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Madrugada n. 102 - Associazione Macondo
102 R I V I S TA T R I M E S T R A L E anno 26 · giugno 2016 · una copia € 3,50 A tutti i giovani raccomando: aprite i libri con religione, non guardateli superficialmente, perché in essi è racchiuso il coraggio dei nostri padri. Alda Merini (1931-2009) A TUTTI I A tutti i giovani raccomando: aprite i libri con religione, non guardateli superficialmente, perché in essi è racchiuso il coraggio dei nostri padri. E richiudeteli con dignità quando dovete occuparvi di altre cose. S omma r i o 2. A tutti i giovani raccomando ALDA MERINI 8 - DENTRO IL GUSCIO 15 - LIBRI La costruzione di Fortezza Europa L soglia La L’amore è uno straniero. Poesie scelte Poesie mistiche Il Dio personale Marco Opipari 4 - c o nt r oc orrente Fugge dalle guerre un popolo in rotta 10 - di muro in muro / 1 Confini, frontiere e migrazioni Giuseppe Stoppiglia Walter S. Baroni 7 - c o nt r ol u ce 12 - di muro in muro / 2 Barriere e barricate Muri invisibili: povertà e potere La redazione Roberto Radice 17 - pianote r r a Di cosa parliamo quando parliamo di gender? Giovanni Realdi GIOVANI RACCOMANDO Ma soprattutto amate i poeti. Essi hanno vangato per voi la terra per tanti anni, non per costruirvi tombe, o simulacri, ma altari. Pensate che potete camminare su di noi come su dei grandi tappeti e volare oltre questa triste realtà quotidiana. La vita facile, Milano, Bompiani, 2001 20 - c a rt e d ’ a frica 24 - economia | politica 27 - notizie Madagascar Bail in Macondo e dintorni Candide Horace Fabrizio Panebianco Gaetano Farinelli in collaborazione con Lisa Frassi 22 - b r a si l e 25 - diario minimo Il Brasile e il colpo di Stato senza carri armati Il baritono Mariano e il tempo degli incontri Egidio Cardini Francesco Monini 31 - PER IMMAG IN I 3000 croci lungo la barriera Heymat c o n tr o c o r r en te di GIUSEPPE STOPPIGLIA Fugge dalle guerre un popolo in rotta Accogliere il futuro «Il silenzio è il mistero del mondo futuro, Guardare, in silenzio mentre la parola è lo strumento Nel momento in cui un sacerdote buddista si disponeva a predicare davanti a un gruppo di monaci, un uccello cominciò a cantare sui rami degli alberi dietro le mura del monastero. Il maestro tacque e tutti ascoltarono il cinguettio, sino alla fine, in rispettoso silenzio. Allora il maestro annunciò: la predica è finita. E se ne andò. I monaci capirono che per ascoltare il suono della natura occorre essere educati al silenzio. Il figlio di Giovanni e di Adriana fu battezzato in Valsugana - nella chiesetta di San Pietro - appena due giorni dopo la sua nascita. Nel battesimo lo istruirono circa il sacro, con un intervento, pacato, del parroco don Beniamino. Ricevette in dono un pesciolino, perché imparasse ad amare il mare. Liberarono un uccello in gabbia, perché imparasse ad amare l’aria. Gli diedero un fiore di mandorlo, perché imparasse ad amare la terra. Gli consegnarono una bottiglia chiusa: con l’ordine scritto di «non aprirla mai», perché imparasse ad amare il mistero. Si può camminare in libertà solo imparando ad amare il mistero. A sei anni Giuseppe non conosceva ancora le cime del Massiccio del Grappa. Il padre Bernardo lo accompagnò in vetta, perché le scoprisse. Viaggiarono per ore su un sentiero ripido e scosceso. Le cime erano al di là delle montagne maestose, che lui, bambino, aveva visto e chiamato per nome da sempre. Quando finalmente raggiunsero il Col del Gallo, dopo aver camminato a lungo, si stagliò davanti ai loro occhi tutto il massiccio con le sue cime, e fu tanta l’immensità dell’orizzonte e tanto il suo fulgore che il bambino rimase muto per la bellezza. Quando finalmente riprese a parlare, tremando e balbettando, chiese a suo padre: «Aiutami a guardare». Imparare a vedere, imparare a guardare. Sperimentare l’attesa. Scoprire la contemplazione. Bellezze del cuore. del mondo presente». Isacco di Ninive «Quando si diventa forti? Quando imparerai a non fare del male a nessuno». Alejandro Jodorowsky 4 Viaggiare, cercando La squadra di CultureStrike prepara il viaggio lungo il muro di confine tra Usa e Messico da El Paso (Texas) a Sunland Park (New Mexico). © Jesús Iñiguez / CultureStrike Oggi, noi occidentali non camminiamo tanto; sono sempre gli stessi i luoghi dove ci muoviamo e camminiamo: sia donde partiamo, sia dove arriviamo. A volte ci muoviamo come dentro un labirinto, con passaggi che non portano a nessuna uscita, ma, forse, questo ci rivela che siamo viandanti in cerca di senso. Il cammino è simbolo della vita, perché la vita è un cammino che ciascuno deve percorrere e far proprio. In questo cammino ci sono delle fermate per rivedere il tratto percorso. A volte, addirittura, ci si perde per strada. Magari si inizia un viaggio verso un luogo che non c’è, poi alla fine ci si troverà prigionieri in “paradisi artificiali”. Chi non ama i muri e i confini, ma preferisce la libertà e l’apertura mentale, gli spazi aperti, la libertà e l’infinito, incon- Perché dividere, rimuovere l’umano? Le migrazioni sono un fenomeno strutturale irreversibile, e qui sono tutti d’accordo. Ma se, oggettivamente - e ogni giorno la cosa è più evidente - i cosiddetti primo e terzo mondo fanno parte di un’unica storia, soggettivamente si afferma la tendenza a separare le storie dei popoli in sviluppati e sottosviluppati. Se, infatti, oggettivamente, s’impongono sempre più rigidamente le leggi spietate del mercato totale, perché sembra legittima la distinzione e la contrapposizione tra il capitalismo selvaggio e sottosviluppato del sud e il capitalismo civilizzato sviluppato del nord? Viviamo nello stesso sistema. Se oggettivamente le minacce di distruzione e morte pesano su tutta l’umanità, perché si afferma, nelle impostazioni politiche ed ecologiche, la preoccupazione di salvare le minoranze “più avanza- te” abbandonando la “massa sottosviluppata” a un destino di morte? Questo atteggiamento è un meccanismo psicologico di massa, che consiste nel rimuovere l’altro o, meglio, nel rimuovere l’unità della storia e del mondo, e pertanto il sentimento di comunione fra tutti gli esseri umani. Si elabora una visione del mondo e della storia fondata sulla superiorità e centralità di un popolo, di una cultura, rispetto agli altri. Riducendo la storia del mondo a quella dei popoli “più avanzati” (la superiorità economica e tecnologica dei paesi del nord), si nega il ruolo degli altri popoli e l’importanza delle nostre relazioni reciproche. c ont r oc or r ent e trerà, camminando, chi ama le porte e le finestre aperte, per fare entrare luce, calore, vita e preferirà abbattere i muri e costruire ponti. Cercherà persone che preferiscono l’apertura mentale, la diversità, il dialogo, il reciproco rispetto e la solidarietà… e per far questo il nostro spirito interiore ha bisogno di storie che illuminino e alimentino il nostro cammino! Non c’è nulla di più gratificante che offrire una mano amica e ricevere il calore di un amico. Può essere, quindi, una mano vicina, ma anche una storia lontana, arrivata da strade e paesi diversi, storie affascinanti e non facilmente comprensibili. Il valore della diversità Inevitabilmente tra di noi crescono xenofobia e pregiudizi razziali. Così gli immigrati si trovano appiccicati addosso i peggiori stereotipi della società moderna, fino a essere considerati terroristi tutti quanti, in blocco. La realtà dolorosa molte volte è fatta di esseri umani ridotti a cose, spogliati della loro dignità, privati di affetti e di parole. Qualunque persona democratica dovrebbe reagire davanti all’abisso in cui inevitabilmente ci sta conducendo il disprezzo dell’altro, l’odio del diverso, l’intolleranza, il fanatismo, l’oscurantismo, il dogma della disuguaglianza. Si può reagire partendo anche dalle piccole cose del nostro quotidiano. Così continuiamo a cucinare la pasta, tagliare il pane, conservare la frutta, apparecchiare la tavola, perché ogni atto legato al cibo - anche il più semplice - porta con sé una storia ed espri- 5 Le croci costruite dalla Coalición de Derechos Humanos di Tucson per ricordare chi ha tentato di passare il confine ed è morto nel deserto dell’Arizona. Dal 2001 ne sono state preparate 1.500. © Jesús Iñiguez / CultureStrike c ont r oc or r ent e me una cultura complessa della civiltà umana. Ognuno è diverso dall’altro. Ed è sul riconoscimento delle diversità che si fonda il riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti di cui ogni essere umano è portatore. Del resto, io che sono diverso da mio padre e da mio fratello, come posso pretendere di essere identico a una persona di un altro paese, di un’altra lingua, di un’altra tradizione culturale? Rivendico certamente e sempre la mia diversità: se non lo facessi perderei un’altra occasione per migliorarmi. Ma una cosa è rivendicare il diritto di essere diversi, un’altra cosa è arrogarsi il privilegio di sentirsi i migliori. Semplicemente, quando capiremo che siamo tutti diversi, nessuno sarà più diverso. Come scrive Julia Kristeva: «Lo straniero comincia quando sorge la coscienza della mia differenza e finisce quando ci riconosciamo tutti stranieri, ribelli ai legami e alle comunità». Misericordia e accoglienza Viviamo, purtroppo, in un’epoca alimentata dalla paura di non farcela e dalla consapevolezza che la crisi ha piegato certezze e sicurezze economiche di tanti e ha scalfito valori su cui per decenni le nostre comunità hanno costruito il loro modo di esistere. Attraversiamo un tempo in cui la disperazione può diventare la nota del nostro agire, pensare e riflettere. Dobbiamo investire sull’idea che la speranza non è affidarsi al cielo quando la terra frana, ma è il punto di forza che innesca quei meccanismi personali che 6 Il Rio Grande, confine naturale tra Usa e Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike generano comunione e comunità. Vorrei vivere tutto il mio tempo per imporre l’accoglienza come grande virtù religiosa, forse la più grande… Accogliere l’altro è la sfida di ogni civiltà e la sfida di ogni persona che voglia essere umana. Un’identità accogliente è disponibile ad aprirsi alle necessità altrui senza immaginare quale sarà la propria ricompensa o il proprio tornaconto. Accoglienza che presuppone il fatto che non ci riteniamo gli unici depositari della verità. La verità ci trascende, trascende le nostre chiese, le nostre comunità, i nostri movimenti e le nostre associazioni. Non potremo essere felici se la vita è una gara a chi arriva primo. La mia paura non deve cercare rivali, ma solo quiete per vincere il nemico che è in me. Non si lotta per essere il migliore, perché si diventa migliori quando si cerca pace. La religione cristiana contemporanea spesso chiede poco all’uomo. È pronta a offrire conforto, ma non ha il coraggio di provocare. È disposta a fornire edificazione, ma non ha l’ardire di spezzare idoli. È diventata abitudine, rituale, senza rischi e senza tensione. Parla in nome dell’autorità invece che con la voce della misericordia e della compassione. Pove del Grappa, 30 aprile 2016 Giuseppe Stoppiglia fondatore e presidente onorario Associazione Macondo Onlus c o n tr o lu c e Barriere e barricate Scorrendo le pagine di Madrugada Che faccio, apro o chiudo? Sto sulla soglia a mezzodì, in contro luce, e chiudo al tramonto. Scusate, ma è già qui Giuseppe Stoppiglia con il controcorrente, che titola Fugge dalle guerre un popolo in rotta dove racconta di popoli che vengono dal sud come salmoni che salgono la corrente e chiedono accoglienza. Mentre lui, bambino, sale il monte assieme al papà Bernardo e la sua piccola mano si perde nella mano grande e calda del padre. Assieme a lui si arrampica fino alla vetta, per scoprire la contemplazione e imparare a guardare. E non lo dimenticherà per tutta la vita. La mia finestra era molto luminosa, poi un giorno è arrivata la nebbia, non era nebbia, avevano costruito un muro (anonima). Con il monografico e le foto di questo numero, affrontiamo il tema dei muri, perché ci era apparso d’improvviso il muro di Melilla. Introduce il monografico Marco Opipari: La costruzione di Fortezza Europa dove (in Europa) i muri non solo dividono, ma pure nascondono la violenza che si sta consumando. Segue Walter Baroni con Confini, frontiere e migrazioni, che dopo aver definito il confine una misura politica e amministrativa e la frontiera una strategia di guerra, definisce la politica dei movimenti in Europa sull’identificazione o separazione o mistificazione di quei concetti. Roberto Radice in Muri invisibili: povertà e potere, racconta di Nairobi, delle baraccopoli e dello slum di Korogocho, dove la povertà è perdita dei diritti e gli uomini sono massa indifferenziata, separati da chi ha il “privilegio” della cittadinanza e vive nella città alta, benestante, perché il non-avere è non-essere. L’angolo dei libri nasconde sempre qualche perla, che la curiosità del lettore sa rilevare e incastonare nel suo anello. E arriviamo al pianoterra di Giovanni Realdi che si pone due domande: «Esiste l’ideologia del gender? Esiste la paura dell’ideologia del gender?». E aggiunge di sospendere il giudizio, partire dalla nostra ignoranza dopo di che… non importa la risposta ma il percorso. Avete contato quante sono le carte d’Africa fin qui? Quale sarà la prossima per voi? Qui abbiamo la carta del Madagascar, scritta dalla dottoressa Candide Horace, malgascia. Egidio Cardini, il nostro piccolo principe, tante volte ha volato nel continente sudamericano; per questo gli abbiamo chiesto di raccontarci cosa sta succedendo in Brasile e lui ci parla di destre eterne e di colpi di Stato senza carri armati. Non lasciarti sfuggire la sua analisi. Ricompare Fabrizio Panebianco per economia | politica e scrive sul Bail in, che significa salvataggio interno, ed è la normativa che riguarda ciò che succede in caso di fallimento di una banca. E arrivo al diario minimo: Mariano e il tempo degli incontri di Francesco Monini dove non si parla di politica, ma di vita e di Mariano che alla fine canta, da baritono. Chiudo con la cronaca di Macondo e dintorni. E con le didascalie, di Heymat, per le foto di Jesús Iñiguez che hai già visto, sui muri, tra le pagine di questo numero. Casa de Adobe, museo sul confine a Ciudad Juárez, Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike La redazione 7 DENTRO IL