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La traduzione in pratica della responsabilità sociale d`impresa

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La traduzione in pratica della responsabilità sociale d`impresa
Università degli Studi di Trento
Scuola di Dottorato in Sociologia e Ricerca Sociale
Indirizzo Information Systems and Organizations
XXIII ciclo
La traduzione in pratica della responsabilità sociale
d’impresa
Abstract
Scopo del presente lavoro è quello di indagare i processi di traduzione in pratica della responsabilità
sociale d’impresa, per analizzare come essa sia re-interpretata localmente. Il progetto vuole,
pertanto, fornire un’analisi accurata dei processi di traslazione che avvengono quando la
responsabilità sociale è trasferita in uno specifico contesto d’uso. Questo lavoro si colloca nel
framework teorico legato alla responsabilità sociale, agli studi sugli standard ed ai Practice-based
Studies. Nel presente progetto si illustra, infine, la metodologia di ricerca, rappresentata dal “case
study” e le fasi che strutturano il lavoro empirico.
Keywords: Responsabilità sociale d’impresa, standard, Practice-based Studies.
Laura Zamparelli
[email protected]
Indice
1. Introduzione
1
2. Framework teorico di riferimento
4
2.1: la responsabilità sociale d’impresa
2.1.2: L’evoluzione del concetto RSI
4
7
2.2: Gli standard
9
2.3: Tradurre lo standard in pratica: i Practice-based Studies
12
3. Il contesto empirico
15
3.1: L’obiettivo della ricerca
15
3.2: Lo standard SA8000
16
3.3: La metodologia di ricerca: il “case study”
20
3.4: Le fasi della ricerca
20
4. Conclusioni
24
5. Riferimenti bibliografici
26
1: Introduzione
Questo progetto si pone come obiettivo lo studio della traduzione in pratica della
responsabilità sociale d’impresa, per analizzare come essa sia re-interpretata localmente.
La “lente” attraverso cui si vuole studiare la responsabilità sociale in questo progetto è
rappresentata dagli standard, che rappresentano uno degli strumenti più importanti
utilizzati dalle aziende per gestire e comunicare la responsabilità sociale. L’utilizzo di
standard, infatti, garantisce la qualità dei processi messi in atto dal punto di vista sia
tecnico che etico (Hinna, 2005) e definisce il grado di responsabilità sociale messo in atto
da un’azienda.
L’intento di questo progetto è, quindi, quello di fornire un’analisi accurata dei processi di
traslazione che avvengono quando uno standard (“o artefatto”) viene trasferito in uno
specifico contesto d’uso. Ci si chiede, in particolare, quali siano i meccanismi che nella
pratica quotidiana gli attori, umani e non-umani, mettano in atto per traslare e interpretare
uno standard, che è espressione di una norma universale. Gli standard, infatti, così come
gli altri strumenti che orientano alla responsabilità sociale, possono essere considerati solo
come una “linea guida” universale attraverso la quale impiantare un percorso individuale
ed originale. Gli standard, infatti, sono generali e astratti mentre solo la pratica è specifica
(Brunsson e Jacobsson, 2000: 129).
L’intento di questo progetto, tuttavia, non è quello di evidenziare la discrasia esistente tra
“lo standard in teoria” (costituito da una norma e dalla sua legislazione che evidenzia
regole e procedure da utilizzare) e l’applicazione (o la non applicazione) dello standard in
pratica, bensì quello di evidenziare come uno standard viene traslato e tradotto ogni volta
che è in uso in uno specifico contesto organizzativo. Si propone, quindi, di analizzare la
responsabilità sociale non come espressione di un contesto d’azione globale ma in base a
come essa viene tradotta nelle pratiche quotidiane in un contesto d’uso locale.
Il lavoro che si sta per presentare è strutturato in due sezioni, non da considerarsi separate
ma strettamente interconnesse. La prima è rappresentata dall’illustrazione del framework
teorico di riferimento e la seconda dalla descrizione del contesto empirico in cui si vuole
condurre l’indagine.
Nello specifico, la letteratura a cui si fa riferimento considera ed approfondisce il tema
della responsabilità sociale d’impresa (abbreviato con l’acronimo RSI o CSR dalla più nota
1
accezione anglosassone “Corporate Social Responsibility”), gli studi sugli standard ed, infine,
i Practice-based studies
Il tema della responsabilità sociale d’impresa sarà, quindi, analizzato per primo. Tale tema
ha suscitato un interesse sempre crescente nei dibattiti accademici, imprenditoriali ed
istituzionali. La crescente attenzione rivolta alla RSI, ha comportato conseguentemente
anche un aumento delle interpretazioni rispetto a cosa debba intendersi con questo
termine, acquisendo differenti accezioni nelle diverse impostazioni teoriche e aree
disciplinari. La ricchezza, sia teorica che empirica, di questi contributi ed il loro carattere
pluridisciplinare,
hanno
tuttavia
aumentato
anziché
ridurre
la
complessità
dell’argomento, generando una moltitudine di nozioni e prospettive analitiche. Negli
ultimi anni anche le pratiche e gli strumenti utilizzati dalle organizzazioni per gestire e
comunicare la responsabilità sociale sono aumentati in modo esponenziale.
L’orientamento gestionale alla RSI richiede, tuttavia, l’adozione di una serie di strumenti
tra cui l’utilizzo di standard, che garantiscano la qualità dei processi messi in atto dalle
organizzazioni e facilitino la comunicazione con i diversi stakeholder (Hinna, 2005).
Anche comprendere il concetto di standard, di conseguenza, risulta fondamentale ai fini
della nostra trattazione, poiché, così come quello di responsabilità sociale, non è facilmente
definibile. Esso, infatti, può essere considerato un concetto polisemico, a causa dei
differenti significati che ha acquisito nella letteratura e a causa del fatto che esso acquisisce
una sua identità solo dopo che è stato re-interpretato in uno specifico contesto d’uso.
All’interno di questo progetto, tuttavia, non si vuole analizzare lo standard come una
conoscenza istituzionalizzata che produce effetti, né come una norma astratta e
decontestualizzata a cui rifarsi, ma come la sua realizzazione quotidiana in uno specifico
contesto d'uso. Dunque, ciò che si vuole studiare è lo “standard-in-pratica”, inteso come la
re-interpretazione locale e situata di una norma astratta.
E’ per tale ragione che si fa riferimento allo studio sulle pratiche che considera
l’organizzazione non come un’entità statica ma come un insieme di pratiche “situate”,
all'interno di un network di azioni e di interazioni, focalizzando l'attenzione sul contesto
lavorativo in cui lo standard viene performato e sulla conoscenza che viene prodotta e
riprodotta localmente.
La seconda sezione del lavoro è rappresentata dall’illustrazione del contesto empirico in
cui si vuole condurre l’indagine.
2
Lo studio verrà condotto attraverso la metodologia del “case study” (Eisenhardt 1989; Yin
1994; Stake, 1995), un approccio che si avvale di diverse tecniche di raccolta dati. Il caso di
studio individuato in cui si intende condurre l’indagine è costituito da uno specifico
contesto organizzativo, rappresentato dalla Sapa S.pA. di Bolzano, azienda che opera nel
settore dell’estrusione dell’alluminio, che intende certificarsi allo standard SA8000. Lo
standard SA8000, primo standard diffuso a livello internazionale circa la responsabilità
sociale, è applicabile volontariamente in aziende di qualsiasi dimensione e settore
produttivo operanti in ogni area geografica per valutare se esse ottemperano ad alcuni
requisiti minimi in termini di diritti umani e sociali. Attualmente l’unica restrizione è
rappresentata dal fatto che esso non può essere applicato nelle imprese di settore estrattivo
e nelle attività lavorative svolte nella propria dimora. La scelta del “case study” in tale
circostanza si ritiene valida, in quanto è proprio in tale contesto organizzativo che è
possibile studiare come uno standard che ha valenza generale sia traslato in un contesto
d’uso locale. Lo standard SA8000 può essere, infatti, considerato in Sapa un ottimo
“artefatto” in base al quale studiare come nella pratica quotidiana uno standard possa
essere (o non essere) utilizzato, come esso sia “ancorato” (o non ancorato) al contesto
organizzativo e quali pratiche quotidiane vengono utilizzate all’interno e all’esterno
dell’organizzazione per gestirlo.
