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Madrugada n. 102 - Associazione Macondo

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Madrugada n. 102 - Associazione Macondo
102
R I V I S TA T R I M E S T R A L E
anno 26 · giugno 2016 · una copia € 3,50
A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
Alda Merini (1931-2009)
A TUTTI I
A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
S omma r i o
2.
A tutti i giovani raccomando
ALDA MERINI
8 - DENTRO IL GUSCIO
15 - LIBRI
La costruzione di Fortezza
Europa
L soglia
La
L’amore è uno straniero. Poesie scelte
Poesie mistiche
Il Dio personale
Marco Opipari
4 - c o nt r oc orrente
Fugge dalle guerre un popolo in
rotta
10 - di muro in muro / 1
Confini, frontiere e migrazioni
Giuseppe Stoppiglia
Walter S. Baroni
7 - c o nt r ol u ce
12 - di muro in muro / 2
Barriere e barricate
Muri invisibili: povertà e potere
La redazione
Roberto Radice
17 - pianote r r a
Di cosa parliamo quando parliamo
di gender?
Giovanni Realdi
GIOVANI RACCOMANDO
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
La vita facile, Milano, Bompiani, 2001
20 - c a rt e d ’ a frica
24 - economia | politica
27 - notizie
Madagascar
Bail in
Macondo e dintorni
Candide Horace
Fabrizio Panebianco
Gaetano Farinelli
in collaborazione con Lisa Frassi
22 - b r a si l e
25 - diario minimo
Il Brasile e il colpo di Stato
senza carri armati
Il baritono Mariano e il tempo
degli incontri
Egidio Cardini
Francesco Monini
31 - PER IMMAG IN I
3000 croci lungo la barriera
Heymat
c o n tr o c o r r en te
di
GIUSEPPE STOPPIGLIA
Fugge dalle guerre un
popolo in rotta
Accogliere il futuro
«Il silenzio è il mistero del mondo futuro,
Guardare, in silenzio
mentre la parola è lo strumento
Nel momento in cui un sacerdote buddista si disponeva a predicare davanti a un gruppo di
monaci, un uccello cominciò a cantare sui rami degli alberi dietro le mura del monastero. Il
maestro tacque e tutti ascoltarono il cinguettio, sino alla fine, in rispettoso silenzio. Allora
il maestro annunciò: la predica è finita. E se ne andò. I monaci capirono che per ascoltare
il suono della natura occorre essere educati al silenzio.
Il figlio di Giovanni e di Adriana fu battezzato in Valsugana - nella chiesetta di San
Pietro - appena due giorni dopo la sua nascita. Nel battesimo lo istruirono circa il sacro,
con un intervento, pacato, del parroco don Beniamino.
Ricevette in dono un pesciolino, perché imparasse ad amare il mare.
Liberarono un uccello in gabbia, perché imparasse ad amare l’aria.
Gli diedero un fiore di mandorlo, perché imparasse ad amare la terra.
Gli consegnarono una bottiglia chiusa: con l’ordine scritto di «non aprirla mai», perché
imparasse ad amare il mistero.
Si può camminare in libertà solo imparando ad amare il mistero.
A sei anni Giuseppe non conosceva ancora le cime del Massiccio del Grappa. Il padre
Bernardo lo accompagnò in vetta, perché le scoprisse.
Viaggiarono per ore su un sentiero ripido e scosceso. Le cime erano al di là delle montagne maestose, che lui, bambino, aveva visto e chiamato per nome da sempre. Quando
finalmente raggiunsero il Col del Gallo, dopo aver camminato a lungo, si stagliò davanti ai
loro occhi tutto il massiccio con le sue cime, e fu tanta l’immensità dell’orizzonte e tanto
il suo fulgore che il bambino rimase muto per la bellezza.
Quando finalmente riprese a parlare, tremando e balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare». Imparare a vedere, imparare a guardare. Sperimentare l’attesa. Scoprire
la contemplazione. Bellezze del cuore.
del mondo presente».
Isacco di Ninive
«Quando si diventa forti?
Quando imparerai a non fare del male a
nessuno».
Alejandro Jodorowsky
4
Viaggiare, cercando
La squadra di CultureStrike prepara il viaggio lungo il muro di confine tra Usa e Messico da El Paso (Texas)
a Sunland Park (New Mexico). © Jesús Iñiguez / CultureStrike
Oggi, noi occidentali non camminiamo
tanto; sono sempre gli stessi i luoghi dove
ci muoviamo e camminiamo: sia donde
partiamo, sia dove arriviamo. A volte ci
muoviamo come dentro un labirinto, con
passaggi che non portano a nessuna uscita,
ma, forse, questo ci rivela che siamo viandanti in cerca di senso.
Il cammino è simbolo della vita, perché
la vita è un cammino che ciascuno deve
percorrere e far proprio. In questo cammino ci sono delle fermate per rivedere
il tratto percorso. A volte, addirittura, ci
si perde per strada. Magari si inizia un
viaggio verso un luogo che non c’è, poi alla
fine ci si troverà prigionieri in “paradisi
artificiali”.
Chi non ama i muri e i confini, ma preferisce la libertà e l’apertura mentale, gli
spazi aperti, la libertà e l’infinito, incon-
Perché dividere, rimuovere l’umano?
Le migrazioni sono un fenomeno strutturale irreversibile, e qui
sono tutti d’accordo. Ma se, oggettivamente - e ogni giorno la cosa
è più evidente - i cosiddetti primo e terzo mondo fanno parte di
un’unica storia, soggettivamente si afferma la tendenza a separare le storie dei popoli in sviluppati e sottosviluppati. Se, infatti,
oggettivamente, s’impongono sempre più rigidamente le leggi
spietate del mercato totale, perché sembra legittima la distinzione
e la contrapposizione tra il capitalismo selvaggio e sottosviluppato
del sud e il capitalismo civilizzato sviluppato del nord? Viviamo
nello stesso sistema.
Se oggettivamente le minacce di distruzione e morte pesano su
tutta l’umanità, perché si afferma, nelle impostazioni politiche ed
ecologiche, la preoccupazione di salvare le minoranze “più avanza-
te” abbandonando la “massa sottosviluppata” a un destino di morte?
Questo atteggiamento è un meccanismo psicologico di massa,
che consiste nel rimuovere l’altro o, meglio, nel rimuovere l’unità
della storia e del mondo, e pertanto il sentimento di comunione
fra tutti gli esseri umani. Si elabora una visione del mondo e della
storia fondata sulla superiorità e centralità di un popolo, di una
cultura, rispetto agli altri. Riducendo la storia del mondo a quella
dei popoli “più avanzati” (la superiorità economica e tecnologica
dei paesi del nord), si nega il ruolo degli altri popoli e l’importanza
delle nostre relazioni reciproche.
c ont r oc or r ent e
trerà, camminando, chi ama le porte e le finestre aperte, per fare
entrare luce, calore, vita e preferirà abbattere i muri e costruire
ponti. Cercherà persone che preferiscono l’apertura mentale, la
diversità, il dialogo, il reciproco rispetto e la solidarietà… e per far
questo il nostro spirito interiore ha bisogno di storie che illuminino
e alimentino il nostro cammino!
Non c’è nulla di più gratificante che offrire una mano amica e
ricevere il calore di un amico.
Può essere, quindi, una mano vicina, ma anche una storia lontana, arrivata da strade e paesi diversi, storie affascinanti e non
facilmente comprensibili.
Il valore della diversità
Inevitabilmente tra di noi crescono xenofobia e pregiudizi razziali.
Così gli immigrati si trovano appiccicati addosso i peggiori stereotipi della società moderna, fino a essere considerati terroristi
tutti quanti, in blocco. La realtà dolorosa molte volte è fatta di
esseri umani ridotti a cose, spogliati della loro dignità, privati di
affetti e di parole.
Qualunque persona democratica dovrebbe reagire davanti all’abisso in cui inevitabilmente ci sta conducendo il disprezzo dell’altro, l’odio del diverso, l’intolleranza, il fanatismo, l’oscurantismo,
il dogma della disuguaglianza.
Si può reagire partendo anche dalle piccole cose del nostro quotidiano. Così continuiamo a cucinare la pasta, tagliare il pane,
conservare la frutta, apparecchiare la tavola, perché ogni atto legato
al cibo - anche il più semplice - porta con sé una storia ed espri-
5
Le croci costruite dalla Coalición de Derechos Humanos di Tucson per ricordare chi ha tentato di passare il confine ed è morto nel deserto dell’Arizona. Dal 2001 ne
sono state preparate 1.500. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
c ont r oc or r ent e
me una cultura complessa della civiltà umana. Ognuno è diverso
dall’altro. Ed è sul riconoscimento delle diversità che si fonda
il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti di cui ogni essere
umano è portatore. Del resto, io che sono diverso da mio padre
e da mio fratello, come posso pretendere di essere identico a una
persona di un altro paese, di un’altra lingua, di un’altra tradizione
culturale? Rivendico certamente e sempre la mia diversità: se non
lo facessi perderei un’altra occasione per migliorarmi.
Ma una cosa è rivendicare il diritto di essere diversi, un’altra
cosa è arrogarsi il privilegio di sentirsi i migliori. Semplicemente,
quando capiremo che siamo tutti diversi, nessuno sarà più diverso.
Come scrive Julia Kristeva: «Lo straniero comincia quando sorge
la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo
tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità».
Misericordia e accoglienza
Viviamo, purtroppo, in un’epoca alimentata dalla paura di non
farcela e dalla consapevolezza che la crisi ha piegato certezze e
sicurezze economiche di tanti e ha scalfito valori su cui per decenni
le nostre comunità hanno costruito il loro modo di esistere. Attraversiamo un tempo in cui la disperazione può diventare la nota
del nostro agire, pensare e riflettere. Dobbiamo investire sull’idea
che la speranza non è affidarsi al cielo quando la terra frana, ma
è il punto di forza che innesca quei meccanismi personali che
6
Il Rio Grande, confine naturale tra Usa e Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
generano comunione e comunità.
Vorrei vivere tutto il mio tempo per imporre l’accoglienza come
grande virtù religiosa, forse la più grande…
Accogliere l’altro è la sfida di ogni civiltà e la sfida di ogni persona
che voglia essere umana. Un’identità accogliente è disponibile ad
aprirsi alle necessità altrui senza immaginare quale sarà la propria
ricompensa o il proprio tornaconto.
Accoglienza che presuppone il fatto che non ci riteniamo gli
unici depositari della verità. La verità ci trascende, trascende le
nostre chiese, le nostre comunità, i nostri movimenti e le nostre
associazioni. Non potremo essere felici se la vita è una gara a chi
arriva primo. La mia paura non deve cercare rivali, ma solo quiete
per vincere il nemico che è in me. Non si lotta per essere il migliore,
perché si diventa migliori quando si cerca pace.
La religione cristiana contemporanea spesso chiede poco all’uomo. È pronta a offrire conforto, ma non ha il coraggio di provocare.
È disposta a fornire edificazione, ma non ha l’ardire di spezzare
idoli. È diventata abitudine, rituale, senza rischi e senza tensione.
Parla in nome dell’autorità invece che con la voce della misericordia
e della compassione.
Pove del Grappa, 30 aprile 2016
Giuseppe Stoppiglia
fondatore e presidente onorario
Associazione Macondo Onlus
c o n tr o lu c e
Barriere e barricate
Scorrendo le pagine di Madrugada
Che faccio, apro o chiudo? Sto sulla soglia a mezzodì,
in contro luce, e chiudo al tramonto. Scusate, ma è già
qui Giuseppe Stoppiglia con il controcorrente, che titola
Fugge dalle guerre un popolo in rotta dove racconta di
popoli che vengono dal sud come salmoni che salgono
la corrente e chiedono accoglienza. Mentre lui, bambino,
sale il monte assieme al papà Bernardo e la sua piccola
mano si perde nella mano grande e calda del padre.
Assieme a lui si arrampica fino alla vetta, per scoprire
la contemplazione e imparare a guardare. E non lo dimenticherà per tutta la vita.
La mia finestra era molto luminosa, poi un giorno è
arrivata la nebbia, non era nebbia, avevano costruito
un muro (anonima). Con il monografico e le foto di
questo numero, affrontiamo il tema dei muri, perché ci
era apparso d’improvviso il muro di Melilla.
Introduce il monografico Marco Opipari: La costruzione di Fortezza Europa dove (in Europa) i muri non
solo dividono, ma pure nascondono la violenza che si
sta consumando.
Segue Walter Baroni con Confini, frontiere e migrazioni, che dopo aver definito il confine una misura politica
e amministrativa e la frontiera una strategia di guerra,
definisce la politica dei movimenti in Europa sull’identificazione o separazione o mistificazione di quei concetti.
Roberto Radice in Muri invisibili: povertà e potere,
racconta di Nairobi, delle baraccopoli e dello slum di
Korogocho, dove la povertà è perdita dei diritti e gli
uomini sono massa indifferenziata, separati da chi ha
il “privilegio” della cittadinanza e vive nella città alta,
benestante, perché il non-avere è non-essere.
L’angolo dei libri nasconde sempre qualche perla, che la
curiosità del lettore sa rilevare e incastonare nel suo anello.
E arriviamo al pianoterra di Giovanni Realdi che si
pone due domande: «Esiste l’ideologia del gender? Esiste la paura dell’ideologia del gender?». E aggiunge di
sospendere il giudizio, partire dalla nostra ignoranza
dopo di che… non importa la risposta ma il percorso.
Avete contato quante sono le carte d’Africa fin qui?
Quale sarà la prossima per voi? Qui abbiamo la carta del
Madagascar, scritta dalla dottoressa Candide Horace,
malgascia.
Egidio Cardini, il nostro piccolo principe, tante volte
ha volato nel continente sudamericano; per questo gli
abbiamo chiesto di raccontarci cosa sta succedendo in
Brasile e lui ci parla di destre eterne e di colpi di Stato
senza carri armati. Non lasciarti sfuggire la sua analisi.
Ricompare Fabrizio Panebianco per economia | politica e scrive sul Bail in, che significa salvataggio interno,
ed è la normativa che riguarda ciò che succede in caso
di fallimento di una banca.
E arrivo al diario minimo: Mariano e il tempo degli incontri di Francesco Monini dove non si parla di politica,
ma di vita e di Mariano che alla fine canta, da baritono.
Chiudo con la cronaca di Macondo e dintorni.
E con le didascalie, di Heymat, per le foto di Jesús
Iñiguez che hai già visto, sui muri, tra le pagine di questo numero.
Casa de Adobe, museo sul confine a Ciudad Juárez, Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
La redazione
7
DENTRO IL GUS CIO
La costruzione di Fortezza Europa
Di muro in muro
di
Marco Opipari
Sospesi sul confine del nostro benessere
8
Alcune immagini hanno il potere di descrivere il senso delle cose con una forza che alla parola
non è concessa. In questo senso, per quanto riguarda l’orrore della guerra con le sue trincee,
gli steccati, i muri e quella morte del senso che pervade tutto, ho sempre ritenuto insuperabile in quanto a realismo la famosa scena di Apocalypse now, nella quale i personaggi tragici e
clowneschi di Francis Ford Coppola fanno surf sotto le bombe. Un’affermazione, mi rendo
conto, a prima vista paradossale, che restituisce la follia del conflitto e delle armi solamente
mettendola in scena esattamente come essa si dà e nel modo in cui accade.
