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krit
PRESENTAZIONE
Attenzione!
Se sei alle medie o stai per andarci, questo diario è la tua
unica possibilità di uscirne vivo….
LEGGILO!
Dopo il primo anno di scuola media pensavi che il peggio
fosse passato?
Niente di più sbagliato! Ma per fortuna c’è l’Operazione
“Fatti una vita”…
«Rafe, il protagonista perfetto di questo libro perfetto per il
suo pubblico.» D di Repubblica
«Un romanzo perfettamente azzeccato.» Times
James Patterson è uno dei più grandi fenomeni editoriali
dei giorni nostri. Famoso tra gli adulti come autore di thriller
(pubblicati in Italia da Longanesi), è conosciutissimo tra i
ragazzi per le sue serie Witch & Wizard e Maximum Ride
(Editrice Nord). Nel 2010 è stato incoronato dai giovani
lettori americani come miglior autore dell’anno. I suoi libri
hanno venduto 270 milioni di copie nel mondo. Da qualche
anno Patterson è molto impegnato nelle scuole per la
promozione della lettura. Troverai i suoi consigli sul sito
www.salani.it
Chris Tebbets è autore di fantasy e libri d’avventura per
ragazzi.
Laura Park, fumettista e illustratrice, vive a Chicago con il
suo piccione domestico.
Per essere informato sulle novità
del Gruppo editoriale Mauri Spagnol visita:
www.illibraio.it
www.infinitestorie.it
Titolo dell’originale inglese
MIDDLE SCHOOL.
​MIDDLE SCHOOL GET ME OUT OF HERE
ISBN 978-88-6715-719-8
​T
​ raduzione di Paolo Antonio Livorati
Lettering italiano di Studio Plancton
Design di copertina: Alison Impey
Illustrazioni: Laura Park
foto (c) Ragnar Shmuck/Getty Images
Copertina (c) Hachette Book Group, Inc.
Copyright © 2013 Adriano Salani Editore S.p.A.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol
Milano
www.salani.it
Prima edizione digitale 2013
Quest’opera è protetta dalla legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche parziale, non autorizzata.
Be’, chi l’avrebbe mai detto che in una sola estate sarebbero
cambiate tante cose? Non io, di sicuro. E neanche il mio
migliore amico, Leonardo il Taciturno.
E probabilmente nemmeno quelli della Scuola d’arte
Airbrook. Era lì che avrei dovuto iniziare la seconda, in
autunno.
Avrei dovuto. È chiaro perché il mio libro precedente si
intitolava Scuola media: gli anni peggiori della mia vita, no?
La prima media è stata solo l’inizio. Ho un sacco di altra roba
da raccontarvi. Prima però dovrei presentarmi.
Ma tanto avrei dovuto immaginarlo. Ogni volta che la mia
vita comincia ad andare per il verso giusto, arriva sempre
qualcosa a cambiare tutto. Come una tegola, o peggio, in
testa.
E infatti tutto è cambiato il giorno in cui Swifty’s è andato
in cenere.
Vi racconto com’è andata. Nella cucina del ristorante c’è
una cosa che si chiama filtro del grasso, sulla griglia dove
Swifty (alias Fred) cuoce tipo millecinquecento hamburger al
giorno. Se non viene pulito ogni tanto, questo filtro diventa
una bomba incendiaria che aspetta solo il momento giusto
per esplodere.
E secondo voi cos’è successo?
Io non ho visto granché. Ero nel magazzino sul retro,
aspettando la fine del turno di mamma per il pranzo. E poi
di colpo ho sentito un ‘VUUUM!’ gigantesco. Qualcuno si è
messo a gridare, l’allarme antincendio ha cominciato a
suonare e io ho sentito subito odore di fumo.
Un attimo dopo è entrata mamma.
«Dai, Rafe! Dobbiamo uscire, subito!» ha detto e mi ha
spinto fuori dalla porta di servizio.
Nessuno si è fatto male, ma il fuoco aveva raggiunto le
finestre e il tetto ancora prima che arrivasse l’autobotte.
Quando i vigili del fuoco sono finalmente riusciti a spegnere
l’incendio, il ristorante di Swifty era ormai diventato ‘il
mucchio di braci di Swifty’, un edificio tutto nero e fumante.
Swifty’s non esisteva più.
E non finisce qui.
Niente più Swifty’s, niente più lavoro per mamma.
Niente più lavoro, niente più soldi per l’affitto.
Niente più casa, uguale fare i bagagli e trasferirci.
Capite adesso cosa intendevo con ‘tutto è cambiato’?
L’unico posto dove potevamo andare era a casa di nonna
Dotty. Ci aveva assicurato che potevamo stare da lei per
tutto il tempo che ci serviva. Molto gentile da parte sua, ma il
problema era che lei abita in città, più o meno a centotrenta
chilometri da noi. In altre parole, troppo lontano per poter
iniziare a frequentare la Airbrook. Avrei dovuto fare la
seconda media in qualche mega-scuola in città, di quelle
dove i ragazzini come me vengono ridotti tutti i giorni in
polpette.
Visto? Non è nemmeno ancora finito il primo capitolo che
già devo ricominciare daccapo. Provateci voi a battermi, se ci
riuscite. Insomma, questo è solo l’inizio, la parte in cui dico...
«Ciao ciao, Hills
Village!»
«Ciao ciao, periodo fortunato!»
E anche: «Eccomi qui, seconda media!»
Il giorno in cui abbiamo lasciato Hills Village ci hanno
salutato così. Niente male, eh?
Seh, magari.
Se mi conoscete già, sapete che ho quella che mamma
chiama ‘una fantasia molto spiccata’ e che alcuni miei
insegnanti invece chiamano ‘tendenza a dire bugie’.
Mi piace pensare che sia solo un modo per dare una mia
versione personale di quello che mi capita. Ma non
preoccupatevi, rimedierò sempre con la verità. Per esempio,
quando siamo partiti in realtà è andata così:
Quelle che ci stanno salutando sono la signora Donatello e
Jeanne Galletta, praticamente le uniche due persone che
siano mai state gentili con me alla Scuola Media di Hills
Village.
La signora Donatello era la mia insegnante di inglese. Io la
chiamavo Lady Dragon, ma alla fine si era rivelata
incredibilmente umana. Era stata lei a farmi iscrivere alla
Airbrook, prima che i miei piani grandiosi finissero nel
tritarifiuti.
Quanto a Jeanne, è sempre stata buona con tutti, quindi
non so quanto contasse il fatto che lo fosse con me. Quando
le dissi che volevo che ci tenessimo in contatto, lei rispose
che sì, potevo inviarle dei messaggi sulla sua pagina
personale nel sito della scuola. Buon segno? Non lo so,
ditemelo voi. Non è che io abbia chissà quale esperienza di
amici e di ragazze. Soprattutto di ragazze. Eppure, se c’era
una persona che mi sarebbe mancata, quella era lei.
E quindi, se non l’avete ancora intuito, non mi lasciavo
certo dietro una reputazione immacolata a Hills Village
(probabilmente questo è l’eufemismo dell’anno). Se volete
capirlo meglio, ve lo spiego nel prossimo capitolo.
La classifica dei dieci sei più grandi risultati ottenuti da Rafe
Khatchadorian in prima media:
«Ci divertiremo, fidatevi» continuava a dire mamma
andando verso la città. «Non vedo l’ora di portarvi un po’ in
giro. C’è un sacco di roba da fare qui, e il parco vi piacerà
tantissimo».
Dopo un po’ non le diedi più retta. E anche mia sorella
Georgia, credo. Tutti e due ci limitammo entrambi a
guardare fuori dal finestrino, mentre cercavamo di
immaginare come avremmo fatto a vivere lì.
Pensate alla città che volete: New York, Chicago, Boston,
giù giù fino a South Bend, Boise, Omaha, dove vi pare.
Immaginatevi tanti grattacieli scintillanti, marciapiedi
perfettamente puliti e milioni di abitanti felici che
acchiappano i soldi che piovono dal cielo.
E adesso provate a immaginare l’esatto opposto. Fatto?
Allora benvenuti nel quartiere di nonna Dotty, cioè anche il
nostro.
«E tu sei cresciuta qui?» disse Georgia, ma non con un tono
ammirato.
«Una volta era... diverso» disse mamma, ma si capiva che
intendeva ‘migliore’. Fu lì che capii perché era sempre
nonna a venirci a trovare a Hills Village e mai il contrario.
Tutte le case dell’isolato erano ammassate l’una contro
l’altra. Non avevano giardini né davanti né sul retro, solo
marciapiedi. Dappertutto bidoni della spazzatura e graffiti.
«Qui non riuscirò mai a farmi degli amici!» piagnucolò
Georgia.
«Su, tesoro. Ambientarsi non sarà facilissimo, lo so, ma
bisogna essere ottimisti e convinti» le rispose mamma.
«Okay, allora io sono convinta che qui non farò mai amicizia
con nessuno».
Mamma sospirò, sconsolata. «E tu invece, Rafe? Non vuoi
provare a vedere com’è la vita di città?»
«Ma certo» dissi. «Perché no?»
In realtà mi sentivo né più né meno come Georgia. Non
volevo vivere lì e di sicuro non volevo andarci a scuola.
Però, al contrario di mia sorella che non capisce mai
quando deve chiudere il becco, io sapevo che mamma stava
già facendo del suo meglio per renderci un po’ più facili le
cose.
«Be’, siamo arrivati» disse. Subito dopo si fermò davanti
alla quintultima casa dell’isolato. «È il 625 di Killarney
Avenue».
Georgia fece un verso come un gatto strozzato da una palla
di pelo. «È quella messa peggio in tutta la via!» disse.
«Ha solo bisogno di essere ravvivata un po’» disse mamma.
«Vedrete. Basta un pizzico di fantasia. Vero, Rafe?»
«Certamente» dissi.
«Solo un pizzico
di fantasia.
Nient’altro».
Mamma ha sempre detto che nonna Dotty
era come un topolino accumulatore. Non
mi ero mai chiesto davvero cosa volesse
dire. Me la immaginavo così:
Non appena entrammo, però, capii subito
come stavano le cose. I due aggettivi
perfetti per descrivere casa di nonna
erano ‘piccola’ e ‘stipata’.
«Venite, venite, accomodatevi!» ci disse,
abbracciandoci tutti come una pazza.
«Avete altri bagagli da scaricare dalla
macchina?» chiese poi a mamma.
«Non tantissimi» rispose lei. Il grosso infatti era rimasto in
un box a Hills Village.
«Ah, bene, perché al momento non ho molto spazio negli
armadi» disse subito nonna. A me invece sembrava che non
ci fosse spazio per Rafe, Georgia e mamma, altro che vestiti.
«Perché quei musi lunghi, bambini?» ci chiese poi. «Sembra
che vi sia appena morto il gatto!»
«Sono solo stanchi» disse mamma. «È stata una giornata
lunga».
«Questa piccolina non si regge in piedi. E tu, Ralph...
scommetto che dalla fame che hai ti mangeresti un cavallo e
mezzo!»
«Be’...» risposi io, ma dentro di me pensavo:
E di colpo trovarmi lì mi sembrò ancora più assurdo.
«Rafe, mamma, non Ralph».
«Ah, certo, certo. Scusami, Rafe. Un piccolo lapsus. Ma
adesso venite, forza. Allora, chi ha fame?»
Guardai mamma perplesso, ma lei mi fece un sorriso per
dirmi di stare tranquillo. E in verità il profumo che arrivava
dalla cucina era fantastico, proprio come quello delle
lasagne che mamma preparava nella vecchia casa.
Poi entrando in cucina vidi subito qualcos’altro che non mi
era nuovo.
«Ma non è uno dei tuoi?» chiesi a mamma.
«Sì».
L’ultima volta che avevo visto dei suoi quadri appesi era
stato da Swifty’s, ma erano andati tutti in fumo con il locale.
«In questa casa vostra madre è un’artista famosa» disse
nonna. Poi si voltò verso mamma e le fece un inchino
esagerato.
Lei scoppiò a ridere. E anche Georgia rise, per la prima
volta più o meno da una settimana.
«Ah, così si fa!» disse nonna. «Molto meglio».
Allungò una mano e solleticò mia sorella sotto il mento. Due
secondi dopo stavamo ridendo tutti.
«Questi sono i Khatchadorian che ricordo!» Mi abbracciò di
nuovo. «Ci divertiremo un sacco insieme, vero, Ralph?»
Le due del mattino, ma ero sveglissimo. Mamma mi aveva
detto di scegliere tra il divano al piano di sotto e la camera
degli ospiti da dividere con Georgia. Inutile dire che non ci fu
gara. Se non altro al pianterreno avrei avuto un minimo di
riservatezza.
Eppure non riuscivo a dormire, troppo occupato a pensare
come arrivare vivo alla fine dell’anno scolastico. Non era
ancora iniziato e già mi vedevo davanti nient’altro che grane.
A un certo punto finalmente mi assopii, ma Leonardo il
Taciturno non ci mise molto a intrufolarsi nei miei sogni.
«Cosa fai?» mi chiese.
«Cerco di dormire».
«No, tu cerchi di immusonirti. Dai, c’è tutta una metropoli
che ci aspetta. Abbiamo di meglio da fare».
E aveva ragione, lo so.
Saltai giù dal letto (dal divano?) e insieme modellammo un
finto Rafe sotto le coperte, con tanto di maschera ultrarealistica con le mie fattezze, nel caso mamma o nonna
fossero scese durante la notte. Poi indossammo le cose meno
vistose che avevamo e uscimmo. Un attimo dopo eravamo
per strada.
«Da dove vuoi iniziare?» mi chiese Leo.
«Da qualcosa di alto. Ci serve una panoramica di quello che
ci aspetta».
«Ottima idea». Indicò l’edificio più alto. «Meno male che ho
portato l’attrezzatura da arrampicata».
Ci muovemmo come due ombre, passando per vicoletti e
passaggi segreti. Con tutte le scorciatoie che conosceva Leo
ci ritrovammo in un batter d’occhio ai piedi delle Megamega
Towers.
«Allora è così che è fatto un palazzo di trecento piani» dissi.
«E aspetta di vederlo dall’alto!»
Dopo esserci imbragati, ci infilammo gli scarponi a ventosa
e partimmo verso il cielo.
«Non guardare in basso finché non saremo arrivati» mi
disse Leo. «Varrà la pena aspettare, fidati».
Aveva ragione anche su questo. Quando arrivammo sul
tetto si vedeva in ogni direzione per chilometri e chilometri.
«Questo a Hills Village non c’è mica» mi disse.
Le macchine di sotto sembravano tante formichine dalle
antenne luminose, e l’intera città mi si spianava davanti
come il gioco da tavolo più grande del mondo. A quel punto
non dovevo fare altro che decidere la mia mossa seguente.
«Forse quest’anno non andrà poi tanto male come
pensavo».
«Be’, se ti è piaciuto salire» disse Leo, «con la discesa
impazzirai».
Ci lanciammo con il nostro deltaplano pieghevole proprio
mentre il sole cominciava a spuntare all’orizzonte. La nostra
prima nottata in città era già volata via. Mamma si sarebbe
svegliata fra poco e quindi dovevo tornare.
Nel frattempo, però... che vista!
Okay, facciamo una pausa di un secondo. Se avete letto il
libro precedente sapete già tutto di Leo. Cioè, specialmente
il fatto che lui non esiste davvero. Se invece la cosa vi giunge
nuova, allora forse c’è qualcos’altro che dovreste sapere. È
roba un po’ pesante, ma togliamocela subito il pensiero.
Il vero Leonardo era il mio fratello gemello. Si è ammalato
ed è morto quando avevamo tre anni. È una storia
tristissima, certo, ma è successa tanto tempo fa. Io me lo
ricordo appena.
Il fatto è che mi sono sempre chiesto come sarebbe Leo se
ci fosse ancora. Penso che in effetti abbia sempre parlato
con lui… quasi un’idea di Leo, che io chiamo Leonardo il
Taciturno.
Quindi se adesso pensate che io sia suonato... vi garantisco
che non è così. Sono soltanto... be’, non so cosa di preciso.
Fantasioso, forse. Un solitario, di sicuro. Ma suonato no.
Mamma dice che Leo è la mia musa. Una musa è qualcuno
che aiuta un artista a farsi venire delle idee e a pensare
meglio, anche quando non esiste fisicamente. E Leo non sarà
reale, ma chissà come mi aiuta ad affrontare cose che invece
sono reali eccome. Per questo è anche è il mio migliore
amico.
Ehi, sentite, non vi ho mai detto che non era una storia
complicata. Vi ho solo detto che non sono suonato.
