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Tornerà la Dolce vita? Reportage da una scuola
DIREPUBBLICA DOMENICA 20 MARZO 2016 NUMERO 575 Cult ROMA, LA FONTANA DI TREVI IN UN BOZZETTO REALIZZATO DAGLI ALLIEVI DEL TERZO ANNO DEL CSC PER LA SCENOGRAFIA DI “CINACITTÀ”, FILM MAI REALIZZATO DI MARCO PONTI Nuovo cinema Italia Tornerà la Dolce vita? Reportage da una scuola molto speciale GIUSEPPE VIDETTI C La copertina. Da Bansky a Ferrante, elogio dell’anonimato Straparlando. Gian Piero Bona: “La lunga vita di un poeta” I tabù del mondo. Amleto, l’uomo che non sa agire ROMA INECITTÀ È LÌ DI FRONTE. Giù in fondo i Castelli romani. In lontananza i pini dell’Appia Antica. Il Centro sperimentale di cinematografia, spietatamente razionalista, esageratamente basso, è incastrato nella periferia della capitale che una volta era campagna. Inaugurato dal Duce in persona nel 1935, ha compiuto ottant’anni. La città giovane lo guarda dall’alto di palazzi osceni e arroganti che lo tengono a distanza come un vecchio invalido. Invece quelle linee severe del Trenta, quei finestroni che Matisse avrebbe adorato, gli atri sconfinati e le aule immense (e il pi- PIERO TOSI no nel cortile, ottuagenario anch’esso) sono l’architettura più cool della Via Tuscolana. Ciak, si studia: al Centro si veniva a imparare, a Cinecittà a lavorare. Mica solo attori, soprattutto sceneggiatori, montatori, registi, costumisti, direttori della fotografia, tecnici del suono: attraversavano la strada e passavano dalla fabbrica al sogno. L’equazione era matematica, oggi non così scontata ma neppure disperata con registi come Rosi, Sorrentino e Garrone che stanno riportando il talento italiano nel mondo e una nuova legge che dovrebbe garantire un sostanziale potenziamento del credito per il cinema. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L al Centro sperimentale ci andai per tenere uno stage di poche settimane, e lì sono rimasto. Quel luogo è un’oasi di tale meraviglia, dall’architettura serena, bella, luminosa, mai triste: ogni volta che vi entro attraversando la rotonda che sta all’ingresso mi sento bene. E poi sono affascinato dal tipo di lavoro, dalla gioia che mi dà il poter stare vicino ai giovani, dalla piacevole scoperta — una volta ormai lasciato il cinema — che anche l’insegnamento potesse dare così tanta felicità. Chissà, a volte ci penso, forse se l’avessi immaginato prima non avrei neppure fatto il costumista. Non credo di avere un metodo particolaA PRIMA VOLTA re, e non so neppure cosa pensino di me i ragazzi — perché sono anche un pigro e a volte non racconto proprio niente, aspetto che siano loro a dirmi qualcosa, a parlarmi di un libro, o di un film. Ma del resto è solo insegnando che si impara, e non è un modo di dire, non è retorica, è proprio così. È vero. Certamente non posso paragonare questi tempi ai tempi miei. Ho avuto la fortuna di vivere una delle stagioni più belle del nostro cinema, con i registi più grandi, con attrici e attori che evocavano una bellezza non più cercata tra gli interpreti di oggi, spesso sciatti, a volte anche bruttini. Ma una cosa, comunque, non è cambiata: è la passione. E ce ne vuole tanta. >SEGUE NELLE PAGINE SUCCESSIVE L’attualità. Simone Moro o quel che resta da scalare L’officina. Nel magico mondo di Brian Selznick Spettacoli. Autoritratto di Joni Mitchell Next. Nessuno sfuggirà a Mister Facebook L’incontro. Alessandro Mendini che al design preferì l’artigianato Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 30 La copertina. Nuovo cinema Italia A Roma, di fronte alle vecchie glorie di Cinecittà, c’è il Centro sperimentale di cinematografia P GIUSEPPE VIDETTI <SEGUE DALLA COPERTINA ER DECENNI la gloria di Hol- lywood sul Tevere è stata appannata da troppe commedie e troppa tv, e gli allievi del Centro spesso hanno preso il volo verso mete più lontane: Hollywood, quella vera, tiene d’occhio le nostre maestranze. Da sempre. Perché qui si lavora sodo, s’impara molto, non ci sono gli specchietti per le allodole che accecano le orde pop dei talent, e l’annessa Cineteca Nazionale è uno straordinario centro di documentazione per chiunque s’inoltri nel labirinto del cinema senza voler procedere alla cieca. «Qui ne entrano sessanta all’anno, duecento nel triennio, più altri cento nelle sedi distaccate», spiega Caterina D’Amico, lady di ferro del cinema di sangue blu, figlia della sceneggiatrice Suso Cecchi, ora al terzo mandato come direttrice. «Non siamo alla ricerca del genio, ma di chi dalla scuola può trarre vantaggio. Il talento naturale scombina gli equilibri, l’autore solitario rischia sempre più spesso di essere fagocitato». Ricorda gli anni bui, quando arrivò al Centro — nel 1988, aveva quarant’anni — edifici inagibili, fuori norma, senza fondi né strutture. «La cosa più preziosa che avevo era la mia agenda telefonica» confessa, mentre sbircia sulla scrivania le date per le selezioni di aprile che apriranno le porte ai nuovi allievi del prossimo triennio. «Cominciai a succhiare idee dalle altre scuole, ma poi quanti talenti sono usciti da qui: Francesco Bruni (lo sceneggiatore di Virzì, Calopresti e Faenza), la scrittrice Melania Mazzucco, i registi Gianfranco Pannone e Francesco Costabile — il suo corto Dentro Roma (2006) è una delle cose più belle prodotte al Centro. I professionisti che si sono formati qui lavorano tutti, scenografi, montatori, costumisti, vengono a cercarli ancor prima che finiscano il corso». Non nomina gli attori, sebbene i corsi di recitazione siano i più affollati e richiesti. «Quasi la metà delle domande», conferma, «ma per loro il percorso è più accidentato. Sono motivatissimi, nonostante la tv glorifichi l’improvvisazione, una débâcle iniziata negli anni Ottanta: l’orgoglio dell’ignoranza. L’impegno, la conoscenza, lo studio non destano né rispetto né ammirazione. Il Divo è chi che ha avuto fortuna per caso. Il modello? Fabrizio Corona». Mostra con ragionevole orgoglio i magnifici bozzetti realizzati dagli allievi del terzo anno per la scenografia di Cinacittà, un film di Marco Ponti mai realizzato. Uno lo avete visto sulla copertina di questo servizio: immagini di una Roma bladerunnerizzata e divorata da cinesi, appena riconoscibili tra dragoni e pagode la Fontana di Trevi, il Colosseo, Piazza Navona, i magazzini Mas di Piazza Vittorio trasformati in una cavernosa, peccaminosa discoteca di lap dance. Lo sceneggiatore Stefano Grasso (Più buio di mezzanotte, la serie tv Non uccidere) arrivò al Centro da Torino dieci anni fa, ne aveva ventiquattro, l’aspetto di un giovane Pierre Clementi alla ricerca della sua Via Lattea. «Qui è ancora tutto possibile, puoi sognare di diventare il nuovo Ennio Flaiano o il nuovo Mastroianni, è l’attimo prima della linea d’ombra», dice in una pausa del corso in cui gli tocca l’ingrato compito di selezionare sei su dodici aspiranti scrittori, ora che è stato richiamato come docente. «In una Roma slabbrata, dove Via Veneto è un ricordo, dove Fellini e Rossellini non s’incontrano più e di osterie neanche l’ombra, la dolce vita si è rintanata nei salotti, e se un regista non t’invita a casa, l’unico posto dove puoi conoscerlo è qui». Grasso s’incatena agli studenti, s’immerge nelle storie che provano a inventare. Era un giovane presuntuoso Prossimamente su questi schermi quando tentò la prima volta — non fu scelto. Venne prese l’anno dopo, tanto determinato da risultare primo nelle graduatorie. «Avevo bisogno di quel bagno di umiltà», ammette, «non avevo capito l’importanza della bottega — Francesco Rosi assistente di Visconti che era stato assistente di Renoir. Il passaggio di testimone da una generazione all’altra. Ora, stando dall’altra parte, vedo nei miei allievi la stessa voglia di emergere che avevo io, come il Rastignac di Balzac che gridava “E ora a noi due!”, riferendosi al suo desiderio di conquistare Parigi. Non si fa cinema senza ambizione» . È un magico volo a ritroso dentro il Gattopardo quando nel tardo pomeriggio arriva Piero Tosi (novant’anni il prossimo 10 aprile, premio Oscar alla carriera, costumista di film come Rocco e i suoi fratelli e La caduta degli dei). Foulard al collo, passo incerto, lucidissimo e tagliente nei giudizi. Lo accompagnano su un set organizzato in team dai corsi di scenografia e di IL MAESTRO IL PREMIO OSCAR PIERO TOSI, COSTUMISTA DI “GATTOPARDO” E “ROCCO E I SUOI FRATELLI”, DURANTE UN SEMINARIO AL CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA fotografia. Gli basta uno sguardo per capire che «quei cuscini sono troppo bianchi, il damasco del fondale inadeguato, il divanetto sbagliato. Tutto troppo chiaro» . Sceglie un bozzetto dai colori inevitabilmente viscontiani. Nel teatro accanto, Eljana Popova introduce i ragazzi del secondo anno di recitazione al metodo Stanislavskij. Si lavora sull’Onegin di Puškin prendendo come traccia il film girato da Martha Fiennes nel 1999. Scambio delle parti frenetico, improvvisazioni a ruota Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica DOMENICA 20 MARZO 2016 31 Qui nascono i Mastroianni, i Tosi e i Visconti di domani. Siamo andati a vederli in anteprima Le lezioni I BOZZETTI UNA ALLIEVA DEL CORSO DI COSTUME DISEGNA IL VESTITO CHE SARÀ POI USATO DURANTE LE PROVE (FOTO GRANDE) LA SARTORIA AL CORSO DI COSTUME SI IMPARANO ANCHE LE TECNICHE DI SARTORIA TEATRALE: È IL MOMENTO DI CUCIRE IL VESTITO IL TRUCCO È IL MOMENTO DI PASSARE AL TRUCCO E PARRUCCO: DIRIGE IL PREMIO OSCAR PIERO TOSI (SEDUTO