È il metodo di Beckett, per cui se si vuole mostrare come la nostra esistenza si giochi per
intero dentro la guerra, anche se non ne sentiamo il rumore e se è così lontana dal nostro
sguardo e dalla nostra esperienza diretta da dimenticarcene, è necessario rimettere ogni gesto,
anche il più domestico o ludico come in questo caso, là dove accade. E cioè in uno scenario
bellico. Solo così è possibile comprendere cosa sia la guerra e come essa, oggi, determini
l’esistenza di tutti, provvedendo privilegi per alcuni e morte per altri. Anche qui, anche in
una qualsiasi delle allegre capitali europee nel periodo dei saldi. È solo in questa accezione
che parlo qui di realismo.
Da questo punto di vista e per spiegarmi, per esempio ho sempre trovato poco realistici,
per via di una violenza talmente esibita nella sua finzione da risultare caricaturale, i dieci
minuti iniziali dello sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan, inseriti non a caso in un
plot narrativo buonista, nel quale la guerra scompare infine come in un vaso. In perfetto stile
spielberghiano peraltro. Altrimenti la realtà non è intelligibile, diventa impossibile agganciarne il senso. Altrimenti davvero non è possibile comprendere Melilla, il livello di violenza
invisibile che l’immagine contiene. Fare surf sotto le bombe, giocare a golf dove altri muoiono.
O dove rimangono come sospesi, prigionieri di uno spazio senza tempo. Esattamente come
nell’opera di Adrian Paci, in cui i migranti sono in fila per approdare in nessun luogo, perché
per loro non c’è alcuna destinazione possibile (Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea,
2007). Così l’unico posto buono per un migrante può essere dietro il muro, oltre il confine,
o persino nel suo spessore, come a Melilla o in uno qualsiasi dei Centri di Identificazione ed
Espulsione (CIE) dislocati lungo le frontiere di Fortezza Europa. Dove è possibile distinguere
e commerciare in migranti.
Criteri di selezione migranti
Perché se un tempo i negrieri sceglievano tra gli schiavi quelli che presentavano la dentatura
migliore o che avessero una corporatura abbastanza resistente per essere impiegati nei campi
di cotone, a quanto sembra oggi i denti hanno lasciato il posto al livello di scolarizzazione e i
campi di cotone al mercato del lavoro (Rediker, 2012). Criteri differenti, ma identica sostanza
delle cose, per selezionare i più adatti e lasciar morire gli altri (è noto che Merkel abbia aperto
le porte della Germania solamente ai profughi siriani, che possono essere considerati un’ottima risorsa professionale, trattandosi di una comunità di professionisti - medici, avvocati,
ingegneri -, più che di manodopera scarsamente qualificata).
Muri e campi di sterminio
Per tutti gli altri, la politica di Fortezza Europa, di cui Frontex è il braccio armato, garantisce
invece la “disumanità legalizzata”, secondo la formula che Anders ebbe a utilizzare per definire i campi di sterminio nazisti. Anche l’Europa contemporanea, infatti, ha il suo campo di
d e nt r o il gusc io
sterminio. Nel Mediterraneo, secondo il blog Fortresse Europe, dal 1988 sono annegate 19.142
vite umane. Il Mediterraneo, un tempo culla della civiltà occidentale, ne rappresenta oggi
la frontiera principale, il muro invalicabile. Muri visibili per i quali la sensibilità occidentale
finge indignazione solo di fronte alla rappresentazione patetica della morte del piccolo Aylan,
offerta dai media per una catarsi pelosa e generalizzata. Muri invisibili che sorgono ovunque e
danno vita a fili spinati culturali dietro i quali l’UE, e più in generale l’Occidente ricco, stanno
puntellando la propria identità imperialista. E se in questa sede non c’è abbastanza tempo per
prendere in esame i muri invisibili, anche tenere conto di quelli a portata di sguardo è compito
assai difficile. Provo a ricordarne i più importanti, oltre a quello già descritto di Melilla: 3000
km. tra Usa e Messico lungo il Rio Grande; il muro eretto da Poroshenko al confine russo
contro gli ucraini russi da liquidare; i muri in Arabia Saudita e in Iraq. Infine, i muri urbani
attorno agli slum disseminati lungo il perimetro delle metropoli di tutto il mondo, per separare gli alieni dagli esseri umani (una interessante rappresentazione di queste nuove forme di
alienazione la si può trovare nel film District 9 di N. Blomkamp). Infine il muro israeliano in
Palestina, che ho lasciato per ultimo, perché l’unico muro costruito sul suolo straniero: 750
km in territorio palestinese, sul quale la Corte di Giustizia dell’Aja si è già espressa per lo
smantellamento, per porre fine a un regime di apartheid che rinchiude più di tre milioni di
persone. Muri la cui complessa architettura concorre a edificare il sistema di rappresentazioni
tautologico morali con cui ogni società tende a legittimare e imbellettare la propria crudeltà: la
violenza più o meno amministrata esercitata sugli ultimi o sui nemici della società, siano essi
interni o esterni ai propri confini culturali. Un tempo teatrale, oggi tale crudeltà si è risolta
nel pudore amministrativo con cui violenza e morte vengono gestite e sottratte al gioco delle
passioni (Dal Lago, 2014). I muri sono solo uno dei modi di questa sottrazione.
Eppure la presenza di un muro dovrebbe almeno consentirci, come nel caso della fotografia
di Melilla, di vedere in negativo ciò che il muro rivela proprio nella misura in cui nasconde
all’occhio: la presenza di un conflitto, il rumore sordo delle guerre invisibili che l’Europa
combatte per garantirsi i propri privilegi.
Marco Opipari
ricercatore
9
Il confine visto da Sunland Park, New Mexico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
di mu ro in mu ro / 1
Confini, frontiere e migrazioni
di
10
Walter S. Baroni
I confini degli Stati non coincidono con le loro
frontiere. È una differenza politicamente rilevante,
soprattutto di fronte alle migrazioni che si muovono dal sud al nord del Mediterraneo. Alessandro
Dal Lago distingue queste due idee con chiarezza
in un libro, Le nostre guerre, scritto qualche anno
fa. Il confine politico separa amministrativamente
e convenzionalmente gli Stati, mentre la frontiera
è la linea strategica dove si cristallizzano temporaneamente gli equilibri di potere tra potenze. Il
primo si colloca nell’ordine del dato storico e del
diritto, il secondo delle possibilità strategiche e
della guerra. Queste due nozioni e il sistema di
riferimento che portano con sé - diritto, strategia
e guerra - sono di grande rilevanza per cercare di
capire quali sono le poste politiche che si giocano
attorno al movimento dei migranti verso l’Europa
e verso un’Unione Europea sempre più malridotta.
Il modo in cui esse vengono associate o disassociate permette di comprendere il posizionamento degli attori politici, sia a livello nazionale che
europeo. Le possibilità teoriche di combinazione
tra confine e frontiera non sono molte e sono facilmente esplorabili.
Migrazioni: un frontiera da difendere
In primo luogo, si può procedere alla completa
identificazione dell’idea di confine in quella di
frontiere. Il confine è la frontiera. È la mossa che
definisce l’identità politica del lepenismo, della
Lega lepenizzata a sua volta da Maroni dopo
l’infezione “romana” di Umberto Bossi, dei vari
regimi fascistoidi che si vanno costituendo all’Est
dell’Unione Europea, dall’Ungheria di Orban alla
Polonia della Szydlo. Le conseguenze di una simile
operazione politica sono chiare: il confine diventa
una linea bellica da difendere a ogni costo, perché
lungo di essa si giocano i destini della Nazione e
la potenza dello Stato. Da questo punto di vista,
ovviamente, i migranti non sono altro che nemici,
da respingere con le buone - polizia e diritto - o
con le cattive - trincee, esercito, armi.
: un confine da rispettare
La seconda possibilità è la negazione dell’idea di
frontiera a favore di quella di confine. È il meccani-
smo di generazione dell’“essere-PD” continentale.
L’espressione non è felice, ma non c’è altro modo
di descrivere il fenomeno di cui parlo. L’essere-PD,
infatti, si colloca al di là della linea tradizionale
che distingue la destra dalla sinistra politica e che
è ormai inadeguata a descrivere i sistemi partitici
europei. Il PD, tuttavia, confermando la vocazione
storica dell’Italia a essere il laboratorio di discutibili esperimenti politici, realizza in modo compiuto
questa condizione. Un partito unico senza una vera
opposizione che incorpora nel proprio governo
tutto l’arco politico nazionale. Di cui, perciò, si
può dire tutto e il contrario di tutto. La sua identità politica consiste nell’affermare che esistono i
confini, ma nel negare che siano delle frontiere. I
migranti, da questo punto di vista, non sono più
nemici, dato che non attentano alle nostre frontiere, ma diventano criminali, visto che violano i
nostri confini infrangendo i confini amministrativi, che garantiscono la legalità di passaporti e
documenti di identità.
Questa posizione solo all’apparenza è più mite.
L’esistenza della frontiera è negata, ma dato che
la sua realtà non è cancellabile attraverso declamazioni politiche, essa ritorna a tormentare, come
un fantasma, il confine. Confine e frontiera, insomma, sono dissociati in modo psicotico. Da ciò
discende tutto ciò che è fastidioso dell’essere-PD.
In particolare, nel caso dei migranti, fariseismo
legalista e afflato internazionalista posticcio, cioè
l’accoppiamento inconsapevole e compiaciuto della
retorica dell’accoglienza con il rumore sinistro di
manganelli e spranghe dei chiavistelli - cioè, «i
migranti sono benvenuti», seguito dalla clausola
«purché rispettino le nostre leggi». In breve, se il
lepenismo e i suoi gemelli politici vivono in un
regime di paranoia spinta, l’essere-PD, invece, si
trova in una condizione di schizofrenia euforica
- ovviamente, l’euforia nasce dalla strana idea che
siamo in un mondo senza frontiere.
: dissociazione tra confine e
frontiera
La terza possibilità, infine, consiste nella dissociazione della nozione di frontiera da quella di
confine. Questo tipo di movimento non mi sembra
abbia prodotto alcuna formazione politica pubblicamente riconoscibile, ma mi sembra molto inte-
di lunga durata, ma, adesso, anche di una facile
constatazione di cronaca. Negli ultimi anni la
guerra, infatti, lentamente sta muovendosi verso
l’Europa. Dalla Tunisia fino all’Ucraina, il continente è circondato da crisi belliche a diverso
potenziale esplosivo. In secondo luogo, offre
un’immagine triste della politica. Né semplice
spazio amministrativo, né luogo dell’utopia, essa
si impernia sull’inevitabilità della guerra e sulla
scelta dei nemici. Da questo punto di vista, però,
il suo carattere aspro e impastato di morte può
essere attenuato cambiandone l’orientamento.
Non più l’arte del rendere possibile l’impossibile,
ma capacità di rendere impossibile il possibile,
cioè la morte, la violenza, le guerre e lo sfruttamento. Una definizione negativa e debole, ma
che almeno ha il vantaggio di mettere in luce la
relazione essenziale che lega la politica al potere,
anche quando la prima lavora alla riduzione del
secondo.
di mur o in mur o / 1
ressante per gli effetti che può produrre. Innanzitutto, chiude definitivamente la strada che porta a
identificare i migranti con criminali e nemici. Nel
primo caso perché, privo del peso della frontiera,
il confine non è più investito politicamente, ma
esiste solo come forma legale. Di conseguenza, il
crimine torna ad essere quello che è - un’infrazione legale - che chiunque può commettere, senza nessun sovratono politico. Nel secondo caso,
perché la separazione della frontiera dal confine
e dalla sua immobilità amministrativa permette
di pensare il nemico non come chi attraversa un
confine, ma come chi concentra potenza in sé
ed esercita il potere che nasce da quella potenza.
In questo modo, il nemico diventa una griglia
di analisi politica attraverso la quale ricercare i
focolai di guerra reali e quelli potenziali, dentro
e fuori gli spazi statali.
Naturalmente, questo modo di impostare la
relazione tra frontiera e confine ha dei costi. In
primo luogo, porta in primo piano la guerra come
funzione costitutiva della democrazia occidentale. Non si tratta solo di un orientamento storico
Walter S. Baroni
Università di Manchester
11
Guardando verso Rancho Anapra dal New Mexico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
di mu ro in mu ro / 2
Muri invisibili: povertà e potere
di
Roberto Radice
Le donne, i chapati, le formiche
12
I bimbi, con vestiti a brandelli dall’usura, giocano tra le fogne a cielo aperto mentre succhiano
il nocciolo sfilacciato di un mango. La polvere si
impasta all’odore nauseabondo dei rifiuti accatastati in ogni dove. Bande di ragazzi di strada, che
sniffano colla o kerosene, vagano come zombi in
pieno giorno. Le donne vendono frutta, verdura o
preparano chapati - come icone di una storia mai
narrata - lungo i bordi delle strade che sembrano
percorse da eserciti di formiche: persone che camminano verso destinazioni sconosciute. La sera,
prima che faccia troppo buio e le strade divengano
troppo insicure, trovi ai banchetti dei jua kali - in
kiswahili significa «coloro che stanno sotto al sole»
ovvero i venditori informali - le zampe dei polli e
le teste dei pesci, con rispettive lische: tutta carne
scartata dai grandi centri commerciali e dagli hotel
lussuosi di Nairobi e recuperata dalla discarica di
Dandora. «L’Africa produce quel che non consuma
e consuma ciò che non produce»1!
Nairobi, due città divise
Benvenuti a Korogocho, una delle oltre duecento
baraccopoli di Nairobi, capitale del Kenya con i
suoi sei milioni di abitanti. A Korogocho circa 250
mila persone vivono, sardinizzate, su un terreno di
poco più di un chilometro quadrato di proprietà
dello Stato.
Se ti addentri in un qualunque slum di Nairobi
la cosa che più ti colpisce è la miseria. Lo slum si
caratterizza per le sue assenze, per i vuoti assordanti nell’estrema densità e non per la sua essenza.
Questa situazione, che può essere definita di
“apartheid economica”, è evidente anche a livello
visivo: infatti Nairobi è due città che si sviluppano
su due livelli distinti e separati: la prima sta in
alto, si innalza verso il cielo ed è la città legata
economicamente al resto del mondo globalizzato, il miraggio, l’epicentro del benessere e della
tecnologia; la seconda è la città aliena, della terra,
delle baraccopoli che sono poste sotto il livello
fognario della prima città, dove chi ci vive non
Alberto Salza, Niente. Come si vive quando manca tutto.
Antropologia della povertà estrema, Sperling & Kupfer, Milano
2009, p. 18.
1
è considerato un concittadino poiché è come se
non esistesse. Nelle mappe catastali le baraccopoli
non compaiono: sono segnate come spazi bianchi.