La mattina dopo, a colazione, mamma ci preparò degli ottimi
french toast.
I preferiti di Georgia, quelli con la banana e lo sciroppo
d’acero, e per me doppia razione di cannella.
«Rafe, quando hai finito vorrei che ti mettessi la camicia
che ti ho lasciato sul divano» disse a un certo punto mamma.
«E dei pantaloni puliti, per favore».
Mi bloccai con la bocca piena. Non promette niente di
buono quando uno si deve mettere dei vestiti che gli ha
scelto sua madre.
«Cos’hai in mente?» chiesi.
Lei si limitò a sorridere e a passarmi una seconda razione.
«È una sorpresa».
«Dove deve andare Rafe?» si intromise Georgia. «Cosa
fate? Posso venire anch’io?»
«Ci andiamo tutti» disse mamma, ma non aggiunse altro.
Poco dopo eravamo già seduti in macchina e stavamo
uscendo da Killarney Avenue.
Mamma sapeva ancora orientarsi benissimo. Ci indicò il
museo della scienza, l’IMAX, lo stadio di baseball e un sacco
di altra roba. Si capiva che stava cercando di farci piacere
l’idea di abitare lì.
Quello che non capivo, invece, era perché dovessi portare
la camicia infilata nei pantaloni.
Alla fine cedetti: «E dai, mamma, per favore. Dicci dove
stiamo andando».
«Okay, okay. Tanto siamo quasi arrivati. Ora non ti agitare,
eh...»
«In che senso?» risposi. «Perché dovrei agitarmi?»
«Vedi, lo so che per te non poter andare alla Airbrook è
stata una grossa delusione. Ma stamattina potremmo
rimediare. Ti ho fissato un colloquio, Rafe. Alla scuola d’arte
Cathedral».
Non so che cosa mi aspettassi che mi dicesse, ma di sicuro
non una cosa simile. La Airbrook mi era sembrata una di
quelle opportunità che non tornano più.
«Vuoi dire che esistono altri posti del genere?»
«La Cathedral è persino meglio. È pubblica, quindi è gratis.
Però bisogna farsi ammettere. È per questo che facciamo il
colloquio».
Fu lì che compresi perché mi aveva detto di non agitarmi.
Non avevo nemmeno ancora visto questa Cathedral e già
sapevo di volerci andare. Se era come me la immaginavo,
poteva essere davvero la scuola più grandiosa del mondo.
«Però non capisco... come ci sei riuscita?»
«Ah, non sono stata io a farti avere il colloquio» disse
mamma.
Mi voltai verso nonna.
«Uh, non guardare me, Ralph» disse lei. «Sono confusa
quanto te».
«È stata la signorina Donatello» disse mamma e io mi voltai
di nuovo verso di lei, di scatto, come se stessi guardando una
partita di tennis.
«Eeeh?»
«Neanche a farlo apposta...» Mamma indicò l’altro lato
della strada rispetto a dove avevamo appena parcheggiato.
«Eccola lì».
Scendemmo dalla macchina. La signora Donatello ci
aspettava sul marciapiede: aveva un sorriso enorme in faccia
e una cartella di cuoio ancora più grande sotto il braccio.
«Scommetto che non ti aspettavi di rivedermi così presto,
eh?»
Io non mi aspettavo di rivederla e basta, ma non glielo dissi.
«Tieni». Mi diede la cartella. «Ho messo insieme un
portfolio dei tuoi disegni dello scorso anno. Adesso andiamo,
però, altrimenti faremo tardi!»
La seguimmo oltre l’ingresso e fino all’ufficio più grande,
dove si sarebbe svolto il colloquio.
Da fuori la Cathedral era un edificio come tanti altri, ma
dentro era fichissimo, con un sacco di finestroni e di scale
che sembravano portare dappertutto. La signora Donatello ci
spiegò che fino a un centinaio di anni prima la scuola era
stata una fabbrica di mattoni. Mamma continuava a dire
cose tipo: «Uuuh!» o «Ma che bello!»
Io chiudevo la fila e nel frattempo stavo cominciando a
sclerare, senza che nessuno ci facesse caso. Ero sempre più
convinto di essermi imbarcato in una missione suicida.
C’erano dipinti e disegni appesi ovunque alle pareti, e mi
sembrava che qualunque alunno di quella scuola fosse un
artista molto più bravo di me.
«Forse non saremmo dovuti venire» dissi.
Mi fissarono tutti, perfino Georgia.
«Andrà tutto benissimo, Rafe!» fece subito la signora
Donatello.
«Cosa faranno, lì dentro?» chiesi indicando la porta
dell’ufficio.
«Prima daranno un’occhiata al tuo portfolio...»
«... e poi ti faranno qualche domanda sui tuoi disegni».
«Dopodiché ti chiederanno di uscire e la commissione
valuterà la tua richiesta d’iscrizione».
E poi, senza accorgermene, passai il punto di non ritorno.
La porta si stava già aprendo. Toccava a me.
«C’è altro che dovrei sapere prima di entrare?» le chiesi.
Solo che la signora Donatello non era più la signora
Donatello. Gli occhi le si erano trasformati in due fessure
gialle e dalle fauci le usciva del fumo. Diede una zampata
alla cartella che tenevo tra le mani. «Tutto quello che ti serve
è qui dentro».
Guardai e notai che aveva nascosto nel portfolio la mia
vecchia spada. Incredibile! La mia vecchia nemica Lady
Dragon ora era un’alleata.
Ma ormai mi aveva accompagnato fin dove poteva.
Qualunque cosa mi aspettasse oltre questa porta, avrei
dovuto affrontarla da solo. L’unica domanda adesso era se
ne sarei uscito vivo...
... o no.
Nella stanza degli interrogatori fa freddo. Vedo il mio fiato
che si condensa, ma nessuno dei tre estranei seduti davanti
a me sembra farci caso.
Sembrano umani, ma io non ci casco. Il loro è un
travestimento molto astuto: vogliono che mi senta al sicuro
per poi farmi abbassare la guardia.
«Khatchadorian, giusto?» dice quello alto, al centro. Sorride
e mi fa segno di avvicinarmi.
«Sì» rispondo. «Rafe».
«La signora Donatello ci ha detto che ti chiami così in onore
del grande Raffaello Sanzio. Conosci bene le sue opere?»
Io sto al gioco. Dico: «Certo», ma intanto il mio sguardo
vaga per tutta la stanza. In qualsiasi punto potrebbero
esserci delle trappole pronte a scattare.
«Vediamo che cosa ci hai portato» dice un’altra. Mentre
allunga la mano intravedo le verruche sotto la sua finta pelle
umana.
Ci siamo. Se c’è un motivo per agire, è questo. Frugo nella
cartella... e un attimo dopo tiro fuori la spada.
Le sedie si rovesciano. Le finte pelli si staccano. Gli artigli si
sguainano. In meno di due secondi mi ritrovo davanti i tre
gemelli più brutti che possiate immaginare. Si allungano nei
loro nuovi corpi e scoprono le zanne. Uno di loro emette un
ruggito lungo e rabbioso.
No, non è rabbia, è fame. Quello era uno stomaco che
brontolava.
Poi attaccano, tutti insieme. Io abbasso la testa e seguo
l’istinto.
Colpisco!
Schivo!
Finto!
Una botola mi si apre sotto i piedi. Salto via appena in
tempo.
Tiro un pugno!
Un altro!
E un altro ancora!
Fin qui me la sto cavando, ma non so quanto resisterò. Loro
continuano ad attaccarmi, prima uno per volta e poi tutti
insieme, gridandosi qualcosa nella loro lingua segreta.
Perdo un po’ di terreno e mi riprendo. Perdo un altro po’ di
terreno e mi riprendo.
Però poi, senza accorgermene, mi ritrovo bloccato in un
angolo. Proprio dove non dovrei essere. Mi hanno
circondato.
Tengo alta la spada, aspettandomi un attacco. Invece loro
stanno fermi e non mi ci vuole molto per capire perché.
Il muro dietro di me si sgretola. Sento il soffitto che si
crepa. È una trappola, anche questa!
Alzo lo sguardo, ma è troppo tardi. Vedo solo una pioggia di
mattoni e calcinacci che mi cade addosso. La stanza sta
crollando.
È tutto.
Avevo una possibilità e me la sono giocata.
Il colloquio è finito.
«Sono certa che non è stato tremendo come pensavi, eh?»
mi disse mamma dopo.
«No, è stato anche peggio. Neanch’io mi ammetterei in
questa scuola».
Ricordavo a stento i dettagli del colloquio. Avevo mostrato il
portfolio e dato delle risposte sceme alle loro domande, ma
non avrei saputo ripetervi niente di quello che avevo detto.
Eravamo di nuovo in corridoio e stavamo aspettando che
uscissero a darci la brutta notizia.
«Stai tranquillo, tesoro. Peggio per loro, se non ti vogliono»
disse nonna.
«Perché non aspettiamo la risposta prima di commentare?»
disse invece la signora Donatello.
«Devo andare in bagno» disse Georgia.
Non avevo più voglia di parlare, così feci come Leonardo il
Taciturno e tenni la bocca chiusa.
Alla fine la porta dell’ufficio si aprì e il preside, il signor
Crawley, uscì per venirci a parlare. Io cercai di non dare
l’impressione di essere quello che voleva sparire, o
autodistruggersi, o tutte e due le cose insieme.
«Prima di tutto, Rafe» iniziò, «devi sapere che in un
candidato noi cerchiamo tre cose. Una è l’esperienza. Molti
dei nostri alunni hanno cominciato a studiare arte ancora
prima di imparare a leggere».
«Certo» dissi. «Capisco. Non c’è problema».
Ma il signor Crawley non aveva ancora finito.
«Le altre due sono il talento e la perseveranza. Il tuo
portfolio non è solo pieno di promesse artistiche, ma è anche
letteralmente pieno. Quando lo guardo, vedo un ragazzo che
probabilmente continuerebbe a disegnare anche se nessuno
ci facesse caso».
Guardai mamma per cercare di intuire la sua reazione,
perché io non avevo ancora capito se quella fosse una bella o
una brutta notizia.
«Tutto questo per dire...»
Mi porse la mano perché gliela stringessi. Di colpo tutto
andò al rallentatore.
«... che abbiamo accettato la tua domanda».
Non riuscivo a crederci. Era uno scherzo? Si erano confusi
con un altro Rafe?
«Dice davvero? Sta dicendo sul serio?»
«Serio quanto il periodo blu di Picasso» fece il signor
Crawley. Mamma e la signora Donatello scoppiarono a
ridere, mentre io gli stringevo la mano. «Benvenuto alla
Cathedral!»
E anche se non mi sembrava ancora vero, vi assicuro che
quelle furono le tre parole più belle che avessi sentito da un
gran bel po’ di tempo a quella parte.
Tornati a casa di nonna trovai il coraggio per fare qualcosa
di iper-terrificante: scrivere a una ragazza.
A: [email protected]
DA: [email protected]
OGGETTO: Roba da non credere
Ciao, Jeanne!
Come va nella buona vecchia Hills Village? Manco già a
qualcuno?
Oppure nessuno si è accorto che me ne sono andato? ;)
Qui sono successe cose assurde. Su una scala da uno a
dieci direi quattordici, perché indovina chi è stato ammesso
alla scuola d’arte Cathedral? Ti do un aiuto: inizia per R e
finisce per AFE.
Ci sei ancora? O sei svenuta per lo shock? Anch’io sono
rimasto sorpreso non poco, ma se tu prometti di non
avvertirli che si sono sbagliati me ne starò zitto anch’io. Ah
ah. La scuola inizia lunedì, quindi fammi un ‘in bocca al lupo’
perché mi servirà eccome.
E scrivimi, se vuoi (non c’è fretta, tranquilla).
Rafe
A: [email protected]
DA: [email protected]
OGGETTO: Re: Roba da non credere
Ciao, Rafe.
È fantastico. Congratulazioni!
Jeanne Galletta
Quel fine settimana mamma mi comprò un abbonamento
dell’autobus per poter andare alla Cathedral e tornare. Lei
invece avrebbe portato Georgia a scuola in macchina, in
un’altra zona della città.
Il lunedì mattina, però, disse che voleva accompagnarci
tutti e due, solo per il primo giorno di scuola. Credo che
fosse più eccitata di me per la Cathedral.
«Hai preso l’album?» mi chiese.
«Eccolo».
«E la penna buona?»
«Anche quella».
«Vuoi che entri con te?» disse quando ci fermammo davanti
alla scuola.
«Nah, sono tranquillo». C’era tipo un milione di altri ragazzi
sul marciapiede e col cavolo che mi sarei fatto vedere
accompagnato da mia madre il primo giorno di seconda
media.
«Ah, okay. Be’...» Mamma mi stava
guardando come fa quando sta per
commuoversi. E poi, infatti... «Sai,
frequentare la scuola d’arte è sempre
stato un mio grande sogno» disse. «Ma
anche se non sono mai riuscita ad andarci,
oggi... ecco, mi sembra che quel sogno si
sia avverato».
Temevo che si mettesse a piangere. Se
c’è una cosa che proprio mi mette a
disagio è quando mamma piange, anche
se sono lacrime di gioia.
Però in quell’attimo (una volta tanto!) la boccaccia di mia
sorella si rese utile.
«Dai, dai, MUOVETEVI! Faremo TARDI!» gridò dal sedile
dietro, come se nei primi dieci minuti di quinta elementare
dessero delle informazioni vitali che non poteva perdersi.
«E va bene» disse mamma. «Allora... in bocca al lupo,
tesoro!»
«ANDIAMOOO!» fece Georgia. «E scendi, Rafe!»
Nessun problema. Prima che mamma riuscisse a darmi un
bacetto davanti a tutta la scuola, aprii la portiera e mi diedi
alla fuga. Poi entrai dritto a scuola per il mio primo giorno da
studente d’arte vero e certificato.
Qualunque cosa significasse.
La prima cosa che vidi appena entrato fu un enorme
striscione con la scritta: ‘Benvenuti sul pianeta Cathedral!’
E non per modo di dire. Tutto l’atrio era addobbato con
lucine che lampeggiavano come stelle e un mucchio di
pianeti e asteroidi di cartapesta appesi al soffitto. Alcuni
alunni stavano suonando con dei sintetizzatori della musica
tipo quella dei film di fantascienza. Gli insegnanti che erano
lì per guidare i nuovi arrivati indossavano costumi fatti di
stagnola, come robot alieni. Evidentemente per loro il primo
giorno di scuola era una festa.
Fu in quel momento che capii di essermi lasciato la scuola
media di Hills Village alle spalle di circa ottanta milioni di
anni luce.
Per iniziare partecipai a una cosa chiamata ‘Orientamento’.
Praticamente spiegarono a me e a un altro centinaio di
alunni di seconda tutto quello che c’era da sapere sull’anno
che avremmo passato alla Cathedral.
Dopo che il signor Crawley ebbe finito di dirci quanto
dovevamo essere contenti di trovarci lì (e io lo ero eccome!),
ci divisero secondo le varie specializzazioni: teatro, musica e
arti visive. Il mio gruppo seguì la signora Ling, la direttrice
del programma di arte, che ci condusse in una visita guidata
della nostra parte della scuola.
Se dovessi scegliere una sola parola per descrivere tutto
quello che la signora Ling ci mostrò, sarebbe... una figata
totale, ancora di più di quello che mi aspettavo!> Sì, lo so,
non è una parola sola, ma fa lo stesso. Non vedevo l’ora di
provare a usare quello che avevo intorno. E più cose avevo
intorno, più avevo voglia di usarle.
Certo, avrei dovuto comunque alzarmi presto cinque giorni
alla settimana. Quello era inevitabile. Però la seconda media
prometteva bene, bene, BENISSIMO!
Solo che naturalmente non fu tutto così facile (e quando lo
è?).
Dopo la visita guidata, la signora Ling ci fece sedere in
un’aula e si lanciò in una tirata.
Iniziò con la solita roba sulle regole, sulle lezioni e
qualcos’altro che non ricordo perché non stavo proprio
seguendo. Ero ancora troppo esaltato dal resto.
Poi però, verso la fine, buttò lì la fregatura.
«... e quindi, ragazzi e ragazze, sono convinta che ognuno di
voi potrà ottenere grandi risultati» disse. «Tuttavia... non
tutti gli studenti vengono riammessi alla Cathedral l’anno
successivo».
La mia attenzione si risvegliò in un attimo. E c’era dell’altro.
