’intervistato, invece, è lasciata ampia libertà di gestire la conversazione, approfondendo gli argomenti che gli 22 stanno più a cuore e che egli ritiene di maggiore importanza. Tale strumento di rilevazione è ritenuto valido in quanto concede ampia libertà ad intervistato e ad intervistatore, garantendo nello stesso tempo che tutti i temi che l’intervistato considera importanti siano ampiamente discussi. I temi delle interviste verranno definiti in base ai risultati e alle riflessioni che emergeranno nella seconda sezione del lavoro. La terza fase del progetto, infine, consiste nell’elaborazione e l’analisi dei dati raccolti. E’ tuttavia necessario sottolineare come questa fase non avverrà immediatamente dopo la fase successiva, ma parallelamente alla raccolta dati. L’analisi dei dati qualitativi potrà essere effettuata o manualmente o tramite il supporto di software. L’uso del computer per l’analisi elementare di un testo si è diffuso negli studi umanistici intorno agli anni sessanta, ed ha contribuito a dare una svolta positiva allo sviluppo della ricerca qualitativa. All’interno di tale progetto si è scelto di utilizzare un software, in virtù di una serie di vantaggi che possono essere accomunati ai diversi software esistenti di analisi qualitativa (N Vivo, Atlas Ti, Nud. Ist, Ethnograph): • velocità nel manipolare grandi quantità di dati, lasciando libero il ricercatore di esplorare svariate questioni analitiche; • miglioramento del rigore, compresa la documentazione del conteggio dei fenomeni e la ricerca dei casi devianti; • agevolazione della ricerca di gruppo, compreso lo sviluppo di schemi di classificazione coerenti; • aiuto nelle decisioni di campionamento, nella prospettiva della rappresentatività e dello sviluppo della teoria (Seale, 2002). Il processo di raccolta e di elaborazione dei dati mi condurrà alla formulazione di una teoria, che non avrà come obiettivo quello di essere generalizzata, ma quello di interpretare la traduzione in pratica della responsabilità sociale d’impresa. 23 4: Conclusioni Il presente progetto di ricerca è stato, quindi, strutturato approfondendo due sezioni di lavoro rappresentate dal framework teorico di riferimento e dal contesto empirico in cui si vuole condurre l’indagine. Nel framework teorico si è, dapprima, illustrato il tema della responsabilità sociale d’impresa (RSI o CSR), secondariamente gli studi sugli standard ed, infine, i Practicebased Studies. Nella descrizione del contesto empirico, invece, si sono illustrati la domanda e gli obiettivi della ricerca. Successivamente, si è descritto lo standard che si intende “seguire” e le motivazioni di tale scelta. Si è, infine, illustrato la metodologia del “case study” e le successive fasi della ricerca. Il framework teorico ed il progetto empirico illustrati risultano essere, quindi, gli elementi utili per studiare i processi di traduzione in pratica della responsabilità sociale, per analizzare come essa sia re-interpretata localmente. 24 5: Riferimenti bibliografici Ackerman R. e Bauer R. (1976), Corporate Social Responsiveness, Reston, Reston Publishing. Barnard C.I. (1938), The Functions of the Executive, Cambridge, Harvard University Press (trad.it. Le funzioni del dirigente, UTET, Torino 1970). Bowen H.R. (1953), Social responsibilities of the businessman, New York, Harper & Row. Bruni, A. (2003), Lo studio etnografico delle organizzazioni, Carocci, Roma. Bruni A. e Ghererdi S. (2007), Studiare le pratiche lavorative, Il Mulino Editore, Bologna. Brunsson N. e Jacobsson B. (2000) A world of standard, Oxford, Oxford University press Callon M. (1980), Struggles and negotiations to define what is problematic and what is not: the sociology of translation, in Knorr Cetina K, Krohn R., Whitley R., (a cura di), The Social Process of scientific investigation, Reidel, Boston, pp. 197-219. Capecchi V. (2005),La responsabilità sociale dell’impresa, Carocci, Roma. Cardano, M. (2003), Tecniche di ricerca qualitativa: Percorsi di ricerca nelle scienze sociali, Carocci, Roma. Carroll A.B. (1979), A Three-Dimensional Conceptual Model of Corporate Performance, Academy of Management Review, vol. 4, n° 4, 497-505. Carroll A.B. (1991), The pyramid of corporate social responsibility, in Business Horizons, n°34. CED - Committee for Economic Development (1971), Social Responsibilities of Business Corporations, New York, Committee for Economic Development. 