Fuori, niente di niente
Ma la povertà è solo miseria intesa come mancanza
di cibo e acqua, mancanza di igiene, di educazione?
Curioso come in Africa la povertà non sia quasi
mai associata alla povertà materiale, ma è povero
chi è solo, chi non ha amici.
A noi serve vedere nei dannati della Terra dei
mendicanti bisognosi: avere pietà di loro è un modo per avere pietà di noi stessi. Ma qui vogliamo
decostruire l’equazione povertà = miseria, poiché
negli anfratti arrugginiti di uno slum si comprende
come la povertà sia anche altro.
Povertà non è solo miseria ma significa che qualcuno è meno essere umano di qualcun altro. Ci
sono territori di miseria estrema che sono “spazi
di eccezione”, dove viene confinato chi non è considerato un essere umano e la sua vita è uccidibile
senza che chi la uccide commetta reato. La povertà
quindi non è riduttivamente solo deficit di denaro
ma anche un deficit di potere. Gli impoveriti non
sono tanto vittime ma scarti che devono essere
raccolti, rinchiusi e rimossi. Non è un problema
tanto la povertà, anzi può essere un fertile campo
dal quale trarre profitto sulla pelle altrui, ma lo
sono i poveri. Su di loro viene applicata la teoria
del Niente2: niente cibo, niente acqua, né salute
né soldi, niente abitazione o terra su cui vivere,
niente cultura e niente educazione, niente diritti,
niente pace, nessuna patria e nessuna legge, niente
ambiente sano, niente infanzia né vecchiaia, niente
possibilità, niente sogni. Alla fine ti convinci che
non sei niente. I miserabili stanno assumendo
sembianze non umane attraverso questo processo
antropologico.
È questo un potere che, sempre attraverso il dispositivo spaziale di muri invisibili, etichetta gli
individui: l’abitante delle baraccopoli è chiamato
in senso dispregiativo squatter, cioè “persona che
si accovaccia”, persona che si racchiude, si piega su
sé stessa per difendersi e nascondersi dagli abitanti
della “città dei grattacieli”, ai quali cela persino di
vivere nell’out-città Korogocho poiché «la gente
2
Ivi, p. 10.
Korogocho, ammassati, dimenticati
«L’alterità sembra stia assumendo un tratto che
definirei provvisoriamente come “radicale”. Essa
si configura come correlativa a un potere che non
impone nomi, che non si esercita nel discriminare,
escludere, stigmatizzare - bensì ignora: negando
all’Altro qualunque tipo di riconoscimento, per
quanto discriminatorio, e dunque condannandolo
a una condizione di non-esistenza sociale (da cui
può derivare anche, e non di rado deriva, una
messa in forse della stessa sopravvivenza fisica
delle persone)»4.
Un giornalista si è espresso così dopo la tragedia che ha visto morire più di cento persone dello
slum di Sinai, nell’area industriale di Nairobi, dopo un’esplosione di un deposito di petrolio della
Kenya Pipeline Company: «Gli abitanti degli
slum sono un’entità del tutto anonima: i milioni
di nairobiani che sciamano dalla parte misera della città per riparare le sue automobili, per scopare
le sue strade, per costruire i suoi grattacieli e far
da guardia ai suoi palazzi».
Korogocho non è solo il luogo fisico dove vengono buttati tutti i rifiuti della Nairobi ricca, ma
è anche il centro di raccolta indifferenziata per
vite rifiutate, per vite di scarto: profughi di guerre
e carestie, orfani, criminali, donne sole, alcolisti.
Esistenze che sono out. Uno spazio che addensa, devasta, cancella. Ogni cosa è ammassata l’una
sull’altra, le cose così come le persone. Senza che
siano costruiti fossati o mura invalicabili, «questi
nuovi muri si configurano piuttosto come dispositivi di separazione con il compito semplificato, direi sbrigativo, di tenere fuori»5 un’umanità
superflua.
«I nuovi muri, anche quando producono effetti
di segregazione, ignorano le persone. Essi rispondono a una logica che si esercita su, e perimetra un
territorio invece che delle persone, che non sono
oggetto di alcun trattamento - se non in maniera
indiretta, per effetto appunto del trattamento dello
spazio, del suo ridisegno. Tali effetti possono essere
molto pesanti per gli interessati, e lo sono tanto
più quanto più tali effetti sono ignorati; e con loro
sono ignorate le persone che li vivono»6.
E come uno specchio che deforma la realtà e
la rifrange ricreandola, ecco che «i “nuovi muri”
proliferano anche al polo opposto dello spettro
sociale, a difesa degli spazi del privilegio, territori “securizzati” per l’appunto dalle minacce dell’alterità. Sono le gated communities, aree
W. Wink, Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un
mondo di dominio, EMI, Bologna 2003, p. 186.
4
O. De Leonardis, Alterità, Distanza. I nuovi muri di un
potere che ignora, Articolo tratto da: http://www.souqonline.it/
home2_2.asp?idpadre=933&idtesto=657.
5
Ibid.
6
Ibid.
private residenziali con i propri servizi riservati, commerciali e sociali, ivi comprese scuole e
polizia, che si governano come un club, o una
società e cioè con una forma di governo privato.
Queste forme di convivenza umana, per così dire
a parte rispetto al territorio circostante, separate
e fortificate - extra-mondi dice Mike Davis sono diffuse dappertutto, dentro e intorno alle
metropoli del sud come del nord e assumono a
volte le dimensioni di una città vera e propria»7.
di mur o in mur o / 2
povera è umiliata, pensa di non valere nulla, si
convince quasi di non esistere»”3.
Ma Korogocho… ma la vita…
Torniamo nello slum.
Korogocho è forse luogo che non si può comprendere ma solo incontrare. Qui si ritrovano, si
raggrumano e a volte si recuperano oggetti e vite
scartate. Korogocho è luogo di creatività, delle pluriattività, del sapersi arrangiare, delle piccole cose,
del frammento, perché «i più lontani dal centro
del potere, sono i più vicini al cuore delle cose»8.
Korogocho è il luogo dell’incontro di chi non
ha potere, ma ogni giorno, in modo del tutto inaspettato, si crea la vita perché la vita è qualitativa e
non rientra, riduttivamente, nella quantificazione
della soglia del meno di un dollaro al giorno. Di
ragazzi di strada con la colla sotto il naso per non
sentire la fame ed ex ragazzi di strada con una
solare dignità; di donne sole, che hanno deciso
di dedicare la loro vita all’aiuto di altre donne
malate di Aids e agli orfani di questo killer; di
giovani che nonostante siano nati e cresciuti in
una baraccopoli sanno alzare lo sguardo anche
dove sembra non esserci orizzonte; di missionari
che non vogliono il potere della Chiesa dei palazzi
e vivono come vicini di baracca del popolo di Korogocho; di uomini distrutti dall’alcol, di criminali
che nella loro vita hanno fatto il peggio che si
potesse compiere e ora hanno trovato rifugio a
Korogocho, dove ogni giorno, vivendo in strada, prendono botte ma dove qualcuno riconosce
in loro ancora un volto del quale prendersi cura.
Della donna del mercato che ogni giorno ti vende
frutta e verdura; di sconosciuti che, nel salutarti,
per prima cosa ti chiedono come stai; di incertezze, di cambiamenti di programmi, del non essere
mai in ritardo perché in Africa è il tempo che è in
anticipo. Della relazione con un dio che prima di
essere fede è un percepire profondamente la sua
presenza in ogni pasto condiviso, in ogni giornata
conclusa sentendosi sfiniti per tutte le mani strette
e i passi percorsi. Del camminare accanto a chi
è diverso da te e, come recita un proverbio del
nord del Kenya, «occorre camminare cinque mesi
nei sandali degli altri, prima di capire sé stessi»9.
Korogocho sembra non buttare mai via niente e
3
Ibid.
A. Zanotelli, I poveri non ci lasceranno dormire, Monti,
Saronno 1996, p. 21.
9
Alberto Salza, Niente. Come si vive quando manca tutto.
Antropologia della povertà estrema, Sperling & Kupfer, Milano
2009, p . 29.
7
8
13
di mur o in mur o / 2
forse è proprio essenziale ascoltare tutte le voci e
non buttarne mai via nessuna. Ascoltare per ridare potere, perché il potere non è solo un qualcosa
di sporco, contaminato da interessi, affari illeciti, corruzione, abusi e privilegi, sopraffazione. Il
potere o è servizio o è ansia di compensazione.
Esiste anche il potere inteso come processo di
empowerment, come azione non per colmare
mancanze incolmabili, ma per implementare
le risorse disponibili così che i soggetti siano in
grado da loro stessi di implementare la propria
trasformazione. Per divenire, finalmente, esseri
umani con pieni diritti e doveri.
Le mentine del podestà
14
Altrimenti si finisce per dare sempre mentine da
succhiare, come narra il geniale Ascanio Celestini: «I poveri erano così poveri che presero la
loro fame, la misero in bottiglia e se la andarono
a vendere. Se la comprarono i ricchi. I ricchi che
nella vita avevano mangiato di tutto però la fame
dei poveri in bocca non gli era passata mai. Così
allora i ricchi tirarono fuori i soldi, la pagarono
bene e i poveri gliela vendettero e per un po’ tirarono avanti. Ma poi tornarono a essere poveri.
I poveri vendettero ai ricchi la sete, la rabbia, la
meraviglia, le parole, la violenza, la musica, il pudore, la pietà e tutta la loro cultura. E intanto i
ricchi accumulavano, nelle loro cantine, bottiglie
su bottiglie e in quelle bottiglie c’erano tutta la
cultura, la rabbia e l’orgoglio dei poveri. E quando
i poveri tornarono a essere poveri, presero la loro
povertà, la misero in bottiglia e se la andarono a
vendere. Curiosamente se la comprano i ricchi. I
ricchi che per essere veramente ricchi dovevano
possedere anche la miseria dei miseri. I poveri gliela vendettero e per un po’ tirarono avanti, ma poi i
poveri tornarono a essere inesorabilmente poveri.
Allora i poveri ormai poveri, ormai più neanche
padroni della propria povertà si armarono. E non
di coltello e forchetta, bensì di fucili e pistole
perché la rivoluzione non è un pranzo di gala, la
rivoluzione è un atto di violenza. Armati, i poveri
marciarono verso il palazzo del podestà. Il podestà si chiuse dentro, barricato, era terrorizzato.
Vide i poveri che arrivarono, che erano armati
ma non facevano niente perché senza la rabbia,
senza la fame, la sete, l’orgoglio e senza cultura e
coscienza di classe non si fa la rivoluzione. Allora
il podestà capì e andò in cantina, prese una bottiglia, una sola di tutte quelle accumulate. In quella
bottiglia c’era la libertà di quei poveri che stavano
lì. Prese questa la libertà e gliela riconsegnò. I
poveri adesso avevano la libertà e ci potevano
fare una passeggiata, una canzonetta, un partito
ma non ci fecero niente perché la libertà da sola
non serve a niente. Allora il podestà capì, si cercò
nelle tasche e trovò un pacchetto di caramelle alla
menta e le regalò ai poveri. E i poveri tornarono
a essere liberi. Liberi di succhiare mentine».
Roberto Radice
collabora con i Comboniani nelle missioni in Kenya
e con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca
Guidando sulla Canam Highway, verso il centro di El Paso (Texas). Sulla destra, il Rio Grande e Ciudad Juárez (Messico). © Jesús Iñiguez / CultureStrike
Mario Bertin,
La soglia,
Postfazioni di Ivo Lizzola e
Giovanni Ruggeri,
Elliot, Roma 2015,
pp. 85, eur 12,00.
La soglia di Mario Bertin è un
dono.
Scrive Mario Bertin che «amare davvero è imparare a morire», e ce lo svela come ciò che
resta, non consumato, sulla
soglia. Giunti lì, attraversato
il vuoto e a mani vuote, l’aperto che senti (e credi) venire a coglierti è ciò che respira
dell’amore, dell’amicizia, della
gratuità delle azioni, della generosità dell’offerta del sé, del
dono, del perdono…
Chi giunge sulla soglia tra
la vita e la morte, e si sporge sull’aperto, può maturare
il senso e il compito della
testimonianza. Da rendere a
chi, ancora immerso nel tempo saturo della vita, rischia
di perdere il valore di gesti e
parole.
Mario Bertin scrive da testimone della imminenza, avendo
vissuto che, sulla soglia, «la
carne si fa parola» come diceva l’amico Pietro Barcellona.
Perché lì il rapporto di sé a
sé non è più di possesso, né
di controllo, neppure di confidenza.
Lì ci si trova in un luogo spirituale, come un «chiaro del
bosco» apertosi senza preavviso. In ogni piccola cosa quotidiana si accede all’abisso,
all’ignoto o allo stupore, alla
gratitudine. Ogni piccola cosa
cela l’abisso.
Ma ci si trova anche in un
luogo concreto di relazioni tra
donne e uomini che somiglia
a una risorgiva. Prossimi, familiari e operatori della cura,
dell’assistenza trovano nelle
pagine di Bertin uno specchio
esigente, che apre interrogazioni e offre orientamenti.
Perché siano capaci di un
«amore paziente»: quello
della concretezza contadina
che attende che la vita trovi
la sua strada, la sua propria
configurazione, un suo unico e
particolare equilibrio.
Mario Bertin ci racconta, sulla
soglia, d’una umanità sorprendente e semplice. L’ha incontrata e vi si è riconosciuto. Vi
ha sentito la tenerezza di Dio,
la carezza dell’aperto.
Dentro le trame del dono,
dell’offerta, del perdono, le
persone apprendono, insieme,
a sapere che farsene della
proprio impotenza. Proprio
dove persone fragilissime rischiano l’annullamento di ogni
possibilità narrativa, proprio
lì si possono tessere trame di
veglia e ricerche concrete che
possono portare a dire: «credo di potere, posso provare a
potere»; anzi, «devo provare a
potere perché tu ci sei».
Il libro di Mario Bertin è prezioso anche per quanti sono
costretti a guardare in faccia
la vita che prova, che attraversa fratture e abbandoni.
Nella situazione umana della
ferita, della debolezza irriducibile (come dell’esilio, della
migrazione, dello sperdimento)
è l’ignoto che ci viene incontro.
E la vita si propone nella sua
inattingibilità, nel suo esilio.
Ci sono uomini e donne che
non sopportano la «mistica
della fragilità», che produce troppo spesso esclusioni
e subalternità, volontariati
soffocanti, meritori o un po’
sacrificali. Ci sono uomini, e
molte donne - ce ne parla Bertin - che però hanno scoperto
questo, e che questo ci indicano e ci consegnano. Uomini e
donne attenti alle crepe della
vita: lì nidifica la colomba del
Cantico.
A loro è donato il libro.
Ivo Lizzola
•••
Jalāl al-D¯n Rūm¯,
L’amore è uno straniero.
Poesie scelte,
Astrolabio Ubaldini, Roma
2000,
pp. 128, eur 10,00.
Jalāl al-D¯n Rūm¯,
Poesie mistiche,
Rizzoli BUR, Milano 2014,
pp. 144, eur 9,00.