«Come alcuni di voi già sanno, tutti i nostri alunni
specializzandi in arti visive hanno l’obbligo di rinnovare la
domanda di ammissione dopo la Mostra di primavera, a
marzo. E se nel frattempo non sarete riusciti a tenervi al
passo con le lezioni e con i compiti e in più a dimostrare che
siete motivati a rimanere qui, per l’autunno successivo vi
dovrete trovare un’altra scuola».
In altre parole, se non fossi riuscito a trovare un modo per
fare questo:
... alla fine dell’anno mi sarebbe successo questo:
Se devo essere sincero, fin lì avevo pensato che farmi
ammettere alla Cathedral fosse stata una grande impresa da
parte mia. Ma ora avevo capito che quella era stata la parte
più facile.
Entrarci era una cosa.
Rimanerci era tutto un altro paio di maniche.
Dopo l’orientamento, le prime tre ore della giornata furono
matematica, scienze sociali e...
Vabbè, ci siamo capiti. Roba noiosa alla scuola d’arte come
in qualsiasi altra scuola.
Però poi tutti noi di seconda media avremmo avuto due ore
d’arte, la quarta e la quinta, tutti i giorni. Cioè dieci ore alla
settimana che avrei affrontato molto volentieri, praticamente
dieci in più di quelle che avevo a Hills Village. Niente male.
La mia prima vera ora d’arte fu quella di disegno, con il
signor Beekman. Ve lo descrivo un pochettino. Se mai ci
fosse un concorso per l’insegnante più vecchio del mondo,
iscriverei proprio il signor Beekman, e magari vincerebbe
pure. Parlava con un accento molto raffinato e usava
spessissimo termini come «signore e signori».
La primissima cosa che ci disse fu
questa:
La mia prima lezione d’arte era iniziata da meno di mezzo
minuto e io ero già confuso.
Stavo ancora cercando di capire la frase, quando il signor
Beekman accese il proiettore e ci mostrò il disegno di un
cavallo bello in carne. O almeno immaginai fosse un cavallo:
in quel momento non ero sicuro di nulla.
«Ventitremila anni fa, qualcuno disegnò quest’immagine
sulla parete di una grotta» disse. «Secondo voi come si
chiamava l’artista?»
«Era lei?» bisbigliò qualcuno, troppo piano perché il signor
Beekman riuscisse a sentirlo.
«La risposta, ovviamente, è che ci è impossibile saperlo.
Anche così, però, queste immagini primitive sono in grado di
dirci parecchio sulle persone che le avevano dipinte, sugli
animali che cacciavano, sulle storie che si raccontavano,
sugli elementi del loro mondo e sui loro oggetti quotidiani.
Non vi sembra?»
A me per niente.
Poi il signor Beekman si voltò e scrisse alla lavagna: arte =
vita = arte.
«Nel mio corso vi insegnerò quali sono i materiali giusti da
usare, come dare qualità al vostro tratto, la composizione...
tutte le tecniche che vi serviranno come artisti. Il resto però
dipende da ciò che riuscirete a tirare fuori».
Ormai si era fatto prendere e passeggiava per tutta l’aula.
Improvvisamente non sembrava nemmeno più così vecchio.
«Che cos’è che vi affascina? Quali esperienze di vita avete
avuto finora? Che cosa vi rende quelli che siete? Perché è
questa, signore e signori, la vera essenza dell’arte!»
«Io fra un attimo vomito la vera essenza della colazione»
disse lo stesso tizio di prima. Mi voltai.
Era seduto nelle ultime file, come me, e si stava disegnando
un tatuaggio finto sul braccio. Dovrei dire anche che era
vestito in modo strano, ma quello era il pianeta Cathedral e lì
‘strano’ voleva dire ‘normale’.
Intanto Beekman andava avanti.
«Detto questo, il vostro primo compito dell’anno sarà un
autoritratto» disse. Poi scrisse ancora alla lavagna: chi siete?
«Voglio che rispondiate con le vostre opere. Poi domani, in
classe, faremo la nostra prima ‘sessione krit’. Ricordatevi,
signore e signori... mettete vita nella vostra arte e la vostra
arte prenderà vita».
Non avevo capito nemmeno la metà di quello che aveva
detto, ma tutti gli altri facevano sì con la testa belli convinti.
Per esempio, cosa cavolo significava ‘krit’? Fu allora che
capii che forse mi ero perso più di un semplice anno
scolastico, in quel posto.
Avevo perso tempo, e dovevo recuperare.
Quella sera restai alzato fino a tardi per fare tutti i compiti.
No, non siete finiti chissà come in un altro libro. Sono
sempre io, Rafe K. È solo che avevo pensato che il primo
giorno di scuola fosse un tantino presto per cominciare a
rimanere indietro.
Anche così, però, quando riuscii finalmente a spegnere la
luce per cercare di dormire, non riuscii a smettere di
pensare a tutto quanto.
Non immaginavo che la scuola d’arte potesse essere così
complicata. Pensavo fosse... una scuola d’arte e basta, ecco.
E invece mi ritrovavo a dovermi preoccupare di un sacco di
altra roba. Tipo come non farmi buttare fuori, per esempio. E
nel frattempo come farmi una vita.
«Ah, questa è una missione per me» disse subito Leo.
«Quando vuoi cominciare?»
Il problema di Leo è proprio questo: non esiste un pulsante
per spegnerlo. Per lui qualsiasi momento è buono per darsi
da fare.
E poi ha un debole per le missioni.
L’ultima si chiamava Operazione R.A.F.E., cioè ‘ Regole
Assurde Finirete Eliminate’, e mi aveva fruttato una bella
estate di corsi di recupero.
«Calma» gli dissi. «Non posso ricacciarmi subito nei guai.
L’ho promesso a mamma».
«No, a te stesso» mi ricordò. «E poi chi ha parlato di guai?
Io intendevo qualcosa di meglio. Di più grande!»
«Tipo?»
«Tipo la vita vera! Tipo la storia della ‘essenza dell’arte’ di
cui parlava Beekman! Magari essere un artista è qualcosina
di più che frequentare la Cathedral tutti i giorni e dormire su
’sto divano tutte le sere, no?»
Sì, su quello non potevo discutere. Però...
«E allora? Dovrei ‘farmi una vita’... così, in generale?»
«Sei messo già meglio di quanto credi. Puoi fare tutto
quello che vuoi. Viaggiare in metro facendo la verticale,
mangiarti tarantole ricoperte di cioccolato, vederti dodici
film di fila... se è una cosa che non hai mai fatto prima,
finisce automaticamente sulla lista».
«Ehi, ehi, un attimo... c’è una lista?»
«Possiamo chiamarla Operazione ‘Fatti una vita’. Che ne
pensi?»
Un’altra cosa di Leo è che è sempre un passo e mezzo
avanti rispetto a me.
«Penso che tanto non sei tu quello che poi deve metterla in
pratica. Hai fatto caso a tutti questi compiti? Be’, non posso
iniziare adesso una nuova operazione».
«O forse» disse Leo «non te lo puoi permettere. Ti ricordi
cos’ha detto la signora Ling? ‘Non tutti gli studenti vengono
riammessi’. Certo, a meno che tu non stia cercando di
stabilire un record di espulsioni dalla scuola media...»
Non sapevo cosa dire. Mi girai a pancia in giù e infilai la
testa sotto il cuscino.
Non pensavo che Leo avesse torto. Era solo che dopo una
giornata così mi sentivo il cervello come un fungo ripieno.
Non c’era spazio per nient’altro.
«Be’, adesso io dormo» dissi.
«Guarda, ne dubito».
E, naturalmente, aveva di nuovo ragione.
Il giorno dopo scoprii il significato di ‘krit’. È un gergo delle
scuole d’arte, sta per ‘critica’ (ovviamente) e consiste
nell’esporre il tuo lavoro davanti a tutta la classe, che poi lo
discute. Più o meno come finire davanti al plotone
d’esecuzione.
No, senza il ‘più o meno’.
Pensai che se mi fossi seduto in ultima fila, se avessi tentato
di mimetizzarmi rimanendo immobile, magari il signor
Beekman non mi avrebbe chiamato. Ma verso la fine della
quinta ora la fortuna mi fece ciao-ciao.
«Mmm... Rafe Khatchadorian» disse, guardando il registro.
«Il nostro nuovo alunno. Vediamo cosa ci ha portato, eh?»
Venne verso di me, prese il mio autoritratto e andò ad
attaccarlo su una delle bacheche, davanti a tutti.
«Bene, signore e signori, voglio i vostri commenti. Che cosa
vi dice questo ritratto del suo artista?»
Subito Zeke McDonald alzò la mano. Non lo conoscete
ancora, quindi ve lo dico io: lo odio, Zeke McDonald. Lui e
tutti i suoi amici. Avete presente il genere, no? Quelli che
vanno in giro per la scuola come se avessero sulla testa una
corona invisibile? Ecco, sono loro. Zeke era bravo
praticamente in tutto, e lo sapeva. E passava la maggior
parte del suo tempo ad assicurarsi che anche gli altri lo
sapessero.
Certo, ero appena arrivato alla Cathedral ed era troppo
presto perché qualcuno mi stesse antipatico, ma ero sulla
strada buona.
«Signor Beekman...» attaccò. «Rafe non era dei nostri
l’anno scorso… dovremmo tenerne conto in questa sessione
d i krit? Per esempio, il fatto che la sua tecnica sia così...
insomma... rudimentale?»
«La critica è sull’opera in sé» disse Beekman.
Non ero sicuro di cosa intendesse con quella frase, ma
evidentemente c’entrava col farmi a pezzettini, perché subito
anche la mano di Kenny Patel scattò in alto come una fetta di
pane dal tostapane (Kenny era seduto in prima fila accanto a
Zeke, e non serve aggiungere altro).
«Sinceramente non credo che il ritratto ci dica molto di
Rafe, se non che aspetto ha» disse. Poi si voltò e mi guardò
come se avessi i capelli pieni di cacchette di cane. «Be’, forse
neanche quello» aggiunse. Molti scoppiarono a ridere.
«Signore e signori, vi ricordo che le vostre critiche devono
essere rispettose» disse Beekman con circa cinque secondi
di ritardo. «Se non avete niente di costruttivo da aggiungere,
tenetevi per voi i vostri commenti. C’è qualche altra
osservazione positiva? Che cosa vi piace nel disegno di
Rafe?»
E nessuno… disse… una parola.
Mi sembrò di sentire uno spillo cadere. E forse anche
qualche grillo. E anche il rumore della mia faccia che
diventava rossa come un segnale di stop. Se in quel
momento avessi scoreggiato forte, la cosa mi avrebbe
imbarazzato meno di quel silenzio.
Alla fine, per fortuna, Beekman parlò di nuovo.
«Penso sia un buon inizio, signor Khatchadorian. Ha una
mano sicura e si vede. Però credo che lei si stia trattenendo.
La prossima volta vorrei vedere un po’ più di Rafe, mi
capisce?»
«Certo» risposi, ma sinceramente gli avrei persino detto
che portavo delle mutandine da ragazza, se fosse servito a
far finire più in fretta quella krit.
E poi, proprio quando Beekman si voltò per andare
finalmente a staccare il disegno dalla bacheca, il buon
vecchio Zeke McDonald alzò il suo album e lo fece vedere a
tutti. Mi aveva fatto lui un ritratto, ma state certi che non mi
piacque per niente.
Ho sentito dire che ogni tanto nel terreno si aprono
improvvisamente delle voragini che inghiottiscono quelli che
passano. Non so quanto spesso succeda, ma in quel
momento avrei voluto che succedesse subito.
O almeno prima di dover affrontare un’altra krit.
Se vi dicessi che dopo la lezione andai dritto al mio
armadietto, presi il mio pranzo, me lo portai in bagno, gettai
l’autoritratto nel water, tirai l’acqua e poi mangiai il panino
seduto sulla tavoletta mi dareste dello sfigato?
Eh, lo immaginavo.
Per me i bagni della scuola sono come un rifugio antiaereo.
Non ci puoi stare sempre, ma ogni tanto sono utili.
«E adesso che si fa?» disse Leo.
«Quello che vedi». Forse facevo ancora in tempo a
trasferirmi in una scuola media più accogliente, magari in un
quartiere con un nome tranquillo e carino tipo ‘Tritatutto’.
«Sul serio? Ti arrendi? Lo sai cosa direbbe Jeanne Galletta,
vero?»
Lo sapevo, sì. Avrebbe detto: «Non fartela addosso, datti
una mossa». È la sua espressione preferita. Facile a dirsi.
Per lei l’idea di una giornata storta è prendersi una A–,
oppure arrivare in mensa quando il latte al cioccolato è già
finito.
Però devo ammettere che la sa lunga.
E anche Leo, se è per questo. Sapevo benissimo che cosa
stava pensando: che l’Operazione ‘Fatti una vita’ diventava
più probabile, ma anche più necessaria, ogni secondo che
passava.
«Okay, ci penserò su».
«E vai!»
«Per ora ci penserò e basta. Non voglio prendere impe...»
La porta dei bagni si aprì ed entrò qualcuno.
Smisi subito di parlare e alzai i piedi. Non volevo far sapere
a nessuno che stavo facendo la pausa pranzo chiuso lì a
tenere il broncio. Anzi, non volevo far pensare che stessi
facendo la pausa pranzo chiuso lì, punto.
Subito dopo sentii scorrere l’acqua in un lavabo. Il tizio, che
non vedevo, la lasciò aperta per un sacco di tempo. Stavo già
cominciando a pensare che sarei rimasto bloccato lì fino alla
sesta ora quando finalmente chiuse il rubinetto.
Feci un mezzo sospiro di sollievo, ma mi fermai quando il
tizio si avvicinò ed entrò nel cubicolo accanto.
Un attimo dopo sentii una voce. Non accanto a me, ma
sopra di me.
«Ehi».
Alzai lo sguardo, ed era il ragazzo del corso di disegno,
quello col tatuaggio finto. Era in piedi sul water, immagino, e
si sporgeva da sopra il divisorio.
«Cosa fai?» gli dissi. «Tornatene dalla tua parte!»
«Esiste un termine per quello che ti hanno fatto, sai?»
«Eh? Un nome per cosa?»
«Durante la krit. Ti hanno ‘smorzato’. Niente di personale,
eh. In questa scuola è quasi uno sport. E Zeke McDonald è il
capitano della squadra».
Smorzato, krit... era come se sul pianeta Cathedral
parlassero davvero un’altra lingua.
«Capito» dissi. «Ehm... grazie». Non sapevo proprio cosa
aggiungere. Il ragazzo se ne stava lì fermo a guardarmi.
«Nient’altro?»
«Be’, sì». Mi fece vedere una cosa che mi sembrò un
palloncino. In realtà era un guanto di lattice preso da una
delle aule d’arte, riempito d’acqua e annodato. Ero certo che
me l’avrebbe tirato in faccia.
E invece lui mi fece un sorriso diabolico e disse: «Cosa ne
dici di una piccola vendetta?»
C’erano tantissimi motivi per non farlo. Non potevo
permettermi di finire nei guai. Mamma mi avrebbe ucciso se
fosse venuta a saperlo. Non sapevo neanche se mi potessi
fidare di questo ragazzo.
Però una parola mi era piaciuta:
vendetta.
Lui neanche aspettò una risposta. Uscì
dal cubicolo e poi dalla porta dei bagni,
senza fermarsi, mentre io rimasi lì come
un fesso a decidere che cosa fare.
Così decisi di seguirlo, dato che seguire
qualcuno fuori dai bagni non era contro le
regole.
Lui mi stava aspettando in fondo al
corridoio, vicino a una porta che dava su
una rampa di scale.
«Dove stai andando?» chiesi. La scuola era come un
labirinto e io non mi ci orientavo ancora.
«Di sopra».
In cima trovammo altre due porte. Una era collegata
all’allarme antincendio, ma l’altra si apriva senza problemi.
Entrammo in un grande sgabuzzino per i bidelli, con una
finestra che dava sul tetto. C’era una grata di ferro con la
serratura, che era già stata rotta. E io avevo una mezza idea
di chi fosse stato a romperla.
Il ragazzo aprì la grata, tirò su la finestra e scavalcò.
«Ehm... credo che sia vietato salire sul tetto...»
«Ehm... io non vedo nessun cartello. Allora, vieni?»
Sapete cosa vi dico? Se al posto mio foste riusciti a voltarvi
e a tornare giù dalle scale, allora siete molto migliori di me.
Strisciammo quatti quatti fino alla parte opposta del tetto e
ci fermammo al riparo del muretto, proprio sull’orlo. Era
come essere in battaglia... o almeno in una tiratissima partita
di paintball.