GUS CIO La costruzione di Fortezza Europa Di muro in muro di Marco Opipari Sospesi sul confine del nostro benessere 8 Alcune immagini hanno il potere di descrivere il senso delle cose con una forza che alla parola non è concessa. In questo senso, per quanto riguarda l’orrore della guerra con le sue trincee, gli steccati, i muri e quella morte del senso che pervade tutto, ho sempre ritenuto insuperabile in quanto a realismo la famosa scena di Apocalypse now, nella quale i personaggi tragici e clowneschi di Francis Ford Coppola fanno surf sotto le bombe. Un’affermazione, mi rendo conto, a prima vista paradossale, che restituisce la follia del conflitto e delle armi solamente mettendola in scena esattamente come essa si dà e nel modo in cui accade. È il metodo di Beckett, per cui se si vuole mostrare come la nostra esistenza si giochi per intero dentro la guerra, anche se non ne sentiamo il rumore e se è così lontana dal nostro sguardo e dalla nostra esperienza diretta da dimenticarcene, è necessario rimettere ogni gesto, anche il più domestico o ludico come in questo caso, là dove accade. E cioè in uno scenario bellico. Solo così è possibile comprendere cosa sia la guerra e come essa, oggi, determini l’esistenza di tutti, provvedendo privilegi per alcuni e morte per altri. Anche qui, anche in una qualsiasi delle allegre capitali europee nel periodo dei saldi. È solo in questa accezione che parlo qui di realismo. Da questo punto di vista e per spiegarmi, per esempio ho sempre trovato poco realistici, per via di una violenza talmente esibita nella sua finzione da risultare caricaturale, i dieci minuti iniziali dello sbarco in Normandia in Salvate il soldato Ryan, inseriti non a caso in un plot narrativo buonista, nel quale la guerra scompare infine come in un vaso. In perfetto stile spielberghiano peraltro. Altrimenti la realtà non è intelligibile, diventa impossibile agganciarne il senso. Altrimenti davvero non è possibile comprendere Melilla, il livello di violenza invisibile che l’immagine contiene. Fare surf sotto le bombe, giocare a golf dove altri muoiono. O dove rimangono come sospesi, prigionieri di uno spazio senza tempo. Esattamente come nell’opera di Adrian Paci, in cui i migranti sono in fila per approdare in nessun luogo, perché per loro non c’è alcuna destinazione possibile (Adrian Paci, Centro di permanenza temporanea, 2007). Così l’unico posto buono per un migrante può essere dietro il muro, oltre il confine, o persino nel suo spessore, come a Melilla o in uno qualsiasi dei Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) dislocati lungo le frontiere di Fortezza Europa. Dove è possibile distinguere e commerciare in migranti. Criteri di selezione migranti Perché se un tempo i negrieri sceglievano tra gli schiavi quelli che presentavano la dentatura migliore o che avessero una corporatura abbastanza resistente per essere impiegati nei campi di cotone, a quanto sembra oggi i denti hanno lasciato il posto al livello di scolarizzazione e i campi di cotone al mercato del lavoro (Rediker, 2012). Criteri differenti, ma identica sostanza delle cose, per selezionare i più adatti e lasciar morire gli altri (è noto che Merkel abbia aperto le porte della Germania solamente ai profughi siriani, che possono essere considerati un’ottima risorsa professionale, trattandosi di una comunità di professionisti - medici, avvocati, ingegneri -, più che di manodopera scarsamente qualificata). Muri e campi di sterminio Per tutti gli altri, la politica di Fortezza Europa, di cui Frontex è il braccio armato, garantisce invece la “disumanità legalizzata”, secondo la formula che Anders ebbe a utilizzare per definire i campi di sterminio nazisti. Anche l’Europa contemporanea, infatti, ha il suo campo di d e nt r o il gusc io sterminio. Nel Mediterraneo, secondo il blog Fortresse Europe, dal 1988 sono annegate 19.142 vite umane. Il Mediterraneo, un tempo culla della civiltà occidentale, ne rappresenta oggi la frontiera principale, il muro invalicabile. Muri visibili per i quali la sensibilità occidentale finge indignazione solo di fronte alla rappresentazione patetica della morte del piccolo Aylan, offerta dai media per una catarsi pelosa e generalizzata. Muri invisibili che sorgono ovunque e danno vita a fili spinati culturali dietro i quali l’UE, e più in generale l’Occidente ricco, stanno puntellando la propria identità imperialista. E se in questa sede non c’è abbastanza tempo per prendere in esame i muri invisibili, anche tenere conto di quelli a portata di sguardo è compito assai difficile. Provo a ricordarne i più importanti, oltre a quello già descritto di Melilla: 3000 km. tra Usa e Messico lungo il Rio Grande; il muro eretto da Poroshenko al confine russo contro gli ucraini russi da liquidare; i muri in Arabia Saudita e in Iraq. Infine, i muri urbani attorno agli slum disseminati lungo il perimetro delle metropoli di tutto il mondo, per separare gli alieni dagli esseri umani (una interessante rappresentazione di queste nuove forme di alienazione la si può trovare nel film District 9 di N. Blomkamp). Infine il muro israeliano in Palestina, che ho lasciato per ultimo, perché l’unico muro costruito sul suolo straniero: 750 km in territorio palestinese, sul quale la Corte di Giustizia dell’Aja si è già espressa per lo smantellamento, per porre fine a un regime di apartheid che rinchiude più di tre milioni di persone. Muri la cui complessa architettura concorre a edificare il sistema di rappresentazioni tautologico morali con cui ogni società tende a legittimare e imbellettare la propria crudeltà: la violenza più o meno amministrata esercitata sugli ultimi o sui nemici della società, siano essi interni o esterni ai propri confini culturali. Un tempo teatrale, oggi tale crudeltà si è risolta nel pudore amministrativo con cui violenza e morte vengono gestite e sottratte al gioco delle passioni (Dal Lago, 2014). I muri sono solo uno dei modi di questa sottrazione. Eppure la presenza di un muro dovrebbe almeno consentirci, come nel caso della fotografia di Melilla, di vedere in negativo ciò che il muro rivela proprio nella misura in cui nasconde all’occhio: la presenza di un conflitto, il rumore sordo delle guerre invisibili che l’Europa combatte per garantirsi i propri privilegi. Marco Opipari ricercatore 9 Il confine visto da Sunland Park, New Mexico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike di mu ro in mu ro / 1 Confini, frontiere e migrazioni di 10 Walter S. Baroni I confini degli Stati non coincidono con le loro frontiere. È una differenza politicamente rilevante, soprattutto di fronte alle migrazioni che si muovono dal sud al nord del Mediterraneo. Alessandro Dal Lago distingue queste due idee con chiarezza in un libro, Le nostre guerre, scritto qualche anno fa. Il confine politico separa amministrativamente e convenzionalmente gli Stati, mentre la frontiera è la linea strategica dove si cristallizzano temporaneamente gli equilibri di potere tra potenze. Il primo si colloca nell’ordine del dato storico e del diritto, il secondo delle possibilità strategiche e della guerra. Queste due nozioni e il sistema di riferimento che portano con sé - diritto, strategia e guerra - sono di grande rilevanza per cercare di capire quali sono le poste politiche che si giocano attorno al movimento dei migranti verso l’Europa e verso un’Unione Europea sempre più malridotta. Il modo in cui esse vengono associate o disassociate permette di comprendere il posizionamento degli attori politici, sia a livello nazionale che europeo. Le possibilità teoriche di combinazione tra confine e frontiera non sono molte e sono facilmente esplorabili. Migrazioni: un frontiera da difendere In primo luogo, si può procedere alla completa identificazione dell’idea di confine in quella di frontiere. Il confine è la frontiera. È la mossa che definisce l’identità politica del lepenismo, della Lega lepenizzata a sua volta da Maroni dopo l’infezione “romana” di Umberto Bossi, dei vari regimi fascistoidi che si vanno costituendo all’Est dell’Unione Europea, dall’Ungheria di Orban alla Polonia della Szydlo. Le conseguenze di una simile operazione politica sono chiare: il confine diventa una linea bellica da difendere a ogni costo, perché lungo di essa si giocano i destini della Nazione e la potenza dello Stato. Da questo punto di vista, ovviamente, i migranti non sono altro che nemici, da respingere con le buone - polizia e diritto - o con le cattive - trincee, esercito, armi. : un confine da rispettare La seconda possibilità è la negazione dell’idea di frontiera a favore di quella di confine. È il meccani- smo di generazione dell’“essere-PD” continentale. L’espressione non è felice, ma non c’è altro modo di descrivere il fenomeno di cui parlo. L’essere-PD, infatti, si colloca al di là della linea tradizionale che distingue la destra dalla sinistra politica e che è ormai inadeguata a descrivere i sistemi partitici europei. Il PD, tuttavia, confermando la vocazione storica dell’Italia a essere il laboratorio di discutibili esperimenti politici, realizza in modo compiuto questa condizione. Un partito unico senza una vera opposizione che incorpora nel proprio governo tutto l’arco politico nazionale. Di cui, perciò, si può dire tutto e il contrario di tutto. La sua identità politica consiste nell’affermare che esistono i confini, ma nel negare che siano delle frontiere. I migranti, da questo punto di vista, non sono più nemici, dato che non attentano alle nostre frontiere, ma diventano criminali, visto che violano i nostri confini infrangendo i confini amministrativi, che garantiscono la legalità di passaporti e documenti di identità. Questa posizione solo all’apparenza è più mite. L’esistenza della frontiera è negata, ma dato che la sua realtà non è cancellabile attraverso declamazioni politiche, essa ritorna a tormentare, come un fantasma, il confine. Confine e frontiera, insomma, sono dissociati in modo psicotico. Da ciò discende tutto ciò che è fastidioso dell’essere-PD. In particolare, nel caso dei migranti, fariseismo legalista e afflato internazionalista posticcio, cioè l’accoppiamento inconsapevole e compiaciuto della retorica dell’accoglienza con il rumore sinistro di manganelli e spranghe dei chiavistelli - cioè, «i migranti sono benvenuti», seguito dalla clausola «purché rispettino le nostre leggi». In breve, se il lepenismo e i suoi gemelli politici vivono in un regime di paranoia spinta, l’essere-PD, invece, si trova in una condizione di schizofrenia euforica - ovviamente, l’euforia nasce dalla strana idea che siamo in un mondo senza frontiere. : dissociazione tra confine e frontiera La terza possibilità, infine, consiste nella dissociazione della nozione di frontiera da quella di confine. Questo tipo di movimento non mi sembra abbia prodotto alcuna formazione politica pubblicamente riconoscibile, ma mi sembra molto inte- di lunga durata, ma, adesso, anche di una facile constatazione di cronaca. Negli ultimi anni la guerra, infatti, lentamente sta muovendosi verso l’Europa. Dalla Tunisia fino all’Ucraina, il continente è circondato da crisi belliche a diverso potenziale esplosivo. In secondo luogo, offre un’immagine triste della politica. Né semplice spazio amministrativo, né luogo dell’utopia, essa si impernia sull’inevitabilità della guerra e sulla scelta dei nemici. Da questo punto di vista, però, il suo carattere aspro e impastato di morte può essere attenuato cambiandone l’orientamento. Non più l’arte del rendere possibile l’impossibile, ma capacità di rendere impossibile il possibile, cioè la morte, la violenza, le guerre e lo sfruttamento. Una definizione negativa e debole, ma che almeno ha il vantaggio di mettere in luce la relazione essenziale che lega la politica al potere, anche quando la prima lavora alla riduzione del secondo. di mur o in mur o / 1 ressante per gli effetti che può produrre. Innanzitutto, chiude definitivamente la strada che porta a identificare i migranti con criminali e nemici. Nel primo caso perché, privo del peso della frontiera, il confine non è più investito politicamente, ma esiste solo come forma legale. Di conseguenza, il crimine torna ad essere quello che è - un’infrazione legale - che chiunque può commettere, senza nessun sovratono politico. Nel secondo caso, perché la separazione della frontiera dal confine e dalla sua immobilità amministrativa permette di pensare il nemico non come chi attraversa un confine, ma come chi concentra potenza in sé ed esercita il potere che nasce da quella potenza. In questo modo, il nemico diventa una griglia di analisi politica attraverso la quale ricercare i focolai di guerra reali e quelli potenziali, dentro e fuori gli spazi statali. Naturalmente, questo modo di impostare la relazione tra frontiera e confine ha dei costi. In primo luogo, porta in primo piano la guerra come funzione costitutiva della democrazia occidentale. Non si tratta solo di un orientamento storico Walter S. Baroni Università di Manchester 11 Guardando verso Rancho Anapra dal New Mexico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike di mu ro in mu ro / 2 Muri invisibili: povertà e potere di Roberto Radice Le donne, i chapati, le formiche 12 I bimbi, con vestiti a brandelli dall’usura, giocano tra le fogne a cielo aperto mentre succhiano il nocciolo sfilacciato di un mango. La polvere si impasta all’odore nauseabondo dei rifiuti accatastati in ogni dove. Bande di ragazzi di strada, che sniffano colla o kerosene, vagano come zombi in pieno giorno. Le donne vendono frutta, verdura o preparano chapati - come icone di una storia mai narrata - lungo i bordi delle strade che sembrano percorse da eserciti di formiche: persone che camminano verso destinazioni sconosciute. La sera, prima che faccia troppo buio e le strade divengano troppo insicure, trovi ai banchetti dei jua kali - in kiswahili significa «coloro che stanno sotto al sole» ovvero i venditori informali - le zampe dei polli e le teste dei pesci, con rispettive lische: tutta carne scartata dai grandi centri commerciali e dagli hotel lussuosi di Nairobi e recuperata dalla discarica di Dandora. «L’Africa produce quel che non consuma e consuma ciò che non produce»1! Nairobi, due città divise Benvenuti a Korogocho, una delle oltre duecento baraccopoli di Nairobi, capitale del Kenya con i suoi sei milioni di abitanti. A Korogocho circa 250 mila persone vivono, sardinizzate, su un terreno di poco più di un chilometro quadrato di proprietà dello Stato. Se ti addentri in un qualunque slum di Nairobi la cosa che più ti colpisce è la miseria. Lo slum si caratterizza per le sue assenze, per i vuoti assordanti nell’estrema densità e non per la sua essenza. Questa situazione, che può essere definita di “apartheid economica”, è evidente anche a livello visivo: infatti Nairobi è due città che si sviluppano su due livelli distinti e separati: la prima sta in alto, si innalza verso il cielo ed è la città legata economicamente al resto del mondo globalizzato, il miraggio, l’epicentro del benessere e della tecnologia; la seconda è la città aliena, della terra, delle baraccopoli che sono poste sotto il livello fognario della prima città, dove chi ci vive non Alberto Salza, Niente. Come si vive quando manca tutto. Antropologia della povertà estrema, Sperling & Kupfer, Milano 2009, p. 18. 