«Sono venuto a prenderti, a
tirarti per l’orecchio
a privarti del tuo cuore e di te
stesso e a metterti nel Cuore
e nell’Anima!
Son venuto qual lieve primavera da te, o cespo di rose,
ad abbracciarti a me stretto, e
a sfogliarti dolcemente!».
La monumentale Divina Commedia conta 14.233 versi,
endecasillabi incatenati. A lei
ci riferiamo non solo come a
uno dei 3 più grandi capolavori
della letteratura mondiale di
ogni tempo, ma come a un’opera polisemica e sterminata.
Il grande poeta mistico persiano Mevlana Jalaluddin Rumi (1207-1273) ci ha lasciato
30.000 versi di appassionata
poesia lirica. Conosciutissimo
e celebrato in tutto il mondo
islamico, da pochi decenni si è
incominciato a tradurlo anche
in Occidente, Italia compresa.
L’interesse per il sufismo, la
corrente mistica, si è finalmente risvegliato (anzi, svegliato, visto un silenzio durato
secoli) in parallelo alla riscoperta della mistica ebraica
(fondamentale l’opera di Aleichem Sholem) e allo studio dei
grandi mistici - e soprattutto
mistiche - cristiani.
Nelle grandi religioni monoteiste le correnti mistiche
non hanno avuto molto più
fortuna di quelle pauperiste.
Dimensione verticale (misticismo) e dimensione orizzontale (pauperismo) difficilmente
sopportano gerarchie e auto-
L IB R I
In-forma di libri
rità. Così, per qualche mistico
santo, molti altri sono andati
al rogo. I più hanno vissuto ai
margini, hanno avuto proseliti,
alcuni hanno fondato scuole,
ma sempre isolati e comunque
distanti dai dettami dell’ortodossia delle Chiese organizzate come eserciti.
Gialad Ad-Din Rumi (il nome
appare diverso per le differenti scelte di traslitterazione) è
stato un grande mistico, un
maestro con molti discepoli,
un derviscio (letteralmente
in arabo “monaco mendicante”). In lui si rinnova la corrente ascetica del sufismo, e
anche Rumi pratica la danza
roteante, un ballo rituale che
accompagna la preghiera.
Non pare quindi un caso che
la vita e la fortuna di Ad-Din
Rumi rimandino in qualche
modo a quella del suo contemporaneo Francesco D’Assisi,
entrambi ci appaiono animati
dal medesimo spirito.
Rumi - per questo se ne parla in questa rubrica - è stato
anche e forse soprattutto un
poeta straordinario. Accostarsi alle sue liriche d’amore (si
può dire che tutto il suo corpo
poetico è dedicato all’amore)
ci offre un dono e un insegnamento. Ci fa gustare ancora
una volta il potere evocativo
della grande poesia. E ci ricorda che l’Islam è stato (e ancora è: il sufismo non è morto,
non può morire) cosa molto più
grande di ciò che ci raccontano le cronache insanguinate di
questi anni.
Effe Emme
•••
Ulrich Beck,
Il Dio personale. La nascita
della religiosità secolare,
Laterza, Roma 2009,
pp, 258, eur 16,00.
La molteplicità delle espres-
15
libr i
sioni religiose, con le loro gerarchie, riti, dogmi, ricorrenze
ecc. ha contraddistinto per
millenni culture, popolazioni
e tuttora denota luoghi e designa tempi per la narrazione
del “sacro”.
Tuttavia la società attuale,
postmoderna, impone una riflessione: quali sono le manifestazioni, i rituali riconosciuti
e condivisi che in questo XXI
secolo caratterizzano le esperienze religiose?
A questa domanda, il sociologo Ulrich Beck propone una
riflessione articolata anche se
fin dall’inizio esprime la consapevolezza della complessità
dell’argomento.
La secolarizzazione, che decretava la perdita di rilevanza
nella vita sociale e la presunta
fine della religione, ha di fatto fallito nel suo intento e ha
gettato le basi per la rinascita
di una nuova spiritualità e religiosità “adattate ai tempi”.
Per le religioni liturgiche,
istituzionali tuttavia, questo
processo comporta nello stesso tempo il pericolo di essere
svuotate, anzi profanate dai
movimenti tendenti a valorizzare espressioni alternative
di spiritualità vissuta e dalla
concorrenza che sempre più fa
breccia nella riflessione religiosa di un “Dio personale”.
Una nuova cultura spirituale, superando i confini ormai
ristretti di singole nazioni,
«ha tratto discrezionalmente
i suoi contenuti religiosi e le
relative prassi da diverse tradizioni religiose e spirituali
dell’Oriente e dell’Occidente
per assemblarle nelle forme
del Dio personale».
Ma chi è questo Dio persona-
16
Murale Amor Por Juárez nel centro di El Paso in Texas. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
le? È la scoperta soggettiva
dell’elemento religioso. Questo è quanto U. Beck desume
anche dai diari di un’ebrea
olandese, E. Hillesum, morta
nell’ottobre 1943 in un campo
di sterminio: «Quando prego,
scrive Hillesum, non prego mai
per me stessa, prego sempre
per gli altri, oppure dialogo in
modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io
chiamo Dio».
Recentemente anche il teologo
Vito Mancuso nella sua opera
Dio e il suo destino si pone la
domanda: è lecito parlare di
un Dio personale?
Occorre però chiedersi cosa
si intende per personale; se
intendiamo persona/personale la capacità di relazione,
ruolo, polo in grado di istituire un rapporto, tale termine
può essere attribuito a Dio.
È sicuro, prosegue Mancuso,
che è possibile relazionarci
a Dio in modo personale, c’è
tutta la storia della spiritualità occidentale a mostrarlo.
In un certo senso è doveroso
rapportarci a Dio in modo personale, intendendo con ciò la
relazione più profonda che a
noi è possibile istituire.
Questa relazione con il Dio
personale interseca però
quello spirito individualistico
contemporaneo che ci conduce alla domanda, sollevata
nel testo dell’autore: qual è
il proprium specifico del Dio
personale? Ancora: il Dio personale è davvero dio oppure
è solamente idolo del proprio
sé?
Giuseppe Cavalieri
sociologo
Giovanni Realdi
Di cosa parliamo quando
parliamo di gender?
Tre esercizi utili
PIANOTERRA
di
Cocchi che corrono sul mare
Pedalo, quasi in ritardo, verso la scuola. Le fameliche locandine delle edicole “denunciano”
come una famiglia su sette, in città, possegga armi da fuoco. Nella testa, suoni e immagini
si sovrappongono: la radio mattutina che prova a spiegare le leggi danesi sulla confisca
di beni ai migranti; la rivista che riporta l’inchiesta dello Spiegel sulla notte violenta del
capodanno di Colonia...
Questi fatti esistono, dunque se ne può parlare: il linguaggio si piega sull’esistenza per
darle un qualche contorno, per ricostruirne la tridimensionalità all’interno di una cornice
di senso. Partire da un fatto, anche minimo, per poi valutarne le sfumature e le implicazioni
e quindi ottenere informazioni per agire, volendo.
Eppure accade anche il contrario: possiamo parlare di ciò che non esiste, come la chimera
o i «cocchi che corrono sul mare», secondo l’esempio del sofista Gorgia, che in questo
modo ribadiva la separazione tra essere e linguaggio, e con essa l’impossibilità dell’uomo
di avere la certezza di pensare la verità. Curioso, ma non troppo: un mio caro studente
di terza, leggendo le pagine dedicate a quel filosofo greco, pensava si trattasse di noci di
17
I murales del Centro de Los Trabajadores Agricolas Fronterizos di El Paso. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
PIANOTERRA
cocco in libera uscita sulle distese marine. Che un antico ellenico
immaginasse carrozze trainate da cavalli e non frutti esotici non è
una cosa ovvia. E ognuno, con il linguaggio, costruisce la propria
realtà.
Uno spettro s’aggira per l’Europa
18
Così, mentre l’Europa deve (vuole?) affrontare una delle più ingenti
crisi umanitarie degli ultimi anni e, correlata ad essa, la discussione
sui limiti da imporre allo stato di diritto in nome della sicurezza,
in Italia ci dividiamo tra famiglie arcobaleno e family day. Ma
questa non vuole essere un’accusa di provincialismo; non si tratta
di piangere sulla nostra patria piccineria, perché in fondo si tratta
pur sempre di un dibattito pubblico, o quasi, e il dibattito esiste se
la democrazia gode ancora di una certa salute. Il problema potrebbe
piuttosto consistere nella qualità di questo dibattito.
Ben prima, infatti, che s’iniziasse a parlare della “legge sulle
unioni civili” (il cosiddetto ddl Cirinnà), il dibattito è stato infatti
condizionato da uno spettro che porta il nome di “ideologia del
gender”. Chi, come me, abbia la ventura di lavorare nella scuola
cattolica, sa che da almeno due anni a questa parte sono arrivati
precisi ordini di scuderia al proposito, amplificati e giustificati in
itinere da decreti comunali su liste di libri vietati o interpretazioni
deliranti di presunte indicazioni dell’Organizzazione Mondiale
della Sanità. Se l’allegro studente legge nei “cocchi” di Gorgia delle
noci difficili da rompere, un certo numero di italiani, impaurito,
se non terrorizzato, inizia a leggere ovunque intorno a sé i segnali
della corruzione dei costumi. Il tempo per pensare a ciò di cui
si sta parlando non esiste, a quanto pare, e dunque - invece di
sospendere il giudizio - si comincia a ragionare come se l’oggetto
della discussione fosse reale. E così, tale oggetto si fa reale, inizia
a esistere, prende vita, come il mostro di Mary Shelley. E, siccome
è vero ed esistente, persino il documento di sintesi del recente
Sinodo dei vescovi della Chiesa Cattolica lo mette nero su bianco,
nella relazione finale (punto 8): « Una sfida culturale odierna di
grande rilievo emerge da quell’ideologia del “gender”che nega la
differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna». Sì che loro,
i vescovi, tempo per pensare ne avrebbero.
Il Golem: tre esercizi
La domanda può però arrivare dal “basso”; la questione può essere posta, tra il serio e il faceto, dagli studenti. E allora, come
affrontarla e fare, di un fantasma, carne e sangue? Qui, più che il
Frankenstein, va evocato il Golem di Meyrink, un essere d’argilla,
un servo, costruito apposta per esser utile nei lavori pesanti o per
difendere; un ròbot, avrebbero detto in Boemia. Ciò che creeremo,
ci servirà per affrontare meglio la realtà, e nello stesso tempo per
difenderci dal “sentito dire”. La questione infatti si fa filosofica e, nello stesso momento, pedagogica, quando focalizziamo la
domanda principale: «Di che cosa parliamo, quando parliamo di
ideologia del gender?».
Qui sta il primo esercizio: tornare a dare alle parole il peso posseduto, e poi scordato. La domanda, infatti, non è retorica, non
presuppone cioè una risposta ovvia (del tipo: non stiamo parlando
di nulla perché tale ideologia non esiste). Si tratta di partire da una
socratica ignoranza da condividere: davvero, non so che cosa sia, e
ora potremmo capirlo insieme. La consistenza, o l’inconsistenza,
dell’oggetto non possono essere suggerite a priori, e nemmeno al
termine del percorso: il risultato, come ricorda Marianella Sclavi,
è la parte più effimera della questione. Il cuore sta nel percorso
da fare, e da fare insieme, perché va sempre ricordato, metodologicamente, che i ragazzi in età scolare (parliamo di classi delle
superiori) sono spugna e cartina tornasole della società. E tutto il
mio eventuale carico ideologico personale nulla può contro convinzioni, o spesso misconceptions, che capitano nella testa e nel cuore di
queste persone. Se, rabbiosamente, andrò a negare la consistenza
dell’ideologia del gender, ebbene otterrò l’effetto opposto, confermando la tesi: sarà infatti la mia rabbia, o impazienza, a passare.
Ognuno se ne andrà con quanto aveva con sé all’inizio dell’ora.
Dunque, di che cosa si parla quando parliamo di ideologia? E poi:
di gender? Ecco che può venire impiegato con profitto il bagaglio
immenso di dati che è la rete Web. Si può partire cercando l’intera
locuzione - e quindi toccando con mano la miriade di opinioni
e di contro-opinioni che è fiorita negli ultimi tempi, e provando
a creare una gerarchia tra le fonti, tra l’attendibilità dei siti e dei
commentatori, tra i linguaggi dei commentatori. In seconda battuta, è possibile scindere l’espressione e allargare la visuale sulle
ideologie dal punto di vista storico, sull’uso descrittivo o valutativo
del termine; per poi porsi il problema, infine, della traduzione
italiana di gender; della differenza tra sesso, genere e orientamento
sessuale; del contributo dei gender studies e così via.
Dalle parole alle posizioni
Questa prima fase potrebbe essere caotica e spontanea. Può costituire un modo per chiarire i termini e insieme prendere dimestichezza con i mezzi attraverso cui reperire le informazioni. Il
gruppo classe può provare a dare consistenza all’espressione, in una
discussione collettiva, in cui qualcuno abbia lo specifico compito
di schematizzare il materiale che emerge.
Il secondo passaggio/esercizio potrebbe fare leva sulla naturale
predisposizione dei ragazzi alla “polemica”. Ciascuno di loro si
sarà probabilmente fatto un’idea della questione, anche pallida: ora
che sappiamo dove cercare e che cosa evitare, possiamo dividerci
in due gruppi. Da un lato coloro che cercheranno motivazioni
e argomentazioni a favore dell’esistenza dell’oggetto; dall’altro,
coloro che la negheranno. Questa fase è ancora descrivibile come
“ricerca del materiale”, ma in questo caso si tratta di annunciare
esplicitamente l’intento dialettico dell’operazione. Si chiama alle
armi (logiche), si innesca il conflitto, dimensione sana ma che si
vorrebbe espulsa dalla scuola: non è più curiosità libera e un poco
svagata, ma l’indagine si colora emotivamente di agonismo, di
sfida. Qui in ballo c’è da aver ragione sull’avversario.
«Avere ragione». Non c’è nulla di più entusiasmante, talvolta, in
un’aula, di poter trionfare sulle opinioni altrui. L’adrenalina si percepisce sensibilmente, le amicizie traballano, i banchi scompaiono
per lasciar spazio all’arena dei gladiatori. E questo avviene se il
clima non risulta congelato da un docente che «ha sempre ragione
lui», se cioè le ragazze e i ragazzi sono in qualche modo abituati
ad averla vinta, qualche volta. Non sempre, perché a nessuno piace
vincere facile. Ma nemmeno mai, ma non perché davvero il prof
trionfi sempre, ma al contrario per il motivo che un adulto che
abbia questa pretesa, dopo un po’ non viene più calcolato. Lo si
lascia parlare.
Rebus e parole incrociate
Il materiale raccolto in questo momento passionale andrebbe saggiamente organizzato in argomentazioni e cioè considerato per la
propria potenzialità di convincere gli altri. Anche questo esercizio
risulterà più complicato del previsto. Perché? Mi si perdonerà il
quello curato dal dott. De Conti dell’ateneo patavino). Una delle
caratteristiche principali di questi schemi di dialogo è costituita
dalla consapevolezza (chiara e condivisa fin dall’inizio) che l’esposizione deve essere sottoposta a una tempistica chiara - cioè
non si parla per ore, né all’infinito - e a una rigida alternanza tra
le posizioni. Quando lo si applica, si prende atto di una dinamica
quotidiana assai invadente (latina? Non certo anglosassone): l’incapacità di lasciar terminare il discorso, spesso anche solo la frase,
al nostro interlocutore.