Lui alzò due dita e mi fece segno di guardare oltre il
muretto. E guarda caso sotto c’erano Zeke e Kenny, seduti
in cima agli spalti come sul loro personalissimo trono.
Il mio cuore nel frattempo si era messo a suonare un assolo
di batteria, ma mostrai lo stesso tutti e due i pollici al
ragazzo.
Lui aprì lo zaino e mi passò due di quei guanti-gavettone.
Poi ne prese altri due per sé. Vidi che ci aveva disegnato
sopra degli occhi iniettati di sangue, con dei pennarelli
indelebili rossi e neri. Si era anche firmato con quelle che
immaginai fossero le sue iniziali: MIF.
Ciò che non sapevo ancora era che il ragazzo aveva un
soprannome fantastico, come pochi al mondo. Alla Cathedral
tutti lo chiamavano Matty il Freak. Piacere di conoscerla,
signor Freak.
Poi prese un pezzettino di filo di ferro e fece un foro
minuscolo in ognuno. «Per essere sicuri che si rompano,
invece di rimbalzare» disse.
Quello fu praticamente il punto di non ritorno, come
accendere una miccia. Un attimo dopo Matty il Freak stava
già lanciando i gavettoni oltre il muretto.
E l’attimo dopo ancora li stavo lanciando
anch’io.
Non vidi cosa succedeva di sotto, ma lo
sentii eccome: quattro forti ‘splash!’ e un
bel po’ di urla. Noi intanto stavamo già
tornando indietro di corsa. Scavalcammo
di nuovo la finestra e ci sedemmo sulle
scale per poter sghignazzare un po’ in
privato.
«Grandissimo!» esclamai.
«Be’, è l’essenza dell’arte, no?»
Non immaginava neanche quanto avesse ragione.
L’Operazione ‘Fatti una vita’ era ufficialmente iniziata.
Anche quella sera restai sveglio fino a tardi, ma non per fare
i compiti.
Visto che l’Operazione ‘Fatti una vita’ sarebbe partita
davvero, Leo e io dovevamo studiare che forma darle.
L’idea di base era semplicissima. Decidemmo che per la
missione avrebbero contato solo le cose che non avevo mai
fatto prima. Tutto lì. Al contrario dell’altra volta, niente punti,
niente bonus, niente vite da perdere. Se fossi riuscito a farmi
riammettere alla Cathedral per l’anno successivo, missione
compiuta. Altrimenti... be’, tanto valeva fare il passaporto
per Sfigaland.
Come seconda cosa diedi un’occhiata al calendario.
Mancavano centonovantacinque giorni alla Mostra di
primavera a scuola, il 23 marzo. Subito dopo avrei dovuto
ripetere la domanda di ammissione per conoscere il mio
destino. Così decisi di fare centonovantacinque cose mai
fatte prima, almeno una al giorno.
Centonovantacinque occasioni per farmi una vita.
«E faccio tornare valida la Regola Non Far Male A
Nessuno» dissi. «Come l’anno scorso. Nessuno si deve far
male per colpa mia. Se succede, è game over».
«Va bene, ma i gavettoni di oggi valgono lo stesso» chiarì
Leo. «Quando li hai tirati in testa a Zeke e Kenny, la regola
non era ancora tornata in vigore».
Mi andava bene, tutto sommato. Però avevo qualche altra
condizione da far valere.
«Stavolta metto anche me stesso nella regola. Se mi becco
una settimana di reclusione a scuola, è una settimana di
pausa. Se mi sospendono, game over anche qui. E
soprattutto, se mamma scopre qualcosa...»
«Seh, seh, capito. Game over» disse Leo. «Non ne posso già
più».
Su quello però non avevo intenzione di cedere. L’ultima
cosa di cui mamma aveva bisogno era dover ricominciare a
preoccuparsi per me. E l’ultima cosa di cui avevo bisogno io
era farle sospettare che avessi ricominciato a mettermi nei
guai.
Anche se non era vero. Tecnicamente questa missione era
l’esatto opposto di quella dell’anno prima. L’idea allora era
stata di infrangere più regole scolastiche possibile. Stavolta
invece si trattava di non farmi cacciare dalla scuola, ma
temevo che mamma non l’avrebbe vista in questo modo.
Dopo quello che era successo in prima media, ero più che
sicuro che mi avrebbe abbandonato in un orfanotrofio se
avesse di nuovo sentito la parole ‘missione’ e ‘Rafe’ nella
stessa frase.
«E allora dovremo fare in modo che non lo scopra» disse
Leo. «E neanche Georgia, perché ha una boccaccia grande
come questa città».
Anche quello mi andava bene. Nessuno si sarebbe fatto
male, nessuno l’avrebbe saputo, nessun problema.
E quindi... azione!
Il secondo giorno dell’Operazione ‘Fatti una vita’ iniziò alla
grande. Appena prima di continuare male e di finire ancora
peggio.
Ma iniziamo dalla parte buona: per andare a scuola,
mamma mi lasciò prendere l’autobus da solo per la prima
volta. E non parlo dello scatolone giallo che ci scarrozzava in
prima media, ma di un vero autobus urbano.
Era una sensazione strana (in senso positivo) attraversare
così la città, da solo.
Continuavo a guardare le mille persone attorno a me e
pensavo: ‘Sono uno di loro!’
Rafe Khatchadorian, un ragazzo di città: chi l’avrebbe mai
detto, anche solo qualche mese prima?
Così quando arrivai a scuola avevo già fatto almeno una
Cosa Nuova Quotidiana ancora prima di iniziare la giornata.
Se fosse andata avanti così, avrei completato la missione a
occhi chiusi.
Poi però arrivai all’armadietto (e qui
iniziò a mettersi male).
Da fuori sembrava a posto, ma quando
feci scattare il lucchetto e aprii lo sportello
vidi che durante la notte una qualche
creatura aliena ci si era intrufolata, aveva
ingoiato una bomba a mano e si era fatta
esplodere.
Okay, era solo vernice verde, ma... il mio
libro di scienze sociali era diventato verde,
i miei album verdi, la mia roba da
ginnastica verde. E tutto grondava, tutto era appiccicoso,
tutto faceva davvero schifo. Qualcuno aveva trovato il modo
per pompare dalle fessure dello sportello almeno quattro litri
di vernice.
Con ‘qualcuno’ intendo Zeke McDonald e Kenny Patel,
chiappa destra e chiappa sinistra della scuola d’arte
Cathedral. Mi guardai intorno ed erano proprio lì, ai piedi
delle scale. Zeke aveva il cellulare puntato verso di me e tutti
e due scoppiarono a ridere quando si accorsero che li avevo
visti. Poi se ne andarono.
‘La vendetta funziona a doppio senso, d’altronde’ pensai.
Forse quei gavettoni non erano stati una grande idea.
E non era finita. Ero ancora lì che pensavo a come avrei
fatto a sverniciare l’interno dell’armadietto quando dagli
altoparlanti si diffuse un messaggio, e la parte della mia
mattinata che era andata male fece spazio a quella ancora
peggiore.
Cinque minuti dopo entro a tentoni nella tana del Ragno
Crawley, nelle viscere del pianeta Cathedral.
È buio, troppo buio per riuscire a vedere dove metto i piedi.
Da qualche parte sgocciola dell’acqua e nell’aria c’è un
cattivo odore, come di un panino col formaggio andato a
male... e di morte.
Tasto coi piedi mentre avanzo. «Ehi...» dico. «C’è nessuno?»
«Buongiorno»
risponde
una
voce
dall’ombra.
«Accomodati».
Faccio un altro passo, ma è un passo di troppo. Il terreno
mi scompare sotto i piedi e un attimo dopo precipito nel
vuoto.
Atterro su qualcosa di morbido, ma appiccicoso. Lunghi fili,
come corde ricoperte di supercolla, mi si attaccano a gambe
e braccia e non mi lasciano andare. Mi dimeno, ma è peggio.
Prima ancora di poter reagire, sono già intrappolato nella
tela del Ragno Crawley.
Qui sotto non si prende nemmeno la briga di assumere
sembianze umane. Perché dovrebbe? Ora sono nel suo
territorio... e in suo potere. Un solo colpo di quelle chele
affilate come rasoi e potrebbe bermi il sangue come una
spremuta d’arancia.
«Come stai, Rafe?» mi chiede, serafico come un angioletto
con otto zampe al posto delle ali.
«Abbastanza bene». È importante che rimanga calmo
anch’io. Si dice che il Ragno Crawley riesca a fiutare la
paura anche a un chilometro di distanza.
Si dice anche che gli piaccia giocare con le sue prede,
prima di mangiarle.
«Vorrei parlarti di un piccolo incidente che si è verificato
ieri» dice. «C’erano di mezzo dei gavettoni».
‘Non gavettoni, ma guanti di lattice’ penso. Ma non sono
certo stupido. Meno dico, qui, meglio è.
«Ne sai qualcosa?» continua.
«Ne ho sentito parlare».
«Tutto qui? E quindi non sai chi potrebbe essere il
responsabile?»
«No».
C’è una sola arma che posso usare in questa situazione e si
chiama ‘negare tutto’. Finché il Ragno Crawley non ha le
prove, ho ancora una minima possibilità di uscire vivo da qui.
Comincia a girarmi intorno. Io ho la testa praticamente
mummificata e non posso voltarmi, così lo perdo di vista per
un minuto.
Quando lo rivedo ha qualcosa in mano.
«Sai che cos’è questo, Rafe?» All’inizio mi sembra una
cartellina qualsiasi. Poi però ci leggo sopra il mio nome e le
parole ‘Scuola media di Hills Village’. «A quanto pare hai
avuto un anno movimentato, in prima. Ti sei messo un po’ nei
guai sul tuo pianeta natale, vero?»
Cerco di farmi venire in mente in fretta qualcosa da dire.
«È stato tutto un equivoco. Da allora sono cambiato. Ho
voltato pagina. Non sono più quello che...»
Sto parlando troppo. Si capisce che non ci casca. Vorrei
guardarlo negli occhi, ma è difficile, perché ne ha sei.
«Te lo chiedo ancora una volta, Rafe... sei sicuro di non
saperne niente?»
«Sicurissimo! Giuro!»
Sulla tana cala il silenzio. Lui mi squadra a lungo. L’unico
rumore udibile è il ticchettio delle sue chele, pronte a farmi a
pezzettini da un momento all’altro.
Poi però il Ragno Crawley alza una zampa e trancia i fili
della sua ragnatela. Un attimo dopo crollo a terra.
«Puoi andare» dice.
Io sono già in piedi e sto correndo verso la luce più veloce
che posso.
«Ma ti tengo d’occhio, Rafe!» mi grida dietro. «Non voglio
pensare a cosa potrebbe succedere se finirai di nuovo qui
dentro!»
‘Siamo in due’ penso.
Quando uscii dall’ufficio del signor Crawley, tutto era
cambiato. Non ero più il nuovo alunno arrivato da fuori. Ero
diventato il nuovo casinista, almeno per lui.
Non capivo perché andasse sempre a finire così. Non sono
mai stato bravo a fare il bravo, se mi passate la battuta, ma a
volte mi sento come se tutti i guai del mondo fossero di ferro
e io fossi una grossa calamita ambulante.
Potrei anche cambiare scuola ogni due settimane e non
farebbe nessuna differenza. Tanto varrebbe tatuarmi le note
disciplinari sulla fronte.
E poi, proprio quando mi ero convinto che la mia mattinata
non potesse diventare ancora più bizzarra, lo diventò.
Ero in corridoio e stavo andando verso l’aula della prima
ora quando mi sentii afferrare da dietro. Un attimo dopo mi
tirarono in una specie di sgabuzzino, la porta si chiuse e mi
ritrovai al buio. Non aspettai che parlassero e cominciai a
tirare pugni alla cieca. Se erano Zeke e Kenny, tanto valeva
fare più danno possibile prima che riuscissero a prendermi.
Poi però sentii: «Ahi! AHIA! E piantala! Sono io, Matty!»
«Eh?» Mi fermai col pugno a mezz’aria. «Ma cosa fai?»
«Volevo sapere perché ti avevano mandato dal preside»
disse, come se fosse normalissimo fare un discorso del
genere in uno stanzino buio.
D’altronde, per quanto potevo saperne, forse per Matty era
normale.
«Secondo te? In pratica Crawley sa che ho tirato io quei
gavettoni dal tetto».
«Erano guanti di lattice».
«Vabbè, è lo stesso».
«E tu cosa gli hai detto?»
«Niente. Non aveva nessuna prova, perciò ho tenuto la
bocca chiusa e basta».
Sarà assurdo, ma giuro che in quel momento sentii Matty
sorridere nel buio.
«Grandissimo!»
«Per te, magari. Intanto però Zeke e Kenny mi hanno
distrutto l’armadietto».
Lì non mi fu difficile sentirlo ridere, invece. «Non farci caso,
a loro. Per quella piccola guerra abbiamo ancora un sacco di
tempo».
«Io non voglio guerre, né piccole né grandi. Voglio solo
arrivare in aula per la prima ora. Da adesso in avanti
Crawley non mi toglierà più gli occhi di dosso, peggio di un
canale craccato della pay tv!»
«Va bene, va bene». Matty aprì un poco la porta e controllò
il corridoio. «Comunque sono in debito con te. Se mai
cambiassi idea, ti copro io».
Solo mentre me ne stavo andando capii che forse da quella
faccenda sarebbe potuto anche uscire qualcosa di buono.
A meno di non essermi sbagliato di grosso, avevo fatto
amicizia con un essere umano in carne e ossa per la prima
volta dall’inizio delle medie (no, Jeanne Galletta non conta:
primo, era la mia tutor di matematica; secondo, anche se era
una
cosa amichevole, non eravamo amici, soprattutto
secondo lei).
Matty aveva detto ‘ti copro io’.
Doveva per forza significare qualcosa, no?
Salto in avanti! Se mettessi per iscritto tutto quello che è
successo in quel primo trimestre alla Cathedral, per portarvi
dietro questo libro avreste bisogno di una carriola. Quindi
ora salterò qualcosina.
Per farla breve: mi ci è voluto un sacco di tempo soltanto ad
abituarmi alla nuova scuola, alla nuova casa e alla nuova
città. Però ho imparato molto, quasi sempre andando a
sbattere contro i muri. Di seguito vi do qualche consiglio, nel
caso vi capitasse di trovarvi nella stessa situazione.
UNO
Se siete l’unico maschio in una casa piccola con una nonna,
una madre e una sorella, ho un solo consiglio da darvi:
imparate a essere pazienti. E a muovervi molto in anticipo,
ovvio.
DUE
L’arte non è uno scherzo! È piena di regole, proprio come
qualsiasi altra materia. Se non mi credete, provate a tenere
il pennello nel modo sbagliato durante una lezione della
signora Grundewald e poi mi direte.
TRE
La scuola d’arte è fatta per gli intelligentoni. Secondo me
quasi tutti gli alunni di questa scuola sono nati con un libro
di matematica in una mano e un cervello extra nell’altra.
Perciò se siete una zucca vuota come me non aspettatevi di
amalgamarvi. (E nel caso ve lo chiedeste, sì, è vero, tutti i
grandi artisti del passato andavano bene in matematica.
Almeno è quello che mi ha detto il signor Frum quando
gliel’ho chiesto io.)
QUATTRO
Volete vivere in una grande città? Allora dovete essere tosti.
Qui vi camminano sopra, se li lasciate fare... e quindi non
lasciateglielo fare!
CINQUE
Ma perché mi date retta? Se finora siete
stati attenti, ormai sapete che la cosa
migliore è osservarmi per bene e poi fare
l’esatto opposto di quello che faccio io,
perché la mia strada porta a un sacco di
grane.
Non dite che non vi avevo avvertito.
Capito? Bene.
Prego, eh?
Quando uno si ritrova in una nuova casa e una nuova scuola
in una nuova città, scopre che non è poi così difficile fare
nuove esperienze. A me capitavano anche senza che me le
andassi a cercare, e per la mia missione andava benissimo.
Nel frattempo eccovi alcuni degli alti, dei bassi e dei medi
dell’Operazione ‘Fatti una vita’.
Non dico che cinque C e un B– facessero di me un genio, ma
erano i voti migliori che avessi mai preso. Essendo sempre a
casa, mamma poteva aiutarmi con i compiti e controllare che
finissi tutti gli esercizi, anche quando non ne avevo voglia.
E l’Operazione ‘Fatti una vita’ andava sempre meglio.
All’uscita delle pagelle avevo già accumulato cinquantotto
cose fatte e me ne mancavano centotrentasette. Qualcosa di
buono, evidentemente, lo stavo facendo.
Leo però non era d’accordo.