1 è considerato un concittadino poiché è come se non esistesse. Nelle mappe catastali le baraccopoli non compaiono: sono segnate come spazi bianchi. Fuori, niente di niente Ma la povertà è solo miseria intesa come mancanza di cibo e acqua, mancanza di igiene, di educazione? Curioso come in Africa la povertà non sia quasi mai associata alla povertà materiale, ma è povero chi è solo, chi non ha amici. A noi serve vedere nei dannati della Terra dei mendicanti bisognosi: avere pietà di loro è un modo per avere pietà di noi stessi. Ma qui vogliamo decostruire l’equazione povertà = miseria, poiché negli anfratti arrugginiti di uno slum si comprende come la povertà sia anche altro. Povertà non è solo miseria ma significa che qualcuno è meno essere umano di qualcun altro. Ci sono territori di miseria estrema che sono “spazi di eccezione”, dove viene confinato chi non è considerato un essere umano e la sua vita è uccidibile senza che chi la uccide commetta reato. La povertà quindi non è riduttivamente solo deficit di denaro ma anche un deficit di potere. Gli impoveriti non sono tanto vittime ma scarti che devono essere raccolti, rinchiusi e rimossi. Non è un problema tanto la povertà, anzi può essere un fertile campo dal quale trarre profitto sulla pelle altrui, ma lo sono i poveri. Su di loro viene applicata la teoria del Niente2: niente cibo, niente acqua, né salute né soldi, niente abitazione o terra su cui vivere, niente cultura e niente educazione, niente diritti, niente pace, nessuna patria e nessuna legge, niente ambiente sano, niente infanzia né vecchiaia, niente possibilità, niente sogni. Alla fine ti convinci che non sei niente. I miserabili stanno assumendo sembianze non umane attraverso questo processo antropologico. È questo un potere che, sempre attraverso il dispositivo spaziale di muri invisibili, etichetta gli individui: l’abitante delle baraccopoli è chiamato in senso dispregiativo squatter, cioè “persona che si accovaccia”, persona che si racchiude, si piega su sé stessa per difendersi e nascondersi dagli abitanti della “città dei grattacieli”, ai quali cela persino di vivere nell’out-città Korogocho poiché «la gente 2 Ivi, p. 10. Korogocho, ammassati, dimenticati «L’alterità sembra stia assumendo un tratto che definirei provvisoriamente come “radicale”. Essa si configura come correlativa a un potere che non impone nomi, che non si esercita nel discriminare, escludere, stigmatizzare - bensì ignora: negando all’Altro qualunque tipo di riconoscimento, per quanto discriminatorio, e dunque condannandolo a una condizione di non-esistenza sociale (da cui può derivare anche, e non di rado deriva, una messa in forse della stessa sopravvivenza fisica delle persone)»4. Un giornalista si è espresso così dopo la tragedia che ha visto morire più di cento persone dello slum di Sinai, nell’area industriale di Nairobi, dopo un’esplosione di un deposito di petrolio della Kenya Pipeline Company: «Gli abitanti degli slum sono un’entità del tutto anonima: i milioni di nairobiani che sciamano dalla parte misera della città per riparare le sue automobili, per scopare le sue strade, per costruire i suoi grattacieli e far da guardia ai suoi palazzi». Korogocho non è solo il luogo fisico dove vengono buttati tutti i rifiuti della Nairobi ricca, ma è anche il centro di raccolta indifferenziata per vite rifiutate, per vite di scarto: profughi di guerre e carestie, orfani, criminali, donne sole, alcolisti. Esistenze che sono out. Uno spazio che addensa, devasta, cancella. Ogni cosa è ammassata l’una sull’altra, le cose così come le persone. Senza che siano costruiti fossati o mura invalicabili, «questi nuovi muri si configurano piuttosto come dispositivi di separazione con il compito semplificato, direi sbrigativo, di tenere fuori»5 un’umanità superflua. «I nuovi muri, anche quando producono effetti di segregazione, ignorano le persone. Essi rispondono a una logica che si esercita su, e perimetra un territorio invece che delle persone, che non sono oggetto di alcun trattamento - se non in maniera indiretta, per effetto appunto del trattamento dello spazio, del suo ridisegno. Tali effetti possono essere molto pesanti per gli interessati, e lo sono tanto più quanto più tali effetti sono ignorati; e con loro sono ignorate le persone che li vivono»6. E come uno specchio che deforma la realtà e la rifrange ricreandola, ecco che «i “nuovi muri” proliferano anche al polo opposto dello spettro sociale, a difesa degli spazi del privilegio, territori “securizzati” per l’appunto dalle minacce dell’alterità. Sono le gated communities, aree W. Wink, Rigenerare i poteri, discernimento e resistenza in un mondo di dominio, EMI, Bologna 2003, p. 186. 4 O. De Leonardis, Alterità, Distanza. I nuovi muri di un potere che ignora, Articolo tratto da: http://www.souqonline.it/ home2_2.asp?idpadre=933&idtesto=657. 5 Ibid. 6 Ibid. private residenziali con i propri servizi riservati, commerciali e sociali, ivi comprese scuole e polizia, che si governano come un club, o una società e cioè con una forma di governo privato. Queste forme di convivenza umana, per così dire a parte rispetto al territorio circostante, separate e fortificate - extra-mondi dice Mike Davis sono diffuse dappertutto, dentro e intorno alle metropoli del sud come del nord e assumono a volte le dimensioni di una città vera e propria»7. di mur o in mur o / 2 povera è umiliata, pensa di non valere nulla, si convince quasi di non esistere»”3. Ma Korogocho… ma la vita… Torniamo nello slum. Korogocho è forse luogo che non si può comprendere ma solo incontrare. Qui si ritrovano, si raggrumano e a volte si recuperano oggetti e vite scartate. Korogocho è luogo di creatività, delle pluriattività, del sapersi arrangiare, delle piccole cose, del frammento, perché «i più lontani dal centro del potere, sono i più vicini al cuore delle cose»8. Korogocho è il luogo dell’incontro di chi non ha potere, ma ogni giorno, in modo del tutto inaspettato, si crea la vita perché la vita è qualitativa e non rientra, riduttivamente, nella quantificazione della soglia del meno di un dollaro al giorno. Di ragazzi di strada con la colla sotto il naso per non sentire la fame ed ex ragazzi di strada con una solare dignità; di donne sole, che hanno deciso di dedicare la loro vita all’aiuto di altre donne malate di Aids e agli orfani di questo killer; di giovani che nonostante siano nati e cresciuti in una baraccopoli sanno alzare lo sguardo anche dove sembra non esserci orizzonte; di missionari che non vogliono il potere della Chiesa dei palazzi e vivono come vicini di baracca del popolo di Korogocho; di uomini distrutti dall’alcol, di criminali che nella loro vita hanno fatto il peggio che si potesse compiere e ora hanno trovato rifugio a Korogocho, dove ogni giorno, vivendo in strada, prendono botte ma dove qualcuno riconosce in loro ancora un volto del quale prendersi cura. Della donna del mercato che ogni giorno ti vende frutta e verdura; di sconosciuti che, nel salutarti, per prima cosa ti chiedono come stai; di incertezze, di cambiamenti di programmi, del non essere mai in ritardo perché in Africa è il tempo che è in anticipo. Della relazione con un dio che prima di essere fede è un percepire profondamente la sua presenza in ogni pasto condiviso, in ogni giornata conclusa sentendosi sfiniti per tutte le mani strette e i passi percorsi. Del camminare accanto a chi è diverso da te e, come recita un proverbio del nord del Kenya, «occorre camminare cinque mesi nei sandali degli altri, prima di capire sé stessi»9. Korogocho sembra non buttare mai via niente e 3 Ibid. A. Zanotelli, I poveri non ci lasceranno dormire, Monti, Saronno 1996, p. 21. 9 Alberto Salza, Niente. Come si vive quando manca tutto. Antropologia della povertà estrema, Sperling & Kupfer, Milano 2009, p . 29. 7 8 13 di mur o in mur o / 2 forse è proprio essenziale ascoltare tutte le voci e non buttarne mai via nessuna. Ascoltare per ridare potere, perché il potere non è solo un qualcosa di sporco, contaminato da interessi, affari illeciti, corruzione, abusi e privilegi, sopraffazione. Il potere o è servizio o è ansia di compensazione. Esiste anche il potere inteso come processo di empowerment, come azione non per colmare mancanze incolmabili, ma per implementare le risorse disponibili così che i soggetti siano in grado da loro stessi di implementare la propria trasformazione. Per divenire, finalmente, esseri umani con pieni diritti e doveri. Le mentine del podestà 14 Altrimenti si finisce per dare sempre mentine da succhiare, come narra il geniale Ascanio Celestini: «I poveri erano così poveri che presero la loro fame, la misero in bottiglia e se la andarono a vendere. Se la comprarono i ricchi. I ricchi che nella vita avevano mangiato di tutto però la fame dei poveri in bocca non gli era passata mai. Così allora i ricchi tirarono fuori i soldi, la pagarono bene e i poveri gliela vendettero e per un po’ tirarono avanti. Ma poi tornarono a essere poveri. I poveri vendettero ai ricchi la sete, la rabbia, la meraviglia, le parole, la violenza, la musica, il pudore, la pietà e tutta la loro cultura. E intanto i ricchi accumulavano, nelle loro cantine, bottiglie su bottiglie e in quelle bottiglie c’erano tutta la cultura, la rabbia e l’orgoglio dei poveri. E quando i poveri tornarono a essere poveri, presero la loro povertà, la misero in bottiglia e se la andarono a vendere. Curiosamente se la comprano i ricchi. I ricchi che per essere veramente ricchi dovevano possedere anche la miseria dei miseri. I poveri gliela vendettero e per un po’ tirarono avanti, ma poi i poveri tornarono a essere inesorabilmente poveri. Allora i poveri ormai poveri, ormai più neanche padroni della propria povertà si armarono. E non di coltello e forchetta, bensì di fucili e pistole perché la rivoluzione non è un pranzo di gala, la rivoluzione è un atto di violenza. Armati, i poveri marciarono verso il palazzo del podestà. Il podestà si chiuse dentro, barricato, era terrorizzato. Vide i poveri che arrivarono, che erano armati ma non facevano niente perché senza la rabbia, senza la fame, la sete, l’orgoglio e senza cultura e coscienza di classe non si fa la rivoluzione. Allora il podestà capì e andò in cantina, prese una bottiglia, una sola di tutte quelle accumulate. In quella bottiglia c’era la libertà di quei poveri che stavano lì. Prese questa la libertà e gliela riconsegnò. I poveri adesso avevano la libertà e ci potevano fare una passeggiata, una canzonetta, un partito ma non ci fecero niente perché la libertà da sola non serve a niente. Allora il podestà capì, si cercò nelle tasche e trovò un pacchetto di caramelle alla menta e le regalò ai poveri. E i poveri tornarono a essere liberi. Liberi di succhiare mentine». Roberto Radice collabora con i Comboniani nelle missioni in Kenya e con l’Università degli Studi di Milano-Bicocca Guidando sulla Canam Highway, verso il centro di El Paso (Texas). Sulla destra, il Rio Grande e Ciudad Juárez (Messico). © Jesús Iñiguez / CultureStrike Mario Bertin, La soglia, Postfazioni di Ivo Lizzola e Giovanni Ruggeri, Elliot, Roma 2015, pp. 85, eur 12,00. La soglia di Mario Bertin è un dono. Scrive Mario Bertin che «amare davvero è imparare a morire», e ce lo svela come ciò che resta, non consumato, sulla soglia. Giunti lì, attraversato il vuoto e a mani vuote, l’aperto che senti (e credi) venire a coglierti è ciò che respira dell’amore, dell’amicizia, della gratuità delle azioni, della generosità dell’offerta del sé, del dono, del perdono… Chi giunge sulla soglia tra la vita e la morte, e si sporge sull’aperto, può maturare il senso e il compito della testimonianza. Da rendere a chi, ancora immerso nel tempo saturo della vita, rischia di perdere il valore di gesti e parole. Mario Bertin scrive da testimone della imminenza, avendo vissuto che, sulla soglia, «la carne si fa parola» come diceva l’amico Pietro Barcellona. Perché lì il rapporto di sé a sé non è più di possesso, né di controllo, neppure di confidenza. Lì ci si trova in un luogo spirituale, come un «chiaro del bosco» apertosi senza preavviso. In ogni piccola cosa quotidiana si accede all’abisso, all’ignoto o allo stupore, alla gratitudine. Ogni piccola cosa cela l’abisso. Ma ci si trova anche in un luogo concreto di relazioni tra donne e uomini che somiglia a una risorgiva. Prossimi, familiari e operatori della cura, dell’assistenza trovano nelle pagine di Bertin uno specchio esigente, che apre interrogazioni e offre orientamenti. Perché siano capaci di un «amore paziente»: quello della concretezza contadina che attende che la vita trovi la sua strada, la sua propria configurazione, un suo unico e particolare equilibrio. Mario Bertin ci racconta, sulla soglia, d’una umanità sorprendente e semplice. L’ha incontrata e vi si è riconosciuto. Vi ha sentito la tenerezza di Dio, la carezza dell’aperto. Dentro le trame del dono, dell’offerta, del perdono, le persone apprendono, insieme, a sapere che farsene della proprio impotenza. Proprio dove persone fragilissime rischiano l’annullamento di ogni possibilità narrativa, proprio lì si possono tessere trame di veglia e ricerche concrete che possono portare a dire: «credo di potere, posso provare a potere»; anzi, «devo provare a potere perché tu ci sei». Il libro di Mario Bertin è prezioso anche per quanti