Che cosa nascerà alla fine dell’esposizione delle tesi, delle argomentazioni, delle contro proposte? Non possiamo saperlo. Il gruppo potrebbe essere invitato a dividersi nuovamente e fisicamente
nello spazio dell’aula: alla mia destra coloro che, alla fine, pensano
che l’oggetto esista, alla mia sinistra il viceversa. Si dirà - ed è vero
- che, alla fine, questi esercizi valgono per qualunque argomento;
si dirà che, alla fine, non avremo ottenuto alcuna certezza assoluta.
E anche questo è vero. Ma se diamo credibilità all’ipotesi che sia il
linguaggio a creare la realtà (o qualche suo tratto), questi esercizi
di linguaggio, come parola e come scambio, porteranno alcuni a
incontrare una realtà nuova, quella dell’affrontare le cose non sulla
base della paura, ma con lo strumento della ragione.
PIANOTERRA
gioco di parole, ma la ragione sta proprio nel fatto che alunne e
alunni sono avvezzi ad esercizi e non a problemi. Mi spiego: un
problema, dice Dario Antiseri, «è una domanda per la quale - chi
se la pone (scienziato o studente) - non ha ancora una risposta.
Un esercizio è una domanda per la quale chi se la pone ha già
una risposta (la teoria conosciuta o appresa sul libro di testo),
che va semplicemente applicata». Di esercizi è piena la scuola,
schiacciata com’è sulla misurazione della quantità di sapere verificabile, traducibile in quei numeri che sono i voti. Quindi ci sarà
un poco di smarrimento di fronte a una domanda di cui nessuno
ha una soluzione; la fatica dell’insegnante facilitatore sarà quella
di presentare l’indagine non come un mistero, ma come un rebus,
proprio come quelli della Settimana Enigmistica: la risposta, vi
assicuro, esiste. Ma è nascosta a me come a voi.
Predisposte le batterie di contraerea, affilate le baionette, caricate
le colubrine (polemos è “guerra”) si scenderà in battaglia. Qui la
fatica più grande sarà la gestione del tempo, perché questo terzo
esercizio ha il difficile compito di trasformare una sfida dialettica,
in cui cioè lo scopo è aver la ragione dalla propria, in un processo
dialogico, nel quale invece lo scopo è arrivare a una definizione
comune. Perché il tempo? Per la sua glaciale imparzialità. Esistono in rete veri e propri protocolli per le cosiddette “palestre di
botta e risposta”, esercizi di discussione normati e razionalizzati,
adattabili a qualunque argomento (tra i più validi, in italiano, v’è
Giovanni Realdi
insegnante di materie letterarie
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Il ponte di Santa Fe: uno dei tre punti di passaggio tra El Paso (Texas) e Ciudad Juárez. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
c a rte d ’a fr i c a
Madagascar
Situato a sud dell’equatore, nell’oceano Indiano, il Madagascar è la quinta isola al mondo
per superficie (592.040 km2) dopo l’Australia, la Groenlandia, la Nuova-Guinea e il Borneo.
Fa parte dell’Africa, dal momento che solo il canale del Mozambico, largo appena 400 km,
lo separa dall’Africa est continentale.
La grande isola, chiamata a volte «l’isola rossa» in riferimento alla laterite che colora le sue
pianure, si estende per 1.580 km da nord a sud e 500 km da est a ovest con una larghezza
massima di 575 km. È circondata dall’arcipelago delle Comore, delle Seychelles, dall’isola
della Réunion così come dall’isola Maurice.
Ci sono due stagioni: quella delle piogge (stagione calda), da novembre ad aprile, e la
stagione secca (stagione fresca), da maggio a ottobre.
Il suo lungo sviluppo geologico e la sua insularità hanno consentito al Madagascar di
sviluppare una biodiversità eccezionale, caratterizzata da record di endemicità stimati
all’80% per la fauna e al 90% per la flora. I lemuridi sono tra i simboli della grande isola.
Oggi se ne contano 102 specie, ma se ne scoprono di nuove ogni anno. Riguardo alla
flora, diverse varietà di baobab crescono solo in Madagascar. Senza essere esaustivi, 166
specie di palme, la stragrande maggioranza delle quali al «100% malgasce», innumerevoli
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La polizia di frontiera (Border Patrol) pattuglia il confine. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
La popolazione malgascia (circa 25 milioni di abitanti) è rurale
per più del 75% della popolazione: una grande maggioranza vive
di agricoltura di sussistenza. Circa il 64% della popolazione ha
meno di 25 anni, di cui circa la metà (47%) ha meno di 15 anni. La
popolazione malgascia è, dunque, una popolazione molto giovane;
il che è una caratteristica dei paesi in via di sviluppo. In Madagascar
si contano 18 tribù tradizionali: la diversità non è di tipo etnico
ma piuttosto di ordine geografico, politico o economico. Le due
lingue ufficiali del paese sono il francese e il malgascio.
È impossibile evocare il Madagascar senza parlare del riso e dello
zebù. Con questa graminacea, che rappresenta il loro nutrimento di
base, i malgasci hanno un rapporto che va ben oltre la semplice alimentazione e ogni fase della sua coltivazione è occasione di riti e feste.
Lo zebù, al di là della carne che fornisce, è venerato e molto
spesso viene associato a riti tribali e sacrificali. Molto più di un
semplice capitale, lo zebù è il simbolo di tutti i valori. Il colore
del suo manto esprime le circostanze gioiose o dolorose della vita.
Il bucranio (cranio e corna) orna le tombe, e il loro numero è in
proporzione alla potenza del defunto.
le nel 2013, ambisce a diventare «una nazione moderna e prospera».
La grande isola vuole diventare un punto di riferimento mondiale
in materia di valorizzazione e salvaguardia del suo immenso capitale naturale, basandosi su una crescita forte e inclusiva a servizio
dello sviluppo equo e durevole di tutti i suoi territori.
Il Madagascar, grande 60 milioni di ettari, 30 dei quali adatti
all’agricoltura, dispone di 18 milioni di ettari inutilizzati e disponibili per lo sviluppo. L’isola dispone di abbondante manodopera,
con una popolazione rurale di circa 15 milioni di persone, ma anche
di un ventaglio completo di ecosistemi così come di abbondanti
risorse idriche come 2.000 km di fiumi per approvvigionare l’energia e l’irrigazione. Il Madagascar è, inoltre, il primo produttore
mondiale di vaniglia.
c a rt e d’a fr ic a
orchidee (tra cui la rarissima Eulophiella dell’isola Sainte-Marie),
cactus ed euforbie, costituiscono la grande vegetazione del sud e
compongono sontuosi paesaggi.
Ricco di una natura a 5 stelle, il Madagascar si sta rivelando molto
attrattivo sul mercato dell’ecoturismo, con 4 riserve naturali, diversi
parchi nazionali, 5.000 km di spiagge, isole paradisiache e 3 siti
inscritti nel patrimonio mondiale.
Il Madagascar è anche conosciuto per la ricchezza del suo sottosuolo, che ha consentito lo sviluppo di filiere di piccole miniere (artigianali) e di grandi miniere. Oltre alle risorse di energia
rinnovabile, in Madagascar viene stimato un potenziale di 7.800
MW di energia idroelettrica.
Candide Horace
Il Madagascar ha ottenuto l’indipendenza nel 1960 dopo 64 anni
di colonizzazione francese. Indebolito da 4 crisi politiche, la prima
delle quali nel 2008, il Madagascar, tornato all’ordine costituziona-
medico malgascio,
presidente dell’Associazione “Etica ed Economia”
del Madagascar
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Yahaira fotografa la recinzione che segnala il confine a El Paso, Texas. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
b r a sile
Il Brasile e il colpo di Stato
senza carri armati
Una pagina già inscritta da tempo
In fin dei conti quanto sta accadendo oggi in Brasile è una pagina già inscritta da tempo
nella storia di questa terra sconfinata e paradossale, come per un destino ineluttabile dal
quale periodicamente non si può sfuggire.
Il Brasile, dal giorno dell’insediamento alla presidenza della repubblica di Luiz Inácio
Lula da Silva il 1° gennaio 2003, ha attraversato una delle fasi più felici e promettenti
della sua storia, pur evidenziando le contraddizioni e i vizi di sempre.
Il Paese è cresciuto e quindi possiamo credere che sia contestualmente cresciuto anche
il suo popolo. Nel mio ultimo viaggio del giugno 2015, il primo dopo sei anni e mezzo di
assenza, ho scrutato nei dettagli ogni possibile evidenza, cercando affettuosamente anche
ogni segnale di cambiamento.
Numerosi sono stati i dati che mi hanno confortato: un miglioramento visibile delle
condizioni socio-economiche generali, un contenimento provvidenziale di tutte le forme
di insicurezza collettiva, che invece nel passato spaventavano lo straniero ancora prima
che vi mettesse piede, e infine un quadro complessivo di fiducia nel futuro, associato alla
vocazione di Paese giovane e dinamico.
Certamente restavano inalterate le debolezze caratteriali di un popolo che manifestava
i difetti della propria natura, a partire dall’incapacità di uscire da un senso, dichiarato a sé
stesso, di provvisorietà eterna e di precariato, senza progetti forti e duraturi.
Tuttavia il vero anello debole della società brasiliana restava il sistema politico, che era
diventato finalmente sì democratico dopo i lunghi anni della dittatura militare, ma che
aveva conservato, dentro una certa farraginosità nel funzionamento delle istituzioni, due
gravissime patologie strutturali: la subalternità ai grandi interessi economici e una corruzione endemica e capillare.
E sono state proprio queste due patologie mai sanate ad affossare il lungo governo della
sinistra di Lula e di Dilma Rousseff.
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Una sinistra con il governo e
senza il potere
Il confine a El Paso, Texas. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
Di fatto la sinistra, che ha consentito ad alcune decine di milioni di brasiliani di uscire
dalla miseria, in questo favorita anche da una
congiuntura economica favorevole, e che ha
elaborato interessanti progetti sociali, non ha
potuto e forse nemmeno voluto scalfire i poteri forti del Brasile: un sistema industriale,
concentrato prevalentemente nello Stato di
San Paolo e ultraprotetto da privilegi quasi di casta, un latifondo pressoché padrone
incontrastato in molte aree rurali e nemico
dichiarato di qualsiasi riforma agraria, un sistema politico privo di forme efficaci di garanzia e di controllo, una rete infrastrutturale
arretrata e difficilissima da modernizzare, una
distribuzione ancora carente e inefficiente di
un’energia proveniente da fonti pressoché illimitate (petrolio, acqua, miniere), ma gestite
cattolica ha prodotto questa stortura pericolosa e apparentemente
irrefrenabile, quasi cancerosa.
La destra religiosa occupa spazi, apre centri di preghiera e di
indottrinamento, diffonde massicciamente un sistema radiotelevisivo organizzato quasi militarmente. Insomma, essa apre varchi
ovunque, dilagando nelle coscienze della gente semplice e soprattutto facendo il gioco dei padroni di sempre.
I giorni e i protagonisti della caduta
In questa crisi la sinistra è caduta rovinosamente dentro le proprie
contraddizioni, si è lasciata corrompere proprio dal sistema che
aveva combattuto lungamente e adesso è affonnosamente in difesa
di sé stessa. Il popolo l’ha lasciata e si sta consegnando nelle mani
di chi lo aveva sempre sfruttato e manipolato.
L’analisi di Leonardo Boff, ripresa generosamente dal progressista “Jornal do Brasil”, rivela impietosamente il dramma politico-sociale presente e oggi la sinistra si riscopre afasica e senza
strategie. Non a caso sta tentando la carta, dopo la destituzione
di Dilma, di elezioni anticipate, a seguito di una disperata modifica costituzionale, con un voto nel prossimo ottobre e con la
ricandidatura di Lula.
La destra sta pensando di arricchire questa modifica con il divieto
alla rielezione degli ex-presidenti, affossando in questo modo anche l’ormai stanco Lula, addirittura umiliato da un oscuro giudice
paulista, Sérgio Moro, e tradotto obbligatoriamente in un commissariato della polizia federale per rispondere di presunti abusi
finanziari di suoi familiari.
D’altro canto la candidatura di Lula è il segno di una disperazione
elettorale di una sinistra che sta affogando in un sistema politico,
che sta a sua volta affogando e che corre il rischio concreto di restare senza la prima, la seconda e la terza carica della Repubblica
Federativa.
Come è facile comprendere, in altri tempi un colpo di Stato
militare avrebbe rapidamente risolto ogni instabilità, con tanto di
carri armati per le strade, mentre oggi il sistema neoliberale si è
affinato e non ha bisogno di “putsch” cruenti. Può tranquillamente
organizzare e mettere in atto colpi di Stato senza carri armati.
È ormai tutta l’America Latina a essere attraversata da questo
vento di rivincita delle “destre eterne”.
Alla fine il PT è caduto nello sprofondamento tra le spire della
corruzione, che ha portato in carcere, anche attraverso giudici
locali non sempre obiettivi, una pletora di ex-governatori, exparlamentari ed ex-sindaci. Il discredito della sinistra di governo
è stato associato a un uso sapiente, da parte delle destra eterna, dei
mezzi di comunicazione sociale, che hanno ricominciato a soffiare
su un fuoco che aveva già cominciato ad ardere da sé, acceso dalla
fine lenta di un pur felice sistema di governo.
Dilma Rousseff è naufragata apparentemente nel nulla.
Di fatto è stata sottoposta a una sospensione con relativo processo parlamentare sulla base di accuse generiche e confuse. È
accusata di avere occultato deliberatamente i dati economici che
cominciavano a mostrare una crisi latente e soprattutto di avere
falsificato il bilancio pubblico.
In realtà non ci sono prove contabili o comunque documentali
di queste accuse, ma queste ultime sono bastate per inscenare un
triste e teatrale processo di messa in stato d’accusa, culminato con
una memorabile e teatrale seduta della Camera dei Deputati, che
ha compiuto il primo passo per la sospensione della Presidente,
lasciando la decisione definitiva al Senato Federale, che è riuscito
nell’intento di giustiziarla politicamente.
La regia di questa operazione ha due nomi noti a tutti: il vicepresidente Michel Temer e il presidente della Camera dei Deputati
Eduardo Cunha.
Il primo è un discusso avvocato paulista con una lunga serie di
procedimenti penali a proprio carico, leader del Partido do Movimento Democrático Brasileiro (il PMDB), alleato centrista del
PT e classico partito “ago della bilancia”, con tutti i vizi e nessuna
virtù di chi è ago di una bilancia politica tanto delicata.
Temer è un arrivista e un corrotto, ma è di fatto nelle mani del
secondo, Cunha, esponente carioca (di Rio de Janeiro) della destra
religiosa brasiliana e vero tirafili dell’operazione, anche se a sua
volta invischiato in una valanga di inchieste penali.
