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Tornerà la Dolce vita? Reportage da una scuola

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Tornerà la Dolce vita? Reportage da una scuola
DIREPUBBLICA
DOMENICA 20 MARZO 2016 NUMERO 575
Cult
ROMA, LA FONTANA DI TREVI IN UN BOZZETTO REALIZZATO DAGLI ALLIEVI DEL TERZO ANNO DEL CSC PER LA SCENOGRAFIA DI “CINACITTÀ”, FILM MAI REALIZZATO DI MARCO PONTI
Nuovo
cinema
Italia
Tornerà la Dolce vita?
Reportage da una scuola
molto speciale
GIUSEPPE VIDETTI
C
La copertina. Da Bansky a Ferrante, elogio dell’anonimato
Straparlando. Gian Piero Bona: “La lunga vita di un poeta”
I tabù del mondo. Amleto, l’uomo che non sa agire
ROMA
INECITTÀ È LÌ DI FRONTE. Giù
in fondo i Castelli romani. In
lontananza i pini dell’Appia
Antica. Il Centro sperimentale di cinematografia, spietatamente razionalista, esageratamente basso, è incastrato nella periferia della capitale che una volta era campagna.
Inaugurato dal Duce in persona nel
1935, ha compiuto ottant’anni. La città
giovane lo guarda dall’alto di palazzi
osceni e arroganti che lo tengono a distanza come un vecchio invalido. Invece
quelle linee severe del Trenta, quei finestroni che Matisse avrebbe adorato, gli
atri sconfinati e le aule immense (e il pi-
PIERO TOSI
no nel cortile, ottuagenario anch’esso)
sono l’architettura più cool della Via Tuscolana.
Ciak, si studia: al Centro si veniva a imparare, a Cinecittà a lavorare. Mica solo
attori, soprattutto sceneggiatori, montatori, registi, costumisti, direttori della fotografia, tecnici del suono: attraversavano la strada e passavano dalla fabbrica al
sogno. L’equazione era matematica, oggi non così scontata ma neppure disperata con registi come Rosi, Sorrentino e
Garrone che stanno riportando il talento
italiano nel mondo e una nuova legge
che dovrebbe garantire un sostanziale
potenziamento del credito per il cinema.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L
al Centro sperimentale ci andai per tenere uno
stage di poche settimane, e lì sono rimasto. Quel luogo è un’oasi
di tale meraviglia, dall’architettura serena, bella, luminosa, mai triste:
ogni volta che vi entro attraversando la rotonda che sta all’ingresso mi sento bene. E
poi sono affascinato dal tipo di lavoro, dalla
gioia che mi dà il poter stare vicino ai giovani, dalla piacevole scoperta — una volta ormai lasciato il cinema — che anche l’insegnamento potesse dare così tanta felicità.
Chissà, a volte ci penso, forse se l’avessi immaginato prima non avrei neppure fatto il
costumista.
Non credo di avere un metodo particolaA PRIMA VOLTA
re, e non so neppure cosa pensino di me i ragazzi — perché sono anche un pigro e a volte non racconto proprio niente, aspetto che
siano loro a dirmi qualcosa, a parlarmi di
un libro, o di un film. Ma del resto è solo insegnando che si impara, e non è un modo di
dire, non è retorica, è proprio così. È vero.
Certamente non posso paragonare questi tempi ai tempi miei. Ho avuto la fortuna
di vivere una delle stagioni più belle del nostro cinema, con i registi più grandi, con attrici e attori che evocavano una bellezza
non più cercata tra gli interpreti di oggi,
spesso sciatti, a volte anche bruttini. Ma
una cosa, comunque, non è cambiata: è la
passione. E ce ne vuole tanta.
>SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE
L’attualità. Simone Moro o quel che resta da scalare L’officina. Nel magico mondo di Brian Selznick Spettacoli. Autoritratto
di Joni Mitchell Next. Nessuno sfuggirà a Mister Facebook L’incontro. Alessandro Mendini che al design preferì l’artigianato
Repubblica Nazionale 2016-03-20
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 MARZO 2016
30
La copertina. Nuovo cinema Italia
A Roma, di fronte alle vecchie glorie di Cinecittà, c’è il Centro sperimentale di cinematografia
P
GIUSEPPE VIDETTI
<SEGUE DALLA COPERTINA
ER DECENNI la gloria di Hol-
lywood sul Tevere è stata
appannata da troppe
commedie e troppa tv, e
gli allievi del Centro spesso hanno preso il volo verso mete più lontane: Hollywood, quella vera, tiene d’occhio le nostre maestranze. Da sempre. Perché qui si lavora sodo,
s’impara molto, non ci sono gli specchietti per le allodole che accecano le orde
pop dei talent, e l’annessa Cineteca Nazionale è uno
straordinario centro di documentazione per chiunque
s’inoltri nel labirinto del cinema senza voler procedere
alla cieca.
«Qui ne entrano sessanta all’anno, duecento nel
triennio, più altri cento nelle sedi distaccate», spiega
Caterina D’Amico, lady di ferro del cinema di sangue
blu, figlia della sceneggiatrice Suso Cecchi, ora al terzo
mandato come direttrice. «Non siamo alla ricerca del
genio, ma di chi dalla scuola può trarre vantaggio. Il talento naturale scombina gli equilibri, l’autore solitario
rischia sempre più spesso di essere fagocitato». Ricorda gli anni bui, quando arrivò al Centro — nel 1988,
aveva quarant’anni — edifici inagibili, fuori norma,
senza fondi né strutture. «La cosa più preziosa che avevo era la mia agenda telefonica» confessa, mentre sbircia sulla scrivania le date per le selezioni di aprile che
apriranno le porte ai nuovi allievi del prossimo triennio. «Cominciai a succhiare idee dalle altre scuole, ma
poi quanti talenti sono usciti da qui: Francesco Bruni
(lo sceneggiatore di Virzì, Calopresti e Faenza), la scrittrice Melania Mazzucco, i registi Gianfranco Pannone
e Francesco Costabile — il suo corto Dentro Roma
(2006) è una delle cose più belle prodotte al Centro. I
professionisti che si sono formati qui lavorano tutti,
scenografi, montatori, costumisti, vengono a cercarli
ancor prima che finiscano il corso». Non nomina gli attori, sebbene i corsi di recitazione siano i più affollati e
richiesti. «Quasi la metà delle domande», conferma,
«ma per loro il percorso è più accidentato. Sono motivatissimi, nonostante la tv glorifichi l’improvvisazione,
una débâcle iniziata negli anni Ottanta: l’orgoglio
dell’ignoranza. L’impegno, la conoscenza, lo studio
non destano né rispetto né ammirazione. Il Divo è chi
che ha avuto fortuna per caso. Il modello? Fabrizio Corona». Mostra con ragionevole orgoglio i magnifici bozzetti realizzati dagli allievi del terzo anno per la scenografia di Cinacittà, un film di Marco Ponti mai realizzato. Uno lo avete visto sulla copertina di questo servizio:
immagini di una Roma bladerunnerizzata e divorata
da cinesi, appena riconoscibili tra dragoni e pagode la
Fontana di Trevi, il Colosseo, Piazza Navona, i magazzini Mas di Piazza Vittorio trasformati in una cavernosa,
peccaminosa discoteca di lap dance.
Lo sceneggiatore Stefano Grasso (Più buio di mezzanotte, la serie tv Non uccidere) arrivò al Centro da Torino dieci anni fa, ne aveva ventiquattro, l’aspetto di un
giovane Pierre Clementi alla ricerca della sua Via Lattea. «Qui è ancora tutto possibile, puoi sognare di diventare il nuovo Ennio Flaiano o il nuovo Mastroianni,
è l’attimo prima della linea d’ombra», dice in una pausa del corso in cui gli tocca l’ingrato compito di selezionare sei su dodici aspiranti scrittori, ora che è stato richiamato come docente. «In una Roma slabbrata, dove
Via Veneto è un ricordo, dove Fellini e Rossellini non
s’incontrano più e di osterie neanche l’ombra, la dolce
vita si è rintanata nei salotti, e se un regista non t’invita a casa, l’unico posto dove puoi conoscerlo è qui».
Grasso s’incatena agli studenti, s’immerge nelle storie
che provano a inventare. Era un giovane presuntuoso
Prossimamente
su questi schermi
quando tentò la prima volta — non fu scelto. Venne prese l’anno dopo, tanto determinato da risultare primo
nelle graduatorie. «Avevo bisogno di quel bagno di
umiltà», ammette, «non avevo capito l’importanza della bottega — Francesco Rosi assistente di Visconti che
era stato assistente di Renoir. Il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Ora, stando dall’altra
parte, vedo nei miei allievi la stessa voglia di emergere
che avevo io, come il Rastignac di Balzac che gridava
“E ora a noi due!”, riferendosi al suo desiderio di conquistare Parigi. Non si fa cinema senza ambizione» .
È un magico volo a ritroso dentro il Gattopardo
quando nel tardo pomeriggio arriva Piero Tosi (novant’anni il prossimo 10 aprile, premio Oscar alla carriera, costumista di film come Rocco e i suoi fratelli e
La caduta degli dei). Foulard al collo, passo incerto, lucidissimo e tagliente nei giudizi. Lo accompagnano su
un set organizzato in team dai corsi di scenografia e di
IL MAESTRO
IL PREMIO OSCAR PIERO TOSI,
COSTUMISTA
DI “GATTOPARDO”
E “ROCCO E I SUOI FRATELLI”,
DURANTE
UN SEMINARIO
AL CENTRO SPERIMENTALE
DI CINEMATOGRAFIA
fotografia. Gli basta uno sguardo per capire che «quei
cuscini sono troppo bianchi, il damasco del fondale inadeguato, il divanetto sbagliato. Tutto troppo chiaro» .
Sceglie un bozzetto dai colori inevitabilmente viscontiani. Nel teatro accanto, Eljana Popova introduce i ragazzi del secondo anno di recitazione al metodo Stanislavskij. Si lavora sull’Onegin di Puškin prendendo come traccia il film girato da Martha Fiennes nel 1999.