«Devi darci dentro, con questa missione» mi disse. «È ora
di pensare più in grande».
«Ma come? Ho già una lista lunghissima!»
«Si chiama Operazione ‘Fatti una vita’, non Operazione
‘Finisci una lista’. E tanto sono tutte lezioni a cui saresti
dovuto andare comunque, oppure passeggiate che fai in città
con tua madre. Che ti tiene al guinzaglio, fra l’altro. Non ti
stai neanche sforzando di rendere interessante il gioco».
«Oh, cavolo. Ci risiamo».
Leo fa così. Lui lo chiama ‘rendere interessante il gioco’, io
lo chiamo una rottura di scatole.
«Nuova regola» disse. «Da oggi in poi ogni dieci cose
normali devi fare almeno una cosa grandiosa. Altrimenti
niente credito per le cose normali».
«Un attimo... in che senso ‘cosa grandiosa’?»
Figurarsi se non aveva una risposta pronta, come sempre.
«Tanto per cominciare, dev’essere una cosa che ricorderai
finché vivi».
«Ah, tutto qui?»
«Be’, no. Non può essere roba che fai a scuola e non ci
dev’essere nessun adulto che sbircia mentre la fai».
Oltretutto dovevo tenere conto anche della Regola Non Far
Male A Nessuno. E le cose da fare avrebbero dovuto essere
gratis, perché non avevo soldi.
Eppure Leo aveva ragione. Perché ne valesse la pena,
questa operazione andava condotta bene. Era arrivato il
momento di salire di livello. Solo che non avevo ancora idea
di dove avrebbe potuto portarmi tutto questo.
E poi, solo qualche giorno dopo, la signora Ling ci assegnò
il lavoro con i materiali di scarto.
«Guardate questa» disse la signora Ling, e ci mostrò la foto
di un bidone della spazzatura.
«E adesso questa».
«E questa. E questa».
«Molto spesso il compito di un artista è quello di mostrare
al mondo qualcosa di conosciuto, ma in un modo
completamente nuovo. Come compito per la settimana voglio
che prendiate un oggetto che per chiunque altro sarebbe
spazzatura e lo facciate rivivere come opera d’arte».
Lì compresi che ormai mi ero ambientato alla Cathedral,
perché avevo finalmente capito quello che la signora Ling
aveva detto. L’idea di prendere qualcosa e dargli una nuova
vita mi piacque subito. Era un po’ quello che stavo facendo
con me stesso.
Come al solito ero seduto in fondo, con Matty. Lui stava già
buttando giù idee a mille, ma poi scrisse qualcosa in un
angolo della pagina, lo strappò e me lo passò.
Dopo la lezione mi disse che conosceva un sacco di posti
dove la gente di solito buttava roba decente.
«E possiamo prenderla tranquillamente? Sei sicuro?»
«Rilassati. Cerchiamo spazzatura, non stiamo rapinando
una banca» disse. «Tu ti preoccupi troppo, sai?»
Lo trovai buffo, perché quasi tutti invece pensano che io
non mi preoccupi abbastanza.
Mi lasciò usare il suo cellulare per chiamare mamma. Le
dissi che dopo la scuola sarei stato impegnato su un compito
e lei la prese benissimo. Mi chiese soltanto se volevo che
venisse a prendermi più tardi.
«No, torno in autobus» risposi.
Tecnicamente non avevo detto una bugia. Solo non avevo
detto dove sarei andato, un po’ perché pensavo che mamma
non avrebbe apprezzato e un po’ perché nemmeno io lo
sapevo.
Non ero neanche sicuro di come si facesse di preciso un
tuffo nei bidoni, però dava l’idea di essere divertente. E dava
anche l’idea di essere una delle cose di cui la mia lista aveva
bisogno, secondo Leo.
E infatti fu così.
Quando la sera tornai a casa, la prima cosa che pensai fu:
‘OH, CAVOLO, CI SONO STATI I LADRI!’
L’armadio nell’ingresso era aperto, il pavimento era tutto
ricoperto di roba e la casa di nonna era nel caos più totale.
Be’, più del solito.
«Rafe? Sei tu?» gridò mamma. «Siamo di qua!»
Seguii la roba sparsa sul pavimento come le briciole di
Hänsel e Gretel e arrivai in cucina. Erano là tutte e tre.
Mamma stava cacciando delle pile di giornali in un sacco
della spazzatura, Georgia girava a fatica in un paio di scarpe
col tacco alto, nonna era seduta al tavolo e guardava delle
vecchie foto prese da una scatola da scarpe.
«Ma cosa fate?»
«Le pulizie di primavera!» rispose nonna. Eravamo a
novembre. «Era ora di svuotare questi armadi e fare un po’
di spazio per voi tre».
Belle notizie, volendo, perché io stavo usando la valigia
come cassettiera e il grosso della nostra roba era in un box a
Hills Village.
Ma in realtà non erano poi così belle. Mamma aveva
intenzione di trovare un lavoro in modo che potessimo
trasferirci tutti e quattro in un appartamento più grande. Il
lavoro però non era ancora arrivato e con quelle pulizie era
evidente che non saremmo andati da nessuna parte. Mamma
stava pensando la stessa cosa, glielo leggevo in faccia.
«Vi ho mai fatto vedere le mie vecchie foto, ragazzi?» disse
nonna. «Su, venite qui. Facciamo partire la macchina del
tempo! Guardate com’era carina vostra madre da piccola!»
Georgia si avvicinò, ma io continuai a osservare mamma.
Dal modo in cui ci ficcava dentro la roba, mi aspettavo che il
sacco si sfondasse da un momento all’altro.
«Anche questa è una bella foto» disse nonna. «Guarda,
Jules. Siete tu e Ralph di fronte al Salone Capello».
Quello mi fece drizzare le orecchie. Avevo sempre pensato
che nonna si riferisse a me quando diceva ‘Ralph’, ma poi
vidi la foto.
«E quello chi è?» chiese Georgia.
«È papà» le risposi io. «Solo che pensavo si chiamasse
Luca».
«Sì, infatti» disse mamma. Stava ancora riordinando e non
aveva nemmeno alzato gli occhi per guardare la foto. «Ralph
è il suo secondo nome».
«Ah. Non lo sapevo».
Però questo spiegava diverse cose, tipo perché nonna
continuava a chiamarmi così. Significava che era solo un po’
matta e non completamente fuori.
Nella foto mio padre stava abbracciando mamma e tutti e
due erano molto giovani, forse ancora alle superiori. Non
l’avevo mai vista prima. In realtà non avevo mai visto molte
foto di mio padre. Credo che mamma le avesse buttate via
tutte quando lui se n’era andato.
Ormai non lo nominavamo quasi più. Era un argomento
delicato e ogni volta che facevo qualche domanda al
riguardo, mamma rispondeva sempre allo stesso modo: «La
storia è breve e la sai». Dopo un po’ avevo imparato la
lezione e avevo smesso.
E più o meno la storia breve era questa: mio padre se n’era
andato quando io avevo quattro anni e Georgia due, più o
meno un anno dopo che Leo era morto. Da allora non
avevamo più saputo niente di lui. Chiuso.
Fino a quel giorno, almeno.
«Sai se Capello è ancora aperto?» le chiese nonna. «Era su
Calumet Avenue, no?»
Per un attimo sembrò che mamma volesse dire qualcosa.
Poi invece posò il sacco per terra, fece un respiro profondo e
uscì dalla cucina. Qualche attimo dopo sentii la porta del
bagno chiudersi, al piano di sopra.
«Ma cos’è successo?» chiese Georgia. «È arrabbiata?»
Nonna prese in braccio mia sorella. «Credo che per
mamma sia una giornata un po’ storta» le disse. «Tutto qui».
Ma non era tutto lì. Non per me. Avevo appena capito quale
sarebbe stata la mia prossima sfida grandiosa.
E Capello mi sembrava il posto migliore da dove partire.
Magari vi sembrerà strano, ma prima di quel giorno non è
che avessi passato poi tanto tempo a pensare a mio padre.
Per gran parte della mia vita, semplicemente, non era
esistito.
Dopo aver visto quella foto, però, non riuscivo a smettere di
pensare a lui. Com’era adesso fisicamente? Viveva ancora in
città? Era ricco? Era povero? Si ricordava di noi, ogni tanto?
Quella sera restai sveglio fino a tardi, a disegnare sul mio
album e a parlare con Leo.
«Secondo te cosa succederebbe se lo trovassi?»
«Non lo so, ma la missione ti darebbe una tonnellata di
crediti».
A volte Leo ragiona a senso unico.
«E se lo cerco ma alla fine non lo trovo?»
«E se la smettessi di fare domande e cominciassi a mettere
giù un piano?»
E così non appena sentii nonna spegnere la tv, di sopra,
scesi dal letto e andai al computer.
Il Salone Capello non aveva un sito web, ma trovai
comunque l’indirizzo: 3921 Calumet Avenue. Lo evidenziai
su una mappa e tossii forte mentre la stampavo, giusto nel
caso mamma fosse stata ancora sveglia.
Poi piegai il foglio, lo misi in fondo allo zaino e cercai di
dormire un po’.
Nemmeno quello fu facile. Oltretutto mi misi a pensare
anche alla domanda che il signor Beekman aveva scritto
sulla lavagna il primo giorno di scuola: ‘Chi siete?’
Se avessi potuto saperne di più su mio padre, forse avrei
potuto saperne di più anche su di me.
E se quello non era un modo per farsi una vita, non sapevo
cos’altro avrebbe potuto esserlo.
Il giorno dopo, quando gli chiesi come fare per arrivare
all’angolo tra Calumet Avenue e la 33 a, Matty si offrì subito
di accompagnarmi. Appena finita la scuola partimmo. Mi
insegnò come prendere il 23 e poi il 9 per arrivare al punto
che avevo segnato sulla mappa.
Non gli avevo detto il perché del viaggio, ma non sembrò
importargli. Per Matty il Freak ogni avventura era buona.
Scendemmo dall’autobus, e trovammo subito Capello
all’angolo. Era ancora più o meno come nella foto, ma solo
vedendolo di persona mi accorsi che era il salone di un
barbiere.
«Be’, ‘Salone Capello’... c’era da aspettarselo» disse Matty.
«Aspettami qui fuori. Torno subito».
Lui diventò subito curioso. «Perché? Cosa devi fare?»
«Non so, pensavo di rapinare una banca. Aspettami qui,
okay?»
La scelta era tra fare così o dirgli che stavo cercando una
persona basandomi su una foto scattata all’incirca vent’anni
prima. Tutto normale, no?
Dentro la bottega c’erano tre poltrone in fila davanti a uno
specchio, ma un solo barbiere. Però capii subito che doveva
essere lui Capello, perché... be’, perché aveva un sacco di
capelli. E di peli. Ed era enorme. Sembrava un Bigfoot
tatuato.
«Accomodati un attimo» mi disse. «Ho quasi finito».
«Ah... va bene».
Mi sedetti su una delle seggiole da attesa, quella più vicina
alla vetrina. Presi una delle riviste sul tavolino. Parlava di
caccia e pesca e mi sembrò strano, perché da quando ci
eravamo trasferiti in città non avevo mai visto né uno stagno
né un boschetto.
Prima ancora che potessi sfogliarla, però, Matty entrò come
se niente fosse.
«C’è la fila» gli disse Capello. «Se vuoi aspettare, ce la
caviamo in fretta».
«Per me va bene» disse Matty. Poi si piazzò a qualche
seggiola di distanza da me, come se non ci conoscessimo
neanche. Io lo guardai male per tutto il tempo, ma le
occhiatacce non gli facevano né caldo né freddo. Si prese
una rivista, la aprì sottosopra, e aspettò di vedere cosa avrei
fatto.
‘E chi se ne frega’ pensai. Ormai ero lì e indietro non sarei
tornato. L’altro cliente stava già pagando il suo taglio. E
subito dopo Capello mi chiamò, con un cenno delle enormi
forbici che teneva in mano.
«Avanti il prossimo!»
«Ah, veramente volevo solo chiederle una cosa...»
Immediatamente gli venne una faccia minacciosa e le sue
sopracciglia spessissime si unirono in una specie di grosso
cespuglio.
«Mica è una biblioteca, questa» disse. «Se ti fai tagliare i
capelli e paghi, parliamo quanto vuoi. Sennò ho altri clienti
che aspettano».
Ero sicurissimo che un taglio sarebbe costato più dei
trentacinque centesimi che avevo in tasca. Nel frattempo la
gola mi si stava trasformando in una tubatura intasata.
«Eh... no... cioè... volevo solo chiederle se conosceva...»
«Sei sordo?» disse, o più che altro ruggì. «Non farmi
perdere tempo, ragazzino! Ho i conti da pagare, io!»
Non sapevo cosa rispondere, ma ci pensò Matty.
«Ehi, senta...» gli disse. «Giusto per curiosità. Cosa si prova
a essere l’imbecille più alto del mondo?»
La conversazione praticamente finì lì. Capello si mise a
correrci dietro, con la faccia di uno pronto a uccidere (ah, e
vi ho già accennato alle forbici enormi, no?).
Non per vantarmi, ma io corro veloce. Mi ritrovai sul
marciapiede in mezzo secondo netto e non mi fermai per una
decina di chilometri. O forse solo tre isolati, non so.
Quando Matty mi raggiunse stava ancora ridendo.
«Ma hai visto che faccia aveva?» disse. «Il barbiere più
scorbutico di sempre, non c’è storia».
Forse avrei dovuto prendermela con lui perché aveva
mandato tutto all’aria, ma in realtà ero contento che Matty
fosse lì con me. D’altronde era improbabile che Bigfoot mi
avrebbe fatto mettere comodo e portato il latte con i biscotti,
no?
«Però non capisco perché ti sei comportato così» aggiunse.
«Pensavo che foste parenti».
«Parenti?» Pensai mi stesse prendendo in giro, ma era
serissimo. «Come sarebbe a dire?»
«Sullo specchio c’era il nome, proprio di fianco alla foto.
Non l’hai visto?»
«Ma quale nome?»
«Harold Khatchadorian. Com’è che non mi avevi mai detto
di avere i geni di un gigante?»
Allora gli raccontai tutto.
Be’, non proprio tutto. Non gli dissi di Leo.
Non sono tante le persone di cui mi fido, a parte mamma (e
Leo, ovviamente), ma anche se ci fossero, dubito che
inizierei a confidarmi parlando del mio amico immaginario.
Comunque gli dissi di mio padre, del perché fossimo andati
da Capello e perfino dell’Operazione ‘Fatti una vita’.
Temevo che alla fine si sarebbe messo a ridere o qualcosa
del genere. Invece rimase serissimo.
«E lo stai facendo solo per poter rimanere alla Scuola di
artistoidi Cacchidral? Come mai?»
«Perché, a te non piace?»
«Rispetto a cosa? Certo, è meglio di una scuola normale,
ma è sempre una scuola, no?»
Mi sembrò una risposta validissima. Più lo conoscevo, più
quel tizio mi piaceva.
«Sai una cosa?» disse. «Lascia perdere Capello e tutto il
resto. Vuoi una botta di vita? Vieni».
Nel dirlo, stava già tornando alla fermata. E poi si mise a
correre, di nuovo. Toccò a me cercare di tenergli dietro.
«Dove andiamo?»
Lui non si voltò neanche.
«Dappertutto!» rispose continuando a correre.
Quel giorno imparai diverse cose su Matty il Freak. Per
esempio:
– il suo vero nome, completo, era Matthew Isidore
Fleckman;
– si era inventato lui stesso il soprannome ‘Matty il Freak’,
in modo che la sigla rimanesse uguale;
– abitava con tre fratelli più piccoli, la madre, il padre e un
beagle. Tanto per fare gli spiritosi, il cane lo avevano
chiamato Bagel;
– ma soprattutto scoprii che nel fare cose senza pagare
Matty Fleckman aveva più talento di chiunque altro avessi
mai conosciuto.
Dopo aver preso l’autobus, la prima fermata fu il più grosso
negozio di elettronica che possiate immaginarvi. Una roba
che praticamente aveva un codice di avviamento postale
tutto suo. Il terzo piano era solo videogiochi e quasi tutti
erano esposti in modo da poterli provare sulle console a
disposizione del pubblico.
«Devi solo spostarti continuamente» mi disse. «Così i
commessi non capiscono da quanto sei lì e tu puoi
continuare a giocare anche tutto il giorno, se vuoi.
Dopodiché attaccammo il mega-multisala nella stessa via.
Era il tipo di cinema con poltrone superlusso, dove uno
potrebbe spendere anche cento dollari in snack senza
saziarsi e dove i biglietti costano quindici dollari.