sono costretti a guardare in faccia la vita che prova, che attraversa fratture e abbandoni. Nella situazione umana della ferita, della debolezza irriducibile (come dell’esilio, della migrazione, dello sperdimento) è l’ignoto che ci viene incontro. E la vita si propone nella sua inattingibilità, nel suo esilio. Ci sono uomini e donne che non sopportano la «mistica della fragilità», che produce troppo spesso esclusioni e subalternità, volontariati soffocanti, meritori o un po’ sacrificali. Ci sono uomini, e molte donne - ce ne parla Bertin - che però hanno scoperto questo, e che questo ci indicano e ci consegnano. Uomini e donne attenti alle crepe della vita: lì nidifica la colomba del Cantico. A loro è donato il libro. Ivo Lizzola ••• Jalāl al-D¯n Rūm¯, L’amore è uno straniero. Poesie scelte, Astrolabio Ubaldini, Roma 2000, pp. 128, eur 10,00. Jalāl al-D¯n Rūm¯, Poesie mistiche, Rizzoli BUR, Milano 2014, pp. 144, eur 9,00. «Sono venuto a prenderti, a tirarti per l’orecchio a privarti del tuo cuore e di te stesso e a metterti nel Cuore e nell’Anima! Son venuto qual lieve primavera da te, o cespo di rose, ad abbracciarti a me stretto, e a sfogliarti dolcemente!». La monumentale Divina Commedia conta 14.233 versi, endecasillabi incatenati. A lei ci riferiamo non solo come a uno dei 3 più grandi capolavori della letteratura mondiale di ogni tempo, ma come a un’opera polisemica e sterminata. Il grande poeta mistico persiano Mevlana Jalaluddin Rumi (1207-1273) ci ha lasciato 30.000 versi di appassionata poesia lirica. Conosciutissimo e celebrato in tutto il mondo islamico, da pochi decenni si è incominciato a tradurlo anche in Occidente, Italia compresa. L’interesse per il sufismo, la corrente mistica, si è finalmente risvegliato (anzi, svegliato, visto un silenzio durato secoli) in parallelo alla riscoperta della mistica ebraica (fondamentale l’opera di Aleichem Sholem) e allo studio dei grandi mistici - e soprattutto mistiche - cristiani. Nelle grandi religioni monoteiste le correnti mistiche non hanno avuto molto più fortuna di quelle pauperiste. Dimensione verticale (misticismo) e dimensione orizzontale (pauperismo) difficilmente sopportano gerarchie e auto- L IB R I In-forma di libri rità. Così, per qualche mistico santo, molti altri sono andati al rogo. I più hanno vissuto ai margini, hanno avuto proseliti, alcuni hanno fondato scuole, ma sempre isolati e comunque distanti dai dettami dell’ortodossia delle Chiese organizzate come eserciti. Gialad Ad-Din Rumi (il nome appare diverso per le differenti scelte di traslitterazione) è stato un grande mistico, un maestro con molti discepoli, un derviscio (letteralmente in arabo “monaco mendicante”). In lui si rinnova la corrente ascetica del sufismo, e anche Rumi pratica la danza roteante, un ballo rituale che accompagna la preghiera. Non pare quindi un caso che la vita e la fortuna di Ad-Din Rumi rimandino in qualche modo a quella del suo contemporaneo Francesco D’Assisi, entrambi ci appaiono animati dal medesimo spirito. Rumi - per questo se ne parla in questa rubrica - è stato anche e forse soprattutto un poeta straordinario. Accostarsi alle sue liriche d’amore (si può dire che tutto il suo corpo poetico è dedicato all’amore) ci offre un dono e un insegnamento. Ci fa gustare ancora una volta il potere evocativo della grande poesia. E ci ricorda che l’Islam è stato (e ancora è: il sufismo non è morto, non può morire) cosa molto più grande di ciò che ci raccontano le cronache insanguinate di questi anni. Effe Emme ••• Ulrich Beck, Il Dio personale. La nascita della religiosità secolare, Laterza, Roma 2009, pp, 258, eur 16,00. La molteplicità delle espres- 15 libr i sioni religiose, con le loro gerarchie, riti, dogmi, ricorrenze ecc. ha contraddistinto per millenni culture, popolazioni e tuttora denota luoghi e designa tempi per la narrazione del “sacro”. Tuttavia la società attuale, postmoderna, impone una riflessione: quali sono le manifestazioni, i rituali riconosciuti e condivisi che in questo XXI secolo caratterizzano le esperienze religiose? A questa domanda, il sociologo Ulrich Beck propone una riflessione articolata anche se fin dall’inizio esprime la consapevolezza della complessità dell’argomento. La secolarizzazione, che decretava la perdita di rilevanza nella vita sociale e la presunta fine della religione, ha di fatto fallito nel suo intento e ha gettato le basi per la rinascita di una nuova spiritualità e religiosità “adattate ai tempi”. Per le religioni liturgiche, istituzionali tuttavia, questo processo comporta nello stesso tempo il pericolo di essere svuotate, anzi profanate dai movimenti tendenti a valorizzare espressioni alternative di spiritualità vissuta e dalla concorrenza che sempre più fa breccia nella riflessione religiosa di un “Dio personale”. Una nuova cultura spirituale, superando i confini ormai ristretti di singole nazioni, «ha tratto discrezionalmente i suoi contenuti religiosi e le relative prassi da diverse tradizioni religiose e spirituali dell’Oriente e dell’Occidente per assemblarle nelle forme del Dio personale». Ma chi è questo Dio persona- 16 Murale Amor Por Juárez nel centro di El Paso in Texas. © Jesús Iñiguez / CultureStrike le? È la scoperta soggettiva dell’elemento religioso. Questo è quanto U. Beck desume anche dai diari di un’ebrea olandese, E. Hillesum, morta nell’ottobre 1943 in un campo di sterminio: «Quando prego, scrive Hillesum, non prego mai per me stessa, prego sempre per gli altri, oppure dialogo in modo pazzo, infantile o serissimo con la parte più profonda di me, che per comodità io chiamo Dio». Recentemente anche il teologo Vito Mancuso nella sua opera Dio e il suo destino si pone la domanda: è lecito parlare di un Dio personale? Occorre però chiedersi cosa si intende per personale; se intendiamo persona/personale la capacità di relazione, ruolo, polo in grado di istituire un rapporto, tale termine può essere attribuito a Dio. È sicuro, prosegue Mancuso, che è possibile relazionarci a Dio in modo personale, c’è tutta la storia della spiritualità occidentale a mostrarlo. In un certo senso è doveroso rapportarci a Dio in modo personale, intendendo con ciò la relazione più profonda che a noi è possibile istituire. Questa relazione con il Dio personale interseca però quello spirito individualistico contemporaneo che ci conduce alla domanda, sollevata nel testo dell’autore: qual è il proprium specifico del Dio personale? Ancora: il Dio personale è davvero dio oppure è solamente idolo del proprio sé? Giuseppe Cavalieri sociologo Giovanni Realdi Di cosa parliamo quando parliamo di gender? Tre esercizi utili PIANOTERRA di Cocchi che corrono sul mare Pedalo, quasi in ritardo, verso la scuola. Le fameliche locandine delle edicole “denunciano” come una famiglia su sette, in città, possegga armi da fuoco. Nella testa, suoni e immagini si sovrappongono: la radio mattutina che prova a spiegare le leggi danesi sulla confisca di beni ai migranti; la rivista che riporta l’inchiesta dello Spiegel sulla notte violenta del capodanno di Colonia... Questi fatti esistono, dunque se ne può parlare: il linguaggio si piega sull’esistenza per darle un qualche contorno, per ricostruirne la tridimensionalità all’interno di una cornice di senso. Partire da un fatto, anche minimo, per poi valutarne le sfumature e le implicazioni e quindi ottenere informazioni per agire, volendo. Eppure accade anche il contrario: possiamo parlare di ciò che non esiste, come la chimera o i «cocchi che corrono sul mare», secondo l’esempio del sofista Gorgia, che in questo modo ribadiva la separazione tra essere e linguaggio, e con essa l’impossibilità dell’uomo di avere la certezza di pensare la verità. Curioso, ma non troppo: un mio caro studente di terza, leggendo le pagine dedicate a quel filosofo greco, pensava si trattasse di noci di 17 I murales del Centro de Los Trabajadores Agricolas Fronterizos di El Paso. © Jesús Iñiguez / CultureStrike PIANOTERRA cocco in libera uscita sulle distese marine. Che un antico ellenico immaginasse carrozze trainate da cavalli e non frutti esotici non è una cosa ovvia. E ognuno, con il linguaggio, costruisce la propria realtà. Uno spettro s’aggira per l’Europa 18 Così, mentre l’Europa deve (vuole?) affrontare una delle più ingenti crisi umanitarie degli ultimi anni e, correlata ad essa, la discussione sui limiti da imporre allo stato di diritto in nome della sicurezza, in Italia ci dividiamo tra famiglie arcobaleno e family day. Ma questa non vuole essere un’accusa di provincialismo; non si tratta di piangere sulla nostra patria piccineria, perché in fondo si tratta pur sempre di un dibattito pubblico, o quasi, e il dibattito esiste se la democrazia gode ancora di una certa salute. Il problema potrebbe piuttosto consistere nella qualità di questo dibattito. Ben prima, infatti, che s’iniziasse a parlare della “legge sulle unioni civili” (il cosiddetto ddl Cirinnà), il dibattito è stato infatti condizionato da uno spettro che porta il nome di “ideologia del gender”. Chi, come me, abbia la ventura di lavorare nella scuola cattolica, sa che da almeno due anni a questa parte sono arrivati precisi ordini di scuderia al proposito, amplificati e giustificati in itinere da decreti comunali su liste di libri vietati o interpretazioni deliranti di presunte indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Se l’allegro studente legge nei “cocchi” di Gorgia delle noci difficili da rompere, un certo numero di italiani, impaurito, se non terrorizzato, inizia a leggere ovunque intorno a sé i segnali della corruzione dei costumi. Il tempo per pensare a ciò di cui si sta parlando non esiste, a quanto pare, e dunque - invece di sospendere il giudizio - si comincia a ragionare come se l’oggetto della discussione fosse reale. E così, tale oggetto si fa reale, inizia a esistere, prende vita, come il mostro di Mary Shelley. E, siccome è vero ed esistente, persino il documento di sintesi del recente Sinodo dei vescovi della Chiesa Cattolica lo mette nero su bianco, nella relazione finale (punto 8): « Una sfida culturale odierna di grande rilievo emerge da quell’ideologia del “gender”che nega la differenza e la reciprocità naturale di uomo e donna». Sì che loro, i vescovi, tempo per pensare ne avrebbero. Il Golem: tre esercizi La domanda può però arrivare dal “basso”; la questione può essere posta, tra il serio e il faceto, dagli studenti. E allora, come affrontarla e fare, di un fantasma, carne e sangue? Qui, più che il Frankenstein, va evocato il Golem di Meyrink, un essere d’argilla, un servo, costruito apposta per esser utile nei lavori pesanti o per difendere; un ròbot, avrebbero detto in Boemia. Ciò che creeremo, ci servirà per affrontare meglio la realtà, e nello stesso tempo per difenderci dal “sentito dire”. La questione infatti si fa filosofica e, nello stesso momento, pedagogica, quando focalizziamo la domanda principale: «Di che cosa parliamo, quando parliamo di ideologia del gender?». Qui sta il primo esercizio: tornare a dare alle parole il peso posseduto, e poi scordato. La domanda, infatti, non è retorica, non presuppone cioè una risposta ovvia (del tipo: non stiamo parlando di nulla perché tale ideologia non esiste). Si tratta di partire da una socratica ignoranza da condividere: davvero, non so che cosa sia, e ora potremmo capirlo insieme. La consistenza, o l’inconsistenza, dell’oggetto non possono essere suggerite a priori, e nemmeno al termine del percorso: il risultato, come ricorda Marianella Sclavi, è la parte più effimera della questione. Il cuore sta nel percorso da fare, e da fare insieme, perché va sempre ricordato, metodologicamente, che i ragazzi in età scolare (parliamo di classi delle superiori) sono spugna e cartina tornasole della società. E tutto il mio eventuale carico ideologico personale nulla può contro convinzioni, o spesso misconceptions, che capitano nella testa e nel cuore di queste persone. Se, rabbiosamente, andrò a negare la consistenza dell’ideologia del gender, ebbene otterrò l’effetto opposto, confermando la tesi: sarà infatti la mia rabbia, o impazienza, a passare. Ognuno se ne andrà con quanto aveva con sé all’inizio dell’ora. Dunque, di che cosa si parla quando parliamo di ideologia? E poi: di gender? Ecco che può venire impiegato con profitto il bagaglio immenso di dati che è la rete Web. Si può partire cercando l’intera locuzione - e quindi toccando con mano la miriade di opinioni e di contro-opinioni che è fiorita negli ultimi tempi, e provando a creare una gerarchia tra le fonti, tra l’attendibilità dei siti e dei commentatori, tra i linguaggi dei commentatori. In seconda battuta, è possibile scindere l’espressione e allargare la visuale sulle ideologie dal punto di vista storico, sull’uso descrittivo o valutativo del termine; per poi porsi il problema, infine, della traduzione italiana di gender; della differenza tra sesso, genere e orientamento sessuale; del contributo dei gender studies e così via. Dalle parole alle posizioni Questa prima fase potrebbe essere caotica e spontanea. Può costituire un modo per chiarire i termini e insieme prendere dimestichezza con i mezzi attraverso cui reperire le informazioni. Il gruppo classe può provare a dare consistenza all’espressione, in una discussione collettiva, in cui qualcuno abbia lo specifico compito di schematizzare il materiale che emerge. Il secondo passaggio/esercizio potrebbe fare leva sulla naturale predisposizione dei ragazzi alla “polemica”. Ciascuno di loro si sarà probabilmente fatto un’idea della questione, anche pallida: ora che sappiamo dove cercare e che cosa evitare, possiamo dividerci in due gruppi. Da un lato coloro che cercheranno motivazioni e argomentazioni a favore dell’esistenza dell’oggetto; dall’altro, coloro che la negheranno. Questa fase è ancora descrivibile come “ricerca del materiale”, ma in questo caso si tratta di annunciare esplicitamente l’intento dialettico dell’operazione. Si chiama alle armi (logiche), si innesca il conflitto, dimensione sana ma che si vorrebbe espulsa dalla scuola: non è più curiosità libera e un poco svagata, ma l’indagine si colora emotivamente di agonismo, di sfida. Qui in ballo c’è da aver ragione sull’avversario. «Avere ragione». Non c’è nulla di più entusiasmante, talvolta, in un’aula, di poter trionfare sulle opinioni