A SINISTRA) LA SCENA GLI ALLIEVI SISTEMANO LE LUCI E LA CARTA DA PARATI PER LA SCENOGRAFIA DEL SEMINARIO DI PIERO TOSI (FOTO GRANDE) GLI ATTORI TUTTI A TERRA PER LE PROVE RECITAZIONE: È LA LEZIONE PIÙ AFFOLLATA AL CSC, DOVE OGNI GESTO DIVENTA SOLENNE I FONICI A LEZIONE DI TECNICA DEL SUONO COL MAESTRO FEDERICO SAVINA (“LA VITA È BELLA”, “IO BALLO DA SOLA”) libera. Qualcuno in costume, altri in jeans e t-shirt. Tutti consapevoli che su un palcoscenico o davanti a una telecamera anche un gesto banale come sbottonarsi la camicia diventa solenne. Il chitarrista accenna un’aria, la cantante intona una malinconica, straziante Tonada de luna llena. «Cercate tra tante persone una che vi accarezzi l’anima. Pensate a tutto ciò che avete sognato di avere, a un amore che non c’è», li incita la Popova. Dal caos, miracolo, prende forma una scena, poi un’altra — non c’è confine tra esultanza e struggimento. L’arte eleva e purifica, ne hai la certezza ammirando quella dozzina di attori che brancolano nel cubo nero. Creativamente esaltante. Commovente. La Popova non si lascia incantare, li aggredisce: «Tutto qui? E Puškin dov’è finito?». Pausa. I ragazzi sciamano nel corridoio. Anche Samuele Picchi, ventiduenne di Empoli, non ha desistito dopo la prima eliminazione e si è ripresentato l’anno dopo. «Il mio futuro? Il teatro. Potessi, camperei solo di teatro», dice superbo nella sua finanziera di scena. Anna Manuelli, vent’anni di Firenze, e Maria Vittoria Casarotti Todeschini, venticinque di Padova, la pensano come lui: «Di questo vogliamo vivere. Non sapremmo immaginarci in nessun altro mestiere». Ma Mario Grossi, che tiene un laboratorio sul cinema di Fellini, frena: «Gli attori hanno un grande limite rispetto agli altri allievi del Centro, sono costantemente proiettati verso prevalentemente maschile, mentre oggi sono le ragazze le più numerose. E sento il sacrificio di tante di loro che, dovendo pagare una retta abbastanza elevata, magari lavorano fino a tarda notte in qualche ristorante, e poi la mattina vengono comunque a scuola, e i loro racconti mi riempiono di gioia e di tristezza. La selezione è dura, ma deve esserlo, perché quello del cinema non è un mestiere per tutti. Ci devi essere portato, ci vuole il talento e ci vuole l’amore, ed entrambi occorre averli tanto per il costume da indossare che per il personaggio che dovrà indossarlo. Dopo tre anni di scuola molti dei miei allievi oggi lavorano, magari alcuni in piccoli film, ma vanno comunque avanti. E non so proprio dire se arriverà il giorno in cui eguaglieremo quella stagione passata e così grande, ma sono ottimista: nonostante tutto il nostro cinema resiste, e tra i divertimenti è forse il solo irrinunciabile. (Piero Tosi, costumista, ha ricevuto nel 2014 l’Oscar alla carriera. Testo raccolto da Maria Pia Fusco) l’esterno, e questo li distrae dall’impegno didattico. I miei hanno già tutti un’agenzia, un book pronto. Vivono nell’ansia di perdere l’occasione giusta, la parte in un filmone. Li esorto alla tenacia con le parole che mi disse Ronconi: “Non smettete di studiare, di essere curiosi. Fatica e mestiere”». Roberto Antonelli, che ha il delicato compito di formare quelli del primo anno al mestiere dell’attore, acconsente: «Io sono il cattivo sergente. Lo sanno, non offro certezze. È nel dubbio che devono cercare di acchiappare qualcosa». In fondo è sempre stato così, Pietro Germi si diplomò attore poi trionfò da regista. Ado Hasanovic, ventinove anni, bosniaco, terzo anno del corso di regia, era già un fenomeno quando si è presentato al Centro con il corto Mama, premiato con la Golden Apple al BH New York Film Festival nel 2014. L’angelo di Srebrenica, come lo chiamano (ha perso molti familiari durante l’assedio del 1992-1995), si è iscritto al Centro dopo tre anni alla Sarajevo Film Academy. «Devo imparare di più per fare grande cinema. Sono infatuato del neorealismo, farò il regista, nessun piano B, pronto per il primo lungometraggio. Il mio sogno? Fare film che siano un ponte tra i Balcani e il resto del mondo — la cultura vince su tutto, null’altro può compensare le nostre mancanze, non la religione né il nazionalismo, lo dice la Storia» . ©RIPRODUZIONE RISERVATA ©RIPRODUZIONE RISERVATA Non è un mestiere per tutti PIERO TOSI U <SEGUE DALLA COPERTINA N TEMPO QUESTO ERA UN MESTIERE Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 32 L’attualità. Cime tempestose Ora che ha conquistato il Nanga Parbat Simone Moro lancia la sua nuova sfida: “Basta con gli ottomila. A settemila metri ci sono cento vette ancora da scalare” Q DARIO CRESTO-DINA BOLZANO UANDO CAMMINI IN MONTAGNA il primo consiglio che ti viene dato è di appoggiare dalla punta al tacco la pianta dello scarpone sul sentiero. Il piede deve sentire la terra, come se volesse imprimervi ad ogni passo la sua orma netta, precisa. È il primo allenamento alla pazienza, intesa come il patire che verrà ma il cui fardello è opportuno rimandare quanto più sarà possibile. Sali lentamente, ti dicono, non farti sedurre dalle scorciatoie e dall’ambizione. Sii umile. Non tagliare il pendio, affidati alla semplicità perché nelle cose semplici troverai più di quanto puoi immaginare. È la cassetta degli attrezzi che ci dobbiamo portare dietro dalla prima pietra fino all’ultima montagna. A Simone Moro la cassetta venne consegnata quando aveva tredici anni alla base di una palestra di roccia naturale di Selvino, un paese che non raggiunge i mille metri di altitudine, appena sopra la val Seriana. Quella parete è un torrione di cinquanta metri chiamato la Cornagera. Nel dialetto bergamasco significa roccia e ghiaia. «Era il mio Everest. Avevo un martello, avevo dei chiodi, ero legato a una fune, era una domenica pomeriggio illuminata dal sole. La dea di cui mi ero invaghito aveva accolto il mio amore, mi sentivo corrisposto». Andava a scuola dai preti. La Casa dello studente, proprietà della curia, un potere immenso a Bergamo, 430 allievi, tutti maschi, campetto di calcio e tavolo per il ping pong. Racconta Emilio Previtali che fu suo compagno alle medie: «In classe Simone non parlava con nessuno, non ci sembrava per nulla simpatico». Combatteva la solitudine isolandosi. «Mi piaceva giocare da solo, invece di andare alle feste di compleanno mi nascondevo nel bosco. Era la mia savana. Costruivo case sugli alberi e ponti di corde, risalivo torrenti scalzo fino a farmi congelare le dita dei piedi». Non era bello né ricco, portava gli occhiali da miope, le ragazze non lo filavano, ma aveva fame. «E avevo una fede, volevo diventare un grande alpinista anche se a sbarrarmi il mio già limitato orizzonte c’erano le prealpi Orobie, robetta di 2500 metri. Me le sarei andate a cercare, le montagne vere, come aveva fatto Walter Bonatti». L’infatuazione era cominciata sei anni prima. Vacanze nelle Dolomiti con mam- ma Teresa, casalinga, e papà Franco, impiegato di banca, ex campione italiano di ciclismo su strada, categoria amatori. Le tre settimane in campeggio, prima tenda e poi roulotte, erano interminabili, sprofondate nella noia. Avevi voglia di scarpinare per gite ai laghi e dell’andar per funghi, il rito domestico con il quale si riempiva il tempo lo portò su una ferrata in fila con i turisti in pedule, sotto il profilo arcano della Tofana e del Cristallo. Cominciò a raccogliere e conservare le cartoline di scalatori appesi a un costone o con il primo piano dei loro volti bruciati. Rientrato a Bergamo si fece regalare dalla madre un poster di Messner e lo appese sopra il letto, poi fu la volta dei suoi libri, Reinhold diventò il suo Jack London. A sedici anni gli scrisse una lettera: «Lo invitavo a ripetere con me la via del Sass d’la Crusc in Val Badia, un passaggio dolomitico di ottavo grado che Messner aveva aper- L’ultima montagna Le vette conquistate Prima salita: 29 maggio 1953 Hillary e Norgay Prima salita invernale: 17 febbraio 1980 Wielicki e Cichy Prima salita: 31 luglio 1954 Compagnoni e Lacedelli Prima salita: 11 gennaio 1955 Band e Brown Prima salita invernale: 11 gennaio 1986 Wielicki e Kukuczka Prima salita: 18 maggio 1956 Luchsinger e Reiss Prima salita invernale: 31 dicembre 1988 Wielicki Prima salita: 15 maggio 1955 Couzy e Terray Prima salita invernale: 9 febbraio 2009 Moro e Urubko Prima salita: 19 ottobre 1954 Loechler,Tichy e Dawa Lama Prima salita invernale: 12 febbraio 1985 M. Pawlikowski e M. Berbeka Prima salita: 13 maggio 1960 Diemberger, Schelbert, Dorje e Forrer Prima salita invernale: 21 gennaio 1985 Czok, Kukuczka Prima salita: 9 maggio 1956 Imanishi e Norbu Prima salita invernale: 12 gennaio 1984 Berbeka e Gajewski Prima salita: 26 febbraio 1953 Buhl Prima salita invernale: 26 febbraio 2016 Moro, Ali Sadpara e Txikon Prima salita: 3 giugno 1950 Herzog e Lachenal Prima salita invernale: 3 febbraio 1987 Kukuczka e Hajzer Prima salita: 5 luglio 1958 Kauffman e Schoening Prima salita invernale: 9 marzo 2012 Bielecki e Golab Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica DOMENICA 20 MARZO 2016 33 Dalla parte del portatore nepalese to assieme al fratello Gunther». Messner gli rispose declinando cortesemente l’offerta. Era ormai un alpinista, non più un rocciatore. Gettarono i primi semi di un’amicizia. «Se a Bonatti ho rubato la consapevolezza che puoi inseguire l’idea delle grandi altezze anche se sei nato in una cantina nel posto più basso del mondo, da Messner ho appreso la professionalità del mestiere. Il successo e la notorietà non mi