Dopo questa breve introduzione si passerà, quindi, ad illustrare prima la sezione teorica,
rappresentata dall’analisi del framework teorico di riferimento, caratterizzato come detto
poc’anzi dalla responsabilità sociale (par 2.1), dagli standard (par. 2.2) ed infine dai
Practice-based Studies (par 2.3).
Si proseguirà poi con la descrizione del contesto empirico della ricerca, dove saranno
illustrate, innanzitutto, la domanda e gli obiettivi di ricerca (par. 3.1). In secondo luogo
(par. 3.2), verrà esplicitato quale standard si intende “seguire” e le motivazioni di tale
scelta. Si illustrerà, infine, il “case study” (par. 3.3) e le relative fasi della ricerca (par. 3.4).
3
2. Framework teorico di riferimento
In questa prima sezione del lavoro si analizza, come accennato nell’introduzione, il
framework teorico di riferimento. In primo luogo, si approfondirà il tema e le conseguenti
teorie relative alla responsabilità sociale. Successivamente, si proporrà un’analisi del
concetto di standard ed, infine, si specificherà il significato della metafora “tradurre lo
standard in pratica” facendo, appunto, riferimento ai Practice-based Studies.
2.1.1: la responsabilità sociale d’impresa
Differenti sono gli autori (Carroll, 1979; Joyner e Payne, 2002; Chirieleison 2004)1 che
hanno tentato di identificare l’evoluzione storica del concetto di responsabilità sociale
d’impresa, individuando a parer loro le principali interpretazioni e le differenti teorie
attinenti al tema della RSI.
Carroll (1979) e Chirieleison (2004), fanno risalire il primo considerevole contributo al
tema ad Howard Bowen (1953), che nel testo Social Responsibilities of the Businessman, dà
una definizione di responsabilità sociale riferita al “businessman” (solo in un secondo
momento si inizierà a parlare di “corporate”social responsibility). Tale apporto risulta
considerevole in quanto, sebbene ancora focalizzato sulla responsabilità individuale dei
manager piuttosto che sulla responsabilità dell’impresa nel suo complesso, riconosce le
imprese come centri vitali di potere, evidenziando come le loro azioni siano in grado di
condizionare la vita della società. In particolare l’autore dà una prima definizione di
responsabilità sociale vista come:“Il dovere di perseguire quelle politiche, prendere quelle
decisioni, o seguire quelle linee di condotta che sono desiderabili in funzione degli obiettivi e dei
valori riconosciuti dalla società”2.
In base a tale definizione risulta chiaro come inizialmente, il dibattito scientifico si
concentra sulla responsabilità sociale dei “businessmen”, a cui si riconosce, quindi, la
capacità di incidere sul contesto ambientale, avendo obblighi sociali che vanno oltre la
funzione di produzione, l’ottenimento di un profitto e la distribuzione di beni e servizi.
1
Sull’evoluzione storica della letteratura in tema di responsabilità sociale si vedano, tra gli altri, Mitnick (1995),
Swanson (1995), Frederick (1994), Wood (1991), Rusconi (1997), Di Toro (1993).
2
“It refers to the obligations of businessman to pursue those policies, to make those decisions, or to follow those lines
of action which are desirable in terms of the objectives and values of our society”, Bowen H. (1953), p.6.
4
Secondo Joyner e Payne (2002), invece, il primo autore che sottolinea il ruolo sociale delle
imprese è Chester Barnard (1938) che, nel testo The Functions of the Executive, evidenzia
l’importanza e l’influenza che l’ambiente esterno può avere sui processi decisionali di cui
il dirigente di un’impresa è responsabile. In particolare, Barnard sostiene che colui che
esercita
la
leadership
deve
necessariamente
considerare
che
il
successo
di
un’organizzazione dipende anche dagli incentivi dotati di valore morale che egli è in
grado di offrire.
Nel decennio tra il 1960 e il 1970, periodo nel quale si afferma definitivamente la locuzione
“Corporate social responsibility”, si assiste ad una svolta nel dibattito sul tema della
responsabilità sociale, la quale può essere ricondotta alle due posizioni contrapposte
rappresentate da Friedman (1962), che considera la massimizzazione del profitto quale
unico dovere dei manager e dell’impresa e che discute l’efficacia di una regolamentazione
sociale imposta dallo Stato3, e quella condivisa da Davis, Frederick e McGuire, i quali
riconoscono ad un’impresa responsabilità più ampie di quelle economiche e di quelle
stabilite dalla legge4.
Solo verso la fine degli anni 60, così come segnala Chierieleison (2004), Walton evidenzia
che la responsabilità sociale deve essere considerata come un processo di attuazione
volontario, e non coercitivo, da parte del manager e dell’impresa. In questi anni i
contributi al concetto di RSI iniziano ad aumentare notevolmente così come, a causa della
vaghezza del concetto, i modelli interpretativi che analizzano da prospettive differenti il
tema della responsabilità sociale d’impresa. Diversi sono gli autori che, per cercare di
circoscrivere l’ambito di interesse della RSI, tentano di individuare i comportamenti che
un’impresa deve possedere per poter essere considerata socialmente responsabile.
Davis (1973), ad esempio, analizza le ragioni pro e contro l’assunzione di responsabilità
sociale, sostenendo che la RSI comincia dove finisce la legge. Viene quindi, evidenziato
3 Friedman in Capitalism and freedom (1962: 133) sostiene: “Few trends could so thoroughly undermine the very
foundation of our free society as the acceptance by corporate officials of a social responsibility other then to make as
mach money for their stockholders as possible”, Nella visione di Friedman, pertanto, si afferma il primato della sfera
economica, visto quale unico dovere dei manager e dell’impresa.
4
Frederick (1994: 60) sostiene infatti: “The fundamental idea embedded in “corporate social responsibility” is that
business corporations have an obligation to work for social betterment.” , mentre Mc Guire (1963: 144) sostiene: “The
idea of social responsibility supposes that the corporation has not only economic and legal obligations, but also certain
responsibilities to society which extend beyond these obligations”.
5
con forza l’elemento volontaristico di un’azienda che non può essere considerata
socialmente responsabile se si attiene solo a quanto previsto dalla normativa. In tale
contesto si inserisce l’innovativo pensiero di Carroll (1979), che in “A three-dimensional
conceptual model of social performance”, riconosce che l’impresa ha differenti responsabilità,
rappresentate da quelle economiche, giuridiche, etiche ed infine discrezionali.
Successivamente Carroll (1991), chiarirà che questi quattro tipi di responsabilità devono
essere considerati in senso gerarchico di importanza, collocandoli nella “piramide delle
responsabilità sociali di un’impresa”, alla base della quale colloca la responsabilità
economica, per sottolineare la preminenza della funzione economica sulle altre, mentre al
vertice è situata la responsabilità discrezionale, riguardante le attività puramente
discrezionali compiute a favore della comunità. L’orientamento sociale di un’impresa può
essere compreso, quindi, considerando l’importanza che viene data alle tre componenti
“non economiche” di responsabilità.
In questo periodo, quindi, un’attenzione sempre crescente è data al contesto socioculturale di riferimento, che diviene essenziale per definire i compiti delle imprese.