Scambio delle parti frenetico, improvvisazioni a ruota
Repubblica Nazionale 2016-03-20
la Repubblica
DOMENICA 20 MARZO 2016
31
Qui nascono i Mastroianni, i Tosi e i Visconti di domani. Siamo andati a vederli in anteprima
Le lezioni
I BOZZETTI
UNA ALLIEVA
DEL CORSO
DI COSTUME
DISEGNA
IL VESTITO
CHE SARÀ
POI USATO
DURANTE
LE PROVE
(FOTO GRANDE)
LA SARTORIA
AL CORSO
DI COSTUME
SI IMPARANO
ANCHE
LE TECNICHE
DI SARTORIA
TEATRALE:
È IL MOMENTO
DI CUCIRE
IL VESTITO
IL TRUCCO
È IL MOMENTO
DI PASSARE
AL TRUCCO
E PARRUCCO:
DIRIGE
IL PREMIO
OSCAR
PIERO TOSI
(SEDUTO
A SINISTRA)
LA SCENA
GLI ALLIEVI
SISTEMANO
LE LUCI
E LA CARTA
DA PARATI
PER LA
SCENOGRAFIA
DEL SEMINARIO
DI PIERO TOSI
(FOTO GRANDE)
GLI ATTORI
TUTTI A TERRA
PER LE PROVE
RECITAZIONE:
È LA LEZIONE
PIÙ AFFOLLATA
AL CSC,
DOVE OGNI
GESTO
DIVENTA
SOLENNE
I FONICI
A LEZIONE
DI TECNICA
DEL SUONO
COL MAESTRO
FEDERICO
SAVINA
(“LA VITA
È BELLA”,
“IO BALLO
DA SOLA”)
libera. Qualcuno in costume, altri in jeans e t-shirt. Tutti consapevoli che su un palcoscenico o davanti a una telecamera anche un gesto banale come sbottonarsi la
camicia diventa solenne. Il chitarrista accenna un’aria, la cantante intona una malinconica, straziante Tonada de luna llena. «Cercate tra tante persone una
che vi accarezzi l’anima. Pensate a tutto ciò che avete
sognato di avere, a un amore che non c’è», li incita la Popova. Dal caos, miracolo, prende forma una scena, poi
un’altra — non c’è confine tra esultanza e struggimento. L’arte eleva e purifica, ne hai la certezza ammirando quella dozzina di attori che brancolano nel cubo nero. Creativamente esaltante. Commovente. La Popova
non si lascia incantare, li aggredisce: «Tutto qui? E
Puškin dov’è finito?».
Pausa. I ragazzi sciamano nel corridoio. Anche Samuele Picchi, ventiduenne di Empoli, non ha desistito
dopo la prima eliminazione e si è ripresentato l’anno
dopo. «Il mio futuro? Il teatro. Potessi, camperei solo di
teatro», dice superbo nella sua finanziera di scena. Anna Manuelli, vent’anni di Firenze, e Maria Vittoria Casarotti Todeschini, venticinque di Padova, la pensano
come lui: «Di questo vogliamo vivere. Non sapremmo
immaginarci in nessun altro mestiere». Ma Mario Grossi, che tiene un laboratorio sul cinema di Fellini, frena:
«Gli attori hanno un grande limite rispetto agli altri allievi del Centro, sono costantemente proiettati verso
prevalentemente maschile,
mentre oggi sono le ragazze le più numerose. E sento il sacrificio
di tante di loro che, dovendo pagare una retta abbastanza elevata, magari lavorano fino a tarda notte in qualche ristorante, e poi
la mattina vengono comunque a scuola, e i loro racconti mi riempiono di gioia e di tristezza. La selezione è dura, ma deve esserlo, perché quello
del cinema non è un mestiere per tutti. Ci devi essere portato, ci vuole il talento e ci vuole l’amore, ed entrambi occorre averli tanto per il costume da indossare che per il personaggio che dovrà indossarlo.
Dopo tre anni di scuola molti dei miei allievi oggi lavorano, magari alcuni in
piccoli film, ma vanno comunque avanti. E non so proprio dire se arriverà il
giorno in cui eguaglieremo quella stagione passata e così grande, ma sono ottimista: nonostante tutto il nostro cinema resiste, e tra i divertimenti è forse il
solo irrinunciabile.
(Piero Tosi, costumista, ha ricevuto nel 2014 l’Oscar alla carriera.
Testo raccolto da Maria Pia Fusco)
l’esterno, e questo li distrae dall’impegno didattico. I
miei hanno già tutti un’agenzia, un book pronto. Vivono nell’ansia di perdere l’occasione giusta, la parte in
un filmone. Li esorto alla tenacia con le parole che mi
disse Ronconi: “Non smettete di studiare, di essere curiosi. Fatica e mestiere”». Roberto Antonelli, che ha il
delicato compito di formare quelli del primo anno al
mestiere dell’attore, acconsente: «Io sono il cattivo sergente. Lo sanno, non offro certezze. È nel dubbio che
devono cercare di acchiappare qualcosa». In fondo è
sempre stato così, Pietro Germi si diplomò attore poi
trionfò da regista.
Ado Hasanovic, ventinove anni, bosniaco, terzo anno del corso di regia, era già un fenomeno quando si è
presentato al Centro con il corto Mama, premiato con
la Golden Apple al BH New York Film Festival nel
2014. L’angelo di Srebrenica, come lo chiamano (ha
perso molti familiari durante l’assedio del
1992-1995), si è iscritto al Centro dopo tre anni alla Sarajevo Film Academy. «Devo imparare di più per fare
grande cinema. Sono infatuato del neorealismo, farò il
regista, nessun piano B, pronto per il primo lungometraggio. Il mio sogno? Fare film che siano un ponte tra i
Balcani e il resto del mondo — la cultura vince su tutto,
null’altro può compensare le nostre mancanze, non la
religione né il nazionalismo, lo dice la Storia» .
©RIPRODUZIONE RISERVATA
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Non è un mestiere per tutti
PIERO TOSI
U
<SEGUE DALLA COPERTINA
N TEMPO QUESTO ERA UN MESTIERE
Repubblica Nazionale 2016-03-20
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 MARZO 2016
32
L’attualità. Cime tempestose
Ora che ha conquistato il Nanga Parbat
Simone Moro lancia la sua nuova sfida:
“Basta con gli ottomila. A settemila metri
ci sono cento vette ancora da scalare”
Q
DARIO CRESTO-DINA
BOLZANO
UANDO CAMMINI IN MONTAGNA il primo consiglio che ti viene
dato è di appoggiare dalla punta al tacco la pianta dello scarpone sul sentiero. Il piede deve sentire la terra, come se volesse imprimervi ad ogni passo la sua orma netta, precisa. È
il primo allenamento alla pazienza, intesa come il patire
che verrà ma il cui fardello è opportuno rimandare quanto
più sarà possibile. Sali lentamente, ti dicono, non farti sedurre dalle scorciatoie e dall’ambizione. Sii umile. Non tagliare il pendio, affidati alla semplicità perché nelle cose
semplici troverai più di quanto puoi immaginare. È la cassetta degli attrezzi che ci dobbiamo portare dietro dalla
prima pietra fino all’ultima montagna. A Simone Moro
la cassetta venne consegnata quando aveva tredici anni alla base di una palestra di
roccia naturale di Selvino, un paese che non raggiunge i mille metri di altitudine,
appena sopra la val Seriana. Quella parete è un torrione di cinquanta metri
chiamato la Cornagera. Nel dialetto bergamasco significa roccia e ghiaia.
«Era il mio Everest. Avevo un martello, avevo dei chiodi, ero legato a una
fune, era una domenica pomeriggio illuminata dal sole. La dea di cui mi
ero invaghito aveva accolto il mio amore, mi sentivo corrisposto». Andava a scuola dai preti. La Casa dello studente, proprietà della curia,
un potere immenso a Bergamo, 430 allievi, tutti maschi, campetto
di calcio e tavolo per il ping pong. Racconta Emilio Previtali che
fu suo compagno alle medie: «In classe Simone non parlava
con nessuno, non ci sembrava per nulla
simpatico». Combatteva la solitudine isolandosi. «Mi piaceva giocare da solo, invece
di andare alle feste di compleanno mi nascondevo nel bosco. Era la mia savana. Costruivo case sugli alberi e ponti di corde, risalivo torrenti scalzo fino a farmi congelare
le dita dei piedi». Non era bello né ricco, portava gli occhiali da miope, le ragazze non lo
filavano, ma aveva fame. «E avevo una fede, volevo diventare un grande alpinista
anche se a sbarrarmi il mio già limitato orizzonte c’erano le prealpi Orobie, robetta di
2500 metri. Me le sarei andate a cercare, le
montagne vere, come aveva fatto Walter
Bonatti».
L’infatuazione era cominciata sei anni
prima. Vacanze nelle Dolomiti con mam-
ma Teresa, casalinga, e papà Franco, impiegato di banca, ex campione italiano di ciclismo su strada, categoria amatori. Le tre settimane in campeggio, prima tenda e poi
roulotte, erano interminabili, sprofondate
nella noia. Avevi voglia di scarpinare per gite ai laghi e dell’andar per funghi, il rito domestico con il quale si riempiva il tempo lo
portò su una ferrata in fila con i turisti in pedule, sotto il profilo arcano della Tofana e
del Cristallo. Cominciò a raccogliere e conservare le cartoline di scalatori appesi a un
costone o con il primo piano dei loro volti
bruciati. Rientrato a Bergamo si fece regalare dalla madre un poster di Messner e lo
appese sopra il letto, poi fu la volta dei suoi
libri, Reinhold diventò il suo Jack London.
A sedici anni gli scrisse una lettera: «Lo invitavo a ripetere con me la via del Sass d’la
Crusc in Val Badia, un passaggio dolomitico di ottavo grado che Messner aveva aper-
L’ultima
montagna
Le vette conquistate
Prima salita:
29 maggio
1953
Hillary
e Norgay
Prima salita
invernale:
17 febbraio
1980
Wielicki
e Cichy
Prima salita:
31 luglio 1954
Compagnoni
e Lacedelli
Prima salita:
11 gennaio
1955
Band e Brown
Prima salita
invernale:
11 gennaio
1986
Wielicki
e Kukuczka
Prima salita:
18 maggio
1956
Luchsinger
e Reiss
Prima salita
invernale:
31 dicembre
1988
Wielicki
Prima salita:
15 maggio
1955
Couzy
e Terray
Prima salita
invernale:
9 febbraio
2009
Moro
e Urubko
Prima salita:
19 ottobre
1954
Loechler,Tichy
e Dawa Lama
Prima salita
invernale:
12 febbraio
1985
M. Pawlikowski
e M. Berbeka
Prima salita:
13 maggio
1960
Diemberger,
Schelbert,
Dorje e Forrer
Prima salita
invernale:
21 gennaio
1985
Czok, Kukuczka
Prima salita:
9 maggio
1956
Imanishi
e Norbu
Prima salita
invernale:
12 gennaio
1984
Berbeka
e Gajewski
Prima salita:
26 febbraio
1953
Buhl
Prima salita
invernale:
26 febbraio
2016
Moro,
Ali Sadpara
e Txikon
Prima salita:
3 giugno 1950
Herzog
e Lachenal
Prima salita
invernale:
3 febbraio
1987
Kukuczka
e Hajzer
Prima salita:
5 luglio 1958
Kauffman
e Schoening
Prima salita
invernale:
9 marzo 2012
Bielecki
e Golab
Repubblica Nazionale 2016-03-20
la Repubblica
DOMENICA 20 MARZO 2016
33
Dalla parte
del portatore
nepalese
to assieme al fratello Gunther». Messner
gli rispose declinando cortesemente l’offerta. Era ormai un alpinista, non più un rocciatore. Gettarono i primi semi di un’amicizia. «Se a Bonatti ho rubato la consapevolezza che puoi inseguire l’idea delle grandi altezze anche se sei nato in una cantina nel
posto più basso del mondo, da Messner ho
appreso la professionalità del mestiere. Il
successo e la notorietà non mi sono mai interessati, con la montagna ci volevo mangiare».