sono mai interessati, con la montagna ci volevo mangiare». La prosa scaccia la poesia. C’è riuscito a procacciarsi il cibo e molto altro, e sono pochi ad averlo fatto, è sufficiente pensare che solo il Nanga Parbat gli è costato settantamila euro. La semplicità porta con sé una serie di scelte. Scuole serali per lavorare la mattina. «In un’agenzia di pratiche automobilistiche prima, poi nel disgaggio dei paravalanghe». Imbrigliava crostoni di montagna con maglie d’acciaio, guadagnava fino a 500mila lire al giorno, lasciò sul campo la falange di un dito. La laurea in scienze motorie, una vita tra Bergamo, Bolzano — il luogo del cuore e quello dell’efficienza — e l’Himalaya, portare a scuola i figli Martina di diciassette anni e Jonas di sei, dare retta alla preveggenza sciamanica e onirica della moglie Barbara, la donna del sesto senso, che gli dice lascia stare il K2, Simone: «Ho fatto un sogno e nel sogno non tornavi». Meglio non andare a controllare, smorzare il desiderio come si fa con la fiamma della candela, riempire l’anima con il valore della rinuncia. «Perché la montagna non è per i solitari, le nostre mani sono fatte per stringere altre mani». Arrendersi è un gesto di generosità prima di tutto verso se stessi. È il potere della sopravvi- IL PROTAGONISTA SIMONE MORO, 48 ANNI, DURANTE UNA SCALATA SUL GASHERBRUM II NEL 2011 NELLA FOTO DI CORY RICHARDS E IN UN RITRATTO DI MATTEO ZANGA Prima salita: 9 giugno 1957 Wintersteller, Buhl, Schmuck, e Diemberger Prima salita invernale: 5 marzo 2013 Berbeka, Bielecki, Malek, Kowalski Prima salita: 7 luglio 1956 Moravec, Larch e Willenpart Prima salita invernale: 2 febbraio 2011 Moro, Urubko e Richards Prima salita: 2 maggio 1964 Ching, Yonten Chun-yen, Doji, Fuzhou, Trashi, Tien-liang, Doji, Tsung-yue, San Prima salita invernale: 14 gennaio 2005 Morawski, Moro venza. Sul Nanga Parbat, la montagna nuda in lingua indu, l’ha fatto Tamara Lunger, ventinove anni, un passato da atleta sugli sci, che lo scorso febbraio era con Moro, il basco Alex Txikon e il pachistano Alì Sadpara. Mancavano settanta metri alla cima quando si è fermata. «Non eravamo assieme in quel momento, ci eravamo parlati mezz’ora prima, eravamo tutti al limite delle forze. Mi sa che se arrivo lassù mi dovrete aiutare a scendere, mi ha confessato Tamara». Un pericolo troppo grosso, il profumo amaro della fine, il soffio della morte. Niente rabbia, non una lacrima. «Le ho spiegato che doveva essere orgogliosa di essere lì, alla quota che percorrono i jumbo. In montagna è fondamentale avere paura, la paura è il contachilometri dell’autoconservazione e la rinuncia è un virtuosismo». C’è un attimo in cui bisogna sforzarsi di capire che è giunta l’ora di smettere, quando scocca il cinquantanovesimo secondo. «Ho 48 anni, sono entrato nell’età giurassica dell’alpinismo. Me ne concedo altri quattro, non di più. Non voglio rischiare di sembrare patetico». Moro è alto un metro e 74 centimetri, pesa 69 chili, «non posso permettermi di veder comparire il numero 7 sulla bilancia», non fuma, non beve alcolici, si fa due ore di palestra ogni giorno e corre almeno 140 chilometri la settimana. Ma non basta, un giorno non basterà più. Su questo tema lo ha messo in guardia Mario Curnis, ottant’anni, con lui sull’Everest, un patrimonio d’ironia: «C’è un tempo per sognare e un tempo per prepararsi a morire». Grande carissimo maestro e amico, Curnis. Gli altri sono Nives Meroi, Hervé Barmasse, Silvio Mondinelli. E poi il polacco Adam Bielecki e il kazako Denis Urubko. La Compagnia del desiderio, per dirla con Tolkien. «Ho desiderato il Nanga Parbat come si può solo desiderare una persona. Non avevo mai provato un sentimento così profondo. Avevo già fallito in due precedenti tentativi, ma questa volta ero certo che ce l’avrei fatta. Potevo scriverlo il giorno in cui sono partito dall’Italia, mettere il foglio in una busta e consegnarla al notaio. Quando sono arrivato in vetta non ho esultato né pianto, né piantato una piccozza o preso un sasso per ricordo. Ce l’avevo fatta, tutta la vita mi ribolliva dentro lo stomaco: i miei sogni di bambino, la fatica, i sacrifici, le bufere, il dolore per la morte di mio padre e quella di tanti compagni. Ho sentito che ero arrivato al termine di un percorso Prima salita: 8 agosto 1786 Balmat e Paccard felice». C’era il silenzio della neve, il cielo freddo e iridato, un mondo pieno di stupori che scorrono come segni e lui era il fortunato che stava lì e poteva osservarli. Lo doveva ai suoi genitori che non gli avevano frantumato il sogno, alla famiglia che gli aveva lasciato lo spazio e sopportato il vuoto delle sue sconfinate assenze. Lo doveva a Messner che nel 1970 era salito lungo il versante opposto, il Rupal, una cattedrale di quasi cinque chilometri verticali, e che nella discesa aveva perso il fratello Gunther, 24 anni, trascinato via da una valanga. Sul Nanga Parbat Moro si trova a sfiorare lo dzi che porta al collo, un’agata fossile tibetana comprata nel 1997 da una vecchia signora in un villaggio sherpa, l’amuleto distintivo degli alpinisti himalayani che secondo la leggenda porta impressi sulla superficie gli occhi del Buddha. Nell’alpinismo dei super atleti, del marketing e degli affari, degli spot e dei reality tv, da quale montagna ci faremo perseguitare adesso? Proprio Reinhold Messner qualche tempo fa si è domandato dove si possa andare oggi «se anche le montagne più alte vengono attrezzate per le ascensioni turistiche di massa». Io ho avuto la fortuna, ha scritto l’alpinista altoatesino, di essere nato prima. Una risposta Moro crede di averla. I settemila, dice, sarà sufficiente scendere di qualche gradino, limare la presunzione: «Mentre ci sono quaranta persone che hanno fatto tutti i quattordici ottomila, non esiste ancora il principe dei settemila. A quella quota restano inviolate un centinaio di vette. Eppoi la parete Est del K2; sull’Everest la Fantasy Ridge che nessuno ha mai percorso; la traversata, senza ossigeno, delle quattro vette del Kangchenjunga; la cresta Nord del Lhotse; la diretta sulla parete nord-ovest dell’Annapurna; la traversata in Pakistan dal Gasherbrum II al Gasherbrum III». Ma nella sua mappa del tesoro sono indicate anche le vecchie Alpi, le ripetute su Marmolada e Civetta, il Bianco e il Cervino dei pionieri, la terribile parete Nord dell’Eiger che lo ha già respinto una volta «e che va fatta d’inverno, in velocità», la Norvegia e la Groenlandia. Ma l’ultima montagna sarà un ritorno. La più limpida di tutte, l’indimenticata perché indimenticabile. Mount Vinson, Antartide, 4892 metri. Un’alba e un tramonto in un anno. «La purezza del mondo. Troppo bella anche solo per guardarla». PAOLO RUMIZ G UARDATELO BENE. È un portatore nepalese-tipo. Smilzo, di sessanta chili. Ebbene, quell’uomo è capace di portare il doppio del suo peso dai quattro ai cinquemila metri di quota in un giorno solo, nutrendosi di una manciata di albicocche secche. Nessun grande alpinista occidentale ne sarebbe capace. Penso a questo e mi dico che la nuova frontiera dell’alpinismo è ritrovare l’umiltà dei suoi limiti. Una frontiera che non sta da nessuna parte, è dentro di noi. Ho arrampicato anch’io, quarant’anni fa. Ho aperto vie estreme con un grande alpinista triestino e so cosa significa sentirsi sperduti su un lenzuolo infinito di neve da ramponare o su una parete immensa giallo-grigia senza sapere cosa ci sarà dopo lo strapiombo. Ma poi ho smesso. Il mondo degli scalatori palestrati mi aveva stancato. Mi lasciava un grande vuoto, e l’impressione di non aver mai conosciuto il silenzio dell’Alpe. Ho smesso anche di leggere libri di montagna. Produzioni letterarie immense su scalate estreme, nelle quali l’unica cosa da notare era la ripetizione dell’io. Il fascismo era finito, ma c’era ancora quella cosa ridicola dell’uomo a torso nudo che mostra i muscoli alla montagna e le dice “Io ti vincerò”. E, troppo spesso, quelle spedizioni milionarie capaci di lasciarsi dietro solo immondizie e zero riconoscenza per i portatori di quota. Non ce n’era una tra le star di allora, e ce ne sono pochissime anche oggi, capaci di orientare, col loro carisma e la visibilità di cui godono, l’opinione pubblica verso un approccio all’Altissimo che non sia di saccheggio. La parola d’ordine è rimasta l’abbattimento del limite. Più veloce, più ripido, sempre più su, fino al settimo, ottavo, nono grado con prospettiva di arrivare al ventesimo salendo sui polpastrelli, senza scarpe, d’inverno e a testa in giù. Questa corsa verticale porta all’illusione blasfema che non vi siano più limiti, come accade per l’espansione del Pil e la bugia della crescita inarrestabile in un mondo dalle risorse in esaurimento. Ma a me che me ne importa di scalare vertiginose pareti himalayane se nel frattempo l’Appennino si desertifica e i ghiacciai scompaiono mostrando lo stato di sofferenza della Terra? A che mi serve andare in montagna se non per capire la mia nullità rispetto alla natura e il mio obbligo di difenderla? Basta con i superuomini. A me basta somigliare solo al più misero dei portatori nepalesi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Prima salita: 1 agosto 1855 Birkbeck, Hudson, Stevenson, Christopher e James G. Smyth Prima salita: 14 luglio 1865 Hudson, Whymper, Douglas, Hadow, Taugwalder e Croz Prima salita: 30 luglio 1859 Sainte Claire Deville, Dorsaz, Daniel, Emanuel e Gaspard Balleys ©RIPRODUZIONE RISERVATA Prima salita: 3 agosto 1811 