altrui. L’adrenalina si percepisce sensibilmente, le amicizie traballano, i banchi scompaiono per lasciar spazio all’arena dei gladiatori. E questo avviene se il clima non risulta congelato da un docente che «ha sempre ragione lui», se cioè le ragazze e i ragazzi sono in qualche modo abituati ad averla vinta, qualche volta. Non sempre, perché a nessuno piace vincere facile. Ma nemmeno mai, ma non perché davvero il prof trionfi sempre, ma al contrario per il motivo che un adulto che abbia questa pretesa, dopo un po’ non viene più calcolato. Lo si lascia parlare. Rebus e parole incrociate Il materiale raccolto in questo momento passionale andrebbe saggiamente organizzato in argomentazioni e cioè considerato per la propria potenzialità di convincere gli altri. Anche questo esercizio risulterà più complicato del previsto. Perché? Mi si perdonerà il quello curato dal dott. De Conti dell’ateneo patavino). Una delle caratteristiche principali di questi schemi di dialogo è costituita dalla consapevolezza (chiara e condivisa fin dall’inizio) che l’esposizione deve essere sottoposta a una tempistica chiara - cioè non si parla per ore, né all’infinito - e a una rigida alternanza tra le posizioni. Quando lo si applica, si prende atto di una dinamica quotidiana assai invadente (latina? Non certo anglosassone): l’incapacità di lasciar terminare il discorso, spesso anche solo la frase, al nostro interlocutore. Che cosa nascerà alla fine dell’esposizione delle tesi, delle argomentazioni, delle contro proposte? Non possiamo saperlo. Il gruppo potrebbe essere invitato a dividersi nuovamente e fisicamente nello spazio dell’aula: alla mia destra coloro che, alla fine, pensano che l’oggetto esista, alla mia sinistra il viceversa. Si dirà - ed è vero - che, alla fine, questi esercizi valgono per qualunque argomento; si dirà che, alla fine, non avremo ottenuto alcuna certezza assoluta. E anche questo è vero. Ma se diamo credibilità all’ipotesi che sia il linguaggio a creare la realtà (o qualche suo tratto), questi esercizi di linguaggio, come parola e come scambio, porteranno alcuni a incontrare una realtà nuova, quella dell’affrontare le cose non sulla base della paura, ma con lo strumento della ragione. PIANOTERRA gioco di parole, ma la ragione sta proprio nel fatto che alunne e alunni sono avvezzi ad esercizi e non a problemi. Mi spiego: un problema, dice Dario Antiseri, «è una domanda per la quale - chi se la pone (scienziato o studente) - non ha ancora una risposta. Un esercizio è una domanda per la quale chi se la pone ha già una risposta (la teoria conosciuta o appresa sul libro di testo), che va semplicemente applicata». Di esercizi è piena la scuola, schiacciata com’è sulla misurazione della quantità di sapere verificabile, traducibile in quei numeri che sono i voti. Quindi ci sarà un poco di smarrimento di fronte a una domanda di cui nessuno ha una soluzione; la fatica dell’insegnante facilitatore sarà quella di presentare l’indagine non come un mistero, ma come un rebus, proprio come quelli della Settimana Enigmistica: la risposta, vi assicuro, esiste. Ma è nascosta a me come a voi. Predisposte le batterie di contraerea, affilate le baionette, caricate le colubrine (polemos è “guerra”) si scenderà in battaglia. Qui la fatica più grande sarà la gestione del tempo, perché questo terzo esercizio ha il difficile compito di trasformare una sfida dialettica, in cui cioè lo scopo è aver la ragione dalla propria, in un processo dialogico, nel quale invece lo scopo è arrivare a una definizione comune. Perché il tempo? Per la sua glaciale imparzialità. Esistono in rete veri e propri protocolli per le cosiddette “palestre di botta e risposta”, esercizi di discussione normati e razionalizzati, adattabili a qualunque argomento (tra i più validi, in italiano, v’è Giovanni Realdi insegnante di materie letterarie 19 Il ponte di Santa Fe: uno dei tre punti di passaggio tra El Paso (Texas) e Ciudad Juárez. © Jesús Iñiguez / CultureStrike c a rte d ’a fr i c a Madagascar Situato a sud dell’equatore, nell’oceano Indiano, il Madagascar è la quinta isola al mondo per superficie (592.040 km2) dopo l’Australia, la Groenlandia, la Nuova-Guinea e il Borneo. Fa parte dell’Africa, dal momento che solo il canale del Mozambico, largo appena 400 km, lo separa dall’Africa est continentale. La grande isola, chiamata a volte «l’isola rossa» in riferimento alla laterite che colora le sue pianure, si estende per 1.580 km da nord a sud e 500 km da est a ovest con una larghezza massima di 575 km. È circondata dall’arcipelago delle Comore, delle Seychelles, dall’isola della Réunion così come dall’isola Maurice. Ci sono due stagioni: quella delle piogge (stagione calda), da novembre ad aprile, e la stagione secca (stagione fresca), da maggio a ottobre. Il suo lungo sviluppo geologico e la sua insularità hanno consentito al Madagascar di sviluppare una biodiversità eccezionale, caratterizzata da record di endemicità stimati all’80% per la fauna e al 90% per la flora. I lemuridi sono tra i simboli della grande isola. Oggi se ne contano 102 specie, ma se ne scoprono di nuove ogni anno. Riguardo alla flora, diverse varietà di baobab crescono solo in Madagascar. Senza essere esaustivi, 166 specie di palme, la stragrande maggioranza delle quali al «100% malgasce», innumerevoli 20 La polizia di frontiera (Border Patrol) pattuglia il confine. © Jesús Iñiguez / CultureStrike La popolazione malgascia (circa 25 milioni di abitanti) è rurale per più del 75% della popolazione: una grande maggioranza vive di agricoltura di sussistenza. Circa il 64% della popolazione ha meno di 25 anni, di cui circa la metà (47%) ha meno di 15 anni. La popolazione malgascia è, dunque, una popolazione molto giovane; il che è una caratteristica dei paesi in via di sviluppo. In Madagascar si contano 18 tribù tradizionali: la diversità non è di tipo etnico ma piuttosto di ordine geografico, politico o economico. Le due lingue ufficiali del paese sono il francese e il malgascio. È impossibile evocare il Madagascar senza parlare del riso e dello zebù. Con questa graminacea, che rappresenta il loro nutrimento di base, i malgasci hanno un rapporto che va ben oltre la semplice alimentazione e ogni fase della sua coltivazione è occasione di riti e feste. Lo zebù, al di là della carne che fornisce, è venerato e molto spesso viene associato a riti tribali e sacrificali. Molto più di un semplice capitale, lo zebù è il simbolo di tutti i valori. Il colore del suo manto esprime le circostanze gioiose o dolorose della vita. Il bucranio (cranio e corna) orna le tombe, e il loro numero è in proporzione alla potenza del defunto. le nel 2013, ambisce a diventare «una nazione moderna e prospera». La grande isola vuole diventare un punto di riferimento mondiale in materia di valorizzazione e salvaguardia del suo immenso capitale naturale, basandosi su una crescita forte e inclusiva a servizio dello sviluppo equo e durevole di tutti i suoi territori. Il Madagascar, grande 60 milioni di ettari, 30 dei quali adatti all’agricoltura, dispone di 18 milioni di ettari inutilizzati e disponibili per lo sviluppo. L’isola dispone di abbondante manodopera, con una popolazione rurale di circa 15 milioni di persone, ma anche di un ventaglio completo di ecosistemi così come di abbondanti risorse idriche come 2.000 km di fiumi per approvvigionare l’energia e l’irrigazione. Il Madagascar è, inoltre, il primo produttore mondiale di vaniglia. c a rt e d’a fr ic a orchidee (tra cui la rarissima Eulophiella dell’isola Sainte-Marie), cactus ed euforbie, costituiscono la grande vegetazione del sud e compongono sontuosi paesaggi. Ricco di una natura a 5 stelle, il Madagascar si sta rivelando molto attrattivo sul mercato dell’ecoturismo, con 4 riserve naturali, diversi parchi nazionali, 5.000 km di spiagge, isole paradisiache e 3 siti inscritti nel patrimonio mondiale. Il Madagascar è anche conosciuto per la ricchezza del suo sottosuolo, che ha consentito lo sviluppo di filiere di piccole miniere (artigianali) e di grandi miniere. Oltre alle risorse di energia rinnovabile, in Madagascar viene stimato un potenziale di 7.800 MW di energia idroelettrica. Candide Horace Il Madagascar ha ottenuto l’indipendenza nel 1960 dopo 64 anni di colonizzazione francese. Indebolito da 4 crisi politiche, la prima delle quali nel 2008, il Madagascar, tornato all’ordine costituziona- medico malgascio, presidente dell’Associazione “Etica ed Economia” del Madagascar 21 Yahaira fotografa la recinzione che segnala il confine a El Paso, Texas. © Jesús Iñiguez / CultureStrike b r a sile Il Brasile e il colpo di Stato senza carri armati Una pagina già inscritta da tempo In fin dei conti quanto sta accadendo oggi in Brasile è una pagina già inscritta da tempo nella storia di questa terra sconfinata e paradossale, come per un destino ineluttabile dal quale periodicamente non si può sfuggire. Il Brasile, dal giorno dell’insediamento alla presidenza della repubblica di Luiz Inácio Lula da Silva il 1° gennaio 2003, ha attraversato una delle fasi più felici e promettenti della sua storia, pur evidenziando le contraddizioni e i vizi di sempre. Il Paese è cresciuto e quindi possiamo credere che sia contestualmente cresciuto anche il suo popolo. Nel mio ultimo viaggio del giugno 2015, il primo dopo sei anni e mezzo di assenza, ho scrutato nei dettagli ogni possibile evidenza, cercando affettuosamente anche ogni segnale di cambiamento. Numerosi sono stati i dati che mi hanno confortato: un miglioramento visibile delle condizioni socio-economiche generali, un contenimento provvidenziale di tutte le forme di insicurezza collettiva, che invece nel passato spaventavano lo straniero ancora prima che vi mettesse piede, e infine un quadro complessivo di fiducia nel futuro, associato alla vocazione di Paese giovane e dinamico. Certamente restavano inalterate le debolezze caratteriali di un popolo che manifestava i difetti della propria natura, a partire dall’incapacità di uscire da un senso, dichiarato a sé stesso, di provvisorietà eterna e di precariato, senza progetti forti e duraturi. Tuttavia il vero anello debole della società brasiliana restava il sistema politico, che era diventato finalmente sì democratico dopo i lunghi anni della dittatura militare, ma che aveva conservato, dentro una certa farraginosità nel funzionamento delle istituzioni, due gravissime patologie strutturali: la subalternità ai grandi interessi economici e una corruzione endemica e capillare. E sono state proprio queste due patologie mai sanate ad affossare il lungo governo della sinistra di Lula e di Dilma Rousseff. 22 Una sinistra con il governo e senza il potere Il confine a El Paso, Texas. © Jesús Iñiguez / CultureStrike Di fatto la sinistra, che ha consentito ad alcune decine di milioni di brasiliani di uscire dalla miseria, in questo favorita anche da una congiuntura economica favorevole, e che ha elaborato interessanti progetti sociali, non ha potuto e forse nemmeno voluto scalfire i poteri forti del Brasile: un sistema industriale, concentrato prevalentemente nello Stato di San Paolo e ultraprotetto da privilegi quasi di casta, un latifondo pressoché padrone incontrastato in molte aree rurali e nemico dichiarato di qualsiasi riforma agraria, un sistema politico privo di forme efficaci di garanzia e di controllo, una rete infrastrutturale arretrata e difficilissima da modernizzare, una distribuzione ancora carente e inefficiente di un’energia proveniente da fonti pressoché illimitate (petrolio, acqua, miniere), ma gestite cattolica ha prodotto questa stortura pericolosa e apparentemente irrefrenabile, quasi cancerosa. La destra religiosa occupa spazi, apre centri di preghiera e di indottrinamento, diffonde massicciamente un sistema radiotelevisivo organizzato quasi militarmente. Insomma, essa apre varchi ovunque, dilagando nelle coscienze della gente semplice e soprattutto facendo il gioco dei padroni di sempre. I giorni e i protagonisti della caduta In questa crisi la sinistra è caduta rovinosamente dentro le proprie contraddizioni, si è lasciata corrompere proprio dal sistema che aveva combattuto lungamente e adesso è affonnosamente in difesa di sé stessa. Il popolo l’ha lasciata e si sta consegnando nelle mani di chi lo aveva sempre sfruttato e manipolato. L’analisi di Leonardo Boff, ripresa generosamente dal progressista “Jornal do Brasil”, rivela impietosamente il dramma politico-sociale presente e oggi la sinistra si riscopre afasica e senza strategie. Non a caso sta tentando la carta, dopo la destituzione di Dilma, di elezioni anticipate, a seguito di una disperata modifica costituzionale, con un voto nel prossimo ottobre e con la ricandidatura di Lula. La destra sta pensando di arricchire questa modifica con il divieto alla rielezione degli ex-presidenti, affossando in questo modo anche l’ormai stanco Lula, addirittura umiliato da un oscuro giudice paulista, Sérgio Moro, e tradotto obbligatoriamente in un commissariato della polizia federale per rispondere di presunti abusi finanziari di suoi familiari. D’altro canto la candidatura di Lula è il segno di una disperazione elettorale di una sinistra che sta affogando in un sistema politico, che sta a sua volta affogando e che corre il rischio concreto di restare senza la prima, la seconda e la terza carica della Repubblica Federativa. Come è facile comprendere, in altri tempi un colpo di Stato militare avrebbe rapidamente risolto ogni instabilità, con tanto di carri armati per le strade, mentre oggi il sistema neoliberale si è affinato e non ha bisogno di “putsch” cruenti. Può tranquillamente organizzare e mettere in atto colpi di Stato senza carri armati. È ormai tutta l’America Latina a essere attraversata da questo vento di rivincita delle “destre eterne”. Alla fine il PT è caduto nello sprofondamento tra le spire della corruzione, che ha portato in carcere, anche attraverso giudici locali non sempre obiettivi, una pletora di ex-governatori, exparlamentari ed ex-sindaci. Il discredito della sinistra di governo è stato associato a un uso sapiente, da parte delle destra eterna, dei mezzi di comunicazione sociale, che hanno ricominciato a soffiare su un fuoco che aveva già cominciato ad ardere da sé, acceso dalla fine lenta di un pur felice sistema di governo. Dilma Rousseff è naufragata