La prosa scaccia la poesia. C’è riuscito a
procacciarsi il cibo e molto altro, e sono pochi ad averlo fatto, è sufficiente pensare
che solo il Nanga Parbat gli è costato settantamila euro. La semplicità porta con sé una
serie di scelte. Scuole serali per lavorare la
mattina. «In un’agenzia di pratiche automobilistiche prima, poi nel disgaggio dei
paravalanghe». Imbrigliava crostoni di
montagna con maglie d’acciaio, guadagnava fino a 500mila lire al giorno, lasciò sul
campo la falange di un dito. La laurea in
scienze motorie, una vita tra Bergamo, Bolzano — il luogo del cuore e quello dell’efficienza — e l’Himalaya, portare a scuola i figli Martina di diciassette anni e Jonas di
sei, dare retta alla preveggenza sciamanica e onirica della moglie Barbara, la donna
del sesto senso, che gli dice lascia stare il
K2, Simone: «Ho fatto un sogno e nel sogno
non tornavi». Meglio non andare a controllare, smorzare il desiderio come si fa con la
fiamma della candela, riempire l’anima
con il valore della rinuncia. «Perché la montagna non è per i solitari, le nostre mani sono fatte per stringere altre mani». Arrendersi è un gesto di generosità prima di tutto verso se stessi. È il potere della sopravvi-
IL PROTAGONISTA
SIMONE MORO, 48 ANNI,
DURANTE UNA SCALATA
SUL GASHERBRUM II NEL 2011
NELLA FOTO DI CORY
RICHARDS E IN UN RITRATTO
DI MATTEO ZANGA
Prima salita:
9 giugno 1957
Wintersteller,
Buhl, Schmuck,
e Diemberger
Prima salita
invernale:
5 marzo 2013
Berbeka,
Bielecki, Malek,
Kowalski
Prima salita:
7 luglio 1956
Moravec,
Larch
e Willenpart
Prima salita
invernale:
2 febbraio
2011
Moro, Urubko
e Richards
Prima salita:
2 maggio 1964
Ching, Yonten
Chun-yen, Doji,
Fuzhou, Trashi,
Tien-liang, Doji,
Tsung-yue, San
Prima salita
invernale:
14 gennaio 2005
Morawski, Moro
venza. Sul Nanga Parbat, la montagna nuda in lingua indu, l’ha fatto Tamara Lunger, ventinove anni, un passato da atleta
sugli sci, che lo scorso febbraio era con Moro, il basco Alex Txikon e il pachistano Alì
Sadpara. Mancavano settanta metri alla cima quando si è fermata. «Non eravamo assieme in quel momento, ci eravamo parlati
mezz’ora prima, eravamo tutti al limite delle forze. Mi sa che se arrivo lassù mi dovrete aiutare a scendere, mi ha confessato Tamara». Un pericolo troppo grosso, il profumo amaro della fine, il soffio della morte.
Niente rabbia, non una lacrima. «Le ho spiegato che doveva essere orgogliosa di essere
lì, alla quota che percorrono i jumbo. In
montagna è fondamentale avere paura, la
paura è il contachilometri dell’autoconservazione e la rinuncia è un virtuosismo».
C’è un attimo in cui bisogna sforzarsi di
capire che è giunta l’ora di smettere, quando scocca il cinquantanovesimo secondo.
«Ho 48 anni, sono entrato nell’età giurassica dell’alpinismo. Me ne concedo altri quattro, non di più. Non voglio rischiare di sembrare patetico». Moro è alto un metro e 74
centimetri, pesa 69 chili, «non posso permettermi di veder comparire il numero 7
sulla bilancia», non fuma, non beve alcolici,
si fa due ore di palestra ogni giorno e corre
almeno 140 chilometri la settimana. Ma
non basta, un giorno non basterà più. Su
questo tema lo ha messo in guardia Mario
Curnis, ottant’anni, con lui sull’Everest, un
patrimonio d’ironia: «C’è un tempo per sognare e un tempo per prepararsi a morire».
Grande carissimo maestro e amico, Curnis.
Gli altri sono Nives Meroi, Hervé Barmasse, Silvio Mondinelli. E poi il polacco Adam
Bielecki e il kazako Denis Urubko.
La Compagnia del desiderio, per dirla
con Tolkien. «Ho desiderato il Nanga Parbat come si può solo desiderare una persona. Non avevo mai provato un sentimento
così profondo. Avevo già fallito in due precedenti tentativi, ma questa volta ero certo
che ce l’avrei fatta. Potevo scriverlo il giorno in cui sono partito dall’Italia, mettere il
foglio in una busta e consegnarla al notaio.
Quando sono arrivato in vetta non ho esultato né pianto, né piantato una piccozza o
preso un sasso per ricordo. Ce l’avevo fatta,
tutta la vita mi ribolliva dentro lo stomaco:
i miei sogni di bambino, la fatica, i sacrifici,
le bufere, il dolore per la morte di mio padre e quella di tanti compagni. Ho sentito
che ero arrivato al termine di un percorso
Prima salita:
8 agosto 1786
Balmat
e Paccard
felice». C’era il silenzio della neve, il cielo
freddo e iridato, un mondo pieno di stupori
che scorrono come segni e lui era il fortunato che stava lì e poteva osservarli. Lo doveva ai suoi genitori che non gli avevano frantumato il sogno, alla famiglia che gli aveva
lasciato lo spazio e sopportato il vuoto delle
sue sconfinate assenze. Lo doveva a Messner che nel 1970 era salito lungo il versante opposto, il Rupal, una cattedrale di quasi
cinque chilometri verticali, e che nella discesa aveva perso il fratello Gunther, 24 anni, trascinato via da una valanga. Sul Nanga Parbat Moro si trova a sfiorare lo dzi che
porta al collo, un’agata fossile tibetana
comprata nel 1997 da una vecchia signora
in un villaggio sherpa, l’amuleto distintivo
degli alpinisti himalayani che secondo la
leggenda porta impressi sulla superficie gli
occhi del Buddha.
Nell’alpinismo dei super atleti, del marketing e degli affari, degli spot e dei reality
tv, da quale montagna ci faremo perseguitare adesso? Proprio Reinhold Messner
qualche tempo fa si è domandato dove si
possa andare oggi «se anche le montagne
più alte vengono attrezzate per le ascensioni turistiche di massa». Io ho avuto la fortuna, ha scritto l’alpinista altoatesino, di essere nato prima. Una risposta Moro crede di
averla. I settemila, dice, sarà sufficiente
scendere di qualche gradino, limare la presunzione: «Mentre ci sono quaranta persone che hanno fatto tutti i quattordici ottomila, non esiste ancora il principe dei settemila. A quella quota restano inviolate un
centinaio di vette. Eppoi la parete Est del
K2; sull’Everest la Fantasy Ridge che nessuno ha mai percorso; la traversata, senza ossigeno, delle quattro vette del Kangchenjunga; la cresta Nord del Lhotse; la diretta
sulla parete nord-ovest dell’Annapurna; la
traversata in Pakistan dal Gasherbrum II
al Gasherbrum III». Ma nella sua mappa
del tesoro sono indicate anche le vecchie Alpi, le ripetute su Marmolada e Civetta, il
Bianco e il Cervino dei pionieri, la terribile
parete Nord dell’Eiger che lo ha già respinto una volta «e che va fatta d’inverno, in velocità», la Norvegia e la Groenlandia. Ma
l’ultima montagna sarà un ritorno. La più
limpida di tutte, l’indimenticata perché indimenticabile. Mount Vinson, Antartide,
4892 metri. Un’alba e un tramonto in un
anno. «La purezza del mondo. Troppo bella
anche solo per guardarla».
PAOLO RUMIZ
G
UARDATELO BENE. È un portatore
nepalese-tipo. Smilzo, di sessanta chili.
Ebbene, quell’uomo è capace di portare
il doppio del suo peso dai quattro ai
cinquemila metri di quota in un giorno
solo, nutrendosi di una manciata di albicocche secche.
Nessun grande alpinista occidentale ne sarebbe capace.
Penso a questo e mi dico che la nuova frontiera
dell’alpinismo è ritrovare l’umiltà dei suoi limiti. Una
frontiera che non sta da nessuna parte, è dentro di noi.
Ho arrampicato anch’io, quarant’anni fa. Ho aperto
vie estreme con un grande alpinista triestino e so cosa
significa sentirsi sperduti su un lenzuolo infinito di neve
da ramponare o su una parete immensa giallo-grigia
senza sapere cosa ci sarà dopo lo strapiombo. Ma poi ho
smesso. Il mondo degli scalatori palestrati mi aveva
stancato. Mi lasciava un grande vuoto, e l’impressione di
non aver mai conosciuto il silenzio dell’Alpe. Ho smesso
anche di leggere libri di montagna. Produzioni letterarie
immense su scalate estreme, nelle quali l’unica cosa da
notare era la ripetizione dell’io. Il fascismo era finito, ma
c’era ancora quella cosa ridicola dell’uomo a torso nudo
che mostra i muscoli alla montagna e le dice “Io ti
vincerò”. E, troppo spesso, quelle spedizioni milionarie
capaci di lasciarsi dietro solo immondizie e zero
riconoscenza per i portatori di quota. Non ce n’era una
tra le star di allora, e ce ne sono pochissime anche oggi,
capaci di orientare, col loro carisma e la visibilità di cui
godono, l’opinione pubblica verso un approccio
all’Altissimo che non sia di saccheggio. La parola
d’ordine è rimasta l’abbattimento del limite. Più veloce,
più ripido, sempre più su, fino al settimo, ottavo, nono
grado con prospettiva di arrivare al ventesimo salendo
sui polpastrelli, senza scarpe, d’inverno e a testa in giù.
Questa corsa verticale porta all’illusione blasfema che
non vi siano più limiti, come accade per l’espansione del
Pil e la bugia della crescita inarrestabile in un mondo
dalle risorse in esaurimento. Ma a me che me ne importa
di scalare vertiginose pareti himalayane se nel
frattempo l’Appennino si desertifica e i ghiacciai
scompaiono mostrando lo stato di sofferenza della
Terra? A che mi serve andare in montagna se non per
capire la mia nullità rispetto alla natura e il mio obbligo
di difenderla? Basta con i superuomini. A me basta
somigliare solo al più misero dei portatori nepalesi.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Prima salita:
1 agosto 1855
Birkbeck,
Hudson,
Stevenson,
Christopher
e James
G. Smyth
Prima salita:
14 luglio 1865
Hudson,
Whymper,
Douglas,
Hadow,
Taugwalder
e Croz
Prima salita:
30 luglio 1859
Sainte Claire
Deville,
Dorsaz,
Daniel,
Emanuel
e Gaspard
Balleys
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Prima salita:
3 agosto 1811
Volken, Bortis,
Hieronymous
e Johann
Rudolf Meyer
Prima salita:
4 settembre
1860
Cowell,
Dundas,
Payot
e Tairraz
Prima salita:
11 agosto
1858
Barrington,
Almer
e Bohren
Infografica a cura
di Leonardo Bizzaro
Fonti:
“8000 metri di vita”
di Simone Moro
(Grafica & Arte);
“On Top of the World.