Sul ruolo delle libere Chiese evangeliche andrebbe aperta una
lunga parentesi. Basti solo dire che esse rappresentano il vero braccio armato, quello che invade le coscienze popolari, a disposizione
dei poteri forti di cui sopra.
Non a caso queste Chiese sono al momento il soggetto più scatenato e sulla prima linea di una battaglia che intende penetrare
capillarmente le aree più facilmente condizionabili del Paese.
Di esse abbiamo già detto in passato, ma oggi possiamo constatare amaramente che il loro ruolo è determinante per il lavoro
sporco in atto.
La doppia tragedia dell’invasione religiosa dell’America Latina
da parte delle Chiese nordamericane e dell’indebolimento negli
ultimi decenni dei settori più avanzati socialmente della Chiesa
br a sile
disordinatamente.
Alla fine, approfittando del logoramento inevitabile del governo
del Partido dos Trabalhadores, il PT, e dei suoi due presidenti con
tutto l’apparato di governatori e di sindaci “petisti”, la destra brasiliana ha compiuto un’operazione quasi perfetta di riappropriazione
sul sistema politico e di governo.
Va detto, per onestà intellettuale, che per questa destra eterna
il potere non era mai stato perso in un Paese che, più degli altri,
può affidare transitoriamente il governo a forze svariate, ma non
affida mai il potere a soggetti diversi da coloro i quali purtroppo
lo detengono da qualche secolo.
La fine della sinistra e i colpi di Stato senza
carri armati
Un insegnamento radicale
Da tutto ciò traggo un insegnamento radicale, che mi comunica
alcune verità profonde: il neoliberalismo è un sistema di morte,
la democrazia rappresentativa ha subìto un attacco sanguinoso da
parte di questo capitalismo innamorato della morte e soprattutto
la tanto agognata rivoluzione ha bisogno di nuovi processi, che
non sono più quelli delle lotte di liberazione romantiche di un
tempo e dei loro linguaggi stantii, ma di un’educazione politica
collettiva e di partiti politici che, dopo avere elaborato progetti di
sviluppo, li attuino in profondità e non si nascondano dietro una
pur lodevole e semplice iniziativa sociale.
Tutto ciò non è più sufficiente e il sistema delle destre eterne
va sconfitto sul serio.
Egidio Cardini
23
ec o n o m ia | po li ti c a
24
Bail in
Negli ultimi mesi si sono impiegati fiumi di inchiostro e di parole
Innanzitutto in economia vale il principio che non c’è alcun
per discutere di una serie di normative denominate bail in. Quepranzo gratis. Questo vuol dire che se una banca fallisce le ipotesi
sono due: o paga la collettività o paga chi ha investito nella banca.
ste normative riguardano ciò che accade in caso di fallimento di
una banca. Il populismo ha fatto da padrone nel dibattito e si è
La prima ipotesi genera giustamente scandalo (la classica frase «lo
scatenato un po’ di panico tra i piccoli risparmiatori, con la pauStato salva solo le banche» ne è un esempio). Quindi è giusto che
ra, totalmente immotivata, di veder evaporare i propri risparmi
i soldi li perda chi ci ha investito, e cioè azionisti e obbligazionisti.
depositati in un conto bancario.
Se i soldi non dovessero bastare è giusto che tocchi ai correntisti?
Bail in significa, innanzitutto, salvataggio interno. Vediamo di
Certo i correntisti non hanno investito nella banca, ma sceglienche si tratta, del perché è stata giustamente introdotta tale nordo quella specifica banca rispetto a un’altra hanno fatto un atto
mativa.
di fiducia in quella istituzione. Ora, se è moralmente sbagliato
Per capire tutta questa normativa occorre fare un passo indieprendersela con i correntisti piccoli, si è deciso di far intervenire i
tro di qualche anno, ritornando ai giorni precedenti l’avvento dei
correntisti con più di 100.000 euro depositati. Ricordiamo che la
governi tecnici. In quei giorni la fiducia nei titoli di Stato italiani
media di deposito nei conti correnti è intorno ai 10-15mila euro.
Sono quindi pochi, non rappresentano certo i piccoli risparmiatori
era a livelli infimi e, di conseguenza, il loro valore era crollato. Le
e gli allarmismi sono ingiustificati.
banche italiane detenevano una enorme quantità di questi titoli,
In secondo luogo, diversamente da quanto si è letto su qualche
il cui crollo ha minato la fiducia nella solidità delle banche stesse.
giornale, le persone che avevano investito in obbligazioni di una
Come conseguenza si diffondeva la sensazione che, per salvare le
banche, lo Stato sarebbe dovuto intervenire spendendo miliardi di
banca che si sono poi rivelate carta straccia hanno fatto un preciso
denaro pubblico, pensiero che faceva precipitare ulteriormente la
investimento. In quanto tale ognuno è responsabile delle proprie
fiducia nei titoli di Stato italiani. Di fatto si temeva che lo Stato
scelte di investimento. Chiaramente se si è trattato di una truffa
dovesse finanziare, con soldi di tutti, il salvataggio delle banche.
deve essere perseguita, ma rimane il principio base che investendo i soldi in qualsiasi cosa che comporti il non metterli sotto il
Le norme sul bail in vogliono evitare che ciò accada.
materasso, implica una precisa presa di responsabilità circa i rischi.
In breve, se una banca fallisce, a pagare non devono essere tutti
i contribuenti, ma gli azionisti e gli obbligazionisti della banca.
Se l’investimento va storto, l’unico responsabile è l’investitore stesQuesto è ciò che avviene (dovrebbe avvenire) normalmente per le
so. E non è possibile, come è stato a tratti ipotizzato, domandare
imprese. Questo si è pensato debba avvenire anche per le banche
l’intervento dello Stato per salvare questi pur piccoli investitori.
perché, essendo le banche uno dei cardini del sistema economico,
La terza riflessione è conseguente. L’Italia è un paese che vede
se così non fosse esse rischierebbero di mettere in crisi la stabilità
le famiglie normali essere tra le più ricche d’Europa in termini
patrimoniali. Questo per un mix di fattori: alti tassi di risparmio,
degli Stati stessi, come si è visto.
alta percentuale di famiglie proprietarie di casa, bassa natalità e
C’è però una piccola parte della norma sul bail in e un episodio
quindi maggiore concentrazione delle eredità. Eppure, a fronte
di cronaca che hanno preoccupato molti risparmiatori. Innanzidi questa ricchezza, abbiamo un tasso di educazione finanziatutto, nel caso in cui i detentori di azioni e obbligazioni non riuscissero a coprire l’ammontare
ria bassissimo e quindi totale
dei debiti, saranno chiamati a
incapacità di gestire questo
concorrere tutti i correntisti per
risparmio. Perché non inseriquanto eccede 100.000 euro di
re dei corsi di alfabetizzazione
deposito. In secondo luogo si
finanziaria nelle scuole? Non
è avuto il caso di banche che,
è il diavolo, si tratta di insein maniera non proprio limgnare le basi degli strumenti
pida, hanno convinto i propri
che ogni famiglia si trova di
risparmiatori a sottoscrivere
fronte quando deve accendere
un mutuo e investire i propri
obbligazioni a rischio i quali
poi, quando la banca è entrata
risparmi, e rinforzerebbe anche
in crisi, hanno visto sfumare i
il concetto basilare che i primi
propri investimenti. Questi due
responsabili dei risparmi sono
episodi hanno reso possibile la
i risparmiatori stessi.
diffusione di un senso di insicurezza circa i propri risparmi.
Fabrizio Panebianco
Occorre, a questo proposito,
ricercatore di economia politica,
fare qualche riflessione.
Yahaira davanti a un altro tratto di frontiera. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
École d’économie de Paris
Francesco Monini
Il baritono Mariano e il
tempo degli incontri
dia r io m i n i m o
di
Copparo è un paese piccolo, ma non minuscolo, tra Ferrara e il Po.
Sistemo lo zaino nell’armadietto, mi svesto e mi infilo il pigiama, tasto il materasso
del letto e mi guardo intorno. La camera è grande, due letti e poco altro; sarebbe grande
anche per i quattro letti previsti, con le relative postazioni: luci, pulsantiera, campanello,
comodino, sedia color verdino ospedale e tavolinetto regolabile per mangiare a letto. C’è
tutto quello che ci deve essere, tutto pulito ma un po’ raccogliticcio, come tirato fuori da
un qualche magazzino, verniciato e rimesso in servizio.
Tre settimane prima mi hanno operato all’anca sinistra nel mastodontico e lussuoso
alveare del San Raffaele di Milano. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo in alto l’arcangelo, quello che secondo il visionario Don Verzé, poi fallito miseramente, avrebbe dovuto
proteggere i 4.500 pazienti dell’ospedale e, soprattutto, assicurare santi e lauti guadagni
agli amici di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere. Dietro l’arcangelo
Raffaele spunta il bosco ordinato dei palazzotti di Milano Due. Proprio da lì, circa quarant’anni fa, è spuntato il sole abbagliante di Berlusconi. Sembrava un nuovo Luigi XIV.
Oggi anche il suo sole è tramontato.
•••
Alle sette e mezza apre il bar al piano terra (domenica chiuso) e alle sette e venti c’è già la
fila. Il primo della fila è sempre Mimmo, una lunga criniera di capelli neri e ben “gelati”,
agilissimo sulla carrozzina. Per la terapia in palestra c’è ancora tempo. Con Mimmo, Bruno,
Doriana e Antonio usciamo a fumare nel grande piazzale. Io con le stampelle e loro tutti in
carrozzina, tutti del quarto piano. Vengono dal sud e dal centro Italia, le risate e gli accenti
si intrecciano. Ognuno starà al San Raffaele dalle quattro alle cinque settimane. «Ogni
anno ci chiamano per il tagliando» - dice Bruno. Ha quarant’anni, è di Pisa, scorbutico,
le parole aspirate e la lingua che taglia. Ha sempre fatto il barista ma adesso ha dovuto
dar via il bar: «La sclerosi multipla non ti perdona, ogni anno si scende un gradino, o tre,
o cinque gradini in una volta».
Uno dei varchi alla frontiera tra Usa e Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
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di a r io minimo
26
Al piano terra c’è una grande sala con tavoli, poltrone, addirittura un pianoforte a coda. Il “gruppo della Multipla”, tra loro si
chiamano così, mi invita a una pizzata: per salutare Doriana che se
ne torna a casa. «Ma io sono del secondo piano», preciso. «Vieni,
faremo un’eccezione», risponde Mimmo.
•••
Dicono che gli ospedali siano tutti uguali. Gli stessi colori tenui e
riposanti. Lo stesso odore di disinfettante. Lo stesso rancio ospedaliero. Ma il salto dal San Raffaele all’ospedalino di Copparo
- l’avevano chiuso alcuni anni fa, per poi riaprirlo con il nome
benaugurante di Casa della salute - mi fa lo stesso effetto di un
vuoto d’aria.
Nell’angolo opposto della stanza, sembra lontanissimo, c’è il
letto di Mariano. Per prima cosa mi presento al mio compagno.
Ma Mariano parla una lingua incomprensibile, non è nemmeno
un dialetto, solo mezze parole, suoni tronchi e rauchi, o sdruccioli, come di foglie secche mosse dal vento. Quando è arrabbiato
(Mariano è spesso di malumore) emette borbottii tellurici, ruggiti
sommessi. Di notte cambia tonalità, adesso dal suo letto arriva un
lamento flebile e continuo, senza un preciso recapito.
Mariano ha 65 anni. Non è grasso, è grosso, come il tronco di
una grande quercia. I capelli radi a ciuffi grigi, una bella faccia da
contadino o da centurione in pensione. La gamba destra è tutta
fasciata fin quasi all’inguine, dalla fasciatura spunta il rosso ruggine
del mercurocromo. Quando le infermiere gli medicano le piaghe
lui sta zitto, le infermiere scherzano e lui zitto, un brutto odore
impregna tutta la stanza. L’altra gamba non c’è più, tagliata appena
sotto il ginocchio, la cicatrice sembra la linea del fronte, la coscia
è un prosciutto rosa.
Mariano sei sposato? Mi fa segno di no. Hai dei figli? No. Ti
porto un caffe? Ancora no. Con le stampelle mi avvicino al suo
letto. Sembra sempre incazzato Mariano, o quasi sempre. Hai
bisogno di qualcosa? Mi guarda fisso e afferra con le mani - ha
due mani enormi, forti, bellissime - le sbarre del letto. Le scuote. Lui vuole uscire da quella gabbia. Tiro giù le sbarre, accorre
un’infermiera, mi sgrida, aziona la manovella e rimette a posto le
sbarre. Ora Mariano fa finta di dormire.
•••
Armato di stampelle mi dirigo verso la sala della televisione (qui
almeno è gratis, mentre al San Raffaele costava 3 euro al giorno);
ci sono anche le macchinette con l’acqua minerale, le merendine, il
caffè. Mi fermo un tempo infinito (anche qui come al San Raffaele
il tempo non passa mai e il problema quotidiano è farlo passare
in qualche modo) ad esaminare una grande pianta grassa a me
sconosciuta. È talmente verde, talmente lucida che sembra finta.
Toccare per credere: è proprio vera e almeno lei in ospedale sembra
starci benissimo. C’è anche un piccolo scaffale di libri (la mia malattia). Vedo due tremendi best seller americani, alcuni gialli e tanti
Harmony. Serie verde, serie rosa e serie bianca: gli Harmony serie
bianca sono tutti ambientati in ospedale, la storia è sempre quella:
un dottorino maschio si innamora di una o più infermiere femmine.
Alla tivù c’è Forum (ho scoperto che Forum è come il telegiornale,
c’è sempre, a tutte le ore) ma nessuno lo guarda, né i pazienti né
i parenti in visita.
Scopro di essere il più giovane dei ricoverati, il ragazzino in
mezzo a signore e signori che viaggiano verso la quarta età.
•••
Ivana ha 86 anni, gira in carrozzina, ma ancora qualche passo lo
fa da sola, le piace attaccar discorso. Ha gli occhi di un azzurro
intenso, vivaci, birichini. Chissà da giovane, penso. È arrivata da
un mese ma non fa nessuna cura. Solo che a casa non c’è nessuno:
sua figlia è ricoverata in una clinica per una forte depressione, e
allora l’hanno portata qui, posteggiata nell’ospedalino di Copparo.
Mi dice che qui dentro si mangia bene. Personalmente, bene mi
pare un avverbio eccessivo, ma il purè non è male, e nemmeno gli
yogurt alla frutta.
Tutti i giorni le offro un latte macchiato alla macchinetta. Lei
mi ringrazia e mi interroga: «Come mi chiamo io?».
Rispondo pronto: «Ti chiami Ivana. E tua figlia Morena. E il
tuo gatto Trudy».
«Bravo, ma lo sai che hai una bella memoria!».
Io ribatto: «Adesso però tocca a te, come mi chiamo io? E come
si chiamano le mie due gatte?».