apparentemente nel nulla. Di fatto è stata sottoposta a una sospensione con relativo processo parlamentare sulla base di accuse generiche e confuse. È accusata di avere occultato deliberatamente i dati economici che cominciavano a mostrare una crisi latente e soprattutto di avere falsificato il bilancio pubblico. In realtà non ci sono prove contabili o comunque documentali di queste accuse, ma queste ultime sono bastate per inscenare un triste e teatrale processo di messa in stato d’accusa, culminato con una memorabile e teatrale seduta della Camera dei Deputati, che ha compiuto il primo passo per la sospensione della Presidente, lasciando la decisione definitiva al Senato Federale, che è riuscito nell’intento di giustiziarla politicamente. La regia di questa operazione ha due nomi noti a tutti: il vicepresidente Michel Temer e il presidente della Camera dei Deputati Eduardo Cunha. Il primo è un discusso avvocato paulista con una lunga serie di procedimenti penali a proprio carico, leader del Partido do Movimento Democrático Brasileiro (il PMDB), alleato centrista del PT e classico partito “ago della bilancia”, con tutti i vizi e nessuna virtù di chi è ago di una bilancia politica tanto delicata. Temer è un arrivista e un corrotto, ma è di fatto nelle mani del secondo, Cunha, esponente carioca (di Rio de Janeiro) della destra religiosa brasiliana e vero tirafili dell’operazione, anche se a sua volta invischiato in una valanga di inchieste penali. Sul ruolo delle libere Chiese evangeliche andrebbe aperta una lunga parentesi. Basti solo dire che esse rappresentano il vero braccio armato, quello che invade le coscienze popolari, a disposizione dei poteri forti di cui sopra. Non a caso queste Chiese sono al momento il soggetto più scatenato e sulla prima linea di una battaglia che intende penetrare capillarmente le aree più facilmente condizionabili del Paese. Di esse abbiamo già detto in passato, ma oggi possiamo constatare amaramente che il loro ruolo è determinante per il lavoro sporco in atto. La doppia tragedia dell’invasione religiosa dell’America Latina da parte delle Chiese nordamericane e dell’indebolimento negli ultimi decenni dei settori più avanzati socialmente della Chiesa br a sile disordinatamente. Alla fine, approfittando del logoramento inevitabile del governo del Partido dos Trabalhadores, il PT, e dei suoi due presidenti con tutto l’apparato di governatori e di sindaci “petisti”, la destra brasiliana ha compiuto un’operazione quasi perfetta di riappropriazione sul sistema politico e di governo. Va detto, per onestà intellettuale, che per questa destra eterna il potere non era mai stato perso in un Paese che, più degli altri, può affidare transitoriamente il governo a forze svariate, ma non affida mai il potere a soggetti diversi da coloro i quali purtroppo lo detengono da qualche secolo. La fine della sinistra e i colpi di Stato senza carri armati Un insegnamento radicale Da tutto ciò traggo un insegnamento radicale, che mi comunica alcune verità profonde: il neoliberalismo è un sistema di morte, la democrazia rappresentativa ha subìto un attacco sanguinoso da parte di questo capitalismo innamorato della morte e soprattutto la tanto agognata rivoluzione ha bisogno di nuovi processi, che non sono più quelli delle lotte di liberazione romantiche di un tempo e dei loro linguaggi stantii, ma di un’educazione politica collettiva e di partiti politici che, dopo avere elaborato progetti di sviluppo, li attuino in profondità e non si nascondano dietro una pur lodevole e semplice iniziativa sociale. Tutto ciò non è più sufficiente e il sistema delle destre eterne va sconfitto sul serio. Egidio Cardini 23 ec o n o m ia | po li ti c a 24 Bail in Negli ultimi mesi si sono impiegati fiumi di inchiostro e di parole Innanzitutto in economia vale il principio che non c’è alcun per discutere di una serie di normative denominate bail in. Quepranzo gratis. Questo vuol dire che se una banca fallisce le ipotesi sono due: o paga la collettività o paga chi ha investito nella banca. ste normative riguardano ciò che accade in caso di fallimento di una banca. Il populismo ha fatto da padrone nel dibattito e si è La prima ipotesi genera giustamente scandalo (la classica frase «lo scatenato un po’ di panico tra i piccoli risparmiatori, con la pauStato salva solo le banche» ne è un esempio). Quindi è giusto che ra, totalmente immotivata, di veder evaporare i propri risparmi i soldi li perda chi ci ha investito, e cioè azionisti e obbligazionisti. depositati in un conto bancario. Se i soldi non dovessero bastare è giusto che tocchi ai correntisti? Bail in significa, innanzitutto, salvataggio interno. Vediamo di Certo i correntisti non hanno investito nella banca, ma sceglienche si tratta, del perché è stata giustamente introdotta tale nordo quella specifica banca rispetto a un’altra hanno fatto un atto mativa. di fiducia in quella istituzione. Ora, se è moralmente sbagliato Per capire tutta questa normativa occorre fare un passo indieprendersela con i correntisti piccoli, si è deciso di far intervenire i tro di qualche anno, ritornando ai giorni precedenti l’avvento dei correntisti con più di 100.000 euro depositati. Ricordiamo che la governi tecnici. In quei giorni la fiducia nei titoli di Stato italiani media di deposito nei conti correnti è intorno ai 10-15mila euro. Sono quindi pochi, non rappresentano certo i piccoli risparmiatori era a livelli infimi e, di conseguenza, il loro valore era crollato. Le e gli allarmismi sono ingiustificati. banche italiane detenevano una enorme quantità di questi titoli, In secondo luogo, diversamente da quanto si è letto su qualche il cui crollo ha minato la fiducia nella solidità delle banche stesse. giornale, le persone che avevano investito in obbligazioni di una Come conseguenza si diffondeva la sensazione che, per salvare le banche, lo Stato sarebbe dovuto intervenire spendendo miliardi di banca che si sono poi rivelate carta straccia hanno fatto un preciso denaro pubblico, pensiero che faceva precipitare ulteriormente la investimento. In quanto tale ognuno è responsabile delle proprie fiducia nei titoli di Stato italiani. Di fatto si temeva che lo Stato scelte di investimento. Chiaramente se si è trattato di una truffa dovesse finanziare, con soldi di tutti, il salvataggio delle banche. deve essere perseguita, ma rimane il principio base che investendo i soldi in qualsiasi cosa che comporti il non metterli sotto il Le norme sul bail in vogliono evitare che ciò accada. materasso, implica una precisa presa di responsabilità circa i rischi. In breve, se una banca fallisce, a pagare non devono essere tutti i contribuenti, ma gli azionisti e gli obbligazionisti della banca. Se l’investimento va storto, l’unico responsabile è l’investitore stesQuesto è ciò che avviene (dovrebbe avvenire) normalmente per le so. E non è possibile, come è stato a tratti ipotizzato, domandare imprese. Questo si è pensato debba avvenire anche per le banche l’intervento dello Stato per salvare questi pur piccoli investitori. perché, essendo le banche uno dei cardini del sistema economico, La terza riflessione è conseguente. L’Italia è un paese che vede se così non fosse esse rischierebbero di mettere in crisi la stabilità le famiglie normali essere tra le più ricche d’Europa in termini patrimoniali. Questo per un mix di fattori: alti tassi di risparmio, degli Stati stessi, come si è visto. alta percentuale di famiglie proprietarie di casa, bassa natalità e C’è però una piccola parte della norma sul bail in e un episodio quindi maggiore concentrazione delle eredità. Eppure, a fronte di cronaca che hanno preoccupato molti risparmiatori. Innanzidi questa ricchezza, abbiamo un tasso di educazione finanziatutto, nel caso in cui i detentori di azioni e obbligazioni non riuscissero a coprire l’ammontare ria bassissimo e quindi totale dei debiti, saranno chiamati a incapacità di gestire questo concorrere tutti i correntisti per risparmio. Perché non inseriquanto eccede 100.000 euro di re dei corsi di alfabetizzazione deposito. In secondo luogo si finanziaria nelle scuole? Non è avuto il caso di banche che, è il diavolo, si tratta di insein maniera non proprio limgnare le basi degli strumenti pida, hanno convinto i propri che ogni famiglia si trova di risparmiatori a sottoscrivere fronte quando deve accendere un mutuo e investire i propri obbligazioni a rischio i quali poi, quando la banca è entrata risparmi, e rinforzerebbe anche in crisi, hanno visto sfumare i il concetto basilare che i primi propri investimenti. Questi due responsabili dei risparmi sono episodi hanno reso possibile la i risparmiatori stessi. diffusione di un senso di insicurezza circa i propri risparmi. Fabrizio Panebianco Occorre, a questo proposito, ricercatore di economia politica, fare qualche riflessione. Yahaira davanti a un altro tratto di frontiera. © Jesús Iñiguez / CultureStrike École d’économie de Paris Francesco Monini Il baritono Mariano e il tempo degli incontri dia r io m i n i m o di Copparo è un paese piccolo, ma non minuscolo, tra Ferrara e il Po. Sistemo lo zaino nell’armadietto, mi svesto e mi infilo il pigiama, tasto il materasso del letto e mi guardo intorno. La camera è grande, due letti e poco altro; sarebbe grande anche per i quattro letti previsti, con le relative postazioni: luci, pulsantiera, campanello, comodino, sedia color verdino ospedale e tavolinetto regolabile per mangiare a letto. C’è tutto quello che ci deve essere, tutto pulito ma un po’ raccogliticcio, come tirato fuori da un qualche magazzino, verniciato e rimesso in servizio. Tre settimane prima mi hanno operato all’anca sinistra nel mastodontico e lussuoso alveare del San Raffaele di Milano. Guardavo fuori dalla finestra e vedevo in alto l’arcangelo, quello che secondo il visionario Don Verzé, poi fallito miseramente, avrebbe dovuto proteggere i 4.500 pazienti dell’ospedale e, soprattutto, assicurare santi e lauti guadagni agli amici di Comunione e Liberazione e della Compagnia delle Opere. Dietro l’arcangelo Raffaele spunta il bosco ordinato dei palazzotti di Milano Due. Proprio da lì, circa quarant’anni fa, è spuntato il sole abbagliante di Berlusconi. Sembrava un nuovo Luigi XIV. Oggi anche il suo sole è tramontato. ••• Alle sette e mezza apre il bar al piano terra (domenica chiuso) e alle sette e venti c’è già la fila. Il primo della fila è sempre Mimmo, una lunga criniera di capelli neri e ben “gelati”, agilissimo sulla carrozzina. Per la terapia in palestra c’è ancora tempo. Con Mimmo, Bruno, Doriana e Antonio usciamo a fumare nel grande piazzale. Io con le stampelle e loro tutti in carrozzina, tutti del quarto piano. Vengono dal sud e dal centro Italia, le risate e gli accenti si intrecciano. Ognuno starà al San Raffaele dalle quattro alle cinque settimane. «Ogni anno ci chiamano per il tagliando» - dice Bruno. Ha quarant’anni, è di Pisa, scorbutico, le parole aspirate e la lingua che taglia. Ha sempre fatto il barista ma adesso ha dovuto dar via il bar: «La sclerosi multipla non ti perdona, ogni anno si scende un gradino, o tre, o cinque gradini in una volta». Uno dei varchi alla frontiera tra Usa e Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike 25 di a r io minimo 26 Al piano terra c’è una grande sala con tavoli, poltrone, addirittura un pianoforte a coda. Il “gruppo della Multipla”, tra loro si chiamano così, mi invita a una pizzata: per salutare Doriana che se ne torna a casa. «Ma io sono del secondo piano», preciso. «Vieni, faremo un’eccezione», risponde Mimmo. ••• Dicono che gli ospedali siano tutti uguali. Gli stessi colori tenui e riposanti. Lo stesso odore di disinfettante. Lo stesso rancio ospedaliero. Ma il salto dal San Raffaele all’ospedalino di Copparo - l’avevano chiuso alcuni anni fa, per poi riaprirlo con il nome benaugurante di Casa della salute - mi fa lo stesso effetto di un vuoto d’aria. Nell’angolo opposto della stanza, sembra lontanissimo, c’è il letto di Mariano. Per prima cosa mi presento al mio compagno. Ma Mariano parla una lingua incomprensibile, non è nemmeno un dialetto, solo mezze parole, suoni tronchi e rauchi, o sdruccioli, come di foglie secche mosse dal vento. Quando è arrabbiato (Mariano è spesso di malumore) emette borbottii tellurici, ruggiti sommessi. Di notte cambia tonalità, adesso dal suo letto arriva un lamento flebile e continuo, senza un preciso recapito. Mariano ha 65 anni. Non è grasso, è grosso, come il tronco di una grande quercia. I capelli radi a ciuffi grigi, una bella faccia da contadino o da centurione in pensione. La gamba destra è tutta fasciata fin quasi all’inguine, dalla fasciatura spunta il rosso ruggine del mercurocromo. Quando le infermiere gli medicano le piaghe lui sta zitto, le infermiere scherzano e lui zitto, un brutto odore impregna tutta la stanza. L’altra gamba non c’è più, tagliata appena sotto il ginocchio, la cicatrice sembra la linea del fronte, la coscia è un prosciutto rosa. Mariano sei sposato? Mi fa segno di no. Hai dei figli? No. Ti porto un caffe? Ancora no. Con le stampelle mi avvicino al suo letto. Sembra sempre incazzato Mariano, o quasi sempre. Hai bisogno di qualcosa? Mi guarda fisso e afferra con le mani - ha due mani enormi, forti, bellissime - le sbarre del letto. Le scuote. Lui vuole uscire da quella gabbia. Tiro giù le sbarre, accorre un’infermiera, mi sgrida, aziona la manovella e rimette a posto le sbarre. Ora Mariano fa finta di dormire. ••• Armato di stampelle mi dirigo verso la sala della televisione (qui almeno è gratis, mentre al San Raffaele costava 3 euro al giorno); ci sono anche le macchinette con l’acqua minerale, le merendine, il caffè. Mi fermo un tempo infinito (anche qui come al San Raffaele il tempo non passa mai e il problema quotidiano è farlo passare in qualche modo) ad esaminare una grande pianta grassa a me sconosciuta. È talmente verde, talmente lucida che sembra finta. Toccare per credere: è proprio vera e almeno lei in ospedale sembra starci benissimo. C’è anche un piccolo scaffale di libri (la mia malattia). Vedo due tremendi best seller americani, alcuni gialli e tanti Harmony. Serie verde, serie rosa e serie bianca: gli Harmony serie bianca sono tutti ambientati in ospedale, la storia è sempre quella: un dottorino maschio si innamora di una o più infermiere femmine. Alla tivù