Fondamentale appare a tal proposito il rapporto del Committee for Economic
Development (CED) del 1971, in cui viene evidenziato come le imprese devono assumersi
responsabilità maggiori rispetto a quelle assunte fino a quel momento. Il CED, all’interno
di tale rapporto, identifica l’approccio dei “tre cerchi concentrici”, della responsabilità
delle imprese. Il cerchio più interno, include la responsabilità primaria dell’azienda, ossia
la crescita economica dell’azienda, il cerchio intermedio include tutti quegli elementi che
possono stimolare la sensibilità verso i valori o le priorità sociali, mentre il cerchio più
esterno, infine, include la disponibilità dell’impresa ad assumersi responsabilità più ampie
verso la società.
Ackerman e Bauer (1976), infine, ampliando ancor di più la portata concettuale del
termine, sostengono che la responsabilità sociale d’impresa deve mirare ad anticipare e a
rispondere ai bisogni sociali. Gli autori, in particolare, parlano di “corporate social
responsiveness” (traducibile come “sensibilità al sociale da parte dell’impresa”), per
indicare la capacità di agire nel senso auspicato dalla società.
Nonostante questi primi tentativi definitori il concetto di responsabilità sociale resta
ancora controverso, vago e ricco di sfumature.
6
2.1.2: L’evoluzione del concetto RSI
Nella letteratura sul tema responsabilità sociale risulta frequente l’associazione tra il
concetto di stakeholders e la RSI. E’ tuttavia necessario evidenziare come in realtà i due
ambiti non abbiano origine comune e non siano tra loro coincidenti.
La prima teoria organica sugli stakeholders (che potremmo tradurre come portatore
d’interesse), viene introdotta nella letteratura grazie al contributo di Freeman (1984), che
distingue gli stakeholders in senso stretto (o primari), rappresentati da: “tutti quegli
individui e gruppi ben identificati da cui l’impresa dipende per la sua sopravvivenza: azionisti,
dipendenti, clienti, fornitori, e agenzie governative chiare”, dagli stakeholders in senso ampio
(o secondari): “ogni individuo ben identificabile che può influenzare o essere influenzato
dall’attività dell’organizzazione in termini di prodotti, politiche, e processi lavorativi: […] i gruppi
di interesse pubblico, i movimenti di protesta, la comunità locali, gli enti di governo, le associazioni
imprenditoriali, i concorrenti sindacati e la stampa” (Freeman in Hinna L., 2005: 405).
In questo contesto si sviluppa, quindi, sempre più la necessità di coniugare gli interessi e i
desideri dei vari stakeholder con le esigenze dell’azienda. Tale esigenza, incorporata nel
concetto di“corporate social performance” (CSP), produce un nuova prospettiva dalla quale
guardare la responsabilità sociale, in cui la RSI inizia ad essere considerata più come un
processo che come un risultato da ottenere una volta per tutte.
La gestione delle relazioni con una pluralità di stakeholder può, infatti, come sostiene
Freeman, essere considerata come
una
strategia da utilizzare per sviluppare
l’organizzazione all’interno del proprio contesto socio-culturale.
La distinzione effettuata da Freeeman è stata, però, messa in discussione in quanto troppo
ampia e non idonea a sviluppare una distinzione tra chi dovesse effettivamente essere
considerato uno stakeholder.
classificazione,
Per tale motivo alcuni autori hanno individuato una
una “mappa degli stakeholder”, per poter definire con maggiore
accuratezza quali interlocutori possano essere coinvolti nelle decisioni riguardanti le
conduzioni dell’azienda.
Il concetto di responsabilità sociale delle imprese, negli ultimi anni, è stato considerato
oltre che un modello di gestione strategica, anche un modello di “governance allargata”. A
riguardo, è significativo il contributo di Sacconi (1997; 2002; 2004), il quale considera la RSI
come: “un modello di governance allargata dell’impresa in base al quale chi governa l’impresa ha
7
responsabilità che si estendono dall’osservanza dei doveri fiduciari nei riguardi della proprietà ad
analoghi doveri fiduciari nei riguardi in generale di tutti gli stakeholder” (Sacconi in Rusconi e
Dorigatti, 2004: 91).
Sacconi quindi, in tale definizione, evidenzia come la responsabilità sociale deve essere
considerata come una “governance allargata”5 – “in grado di conciliare gli interessi delle varie
parti interessate nell’ambito di un approccio globale della qualità e dello sviluppo sostenibile” - e
che deve essere basata su “doveri fiduciari”, nei confronti di molteplici stakeholder, intesi
come “il dovere di impiegare un’autorità per il bene di soggetti che concedono e quindi
soggiacciono a tale autorità” (Sacconi in Rusconi G. e Dorigatti M. 2004: 113).
Il tema della RSI, nonostante non possa essere considerato ben chiaro e definito, è
divenuto sempre più attuale, infatti, alle imprese viene in modo sempre crescente richiesto
di prendere una posizione rispetto alla propria responsabilità sociale. Oggi infatti, come
sostiene Hinna (2005), la gestione della responsabilità sociale va configurandosi come una
“condizione necessaria”per restare sul mercato, non più come una mera opzione eticoculturale ma come “perno” su cui far ruotare e ri-orientare la gestione aziendale.
Lo scenario attuale, tuttavia, sembra essere ancora in mutamento, poiché si evidenzia un
possibile svuotamento di senso della CSR (Capecchi, 2005), che rischia di tramutarsi in
mera routine organizzativa, perdendo il suo significato originale. A tal proposito, invece,
Rossi (2008), propone dei percorsi di disclosure organizzativa, intendendo con tale
espressione “un processo di trasparenza e apertura dell’organizzazione verso gli stakeholder che
preveda il loro coinvolgimento (nella forma della consultazione e/o della partecipazione) nella
definizione delle stesse strategie di CSR”.
Tra i vari strumenti che contribuiscono alla gestione della RSI, uno dei più importanti per
le aziende è l’utilizzo di standard, che garantiscono la qualità dei processi messi in atto
dalle organizzazioni dal punto di vista sia tecnico che etico (Hinna, 2005)6.
Lo standard all’interno di tale progetto diventa, pertanto, la “lente” di lettura attraverso la
quale si vuole studiare la CRS, per comprendere come essa sia re-interpretata localmente.
5
Sacconi riprende il concetto di “governance allargata” dal “Libro verde” della Commissione europea (2001)
6
Per un approfondimento sui strumenti per gestione l’orientamento alla CSR vedi Hinna (2004),Il bilancio sociale nelle
amministrazioni pubbliche, Franco Angeli, Milano. e Sacconi L. (2005) Guida critica alla responsabilità sociale e al
governo d’impresa.
8
Ma cosa si intende precisamente per standard? Come nasce uno standard? Ed infine quali
sono i vantaggi (o gli svantaggi) nell’utilizzare uno standard?
Per rispondere a queste domande è necessario un approfondimento rispetto a tale
concetto.
2.2 Gli standard
Anche il concetto di standard, così come quello di responsabilità sociale, non appare così
semplice da definire. Ciò è dovuto al fatto che il termine standard (derivante dal francese
estendard che significa stendardo, bandiera, insegna) ha acquisito diverse accezioni
utilizzate in più aree disciplinari, quali l’economica, la sociologica, la tecnologica e l’area di
studi organizzativi. Il termine standard può, infatti, essere considerato polisemico a causa
dei differenti significati che ha acquisito nella letteratura e a causa del fatto che esso
assume una sua identità solo dopo che è stato re-interpretato localmente.
Nelle differenti definizioni che ne sono state date, tuttavia, risultano emergere alcuni
aspetti fondamentali. In primo luogo è possibile riscontrare come ad uno standard si
aderisce in forma volontaria e non come un’imposizione ed in secondo luogo che
l’adesione ad uno standard presuppone l’utilizzo di standard evidentemente già prodotti
da “altri”. Ma chi è da considerarsi un promotore effettivo di uno standard?