The New Millennium”
di R. Sale, E. Jurgalski,
G. Rodway (Snowfinch);
“Mountaineering
in Antarctica”
di D. Gildea (Nevicata);
“A est del romanticismo”
di F. Torchio, R. Decarli
(Accademia della
Montagna del Trentino)
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 MARZO 2016
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L’officina. Parole & immagini
Quattrocento pagine di disegni, poi inizia il racconto
È la formula scelta dall’autore del libro che ispirò
Martin Scorsese. E che ora nella sua casa di Brooklyn
ci spiega perché “è meglio vivere di fantasia che di realtà”
La straordinaria
invenzione
di Brian Selznick
“Così mischio Hugo Cabret
Leonardo e Via col vento”
B
© 2007 BRIAN SELZNICK
© 2007 BRIAN SELZNICK
ANTONIO MONDA
IL LIBRO
“IL TESORO
DEI MARVEL”
DI BRIAN SELZNICK
(MONDADORI,
TRADUZIONE
DI LOREDANA
BALDINUCCI,
640 PAGINE,
18 EURO),
DA CUI SONO
TRATTE MOLTE
DELLE IMMAGINI
DI QUESTE PAGINE,
SARÀ IN LIBRERIA
DA MARTEDÌ 22.
A SINISTRA,
DUE DISEGNI
DA “LA
STRAORDINARIA
INVENZIONE
DI HUGO CABRET”
SCRITTO
DA SELZNICK
NEL 2007
DA CUI IL FILM
DI SCORSESE
DEL 2011. A DESTRA
UN AUTORITRATTO
DELL’AUTORE
NEW YORK
RIAN SELZNICK È CONSAPEVOLE di avere il cinema nel sangue: il suo cogno-
me è quello del leggendario produttore di Via col vento, cugino del nonno. Ma ha nel sangue anche la letteratura e il disegno: ogni suo progetto
nasce dalla combinazione di queste passioni e dall’ibridazione di questi
diversi linguaggi. Si tratta di una scelta di forma che riflette anche una
questione di sostanza: le sue opere mescolano personaggi reali ad altri
immaginari, all’interno di vicende romanzate che si sviluppano sullo
sfondo di avvenimenti storici. Succede ancora una volta con Il tesoro dei
Marvel che esce a otto anni di distanza da La straordinaria invenzione
di Hugo Cabret, adattato sullo schermo da Martin Scorsese, e a cinque da
La stanza delle meraviglie, che sta per essere realizzato da Todd Haynes. Il libro ha una prima parte, lunga circa quattrocento pagine, sviluppata attraverso disegni, e una seconda, di circa duecentocinquanta, scritta secondo i canoni del romanzo. La storia, che segue per duecento anni la vicenda di una famiglia di teatranti chiamata Marvel, propone un ulteriore gioco di specchi: l’ambientazione principale è la Dennis Severs House, un’attrazione
turistica londinese nella quale viene ricreata una immaginaria casa di lavoratori di seta ugonotti. Il libro si sviluppa attraverso grandi avvenimenti e sentimenti: si passa da un naufragio alla scoperta del
teatro, dalle citazioni di Yeats e Shakespeare alla tragedia dell’Aids. Lo sguardo è incantato e umanista, e Il tesoro dei Marvel, definito dal Publisher Weekly «un vero e proprio capolavoro», farebbe certamente piacere al prozio produttore per la perfetta mescolanza di spettacolo e qualità, fantasia e realismo, professionalità e sentimento.
Proveniente da una famiglia di ebrei lituani trapiantati nel New Jersey, Selznick ha scelto di vivere a
Brooklyn, dove mi accoglie in una casa su due piani, nella quale spiccano una collezione di riproduzioni
dell’Empire State Building, un teatro in miniatura, un ritratto di Truffaut, una raccolta di francobolli
di mostri del cinema, il primordiale robot utilizzato da Scorsese in Hugo e molti cimeli di Houdini, al quale ha dedicato il suo primo libro. Sorridente e gentile, ci tiene a specificare subito
che il nonno Ben non andava affatto d’accordo
con il cugino produttore: «Una volta i parenti
tentarono un riavvicinamento in occasione di
un matrimonio», mi racconta mentre mi mostra un puzzle ispirato al libro, «ma i due rifiutarono persino di parlare, nonostante gli sforzi
delle rispettive mogli, e in particolare di Jennifer Jones, che era sposata con lo zio David».
Comunque qualcosina della tradizione familiare che ha formato la sua creatività c’è,
giusto?
«Non si sfugge alla famiglia, mai. Io sono cresciuto vedendo scorrere il mio cognome sullo
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DISEGNI © 2015 BRIAN SELZNICK
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schermo prima di film mitici come Rebecca,
Via col vento, Duello al sole».
Come nasce “Il tesoro dei Marvel”?
«Dalla voglia di scrivere qualcosa sulla Dennis Severs House, un posto che mi ha segnato
indelebilmente. Mi aveva consigliato di visitarla un amico studioso di Whitman, e all’inizio
credevo che si trattasse di una trappola per turisti. Poi ho capito che in quel luogo c’era qualcosa di unico, che mi toccava nel profondo: il
fatto che un americano come me aveva dedicato la vita a quel progetto, tentando di capire e
farlo rivivere, mentre mescolava il realismo
con la fantasia».
Il fascino per lo spettacolo è un tema ricorrente dei suoi libri.
«Mi affascina la rappresentazione: non è un
caso che sia anche un burattinaio. Mi diletto
spesso con il mio piccolo teatro nel quale sono il
regista, il costumista, lo scenografo e anche
l’interprete: anche per questo ho voluto raccontare la storia di una famiglia di teatranti».
Perché mescola realtà a episodi reali?
«Immagino solo vicende possibili, ma ciò
non significa che siano necessariamente false.
Una delle più grandi emozioni della mia infanzia è stata vedere Il viaggio nella luna di Méliès. Certo, si tratta di una fantasia, ma ci sono
molti elementi più belli di quelli reali, e mi chiedo cosa ci impedisca di viverli».
È vero che ha studiato a lungo Leonardo Da
Vinci?
«Sì ne sono ossessionato, e ho anche realizzato alcuni disegni ispirati ai suoi capolavori, in
particolare La Vergine delle Rocce».
Ci sono altri modelli, nel suo lavoro?
«Non oso definire Leonardo un modello. Per
quanto riguarda le influenze penso ad artisti
fantasy come Frank Frazetta e a un autore di
poster cinematografici come Richard Amsel: il
meraviglioso manifesto dei Predatori dell’arca perduta spiega meglio di ogni esempio l’i-
‘‘
IL PALCOSCENICO
ERA ENORME,
CON UN AMPIO SIPARIO
ROSSO E ORO.
CENTINAIA DI PERSONE
ERANO SEDUTE
SU POLTRONCINE
DI VELLUTO ROSSO
E IN PALCHETTI
FILIGRANATI. FRANKIE
INTERRUPPE
CON IL MENTO: “RIESCI
A CAPIRE CHE COSA
STA SUCCEDENDO?”
‘‘
JOSEPH SI CONCENTRÒ
SUL PALCOSCENICO
E BEN PRESTO
VENNE INTERAMENTE
CATTURATO
DALL’AZIONE.
OSSERVÒ SBIGOTTITO
LA STATUA DELLA
REGINA SPALANCARE
LE BRACCIA
E ACCOGLIERE
IL MARITO PENTITO
QUANDO SI ALZARONO
LE LUCI FU COME
USCIRE DA UNO STATO
DI TRANCE
bridazione di realismo e fantasia».
Perché ha definito questo romanzo come la
terza parte di una trilogia?
«Le vicende in realtà sono molto diverse, ma
oltre alla mescolanza di realtà e finzione hanno
in comune un tema per me fondamentale: l’idea di costruire una famiglia come vogliamo
che sia, con persone che amiamo o semplicemente con amici, anche di età molto diversa.
Penso sempre a quella scena notturna in Gioventù Bruciata nella quale, per poche ore, James Dean e Natalie Wood si illudono di creare
la famiglia perfetta. Quando ho scritto Hugo
non avevo affatto in mente una trilogia, né ho
mai pensato di scrivere un libro partendo dal
tema: a me interessano le emozioni».
Il libro è diviso in due parti distinte.
«Quando ho cominciato a farlo circolare, un
amico regista mi ha detto che dopo quattrocento pagine di illustrazioni i ragazzi si sarebbero
sentiti traditi dall’inizio improvviso di un libro
di narrativa. Ho tentato di invertire i blocchi,
ma poi ho capito che la riuscita della prima parte avrebbe dato sostanza alla seconda».
È vero che in origine “Hugo” era un romanzo breve puramente narrativo?
«Sì, ma a un certo punto ho capito che molte
descrizioni potevano avvenire per immagini,
cosa che è stata valida anche per questo ultimo
libro. Anche in quel caso volevo trasmettere
un’emozione, che Scorsese è riuscito a comunicare magistralmente nel film: la celebrazione
del cinema, dei libri e degli archivi che li tramandano».
Il motto della Dennis Devers House è “O vedi o non vedi”.
«È quello che penso dei miei libri: io offro tutte le chiavi, ma sta al lettore poi interpretare».
Si considera uno scrittore o un artista figurativo?
«Un narratore di storie».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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Spettacoli. Ladies of the canyon
La ragazza
con in testa
Schubert
e Miles Davis
IL LIBRO
“JONI MITCHELL - BOTH SIDES.