c’è Forum (ho scoperto che Forum è come il telegiornale, c’è sempre, a tutte le ore) ma nessuno lo guarda, né i pazienti né i parenti in visita. Scopro di essere il più giovane dei ricoverati, il ragazzino in mezzo a signore e signori che viaggiano verso la quarta età. ••• Ivana ha 86 anni, gira in carrozzina, ma ancora qualche passo lo fa da sola, le piace attaccar discorso. Ha gli occhi di un azzurro intenso, vivaci, birichini. Chissà da giovane, penso. È arrivata da un mese ma non fa nessuna cura. Solo che a casa non c’è nessuno: sua figlia è ricoverata in una clinica per una forte depressione, e allora l’hanno portata qui, posteggiata nell’ospedalino di Copparo. Mi dice che qui dentro si mangia bene. Personalmente, bene mi pare un avverbio eccessivo, ma il purè non è male, e nemmeno gli yogurt alla frutta. Tutti i giorni le offro un latte macchiato alla macchinetta. Lei mi ringrazia e mi interroga: «Come mi chiamo io?». Rispondo pronto: «Ti chiami Ivana. E tua figlia Morena. E il tuo gatto Trudy». «Bravo, ma lo sai che hai una bella memoria!». Io ribatto: «Adesso però tocca a te, come mi chiamo io? E come si chiamano le mie due gatte?». Ivana va in crisi, mi guarda, punta l’indice sulle labbra. Scuote la testa. «Dai Ivana, è facile… mi chiamo come il papa». Niente ancora, non riesce a ricordare. Allora l’aiuto: Fran-ce… Ecco, finalmente le è tornato in mente: Francesco, dice trionfante. Ivana sembra una scolara: «Sono stata brava? Allora me lo devi dare…». Tutti i giorni le dò un bacino sulla guancia. No, non è gelosa delle amiche e fidanzate che mi vengono a trovare. Lì dentro, è lei la mia fidanzata. ••• Mariano, Bruno, Mimmo, Ivana. Già, ci sarebbe anche Cinzia. E potrei continuare. In ospedale il tempo si ferma. Se smetti di considerarla una “perdita di tempo”, incomincia “il tempo degli incontri”. Una volta succedeva anche in treno, quando ti impegnavi in un viaggio lungo tutta la penisola e passavi dodici o quindici ore in mezzo all’odore di sconosciuti. Ora non più, Italo e Frecce rosse competono con gli aerei, compresa la vocina fuoricampo in inglese. Gli altri treni non contano (come del resto i poveri pendolari), non rendono e scompaiono a uno a uno dal tabellone. Non mi piace più andare in treno. Conta solo l’orario di partenza e di destinazione, non tutto quello che c’è in mezzo. Mentre ero in ospedale, la storia, come si usa dire, è andata avanti. In Italia, in Europa, nel mondo è successo di tutto. La scandalosa “marchetta” dell’Europa alla Turchia per riprendersi i rifugiati, un ministro italiano che si dimette per lo scandalo petroli, le bombe e i morti di Bruxelles, la presidente brasiliana Dilma Rosseff a un passo dall’impeachment, il referendum sulle trivelle con un ex presidente della Repubblica che (inaudito) invita a non votare. Ma questo diario è dedicato al niente che nel frattempo accadeva ogni giorno in ospedale, a tutti gli incontri, a tutte le amiche e gli amici che probabilmente non rivedrò più. Dimenticavo. Alla fine con Mariano ho trovato la strada. Un colpo di fortuna. Cantavo un motivetto degli anni Sessanta. Dal suo letto Mariano ha completato la strofa. Lui le canzonette le sa veramente tutte, parola per parola: Celentano, Mina, Sergio Endrigo, Gino Paoli, Jimmy Fontana, perfino Riccardo Del Turco (chi era costui?). E tutte le mattine, finita la colazione, io e Mariano ci facevamo una mezz’ora di cantata. Io tenore, lui baritono. Si fa per dire. Francesco Monini lettore, scrittore e giornalista, Macondo e dintorni Cronaca dalla sede nazionale locale. Formazione e cooperazione internazionale”. La crisi sociale ed economica richiede un intervento che ha due aspetti: il primo è la sensibilità verso i paesi che vivono uno stato endemico di povertà; il secondo elemento è la preparazione ad affrontare le cause, in un società globale in cambiamento. E questo è l’argomento che affronta il sociologo Dimitri Argiropoulos. Giuseppe Stoppiglia rammenta la sua esperienza pluriennale nei vari paesi dell’Africa e dell’America Latina e il senso di rispetto e prudenza che l’Occidente dovrebbe tenere quando mette piede in quelle terre. Gli studenti, che nei mesi precedenti si sono preparati al tema attraverso un percorso di ricerca, propongono alcune riflessioni e pongono domande sul metodo, sui valori e sul senso del nostro intervento nei paesi in via di sviluppo. Il confine dalla parte del Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike Coordina i lavori il giornalista Antonello Riccelli che sa insieme richiamare il tema e mantenere alta l’attenzione. ••• 17 febbraio 2016 - Padova. Cecilia Alfier si è laureata con pieni voti (triennale) in Lettere Moderne all’università di Padova, a Palazzo Maldura, con la tesi Storia degli scacchi. La tesi è stata inserita nella nuova bibliografia degli scacchi dello storico Alessandro Sanvito. La tesi scrive della ostilità della Chiesa per il gioco, soprattutto nel Medioevo, e racconta storie di passione e omicidi legate al gioco stesso. La discussione è durata venti minuti, il tempo necessario per dare scacco e offrire la rivincita. ••• 18 febbraio 2016 - Zané (Vi). Beniamino Carollo, padre di Piergiorgio, se ne è andato piano, in punta di piedi, lasciando al figlio il testimone di una laboriosità onesta, intelligente, senza mai perdere contatto con la società e con la vita del proprio paese, dove arrivava ogni giorno accompagnato dal figlio per degustare un caffè e scambiare quattro parole sulle nuvole e il sole e il tempo, degli uomini e delle stagioni. ••• 25 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi), sala consiliare. Per l’autore è bello e insieme rischioso presentare il proprio libro in paese. Ma la cosa è andata bene. Michela ha condotto la serata con grazia e tatto. La signora Elena ha letto la presentazione n oti zi e 2 febbraio 2016 - Bassano del Grappa (Vi). Piove, sul gruppo delle Melette nevica e sotto un ombrello di attese e di tenerezze apre gli occhi sul mondo Giacomo, figlio di Erica Bertoncello, assessore ai servizi sociali e alla persona. Il piccolo si guarda attorno, non dice parole e lancia un grido di vittoria mentre taglia il traguardo. ••• 6 febbraio 2016 - Cremona. È nata Giorgia Maddalena sotto un cielo di nuvole e di pioggia. Mamma Chiara la porta al seno, il padre Stefano le guarda mentre già discutono tra loro e ripete i nomi della piccola, come un mantra. Poi arrivano i nonni tra baci, lacrime e sorrisi, mentre Giorgia ripete a Maddalena voci e parole che hanno un timbro primaverile, come di voci all’aperto. ••• 10 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi). Comitato della festa. Lentamente si prende visione del tema, già si pensa al luogo, ancora indefinito, ai nomi. Si stabiliscono le mansioni e i ruoli di massima per i membri del comitato. Ci siamo tutti, gli assenti sono giustificati. Si stappa una bottiglia, compare sulla tavola un dolce, che non va a ruba. ••• 12 febbraio 2016 - Livorno. Scuola Niccolini Palli. Introduce Antonio Cerqua, responsabile dell’ISCOS che enuncia il tema: “Dialogo sociale, lavoro dignitoso e partecipazione cittadina per lo sviluppo 27 not izie 28 austera del promotore Baldassare, che era rimasto a casa per lutto. Paola ha fatto gli onori di casa. La serata poi ha preso piede con la lettura di alcuni brani del libro, letti con passione e professionalità dal signor Vittorio, accompagnati al piano dalle ragazze Ilaria e Francesca. Prima di dare la parola all’autore, Gaetano ha offerto una breve illustrazione del tema Oltre lo smarrimento dei tempi: il bisogno di sentirsi accolti. Giuseppe ha concluso sottolineando alcune punti salienti del libro: l’individualismo, lo smarrimento del popolo italiano, la pigrizia della Chiesa, la speranza di un risveglio propositivo. ••• 27 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi). Nel lasco di pochi giorni Cecilia se ne è andata. Giorni frenetici, come quando cerchi la porta di sicurezza ed è buio pesto attorno e chi interpelli abbassa le mani come a resa, in cerca di riparo ad una vita che fugge. Poi il funerale, quando la gente si stringe attorno quasi a fare muro, perché non passi l’angelo sterminatore. Ma la morte non viene da fuori, appare e scompare e lascia un vuoto, dove il cuore brancica. La chiesa al completo, molte persone sul sagrato della chiesa per l’ultimo saluto. gli amici e le amiche, colleghe di lavoro e colleghi ricordano il suo volto. La sorella Chiara ha letto due parole di saluto, una preghiera per Cecilia, che parte in coda all’inverno, prima che canti la primavera. ••• 28 febbraio 2016 - Pove del Grappa (Vi). Il clan degli scout di Scorzé è ospite nella sede di Macondo. È una domenica di pioggia e vento. Dopo la messa gli scout hanno fatto cerchio attorno alla loro guida, raccolto parole sul senso del viaggio poi sono partiti sotto la pioggia verso la stazione dei treni. La sera prima, Gaetano e Giuseppe si erano fermati a conversare con i giovani per raccontare la loro esperienza di fede. Ascoltavano in silenzio, proponevano domande. Poi si sono organizzati una cena frugale, consumata assieme. ••• 3 marzo 2016 - Vicenza, Chiesa di Santa Chiara. Messa di anniversario per Maria Rosa. Nel ricordo di Rosa è difficile parlare di morte. La ricordo legata fino all’ultimo alla vita, che era ed è per lei relazione con le persone amate. Maria amava la vita, per questo vive ancora tra di noi. Non ci ha lasciato. Nella piccola chiesetta delle suore, che accolgono donne in cerca di rifugio e accoglienza, c’erano la figlia Barbara con le due bimbe che scorrazzavano per la chiesa senza fare rumore e il marito, poi c’era Riccardo, il marito di Rosa, padre di Barbara e poi i genitori di Maria Rosa. Il celebrante nella omelia l’ha ricordata, come di una presenza che ci accompagna e che, con la sua benedizione, traccia il nostro cammino. ••• 5 marzo 2016 - Prepezzano di Giffoni Sei Casali (Salerno), Casa della Spiritualità don Tonino Bello. Arriviamo a Napoli (la sera prima) con un ritardo di un’ora. Ci aspetta Mimmo, che ha già raccolto Riccardo Petrella e ci porta a Salerno, dove trasbordiamo sulla macchina di Angelo, che ci conduce a casa sua dove ci L’attività della Border Patrol statunitense vista dal Messico. © Jesús Iñiguez / CultureStrike attendono la moglie Simona e la piccola Aurora. Al mattino di sabato arriviamo nella Casa di Spiritualità; apre l’incontro la signora Lella con la lettura di alcuni brani dell’ultima enciclica di papa Francesco. Poi Giuseppe parla della bellezza e della salvezza che non è luogo, ma nuova dimensione della relazione. Dopo l’incontro di gruppo, Gaetano propone una lettura dei primi capitoli della Genesi. La creazione, il rapporto dell’uomo con le cose e con sé stesso, il senso del limite e la fragilità. Segue ultimo Riccardo che riprendendo le parole di Giuseppe dice che la vita è festa, ma i potenti ci hanno rubato la festa. L’uomo appartiene alla vita, non è padrone della vita. Per questo è responsabile della vita; e non è padrone dell’acqua, ma appartiene all’acqua, come la vita che nasce dall’acqua, origine di ogni specie vivente . Le giornate sono punteggiate di momenti di riflessione assieme e di preghiera comune. Il pranzo della domenica chiude le attività. ••• 7 marzo 2016 - Sandringham (Victoria, Australia). Nasce Daniel, figlio di Marina e di Kfir (Amos è il primogenito), nipote di Piero Tarusello, partito con la moglie Lorena per raggiungere la figlia Marina in Australia. Dorme di notte, qualche volte canta per richiamare mamma all’ora dei pasti, poi s’addormenta e sogna la cicogna e si chiede da che parte della finestra sia entrata, la cicogna con le ali larghe e il becco lungo. E ride. ••• 11 marzo 2016 - Pove del Grappa (Vi). Lezione in terza media. Attenti, gli occhi svegli, emozionati sui racconti, sulle immagini. Ho raccontato loro del Burkina Faso, di Damien, che progetta una radio per i giovani, di Ana a Rio de Janeiro che scrive alla mamma che non vede da anni. E la storia di Macondo e dei Buendia. Mi guardano mentre esco dall’aula, mi giro e sono già in volo, i ragazzi e le ragazze, in cerca di Ana e di Damien. ••• 16 marzo 2016 - Milano. In casa di Benito e di Valeria incontriamo il cardinal Francesco Coccopalmerio, accompagnato da don Giuseppe Bettoni. Un uomo semplice, con incarichi importanti. Pensa alla condizione di chi è caduto in disgrazia, impoverito. L’anno della misericordia lo trova al lavoro già da prima. Era vescovo ausiliare di Martini, il cardinale di Milano. Si interessa subito di noi, delle nostre avventure e del nostro quotidiano. ••• 19 marzo 2016 - Ferrara. Redazione di Madrugada. Si cambia sede: siamo allog- ve generazioni la guida del paese. Segue la lettura dell’assegnazione della cittadinanza comacchiese. Ai lati del perimetro si alzano i battimani, qualcuno soffia nel fazzoletto le emozioni ed esorcizza la nostalgia di quegli anni. ••• 26 marzo 2016 - Pove del Grappa (Vi). Oggi ho ricevuto da Milano la telefonata di Andrea, marito di Alessandra, con la comunicazione della nascita a fine anno 2015 di Gregorio Zeno, due nomi, carichi di memorie altisonanti, e pure legate a personaggi allegri e ironici; i presagi sono buoni con Zeno Gregorio. ••• 27 marzo 2016 - Bassano del Grappa (Vi), Villa san Giuseppe. Messa di Pasqua nella cappella della Villa, molto raccolta. Gianna Miola legge una lirica religiosa. Abbiamo distribuito le locandine e i volantini della festa di maggio. All’omelia Gaetano legge e commenta un versetto del vangelo del giorno: «Ricordate cosa aveva detto Gesù?