Brunsson e Jacobsson sostengono che i promotori degli standard possono essere
considerati, in primo luogo, le organizzazioni private come l’American Nation Standards
Institute (ANSI) o il British Standard Institute (BSI), e secondariamente le organizzazioni
internazionali non governative come la International Chamber of commerce (ICC) o
l’International Committee on Bird Protection (ICBP). Anche le persone private, come i
ricercatori
o
gli
scienziati,
possono
essere
considerati
“standardizers”,
poiché
contribuiscono alla creazione di standard che poi devono essere mantenuti e
salvaguardati. Infine, promuovono standard anche gli enti pubblici, come i governi o
come le organizzazioni governative internazionali come l’UNESCO, l’EU o l’OECD.
Il fatto che esistano degli standard e degli enti che li promuovano, tuttavia, non dà la
certezza che questi siano effettivamente utilizzati, né che tutte le organizzazioni li
considerino e li utilizzino allo stesso modo.
Gli standard possono, infatti, essere considerati una strategia (Grindley, 1995) che
un’azienda produttrice può utilizzare per ottenere un vantaggio competitivo sul mercato.
9
L’azienda, in base a tale presupposto, ha necessità di stabilire delle regole precise per il
sistema tecnico-produttivo e quindi degli standard a cui riferirsi, che costituiscano un
riferimento intorno al quale le oscillazioni devono essere ridotte al minimo, per evitare di
allontanarsi da ciò che è ritenuto ottimale. Ogni prodotto è così identificabile ed
interpretabile in modo univoco dai fruitori presenti nel mercato. Se il prodotto avrà
successo l’azienda avrà, ovviamente, un vantaggio competitivo sulle altre aziende
produttrici. In base a tale prospettiva lo standard può essere considerato “un set di
specifiche tecniche al quale aderisce un produttore, tacitamente o come risultato di un accordo
formale (David e Greenstein 1990: 4).
Lo standard può essere considerato, oltre che una strategia, anche un obiettivo da
perseguire, per creare legittimazione all’interno di un “campo organizzativo”.
Una delle teorie che considera ciò è sicuramente rappresentata dal neo-istituzionalismo
(Powell e Di Maggio, 1991; Scott, 1995; Czarniawska e Sevon,1996), che cerca di spiegare
perché vi è una così sorprendente omogeneità di forme e di pratiche organizzative,
all’interno dei “campi organizzativi”, che possono essere definiti come: “un insieme di
organizzazioni che, considerate complessivamente, costituiscono un’area riconosciuta di vita
istituzionale: fornitori-chiave, consumatori di risorse e prodotti, agenzie di controllo ed altre
organizzazioni che producono servizi o processi simili” (Powell e Di Maggio, 1991: 90).
L’ipotesi, inoltre, avanzata da Powell e Di Maggio (1991) è che una volta che le diverse
organizzazioni operanti in una medesima sfera di attività giungono a strutturarsi in un
campo effettivo, si genera un insieme di forze che le inducono a diventare sempre più
simili le une alle altre. Vi sarebbe cioè una naturale tendenza all’isomorfismo7. Esiste,
dunque, un certo stadio del processo di strutturazione di un campo organizzativo
raggiunto il quale, per quanto le singole organizzazioni possano costantemente cercare di
cambiare, l’effetto dei loro mutamenti procura legittimazione piuttosto che un effettivo
miglioramento delle prestazioni (Mayer e Rowan, in Powell e Di Maggio 1991: 91).
Se si considera lo standard come una strategia o come un obiettivo da perseguire, per
legittimarsi all’interno di un campo organizzativo, si potrebbe pensare che l’utilizzo di
standard può essere vantaggioso. Brunsson e Jacobsson (2000: 169-173), tuttavia, mostrano
come l’utilizzo di standard può comportare sia dei vantaggi che degli svantaggi.
L’utilizzo di standard, infatti, se da un lato rappresenta una forma di semplificazione che
7
Per un approfondimento sulle tipologie di isomorfismo vedi Il neo istituzionalismo nell’analisi organizzativa,
Comunità (2000), pag 94 -111.
10
riduce le incertezze e le ambiguità tipiche di un’organizzazione facilitando i processi
decisionali, dall’altro lato, comporta una riduzione del potere decisionale e della libertà
d’azione,
dovendo
affidarsi
a
dei
criteri
imposti
esternamente.
Inoltre,
la
standardizzazione può sia facilitare la comunicazione con i diversi stakeholder,
incentivando la fiducia e la sicurezza8, sia divenire un forte elemento coercitivo per il
management, che per restare nel mercato non può far altro che adeguarsi agli standard
richiesti dai differenti stakeholder.
Lo standard è stato, inoltre, considerato come un modello di riferimento da seguire. In
particolare, infatti, Virili (2003) sostiene che se ci manteniamo al significato più ampio e
originario della parola standard, esso deve essere considerato come un modello di
riferimento che abbia una visibilità oggettiva, che sia condiviso da coloro che lo adottano,
riconosciuto anche all’esterno del gruppo che l’adotta e che sostanzialmente sia
immutabile nel tempo. Pertanto, se ci manteniamo a tale significato lo standard può essere
considerato come un modello di riferimento visibile, condiviso, riconosciuto e
sostanzialmente immutabile.
Brunsson e Jacobsson (2000: 4), tuttavia, sostengono che seppur ad un livello astratto e
generale, uno standard “rappresenta una norma rispetto a cosa dovrebbe fare chi li adotta”, essi
evidenziano che per osservare cosa sia effettivamente uno standard è necessario
analizzarlo in pratica, nel suo manifestarsi in uno specifico contesto d'uso.
Uno standard che ha una valenza globale, infatti, si traduce e acquisisce significato solo in
un contesto d’uso locale (Brunsson e Jacobsson, 2000: 128). Per determinare come lo
standard si esplica concretamente nella pratica del suo contesto d’uso è, quindi, necessario
“seguire” lo standard (Brunsson e Jacobbsson, 2000: 127), individuando con questa
metafora la possibilità di determinare le distanza tra ciò che lo standard detta e ciò che
esso effettivamente fa ogni volta che esso viene messo in pratica. Pertanto è necessaria una
traduzione dal contesto globale a quello locale.
Nelle organizzazioni, infatti, il trasferimento e l’interpretazione di uno standard implica la
contestualizzazione nel suo ambiente d’uso (Brunsson e Jacobsson, 2000) e, di
conseguenza, una trasformazione dell’oggetto stesso (Gherardi e Lippi, 2000).
E’ con tale particolare accezione che, in questo progetto, si vuole analizzare lo standard,
inteso non come una conoscenza istituzionalizzata che produce degli effetti, né come una
8
Si pensi, ad esempio, alla fiducia che genera un’impresa che rispetta gli standard di qualità e che comunica la
qualità dei propri processi produttivi, dei materiali utilizzati, ecc.
11
norma astratta e decontestualizzata a cui rifarsi, ma come la sua realizzazione quotidiana
in uno specifico contesto d'uso. Dunque, definisco “standard-in-pratica” la reinterpretazione locale e situata di una norma astratta.
2.3: “Tradurre lo standard in pratica”: i Practice-based Studies
Con la metafora “tradurre lo standard in pratica”, riprendendo quanto proposto da
Gherardi e Lippi (2000) nel loro “Tradurre le riforme in pratica”, si fa riferimento al
continuo processo di interpretazione e di contestualizzazione che avviene quando
un’organizzazione decide di usufruire di uno standard. Per interpretare tale processo si fa
ricorso alla prospettiva dei Practice-based Studies9 (Gherardi 2000, 2006).