CONVERSAZIONI SULLA VITA,
L’ARTE, LA MUSICA”, A CURA
DI MALKA MAROM (BIGSUR,
TRADUZIONE DI FRANCESCO
GRAZIOSI, 377 PAGINE, 20 EURO)
È ORA IN LIBRERIA. NELLA PAGINA
A DESTRA IL TESTO AUTOGRAFO
DI “WOODSTOCK” (1970)
GINO CASTALDO
ancora di fatto
sconosciuta, fu David
Crosby, che la scoprì in
un locale folk in Florida e
se ne invaghì all’istante. Come molti
altri dopo di lui. La leggenda racconta
un episodio che la dice lunga sullo
stupore provocato dalla giovane
cantautrice. Sembra che Crosby,
approfittando proprio del fatto che la
ragazza fosse del tutto sconosciuta, si
divertisse a invitare gli amici e solo
dopo aver offerto generose dosi di
marijuana chiedeva a Joni se
gentilmente le andava di prendere la
chitarra e suonare qualcosa. Lei
ovviamente accettava e ogni volta
puntualmente lasciava i presenti
senza fiato. Perché Joni Mitchell era
un prodigio, da ogni punto di vista,
una cantautrice che aveva in testa
Schubert e Miles Davis, con una
mobilità vocale sorprendente, una
scrittura audace e complessa, un
talento esorbitante, raro anche in
un’epoca in cui la musica sembrava la
nuova polvere magica in grado di
trasformare il pianeta e ogni giorno
nascevano canzoni in grado di
rimanere nella storia. A sentire lei
oggi, con la rabbia che ha accumulato
in anni di ingiustizie, turlupinature,
cinismo dell’industria, solo il fatto di
essere donna le ha impedito di essere
considerata al pari, se non più, di Bob
Dylan e Leonard Cohen. C’è un
pizzico di presunzione è ovvio, ma è
verissimo che all’epoca il mondo della
musica era profondamente
maschilista, e una donna così
autorevole, indipendente,
emancipata, un poco di imbarazzo lo
creava. I musicisti però stravedevano
per lei, ne erano soggiogati, le hanno
dedicato molte canzoni, la più
romantica delle quali, “Our house”, la
scrisse Graham Nash creando il più
delizioso quadretto domestico mai
immaginato in campo rock. Lei
fuggiva, prendeva il volo in
continuazione, nomade
dell’esistenza per natura e
vocazione indomabile, convinta
fino a oggi di essere soprattutto
una pittrice, e questa inquieta
personalità la trasferiva
magistralmente nelle sue
canzoni che sembravano
sempre flussi cangianti,
inafferrabili, mai realmente
fermi, una dinamica che non
casualmente ha affascinato anche
alcuni grandi jazzman come Charlie
Mingus che la spronò a spingere
ancora oltre i suoi orizzonti. Fu grazie
a lui che incise un disco intitolato
appunto “Mingus”, un tributo
meraviglioso, ma anche uno dei
dischi dove si può percepire con
maggiore forza la libera vertigine di
cui è capace la canzone quando osa,
quando non ha paura di volare, più in
alto del cielo.
©RIPRODUZIONE RISERVATA
Joni
Mitchell
Autoritratto
di signora
I QUADRI
LA COVER DI “LADIES OF THE
CANYON” (1970) OPERA DI JONI
MITCHELL COME ANCHE GLI ALTRI
DIPINTI PUBBLICATI IN QUESTE
PAGINE. DALL’ALTO IN SENSO
ORARIO: “BOTH SIDES” 1 E 2
(1999); “TAMING THE TIGER” (1997);
“WILD THINGS RUN FAST” (1981);
“TURBULENT INDIGO” (1995)
IMMAGINI © JONI MITCHELL, FOTOGRAFIA DI SHEILA SPENCE
A
PORTARLA IN CALIFORNIA,
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L’infanzia poverissima, la prima sigaretta,
un grande amore e le due passioni più forti:
musica e pittura. In un libro-intervista
le confessioni della più sofisticata tra le ribelli
H
JONI MITCHELL
‘‘
SUL PRIMO DISCO
INSISTEVANO
PER AVERE
UNA FOTO, COSÌ HO PRESO
UN MIO DISEGNO
E CI MISI AL CENTRO
UNA FOTO COL FISH-EYE
PER IL SECONDO SI SONO
IMPUNTATI: VOLEVANO
LA MIA FACCIA, COSÌ
HO DIPINTO UN RITRATTO
IN CUI GUARDO DRITTO
DAVANTI A ME: ECCOLA
LA MIA FACCIA,
VI STA GUARDANDO
,,
O VISSUTO LA FINE DELLA CIVILTÀ DELLE CARROZZE. L’acqua e il latte ce li conse-
gnavano ancora con i cavalli, e a Natale arrivava un cumulo di pacchi sopra
una slitta. In paese c’erano solo due negozi. Mio padre gestiva l’alimentari
e il papà di Marilyn McGee l’emporio. Io e lei chiamavamo il catalogo di
Simpsons-Sears (una catena di grandi magazzini, ndr) “il libro dei sogni”.
Da bambina, quando avevo quattro o cinque anni, lo trovavo splendido. Ce
ne stavamo sdraiate a pancia in giù a guardare ogni pagina, e in ciascuna
sceglievamo il nostro articolo preferito: il nostro busto, il nostro seghetto o
il nostro martello preferito. Siccome però razionavamo ogni cosa, quando
tutti lo avevano letto diventava carta igienica. Perfino il sindaco, renditi
conto, si puliva il culo con il catalogo di Simpsons-Sears. Tutta quella carta
patinata a colori. Noi invece all’alimentari cercavamo di mettere da parte
gli involucri delle arance. Le arance erano incartate in foglietti arancioni. Cercavamo di farne scorta per
usarli come carta igienica. In paese non c’era una rete fognaria. Era come nel Klondike: marciapiedi di vo inserito una sua battuta, una cosa detta da lui, in
legno e elettricità ma niente acqua corrente né ci- una delle mie canzoni. Ma per me quello non è un
plagio. Si ruba dai libri o si ruba dalla vita. Con la visterne né gabinetti con lo scarico.
ta è ammissibile, con i libri no. Questa è la mia perNon sono una storpia, non sono una storpia
L’anno dopo mi presi la polio, e quando scopriro- sonale opinione. Non rubare dall’opera di qualcun
no cos’avevo mi spedirono fuori dal paese, a cento altro, se no stai barando. Ruba dalla vita, quella è a
chilometri di distanza. Quando mi fecero capire che disposizione di tutti, no? Una volta andai a cena con
non avrei mai più camminato — non lo dissero mai Leonard. Era sempre difficile parlargli. Fra noi c’eapertamente, ma me lo lasciò intendere un signore ra stato un breve legame sentimentale, ma lui era
che non avrebbe mai più camminato, un signore in così distaccato, così irraggiungibile. Non c’era un
carrozzella — io non volli accettare quella sorte e gran rapporto al di fuori della camera da letto. Invemi dissi: «Non sono una storpia. Non sono una stor- ce per me doveva esserci di più. Perciò gli facevo un
pia». Mi alzerò e camminerò, per Dio. «Non sono sacco di domande, per venirne a capo. Ricordo che
una storpia... non sono una storpia...». Lo ripetevo a mi diceva: «Ah, Joni, che domande bellissime fai»,
un albero di Natale che mia madre aveva sistemato però poi era evasivo. Diventammo lo stesso amici, e
nella stanza — l’unica volta che era venuta a trovar- ogni tanto lui si fermava a Laurel Canyon per venirmi. Mi aveva portato quell’alberello e se n’era anda- mi a trovare. Ma con il passare degli anni lo vidi semta. Mio padre invece non venne mai a trovarmi in pre meno, finché quella sera non andammo a cena
ospedale. E intanto ero costretta lì, con il Natale alle e quasi non mi rivolse la parola. Io ero a disagio, per
porte. Dato che eravamo contagiosissimi, dividevo la prima volta mi sembrava ci fosse dell’ostilità, e
la stanza in un tendone fuori dall’ospedale con un gli chiesi: «Ma io ti piaccio?». Lui rispose: «Be’, cosa
bambino di sei anni che stava sempre col muso lun- c’è da dire a una vecchia amante?». Io dissi: «È un
go e non faceva che mettersi le dita nel naso. Un po’ un peccato. Dovrebbero esserci tante cose». E
giorno mi avevano dato non so che cura e mi aveva- lui: «Sei tu quella a cui piacciono le idee». E io: «Se è
no lasciato seduta sul bordo del letto, tutta storta, per questo tu non riesci quasi ad aprire bocca senza
con le gambe paralizzate penzoloni. Arriva di corsa che ne esca fuori un’idea». Così, da allora, non ha
una suora e mi dà della svergognata, mi spinge ver- fatto che dirmi: «Joni, io e te siamo troppo avanti».
so la testiera del letto e mi copre le gambe. E io pen- Non ha mai più detto altro. «Joni, io e te siamo tropsai: «Che male c’è se mi vede le gambe?». Quella se- po avanti».
ra, quando spensero le luci, dissi all’albero: «Non sono una storpia, uscirò di qui... Non sono una storpia,
Meglio essere una dilettante
uscirò di qui...». Era un rituale privato: pregavo per
Sono stata scomunicata da tutte le scuola di muriavere le mie gambe. Non era Gesù né Dio che pre- sica. Mi avevano scomunicata da Nashville per aver
gavo. «Ti ripagherò», dicevo a qualcuno. Non so a portato un gruppo jazz: pensavano fossi una cantanchi. Forse all’albero? «Ti ripagherò. Tu fammi solo te country o folk finché non mi sono messa a fare
uscire di qui. Fammi riavere le mie gambe». Un an- quella che chiamavano musica pop — che è semplino dopo, finalmente, mi alzai per davvero e cammi- cemente la mia musica con l’accompagnamento di
navo abbastanza bene, così mi lasciarono tornare a una band. Poi, quando ho iniziato a lavorare con mucasa. Mantenni la promessa. Quando mi chiesero di sicisti jazz, ci cacciavano via perché eravamo un
entrare nel coro della chiesa, dissi di sì. Avevo già ibrido. Ma l’ibridazione è l’unica strada che condupartecipato alle prove due o tre volte quando una ce a qualcosa di nuovo. Fino all’uscita di Court and
bambina portò un pacchetto di sigarette e ce ne an- Spark non mi passavano alle radio perché nei miei
dammo tutti giù al laghetto prosciugato della chie- pezzi non c’era la batteria. Allora ci ho messo la batsa e ce le passammo. Una bambina vomitò. Tutto teria, e quando ho avuto un po’ di passaggi radiofoun gran tossire. Io feci un tiro e pensai: «Ma è fanta- nici all’improvviso era tutto troppo jazz e quando
stico!». Fumo da allora, da quando avevo nove anni. ho fatto Mingus mi hanno detto: «Con un disco del
genere ti taglieranno fuori da tutte le radio». In questa società di specialisti, il mio destino è quello di esEcco, fa proprio come Bob
Quella foto di noi due che ci abbracciamo al festi- sere considerata una dilettante.