A meno di non essere Matty il Freak, ovviamente.
Ignorammo l’entrata principale e girammo l’angolo. Sul lato
l’edificio aveva un sacco di uscite di sicurezza, di quelle con
le porte senza maniglia all’esterno. Nessun problema, però.
Il cinema aveva tipo trentotto sale e non ci volle molto prima
che uno dei film finisse e la gente uscisse.
«Fai finta di niente e seguimi» disse. Poi camminò dritto in
senso contrario alla folla, come se risalissimo un fiume.
«Mamma?» si mise a dire. «Mamma? Scusi, ha visto una
signora alta con un cappello rosso?»
Io già consideravo Leo il Taciturno un genio, ma quella di
Matty fu la mossa più spettacolare di sempre.
Un paio di minuti dopo eravamo spaparanzati in due
poltrone ultracomode a vedere il mio primo film vietato ai
minori di diciassette anni. Si intitolava Zombomania e,
credetemi, dentro c’era diversa roba che per legge non avrei
potuto vedere, tipo una tizia che non solo era una zombie,
ma è pure rimasta senza vestiti dall’inizio alla fine!
E il mio unico commento è stato: !!!!!!!!!!!!!!
Sarebbe già stato fantastico così, ma quando dopo il film ci
venne fame Matty disse di conoscere un posto dove
avremmo potuto mangiare... gratis, naturalmente.
«Io ci sto. Dove?»
«Allora, sta venendo bene la scultura di rifiuti?» mi chiese
mamma a cena, mentre io facevo finta di avere fame.
«Ultimamente hai lavorato sodo».
Le dissi che stava andando bene, il che era vero, ma nel
frattempo stavo anche cercando di cancellarmi dal cervello
le cinque ore precedenti. Non so la vostra, ma mia madre è
telepatica. È più sicuro se non penso le cose che non voglio
farle sapere.
E non era facile, perché c’erano ancora più o meno cento
domande che avrei voluto farle.
Alla fine, dopo cena, decisi di tentare la fortuna. Non con
mamma, però: con nonna. Aspettai che mamma e Georgia
andassero di sopra a vedersi un film e poi la cercai in
soggiorno, dove, come tutte le sere, mi stava preparando il
divano per la notte.
«Nonna?» La chiamai piano, non si sa mai.
«Sì, tesoro?»
«Sai quella foto di mamma con mio padre? Quella davanti al
Salone Capello?»
«Certo. Mi piace tanto, quella foto».
«Be’, ho una curiosità... tu lo sai chi è ‘Capello’? Non che ci
perda il sonno, eh, ma...»
«Ah, è lo zio di tuo padre» rispose, come se niente fosse.
«Non è un tipo simpatico, però». Poi tornò a rimboccare le
coperte sotto i cuscini del divano.
Per me fu come un pugno nello stomaco. Quell’omone
cattivo e peloso era il mio prozio? Mi sembrava quasi
impossibile, anche se non era per niente impossibile.
«Nonna?»
«Sì?»
«Sai come si chiama davvero?»
«Chi, tesoro?» A volte comunicare con nonna è come
parlare a un telefono che funziona male.
«Capello, il barbiere, quello nella vecchia foto».
Fece un sorrisone. «A proposito, ti ho mai fatto vedere le
mie vecchie foto? Un giorno o l’altro dovremmo prenderle e
andare a farci due passi sulla strada dei Bei Ricordi».
Che cosa potevo rispondere? In ogni caso non ero tornato
al punto di partenza, perché sapevo qualcosa in più rispetto
a prima.
«Certo, buona idea».
Lei mollò due cuscini sul divano e poi mi strinse in uno di
quei suoi abbracci che sono sempre più forti di come te li
aspetti.
«Ti voglio bene, Ralph. Sei un bravo ragazzo».
«Anch’io ti voglio bene, nonna».
Ed era la verità.
Decisi di lasciar perdere per un po’ la faccenda e di dare a
Capello il tempo di calmarsi. Fino alla prossima era glaciale,
magari.
Non che avessi intenzione di arrendermi, però. Quella sera,
dopo che nonna si fu messa a letto, tornai al computer.
Su Google digitai ‘Luca Khatchadorian’, per vedere cosa
sarebbe saltato fuori.
Non molto. La maggior parte dei risultati riguardava un
ragazzino che abitava in una fattoria con un allevamento di
capre in Lettonia.
Così provai soltanto con ‘Khatchadorian’, ma il problema
era opposto: vennero fuori più o meno due milioni di link.
Alla fine cercai ‘Ralph Khatchadorian’, così, tanto per fare.
Il risultato fu zero, ma il messaggio sullo schermo diceva
anche: ‘Forse cercavi «Rafe Khatchadorian?’».
E io pensai: ‘Non so... forse cercavo Rafe?’
Decisi che cliccare non avrebbe fatto male a nessuno.
Il primo risultato della lista riportava il mio nome e
qualcosa riguardo alla Cathedral. Quando lo cliccai si aprì la
mia pagina personale sul sito della scuola, con un mucchio di
foto, disegni e roba simile.
Il problema era che io non avevo una pagina personale sul
sito della scuola. Cioè, sapevo che potevamo metterne su
una, ma lo facevano solo quelli che avevano tipo diciottomila
amici di cui vantarsi.
E chiunque avesse messo su la mia non era certo un amico.
Più la guardavo, più dimenticavo il motivo per cui mi ero
seduto al computer. Non pensavo più a Luca Khatchadorian,
ma a Zeke McDonald e a Kenny Patel.
E a vendicarmi.
Di nuovo.
«Senti, Leo...» dissi.
«Cosa?»
«Devo sospendere per un po’ l’Operazione ‘Fatti una vita’».
«EH?»
«Solo per qualche giorno».
«Perché?»
«Per via della Regola Non Far Male A Nessuno. Mi sa che
sto per infrangerla e non voglio che succeda mentre stiamo
giocando».
Il giorno dopo, in pausa pranzo, portai Matty nel laboratorio
di informatica e gli feci vedere la pagina finta creata da Zeke
e Kenny.
Prima di poter anche solo dire «Facciamogliela pagare!»,
lui aveva già un’idea. Tirò fuori l’album e cominciò a
disegnare, velocissimo, come fa sempre.
«Ci vendicheremo con il loro stesso sistema» disse.
«Cioè con un’altra pagina web?»
«No, meglio. E quando succederà sapranno benissimo chi è
stato, ma non avranno mai le prove per dimostrarlo».
Capito? È per questo che è sempre un bene avere dalla
propria parte un pazzoide professionista. Non sapevo ancora
nemmeno quale fosse, ma l’idea di Matty già mi piaceva.
Nel frattempo lui continuava a scribacchiare e disegnare,
disegnare e scribacchiare.
«La krit per le sculture con i rifiuti è questo venerdì, no?»
disse a un certo punto. «Vuol dire che alla quinta ora di
giovedì tutti avranno finito i lavori e li avranno messi nel
retro dell’aula della signora Ling».
«Be’, sì. E allora?»
«A che ora finisce la lezione?»
«A mezzogiorno meno un quarto». Andai sul sicuro perché
so sempre quando inizia la pausa pranzo.
Matty scrisse ‘Ling’ e ‘11.45’ su due parti diverse del foglio.
Fu in quel momento che capii cosa stava disegnando. Era
una pianta della scuola. Però continuavo a non capire
perché.
«Secondo me ci servono più o meno cinque minuti prima
che la signora Ling scenda». Scrisse anche quello. «Poi circa
altri tre minuti fino...»
«No, rallenta, rallenta» dissi. «Devi darmi il tempo di capire
bene. Cosa dovrebbe succedere giovedì a mezzogiorno meno
un quarto?»
Matty allora posò finalmente la penna e mi guardò con
l’espressione di uno che si stava tenendo per sé il segreto
più entusiasmante del mondo. Il che in un certo senso era
vero.
«Ah, niente. Solo il primo caso professionale di artepimento
nella storia della scuola d’arte Cathedral. Tutto qui».
Se ancora non l’avete notato, Matty il Freak non lascia mai
niente a metà. È una delle cose che mi piacciono di lui. Entro
la quinta ora di quel giovedì sapevamo già tutto il piano a
memoria, nei minimi dettagli.
Non che ci saremmo tenuti le sculture di Zeke e Kenny. Le
avremmo solo nascoste sul tetto finché loro non avessero
rimosso quella stupida pagina web. Dopo avrebbero trovato
nell’armadietto un altro messaggio con su scritto dove
cercarle. Se quei due avessero avuto un minimo di
buonsenso, tutto si sarebbe risolto prima della krit di
venerdì.
E Matty aveva ragione: non importava che sapessero o
meno che dietro c’ero io. Anzi, io volevo che lo sapessero.
Dopotutto quella era una guerra, il tipo di guerra in cui devi
sapere di preciso chi è il tuo nemico.
E io lo sapevo, poco ma sicuro.
Per tutta la quinta ora, quel giorno, riuscii a malapena a
concentrarmi per finire la mia scultura. Avevo ricavato un
divanetto da alcuni scarti di legno. Poi con il filo di ferro
avevo fatto un omino stilizzato, con addosso un foglio di
stagnola modellato come una coperta. Non era esattamente
un autoritratto, ma stavo comunque cercando di metter vita
nella mia arte, come ci consigliava sempre il signor
Beekman. L’avevo intitolata Ragazzo che dorme sul divano
(anche perché non mi era venuto in mente niente di meglio).
Finalmente suonò la campanella per la pausa pranzo.
L’Operazione ‘Artepimento’ era iniziata!
Per prima cosa Matty e io portammo le nostre sculture sul
tavolo in fondo e andammo al piano di sotto come tutti gli
altri. Poi però, mentre nessuno guardava, tagliammo per
l’aula magna e uscimmo sul lato opposto della scuola. Da
quel punto potevamo tenere d’occhio la signora Ling nel
corridoio. Non appena girò l’angolo e andò in sala professori,
con in mano il suo vassoio, noi tornammo di sopra. Mezzo
minuto dopo eravamo di nuovo nella sua aula, deserta.
Fin lì tutto bene. Matty afferrò la scultura di Kenny e io
presi quella di Zeke.
Con un tubo di plastica e un ombrello rotto, Kenny aveva
fatto una palma, tutta ricoperta di ritagli di scatole di cereali
che aveva colorato di marrone e verde. Non era male.
Quanto alla scultura di Zeke... be’, avreste dovuto
torturarmi e in più darmi mille dollari per farmi dire
qualcosa di buono su Zeke McDonald, ma non c’era dubbio
che con quella si sarebbe preso una A, come sempre.
Per prima cosa aveva costruito un cubo con delle asticelle e
le aveva fissate con della colla speciale. Poi, usando una
lenza da pesca, aveva appeso all’interno della struttura più o
meno un milione di viti, ingranaggi e molle, tutti arrugginiti.
In pratica aveva creato una gabbia con all’interno una
scultura mobile che produceva un bel tintinnio quando ci
soffiavi sopra.
E devo dire... okay, che era... non so... forse giusto un
tantino... fighissima.
Anche così, comunque, pensavo soltanto a come Zeke e
Kenny sarebbero andati fuori di testa quando avessero
scoperto che le loro opere erano state rapite. Gettai la felpa
sul cubo perché non facesse troppo rumore e andammo
dritti verso la porta.
E lì trovammo il primo intoppo.
Mentre controllavo il corridoio vidi uno dei bidelli, il signor
McQuade. Aveva parcheggiato il suo bidone a rotelle fuori
dal bagno dei ragazzi, che guarda caso era di fronte alla
rampa di scale verso il tetto.
Lo indicai a Matty. «Cosa facciamo?»
Proprio in quel momento il signor McQuade aprì la porta
dei bagni ed entrò.
«Vai!» disse Matty. «Veloce!»
Prima che potessi reagire, lui mi passò davanti e uscì.
Allora lo seguii in corridoio. Ci servivano al massimo venti,
trenta secondi per superare la porta.
E lì beccammo il secondo intoppo.
Matty raggiunse le scale e si bloccò di colpo. Io quasi gli
andai a sbattere contro e la scultura di Zeke si mise a fare
rumore sotto la felpa. E anche il mio cuore.
‘COSA C’È?’ mimai con la bocca.
Matty indicò il fondo delle scale e mi segnalò: ‘ARRIVA
QUALCUNO’.
Subito dopo sentii una voce provenire dalle scale: «Se
volete seguirmi, ora vi mostro l’ala dedicata alle arti visive...»
Era il signor Crawley. Organizzava continuamente visite
guidate della scuola, a cui non avevo mai nemmeno fatto
caso. Mai prima di allora, ovvio.
E stava venendo proprio verso di noi. Eravamo troppo
lontani per tentare di rientrare nell’aula della signora Ling.
Anche i bagni erano da scartare, per via del signor
McQuade. Cercare di salire ormai era troppo rischioso.
Guardai Matty. Matty guardò me.
‘NASCONDIAMOCI’ mimò. Scattammo subito.
Io feci la prima cosa che mi venne in mente: mi tuffai nel
grosso bidone che il signor McQuade aveva lasciato nel
corridoio. Non fu facile con la scultura sottobraccio, per non
parlare del fatto che il bidone aveva le ruote. Mentre mi
abbassavo il coperchio sopra la testa vidi la porta del bagno
delle ragazze che si chiudeva dietro a Matty e pensai:
‘Quella sì che è un’idea furba’.
Ma era troppo tardi per rimediare. Potevo solo starmene lì
dentro al buio e pregare che il signor Crawley passasse oltre
prima che il bidello uscisse dal bagno.
Se pensate che stessi chiedendo un po’ troppo, be’... avete
ragione.
Ovviamente da dov’ero non riuscivo a vedere niente, ma
non ci vuole un genio per immaginare cosa successe dopo.
Mentre mi ci infilavo dentro, il bidone doveva essere arrivato
proprio davanti alla porta del bagno e probabilmente il
signor McQuade uscì da lì un attimo dopo, perché io sentii
una bella botta sul lato del bidone...
... il bidone schizzò lungo il corridoio...
... e poi...
Non so se vi è mai capitato di trovarvi in un bidone di
plastica mentre rotola giù per una rampa di scale, ma
fidatevi, non è divertente come sembra (anche se non lo
sembra per niente, pensandoci bene).
Quando mi schiantai sul pianerottolo, non fummo solo io e
un mucchio di asciugamani di carta usati a rovesciarci fuori.
Uscì anche la scultura di Zeke, che dopo tutti quei rimbalzi,
colpi, schiacciamenti e rotolamenti si era ritrasformata nel
milione di singoli pezzi con cui era stata creata.
E quello, signore e signori, ragazze e ragazzi, fu un ottimo
esempio di quello che si chiama toppare alla grande. Perché
ormai non era più un caso di artepimento, no.
Era diventato articidio.
Mi tennero nell’ufficio del preside per tutta la sesta e la
settima ora, mentre aspettavamo che mamma arrivasse per
la mia esecuzione. Voglio dire, per un colloquio con il signor
Crawley.
Tutte e due le cose, in realtà.
Quando mamma arrivò ci furono occhiatacce e scuotimenti
di capo, poi mi dissero di aspettare fuori. Alla fine la
punizione che decisero di darmi fu un po’ come la scultura di
Zeke, nel senso che era fatta di tante parti.
Per prima cosa non avrei più potuto frequentare il corso
della signora Ling per il resto dell’anno. Disegno, pittura e
tutto il resto sì, ma il mezzo anno di scultura avrebbe dovuto
essere recuperato in terza. Sempre se ci fossi arrivato, ovvio.
Secondo, dovetti chiedere scusa di persona a Zeke
McDonald. Lo mandarono a chiamare durante l’ottava ora
per costringermi a farlo lì nell’ufficio, davanti a mamma e al
signor Crawley. Io cercai di sbrigarmela il più in fretta
possibile prima che mi venisse da vomitare.
Giusto per chiarire: sapevo di aver fatto una brutta cosa. Se
qualcuno avesse demolito la mia scultura, anche senza farlo
apposta, avrei preteso ben più di un semplice ‘scusa’.
Allo stesso tempo, però, questo non cancellava di certo
quello che Zeke aveva fatto a me, e lo sapevamo tutti e due.
Forse meritava le mie scuse per la scultura, ma non significa
che non meritasse anche di essere buttato nella gabbia dei
leoni allo zoo con due braciole di maiale graffettate sulle
chiappe.
Nel frattempo, comunque, dovetti subire l’umiliazione
mentre mamma e il signor Crawley continuavano a farmi
pagare le conseguenze del mio misfatto.