I Practice-based Studies (PBS) risultano fondamentali perché consentono di studiare la
messa in pratica di uno standard in modo situato, all'interno di un network di azioni e di
interazioni, focalizzando l'attenzione sul contesto lavorativo in cui lo standard viene
performato e sulla conoscenza che viene prodotta e riprodotta localmente.
Studiare uno standard in modo “situato” consente, infatti, di comprendere come esso sia
tradotto, interpretato e applicato (o non applicato) nel suo contesto d’uso, piuttosto che
analizzarlo dal punto di vista dei suoi promotori.
I PBS considerano la realtà organizzativa non come un’entità statica o come un oggetto
unitario, ma come un insieme di pratiche situate, costantemente ricostruite e riprodotte da
un network di azioni. La partecipazione a pratiche situate può portare a considerare le
azioni come un sistema che emerge in situ dalla dinamica delle interazioni. Il lavoro e
l’attività organizzativa divengono, quindi, attività da realizzarsi attraverso un insieme di
pratiche situate all’interno di uno specifico contesto di interazione. Una delle
caratteristiche delle pratiche è, però, quella di essere sempre instabili, trasformative e
dinamiche, cosa che genera destabilizzazione anziché stabilizzazione negli ambienti d’uso.
Il contesto, in questa prospettiva, non viene più ad essere considerato mero “contenitore”
9
Sotto l’etichetta “Practice-based Studies” (PBS), convergono differenti tradizioni di ricerca, tra cui le ricerche
sulla conoscenza e l'apprendimento organizzativo (Gherardi e Nicolini 2000), I workplace studies e più in generale gli
studi sull’azione situata (Heath e Button 2002, Borziex e Conein 1994, Luff e Hindmarsch 2000), la tradizione
dell’activity theory (Engenstrom 1987, Blackler 1999), gli studi sulla tecnologia come pratica sociale (Suchman 1999)
ed infine quelli della costruzione sociale della tecnologia nell’Actor-network Theory (Law 1987, Callon 1992, Cooper e
Law 1995, Hassard, 1999, Latour 1993).
12
dell’azione ma una situazione in cui si incontrano e si definiscono reciprocamente gli
interessi degli attori e le opportunità dell’ambiente (Bruni e Gherardi 2007: 34). Nei
processi lavorativi, quindi, acquisiscono fondamentale importanza le interazioni, il
rapporto tra gli attori (umani e non umani), la costruzione delle situazioni, la
comunicazione situata e soprattutto l’idea che questi elementi siano caratterizzanti di uno
specifico contesto di interazione. Il lavoro è, quindi, analizzato come una continua
interazione tra attori umani, oggetti, ambiente fisico e contesto situazionale. L’ambiente di
lavoro, costituito anche da “artefatti” e oggetti, rappresenta di conseguenza una risorsa e
una guida che facilita i compiti di chi vi lavora.
Un ruolo determinante è, quindi, da attribuire agli “artefatti”, termine con il quale si fa
riferimento sia agli oggetti fisici creati da una specifica cultura, sia alle forme
comportamentali (modalità comunicative, riti e cerimonie), sia alle manifestazioni verbali
(sia scritte che orali). Gli artefatti, in virtù di tale presupposto, risultano essere
un’espressione “situata” di norme culturali, di valori e di assunti (Gherardi e Lippi, 2000:
26). E’ proprio nelle pratiche lavorative e organizzative che gli “artefatti” acquisiscono un
valore specifico che dà loro senso e significato (Strati, 2004: 91).
I differenti attori, inoltre, condividono un sapere pratico e situato che mettono in uso nelle
pratiche lavorative ed organizzative, che si sviluppano dalle interazioni, acquisendo una
conoscenza che si sedimenta nel contesto stesso. Il sapere, come suggerisce Strati (2004:
111), è distribuito nella ramificazione delle relazioni, non è localizzato nei singoli soggetti
organizzativi, ed è grazie alle conoscenze che si apprendono e si mettono in uso nello
svolgimento delle pratiche lavorative ed organizzative.
Una dimensione fondamentale del sapere condiviso è rappresentata dalla conoscenza
tacita, in cui il sapere è distribuito tra i vari attori ma è anche veicolato dagli artefatti che
vengono utilizzati nello svolgimento delle attività pratiche. Per tale motivo per
apprendere bisogna avere accesso e partecipare alla pratica.
All'interno dei PBS, per interpretare il processo di traduzione e di contestualizzazione che
avviene quando uno standard viene “traslato” in uno specifico contesto d’uso, si fa
riferimento alla sociologia della traslazione o come è stata definita in seguito (Callon, 1980;
Gherardi e Lippi, 2000; Law e Hassard, 1999) Actor-Network Theory. Tale approccio teorico
è nato in Francia intorno agli anni 80, nell’ambito della sociologia della scienza e della
tecnologia, con autori come Michel Callon e Bruno Latour, è stato successivamente
elaborato nel mondo anglosassone da John Law. All’interno di tale approccio si utilizza il
13
concetto di “traslazione”10 per definire l’insieme dei processi di traduzione e di
trasferimento che hanno luogo in uno specifico campo, in cui le entità acquisiscono forma
e si caratterizzano solo in base alle relazioni che essi stabiliscono con altre entità. Gli attori
sociali, in virtù di ciò, sono effetti di un network di relazioni sempre incerto tra diversi attori
o “attanti” (termine che indica qualsiasi cosa o persona sia rappresentata nel network, sia
essa umana sia essa non umana) (Latour, 1992).
Alla base dell’ANT, come sostiene Law (1994), sono da evidenziare alcuni elementi
caratterizzanti. L’ANT può essere, innanzitutto, considerata una sociologia modesta,
sempre aperta (open-ended), ovvero caratterizzata dall’incompletezza, in cui è sempre
possibile aggiungere qualcosa di nuovo. Questa immagine mette in evidenza il passaggio
da un sapere generale ed universale all’interesse verso ciò che è specifico e locale.
In secondo luogo l’ANT privilegia i processi di ordinamento sociale (social ordering), che si
esprimono in allineamenti e arrangiamenti di materiali eterogenei. I processi dell’ordinare
mettono insieme materiali eterogenei come persone, organizzazioni, macchine, società
considerandoli sullo stesso piano. La radicalizzazione del principio di simmetria impone
di considerare alla stessa stregua gli attori, o meglio gli attanti, indipendentemente dal
fatto che essi siano umani (sociali) o non umani (naturali o tecnici) (Latour, 1992).
Anche Lucy Suchman (2005) analizza il forte “potere di affiliazione” degli oggetti,
utilizzato per descrivere la relazione dinamica di associazione (o non associazione) che
caratterizza l’identificazione tra attori e oggetti. Suchman, in particolare sostiene che gli
oggetti non possono essere considerati entità neutre, ma al contrario entità dense di
significato per le relazioni che si stabiliscono all’interno dell’ambito organizzativo. Gli
oggetti possono, infatti, creare affiliazione ma anche non essere scelti dagli attori umani.
E’ possibile quindi identificare una “multiplicity of objects”, in cui sia gli attori umani che gli
artefatti
contribuiscono
a
creare
una
visione
maggiormente
complessa
delle
organizzazioni.
Un terzo e fondamentale elemento è inoltre rappresentato dal materialismo relazionale
(relational materialism), che mostra come il “non umano” sia fondamentale nei processi di
ordinamento sociale e come la relazione tra umano e non umano è in continua e reciproca
definizione. L’ANT considera come questi attori reticolari, attori rete per l’appunto, si
10
La parola traslation può essere tradotta in italiano sia con traslazione sia con traduzione; Latour (1987: 117) la
utilizza sia nel significato linguistico, intesa come mettere in relazione una parola in una lingua con un’altra in un’altra
lingua, sia nel significato geometrico, intesa come muovere da un posto a un altro.