Volken, Bortis, Hieronymous e Johann Rudolf Meyer Prima salita: 4 settembre 1860 Cowell, Dundas, Payot e Tairraz Prima salita: 11 agosto 1858 Barrington, Almer e Bohren Infografica a cura di Leonardo Bizzaro Fonti: “8000 metri di vita” di Simone Moro (Grafica & Arte); “On Top of the World. The New Millennium” di R. Sale, E. Jurgalski, G. Rodway (Snowfinch); “Mountaineering in Antarctica” di D. Gildea (Nevicata); “A est del romanticismo” di F. Torchio, R. Decarli (Accademia della Montagna del Trentino) Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 34 L’officina. Parole & immagini Quattrocento pagine di disegni, poi inizia il racconto È la formula scelta dall’autore del libro che ispirò Martin Scorsese. E che ora nella sua casa di Brooklyn ci spiega perché “è meglio vivere di fantasia che di realtà” La straordinaria invenzione di Brian Selznick “Così mischio Hugo Cabret Leonardo e Via col vento” B © 2007 BRIAN SELZNICK © 2007 BRIAN SELZNICK ANTONIO MONDA IL LIBRO “IL TESORO DEI MARVEL” DI BRIAN SELZNICK (MONDADORI, TRADUZIONE DI LOREDANA BALDINUCCI, 640 PAGINE, 18 EURO), DA CUI SONO TRATTE MOLTE DELLE IMMAGINI DI QUESTE PAGINE, SARÀ IN LIBRERIA DA MARTEDÌ 22. A SINISTRA, DUE DISEGNI DA “LA STRAORDINARIA INVENZIONE DI HUGO CABRET” SCRITTO DA SELZNICK NEL 2007 DA CUI IL FILM DI SCORSESE DEL 2011. A DESTRA UN AUTORITRATTO DELL’AUTORE NEW YORK RIAN SELZNICK È CONSAPEVOLE di avere il cinema nel sangue: il suo cogno- me è quello del leggendario produttore di Via col vento, cugino del nonno. Ma ha nel sangue anche la letteratura e il disegno: ogni suo progetto nasce dalla combinazione di queste passioni e dall’ibridazione di questi diversi linguaggi. Si tratta di una scelta di forma che riflette anche una questione di sostanza: le sue opere mescolano personaggi reali ad altri immaginari, all’interno di vicende romanzate che si sviluppano sullo sfondo di avvenimenti storici. Succede ancora una volta con Il tesoro dei Marvel che esce a otto anni di distanza da La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, adattato sullo schermo da Martin Scorsese, e a cinque da La stanza delle meraviglie, che sta per essere realizzato da Todd Haynes. Il libro ha una prima parte, lunga circa quattrocento pagine, sviluppata attraverso disegni, e una seconda, di circa duecentocinquanta, scritta secondo i canoni del romanzo. La storia, che segue per duecento anni la vicenda di una famiglia di teatranti chiamata Marvel, propone un ulteriore gioco di specchi: l’ambientazione principale è la Dennis Severs House, un’attrazione turistica londinese nella quale viene ricreata una immaginaria casa di lavoratori di seta ugonotti. Il libro si sviluppa attraverso grandi avvenimenti e sentimenti: si passa da un naufragio alla scoperta del teatro, dalle citazioni di Yeats e Shakespeare alla tragedia dell’Aids. Lo sguardo è incantato e umanista, e Il tesoro dei Marvel, definito dal Publisher Weekly «un vero e proprio capolavoro», farebbe certamente piacere al prozio produttore per la perfetta mescolanza di spettacolo e qualità, fantasia e realismo, professionalità e sentimento. Proveniente da una famiglia di ebrei lituani trapiantati nel New Jersey, Selznick ha scelto di vivere a Brooklyn, dove mi accoglie in una casa su due piani, nella quale spiccano una collezione di riproduzioni dell’Empire State Building, un teatro in miniatura, un ritratto di Truffaut, una raccolta di francobolli di mostri del cinema, il primordiale robot utilizzato da Scorsese in Hugo e molti cimeli di Houdini, al quale ha dedicato il suo primo libro. Sorridente e gentile, ci tiene a specificare subito che il nonno Ben non andava affatto d’accordo con il cugino produttore: «Una volta i parenti tentarono un riavvicinamento in occasione di un matrimonio», mi racconta mentre mi mostra un puzzle ispirato al libro, «ma i due rifiutarono persino di parlare, nonostante gli sforzi delle rispettive mogli, e in particolare di Jennifer Jones, che era sposata con lo zio David». Comunque qualcosina della tradizione familiare che ha formato la sua creatività c’è, giusto? «Non si sfugge alla famiglia, mai. Io sono cresciuto vedendo scorrere il mio cognome sullo Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica 35 DISEGNI © 2015 BRIAN SELZNICK DOMENICA 20 MARZO 2016 schermo prima di film mitici come Rebecca, Via col vento, Duello al sole». Come nasce “Il tesoro dei Marvel”? «Dalla voglia di scrivere qualcosa sulla Dennis Severs House, un posto che mi ha segnato indelebilmente. Mi aveva consigliato di visitarla un amico studioso di Whitman, e all’inizio credevo che si trattasse di una trappola per turisti. Poi ho capito che in quel luogo c’era qualcosa di unico, che mi toccava nel profondo: il fatto che un americano come me aveva dedicato la vita a quel progetto, tentando di capire e farlo rivivere, mentre mescolava il realismo con la fantasia». Il fascino per lo spettacolo è un tema ricorrente dei suoi libri. «Mi affascina la rappresentazione: non è un caso che sia anche un burattinaio. Mi diletto spesso con il mio piccolo teatro nel quale sono il regista, il costumista, lo scenografo e anche l’interprete: anche per questo ho voluto raccontare la storia di una famiglia di teatranti». Perché mescola realtà a episodi reali? «Immagino solo vicende possibili, ma ciò non significa che siano necessariamente false. Una delle più grandi emozioni della mia infanzia è stata vedere Il viaggio nella luna di Méliès. Certo, si tratta di una fantasia, ma ci sono molti elementi più belli di quelli reali, e mi chiedo cosa ci impedisca di viverli». È vero che ha studiato a lungo Leonardo Da Vinci? «Sì ne sono ossessionato, e ho anche realizzato alcuni disegni ispirati ai suoi capolavori, in particolare La Vergine delle Rocce». Ci sono altri modelli, nel suo lavoro? «Non oso definire Leonardo un modello. Per quanto riguarda le influenze penso ad artisti fantasy come Frank Frazetta e a un autore di poster cinematografici come Richard Amsel: il meraviglioso manifesto dei Predatori dell’arca perduta spiega meglio di ogni esempio l’i- ‘‘ IL PALCOSCENICO ERA ENORME, CON UN AMPIO SIPARIO ROSSO E ORO. CENTINAIA DI PERSONE ERANO SEDUTE SU POLTRONCINE DI VELLUTO ROSSO E IN PALCHETTI FILIGRANATI. FRANKIE INTERRUPPE CON IL MENTO: “RIESCI A CAPIRE CHE COSA STA SUCCEDENDO?” ‘‘ JOSEPH SI CONCENTRÒ SUL PALCOSCENICO E BEN PRESTO VENNE INTERAMENTE CATTURATO DALL’AZIONE. OSSERVÒ SBIGOTTITO LA STATUA DELLA REGINA SPALANCARE LE BRACCIA E ACCOGLIERE IL MARITO PENTITO QUANDO SI ALZARONO LE LUCI FU COME USCIRE DA UNO STATO DI TRANCE bridazione di realismo e fantasia». Perché ha definito questo romanzo come la terza parte di una trilogia? «Le vicende in realtà sono molto diverse, ma oltre alla mescolanza di realtà e finzione hanno in comune un tema per me fondamentale: l’idea di costruire una famiglia come vogliamo che sia, con persone che amiamo o semplicemente con amici, anche di età molto diversa. Penso sempre a quella scena notturna in Gioventù Bruciata nella quale, per poche ore, James Dean e Natalie Wood si illudono di creare la famiglia perfetta. Quando ho scritto Hugo non avevo affatto in mente una trilogia, né ho mai pensato di scrivere un libro partendo dal tema: a me interessano le emozioni». Il libro è diviso in due parti distinte. «Quando ho cominciato a farlo circolare, un amico regista mi ha detto che dopo quattrocento pagine di illustrazioni i ragazzi si sarebbero sentiti traditi dall’inizio improvviso di un libro di narrativa. Ho tentato di invertire i blocchi, ma poi ho capito che la riuscita della prima parte avrebbe dato sostanza alla seconda». È vero che in origine “Hugo” era un romanzo breve puramente narrativo? «Sì, ma a un certo punto ho capito che molte descrizioni potevano avvenire per immagini, cosa che è stata valida anche per questo ultimo libro. Anche in quel caso volevo trasmettere un’emozione, che Scorsese è riuscito a comunicare magistralmente nel film: la celebrazione del cinema, dei libri e degli archivi che li tramandano». Il motto della Dennis Devers House è “O vedi o non vedi”. «È quello che penso dei miei libri: io offro tutte le chiavi, ma sta al lettore poi interpretare». Si considera uno scrittore o un artista figurativo? «Un narratore di storie». ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 36 Spettacoli. Ladies of the canyon La ragazza con in testa Schubert e Miles Davis IL LIBRO “JONI MITCHELL - BOTH SIDES. CONVERSAZIONI SULLA VITA, L’ARTE, LA MUSICA”, A CURA DI MALKA MAROM (BIGSUR, TRADUZIONE DI FRANCESCO GRAZIOSI, 377 PAGINE, 20 EURO) È ORA IN LIBRERIA. NELLA PAGINA A DESTRA IL TESTO AUTOGRAFO DI “WOODSTOCK” (1970) GINO CASTALDO ancora di fatto sconosciuta, fu David Crosby, che la scoprì in un locale folk in Florida e se ne invaghì all’istante. Come molti altri dopo di lui. La leggenda racconta un episodio che la dice lunga sullo stupore provocato dalla giovane cantautrice. Sembra che Crosby, approfittando proprio del fatto che la ragazza fosse del tutto sconosciuta, si divertisse a invitare gli amici e solo dopo aver offerto generose dosi di marijuana chiedeva a Joni se gentilmente le andava di prendere la chitarra e suonare qualcosa. Lei ovviamente accettava e ogni volta puntualmente lasciava i presenti senza fiato. Perché Joni Mitchell era un prodigio, da ogni punto di vista, una cantautrice che aveva in testa Schubert e Miles Davis, con una mobilità vocale sorprendente, una scrittura audace e complessa, un talento esorbitante, raro anche in un’epoca in cui la musica sembrava la nuova polvere magica in grado di trasformare il pianeta e ogni giorno nascevano canzoni in grado di rimanere nella storia. A sentire lei oggi, con la rabbia che ha accumulato in anni di ingiustizie, turlupinature, cinismo dell’industria, solo il fatto di essere donna le ha impedito di essere considerata al pari, se non più, di Bob Dylan e Leonard Cohen. C’è un pizzico di presunzione è ovvio, ma è verissimo che all’epoca il mondo della musica era profondamente maschilista, e una donna così autorevole, indipendente, emancipata, un poco di imbarazzo lo creava. I musicisti però stravedevano per lei, ne erano soggiogati, le hanno dedicato molte canzoni, la più romantica delle quali, “Our house”, la scrisse Graham Nash creando il più delizioso quadretto domestico mai immaginato in campo rock. Lei fuggiva, prendeva il volo in continuazione, nomade dell’esistenza per natura e vocazione indomabile, convinta fino a oggi di essere soprattutto una pittrice, e questa inquieta personalità la trasferiva magistralmente nelle sue canzoni che sembravano sempre flussi cangianti, inafferrabili, mai realmente fermi, una dinamica che non casualmente ha affascinato anche alcuni grandi jazzman come Charlie Mingus che la spronò a spingere ancora oltre i suoi orizzonti. Fu grazie a lui che incise un disco intitolato appunto “Mingus”, un tributo meraviglioso, ma anche uno dei dischi dove si può percepire con maggiore forza la libera vertigine di cui è capace la canzone quando osa, quando non ha paura di volare, più in alto del cielo. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Joni Mitchell Autoritratto di signora I QUADRI LA COVER DI “LADIES OF THE CANYON” (1970) OPERA DI JONI MITCHELL COME ANCHE GLI ALTRI DIPINTI PUBBLICATI IN QUESTE PAGINE. DALL’ALTO IN SENSO ORARIO: “BOTH SIDES” 1 E 2 (1999); “TAMING THE TIGER” (1997); “WILD THINGS RUN FAST” (1981); “TURBULENT INDIGO” (1995) IMMAGINI © JONI MITCHELL, FOTOGRAFIA DI SHEILA SPENCE A PORTARLA IN CALIFORNIA, Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica DOMENICA 20 MARZO 2016 37 L’infanzia poverissima, la prima sigaretta, un grande amore e le due passioni più forti: musica e pittura. In un libro-intervista le confessioni della più sofisticata tra le ribelli H JONI MITCHELL ‘‘ SUL PRIMO DISCO INSISTEVANO PER AVERE UNA FOTO, COSÌ HO PRESO UN MIO DISEGNO E CI MISI AL CENTRO UNA FOTO COL FISH-EYE PER IL SECONDO SI SONO IMPUNTATI: VOLEVANO LA MIA FACCIA, COSÌ HO DIPINTO UN RITRATTO IN CUI GUARDO DRITTO DAVANTI A ME: ECCOLA LA MIA FACCIA, VI STA GUARDANDO ,, O VISSUTO LA FINE DELLA CIVILTÀ DELLE CARROZZE. L’acqua e il latte ce li conse- gnavano ancora con i cavalli, e a Natale arrivava un cumulo di pacchi sopra una slitta. In paese c’erano solo due negozi. Mio padre gestiva l’alimentari e il papà di Marilyn McGee l’emporio. Io e lei chiamavamo il catalogo di Simpsons-Sears (una catena di grandi magazzini, ndr) “il libro dei sogni”. Da bambina, quando avevo quattro o cinque anni, lo trovavo splendido. Ce ne stavamo sdraiate a pancia in giù a guardare ogni pagina, e in ciascuna sceglievamo il nostro articolo preferito: il nostro busto, il nostro seghetto o il nostro martello preferito. Siccome però razionavamo ogni cosa, quando tutti lo avevano letto diventava carta igienica. Perfino il sindaco, renditi conto, si puliva il culo con il catalogo di Simpsons-Sears. Tutta quella carta patinata a colori. Noi invece all’alimentari cercavamo di mettere da parte gli involucri delle arance. Le arance erano incartate in foglietti arancioni. Cercavamo di farne scorta per usarli come carta igienica. In paese non c’era una rete fognaria. Era come nel Klondike: marciapiedi di vo inserito una sua battuta, una cosa detta da lui, in legno e elettricità ma niente acqua corrente né ci- una delle mie canzoni. Ma per me quello non è un plagio. Si ruba dai libri o si ruba dalla vita. Con la visterne né gabinetti con lo scarico. ta è ammissibile, con i libri no. Questa è la mia perNon sono una storpia, non sono una storpia L’anno dopo mi presi la polio, e quando scopriro- sonale opinione. Non rubare dall’opera di qualcun no cos’avevo mi spedirono fuori dal paese, a cento altro, se no stai barando. Ruba dalla vita, quella è a chilometri di distanza. Quando mi fecero capire che disposizione di tutti, no? Una volta andai a cena con non avrei mai più camminato — non lo dissero mai Leonard. Era sempre difficile parlargli. Fra noi c’eapertamente, ma me lo lasciò intendere un signore ra stato un breve legame sentimentale, ma lui era che non avrebbe mai più camminato, un signore in così distaccato, così irraggiungibile. Non c’era un carrozzella — io non volli accettare quella sorte e gran rapporto al di fuori della camera da letto. Invemi dissi: «Non sono una storpia. Non sono una stor- ce per me doveva esserci di più. Perciò gli facevo un pia». Mi alzerò e camminerò, per Dio. «Non sono sacco di domande, per venirne a capo. Ricordo che una storpia... non sono una storpia...». Lo ripetevo a mi diceva: «Ah, Joni, che domande bellissime fai», un albero di Natale che mia madre aveva sistemato però poi era evasivo. Diventammo lo stesso amici, e nella stanza — l’unica volta che era venuta a trovar- ogni tanto lui si fermava a Laurel Canyon per venirmi. Mi aveva portato quell’alberello e se n’era anda- mi a trovare. Ma con il passare degli anni lo vidi semta. Mio padre invece non venne mai a trovarmi in pre meno, finché quella sera non andammo a cena ospedale. E intanto ero costretta lì, con il Natale alle e quasi non mi rivolse la parola. Io ero a disagio, per porte. Dato che eravamo contagiosissimi, dividevo la prima volta mi sembrava ci fosse dell’ostilità, e la stanza in un tendone fuori dall’ospedale con un gli chiesi: «Ma io ti piaccio?». Lui rispose: «Be’, cosa bambino di sei anni che stava sempre col muso lun- c’è da dire a una vecchia amante?». Io dissi: «È un go e non faceva che mettersi le dita nel naso. Un po’ un peccato. Dovrebbero esserci tante cose». E giorno mi avevano dato non so che cura e mi aveva- lui: «Sei tu quella a cui piacciono le idee». E io: «Se è no lasciato seduta sul bordo del letto, tutta storta, per questo tu non riesci quasi ad aprire bocca senza con le gambe paralizzate penzoloni. Arriva di corsa che ne esca fuori un’idea». Così, da allora, non ha una suora e mi dà della svergognata, mi spinge ver- fatto che dirmi: «Joni, io e te siamo troppo avanti». so la testiera del letto e mi copre le gambe. E io pen- Non ha mai più detto altro. «Joni, io e te siamo tropsai: «Che male c’è se mi vede le gambe?». Quella se- po avanti». ra, quando spensero le luci, dissi all’albero: «Non sono una storpia, uscirò di qui... Non sono una storpia, Meglio essere una dilettante uscirò di qui...». Era un rituale privato: pregavo per Sono stata scomunicata da tutte le scuola di muriavere le mie gambe. Non era Gesù né Dio che pre- sica. Mi avevano scomunicata da Nashville per aver gavo. «Ti ripagherò», dicevo a qualcuno. Non so a portato un gruppo jazz: pensavano fossi una cantanchi. Forse all’albero? «Ti ripagherò. Tu fammi solo te country o folk finché non mi sono messa a fare uscire di qui. Fammi riavere le mie gambe». Un an- quella che chiamavano musica pop — che è semplino dopo, finalmente, mi alzai per davvero e cammi- cemente la mia musica con l’accompagnamento di navo abbastanza bene, così mi lasciarono tornare a una band. Poi, quando ho iniziato a lavorare con mucasa. Mantenni la promessa. Quando mi chiesero di sicisti jazz, ci cacciavano via perché eravamo un entrare nel coro della chiesa, dissi di sì. Avevo già ibrido. Ma l’ibridazione è l’unica strada che condupartecipato alle prove due o tre volte quando una ce a qualcosa di nuovo. Fino all’uscita di Court and bambina portò un pacchetto di sigarette e ce ne an- Spark non mi passavano alle radio perché nei miei dammo tutti giù al laghetto prosciugato della chie- pezzi non c’era la batteria. Allora ci ho messo la batsa e ce le passammo. Una bambina vomitò. Tutto teria, e quando ho avuto un po’ di passaggi radiofoun gran tossire. Io feci un tiro e pensai: «Ma è fanta- nici all’improvviso era tutto troppo jazz e quando stico!». Fumo da allora, da quando avevo nove anni. ho fatto Mingus mi hanno detto: «Con un disco del genere ti taglieranno fuori da tutte le radio». In questa società di specialisti, il mio destino è quello di esEcco, fa proprio come Bob Quella foto di noi due che ci abbracciamo al festi- sere considerata una dilettante. val del folk di Newport... Leonard (Cohen, ndr) suonò Suzanne. Ci eravamo incontrati e io gli feci: E alla fine arrivò il successo «Quella canzone la adoro. È un gran pezzo». DavveA un certo punto ho avuto difficoltà ad accettare ro. Suzanne era una delle canzoni più belle che aves- la mia ricchezza e il mio successo, persino esprimersi mai sentito. Perciò ero tutta fiera di incontrare li mi sembrava una cosa di cattivo gusto. Avevo anun vero artista. Mi fece sentire piccola, perché ascol- cora l’idea stereotipata che il successo avrebbe guatando la sua canzone pensai: «Caspita. Al confronto stato il talento, che il lusso mi avrebbe fatto adagiatutti i miei pezzi sembrano così ingenui». Mi sem- re troppo e accomodare troppo e che il mio dono ne brava che lui fosse molto più raffinato. Così gli dissi: avrebbe risentito. Poi però ho scoperto che ero in «Devo leggere un po’ di libri», e lui fece: «Che