val del folk di Newport... Leonard (Cohen, ndr) suonò Suzanne. Ci eravamo incontrati e io gli feci:
E alla fine arrivò il successo
«Quella canzone la adoro. È un gran pezzo». DavveA un certo punto ho avuto difficoltà ad accettare
ro. Suzanne era una delle canzoni più belle che aves- la mia ricchezza e il mio successo, persino esprimersi mai sentito. Perciò ero tutta fiera di incontrare li mi sembrava una cosa di cattivo gusto. Avevo anun vero artista. Mi fece sentire piccola, perché ascol- cora l’idea stereotipata che il successo avrebbe guatando la sua canzone pensai: «Caspita. Al confronto stato il talento, che il lusso mi avrebbe fatto adagiatutti i miei pezzi sembrano così ingenui». Mi sem- re troppo e accomodare troppo e che il mio dono ne
brava che lui fosse molto più raffinato. Così gli dissi: avrebbe risentito. Poi però ho scoperto che ero in
«Devo leggere un po’ di libri», e lui fece: «Che libri?» grado di esprimere questa cosa nei miei testi. Per
«Be’, sento sempre parlare di libri, e mi è rimasto il esempio: “Stanotte ho dormito in un bell’albergo/
tarlo di essere una stupida perché tutti ne hanno Oggi sono andata a comprarmi dei gioielli”. Insomletti un sacco e io no. Dammi un elenco di cose da ma, l’unico modo in cui potevo far pace con me stesleggere». Lui disse: «Scrivi proprio bene per essere sa e la mia arte era dire: ora è così che vivo. Arrivo ai
una che non ha letto nulla. Magari è meglio che con- concerti in limousine. È un dato di fatto.
tinui così». Mi diede un elenco, tutti libri bellissimi:
Camus, Lo straniero; l’I Ching, che ho usato per tutEhi, volevate vedere la mia faccia?
ta la vita; Il gioco delle perle di vetro; Siddharta. Un
Ho cominciato a dipingere io le copertine dei
elenco meraviglioso. Purtroppo, però, in quello di miei album. Mi dicevano: «Ah, non metterci un quaCamus scoprii che Leonard aveva rubato delle frasi. dro. La gente vuole vedere la tua faccia. Si vendono
«Walk me to the corner, our steps will always...» è più copie con la tua foto in copertina. Sul primo diuna frase di Camus, testuale. E così pensai: ecco, fa sco insistevano per avere una foto, così ho preso un
mio disegno e ci ho messo al centro una foto col ficome Bob Dylan.
sh-eye. Per il secondo si sono impuntati che volevano la mia faccia, così ho dipinto l’autoritratto di
Io e te siamo troppo avanti
Quando mi resi conto che Bob e Leonard rubava- Clouds, in cui guardo dritto davanti a me. Volevate
no versi, rimasi molto delusa. Poi pensai che c’è vedere la mia faccia? Eccola qua, vi sta guardando.
qualcosa di moralista nel dire: tu sei un plagiario e
© Malka Marom, 2014 © Sur, 2016
io no. Anzi, Leonard si arrabbiò con me perché ave©RIPRODUZIONE RISERVATA
‘‘
QUANDO CONOBBI
LEONARD COHEN
MI SENTII PICCOLA
PERCHÉ ASCOLTANDO
LE SUE CANZONI PENSAI:
CASPITA, AL CONFRONTO
TUTTI I MIEI PEZZI
SEMBRANO COSÌ INGENUI
GLI FECI: DEVO LEGGERE
UN PO’ DI LIBRI. E LUI:
CHE LIBRI? PER ESSERE
UNA CHE NON LEGGE
LIBRI SCRIVI ABBASTANZA
BENE. MEGLIO
CHE CONTINUI COSÌ
,,
Repubblica Nazionale 2016-03-20
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 MARZO 2016
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Next. Grandi fratelli
Facebook sta individuando (casa per casa) i quattro miliardi di persone senza telefono e web
Tutto il mondo
(sarà) connesso
Come e perché anche gli ultimi finiranno nella rete
Q
JAIME D’ALESSANDRO
UEL CHE RESTA FUORI DELL’UMANITÀ, l’umanità com’era prima dell’avven-
to dei social network e degli smartphone. Al presente mancano all’appello in quattro miliardi: non usano il web né hanno il telefono e di loro
non sappiamo quasi nulla. Ma non per molto: sta per essere assemblata
una mappa ad alta risoluzione per individuarli e contarli, talmente
grande che per contenerla servirebbe l’equivalente di seicento computer portatili.
Parliamo di quattro miliardi di persone sui sette miliardi e mezzo di
abitanti sulla Terra. La maggioranza, che veste però i panni di una minoranza fuori dalla Storia. Sembrano nomadi delle steppe, come gli Sciti raccontati da Erodoto. Incidentalmente entravano in contatto con le
civiltà stanziali ed erano loro che, malamente e a singhiozzo, ne registravano la voce. Oggi essere al margine significa essere fuori dal flusso di informazioni che sta plasmando tutto. Forse lo ricorderete, nel 2012 si disse che quell’anno erano stati creati più dati che nei
precedenti cinquanta secoli. In realtà è poca cosa rispetto a quel che ci aspetta. Secondo la Cisco, il novanta per cento dei dati in circolazione sono stati prodotti dal 2014 a oggi. E sono pari a tre e mezzo zettabyte, che nel 2020 diventeranno quarantaquattro zettabyte. Già, lo zettabyte. Dice poco o nulla anche sapendo che è un numero a ventidue cifre. Basterà dire allora che equivale a centottanta milioni di
volte i documenti contenuti nella Biblioteca del Congresso a Washington. Ecco, è da questo flusso gi-
‘‘
GRAZIE AL DEEP
LEARNING
RIUSCIAMO
A TROVARE
LE ABITAZIONI
SCOLLEGATE
CON UN MARGINE
DI ERRORE
INFERIORE
ALLO 0,2%
YAEL MAGUIRE
CONNECTIVITY LAB
DI FACEBOOK
,,
gantesco che oggi sono ancora esclusi quattro miliardi di persone. Ma Facebook, con il suo progetto
Telecom Infra Project appena annunciato al Mobile World Congress di Barcellona, intende rimediare. Per farlo ricorre a uno dei linguaggi più antichi, quello delle mappe. In queste pagine, in anteprima, vi mostriamo un dettaglio (mappa n. 3)
della cartina degli insediamenti dove attualmente vive l’umanità non connessa. È una elaborazione di quindici miliardi di foto satellitari in alta risoluzione della DigitalGlobe, sulle quali gli algoritmi di Facebook hanno individuato tutte le case,
una a una, su un territorio che per vastità è settanta volte quello dell’Italia. In assenza di connessioni telefoniche mobili o fisse, solo le case possono
infatti rivelare la presenza di persone in aree del
pianeta che sappiamo essere popolate ma non
con altrettanta precisione. Iniziando dall’Asia
Centrale degli Sciti e dei Cimmeri.
«L’analisi è stata fatta dai computer grazie al
deep learning, l’apprendimento delle macchine,
Repubblica Nazionale 2016-03-20
la Repubblica
DOMENICA 20 MARZO 2016
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Grazie a un sistema di droni saranno mappate anche le popolazioni nomadi. Sogno o incubo?
reti neurali sintetiche che imparano a svolgere un
compito specifico riuscendo in questo caso a trovare le abitazioni con un margine di errore inferiore
allo 0,2 per cento», racconta Yael Maguire, a capo
del Connectivity Lab di Facebook. Singolare che il
risultato alla fine ricordi un’altra mappa ben più
antica, la vista dall’alto a volo d’uccello delle abitazioni di Çatalhöyük, villaggio anatolico del seimila avanti Cristo. Pittura rupestre considerata da
molti, ma non da tutti, fra i primi esempi di cartografia. Facebook in realtà parte da una costatazione pratica, anche se la sua mappa ha implicazioni
ben più profonde dell’uso per la quale è stata concepita. «Se vogliamo connettere tutta l’umanità»,
spiega Jay Parikh, a capo della divisone infrastrutture della multinazionale americana, «dobbiamo
trovare un modo per farlo che sia economicamente vantaggioso per le aziende di telecomunicazione. Nel mondo ci sono aree densamente popolate,
ma con centri abitati relativamente piccoli. Senza
una stima precisa e la dislocazione esatta degli
edifici è impossibile valutare quale sia la soluzione migliore per portare connettività. Sulla carta,
stando alle informazioni generiche che avevamo
fino a ieri, ogni operazione del genere rischiava di
essere un’operazione in perdita per un operatore.
Con il nostro aiuto, fornito gratuitamente, ora si
può valutare casa per casa. Capendo dove vale la
pena portare la fibra, dove un cavo di rame, dove
offrire la copertura con altri sistemi».
La prima rappresentazione dell’umanità non
connessa, trecentocinquanta terabyte che mostrano metro per metro venti paesi e i loro ventuno milioni di chilometri quadrati, nasce quindi
per convincere gli operatori telefonici a portare
banda lì dove non è mai arrivata, fornendogli tutto il sapere di Facebook in fatto di connessioni e
modelli di business. Fédéric Martel, nel suo
Smart: Inchiesta sulle reti, racconta di una gigantesca mappa interattiva nella sede del colosso Alibaba a Hangzhou: dodici metri per dieci dove in
tempo reale compaiono tutte le transazioni che
‘‘
SE VOGLIAMO
DAVVERO
CONNETTERE
TUTTA L’UMANITÀ
DOBBIAMO
TROVARE
UN MODO
CHE SIA
VANTAGGIOSO
PER LE AZIENDE
JAY PARIKH.
DIVISIONE
INFRASTRUTTURE
FACEBOOK
,,
vengono compiute sul sito di e-commerce per le
aziende fondato da Jack Ma. Ecco, grazie a Facebook fra qualche anno potremmo avere una mappa del genere, magari ancora più grande. Che, al
posto di ordini e acquisti, avrà tutti i movimenti e
gli scambi di dati fra oltre sette miliardi di persone. Non resteranno fuori nemmeno i nomadi, grazie a un sistema di droni alimentati da energia solare in grado di volare a diecimila metri di altezza
per tre mesi consecutivi in circoli di sei chilometri
offrendo a terra un’area di connessione mobile
3G con un raggio di cento chilometri. Satelliti di
bassa quota e a basso costo. Progetto simile a
Loon di Google, che usa invece palloni aerostatici.
«Le infrastrutture del cielo», le ha chiamate Rajan
Anandan, managing director per l’India di Google. Quando e se riusciranno, l’umanità a quel
punto sarà interamente connessa. Se sogno o incubo come descritto ne Il Cerchio di Dave Eggers,
lo lasciamo decidere a voi.
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la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 20 MARZO 2016
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Sapori. Selvatici
PRONTE A FAR
CAPOLINO ALLA FINE
DELLE GELATE, TANTO
POVERE QUANTO
SALUTARI, ECCO
COME ERBE, VERDURE
E BACCHE SPONTANEE
POSSONO TRADURSI
IN PIATTI SEMPLICI
E DI STAGIONE
DAI RAVIOLI
ALLE FRITTATE
E ALLE INSALATE
Into the wild. Asparagi
rucola, ortica e finocchietti
Domani è già primavera
«A
8
primizie
&
piatti
LICIA GRANELLO
L’appuntamento
Weekend all’insegna
dell’extravergine a Lecce,
fino a domani, con il premio
internazionale Biol, dedicato
alle produzioni biologiche.