14
costituiscano e si stabilizzino dando vita al sociale. Solo tramite un processo di “ingegneria
eterogenea”
(heterogeneous
engineering),
che
rappresenta
una
rete
di
relazioni
materialmente diverse, si può dare vita al sociale (Law, 1987).
Tramite tale processo, in cui non vengono distinti gli attori umani dai non-umani, è quindi
possibile studiare un’organizzazione, da interpretare come l’effetto delle combinazioni
delle azioni dei vari elementi.
“Seguendo” gli attori (Latour, 1987:15), siano essi umani o non umani, sarà possibile
traslare e tradurre uno standard che ha una valenza universale in uno specifico contesto
d’uso.
Dopo aver analizzato il quadro teorico di riferimento, si ritiene opportuno approfondire il
progetto di ricerca tramite una più specifica e dettagliata analisi del disegno di ricerca.
3. Il contesto empirico
In questa sezione del lavoro illustrerò le caratteristiche del progetto empirico che intendo
attuare. In primo luogo, riprenderò l’obiettivo e la domanda di ricerca; secondariamente
illustrerò le caratteristiche principali dello standard che si intende “seguire”, specificando
le motivazioni di tale scelta. Si illustrerà, infine, il “case study” e le successive fasi
empiriche della ricerca, con i conseguenti strumenti di rilevazione dei dati.
3.1: Obiettivi e domanda di ricerca
L’obiettivo della ricerca è rappresentato, così come evidenziato all’inizio di questo lavoro
dall’analisi dei processi di traduzione in pratica della responsabilità sociale, per
comprendere come essa sia traslata e re-interpretata in uno specifico contesto d’uso. Per
poter studiare ciò, come già detto precedentemente, si utilizza come “lente” di lettura gli
standard. La domanda che mi sono posta è, quindi, stata: “Come si traduce in pratica uno
standard?”. Per poter rispondere a tale domanda “si seguirà” uno standard che
rappresenta uno dei più importanti strumenti utilizzati dalle aziende per gestire e
comunicare la responsabilità sociale. In base al framework teorico di riferimento è emerso
che un ruolo determinante è da attribuire alle pratiche, ma dato che non è così facile
definire un’immediata relazione tra le pratiche e lo standard, si è deciso di individuare
degli obiettivi più specifici che possono contribuire a definire la domanda di ricerca
15
iniziale. Essi sono:
•
Definire i processi che nella pratica quotidiana gli attori umani e non-umani,
mettono in atto per traslare e interpretare un determinato standard
•
Definire i processi che hanno contribuito a generare (o non generare) affiliazione
tra gli attori e lo standard
•
Definire le pratiche d’uso quotidiano dello standard all’interno e all’esterno
dell’organizzazione
•
Identificare i processi che contribuiscono “all’ancoraggio” (o al non ancoraggio)
dello standard in uno specifico contesto d’uso
Tali punti non sono da considerarsi tra loro slegati, ma strettamente interconnessi. Essi
risulteranno fondamentali per poter giungere ad un quadro teorico più denso e “ricco di
sfumature”.
3.2: Lo standard SA8000
Prima di procedere con una più attenta analisi del contesto empirico della ricerca è,
tuttavia, necessario evidenziare quale standard nello specifico si intende “seguire” e le
motivazioni di tale scelta. Tra i potenziali standard, in particolare, si è deciso di seguire
proprio lo standard SA8000 per due differenti motivazioni. In primo luogo, la SA8000
rappresenta il primo standard diffuso a livello internazionale circa la responsabilità sociale
di un’azienda. In secondo luogo, la SA8000 rappresenta proprio lo standard verso cui
l’azienda, in cui si intende condurre l’indagine, ha orientato il processo di certificazione.
Esso rappresenta, pertanto, un’ottima opportunità per analizzare un “work in progress”.
Prima di proseguire è, tuttavia, necessario specificare le principali caratteristiche dello
standard SA8000, per delineare l’ambito all’interno del quale ci si muove.
Lo standard SA8000 (SA sta per Social Accountability) è stato emanato dalla Council on
Economic Priorities Accreditation Agency (CEPAA), ente di accreditamento del Consiglio
per le Priorità Economiche ed è stato aggiornato nel 2001 dalla Social Accountability
International (SAI). Tale standard è applicabile volontariamente in aziende di qualsiasi
dimensione e settore produttivo operanti in ogni area geografica. Attualmente l’unica
16
limitazione è rappresentata dal fatto che non può essere attuata nelle imprese di settore
estrattivo e nelle attività lavorative svolte nella propria dimora, a causa della difficoltà e
della complessità di effettuare le necessarie attività di monitoraggio. Essa prevede nove
requisiti specifici di responsabilità sociale che riguardano i seguenti aspetti (Lepore e
D’Alesio, 2004):
•
Lavoro infantile: in tal caso l’azienda che intende ottemperare alla norma e
successivamente
certificarsi,
deve
attenersi
a
comportamenti
non
solo
caratterizzati da divieti, quale quello di utilizzare e dare sostegno all’utilizzo di
lavoro infantile (che deve essere inteso come il lavoro prestato da un bambino di
età inferiore ai 15 anni, a meno che la legislazione locale non stabilisca un’età
differente), ma anche mettere in campo azioni di rimedio e comportamenti
proattivi a sostegno della politica aziendale in materia;
•
Lavoro obbligato: per il quale si deve intendere “ogni lavoro o servizio ottenuto da
una persona sotto minaccia di una qualsiasi penale e per il quale detta persona
non si è offerta volontariamente”;
•
Condizioni di salute e di sicurezza dei lavoratori: in virtù delle quali
l’organizzazione deve garantire un ambiente di lavoro sicuro e salutare con acqua
potabile, servizi igienici, mense, alloggi e dormitori adeguati. Deve svolgere,
inoltre, analisi e prevenzione dei rischi e formazione del personale;
•
Libertà di associazione e il diritto alla contrattazione collettiva: in tal caso la norma
SA8000, prevede il rispetto dei lavoratori di riunirsi in associazioni, costituire
sindacati e contrattare collettivamente, senza il timore di subire discriminazioni;
•
Discriminazioni dei lavoratori: poiché lo standard SA8000 deve garantire pari
trattamento
per
assunzioni,
retribuzioni,
addestramento,
promozioni,
licenziamento e pensionamento. Inoltre, stabilisce la possibilità di soddisfare
esigenze legate a sesso, religione, nazionalità, preferenze sessuali, appartenenza a
sindacati o a partiti politici.
Infine, deve provvedere l’eliminazioni di abusi
gestuali, verbali, sessualmente costrittivi o minacciosi;
•
Procedure disciplinari: in questo punto la norma fa riferimento al fatto che
“l’azienda non deve utilizzare o dare sostegno all’utilizzo di punizioni corporali,
coercizione mentale o fisica, abuso mentale”;
•
Orario di lavoro: lo standard SA8000 stabilisce in tal caso che l’azienda deve
17
adeguarsi alla normativa prevista, nonché ai contratti di settore o d’area stipulati
con le parti interessate e tuttavia esso prevede che, in presenza di contrattazione
sfavorevole o con oneri eccessivamente onerosi per il lavoratore, l’azienda si
attenga alle prescrizioni dello standard stesso che pone limiti definiti11
•
Criteri retributivi: la norma stabilisce in quest’ottavo punto che la remunerazione
deve corrispondere almeno agli standard legali minimi tale da soddisfare i bisogni
primari con sufficiente margine discrezionale per il lavoratore. L’azienda deve
inoltre eliminare le riduzioni dovute a cause disciplinari mentre deve garantire la
regolarità nelle remunerazioni.