Ivana va in crisi, mi guarda, punta l’indice sulle labbra. Scuote
la testa. «Dai Ivana, è facile… mi chiamo come il papa». Niente
ancora, non riesce a ricordare. Allora l’aiuto: Fran-ce… Ecco, finalmente le è tornato in mente: Francesco, dice trionfante.
Ivana sembra una scolara: «Sono stata brava? Allora me lo devi
dare…».
Tutti i giorni le dò un bacino sulla guancia. No, non è gelosa
delle amiche e fidanzate che mi vengono a trovare. Lì dentro, è
lei la mia fidanzata.
•••
Mariano, Bruno, Mimmo, Ivana. Già, ci sarebbe anche Cinzia.
E potrei continuare. In ospedale il tempo si ferma. Se smetti di
considerarla una “perdita di tempo”, incomincia “il tempo degli
incontri”.
Una volta succedeva anche in treno, quando ti impegnavi in un
viaggio lungo tutta la penisola e passavi dodici o quindici ore in
mezzo all’odore di sconosciuti. Ora non più, Italo e Frecce rosse
competono con gli aerei, compresa la vocina fuoricampo in inglese.
Gli altri treni non contano (come del resto i poveri pendolari), non
rendono e scompaiono a uno a uno dal tabellone. Non mi piace più
andare in treno. Conta solo l’orario di partenza e di destinazione,
non tutto quello che c’è in mezzo.
Mentre ero in ospedale, la storia, come si usa dire, è andata
avanti. In Italia, in Europa, nel mondo è successo di tutto. La
scandalosa “marchetta” dell’Europa alla Turchia per riprendersi
i rifugiati, un ministro italiano che si dimette per lo scandalo
petroli, le bombe e i morti di Bruxelles, la presidente brasiliana
Dilma Rosseff a un passo dall’impeachment, il referendum sulle trivelle con un ex presidente della Repubblica che (inaudito)
invita a non votare.
Ma questo diario è dedicato al niente che nel frattempo accadeva
ogni giorno in ospedale, a tutti gli incontri, a tutte le amiche e gli
amici che probabilmente non rivedrò più.
Dimenticavo. Alla fine con Mariano ho trovato la strada. Un
colpo di fortuna. Cantavo un motivetto degli anni Sessanta. Dal
suo letto Mariano ha completato la strofa. Lui le canzonette le
sa veramente tutte, parola per parola: Celentano, Mina, Sergio
Endrigo, Gino Paoli, Jimmy Fontana, perfino Riccardo Del Turco
(chi era costui?). E tutte le mattine, finita la colazione, io e Mariano ci facevamo una mezz’ora di cantata. Io tenore, lui baritono.
Si fa per dire.
Francesco Monini
lettore, scrittore e giornalista,
Macondo
e dintorni
Cronaca
dalla sede nazionale
locale. Formazione e cooperazione internazionale”. La crisi sociale ed economica
richiede un intervento che ha due aspetti:
il primo è la sensibilità verso i paesi che
vivono uno stato endemico di povertà; il
secondo elemento è la preparazione ad
affrontare le cause, in un società globale
in cambiamento. E questo è l’argomento
che affronta il sociologo Dimitri Argiropoulos. Giuseppe Stoppiglia rammenta la
sua esperienza pluriennale nei vari paesi
dell’Africa e dell’America Latina e il senso di rispetto e prudenza che l’Occidente
dovrebbe tenere quando mette piede in
quelle terre. Gli studenti, che nei mesi
precedenti si sono preparati al tema attraverso un percorso di ricerca, propongono
alcune riflessioni e pongono domande sul
metodo, sui valori e sul senso del nostro
intervento nei paesi in via di sviluppo.
Il confine dalla parte del Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
Coordina i lavori il giornalista Antonello
Riccelli che sa insieme richiamare il tema
e mantenere alta l’attenzione.
•••
17 febbraio 2016 - Padova. Cecilia Alfier
si è laureata con pieni voti (triennale) in
Lettere Moderne all’università di Padova,
a Palazzo Maldura, con la tesi Storia degli
scacchi. La tesi è stata inserita nella nuova bibliografia degli scacchi dello storico
Alessandro Sanvito. La tesi scrive della
ostilità della Chiesa per il gioco, soprattutto nel Medioevo, e racconta storie di
passione e omicidi legate al gioco stesso.
La discussione è durata venti minuti, il
tempo necessario per dare scacco e offrire
la rivincita.
•••
18 febbraio 2016 - Zané (Vi). Beniamino Carollo, padre di Piergiorgio, se ne è
andato piano, in punta di piedi, lasciando al figlio il testimone di una laboriosità
onesta, intelligente, senza mai perdere
contatto con la società e con la vita del
proprio paese, dove arrivava ogni giorno
accompagnato dal figlio per degustare
un caffè e scambiare quattro parole sulle
nuvole e il sole e il tempo, degli uomini e
delle stagioni.
•••
25 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi),
sala consiliare. Per l’autore è bello e insieme rischioso presentare il proprio libro in
paese. Ma la cosa è andata bene. Michela
ha condotto la serata con grazia e tatto.
La signora Elena ha letto la presentazione
n oti zi e
2 febbraio 2016 - Bassano del Grappa
(Vi). Piove, sul gruppo delle Melette
nevica e sotto un ombrello di attese e di
tenerezze apre gli occhi sul mondo Giacomo, figlio di Erica Bertoncello, assessore
ai servizi sociali e alla persona. Il piccolo
si guarda attorno, non dice parole e lancia un grido di vittoria mentre taglia il
traguardo.
•••
6 febbraio 2016 - Cremona. È nata Giorgia Maddalena sotto un cielo di nuvole
e di pioggia. Mamma Chiara la porta al
seno, il padre Stefano le guarda mentre
già discutono tra loro e ripete i nomi della
piccola, come un mantra. Poi arrivano i
nonni tra baci, lacrime e sorrisi, mentre
Giorgia ripete a Maddalena voci e parole
che hanno un timbro primaverile, come
di voci all’aperto.
•••
10 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Comitato della festa. Lentamente si prende visione del tema, già si pensa al luogo,
ancora indefinito, ai nomi. Si stabiliscono le mansioni e i ruoli di massima per i
membri del comitato. Ci siamo tutti, gli
assenti sono giustificati. Si stappa una
bottiglia, compare sulla tavola un dolce,
che non va a ruba.
•••
12 febbraio 2016 - Livorno. Scuola Niccolini Palli. Introduce Antonio Cerqua,
responsabile dell’ISCOS che enuncia il
tema: “Dialogo sociale, lavoro dignitoso
e partecipazione cittadina per lo sviluppo
27
not izie
28
austera del promotore Baldassare, che era
rimasto a casa per lutto. Paola ha fatto
gli onori di casa. La serata poi ha preso
piede con la lettura di alcuni brani del
libro, letti con passione e professionalità
dal signor Vittorio, accompagnati al piano dalle ragazze Ilaria e Francesca. Prima
di dare la parola all’autore, Gaetano ha
offerto una breve illustrazione del tema
Oltre lo smarrimento dei tempi: il bisogno
di sentirsi accolti. Giuseppe ha concluso
sottolineando alcune punti salienti del libro: l’individualismo, lo smarrimento del
popolo italiano, la pigrizia della Chiesa, la
speranza di un risveglio propositivo.
•••
27 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Nel lasco di pochi giorni Cecilia se ne
è andata. Giorni frenetici, come quando cerchi la porta di sicurezza ed è buio
pesto attorno e chi interpelli abbassa le
mani come a resa, in cerca di riparo ad
una vita che fugge. Poi il funerale, quando
la gente si stringe attorno quasi a fare
muro, perché non passi l’angelo sterminatore. Ma la morte non viene da fuori,
appare e scompare e lascia un vuoto, dove
il cuore brancica. La chiesa al completo,
molte persone sul sagrato della chiesa
per l’ultimo saluto. gli amici e le amiche,
colleghe di lavoro e colleghi ricordano il
suo volto. La sorella Chiara ha letto due
parole di saluto, una preghiera per Cecilia,
che parte in coda all’inverno, prima che
canti la primavera.
•••
28 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Il clan degli scout di Scorzé è ospite nella sede di Macondo. È una domenica di
pioggia e vento. Dopo la messa gli scout
hanno fatto cerchio attorno alla loro guida, raccolto parole sul senso del viaggio
poi sono partiti sotto la pioggia verso la
stazione dei treni. La sera prima, Gaetano
e Giuseppe si erano fermati a conversare
con i giovani per raccontare la loro esperienza di fede. Ascoltavano in silenzio,
proponevano domande. Poi si sono organizzati una cena frugale, consumata
assieme.
•••
3 marzo 2016 - Vicenza, Chiesa di Santa
Chiara. Messa di anniversario per Maria Rosa. Nel ricordo di Rosa è difficile
parlare di morte. La ricordo legata fino
all’ultimo alla vita, che era ed è per lei
relazione con le persone amate. Maria
amava la vita, per questo vive ancora tra
di noi. Non ci ha lasciato. Nella piccola
chiesetta delle suore, che accolgono donne
in cerca di rifugio e accoglienza, c’erano la
figlia Barbara con le due bimbe che scorrazzavano per la chiesa senza fare rumore
e il marito, poi c’era Riccardo, il marito
di Rosa, padre di Barbara e poi i genitori
di Maria Rosa. Il celebrante nella omelia
l’ha ricordata, come di una presenza che ci
accompagna e che, con la sua benedizione,
traccia il nostro cammino.
•••
5 marzo 2016 - Prepezzano di Giffoni Sei
Casali (Salerno), Casa della Spiritualità
don Tonino Bello. Arriviamo a Napoli
(la sera prima) con un ritardo di un’ora.
Ci aspetta Mimmo, che ha già raccolto
Riccardo Petrella e ci porta a Salerno,
dove trasbordiamo sulla macchina di
Angelo, che ci conduce a casa sua dove ci
L’attività della Border Patrol statunitense vista dal Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
attendono la moglie Simona e la piccola
Aurora. Al mattino di sabato arriviamo
nella Casa di Spiritualità; apre l’incontro
la signora Lella con la lettura di alcuni
brani dell’ultima enciclica di papa Francesco. Poi Giuseppe parla della bellezza e
della salvezza che non è luogo, ma nuova
dimensione della relazione. Dopo l’incontro di gruppo, Gaetano propone una
lettura dei primi capitoli della Genesi.
La creazione, il rapporto dell’uomo con
le cose e con sé stesso, il senso del limite
e la fragilità. Segue ultimo Riccardo che
riprendendo le parole di Giuseppe dice
che la vita è festa, ma i potenti ci hanno
rubato la festa. L’uomo appartiene alla
vita, non è padrone della vita. Per questo
è responsabile della vita; e non è padrone
dell’acqua, ma appartiene all’acqua, come
la vita che nasce dall’acqua, origine di ogni
specie vivente . Le giornate sono punteggiate di momenti di riflessione assieme
e di preghiera comune. Il pranzo della
domenica chiude le attività.
•••
7 marzo 2016 - Sandringham (Victoria,
Australia). Nasce Daniel, figlio di Marina
e di Kfir (Amos è il primogenito), nipote
di Piero Tarusello, partito con la moglie
Lorena per raggiungere la figlia Marina in
Australia. Dorme di notte, qualche volte
canta per richiamare mamma all’ora dei
pasti, poi s’addormenta e sogna la cicogna
e si chiede da che parte della finestra sia
entrata, la cicogna con le ali larghe e il
becco lungo. E ride.
•••
11 marzo 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Lezione in terza media. Attenti, gli occhi
svegli, emozionati sui racconti, sulle immagini. Ho raccontato loro del Burkina
Faso, di Damien, che progetta una radio
per i giovani, di Ana a Rio de Janeiro che
scrive alla mamma che non vede da anni.
E la storia di Macondo e dei Buendia. Mi
guardano mentre esco dall’aula, mi giro e
sono già in volo, i ragazzi e le ragazze, in
cerca di Ana e di Damien.
•••
16 marzo 2016 - Milano. In casa di Benito e di Valeria incontriamo il cardinal
Francesco Coccopalmerio, accompagnato
da don Giuseppe Bettoni. Un uomo semplice, con incarichi importanti. Pensa alla
condizione di chi è caduto in disgrazia,
impoverito. L’anno della misericordia lo
trova al lavoro già da prima. Era vescovo
ausiliare di Martini, il cardinale di Milano. Si interessa subito di noi, delle nostre
avventure e del nostro quotidiano.
•••
19 marzo 2016 - Ferrara. Redazione di
Madrugada. Si cambia sede: siamo allog-
ve generazioni la guida del paese. Segue
la lettura dell’assegnazione della cittadinanza comacchiese. Ai lati del perimetro
si alzano i battimani, qualcuno soffia nel
fazzoletto le emozioni ed esorcizza la nostalgia di quegli anni.
•••
26 marzo 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Oggi ho ricevuto da Milano la telefonata
di Andrea, marito di Alessandra, con la
comunicazione della nascita a fine anno
2015 di Gregorio Zeno, due nomi, carichi di memorie altisonanti, e pure legate a
personaggi allegri e ironici; i presagi sono
buoni con Zeno Gregorio.
•••
27 marzo 2016 - Bassano del Grappa
(Vi), Villa san Giuseppe. Messa di Pasqua
nella cappella della Villa, molto raccolta.
Gianna Miola legge una lirica religiosa.
Abbiamo distribuito le locandine e i volantini della festa di maggio. All’omelia
Gaetano legge e commenta un versetto
del vangelo del giorno: «Ricordate cosa
aveva detto Gesù?…» e propone tre riflessioni, poi tace e parla Giuseppe a braccio,
e invita i presenti a parlare, i laici a dire
parole di vita, perché è tempo di responsabilità.
•••
28 marzo 2016 - Pove del Grappa (Vi). È
arrivata assieme ai genitori Debora Cian,
che vive e lavora come cardiologa a Barcellona; poi Silvia Fontana, fisiatra. Una
lunga conversazione tra presente e passato, ricordi di scoperte, naufragi, incontri,
amicizie, paure e sfide, riprese. Momenti
che vorresti trattenere e che la vita assorbe
ed esalta. Poi quando si fa sera, Debora
si avvia assieme a Silvia al cambio posta,
donde poi prendere l’aereo di Barcellona.
•••
31 marzo 2016 - Peschiera del Garda (Vr).
Sindacato pensionati. Incontro di formazione su Etica nel sindacato. Un clima
effervescente ci accoglie, che non diresti
alla nostra età. Voglia di riprendere la direzione. Non che si sia persa, ma se vuoi
andare lontano si va assieme. Non basta
predicare i valori e nemmeno basta starci
dentro da soli, perché insieme si costruisce la casa comune e la strada larga dove
camminano vecchi e bambini. Giuseppe
prende la parola, rammenta e propone.
Nel pomeriggio funerale di Milvana,
mamma di Michele Kettmaier e Monica. Due parole di congedo alla fine della
messa. Il parroco dice: entrate della tomba
e vedete. E troverete la morte e la vita.
Milvana sarà posta nella tomba di famiglia, accanto al marito Adriano, morto a
quarant’anni. Nessuno conosce la morte.