Tema dell’anno, l’olivocoltura,
messa a dura prova nel Salento
dal batterio Xylella fastidiosa
sentenzia Pietro Leemann, uno dei più colti e visionari cuochi vegetariani in circolazione. «L’assenza di irrigazione rende i gusti netti e allo stesso tempo fini, i principi nutrizionali sono integri e si può meglio lavorare sui sapori originari,
tanto che perfino l’amaro riesce gradevole e interessante». Il primo giorno di primavera è una finestra che si spalanca sul mondo delle verdure. Un tempo si chiamavano
primizie, con tanto di negozi così battezzati per certificare l’amore incondizionato nei confronti di gemme e boccioli, baccelli in miniatura e foglioline, colori pastello e tenere consistenze che quasi non reggevano la cottura.
La sindrome da onnipotenza alimentare ha trasformato le primizie in sempreverdi più o meno artefatti, progettate nei laboratori e coltivate in serra, disponibili tutto l’anno e in tutti i formati, le stagioni vissute come un optional quasi fastidioso, acqua in quantità e terra strettamente indispensabile, tanta chimica
e poco sole. Così, erbe, verdure e bacche spontanee sono diventate l’ultimo avamposto di resistenza botanica a cui aggrapparsi per restituire senso al ritmo delle vegetazioni e resettare il collegamento ancestrale
tra corpo e natura.
L’agricoltura seriale odia profondamente le fioriture selvatiche, che impediscono l’omogeneità delle
monocolture e rallentano i raccolti meccanizzati. Basta un’occhiata per capire l’approccio agricolo di un
campo o di una vigna: dove non occhieggiano i papaveri e latita il tarassaco, erbicida ci cova.
e accordi con piccoli produttori virtuosi, ispirati in
Eppure, non occorre richiamarsi alle pozioni di entrambi i casi dai più rigorosi principi dell’agricolAmelia Fattucchiera che Ammalia — la pseudo in- tura biologica e biodinamica, regno incontrastato
namorata di Paperone — per sapere quanto le erbe delle erbe spontanee.
possano essere ammiccanti e tentatrici, tanto poveSe la passione per la natura solletica la vostra cure quanto golose e salutari. Per secoli, la cucina po- riosità botanica, comprate un buon manuale per
polare ha declinato ortica e mirto, cicoria e achillea, imparare a riconoscere le erbe e sperimentatelo sul
senape e acetosella con la stessa spudorata confi- campo, meglio se in compagnia di un amico esperdenza oggi destinata a spinaci e lattuga.
to, almeno all’inizio, per evitare sgradevoli sorprePiante resistenti al freddo, pronte a far capolino se al vostro stomaco.
alla fine delle gelate, capaci di crescere e ricrescere
In caso di scarsa pratica erboristica, prenotate
un taglio dopo l’altro, oppure da raccogliere un atti- un tavolo da “Joia”, il ristorante milanese di Pietro
mo prima di veder trasformati i germogli in foglie e Leemann, che raccoglie le erbe spontanee in Valle
gli steli in fusti. Una tavolozza di sapori intatti da Maggia (Canton Ticino) per preparare la sua vertradurre in piatti semplici, ma in grado di fissarsi in- sione di wild insieme agli asparagi bianchi (rigorodelebilmente nella memoria gustativa d’infanzia.
samente bio) e a una spuma soffice di aglio orsino
È il recupero di quegli stessi sapori ad animare la (appena sbucato dalla neve). Il sole vi bacerà in
ricerca gastronomica della ristorazione d’autore, fronte.
che oggi si traduce in orti a gestione personalizzata
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MO L’AGRICOLTURA NON ADDOMESTICATA»,
I mercati
TORINO
Mercato Contadino
Via Galliari-Piazza
Madama Cristina
MILANO
Mercato
Metropolitano
Via Valenza 2
VENEZIA
Mercato di Rialto
Capo
della Pescheria
Asparago
Il germoglio dell’antica
Persia (asparag)
a crescita spontanea
ha stelo sottile,
consistenza tenera,
gusto intenso,
venato d’amarognolo,
per la più primaverile
delle frittate
VERONA
Mercatino
dell’Arsenale
Piazza Arsenale
FIRENZE
Mercato
di Sant’Ambrogio
Piazza Ghiberti
ROMA
Mercato
di Campagna
Amica
Ex Mercato
Ebraico del Pesce
Via di San
Teodoro 74
NAPOLI
Mercato
del contadino
Parco Virgiliano
(Posillipo)
PALERMO
Sanlorenzo
Mercato
Via San
Lorenzo 288
La novità
Piatti improntati all’alimentazione
naturale ai tavoli di “Naturalmente
a Milano”, il nuovo locale aperto
dalla bio-azienda di miele
e conserve di frutta Rigoni
di Asiago. Nelle ricette,
verdure, erbe spontanee, latte
di pascolo e farine integrali
La ricetta.
Broccoli, carciofi, puntarelle: il mio orto
con gelatina di barbabietola e rafano
INGREDIENTI:
12 CIME DI CAVOLFIORI; 12 CIME DI BROCCOLI CALABRESI; 12 CIME DI PUNTARELLE
3 CUORI DI CARCIOFI TAGLIATI A SPICCHI; 12 CIMETTE DI CICORIA SELVATICA
PER LA GELATINA DI BARBABIETOLA:
150 G. D’ACQUA; 100 G. DI BARBABIETOLA; 2 G. DI SALE
5 G. DI ACETO BALSAMICO; 3 G. DI ACETO DI RISO
PER IL GELATO DI RAFANO:
1 L. DI LATTE; 9 TUORLI D’UOVO; 70 G. DI RAFANO GRATTUGIATO FINE
30 G. DI GLUCOSIO; 12 G. DI MIELE; 2 G. DI SALE
60 G. DI KUZU (ADDENSANTE NATURALE)
L’iniziativa
Il portale Life Gate ha lanciato
il progetto I Feel Food, per uno stile
alimentare sostenibile. A partire
dalla consapevolezza che il cibo
portato in tavola deve nutrire
anche la nostra Terra, vengono
suggeriti i comportamenti virtuosi
e le app per scegliere i cibi giusti
Papavero
Le foglie del rosolaccio
(rosa dei campi)
disposte a ventaglio,
vanno raccolte piccole,
prima della fioritura.
Tenere e delicate,
si immergono
in pastella
per farne frittelle
S
bollentare cavolfiori, carciofi e broccoli, lasciandoli
croccanti. Passarli in acqua e ghiaccio. Unire puntarelle e cicoria crude, condire con citronette alla senape.
Frullare gli ingredienti per la gelatina e passare al colino per
ottenere la base. Aggiungere 0,6 g. di agar agar per ogni 100
g. di base, bollire e versare su una placca calda. Tagliare la gelatina fredda con un coppa-pasta tondo. Per il gelato bollire
il latte, spegnere e lasciare in infusione mezz’ora il rafano. Filtrare e versare sulle uova, a fuoco lento unire gli
altri ingredienti, mantecare in gelatiera. Nel piatto:
un disco di gelatina, al centro il gelato, intorno le verdure.
LO CHEF
ERNESTO
IACCARINO
GUIDA LA CUCINA
DEL BISTELLATO
“DON ALFONSO”,
SANT’AGATA
DEI DUE GOLFI (NA),
DOVE I PIATTI HANNO
I COLORI E I SAPORI
DELL’ORTO
BIOLOGICO
DI FAMIGLIA,
TRA VERDURE
COLTIVATE ED ERBE
SPONTANEE
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la Repubblica
DOMENICA 20 MARZO 2016
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Re Redzepi
e la leggenda
del ritorno
alla natura
MASSIMO MONTANARI
Borragine
Pianta rustica,
resistente alla siccità.
Le foglie, dal colore
sgargiante, hanno
una sottile peluria
a ricoprirle.
Il gusto è fresco,
aromatico, ideale
come ripieno dei ravioli
Rucola
Fiori gialli e foglie
evidentemente dentellate
per la diplotaxis
tenuifolia, diuretica,
digestiva, ricca
di vitamine e sali
minerali. Il gusto
acceso arricchisce
zuppe e vellutate
Finocchietto
Diffuso lungo le zone
costiere, il foeniculum
vulgare ha proprietà
stimolanti, digestive
e anti-gonfiore.
Le foglie, tenere
e filiformi, profumano
la siciliana pasta
con le sarde
Senape
Le foglie di sinapis
arvensis vantano
un’originale sapore
dolce-amaro,
con finale lievemente
piccante (meno intenso
dei semi). Ottime
spadellate con aglio,
olio e peperoncino
Fragoline
Ospiti del sottobosco
fino a duemila metri,
i frutti della fragaria
vesca sono ricchi
di vitamina C,
calcio e fosforo.
Per esaltarle, una goccia
di aceto tradizionale
balsamico
Tarassaco
Diuretico (da cui il nome
contadino “piscialetto”),
antinfiammatorio
e ricco di ferro,
il dente di leone
ha foglie dallo spiccato
accento amaro,
che rilevano il sapore
delicato dell’insalata
S
E AVETE AVUTO la fortuna di
mangiare al “Noma”, il
ristorante di René Redzepi a
Copenaghen che prima di
chiudere si è guadagnato il
primo posto nella classifica dei migliori
ristoranti del mondo, sapete di cosa
stiamo parlando. Queste classifiche sono
assurde (lo stesso Redzepi ha ammesso
che «sarebbe come decidere qual è il
colore più bello») ma il caso è
interessante, perché capovolge luoghi
comuni e modi di pensare che parevano
fuori discussione. Per esempio l’idea che
l’Europa del nord non abbia una cucina
degna di questo nome, anche per una
“naturale” ristrettezza di risorse
alimentari. La stessa intitolazione del
“Noma” — abbreviazione di “Nordisk
mad” che in danese significa “cibo
nordico” — è un manifesto per affermare
il contrario. Che un cibo del nord esiste, e
una cucina pure.
L’interesse di questa provocazione sta
nel rovesciamento di un paradigma
culturale che risale all’antichità. È il
paradigma della civiltà mediterranea,
cresciuta sull’idea che il lavoro agricolo e
la coltivazione della terra possano
“addomesticare” e migliorare la natura,
creando alimenti tanto più gradevoli e
raffinati quanto più lontani dallo stato
selvatico. Esattamente questa fu l’idea di
“civiltà” costruita nel Mediterraneo
antico: dar vita a ciò che in natura non
esiste. A cominciare dal pane, dal vino e
dall’olio, i tre grandi miti della civiltà
greca e romana.
Il modello culinario lanciato nei paesi
scandinavi — in Danimarca così come in
Norvegia e in Svezia — propone un mito di
segno opposto: un “ritorno alla natura”
che abbandoni l’artificio per la
spontaneità, il domestico per il selvatico,
il cotto per il crudo. Dalle cucine di Noma
uscivano bacche selvatiche e fiori, erbe e
radici del sottobosco, gamberetti di fiordo
serviti crudi o addirittura vivi, così come le
formiche raccolte fra le dune marine. Un
esercito di raccoglitori era stato reclutato
per rifornire il ristorante di Redzepi. Una
nuova idea di educazione alimentare si
proponeva di mostrare (anche ai
bambini) che “tutto è commestibile”:
basta saperlo riconoscere nell’ambiente
che ci circonda.