A questi si aggiunge un nono criterio relativo all’adozione, da parte dell’azienda di un
“sistema di gestione etico” che si configura come “l’insieme di azioni intraprese e di
risorse coinvolte per realizzare nell’organizzazione la politica di responsabilità sociale”
(Lepore e D’Alesio, 2004) .
Tale sistema di gestione, ha la funzione di prevenire e risolvere ogni situazione che possa
essere considerata lesiva nei confronti dei lavoratori. Esso suggerisce di utilizzare
tecnologie e attrezzature appropriate per garantire un ambiente di lavoro salubre e sicuro,
controllando le modalità operative, oltre che le proprie attività interne, anche quelle dei
fornitori per assicurarsi che ci si adegui ai requisiti della norma. Inoltre, si ritengono
fondamentali i flussi di informazioni sia interni, per monitorare costantemente la
situazione ed eventualmente intervenire repentinamente, sia esterni per ascoltare i
messaggi provenienti dai diversi stakeholder e per dichiarare l’impegno profuso nella
tutela dei lavoratori. Infine, lo scopo del sistema di gestione etico è quello di migliorare
continuamente le prestazioni sociali delle organizzazioni e prevenire qualunque forma di
sfruttamento. A tal proposito è bene evidenziare che la norma SA8000, seppur sancisca
comportamenti che per la maggior parte sono già stabiliti per legge, vuole garantire un
sistema di responsabilità sociale che sia costantemente migliorato, che porti l’azienda ad
impadronirsi di un comportamento virtuoso che sia in linea con la propria scelta valoriale.
Le aziende che realizzano un sistema di responsabilità sociale hanno anche la possibilità di
far certificare tale sistema da un organismo terzo indipendente. Ciò ovviamente comporta
una serie di vantaggi da parte dell’organizzazione certificata, rappresentati dal
11
Si definisce un limite massimo di ore di lavoro ordinario, pari a 8 ore settimanali, con almeno un giorno di riposo ed
un limite massimo di ore di lavoro straordinarie, 12 ore settimanali, adeguatamente retribuito.
18
miglioramento dell’immagine e della reputazione aziendale; dall’aumento della fiducia da
parte dei consumatori e da un conseguente aumento della fidelizzazione. Un ulteriore
vantaggio per coloro che decidono di certificarsi è rappresentato dalla riduzione dei costi
della qualità, determinata dall’ottimizzazione dei processi produttivi ed, infine, dal
miglioramento del clima organizzativo, poiché i lavoratori si sentono tutelati
dall’organizzazione in cui lavorano e maggiormente coinvolti nel raggiungimento degli
obiettivi.
Gli organismi di certificazione abilitati a rilasciare il certificato di conformità alla norma
SA8000 sono soltanto quelli accreditati dall’organizzazione SAI, che rappresenta l’unico
ente di accreditamento a livello internazionale per la certificazione di tale standard. Il
certificato di conformità alla SA8000 ha una durata triennale ma può essere ritirato se
l’organismo di certificazione riscontri gravi non conformità durante le visite periodiche,
che avvengono di solito con scadenza semestrale.
Dopo aver analizzato per sommi capi le caratteristiche principali della norma si andrà nel
prossimo paragrafo ad illustrare il contesto empirico in cui si intende condurre l’indagine.
3.3: La metodologia di ricerca: Il “case study”
Dati gli obiettivi della ricerca appena evidenziati e comprese le caratteristiche dello
standard che si intende “seguire” passerò adesso ad illustrare il campo empirico
individuato per tale lavoro. La metodologia di ricerca di cui intendo avvalermi è
rappresentata dal “case study” (Eisenhardt 1989; Yin 1994; Stake, 1995). Il case study non è
una tecnica di raccolta dati, ma un approccio metodologico che si avvale di diverse
tecniche di ricerca. Tale approccio può essere focalizzato su un singolo individuo, su un
gruppo o su una comunità e può avvalersi di molteplici tecniche di raccolta dei dati come
le interviste in profondità, l’osservazione partecipante e utilizzo di documenti.
Il caso di studio individuato in cui si intende condurre l’indagine è costituito da uno
specifico contesto organizzativo rappresentato dalla Sapa S.p.A di Bolzano. La scelta di
condurre l’indagine in questo specifico contesto organizzativo è dovuta al fatto che la Sapa
di Bolzano è un’azienda multiculturale in cui l’incontro tra culture differenti genera un
campo empirico particolarmente ricco e denso di significato. Tale azienda, che rappresenta
il leader mondiale tra le aziende che operano nel settore dell’alluminio, è formata da circa
140 impiegati di cui oltre il 30% è rappresentata da lavoratori stranieri. La Sapa, nata nel
19
1936 per la produzione di alluminio primario è stata successivamente convertita in uno
stabilimento
di
estrusione.
Un’altra
caratteristica
interessante
di
tale
contesto
organizzativo è che all’interno di essa gli impiegati sono quasi tutti uomini, mentre solo il
5% circa è rappresentato da donne.
Dopo aver illustrato la metodologia d ricerca che si intende utilizzare si passerà adesso ad
illustrare più nello specifico le fasi della ricerca.
3.4.: Le fasi della ricerca
La prima fase del lavoro si può considerare già avviata, poiché è iniziata a Dicembre 2007
ed è stata finalizzata ad ottenere l’accesso al campo, garantendo alla ricercatrice la
presenza per tutta la durata del progetto e ad effettuare un approfondimento del materiale
bibliografico relativo alla responsabilità sociale, agli standard e ai Practice -based Studies.
Tale lavoro, tuttavia, dovrà proseguire ulteriormente, poiché si ritiene necessario
approfondire oltre che gli argomenti citati anche altri come lo studio degli artefatti e la
cultura organizzativa.
La seconda fase, che corrisponde all’operazione di raccolta dei dati, rappresenta anche la
fase in cui si entra effettivamente a contatto con il campo. Tale fase è descritta più nel
dettaglio, attraverso tre sezioni di lavoro, che illustrano più chiaramente gli obiettivi e gli
strumenti della rilevazione.
La prima sezione attualmente in progress, che va da Febbraio 2008 a Gennaio 2009, è
finalizzata ad ottenere una descrizione del contesto organizzativo con particolare
riferimento alle pratiche correnti che l’azienda mette in atto per iniziare un processo di
gestione della responsabilità sociale.
Tale sezione, può essere ricondotta alla metafora “Fotografare l’organizzazione”, con la
quale si intende effettuare “una descrizione quanto mai nitida e dettagliata dell’organizzazione,
di una rappresentazione assai fedele all’originale” (Strati, 2004: 101). Tale metafora vuole però
essere considerata sia nella sua accezione statica, in cui l’organizzazione viene “fermata”
in un momento temporale specifico, sia in quella più dinamica in cui si considerano il
fluire delle azioni e delle pratiche quotidiane. Ciò, tuttavia, non va a modificare il
principio di “rappresentazione” della realtà organizzativa.
In tal sezione, quindi, la ricercatrice utilizzerà come strumenti di ricerca sia un
20
questionario con domande chiuse e domande aperte sia l’osservazione partecipante.
La scelta del questionario con domande chiuse e domande aperte, uno strumento non
prettamente qualitativo, è dovuta ad alcuni motivi specifici. Innanzitutto, così come
ricordato precedentemente, oltre il 30% dei lavoratori in Sapa è composto da personale
straniero, che risiede solo da poco tempo in Italia. A tal proposito è risultato necessario
utilizzare uno strumento che facilitasse la comprensione linguistica e che offrisse
all’intervistato già un ventaglio di risposte chiare e definite.
Tuttavia, dato che questi lavoratori hanno competenze linguistiche alquanto eterogenee e
che le risposte offerte non hanno un uguale significato per tutti (Corbetta, 1999: 190) e
poiché in azienda sono presenti anche lavoratori italiani, si è deciso di inserire all’interno
del questionario anche delle domande aperte in modo da cogliere le “sfumature” che con
le domande chiuse non è possibile osservare.