La terza parte della punizione fu una sospensione dalla
scuola di tre giorni, uno per aver rubato la scultura e due per
averla distrutta. Non sapevo se fosse troppo o troppo poco,
ma non mi importava. L’anno prima ero stato sospeso per un
solo giorno ed ero praticamente morto di noia. Le possibilità
di sopravvivere a tre mi sembravano parecchio scarse.
E nel caso vi stiate chiedendo che cosa era successo a
Matty... be’, lui aveva fatto la cosa più furba. Aveva aspettato
nei bagni delle ragazze finché le acque non si erano calmate,
poi era tornato di nascosto nell’aula della signora Ling e
aveva rimesso a posto la palma di Kenny prima che qualcuno
si accorgesse che era sparita. Ovviamente io non spifferai
niente su di lui e neanche su Kenny, tanto non ce n’era
motivo.
Certo avrei dovuto essere anch’io abbastanza furbo da
cavarmela da solo. O abbastanza fortunato. O abbastanza
qualcosa.
Però qui stiamo parlando di me, mai furbo, mai fortunato,
mai niente.
E non era finita lì. In un certo senso, il peggio doveva
ancora arrivare.
Per tutta la strada dalla Cathedral fino a Killarney Avenue
mamma non mi disse una parola. Neanche una.
Forse avrei dovuto parlare io per primo, ma non mi veniva
in mente niente di sensato. Un semplice ‘scusa’ non basta
quando ti sei messo nelle grane per la terza, quarta, quinta
volta... o per la centoventisettesima, come me. Così rimasi
seduto e zitto mentre cercavo di non farmi congelare dal
freddo che c’era fra noi due.
Mamma trovò parcheggio vicino a casa e spense il motore.
A quel punto non ne potevo più.
«Ti chiedo scusa, mamma. Sono pentito, davvero». Sentito?
Frasi da sfigato totale, ma dovevo pur dire qualcosa.
«Pentito di esserti fatto beccare? O pentito piuttosto di aver
rubato quella scultura?»
«Entrambe le cose» dissi, prima di capire che la risposta
giusta sarebbe stata: «Pentito piuttosto di aver rubato quella
scultura».
Uuups.
«No, volevo dire...»
«Non sono solo arrabbiata, Rafe, sono anche molto delusa.
Dopo tutto quello che è successo l’anno scorso, speravo che
alla Cathedral riuscissi a ricominciare da capo. Ma non ha
funzionato, vero?»
«No». Mi sentivo più a disagio ogni secondo che passava.
«Forse la Cathedral non è il mio posto. È quello che pensano
tutti».
«Tutti chi?»
«Be’, tutti quelli più bravi in arte, almeno. Tipo Zeke
McDonald e i suoi amici».
Mamma fece un respiro profondo, poi disse: «Rafe,
guardami... ti è mai passato per la mente che gli studenti
possano sentirsi minacciati da te?»
Mi venne da ridere. «Minacciati? Da me?»
«Fidati, non sei l’unico alunno della Cathedral ad avere
dubbi sul proprio talento. Quello dell’arte è un mondo
competitivo, già alle medie. Però se è questo il modo in cui
hai scelto di confrontarti con altri artisti forse hai ragione,
forse non dovresti stare alla Cathedral».
«No! Io voglio rimanere alla scuola d’arte!»
Lei sorrise, giusto un pochino. «Lo immaginavo» disse, e
per circa un decimo di secondo mi sembrò che non fosse più
arrabbiata.
Mi sbagliavo.
«Le regole sono queste» disse. «Sei in punizione fino a
nuovo ordine. Dopo scuola tornerai subito a casa, farai i
compiti e non uscirai. Anche dalla settimana prossima,
durante le vacanze di Natale, resterai a casa. Non andrai da
nessuna parte, se non con me».
«Fino a nuovo ordine?»
«Esatto».
In altre parole, non aveva ancora deciso quanto essere
arrabbiata. Il periodo di punizione poteva andare da un paio
di giorni a... be’, all’eternità.
Perché quel giorno non avevo rotto soltanto la scultura di
Zeke. Avevo rotto anche il rapporto di fiducia tra me e
mamma, forse per l’ultima volta. Dopo una cosa del genere
non si sarebbe mai più fidata di me, lo sapevo.
Perché, voi sì? Ecco, appunto.
Se vi dicessi che all’inizio delle vacanze di Natale ero già
pronto a rituffarmi nell’Operazione ‘Fatti una vita’ mi
prendereste per pazzo? O per uno scemo? O per uno con ben
poca memoria? Adesso vi spiego.
Per come la vedevo io, potevo sfruttare un dettaglio
tecnico. Perché tecnicamente la missione era in pausa
quando mi ero preso la sospensione e quindi tecnicamente
non ero obbligato a dichiarare game over.
Anzi, più ci pensavo e più mi sembrava evidente. Le cose
erano andate meglio (non alla perfezione, ma meglio)
proprio fino a quando avevo messo in pausa la missione. Era
stato lì che tutto aveva cominciato ad andare a rotoli.
Dovevo ricominciare a farmi una vita.
E naturalmente non dovetti ripeterlo due volte a Leo. La
nostra conversazione andò più o meno così:
Restava solo il piccolo problema dalla mia punizione a
tempo indeterminato. Avremmo dovuto trovare un modo per
fare qualcosa di nuovo senza uscire da Killarney Avenue.
Ma ero abbastanza sicuro che tra me e Leo avremmo
escogitato qualcosa. Mamma dice sempre che basta un
pizzico di fantasia. E se c’è una cosa che io e Leo abbiamo in
abbondanza è proprio quella.
E così possiamo intitolare la parte che inizia ora...
Non dico che tutto quello che Leo e io ci inventammo
durante le vacanze mi avrebbe regalato un posto nella storia
della grandiosità (o neanche mezzo posto), ma ce la
cavammo piuttosto bene. Giudicate voi.
Per Natale, dato che non ero esattamente pieno di soldi,
regalai a mamma, nonna e Georgia dei buoni che valevano
un disegno a scelta. Tutte e tre scelsero dei ritratti e io
passai buona parte della giornata a disegnarle, come un vero
artista. Lasciai che scegliessero pure l’ambientazione.
Era anche la prima occasione in cui dei miei disegni
diventavano dei veri regali. Forse perché era Natale, Leo
disse che potevo contarli come tre cose fatte per la lista,
invece di una sola.
Accettai subito. Buon Natale anche a me!
Per la fine delle vacanze di Natale la mia lista era arrivata a
centoquattordici cose fatte, il che significava che ne
rimanevano ottantuno ancora da fare nei settantasette giorni
che ci separavano dalla Mostra di primavera alla Cathedral.
Ero un po’ indietro sul programma, ma avrebbe potuto
andarmi peggio, visto che ero rimasto incatenato in casa di
nonna per le ultime due settimane.
E dovevo essermi comportato piuttosto bene, perché
mamma disse che avrei potuto essere in punizione limitata
una volta ricominciata la scuola.
Le chiesi più volte che cosa volesse dire ‘limitata’, ma lei si
limitò a rispondere: «Vedremo» oppure: «Non tirare troppo
la corda». Così non le chiesi più niente.
Sapevo benissimo come avrei usato quel briciolo di libertà
in più.
Durante le vacanze avevo combinato un bel po’ di roba
piccola, ma era di nuovo tempo di pensare in grande.
Grande davvero.
Grande come Capello, il Bigfoot.
Ormai era passato un po’ di tempo e forse, se ero fortunato,
Capello aveva frequentato un corso per il controllo della
rabbia o qualcosa del genere.
E comunque ero deciso almeno a provare a farmi
raccontare di mio padre da lui.
Non ci sarei andato senza rinforzi, però. Mi serviva
qualcuno che fosse già al corrente della storia di papà e che
non si spaventasse facilmente.
E anche che fosse una persona vera (senza offesa, Leo!).
Quindi non appena tornai a scuola andai a cercare proprio
il tizio a cui state pensando.
Lo trovai davanti al suo armadietto, mentre disegnava
sopra la porta un paio di occhi per sostituire quelli che il
signor McQuade aveva cancellato durante le vacanze.
«Khatchy!» esclamò quando mi vide (non mi aveva mai
chiamato in quel modo prima, ma Matty il Freak è fatto così).
«Cosa mi hai regalato per Natale?»
«La metà del cervello che ti manca. E tu cos’hai regalato a
me?»
Lui fece spallucce, aprì lo zaino e tirò fuori una bellissima
penna d’acciaio, ancora chiusa nella scatola.
«Non sono bravo a fare pacchetti» disse e me la lanciò.
Mi sentii un cretino, perché non mi era neanche passato
per la testa di prendergli un regalo.
E la penna era davvero bella, una di quelle che avrebbe
potuto usare un artista vero.
Sembrava pure piuttosto costosa, fra l’altro.
«Ehm... come hai fatto a comprarla?» chiesi, perché con
Matty non si sa mai.
«Ah, non preoccuparti. Quest’anno ho avuto un po’ di soldi
a sorpresa da mia zia».
Non sapevo se mi stesse dicendo la verità, ma non mi sarei
messo di certo a dargli del bugiardo subito dopo che mi
aveva fatto un regalo.
E appena prima di chiedergli un favore.
«Be’, senti...» gli dissi. «Ti ricordi Capello il Bigfoot, vero?»
«Mi ricordo di essere scappato per salvarmi la pelle, sì».
«Che ne diresti di tornarci insieme per tenerlo un po’ sotto
sorveglianza?»
Ormai conoscevo il Freak abbastanza bene da sapere che
parole usare per suscitare il suo interesse.
E infatti il modo in cui sorrise alla domanda avrebbe fatto
pensare che fossi stato io ad aver dato a lui un regalo e non
viceversa.
Praticamente un affarone per tutti e due.
Mamma disse che quella settimana avrei potuto scegliere
un pomeriggio per andare in giro con Matty, a patto che
fossi tornato a casa per le sei (forse era quello che intendeva
per ‘punizione limitata’). In altre parole, dovevamo
approfittarne.
Una cosa era certa: se volevo parlare con Capello, non
doveva accadere nel suo negozio, dove c’era una sola uscita.
Senza contare tutte quelle forbici. Così ci piazzammo
nell’edificio di fronte, come due veri detective in
appostamento.
Va bene, non andò proprio così. In realtà Matty aveva
telefonato al negozio e, camuffando la voce, aveva chiesto a
che ora chiudevano. Poi ci eravamo seduti alla fermata
dell’autobus su Calumet Avenue ad aspettare di vedere cosa
sarebbe successo.
Alle cinque meno dieci Capello iniziò a spazzare il
pavimento prima della chiusura. Fu lì che cominciai a
diventare un tantino nervoso, e con ‘tantino’ intendo che ero
lieto che fuori si gelasse, perché almeno avevo una scusa per
rabbrividire.
Quando Capello uscì, con indosso un giubbotto di pelle nero
da motociclista, tremavo dalla testa ai piedi, letteralmente.
Però non era il momento di mollare, specialmente davanti a
Matty.
«Andiamo!» disse lui, poi saltò in piedi.
«Aspetta!»
Non credo che Matty fosse abituato a seguire i piani di altri,
ma riuscii a farlo restare seduto e fermo finché Capello non
ebbe percorso circa metà dell’isolato. Non era difficile da
tenere d’occhio, perché era alto il doppio di chiunque altro
per la strada.
«Okay, adesso possiamo andare» dissi, e gli andammo
dietro.
All’inizio fu un pedinamento a singhiozzo. Avanzavamo un
po’ e poi ci nascondevamo dietro un’edicola. Avanzavamo un
altro po’ e ci fermavamo nell’ingresso leggermente rientrato
di un negozio di scarpe.
«Cos’è che vorresti dirgli, alla fine?» mi chiese Matty.
«Non lo so. Ci penserò al momento, se capita».
«‘Se capita’? Come sarebbe a dire, ‘se’?»
«Ssst!»
Capello si era fermato in mezzo al marciapiede, senza un
motivo apparente. Io mi voltai di scatto e mi calai il berretto
sul viso, mentre cercavo di non farmi venire un esaurimento
nervoso istantaneo.
«Cosa sta facendo?» chiesi a Matty. «Aspetta! Non
guardarlo!»
«Tranquillo. Si sta solo allacciando una scarpa».
Aspettammo che ripartisse e tornammo a seguirlo.
Però aveva accelerato, e restargli alle calcagna diventava
sempre più difficile. Quando svoltò l’angolo, Matty e io ormai
stavamo correndo. Speravamo di poterlo vedere prima che
svoltasse di nuovo.
Ma c’era qualcosa che non avevo considerato. Capello il
Bigfoot era più furbo di quanto non sembrasse. Appena
facemmo capolino oltre l’angolo, lo trovammo lì ad
aspettarci.
Era un’imboscata! Afferrò Matty per la schiena con una
delle sue zampe gigantesche, e con l’altra prese me per il
braccio.
«SCAPPA!» gridò Matty, come se ne avessimo ancora la
possibilità.
Perché Capello non solo ci aveva sgamato: ci aveva anche
catturato. E io ero abbastanza sicuro di avere appena
commesso l’ultimo errore della mia vita.
Avete presente quando dicono che prima di morire ti scorre
tutta la vita davanti agli occhi? Be’, non è vero.
Quello che mi ritrovai io davanti agli occhi fu una massa di
capelli, peli, muscoli e tatuaggi alta quindici metri.
«Perché cavolo mi state seguendo, cretini?» disse. Per la
verità non disse né ‘cavolo’ né ‘cretini’, ma questo non è un
libro per un pubblico adulto.
«Non la stavamo seguendo!» gli gridò Matty.
«NON DIRMI BUGIE!» urlò Capello a sua volta e strinse
ancora di più la presa. Mi torceva il braccio come fanno gli
animatori con i palloncini per creare degli animaletti. Matty
era praticamente sospeso per aria.
Quello che dissi allora mi uscì senza pensarci. Non avevo un
piano, se non sopravvivere.
«Lei è lo zio di mio padre!» gridai (va bene, forse più che
altro lo strillai, ma in modo molto mascolino). «‘Capello’
Khatchadorian, giusto?»
Fu stranissimo. Si bloccò e non mosse un muscolo. Nei suoi
occhi, però, c’era circa il settantacinque per cento in meno di
istinto omicida.
E poi disse: «Tu sei Rafe?»
Credetemi, proprio non me lo sarei aspettato.
«Come fa a saperlo?»
«Incredibile. Ti ho tenuto in braccio quando avevi tre anni.
Che cavolo, ti ho tenuto in braccio quando eri appena nato.
Ti ho perfino cambiato il pannolino, qualche volta».
A quel punto Matty si mise a ridere e mi fece arrabbiare un
po’. Però avevo altre cose più importanti per la testa e non
volevo rischiare che il tizio si incavolasse di nuovo. Così
continuai.
«Sa dov’è mio padre?»
Lui ci lasciò andare e si infilò le mani in tasca, guardandomi
in modo bizzarro. Per un secondo credetti che stesse per
rispondermi.
E invece no.
«Senti, Rafe...» disse. «C’è qualcosa di cui dovresti parlare
con tua madre. Anzi, a proposito, dov’è lei?»
«A casa». Capello mi sembrò confuso. «Abitiamo qui in
città, adesso».
«Ah, sì? Ma lei ha sempre odiato la città».
«Davvero?» Per me era una novità.
«E dai, su» si intromise Matty. «Rafe vuole solo sapere di
suo padre. Non può dir...?»
Capello tornò il mostro di prima.
«Tu bada ai fatti tuoi, ragazzino» disse, ma con un tono del
tipo: «Se volessi ti potrei ammazzare con un pugno solo,
ragazzino». Non avevo mai visto nessuno far abbassare lo
sguardo tanto velocemente a Matty il Freak (né a chiunque
altro, in effetti).
«Vai a casa, Rafe» disse poi. «Parlane prima con tua madre.
Poi, se vuoi, torna pure a trovarmi. Ho tante storie da
raccontarti su tuo padre».
Non sapevo come rispondere. Non sapevo nemmeno cosa
pensare. Restai lì come una statua con la bocca aperta.
Capello mi diede una pacca sulla spalla e si incamminò.
Mi dimenticai perfino che Matty fosse lì con me, finché non
parlò di nuovo.
«Ehi, guarda lì!»
C’era un biglietto da dieci dollari che mi spuntava dalla
tasca del giubbotto.
«Ma come ha fatto?» chiese.
«E che ne so?» dissi io. La testa mi vorticava, come il
cestello di una lavatrice.
C’erano ancora tante cose che non sapevo, evidentemente.
Tornai a casa che mancavano solo due minuti alle sei.