…» e propone tre riflessioni, poi tace e parla Giuseppe a braccio, e invita i presenti a parlare, i laici a dire parole di vita, perché è tempo di responsabilità. ••• 28 marzo 2016 - Pove del Grappa (Vi). È arrivata assieme ai genitori Debora Cian, che vive e lavora come cardiologa a Barcellona; poi Silvia Fontana, fisiatra. Una lunga conversazione tra presente e passato, ricordi di scoperte, naufragi, incontri, amicizie, paure e sfide, riprese. Momenti che vorresti trattenere e che la vita assorbe ed esalta. Poi quando si fa sera, Debora si avvia assieme a Silvia al cambio posta, donde poi prendere l’aereo di Barcellona. ••• 31 marzo 2016 - Peschiera del Garda (Vr). Sindacato pensionati. Incontro di formazione su Etica nel sindacato. Un clima effervescente ci accoglie, che non diresti alla nostra età. Voglia di riprendere la direzione. Non che si sia persa, ma se vuoi andare lontano si va assieme. Non basta predicare i valori e nemmeno basta starci dentro da soli, perché insieme si costruisce la casa comune e la strada larga dove camminano vecchi e bambini. Giuseppe prende la parola, rammenta e propone. Nel pomeriggio funerale di Milvana, mamma di Michele Kettmaier e Monica. Due parole di congedo alla fine della messa. Il parroco dice: entrate della tomba e vedete. E troverete la morte e la vita. Milvana sarà posta nella tomba di famiglia, accanto al marito Adriano, morto a quarant’anni. Nessuno conosce la morte. Ma quando muore uno dei nostri, allora per un momento, assieme al defunto, si esperimenta il grande passo. ••• 1 aprile 2016 - San Giovanni Lupatoto (Vr). Siamo partiti per incontrare Enzo Iacchetti e abbiamo assistito alla commedia semiseria: Matti da slegare. Con Enzo Iacchetti e Giobbe Covatta, Irene Serini e Gisella Szaniszlò. Vero, è l’ultimo spettacolo della stagione, ci sono degli attori simpatici e bravi, e per questo la sala è gremita. Ma devi aggiungere che il teatro è gestito dalla comunità, il paese lo sente suo. Se vuoi andare lontano, vai insieme; e il segretario dell’associazione ha elencato In ricordo di chi è morto tentando la traversata. © Jesús Iñiguez / CultureStrike not izie giati nella sede dell’Incico, presso i fratelli Monini. Si illustrano le tracce dei monografici: i muri, il lavoro, i rifugiati. La discussione sui vari temi del monografico è animata e intelligente. All’incontro partecipava anche Andrea Gandini, che stava di passaggio sulla soglia dell’Incico. Ha parlato dell’Europa e dei rifugiati, dell’Inghilterra e dei suoi interessi a restare in Europa. Poi abbiamo riaperto il discorso sulla comunicazione via internet con la proposta di creare un blog di deposito e comunicazione. Si chiude il giorno a cena ai Tre Scalini e ci raccoglie sotto le sue ali il direttore editoriale, signor Giuseppe Stoppiglia, proveniente da Bologna. ••• 20 marzo 2016 - Borgoricco (Pd). Fiera del Libro. Presentazione del libro di Giuseppe. Introduce la serata l’assessore alla cultura Massimo Morbiato. Segue Gaetano che traccia lo schema del libro; poi è la volta di Anna Maria Perchinunno che da una parte nota il pessimismo di alcune pagine e poi la speranza che riaffiora attraverso la voce degli ultimi. Enzo Siviero ricorda alcuni tratti del libro: il saper raccontare la verità, scoperta negli occhi del fratello e l’aver aggiunto all’elenco dei diritti/doveri, il sorriso e l’amicizia, la speranza. In sala c’è Sonia che ha sollecitato la presenza di amiche e colleghi di lavoro; Vanna e Daniele sono stati un aiuto importante per organizzare questa serata, che chiude anche la fiera del libro di Borgoricco. ••• 21 marzo 2016 - Comacchio offre la cittadinanza onoraria a don Giuseppe Stoppiglia per gli anni di lavoro in città (1965-1975). Introduce il sindaco Marco Fabbri. Segue Daniele Lugli. Poi Aniello Zamboni. Gianfranco Arveda è terzo. Chiude Gaetano. Provo a fare una sintesi di tutto, per sollevare il lettore e angustiare chi scrive: è un onore e una festa per il paese dice il sindaco. Daniele legge: sono stati anni intensi di visioni e proposte diverse; Aniello ricorda di quegli anni la grande crisi economica e sociale del paese, e la proposta fatta da alcuni preti di andare oltre la devozione tradizionale. Lo sviluppo di una parola per tutti, e per questo invisa ad alcuni, seguendo in ciò la linea umana, perché divina, del vangelo, sono le parole di Gianfranco per don Giuseppe. Chiude con un saluto riconoscente Gaetano. Poi ha preso la parola Giuseppe che aveva lasciato a casa gli appunti, e ha ricordato l’amore ricambiato per Comacchio, l’importanza delle istituzioni quando si mettono al servizio del bene comune e il progetto suo allora di consegnare alle nuo- 29 not izie 30 un lunga serie di presenze importanti e di spettacoli belli. E sono molte le iniziative che la sala comprende: cinema, teatro e cineforum. Per questo la sala si riempie, in festa. ••• 2 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi). Fine settimana ricco di visite. Dall’Umbria e dalla Romagna sono arrivati operai, sindacalisti, preti. Come in una coincidenza astrale fuori controllo. Che poi il motivo era un’amicizia comune, condita con gli asparagi bianchi, efficaci depuratori in tempo di contrasti interni, festevoli primizie a primavera, sorpresa per chi si accosta alla tavola dell’asparago per la prima volta. ••• 3 aprile 2016 - San Pietro in Casale (Bo). Lisa e Matteo di Macondo Suoni di Sogni hanno realizzato nelle scuole elementari un progetto dal titolo Sogni e bisogni in musica che ha coinvolto un centinaio di bambini: si è parlato di sogni, paure e desideri dei bambini di oggi, comparati a quelli delle favelas brasiliane, affrontando il tema della felicità e delle azioni quotidiane. Allo scopo hanno sviluppato il tema dell’aliment-azione, elencando ciò che ingeriamo quotidianamente (cibo, azioni, parole, persone, web, pubblicità, ecc.), sottolineando che siamo e diventiamo quello che mangiamo. Hanno condotto la classe durante alcune meditazioni accompagnate dalla musica e creato con le riflessioni una canzone sulle note di Canta amigo canta. Il progetto si concluderà con un saggio la serata del 20 maggio presso il teatro comunale di San Pietro in Casale. ••• 8 aprile 2016 - Revine Lago (Tv). Presso il ristorante Ai Cadelach si riunisce il Direttivo allargato del sindacato Tessili Cisl, composto da più di settanta persone convocate dalla Segreteria sul tema: Quale società, quale sindacato, quale Cisl?. Dopo la prolusione del segretario Nicola e la relazione di Stoppiglia (contattato a suo tempo da Milena e Manuela), che apre sulla funzione sociale del sindacato e la visione laica della Cisl, alla quale si aderisce per scelta e non per opportunismo, tutti i soci presenti al direttivo si sono divisi in gruppi, per riprendere e affrontare i temi avanzati dal relatore e riportarli poi in assemblea generale. E da ogni gruppo nasceva un’idea, una critica, una proposta. Nel dibattito è intervenuto anche il segretario della Cisl di Treviso, Franco Lorenzon, che ha elencato le radici della crisi del sindacato: il ripetersi del mandato sindacale sullo stesso posto; l’assenza di dialettica; la gestione delle risorse sindacali. Pove del Grappa. Stesso giorno, si è celebrato il funerale di Lidia, moglie di Raimondo. Lidia è partita dopo lunga malattia, assistita dal marito e dal figlio. Nell’omelia il sacerdote ha ricordato la rettitudine di Lidia e il figlio Roberto ha voluto che si leggesse la lettera di un amico di famiglia, che in un passo scriveva: quando muoiono i genitori restiamo soli sulla faccia della Terra e ci resta solo la vita e la forza che ci hanno trasmesso per affrontare le traversie del vivere. ••• 14 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi). Convocazione delle associazioni che partecipano alla festa di Macondo. Non dirò quante fossero presenti. Ricordo solo l’affollamento dei primi anni e che molte cose sono cambiate, molte sono da rinnovare e forse la musica suona e nessuno balla, s’ode di lontano una nenia e nessuno piange. ••• 15 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi). Siamo alla quarta ristampa del libro di Giuseppe Vedo un ramo di mandorlo…: e sfioriamo le quattromila copie, che portano la fascetta gialla, segno distintivo di un libro che ha corso nel giro di un anno tutta Italia, dal sud al nord, raccogliendo l’attenzione, la simpatia e la generosità di molti operatori sociali e culturali. ••• 16 aprile 2016 - Pove del Grappa (Vi). I ragazzi di terza media hanno partecipato alle iniziative del Social Day, sporcandosi le mani, come dice lo slogan di Vulcano, rassettando la sede di Macondo, pulendo alcuni vassoi di asparagi, sistemando auto in sosta e visitando l’orto, il campo e gli accessori. Il compenso andrà a beneficio di tre progetti di formazione e sviluppo di paesi lontani. Stesso giorno, Bassano Del Grappa. Teatro Remondini. Spettacolo musicale EMMAUS proposto dal MASCI di Bassano con il patrocinio del Comune di Bassano. La regia è di Giorgio Geronazzo e Lucia Martinello. Trasposizione musicale del brano di Luca che racconta l’incontro dei discepoli (un uomo e una donna) di Emmaus con Gesù. Una riflessione sulla morte e sulla speranza che non si spegne mai. Numeroso il pubblico, bravi gli attori, il corpo di ballo ha accompagnato con grazia le scene, semplice, dolce, evocativi la musica e il canto. ••• 18 aprile 2016 - Valle San Floriano di Marostica (Vi). Sotto la casa canonica incontro del gruppo Marcia 2015; si fa il punto della situazione. Le donne sostengono che bisogna dare nuovo impulso e identità alla marcia, con voci e didascalie che richiamino il tema dell’infanzia abbandonata. Ridurre le iniziative collaterali, per rafforzare il piano marcia con nuovi itinerari. Si è passati poi alla distribuzione della raccolta risorse per progetti di solidarietà internazionale e locale. ••• 23 aprile 2016 - Bassano del Grappa (Vi). Nella biblioteca civica conferenza spettacolo degli studenti del Brocchi guidati dalla professoressa Maria Taglioli. Con voce appassionata e chiara, Maria ha raccontato la vita avventurosa, misera e gloriosa di Miguel Cervantes, le ragazze hanno letto brani delle opere di Miguel, mentre una mano magica disegnava sullo schermo volti e figure che completavano la storia, arricchita da altre mani e voci che cantavano e suonavano al piano. Uno spettacolo avvincente e completo nell’anniversario della morte del grande Miguel Cervantes, dimenticato. ••• 28 aprile 2016 - Cazzago (Ve). Funerale di Luigi, padre di Alessandra Piasentin. Ha vissuto gli ultimi suoi giorni in casa, assistito dalle figlie e dalla moglie Gabriella. Nel saluto di commiato uno dei sacerdoti ha ricordato il mistero della vita, che mantiene gli affetti anche nella morte, in dimensioni nuove, che l’animo cura e sostiene. ••• 28 aprile 2016 - Schio (Vi). «Mamma mia, dammi 100 lire». All’interno dello spazio museale dell’ex Maglificio Conte, in un ambiente suggestivo, popolato da vecchie macchine tessili, un gruppo di giovani liceali, la compagnia teatrale Le Ore Piccole, con il regista Rudy Anselmi, ha interpretato le memorie degli anziani ospiti della C.A.S.A. di riposo di Schio, raccolte in un libro pubblicato nel 2009 da Lina Cocco e Mariano Castello. A conclusione della serata è stato proiettato un cortometraggio dell’artista francese JR che ha incollato sui muri degli stabili di Ellis Island le gigantografie di vecchie foto di emigranti conservate nell’archivio americano di E.I. Unico attore di questo breve corto, Robert De Niro, che ha prestato la sua voce per interpretare il ruolo di quanti cercavano una vita migliore ma non ce l’hanno fatta. Il pubblico, composto da giovani e adulti, è stato coinvolto emotivamente attraverso le parole semplici e spesso ironiche di queste persone che affrontarono allora tante difficoltà, mosse dal coraggio e dal bisogno di migliorare la propria vita. Gaetano Farinelli in collaborazione con Lisa Frassi 102 anno 26 · giugno 2016 PER IMMAGINI 3000 croci lungo la barriera rivista trimestrale dell’associazione Macondo direttore editoriale Giuseppe Stoppiglia Le fotografie di questo n umero di Madrugada direttore responsabile Francesco Monini Le foto di questo numero sono state scattate durante un viaggio lungo il confine tra Usa e Messico, tra Arizona e Texas. Otto giorni sulle strade che fiancheggiano la barriera tra i due Paesi, costruita dopo l’approvazione, da parte della Camera dei Rappresentanti statunitense, del Secure Fence Act del 2006. Il viaggio è stato intrapreso lo scorso anno da alcuni membri di CultureStrike, associazione fondata nel 2011 a Oakland, California, che ha voluto così conoscere, documentare e sostenere progetti culturali e artistici legati alla frontiera e all’immigrazione. Le foto portano la firma di Jesús Iñiguez, un «artivist» di Città del Messico che oggi vive a Inglewood, California: è un artista-attivista undocumented, senza documenti, che ha mosso il suo obiettivo solo dalla parte americana del confine. Se l’avesse attraversato non avrebbe potuto far ritorno. Jesús è tornato sui luoghi del reportage di CultureStrike quest’anno, per lavorare a un murale all’interno di un centro detentivo giovanile di El Paso, in Texas, dove vivono molti ragazzi sudamericani catturati lungo il confine proprio nel tentativo di attraversarlo. Finire nelle mani della Border Patrol, la polizia che pattuglia il confine, non è il rischio maggiore per chi vuole entrare clandestinamente negli Stati Uniti. I pericoli più grandi vengono dal fiume, il Rio Grande, confine naturale, e dal deserto: colpi di calore e disidratazione possono essere fatali. Senza contare gli incidenti stradali che coinvolgono i polleros (gli scafisti locali) o l’abuso di violenza della Border Patrol stessa e di vigilantes illegali. L’associazione CultureStrike ha scelto come chiave di lettura di questa situazione, nonché strumento di azione, l’arte. Favianna Rodriguez, la direttrice, lo spiega quando sostiene: «L’arte mi ha personalmente trasformato e mi ha dato una voce. Sono fortunata, ho incontrato molti altri artisti che vogliono costruire un mondo migliore attraverso il loro lavoro creativo. L’arte può dare forma alla politica in modi che nessun altro strumento può fare: ha la capacità di cambiare i cuori, modellare le leggi e dire la verità al potere». comitato di redazione Stefano Benacchio, Gaetano Farinelli redazione Mario Bertin, Alessandro Bruni, Egidio Cardini, Fulvio Cortese, Lisa Frassi, Alberto Gaiani, Daniele Lugli, Marco Opipari, Fabrizio Panebianco, Francesco Panico, Elisabetta Pavani, Giovanni Realdi, Franco Riva, Guido Turus, Chiara Zannini stampa Grafiche Fantinato Romano d’Ezzelino (Vi) copertina versi di Alda Merini fotografie © Jesús Iñiguez / CultureStrike 31 Stampato in 2.000 copie su carta naturale senza legno Biancoffset Chiuso in tipografia il 26 maggio 2016 Registrazione n. 3/90 registro periodici autorizzazione n. 4889 del 19.12.90 tribunale di Bassano del Grappa Iscrizione nr. 16831 registro degli operatori di comunicazione legge n. 249/1997 La redazione si riserva di modificare e abbreviare i testi originali. 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