Una seconda motivazione all’utilizzo del questionario come strumento di rilevazione è
rappresentata da altri due fattori tra loro strettamente connessi: la politica di
coinvolgimento attuata dalla direzione dell’azienda ed il tempo di somministrazione per
questionario. In particolare durante la fase di accesso al campo è stato richiesto che tutti i
lavoratori potessero partecipare attivamente a questa fase e che la durata massima della
somministrazione dovesse essere intorno ad un’ora, per evitare che il processo produttivo
fosse interrotto. Per tale motivo si è deciso di effettuare la rilevazione tramite questionario
su tutto il personale presente in azienda dedicando circa un’ora per lavoratore.
Il questionario utilizzato è composto da 7 sezioni: dati socio-anagrafici di base, ambiente
fisico di lavoro e servizi per il personale, carico di lavoro, i rapporti in Sapa: io e la mia
squadra di lavoro, io e i colleghi delle altre squadre di lavoro, io e il mio superiore, le
aspettative professionali. La rilevazione si sta effettuando tramite una modalità di
rilevazione faccia a faccia, che ha garantito una più facile compilazione del questionario,
soprattutto per coloro i quali non hanno facilità con i processi di scrittura nella lingua
italiana.
Rifacendomi agli studi di etnografia (Gobo, 2001) e in particolare all’etnografia
organizzativa (Bruni, 2003), il secondo strumento di ricerca che intendo utilizzare è
rappresentato dall’osservazione partecipante per studiare le dinamiche e le pratiche che in
azienda sono utilizzate per iniziare un processo di gestione della responsabilità sociale. Si
vogliono osservare, nello specifico, tutte le attività quotidiane che l’azienda mette in atto
per gestire la sua responsabilità sociale, sia quelle più formalizzate come riunioni interne
21
ed esterne con l’ente di certificazione, sia le attività che in modo non formalizzato
l’azienda produce quotidianamente, come riunioni informali svolte durante l’ora di pausa
pranzo e le cene di lavoro. A tal proposito è utile ricordare che l’osservazione partecipante
che si intende utilizzare mira a coinvolgere diversi aspetti della realtà organizzativa: gli
attori umani e non umani, gli spazi, la struttura, le relazioni e attività formali ed informali.
L’osservazione partecipante non verrà abbandonata nella prosecuzione del progetto, per
garantire un’analisi sempre più accurata e ricca di dettagli.
La seconda sezione di rilevazione dati, che va da Febbraio 2009 a Giugno 2009, è invece
finalizzata ad analizzare le pratiche di gestione della fase di certificazione dello standard
SA8000. L’osservazione partecipante, in tal caso, avrà come obiettivo quello di
comprendere la messa in pratica dei processi utilizzati per gestire la certificazione etica. In
particolare, si porrà attenzione ai processi in pratica messi in atto dagli attori organizzativi
che porteranno l’azienda ad ottenere (o non ottenere) la certificazione allo standard
SA8000. Sarà fondamentale a tal proposito individuare le diverse comunità che
compongono l’organizzazione, definendo i valori, le credenze e le pratiche che le
contraddistinguono. Fare osservazione partecipante risulta, in tale fase, fondamentale per
comprendere a fondo i processi d’azione in base alla prospettiva degli stessi osservati.
La terza sezione, che va da Luglio 2009 a Luglio 2010, è finalizzata a studiare i processi in
pratica di gestione dello standard dopo la sua introduzione nel contesto organizzativo,
osservando le trasformazioni delle pratiche correnti. In particolare all’interno di tale fase si
vuole “seguire” lo standard inserito in azienda per vedere come esso nella pratica
quotidiana sia stato o meno traslato e interpretato dagli attori umani e non-umani. Per
usare le parole di Latour (1987: 15) potremmo dire che intendiamo “seguire gli attori e il
senso delle loro azioni”. Attraverso l’osservazione partecipante sarà, quindi, necessario
comprendere se si è generata affiliazione con lo standard, definire le sue pratiche d’uso
quotidiano ed, infine, comprendere se e quali ricadute ha la messa in pratica di uno
standard all’interno e all’esterno del contesto organizzativo. In questa sezione si utilizzerà
anche un altro strumento di raccolta dati rappresentato dalle interviste in profondità
(Cardano 2003, Silverman 2002) in cui l’intervistatrice si limiterà a definire i temi che
intende sviluppare nel corso dell’intervista. L’intervistatrice, durante l’intervista, non
imporrà alcun ordine nella trattazione dei temi che le interessano, ma li lascerà emergere
spontaneamente in base al rilievo che essi hanno per l’intervistato. All’intervistato, invece,
è lasciata ampia libertà di gestire la conversazione, approfondendo gli argomenti che gli
22
stanno più a cuore e che egli ritiene di maggiore importanza. Tale strumento di rilevazione
è ritenuto valido in quanto concede ampia libertà ad intervistato e ad intervistatore,
garantendo nello stesso tempo che tutti i temi che l’intervistato considera importanti siano
ampiamente discussi. I temi delle interviste verranno definiti in base ai risultati e alle
riflessioni che emergeranno nella seconda sezione del lavoro.
La terza fase del progetto, infine, consiste nell’elaborazione e l’analisi dei dati raccolti. E’
tuttavia necessario sottolineare come questa fase non avverrà immediatamente dopo la
fase successiva, ma parallelamente alla raccolta dati. L’analisi dei dati qualitativi potrà
essere effettuata o manualmente o tramite il supporto di software. L’uso del computer per
l’analisi elementare di un testo si è diffuso negli studi umanistici intorno agli anni
sessanta, ed ha contribuito a dare una svolta positiva allo sviluppo della ricerca
qualitativa. All’interno di tale progetto si è scelto di utilizzare un software, in virtù di una
serie di vantaggi che possono essere accomunati ai diversi software esistenti di analisi
qualitativa (N Vivo, Atlas Ti, Nud. Ist, Ethnograph):
•
velocità nel manipolare grandi quantità di dati, lasciando libero il ricercatore di
esplorare svariate questioni analitiche;
•
miglioramento del rigore, compresa la documentazione del conteggio dei fenomeni
e la ricerca dei casi devianti;
•
agevolazione della ricerca di gruppo, compreso lo sviluppo di schemi di
classificazione coerenti;
•
aiuto nelle decisioni di campionamento, nella prospettiva della rappresentatività e
dello sviluppo della teoria (Seale, 2002).
Il processo di raccolta e di elaborazione dei dati mi condurrà alla formulazione di una
teoria, che non avrà come obiettivo quello di essere generalizzata, ma quello di
interpretare la traduzione in pratica della responsabilità sociale d’impresa.
23
4: Conclusioni
Il presente progetto di ricerca è stato, quindi, strutturato approfondendo due sezioni di
lavoro rappresentate dal framework teorico di riferimento e dal contesto empirico in cui si
vuole condurre l’indagine.
Nel framework teorico si è, dapprima, illustrato il tema della responsabilità sociale
d’impresa (RSI o CSR), secondariamente gli studi sugli standard ed, infine, i Practicebased Studies.
Nella descrizione del contesto empirico, invece, si sono illustrati la domanda e gli obiettivi
della ricerca. Successivamente, si è descritto lo standard che si intende “seguire” e le
motivazioni di tale scelta. Si è, infine, illustrato la metodologia del “case study” e le
successive fasi della ricerca.
Il framework teorico ed il progetto empirico illustrati risultano essere, quindi, gli elementi
utili per studiare i processi di traduzione in pratica della responsabilità sociale, per
analizzare come essa sia re-interpretata localmente.
24
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