Ma quando muore uno dei nostri, allora
per un momento, assieme al defunto, si
esperimenta il grande passo.
•••
1 aprile 2016 - San Giovanni Lupatoto
(Vr). Siamo partiti per incontrare Enzo
Iacchetti e abbiamo assistito alla commedia semiseria: Matti da slegare. Con Enzo
Iacchetti e Giobbe Covatta, Irene Serini
e Gisella Szaniszlò. Vero, è l’ultimo spettacolo della stagione, ci sono degli attori
simpatici e bravi, e per questo la sala è
gremita. Ma devi aggiungere che il teatro
è gestito dalla comunità, il paese lo sente
suo. Se vuoi andare lontano, vai insieme; e
il segretario dell’associazione ha elencato
In ricordo di chi è morto tentando la traversata. © Jesús Iñiguez / CultureStrike
not izie
giati nella sede dell’Incico, presso i fratelli
Monini. Si illustrano le tracce dei monografici: i muri, il lavoro, i rifugiati. La
discussione sui vari temi del monografico
è animata e intelligente. All’incontro partecipava anche Andrea Gandini, che stava
di passaggio sulla soglia dell’Incico. Ha
parlato dell’Europa e dei rifugiati, dell’Inghilterra e dei suoi interessi a restare in
Europa. Poi abbiamo riaperto il discorso
sulla comunicazione via internet con la
proposta di creare un blog di deposito e
comunicazione. Si chiude il giorno a cena
ai Tre Scalini e ci raccoglie sotto le sue
ali il direttore editoriale, signor Giuseppe
Stoppiglia, proveniente da Bologna.
•••
20 marzo 2016 - Borgoricco (Pd). Fiera del Libro. Presentazione del libro di
Giuseppe. Introduce la serata l’assessore
alla cultura Massimo Morbiato. Segue
Gaetano che traccia lo schema del libro;
poi è la volta di Anna Maria Perchinunno
che da una parte nota il pessimismo di
alcune pagine e poi la speranza che riaffiora attraverso la voce degli ultimi. Enzo
Siviero ricorda alcuni tratti del libro: il
saper raccontare la verità, scoperta negli
occhi del fratello e l’aver aggiunto all’elenco dei diritti/doveri, il sorriso e l’amicizia,
la speranza. In sala c’è Sonia che ha sollecitato la presenza di amiche e colleghi
di lavoro; Vanna e Daniele sono stati un
aiuto importante per organizzare questa
serata, che chiude anche la fiera del libro
di Borgoricco.
•••
21 marzo 2016 - Comacchio offre la
cittadinanza onoraria a don Giuseppe
Stoppiglia per gli anni di lavoro in città
(1965-1975). Introduce il sindaco Marco
Fabbri. Segue Daniele Lugli. Poi Aniello Zamboni. Gianfranco Arveda è terzo.
Chiude Gaetano. Provo a fare una sintesi
di tutto, per sollevare il lettore e angustiare
chi scrive: è un onore e una festa per il
paese dice il sindaco. Daniele legge: sono stati anni intensi di visioni e proposte
diverse; Aniello ricorda di quegli anni la
grande crisi economica e sociale del paese, e la proposta fatta da alcuni preti di
andare oltre la devozione tradizionale.
Lo sviluppo di una parola per tutti, e per
questo invisa ad alcuni, seguendo in ciò la
linea umana, perché divina, del vangelo,
sono le parole di Gianfranco per don Giuseppe. Chiude con un saluto riconoscente
Gaetano. Poi ha preso la parola Giuseppe
che aveva lasciato a casa gli appunti, e ha
ricordato l’amore ricambiato per Comacchio, l’importanza delle istituzioni quando
si mettono al servizio del bene comune e il
progetto suo allora di consegnare alle nuo-
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not izie
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un lunga serie di presenze importanti e di
spettacoli belli. E sono molte le iniziative
che la sala comprende: cinema, teatro e
cineforum. Per questo la sala si riempie,
in festa.
•••
2 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi). Fine settimana ricco di visite. Dall’Umbria
e dalla Romagna sono arrivati operai, sindacalisti, preti. Come in una coincidenza
astrale fuori controllo. Che poi il motivo
era un’amicizia comune, condita con gli
asparagi bianchi, efficaci depuratori in
tempo di contrasti interni, festevoli primizie a primavera, sorpresa per chi si accosta
alla tavola dell’asparago per la prima volta.
•••
3 aprile 2016 - San Pietro in Casale (Bo).
Lisa e Matteo di Macondo Suoni di Sogni
hanno realizzato nelle scuole elementari un progetto dal titolo Sogni e bisogni
in musica che ha coinvolto un centinaio
di bambini: si è parlato di sogni, paure e
desideri dei bambini di oggi, comparati a
quelli delle favelas brasiliane, affrontando
il tema della felicità e delle azioni quotidiane. Allo scopo hanno sviluppato il tema dell’aliment-azione, elencando ciò che
ingeriamo quotidianamente (cibo, azioni,
parole, persone, web, pubblicità, ecc.), sottolineando che siamo e diventiamo quello
che mangiamo. Hanno condotto la classe
durante alcune meditazioni accompagnate
dalla musica e creato con le riflessioni una
canzone sulle note di Canta amigo canta.
Il progetto si concluderà con un saggio
la serata del 20 maggio presso il teatro
comunale di San Pietro in Casale.
•••
8 aprile 2016 - Revine Lago (Tv). Presso il ristorante Ai Cadelach si riunisce il
Direttivo allargato del sindacato Tessili
Cisl, composto da più di settanta persone
convocate dalla Segreteria sul tema: Quale
società, quale sindacato, quale Cisl?. Dopo
la prolusione del segretario Nicola e la
relazione di Stoppiglia (contattato a suo
tempo da Milena e Manuela), che apre
sulla funzione sociale del sindacato e la
visione laica della Cisl, alla quale si aderisce per scelta e non per opportunismo,
tutti i soci presenti al direttivo si sono divisi in gruppi, per riprendere e affrontare
i temi avanzati dal relatore e riportarli poi
in assemblea generale. E da ogni gruppo
nasceva un’idea, una critica, una proposta. Nel dibattito è intervenuto anche il
segretario della Cisl di Treviso, Franco
Lorenzon, che ha elencato le radici della
crisi del sindacato: il ripetersi del mandato
sindacale sullo stesso posto; l’assenza di
dialettica; la gestione delle risorse sindacali.
Pove del Grappa. Stesso giorno, si è celebrato il funerale di Lidia, moglie di
Raimondo. Lidia è partita dopo lunga
malattia, assistita dal marito e dal figlio.
Nell’omelia il sacerdote ha ricordato la
rettitudine di Lidia e il figlio Roberto ha
voluto che si leggesse la lettera di un amico di famiglia, che in un passo scriveva:
quando muoiono i genitori restiamo soli
sulla faccia della Terra e ci resta solo la
vita e la forza che ci hanno trasmesso per
affrontare le traversie del vivere.
•••
14 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Convocazione delle associazioni che partecipano alla festa di Macondo. Non dirò
quante fossero presenti. Ricordo solo l’affollamento dei primi anni e che molte cose
sono cambiate, molte sono da rinnovare e
forse la musica suona e nessuno balla, s’ode di lontano una nenia e nessuno piange.
•••
15 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi).
Siamo alla quarta ristampa del libro di
Giuseppe Vedo un ramo di mandorlo…: e
sfioriamo le quattromila copie, che portano la fascetta gialla, segno distintivo di
un libro che ha corso nel giro di un anno
tutta Italia, dal sud al nord, raccogliendo
l’attenzione, la simpatia e la generosità di
molti operatori sociali e culturali.
•••
16 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi). I
ragazzi di terza media hanno partecipato
alle iniziative del Social Day, sporcandosi
le mani, come dice lo slogan di Vulcano,
rassettando la sede di Macondo, pulendo
alcuni vassoi di asparagi, sistemando auto
in sosta e visitando l’orto, il campo e gli
accessori. Il compenso andrà a beneficio
di tre progetti di formazione e sviluppo
di paesi lontani.
Stesso giorno, Bassano Del Grappa. Teatro Remondini. Spettacolo musicale EMMAUS proposto dal MASCI di Bassano
con il patrocinio del Comune di Bassano.
La regia è di Giorgio Geronazzo e Lucia
Martinello. Trasposizione musicale del
brano di Luca che racconta l’incontro
dei discepoli (un uomo e una donna) di
Emmaus con Gesù. Una riflessione sulla
morte e sulla speranza che non si spegne
mai. Numeroso il pubblico, bravi gli attori, il corpo di ballo ha accompagnato con
grazia le scene, semplice, dolce, evocativi
la musica e il canto.
•••
18 aprile 2016 - Valle San Floriano di
Marostica (Vi). Sotto la casa canonica
incontro del gruppo Marcia 2015; si fa il
punto della situazione. Le donne sostengono che bisogna dare nuovo impulso e
identità alla marcia, con voci e didascalie
che richiamino il tema dell’infanzia abbandonata. Ridurre le iniziative collaterali,
per rafforzare il piano marcia con nuovi
itinerari. Si è passati poi alla distribuzione
della raccolta risorse per progetti di solidarietà internazionale e locale.
•••
23 aprile 2016 - Bassano del Grappa (Vi).
Nella biblioteca civica conferenza spettacolo degli studenti del Brocchi guidati
dalla professoressa Maria Taglioli. Con
voce appassionata e chiara, Maria ha
raccontato la vita avventurosa, misera e
gloriosa di Miguel Cervantes, le ragazze
hanno letto brani delle opere di Miguel,
mentre una mano magica disegnava sullo
schermo volti e figure che completavano
la storia, arricchita da altre mani e voci
che cantavano e suonavano al piano. Uno
spettacolo avvincente e completo nell’anniversario della morte del grande Miguel
Cervantes, dimenticato.
•••
28 aprile 2016 - Cazzago (Ve). Funerale
di Luigi, padre di Alessandra Piasentin.
Ha vissuto gli ultimi suoi giorni in casa,
assistito dalle figlie e dalla moglie Gabriella. Nel saluto di commiato uno dei
sacerdoti ha ricordato il mistero della vita,
che mantiene gli affetti anche nella morte,
in dimensioni nuove, che l’animo cura e
sostiene.
•••
28 aprile 2016 - Schio (Vi). «Mamma
mia, dammi 100 lire». All’interno dello
spazio museale dell’ex Maglificio Conte,
in un ambiente suggestivo, popolato da
vecchie macchine tessili, un gruppo di
giovani liceali, la compagnia teatrale Le
Ore Piccole, con il regista Rudy Anselmi,
ha interpretato le memorie degli anziani
ospiti della C.A.S.A. di riposo di Schio,
raccolte in un libro pubblicato nel 2009 da
Lina Cocco e Mariano Castello. A conclusione della serata è stato proiettato un
cortometraggio dell’artista francese JR che
ha incollato sui muri degli stabili di Ellis
Island le gigantografie di vecchie foto di
emigranti conservate nell’archivio americano di E.I. Unico attore di questo breve
corto, Robert De Niro, che ha prestato la
sua voce per interpretare il ruolo di quanti
cercavano una vita migliore ma non ce
l’hanno fatta. Il pubblico, composto da
giovani e adulti, è stato coinvolto emotivamente attraverso le parole semplici
e spesso ironiche di queste persone che
affrontarono allora tante difficoltà, mosse
dal coraggio e dal bisogno di migliorare
la propria vita.
Gaetano Farinelli
in collaborazione con Lisa Frassi
102
anno 26 · giugno 2016
PER IMMAGINI
3000 croci lungo la
barriera
rivista trimestrale
dell’associazione Macondo
direttore editoriale
Giuseppe Stoppiglia
Le fotografie di questo n umero di Madrugada
direttore responsabile
Francesco Monini
Le foto di questo numero sono state scattate durante un viaggio lungo il confine tra Usa
e Messico, tra Arizona e Texas. Otto giorni sulle strade che fiancheggiano la barriera
tra i due Paesi, costruita dopo l’approvazione, da parte della Camera dei Rappresentanti
statunitense, del Secure Fence Act del 2006. Il viaggio è stato intrapreso lo scorso anno
da alcuni membri di CultureStrike, associazione fondata nel 2011 a Oakland, California,
che ha voluto così conoscere, documentare e sostenere progetti culturali e artistici legati
alla frontiera e all’immigrazione. Le foto portano la firma di Jesús Iñiguez, un «artivist»
di Città del Messico che oggi vive a Inglewood, California: è un artista-attivista undocumented, senza documenti, che ha mosso il suo obiettivo solo dalla parte americana del
confine. Se l’avesse attraversato non avrebbe potuto far ritorno. Jesús è tornato sui luoghi
del reportage di CultureStrike quest’anno, per lavorare a un murale all’interno di un
centro detentivo giovanile di El Paso, in Texas, dove vivono molti ragazzi sudamericani
catturati lungo il confine proprio nel tentativo di attraversarlo. Finire nelle mani della
Border Patrol, la polizia che pattuglia il confine, non è il rischio maggiore per chi vuole
entrare clandestinamente negli Stati Uniti. I pericoli più grandi vengono dal fiume, il Rio
Grande, confine naturale, e dal deserto: colpi di calore e disidratazione possono essere
fatali. Senza contare gli incidenti stradali che coinvolgono i polleros (gli scafisti locali) o
l’abuso di violenza della Border Patrol stessa e di vigilantes illegali.
L’associazione CultureStrike ha scelto come chiave di lettura di questa situazione, nonché
strumento di azione, l’arte. Favianna Rodriguez, la direttrice, lo spiega quando sostiene:
«L’arte mi ha personalmente trasformato e mi ha dato una voce. Sono fortunata, ho
incontrato molti altri artisti che vogliono costruire un mondo migliore attraverso il loro
lavoro creativo. L’arte può dare forma alla politica in modi che nessun altro strumento
può fare: ha la capacità di cambiare i cuori, modellare le leggi e dire la verità al potere».
comitato di redazione
Stefano Benacchio, Gaetano Farinelli
redazione
Mario Bertin, Alessandro Bruni,
Egidio Cardini, Fulvio Cortese,
Lisa Frassi, Alberto Gaiani, Daniele Lugli,
Marco Opipari, Fabrizio Panebianco,
Francesco Panico, Elisabetta Pavani,
Giovanni Realdi, Franco Riva,
Guido Turus, Chiara Zannini
stampa
Grafiche Fantinato
Romano d’Ezzelino (Vi)
copertina
versi di Alda Merini
fotografie
© Jesús Iñiguez / CultureStrike
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Stampato in 2.000 copie
su carta naturale senza legno Biancoffset
Chiuso in tipografia il 26 maggio 2016
Registrazione n. 3/90 registro periodici autorizzazione
n. 4889 del 19.12.90 tribunale di Bassano del Grappa
Iscrizione nr. 16831 registro degli operatori di comunicazione
legge n. 249/1997
La redazione si riserva di modificare e abbreviare i testi
originali. Studi, servizi e articoli di “Madrugada” possono essere
riprodotti, purché ne siano citati la fonte e l’autore.
www.culturestrike.org
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© Jesús Iñiguez / CultureStrike
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