25 Chirieleison C., (2004), L’evoluzione del concetto di corporate social responsibility, in Rusconi G., Dorigatti M., (a cura di), Franco Angeli Corbetta P. (1999), Metodologia e tecnica della ricerca sociale, Il Mulino Editore, Bologna. Czarniawska B. e Sévon G. (1996), Translating Organisational Change, Berlin, de Gruyter. Davis K. (1973), The case for and against business assumption of social responsibilities, in Academy of Management Jornal, n. 16. David P. A. e Greenstein S., (1990), The Economics of Compatibility Standards: An Introduction to Recent Research, The Economics of Innovations and New Technology (1:1/2), 3-41. Eisenhardt, K. M. (1989), Building Theories from Case Study Research, Academy of Management Review, 14, 4. Friedman M. (1962), Capitalism and freedom, Chicago, University of Chicago Press. Freeman R., (1984), Strategic Management a stakeholder approch, Pitnam, Marshfield, (tr. It. Martinelli A. (a cura di), Il modello comunità e impresa: stakeholders e responsabilità sociale, in Hinna L. (2005), Il bilancio sociale: teoria e pratica. Gherardi S. (2000), Practice-based theorizing on learning and knowing in organizations, in Organization v. 7, n. 2. Gherardi S. (2006), Organizational knowledge: The texture of workplace learning, Blackwell, Oxford. Gherardi S. e Lippi, (2000), Tradurre le riforme in pratica, Raffaello Cortina Editore. Gherardi S. e Nicolini D. (2004), Apprendimento e conoscenza nelle organizzazioni, Carocci, Roma. Gobo, G. (2001), Descrivere il mondo. Teoria e pratica del metodo etnografico in sociologia, Carocci, Roma. 26 Grindley P. (1995), Standard, Strategy and Policy, Cases and Stories, Oxford, Oxford University Press. Hinna L. (2004), Il bilancio sociale nelle amministrazioni pubbliche: Processi, strumenti strutture e valenze, Franco Angeli, Milano. Hinna L. (2005), Gli impatti organizzativi e gestionali dell’orientamento alla CSR delle aziende, in Paltrinieri R., Parmigiani M. L. (a cura di), Carocci, Roma. Joyner B.E. e Payne D. (2002), Evolution and Implementation: A Study of Values, Business Ethics and Corporate Social Responsibility, Journal of Business Ethics, 41, 297-311. Latour B. (1987), La scienza in azione, Tr. It. Edizioni di comunità, Torino 1992. Latour B. (1992) Where are the missing masses? Sociology of a few mundane Artefacts, in W.E. Bijker e J. Law (a cura di), Shaping Technology-Building Society: Studies in Sociotechnical Change, Cambridge, MA: MIT Press (trad. it: Dove sono le masse mancanti? Sociologia di alcuni oggetti di uso comune, Intersezioni, 13 (2), 1993). Law J., (1987),Technology and heterogeneous engineering: the case of the Portuguese expansion, in Bijker W. E. et al. (a cura di), The Social construction of technical system: New directions in the sociology and history of technology. The MIT Press, Cambridge, Mass, pp. 111134. Law J., (1994), Organizing Modernity, Blackwell, Oxford-Cambridge. Law J. e Hassard J. (a cura di) (1999) Actor Network Theory and After, Oxford: Blackwell. Lepore G. e D’Alesio M.V. (2004), La certificazione etica d’impresa: la norma SA8000 ed il quadro legislativo, Franco Angeli, Milano Mayer J. W. e Rowan B. (1997), Le organizzazioni istituzionalizzate. La struttura formale come 27 mito e cerimonia, in Powell WW, Di Maggio WJ (a cura di), Il neo istituzionalismo nell’analisi organizzativa, Comunità 2000. McGuire J.W. (1963), Business and society, McGrow-Hill, New York. Powell WW e Di Maggio WJ(eds), The new Istitutionalism in Organizational Analisys, Chicago and London, The University of Chicago press (tr. It. Il neo istituzionalismo nell’analisi organizzativa, Comunità 2000) Rossi P. (2008), Lo sviluppo della responsabilità sociale d’impresa tra routine e disclosure: due esperienze a confronto, in Studi organizzativi, n° 1. Rusconi G. e Dorigatti M. (2004), La responsabilità sociale d’impresa, Franco Angeli. Sacconi L. (1997), Economia Etica Organizzazione, Roma-Bari, Laterza. Sacconi L. (2002), Azione invisibile, effetto tangibile (Dobbiamo chiedere alle imprese di essere socialmente responsabili? E se sì, come?), ArcVision, vol. IV, n°8. Sacconi L. (2004), Guida critica alla responsabilità sociale e al governo d’impresa, Bancaria Editrice. Sachman L. (2005), Affiliative Object, in Organization, vol. 12 (3): 379-399. Scott R. W. (1995), Institutions and Organizations, London: Sage. Seale C., (2002), L’uso del computer nell’analisi dei dati qualitativi, in Silverman, D. (2002), Come fare ricerca qualitativa, Carocci, Roma (2000). Silverman D., Come fare ricerca qualitativa, Carocci, Roma 2002 Stake R. (1995) The art of case study, Thousand Oaks, CA: Sage Publications. 28 Strati A. (2003), Centralità della pratica nello studio dell'organizzazione e conoscenza sensibile, in Sociologia del lavoro, n. 93, pp. 119. Strati A. (2004), L'analisi organizzativa: paradigmi e metodi , Carocci, Roma. Virili, F., (2003) "Standard e Organizzazioni", in Quaderni del Dipartimento Impresa e Lavoro, Università di Cassino. Yin, R. K. (1994). Case Study Reasearch. Design and Methods. London and New Delhi: Sage. 29