libri?» grado di esprimere questa cosa nei miei testi. Per «Be’, sento sempre parlare di libri, e mi è rimasto il esempio: “Stanotte ho dormito in un bell’albergo/ tarlo di essere una stupida perché tutti ne hanno Oggi sono andata a comprarmi dei gioielli”. Insomletti un sacco e io no. Dammi un elenco di cose da ma, l’unico modo in cui potevo far pace con me stesleggere». Lui disse: «Scrivi proprio bene per essere sa e la mia arte era dire: ora è così che vivo. Arrivo ai una che non ha letto nulla. Magari è meglio che con- concerti in limousine. È un dato di fatto. tinui così». Mi diede un elenco, tutti libri bellissimi: Camus, Lo straniero; l’I Ching, che ho usato per tutEhi, volevate vedere la mia faccia? ta la vita; Il gioco delle perle di vetro; Siddharta. Un Ho cominciato a dipingere io le copertine dei elenco meraviglioso. Purtroppo, però, in quello di miei album. Mi dicevano: «Ah, non metterci un quaCamus scoprii che Leonard aveva rubato delle frasi. dro. La gente vuole vedere la tua faccia. Si vendono «Walk me to the corner, our steps will always...» è più copie con la tua foto in copertina. Sul primo diuna frase di Camus, testuale. E così pensai: ecco, fa sco insistevano per avere una foto, così ho preso un mio disegno e ci ho messo al centro una foto col ficome Bob Dylan. sh-eye. Per il secondo si sono impuntati che volevano la mia faccia, così ho dipinto l’autoritratto di Io e te siamo troppo avanti Quando mi resi conto che Bob e Leonard rubava- Clouds, in cui guardo dritto davanti a me. Volevate no versi, rimasi molto delusa. Poi pensai che c’è vedere la mia faccia? Eccola qua, vi sta guardando. qualcosa di moralista nel dire: tu sei un plagiario e © Malka Marom, 2014 © Sur, 2016 io no. Anzi, Leonard si arrabbiò con me perché ave©RIPRODUZIONE RISERVATA ‘‘ QUANDO CONOBBI LEONARD COHEN MI SENTII PICCOLA PERCHÉ ASCOLTANDO LE SUE CANZONI PENSAI: CASPITA, AL CONFRONTO TUTTI I MIEI PEZZI SEMBRANO COSÌ INGENUI GLI FECI: DEVO LEGGERE UN PO’ DI LIBRI. E LUI: CHE LIBRI? PER ESSERE UNA CHE NON LEGGE LIBRI SCRIVI ABBASTANZA BENE. MEGLIO CHE CONTINUI COSÌ ,, Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 38 Next. Grandi fratelli Facebook sta individuando (casa per casa) i quattro miliardi di persone senza telefono e web Tutto il mondo (sarà) connesso Come e perché anche gli ultimi finiranno nella rete Q JAIME D’ALESSANDRO UEL CHE RESTA FUORI DELL’UMANITÀ, l’umanità com’era prima dell’avven- to dei social network e degli smartphone. Al presente mancano all’appello in quattro miliardi: non usano il web né hanno il telefono e di loro non sappiamo quasi nulla. Ma non per molto: sta per essere assemblata una mappa ad alta risoluzione per individuarli e contarli, talmente grande che per contenerla servirebbe l’equivalente di seicento computer portatili. Parliamo di quattro miliardi di persone sui sette miliardi e mezzo di abitanti sulla Terra. La maggioranza, che veste però i panni di una minoranza fuori dalla Storia. Sembrano nomadi delle steppe, come gli Sciti raccontati da Erodoto. Incidentalmente entravano in contatto con le civiltà stanziali ed erano loro che, malamente e a singhiozzo, ne registravano la voce. Oggi essere al margine significa essere fuori dal flusso di informazioni che sta plasmando tutto. Forse lo ricorderete, nel 2012 si disse che quell’anno erano stati creati più dati che nei precedenti cinquanta secoli. In realtà è poca cosa rispetto a quel che ci aspetta. Secondo la Cisco, il novanta per cento dei dati in circolazione sono stati prodotti dal 2014 a oggi. E sono pari a tre e mezzo zettabyte, che nel 2020 diventeranno quarantaquattro zettabyte. Già, lo zettabyte. Dice poco o nulla anche sapendo che è un numero a ventidue cifre. Basterà dire allora che equivale a centottanta milioni di volte i documenti contenuti nella Biblioteca del Congresso a Washington. Ecco, è da questo flusso gi- ‘‘ GRAZIE AL DEEP LEARNING RIUSCIAMO A TROVARE LE ABITAZIONI SCOLLEGATE CON UN MARGINE DI ERRORE INFERIORE ALLO 0,2% YAEL MAGUIRE CONNECTIVITY LAB DI FACEBOOK ,, gantesco che oggi sono ancora esclusi quattro miliardi di persone. Ma Facebook, con il suo progetto Telecom Infra Project appena annunciato al Mobile World Congress di Barcellona, intende rimediare. Per farlo ricorre a uno dei linguaggi più antichi, quello delle mappe. In queste pagine, in anteprima, vi mostriamo un dettaglio (mappa n. 3) della cartina degli insediamenti dove attualmente vive l’umanità non connessa. È una elaborazione di quindici miliardi di foto satellitari in alta risoluzione della DigitalGlobe, sulle quali gli algoritmi di Facebook hanno individuato tutte le case, una a una, su un territorio che per vastità è settanta volte quello dell’Italia. In assenza di connessioni telefoniche mobili o fisse, solo le case possono infatti rivelare la presenza di persone in aree del pianeta che sappiamo essere popolate ma non con altrettanta precisione. Iniziando dall’Asia Centrale degli Sciti e dei Cimmeri. «L’analisi è stata fatta dai computer grazie al deep learning, l’apprendimento delle macchine, Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica DOMENICA 20 MARZO 2016 39 Grazie a un sistema di droni saranno mappate anche le popolazioni nomadi. Sogno o incubo? reti neurali sintetiche che imparano a svolgere un compito specifico riuscendo in questo caso a trovare le abitazioni con un margine di errore inferiore allo 0,2 per cento», racconta Yael Maguire, a capo del Connectivity Lab di Facebook. Singolare che il risultato alla fine ricordi un’altra mappa ben più antica, la vista dall’alto a volo d’uccello delle abitazioni di Çatalhöyük, villaggio anatolico del seimila avanti Cristo. Pittura rupestre considerata da molti, ma non da tutti, fra i primi esempi di cartografia. Facebook in realtà parte da una costatazione pratica, anche se la sua mappa ha implicazioni ben più profonde dell’uso per la quale è stata concepita. «Se vogliamo connettere tutta l’umanità», spiega Jay Parikh, a capo della divisone infrastrutture della multinazionale americana, «dobbiamo trovare un modo per farlo che sia economicamente vantaggioso per le aziende di telecomunicazione. Nel mondo ci sono aree densamente popolate, ma con centri abitati relativamente piccoli. Senza una stima precisa e la dislocazione esatta degli edifici è impossibile valutare quale sia la soluzione migliore per portare connettività. Sulla carta, stando alle informazioni generiche che avevamo fino a ieri, ogni operazione del genere rischiava di essere un’operazione in perdita per un operatore. Con il nostro aiuto, fornito gratuitamente, ora si può valutare casa per casa. Capendo dove vale la pena portare la fibra, dove un cavo di rame, dove offrire la copertura con altri sistemi». La prima rappresentazione dell’umanità non connessa, trecentocinquanta terabyte che mostrano metro per metro venti paesi e i loro ventuno milioni di chilometri quadrati, nasce quindi per convincere gli operatori telefonici a portare banda lì dove non è mai arrivata, fornendogli tutto il sapere di Facebook in fatto di connessioni e modelli di business. Fédéric Martel, nel suo Smart: Inchiesta sulle reti, racconta di una gigantesca mappa interattiva nella sede del colosso Alibaba a Hangzhou: dodici metri per dieci dove in tempo reale compaiono tutte le transazioni che ‘‘ SE VOGLIAMO DAVVERO CONNETTERE TUTTA L’UMANITÀ DOBBIAMO TROVARE UN MODO CHE SIA VANTAGGIOSO PER LE AZIENDE JAY PARIKH. DIVISIONE INFRASTRUTTURE FACEBOOK ,, vengono compiute sul sito di e-commerce per le aziende fondato da Jack Ma. Ecco, grazie a Facebook fra qualche anno potremmo avere una mappa del genere, magari ancora più grande. Che, al posto di ordini e acquisti, avrà tutti i movimenti e gli scambi di dati fra oltre sette miliardi di persone. Non resteranno fuori nemmeno i nomadi, grazie a un sistema di droni alimentati da energia solare in grado di volare a diecimila metri di altezza per tre mesi consecutivi in circoli di sei chilometri offrendo a terra un’area di connessione mobile 3G con un raggio di cento chilometri. Satelliti di bassa quota e a basso costo. Progetto simile a Loon di Google, che usa invece palloni aerostatici. «Le infrastrutture del cielo», le ha chiamate Rajan Anandan, managing director per l’India di Google. Quando e se riusciranno, l’umanità a quel punto sarà interamente connessa. Se sogno o incubo come descritto ne Il Cerchio di Dave Eggers, lo lasciamo decidere a voi. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 40 Sapori. Selvatici PRONTE A FAR CAPOLINO ALLA FINE DELLE GELATE, TANTO POVERE QUANTO SALUTARI, ECCO COME ERBE, VERDURE E BACCHE SPONTANEE POSSONO TRADURSI IN PIATTI SEMPLICI E DI STAGIONE DAI RAVIOLI ALLE FRITTATE E ALLE INSALATE Into the wild. Asparagi rucola, ortica e finocchietti Domani è già primavera «A 8 primizie & piatti LICIA GRANELLO L’appuntamento Weekend all’insegna dell’extravergine a Lecce, fino a domani, con il premio internazionale Biol, dedicato alle produzioni biologiche. Tema dell’anno, l’olivocoltura, messa a dura prova nel Salento dal batterio Xylella fastidiosa sentenzia Pietro Leemann, uno dei più colti e visionari cuochi vegetariani in circolazione. «L’assenza di irrigazione rende i gusti netti e allo stesso tempo fini, i principi nutrizionali sono integri e si può meglio lavorare sui sapori originari, tanto che perfino l’amaro riesce gradevole e interessante». Il primo giorno di primavera è una finestra che si spalanca sul mondo delle verdure. Un tempo si chiamavano primizie, con tanto di negozi così battezzati per certificare l’amore incondizionato nei confronti di gemme e boccioli, baccelli in miniatura e foglioline, colori pastello e tenere consistenze che quasi non reggevano la cottura. La sindrome da onnipotenza alimentare ha trasformato le primizie in sempreverdi più o meno artefatti, progettate nei laboratori e coltivate in serra, disponibili tutto l’anno e in tutti i formati, le stagioni vissute come un optional quasi fastidioso, acqua in quantità e terra strettamente indispensabile, tanta chimica e poco sole. Così, erbe, verdure e bacche spontanee sono diventate l’ultimo avamposto di resistenza botanica a cui aggrapparsi per restituire senso al ritmo delle vegetazioni e resettare il collegamento ancestrale tra corpo e natura. L’agricoltura seriale odia profondamente le fioriture selvatiche, che impediscono l’omogeneità delle monocolture e rallentano i raccolti meccanizzati. Basta un’occhiata per capire l’approccio agricolo di un campo o di una vigna: dove non occhieggiano i papaveri e latita il tarassaco, erbicida ci cova. e accordi con piccoli produttori virtuosi, ispirati in Eppure, non occorre richiamarsi alle pozioni di entrambi i casi dai più rigorosi principi dell’agricolAmelia Fattucchiera che Ammalia — la pseudo in- tura biologica e biodinamica, regno incontrastato namorata di Paperone — per sapere quanto le erbe delle erbe spontanee. possano essere ammiccanti e tentatrici, tanto poveSe la passione per la natura solletica la vostra cure quanto golose e salutari. Per secoli, la cucina po- riosità botanica, comprate un buon manuale per polare ha declinato ortica e mirto, cicoria e achillea, imparare a riconoscere le erbe e sperimentatelo sul senape e acetosella con la stessa spudorata confi- campo, meglio se in compagnia di un amico esperdenza oggi destinata a spinaci e lattuga. to, almeno all’inizio, per evitare sgradevoli sorprePiante resistenti al freddo, pronte a far capolino se al vostro stomaco. alla fine delle gelate, capaci di crescere e ricrescere In caso di scarsa pratica erboristica, prenotate un taglio dopo l’altro, oppure da raccogliere un atti- un tavolo da “Joia”, il ristorante milanese di Pietro mo prima di veder trasformati i germogli in foglie e Leemann, che raccoglie le erbe spontanee in Valle gli steli in fusti. Una tavolozza di sapori intatti da Maggia (Canton Ticino) per preparare la sua vertradurre in piatti semplici, ma in grado di fissarsi in- sione di wild insieme agli asparagi bianchi (rigorodelebilmente nella memoria gustativa d’infanzia. samente bio) e a una spuma soffice di aglio orsino È il recupero di quegli stessi sapori ad animare la (appena sbucato dalla neve). Il sole vi bacerà in ricerca gastronomica della ristorazione d’autore, fronte. che oggi si traduce in orti a gestione personalizzata ©RIPRODUZIONE RISERVATA MO L’AGRICOLTURA NON ADDOMESTICATA», I mercati TORINO Mercato Contadino Via Galliari-Piazza Madama Cristina MILANO Mercato Metropolitano Via Valenza 2 VENEZIA Mercato di Rialto Capo della Pescheria Asparago Il germoglio dell’antica Persia (asparag) a crescita spontanea ha stelo sottile, consistenza tenera, gusto intenso, venato d’amarognolo, per la più primaverile delle frittate VERONA Mercatino dell’Arsenale Piazza Arsenale FIRENZE Mercato di Sant’Ambrogio Piazza Ghiberti ROMA Mercato di Campagna Amica Ex Mercato Ebraico del Pesce Via di San Teodoro 74 NAPOLI Mercato del contadino Parco Virgiliano (Posillipo) PALERMO Sanlorenzo Mercato Via San Lorenzo 288 La novità Piatti improntati all’alimentazione naturale ai tavoli di “Naturalmente a Milano”, il nuovo locale aperto dalla bio-azienda di miele e conserve di frutta Rigoni di Asiago. Nelle ricette, verdure, erbe spontanee, latte di pascolo e farine integrali La ricetta. Broccoli, carciofi, puntarelle: il mio orto con gelatina di barbabietola e rafano INGREDIENTI: 12 CIME DI CAVOLFIORI; 12 CIME DI BROCCOLI CALABRESI; 12 CIME DI PUNTARELLE 3 CUORI DI CARCIOFI TAGLIATI A SPICCHI; 12 CIMETTE DI CICORIA SELVATICA PER LA GELATINA DI BARBABIETOLA: 150 G. D’ACQUA; 100 G. DI BARBABIETOLA; 2 G. DI SALE 5 G. DI ACETO BALSAMICO; 3 G. DI ACETO DI RISO PER IL GELATO DI RAFANO: 1 L. DI LATTE; 9 TUORLI D’UOVO; 70 G. DI RAFANO GRATTUGIATO FINE 30 G. DI GLUCOSIO; 12 G. DI MIELE; 2 G. DI SALE 60 G. DI KUZU (ADDENSANTE NATURALE) L’iniziativa Il portale Life Gate ha lanciato il progetto I Feel Food, per uno stile alimentare sostenibile. A partire dalla consapevolezza che il cibo portato in tavola deve nutrire anche la nostra Terra, vengono suggeriti i comportamenti virtuosi e le app per scegliere i cibi giusti Papavero Le foglie del rosolaccio (rosa dei campi) disposte a ventaglio, vanno raccolte piccole, prima della fioritura. Tenere e delicate, si immergono in pastella per farne frittelle S bollentare cavolfiori, carciofi e broccoli, lasciandoli croccanti. Passarli in acqua e ghiaccio. Unire puntarelle e cicoria crude, condire con citronette alla senape. Frullare gli ingredienti per la gelatina e passare al colino per ottenere la base. Aggiungere 0,6 g. di agar agar per ogni 100 g. di base, bollire e versare su una placca calda. Tagliare la gelatina fredda con un coppa-pasta tondo. Per il gelato bollire il latte, spegnere e lasciare in infusione mezz’ora il rafano. Filtrare e versare sulle uova, a fuoco lento unire gli altri ingredienti, mantecare in gelatiera. Nel piatto: un disco di gelatina, al centro il gelato, intorno le verdure. LO CHEF ERNESTO IACCARINO GUIDA LA CUCINA DEL BISTELLATO “DON ALFONSO”, SANT’AGATA DEI DUE GOLFI (NA), DOVE I PIATTI HANNO I COLORI E I SAPORI DELL’ORTO BIOLOGICO DI FAMIGLIA, TRA VERDURE COLTIVATE ED ERBE SPONTANEE Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica DOMENICA 20 MARZO 2016 41 Re Redzepi e la leggenda del ritorno alla natura MASSIMO MONTANARI Borragine Pianta rustica, resistente alla siccità. Le foglie, dal colore sgargiante, hanno una sottile peluria a ricoprirle. Il gusto è fresco, aromatico, ideale come ripieno dei ravioli Rucola Fiori gialli e foglie evidentemente dentellate per la diplotaxis tenuifolia, diuretica, digestiva, ricca di vitamine e sali minerali. Il gusto acceso arricchisce zuppe e vellutate Finocchietto Diffuso lungo le zone costiere, il foeniculum vulgare ha proprietà stimolanti, digestive e anti-gonfiore. Le foglie, tenere e filiformi, profumano la siciliana pasta con le sarde Senape Le foglie di sinapis arvensis vantano un’originale sapore dolce-amaro, con finale lievemente piccante (meno intenso dei semi). Ottime spadellate con aglio, olio e peperoncino Fragoline Ospiti del sottobosco fino a duemila metri, i frutti della fragaria vesca sono ricchi di vitamina C, calcio e fosforo. Per esaltarle, una goccia di aceto tradizionale balsamico Tarassaco Diuretico (da cui il nome contadino “piscialetto”), antinfiammatorio e ricco di ferro, il dente di leone ha foglie dallo spiccato accento amaro, che rilevano il sapore delicato dell’insalata S E AVETE AVUTO la fortuna di mangiare al “Noma”, il ristorante di René Redzepi a Copenaghen che prima di chiudere si è guadagnato il primo posto nella classifica dei migliori ristoranti del mondo, sapete di cosa stiamo parlando. Queste classifiche sono assurde (lo stesso Redzepi ha ammesso che «sarebbe come decidere qual è il colore più bello») ma il caso è interessante, perché capovolge luoghi comuni e modi di pensare che parevano fuori discussione. Per esempio l’idea che l’Europa del nord non abbia una cucina degna di questo nome, anche per una “naturale” ristrettezza di risorse alimentari. La stessa intitolazione del “Noma” — abbreviazione di “Nordisk mad” che in danese significa “cibo nordico” — è un manifesto per affermare il contrario. Che un cibo del nord esiste, e una cucina pure. L’interesse di questa provocazione sta nel rovesciamento di un paradigma culturale che risale all’antichità. È il paradigma della civiltà mediterranea, cresciuta sull’idea che il lavoro agricolo e la coltivazione della terra possano “addomesticare” e migliorare la natura, creando alimenti tanto più gradevoli e raffinati quanto più lontani dallo stato selvatico. Esattamente questa fu l’idea di “civiltà” costruita nel Mediterraneo antico: dar vita a ciò che in natura non esiste. A cominciare dal pane, dal vino e dall’olio, i tre grandi miti della civiltà greca e romana. Il modello culinario lanciato nei paesi scandinavi — in Danimarca così come in Norvegia e in Svezia — propone un mito di segno opposto: un “ritorno alla natura” che abbandoni l’artificio per la spontaneità, il domestico per il selvatico, il cotto per il crudo. Dalle cucine di Noma uscivano bacche selvatiche e fiori, erbe e radici del sottobosco, gamberetti di fiordo serviti crudi o addirittura vivi, così come le formiche raccolte fra le dune marine. Un esercito di raccoglitori era stato reclutato per rifornire il ristorante di Redzepi. Una nuova idea di educazione alimentare si proponeva di mostrare (anche ai bambini) che “tutto è commestibile”: basta saperlo riconoscere nell’ambiente che ci circonda. Una proposta non priva di contraddizioni, come sempre accade quando gli uomini optano per la natura contro la cultura, facendolo però in modo consapevole e ricercato, con una mediazione intellettuale (culturale) lontanissima dalla dimensione “naturale” che si pretenderebbe di rievocare. Lo stesso accadeva agli eremiti medievali, quando sceglievano — per consapevole scelta culturale — di vivere nella foresta affidandosi alla provvidenza divina, cioè alla natura, piuttosto che al lavoro, cioè alla cultura. Che la storia sia il luogo delle contraddizioni non crea certo stupore. In ogni caso, l’esperimento di René Redzepi resta un fenomeno di grande interesse, che crea scompiglio nelle nostre certezze. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-20 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 20 MARZO 2016 42 L’incontro. Maestri ‘‘ NON CREDO DI AVERE UNO STILE, PIUTTOSTO UN SISTEMA DI STILI SFUGGENTI CHE CONTINUANO A SCAPPARE DA OGNI PARTE SONO CURIOSO, QUESTO SÌ, DI QUALSIASI TIPO DI TRASFORMAZIONE Tra le tante altre cose (poltrone, musei, lampade, piscine, stazioni...) è l’uomo che è riuscito a rendere famoso nel mondo persino un cavatappi (e a dargli un nome: Anna G.). Ora, a ottantaquattro anni, dopo aver vinto due volte il Compasso d’oro, diretto tre riviste, lavorato per i marchi più celebri, fondato movimenti culturali e inventato concetti teorici, questo grande designer e architetto è piuttosto nell’artigianato che confida le sue speranze: “Sì, perché ormai è soltanto nel lavoro arti- chiamava il bel design. E in questa direzione si andava formando un movinon solo in Italia, intendiamoci, ma dall’Austria e fino a Los Angeles. Fu in quel periodo e in quel contesto che mi chiesero di dirigere Casabella e fu gianale che si può creare il pez- mento, lì che cominciai a incontrare le persone che poi hanno formato il cosiddetto Design Radicale. C’erano quelli di Archizoom: Andrea Branzi, Paolo DeganelMassimo Morozzi e altri ancora. C’erano Ettore Sottsass, Riccardo Dalisi, zo unico, e quindi l’opera d’arte, lo,Gianni Pettena. A Londra il gruppo degli Archigram, e poi anche Cedric Price, Buckminster Fuller. Ma mica solo architetti e designer, c’erano anche gli Paolo Scheggi, Getulio Alviani...». Al piano di sotto il telefono squilla, o almeno l’oggetto che più si av- artisti sale Beatrice che lavora con lui da anni, c’è un’immagine da inviare al volo a Domus che festeggia il numero mille. Mendini dà le indicazioni del caso e poi sul filo di una vita che dalle riviste di architettura è stata scandita: vicina all’arte. E in fondo è que- continua dopo la direzione di Casabella, la direzione di Modo e poi, dal ‘79, proprio quella di Domus: «Diciamo che Casabella è stato il periodo del Contro Design, Modo, che era una rivistina piccola, è stato il periodo della Trasversalità, e Dosto quello che faccio io” mus sicuramente il Postmoderno» sintetizza Mendini con la lucidità e la natu- Alessandro Mendini CLOE PICCOLI S ‘‘ MILANO E NE STA SEDUTO AL SUO TAVOLO fra libri, disegni, quadri, ceramiche e matite colorate in cima al soppalco del suo atelier, un intrico di scale, balconcini e scalette tra Blade Runner e Piranesi, a due passi da Porta Romana. Appoggiato a un cassettone del Settecento c’è un suo ritratto firmato da Mimmo Paladino. E poi ancora altri disegni, e lampade, incluse le ultime, quelle che ha progettato per un giovane imprenditore coreano. Blu, rosse e gialle sembrano luminose orbite planetarie. Al piano di sotto c’è il suo laboratorio, simile a quello di un artigiano. Perché Alessandro Mendini, uno degli uomini che hanno inventato la cultura del design contemporaneo, due volte vincitore del Compasso d’oro, creatore di oggetti cult (è lui quello del cavatappi Anna G. di Alessi, 1994) e di vere e proprie icone del Postmoderno (dalla poltrona Proust, 1976, al Groninger Museum, 1984) pur continuando a lavorare per grandi aziende (prima Alessi, ora Samsung e Swatch) a ottantaquattro anni è proprio nell’artigianato che vede nuove potenzialità per il design. Occhiali rotondi, giacca tirolese, pantaloni di velluto a coste, spiega l’apparente paradosso: «Oggi il design industriale è quello di Apple, di Samsung e delle automobili. Quanto al design del mobile, se consideriamo che le aziende storiche sono ormai degli editori di pezzi in tiratura limitata, a livello industriale resta Ikea che però, partita con un concetto interessante, da tempo OGGI IL DESIGN INDUSTRIALE È QUELLO CHE FA APPLE E I MOBILI SONO QUELLI FATTI (SEMPRE MENO BENE) DA IKEA. E POI CI SONO I MAKERS, CONTROCULTURA CONTEMPORANEA CHE PROGETTA E PRODUCE GRAZIE ALL’USO DELL’ALTA TECNOLOGIA non ha un alto livello progettuale. Poi ci sono i makers, una sorta di controcultura contemporanea che progetta e produce con alta tecnologia virtuale. E infine c’è l’artigianato, forse l’ambito più interessante e difficile da definire, perché è qui che si crea il pezzo unico, l’opera d’arte, o comunque il pezzo che è borderline con l’arte. E questo è quello che faccio io. Le dico di più: forse è proprio dalla grande tradizione artigianale, e dai suoi valori antropologici, che si dovrà ripartire». La storia del design Mendini inizia a scriverla nell’anno 1968, studio di Marcello Nizzoli, via Rossini 3, a Porta Venezia, Milano. «Quello era un momento molto particolare, c’era tutto un sistema di contestazioni, da quelle studentesche a quelle sociali, che in qualche modo si opponevano al consumismo, a quello che allora si ralezza di chi quei concetti e quei movimenti li ha sostanzialmente inventati. In questi giorni l’architetto e designer ha ben due libri in uscita, per Electa un Codice Mendini e per Publimedia Scritti di domenica — «è l’unico giorno in cui mi capita di stare in studio da solo e allora posso scrivere». Per raccontarsi parte dall’idea del Postmodernismo, di cui è uno dei protagonisti più interessanti. «Non credo di avere uno stile, semmai un sistema di stili sfuggenti, che continuano a scappare. Sono curioso delle trasformazioni dei metodi di vita, delle arti, dei cambiamenti delle mentalità, inseguo sempre la logica della trasformazione che coniuga elementi nuovi e altri che appartengono ad altre epoche». Ha un’empatia speciale, che ti mette subito a tuo agio, la stessa che si percepisce nei suoi oggetti e progetti. «È proprio questo il Postmodernismo, è il riconoscimento che la cultura è circolare o, meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse. Non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira attorno alle incertezze». È la stessa cultura circolare che Mendini distilla in questo suo laboratorio parlandoci di grandi utopie, di estetica, e poi di nuovi progetti, di amici, e naturalmente di designer e di architetti. Li ha conosciuti tutti, e tutti li ha invitati in una bella mostra che fece qualche anno fa al Triennale Design Museum. Si intitolava Quali cose siamo. Già, quali cose siamo? Il design come identità: «Nel ’68 il design era un grande progetto politico. Era l’utopia del socialismo alla francese, con l’idea del falansterio, le grandi architetture comuni che avrebbero unito vita e produzione, la fabbrica perfetta. Su questo versante c’erano Paolo Deganello, Aldo Rossi, c’era Enzo Mari che sosteneva, come tutti noi, la nobiltà del gesto, del lavoro, del fare. Ognuno, poi, declinava l’utopia a suo modo. C’era il monocromo di Branzi e c’era l’India di Sottsass». E intanto scorrevano gli anni Settanta con Archizoom, Superstudio, Archigram: «Quelli di Archigram assomigliavano ai Beatles, e i Beatles riprendevano il Decò, anche nei vestiti. Erano strani ma tirati, i Beatles intendo dire, e infatti poi sono diventati Sir». Quindi gli anni Ottanta, quando Mendini fonda il gruppo Alchimia: «È il periodo dei colori e di un nuovo progetto, sempre radi- ‘‘ IL POSTMODERNO È PROPRIO QUESTO. È IL RICONOSCIMENTO CHE LA CULTURA È CIRCOLARE O, MEGLIO, LABIRINTICA CIOÈ CHE NON VA AVANTI SU UN’UNICA STRADA MA GIRA ATTORNO ALLE INCERTEZZE cale ma su un piano diverso. A quel punto non c’era più la destra e la sinistra, iniziò un lavoro di corrosione tragicomica, un po’ da teatro dell’arte, un’occupazione dello spazio urbano in modo molto scenografico ma come fatto con piccole endovenose». E a proposito di spazio urbano, l’architetto milanese per l’estate prossima sta preparando una mostra in uno degli appartamenti della Unité d’habitation di Le Corbusier, a Marsiglia. «L’intero edificio venne progettato dal protagonista del Modernismo. Ma questo particolare appartamento, il numero 50, era quello abitato dalla maestra dell’asilo, che era amica di Le Corbusier che quando veniva a Marsiglia era sempre suo ospite. Dunque la casa è stata conservata in ogni dettaglio, e in più accuratamente restaurata. Ogni anno ospita una mostra, e quest’anno toccherà a me. Sto lavorando ad alcune ceramiche negli otto colori con cui l’architetto francese realizzò il suo progetto». Il colore per Mendini è sempre stato importante, è evidente guardando i suoi oggetti sgargianti e luminosi. «L’ho assorbito in via Jan, a casa dei miei zii, Antonio Boschi, ingegnere e diciamo così anche mio maestro di violino, e Marieda Di Stefano. Avevano una straordinaria collezione di quadri che fu poi donata al Comune di Milano». È dal Cubismo, ma anche da Steiner e dai colori pastello, e poi dal Puntinismo francese, e dai dipinti di Georges Seurat conservati in quella casa oggi aperta al pubblico che Mendini arriverà più tardi alla famosa poltrona Proust, dipinta a mano e con minuscole pennellate. Ora però l’orologio multifunzione e multischermo che ha disegnato per Samsung lampeggia insistentemente sulle 15.49. «Mi segnala se oggi mi sono mosso poco oppure abbastanza. Può fare di tutto». Ride. ©RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2016-03-20