Una proposta non priva di
contraddizioni, come sempre accade
quando gli uomini optano per la natura
contro la cultura, facendolo però in modo
consapevole e ricercato, con una
mediazione intellettuale (culturale)
lontanissima dalla dimensione “naturale”
che si pretenderebbe di rievocare. Lo
stesso accadeva agli eremiti medievali,
quando sceglievano — per consapevole
scelta culturale — di vivere nella foresta
affidandosi alla provvidenza divina, cioè
alla natura, piuttosto che al lavoro, cioè
alla cultura. Che la storia sia il luogo delle
contraddizioni non crea certo stupore. In
ogni caso, l’esperimento di René Redzepi
resta un fenomeno di grande interesse,
che crea scompiglio nelle nostre certezze.
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L’incontro. Maestri
‘‘
NON CREDO
DI AVERE UNO STILE,
PIUTTOSTO
UN SISTEMA
DI STILI SFUGGENTI
CHE CONTINUANO
A SCAPPARE
DA OGNI PARTE
SONO CURIOSO,
QUESTO SÌ,
DI QUALSIASI TIPO
DI TRASFORMAZIONE
Tra le tante altre cose (poltrone, musei, lampade, piscine, stazioni...) è l’uomo che è riuscito a rendere famoso nel mondo persino
un cavatappi (e a dargli un nome: Anna G.). Ora, a ottantaquattro
anni, dopo aver vinto due volte il Compasso d’oro, diretto tre riviste, lavorato per i marchi più celebri, fondato movimenti culturali
e inventato concetti teorici, questo grande designer e architetto è
piuttosto nell’artigianato che confida le sue speranze: “Sì, perché
ormai è soltanto nel lavoro arti- chiamava il bel design. E in questa direzione si andava formando un movinon solo in Italia, intendiamoci, ma dall’Austria e fino a Los Angeles.
Fu in quel periodo e in quel contesto che mi chiesero di dirigere Casabella e fu
gianale che si può creare il pez- mento,
lì che cominciai a incontrare le persone che poi hanno formato il cosiddetto
Design Radicale. C’erano quelli di Archizoom: Andrea Branzi, Paolo DeganelMassimo Morozzi e altri ancora. C’erano Ettore Sottsass, Riccardo Dalisi,
zo unico, e quindi l’opera d’arte, lo,Gianni
Pettena. A Londra il gruppo degli Archigram, e poi anche Cedric Price, Buckminster Fuller. Ma mica solo architetti e designer, c’erano anche gli
Paolo Scheggi, Getulio Alviani...». Al piano di sotto il telefono squilla,
o almeno l’oggetto che più si av- artisti
sale Beatrice che lavora con lui da anni, c’è un’immagine da inviare al volo a
Domus che festeggia il numero mille. Mendini dà le indicazioni del caso e poi
sul filo di una vita che dalle riviste di architettura è stata scandita:
vicina all’arte. E in fondo è que- continua
dopo la direzione di Casabella, la direzione di Modo e poi, dal ‘79, proprio quella di Domus: «Diciamo che Casabella è stato il periodo del Contro Design, Modo, che era una rivistina piccola, è stato il periodo della Trasversalità, e Dosto quello che faccio io”
mus sicuramente il Postmoderno» sintetizza Mendini con la lucidità e la natu-
Alessandro
Mendini
CLOE PICCOLI
S
‘‘
MILANO
E NE STA SEDUTO AL SUO TAVOLO fra
libri, disegni, quadri, ceramiche e matite colorate in cima al soppalco del suo atelier, un intrico
di scale, balconcini e scalette tra Blade Runner e Piranesi, a due
passi da Porta Romana. Appoggiato a un cassettone del Settecento c’è un suo ritratto firmato da Mimmo Paladino. E poi ancora altri disegni, e lampade, incluse le ultime, quelle che ha progettato per un giovane imprenditore coreano. Blu, rosse e gialle sembrano luminose orbite planetarie.
Al piano di sotto c’è il suo laboratorio, simile a quello di un artigiano. Perché Alessandro Mendini, uno degli uomini che hanno inventato la cultura del
design contemporaneo, due volte vincitore del Compasso d’oro, creatore di
oggetti cult (è lui quello del cavatappi Anna G. di Alessi, 1994) e di vere e proprie icone del Postmoderno (dalla poltrona Proust, 1976, al Groninger Museum, 1984) pur continuando a lavorare per grandi aziende (prima Alessi,
ora Samsung e Swatch) a ottantaquattro anni è proprio nell’artigianato che
vede nuove potenzialità per il design. Occhiali rotondi, giacca tirolese, pantaloni di velluto a coste, spiega l’apparente paradosso: «Oggi il design industriale è quello di Apple, di Samsung e delle automobili. Quanto al design del mobile, se consideriamo che le aziende storiche sono ormai degli editori di pezzi in tiratura limitata, a livello industriale resta
Ikea che però, partita con un concetto interessante, da tempo
OGGI IL DESIGN INDUSTRIALE È QUELLO CHE FA APPLE
E I MOBILI SONO QUELLI FATTI (SEMPRE MENO BENE)
DA IKEA. E POI CI SONO I MAKERS, CONTROCULTURA
CONTEMPORANEA CHE PROGETTA E PRODUCE
GRAZIE ALL’USO DELL’ALTA TECNOLOGIA
non ha un alto livello progettuale. Poi ci sono i makers, una sorta di controcultura contemporanea che
progetta e produce con alta tecnologia virtuale. E infine c’è l’artigianato, forse l’ambito più interessante e
difficile da definire, perché è qui che si crea il pezzo
unico, l’opera d’arte, o comunque il pezzo che è borderline con l’arte. E questo è quello che faccio io. Le dico di
più: forse è proprio dalla grande tradizione artigianale, e
dai suoi valori antropologici, che si dovrà ripartire».
La storia del design Mendini inizia a scriverla nell’anno
1968, studio di Marcello Nizzoli, via Rossini 3, a Porta Venezia, Milano. «Quello era un momento molto particolare, c’era tutto
un sistema di contestazioni, da quelle studentesche a quelle sociali, che
in qualche modo si opponevano al consumismo, a quello che allora si
ralezza di chi quei concetti e quei movimenti li ha sostanzialmente inventati.
In questi giorni l’architetto e designer ha ben due libri in uscita, per Electa
un Codice Mendini e per Publimedia Scritti di domenica — «è l’unico giorno
in cui mi capita di stare in studio da solo e allora posso scrivere». Per raccontarsi parte dall’idea del Postmodernismo, di cui è uno dei protagonisti più interessanti. «Non credo di avere uno stile, semmai un sistema di stili sfuggenti, che continuano a scappare. Sono curioso delle trasformazioni dei metodi di
vita, delle arti, dei cambiamenti delle mentalità, inseguo sempre la logica della trasformazione che coniuga elementi nuovi e altri che appartengono ad altre epoche». Ha un’empatia speciale, che ti mette subito a tuo agio, la stessa
che si percepisce nei suoi oggetti e progetti. «È proprio questo il Postmodernismo, è il riconoscimento che la cultura è circolare o, meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse. Non ha il senso moderno dell’andare avanti
su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira attorno alle incertezze».
È la stessa cultura circolare che Mendini distilla in questo suo laboratorio
parlandoci di grandi utopie, di estetica, e poi di nuovi progetti, di amici, e naturalmente di designer e di architetti. Li ha conosciuti tutti, e tutti li ha invitati in una bella mostra che fece qualche anno fa al Triennale Design Museum.
Si intitolava Quali cose siamo. Già, quali cose siamo? Il design come identità:
«Nel ’68 il design era un grande progetto politico. Era l’utopia del socialismo
alla francese, con l’idea del falansterio, le grandi architetture comuni che
avrebbero unito vita e produzione, la fabbrica perfetta. Su questo versante
c’erano Paolo Deganello, Aldo Rossi, c’era Enzo Mari che sosteneva, come tutti noi, la nobiltà del gesto, del lavoro, del fare. Ognuno, poi, declinava l’utopia
a suo modo. C’era il monocromo di Branzi e c’era l’India di Sottsass». E intanto scorrevano gli anni Settanta con Archizoom, Superstudio, Archigram:
«Quelli di Archigram assomigliavano ai Beatles, e i Beatles riprendevano il
Decò, anche nei vestiti. Erano strani ma tirati, i Beatles intendo dire, e infatti
poi sono diventati Sir». Quindi gli anni Ottanta, quando Mendini fonda il
gruppo Alchimia: «È il periodo dei colori e di un nuovo progetto, sempre radi-
‘‘
IL POSTMODERNO È PROPRIO QUESTO.
È IL RICONOSCIMENTO CHE LA CULTURA
È CIRCOLARE O, MEGLIO, LABIRINTICA
CIOÈ CHE NON VA AVANTI SU UN’UNICA STRADA
MA GIRA ATTORNO ALLE INCERTEZZE
cale ma su un piano diverso. A quel punto non c’era più la destra e la sinistra,
iniziò un lavoro di corrosione tragicomica, un po’ da teatro dell’arte, un’occupazione dello spazio urbano in modo molto scenografico ma come fatto con
piccole endovenose».
E a proposito di spazio urbano, l’architetto milanese per l’estate prossima
sta preparando una mostra in uno degli appartamenti della Unité d’habitation di Le Corbusier, a Marsiglia. «L’intero edificio venne progettato dal
protagonista del Modernismo. Ma questo particolare appartamento, il
numero 50, era quello abitato dalla maestra dell’asilo, che era
amica di Le Corbusier che quando veniva a Marsiglia era sempre suo ospite. Dunque la casa è stata conservata in ogni dettaglio, e in più accuratamente restaurata. Ogni anno ospita
una mostra, e quest’anno toccherà a me. Sto lavorando ad alcune ceramiche negli otto colori con cui l’architetto francese realizzò il suo progetto». Il colore per Mendini è sempre stato importante, è evidente guardando i suoi oggetti sgargianti e luminosi. «L’ho assorbito in via Jan,
a casa dei miei zii, Antonio Boschi, ingegnere e diciamo così anche mio maestro di violino, e Marieda Di Stefano. Avevano una straordinaria collezione di quadri che
fu poi donata al Comune di Milano». È dal Cubismo, ma
anche da Steiner e dai colori pastello, e poi dal Puntinismo francese, e dai dipinti di Georges Seurat conservati
in quella casa oggi aperta al pubblico che Mendini arriverà più tardi alla famosa poltrona Proust, dipinta a mano e
con minuscole pennellate.
Ora però l’orologio multifunzione e multischermo che ha
disegnato per Samsung lampeggia insistentemente sulle
15.49. «Mi segnala se oggi mi sono mosso poco oppure abbastanza. Può
fare di tutto». Ride.
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