Entrai in cucina. Nonna stava preparando la cena, mamma
stava dipingendo sul cavalletto accanto alla porta del retro e
la mia testa era ancora in centrifuga. Non riuscivo a
smettere di pensare all’ultima cosa che mi aveva detto
Capello.
Aveva delle storie da raccontarmi? Su mio padre? Che tipo
di storie? E quante?
«Ma guarda un po’ chi c’è» disse Dotty. «Il mio nipote
maschio preferito!»
«Ciao, Rafesauro!» fece mamma. «Grazie di essere tornato
puntuale».
Mi avvicinai e lei mi diede un abbraccio e un bacio di
benvenuto, come le piace fare sempre anche quando lavora.
«Cosa stai dipingendo?»
«Un paesaggio urbano. O l’idea di un paesaggio urbano,
almeno».
Non riesco mai a capire subito i soggetti astratti di mamma,
ma quando poi mi dà qualche indizio intuisco quasi sempre
ciò che vuole dire. In quello c’erano tante linee rette che
andavano in tutte le direzioni, tipo le vie di una città.
Lei era tutta esaltata dal quadro, e si vedeva. Non ne aveva
ancora venduto uno da quando ci eravamo trasferiti in città,
ma si stava impegnando molto.
«Che ne pensi, studente d’arte? Sto andando nella
direzione giusta?»
«Decisamente».
Mamma mi sorrise e tornò a dipingere.
E anche se il mio cervello stava ancora faticando per
contenere tutto ciò che mi era capitato nel pomeriggio,
decisi che per il momento non avrei detto nulla.
Non ancora, almeno. D’altronde la faccenda era appena
venuta a galla e mamma era contenta come non la vedevo da
tempo. E poi Dotty stava preparando le frittelle, e io adoro
quando a cena si mangia il cibo della colazione.
Perché rovinare tutto?
E così, invece di imbarcarci in una lunga e spiacevole
discussione, parlammo di pittura, di disegno, di scuola e
della famiglia di piccioni che viveva sotto il tetto di fronte.
Non avevo idea di quale potesse essere il momento giusto
per cominciare a fare domande su mio padre. Però sapevo
che non era quello. Quindi per un po’ me le sarei tenute per
me e per il mio album (e per Leo, naturalmente).
Qualche settimana dopo la ripresa delle lezioni, la signora
Ling passò in tutte le classi d’arte per fare un annuncio.
«Ragazze, ragazzi, il momento è arrivato. Dovete
cominciare a pensare ai vostri progetti per la Mostra di
primavera».
Ma io stavo già pensando al mio, da mesi.
Non avevo mai partecipato a una vera mostra e quella
sarebbe stata la centonovantacinquesima e ultima cosa sulla
mia lista, il grosso traguardo per l’Operazione ‘Fatti una
vita’.
Il mio progetto sarebbe stato spettacolare!
Quando avrei deciso quale.
La signora Ling disse: «Ricordatevi che questa è l’occasione
migliore che avete per farci vedere non solo chi siete
davvero come artisti, ma anche il tipo di artista che potreste
diventare se continuerete a frequentare la Cathedral».
E lì stava una grossa parte del mio problema.
Primo, come potevo far vedere chi ero ‘come artista’ se non
ne avevo ancora idea?
E secondo... più pressione no? La Mostra di primavera era
l’ultima occasione per dimostrare che la scuola d’arte era il
posto adatto a me. E non sapevo neanche se sarei riuscito a
farmi ammettere in terza!
A essere sincero, mi sembrava che i miei problemi
aumentassero man mano che la signora Ling parlava.
«È un compito aperto» ci disse. «Significa che potete
lavorare con qualsiasi materiale vi piaccia, per creare
qualsiasi cosa vi venga in mente».
Questo poteva non sembrare un male, eppure lo era.
Perché un conto è quando ti dicono di fare un autoritratto o
una scultura di rifiuti o roba simile, ma quando si può fare
qualsiasi cosa è come ricevere un test a risposta multipla
dove hai una domanda sola, ma trentadue trilioni di risposte
possibili. Prova ad azzeccare quella giusta: in bocca al lupo.
E che tutti gli altri alunni dessero l’idea di sapere già che
cosa fare non mi aiutava affatto, no.
«Nel frattempo» aggiunse la signora Ling, «per venirvi
incontro faremo presto una bella gita al museo dell’Art
Institute. Spero che sfrutterete l’opportunità di ammirare
alcune delle opere meravigliose che sono esposte in questa
città e di ispirarvi a raggiungere nuove vette voi stessi, con
le vostre creazioni».
Nuove vette? E chi aveva mai parlato di nuove vette? Io mi
stavo ancora sforzando di raggiungere quelle vecchie. O
qualunque tipo di vette.
All’improvviso quel grosso traguardo a cui pensavo
dall’inizio dell’anno aveva cominciato ad avvicinarsi... ma
troppo velocemente!
Nei giorni precedenti alla gita ebbi un sacco di tempo per
pensare al mio progetto per la Mostra di primavera. E dopo
una lunga, seria e attenta analisi, alla fine riuscii a farmi
venire in mente... zero buone idee.
Però forse la signora Ling aveva ragione. Forse la gita mi
avrebbe ispirato a fare qualcosa a cui non avevo mai pensato
prima. Forse proprio lì mi sarebbe venuta l’idea migliore
della mia vita.
E sennò... be’, almeno ci avrebbe risparmiato una mattinata
di lezioni.
Quando arrivammo al museo, ci lasciarono liberi di
andarcene in giro per le gallerie a disegnare sui nostri album
quello che ci colpiva. Matty sembrava molto sicuro di sé, così
lasciai che fosse lui a fare strada.
All’inizio mi aspettavo di vedergli fare qualcosa nel suo
stile, tipo raccogliere le monetine dalla fontana all’ingresso o
cercare di salire sul tetto, o come minimo toccare quello che
in un museo non si dovrebbe toccare.
E invece, per quanto vedevo, era interessato seriamente
alle opere d’arte. Girammo per un po’, facemmo gli schizzi di
alcuni quadri e poi girammo un altro po’. Era un lato di
Matty che non avevo mai visto. Mi sembrava normalissimo.
Il che, trattandosi di Matty, era bizzarrissimo.
Quando alla fine la signora Ling venne a dirci che mancava
un quarto d’ora alla fine della visita, Matty chiuse l’album,
mise via la sua roba e disse: «Dai, altrimenti ci perdiamo la
parte migliore».
Io lo seguii fino all’atrio e poi nel bookshop accanto
all’entrata.
«Sarebbe questa la parte migliore?»
«Fidati. Da’ un’occhiata in giro».
Mi guardai attorno. E che cosa imparai? Imparai che i
bookshop dei musei sono fatti per i ricchi. Tutto quello che
vendono costa dieci volte il prezzo che ti aspetteresti. Perfino
le cartoline costavano cinque dollari l’una.
Dopo poco Matty mi si avvicinò.
«Tienimi questo» disse, poi mi diede il suo zaino. «Devo
andare in bagno. Ma tu aspettami qui, eh?»
Non ci pensai neanche su. Presi lo zaino e continuai a
sfogliare un libro da cento dollari su un certo Mondrian che
era diventato famoso per aver disegnato un mucchio di
quadrati rossi, gialli e blu, continuamente, in qualunque
combinazione. Forse allora anch’io potevo sperare che
qualcuno un giorno scrivesse un libro sulle mie opere!
Subito dopo, però, vidi la signora Ling farmi cenno di
incamminarmi verso l’autobus. Era ora di tornare.
Matty era ancora in bagno, così decisi che gli avrei ridato lo
zaino fuori dal museo.
Ma non appena feci per uscire...
L’allarme antifurto del negozio scattò, come se qualcuno
fosse uscito con della roba non pagata. E dato che io non
sono esattamente molto sveglio, mi guardai intorno per
cercare di capire chi potesse essere il ladro.
Mi ci volle qualche secondo per accorgermi che l’unica
persona sulla porta ero io.
«Metti giù lo zaino e allontanati!» urla in un
megafono il capo dei negoziatori. Anche così, è quasi
impossibile da sentire, con gli elicotteri che volano bassi e la
polizia a sirene spiegate.
Qui è successo qualcosa di davvero brutto, ma tutto quello
che so è che non sono stato io.
«C’è un errore!» grido.
«Allontanati
dallo
avvertimento!»
zaino!
È
l’ultimo
Sento rumore di passi. Tutto intorno c’è gente che corre. E
che sbraita. Sento gracchiare forte le radio della polizia. E
tutto questo per me?
Non voglio rischiare. Tengo le mani dove tutti possono
vederle. Poi mi chino lentamente e appoggio lo zaino per
terra.
Un attimo dopo, una decina almeno di cavi scende dal cielo.
Una squadra intera di agenti SWAT, in corda doppia, tocca
terra nello stesso istante. Prima che riesca a muovere anche
solo un dito mi hanno già circondato, con in mano così tanta
ferraglia da... be’, da poter aprire subito un negozio di
ferramenta, e pure grande.
«Non muovere neanche un muscolo!» grida
uno di loro.
«Scusa, giovanotto... puoi rientrare
negozio, per cortesia?» dice un altro.
nel
Abbassa pure le mani» mi disse la guardia. «Puoi rientrare
nel negozio, per favore?»
Nel frattempo era arrivata anche la signora Ling. E vedevo
anche Matty: era con il resto della classe e mi guardava. Non
si avvicinava, però.
«Rafe?» disse la signora Ling. «Ma cosa succede?»
«Non lo so, ma non sono stato io».
La guardia le chiese il permesso di controllare lo zaino. Lei
guardò me, come se avessi potuto rifiutarmi.
Io non dissi niente e glielo diedi. Lui lo aprì sul bancone e
un attimo dopo stava già tirando fuori una di quelle penne
d’acciaio, ancora nella scatola. Era identica a quella che
Matty mi aveva regalato a Natale, solo che la mia era al
sicuro a casa.
«Come la spieghi, Rafe?» disse la signora Ling.
Io continuavo a guardare verso Matty, ma lui non faceva
altro che scuotere piano la testa. ‘No, no, non dirglielo’
sembrava dirmi. Mi sentivo in trappola, con la testa già sul
ceppo.
Poi però mi misi a pensarci su e...
Avete presente quando vi arriva una camionata di pensieri
tutti insieme? Ecco, a me successe proprio quello. Mi
ricordai di tutte le volte in cui ero finito nelle grane durante
l’anno... mentre Matty l’aveva sempre fatta franca.
Non voglio dire che la colpa fosse sua. Anzi, il più delle
volte era stata quasi tutta colpa mia. O tutta, senza ‘quasi’.
Lì però io non avevo fatto niente di male e non potevo
permettermi di fingere il contrario.
«Lo zaino non è mio» dissi. «Non ho preso io quella penna».
«E di chi è, allora?» chiese la guardia.
«Non voglio dirlo».
«Se è così dovrai venire con me».
«Rispondi alla guardia, Rafe» disse la signora Ling. «Di chi
è quello zaino?»
Il cuore mi rimbalzava nel petto come la pallina di un
flipper. Ancora non sapevo bene che cosa fare. Non prima di
aver dato un’altra occhiata verso l’atrio, almeno. Fu lì che
vidi il signor Crawley guidare il resto della seconda verso
l’uscita. E non immaginereste mai chi c’era nel bel mezzo del
gruppo, cercando di uscire come se niente fosse e senza
nemmeno guardarmi.
Anzi, probabilmente lo immaginate benissimo.
«È di Matty Fleckman» dissi.
Non so che cosa successe a Matty dopo. Vidi soltanto che né
lui né il signor Crawley erano sull’autobus che ci riportava a
scuola. Evidentemente però aveva ammesso di avere preso
lui la penna (o magari una telecamera di sorveglianza l’aveva
beccato), perché io non ero più nei guai.
Quella sera cercai di rintracciarlo con qualsiasi metodo,
meno i segugi.
Lo chiamai diverse volte, ma lui non rispose.
Gli inviai due e-mail, ma da lui non mi arrivò niente. Gli
scrissi perfino un sms dal cellulare di mamma dicendo che si
trattava dei compiti, perché lei avrebbe potuto leggerlo e
non è che potessi scrivere che riguardava ‘la penna che hai
rubato e che forse hai cercato di farmi portare fuori dal
negozio’, no?
E il problema era quello. Non sapevo se al museo Matty
avesse cercato di sfruttarmi o se avesse davvero intenzione
di tornare, riprendere lo zaino e portare fuori lui la penna
rubata.
Quindi non ero nemmeno sicuro se dovessi essere io
arrabbiato con lui o viceversa... o tutte le due cose insieme...
o nessuna delle due... o che altro. Stavo diventando scemo.
Alla fine, verso le nove, il telefono squillò. Corsi in cucina
per rispondere, ma nonna fu più veloce.
«PRONTO, E COSA C’È DI TANTO IMPORTANTE DA
DOVER CHIAMARE CASA MIA IN PIENA NOTTE?» disse.
Sorpresa sorpresa, dall’altra parte riattaccarono.
«Mmm» disse nonna. «Devo averli spaventati».
Appena uscì, portai il telefono fuori, sulle scale del retro, e
chiusi la porta. Poi composi il numero di
Matty.
Non mi aspettavo che rispondesse, e
invece...
«Seh?»
«Mi hai chiamato un minuto fa?»
«Ah, sei tu. Aspetta un secondo. Non
muoverti».
Lo sentii appoggiare la cornetta, poi
silenzio.
E il silenzio durò tantissimo. Anzi,
passarono forse tre minuti buoni prima che capissi,
finalmente, quello che stava succedendo.
Se non altro non c’erano più dubbi: era Matty ad avercela
con me. Ora che lo sapevo, il problema diventava un altro,
molto più preoccupante.
Mettiamola così: se dovessi elencare i cinque motivi
principali per cui conviene avere Matty il Freak come amico,
la lista sarebbe più o meno come quella della prossima
pagina:
Ricordate quando vi avevo detto che Matty non fa mai le
cose a metà?
Era di questo che avevo paura. Non dico che fossi
paranoico quando andai a scuola il giorno dopo, ma mi
sentivo un po’ come se mi stessero dando la caccia.
Non impiegai molto a scoprire che cosa sarebbe successo.
Più mi avvicinavo al mio armadietto, più vedevo gente in
corridoio che mi fissava e bisbigliava nell’orecchio di chi
aveva accanto.
E parlavano di questo:
Il lato positivo era che almeno stavolta la vernice era tutta
all’esterno. In qualsiasi altra occasione avrei sospettato di
Zeke e Kenny.
Ma quel ‘fatti una vita’ era come un segnale in codice.
Matty era l’unico in tutta la Cathedral a sapere
dell’operazione. E a quanto potevo vedere,
era anche l’unica persona che in quel
momento non era lì intorno a ridermi
dietro.
Così andai a cercarlo.
Non mi ci volle molto. Tutte le mattine,
prima che iniziassero le lezioni, lui se ne
stava sulle scale sul retro. Quando arrivai,
non alzò nemmeno lo sguardo, e la cosa mi
fece solo imbestialire di più.
«Qual è il problema?» gli chiesi.
«Che non si fa la spia quando c’è un amico di mezzo».
«Ah, sì? Be’, allora non si fa in modo che un amico venga
beccato con della roba che hai rubato tu».
«Stavo tornando a riprendermi lo zaino».
«E come facevo a saperlo?»
«Perché te l’avevo detto». Mi guardò dritto negli occhi.
Forse stava dicendo la verità, forse no. Avevo già visto
com’era bravo a mentire.
«E va bene, ti sei divertito un po’. Ora smettila».
Lui chiuse l’album e si alzò. Poi si avvicinò fino a tipo due
centimetri dalla mia faccia e mi fece quel sorriso che ormai
conoscevo bene. Mi era sempre sembrato malvagio e allegro
allo stesso tempo.
Quella volta invece mi sembrò malvagio e basta.
«Non ho paura di fare a botte con te, Matty» gli dissi.
«No, ma hai talmente paura di metterti nei guai che non
farai niente. O sbaglio?»
Non risposi, più che altro perché sapevo che aveva ragione.
Quella fu la parte peggiore. Matty mi conosceva meglio di
chiunque altro a scuola e io gli avevo raccontato più di
quanto avrei dovuto. Era troppo tardi per rimediare.
«E a proposito...» disse. «Quando avrò smesso di divertirmi
te lo farò sapere».
E poi se ne andò. Restai lì come un fesso a guardarlo.
Da non credere. Solo il giorno prima eravamo amici, o
almeno così sembrava. E poi era bastato che una volta tanto
finisse lui nei guai invece di me, e non lo eravamo più? Per
quanto mi riguardava, in tutta questa faccenda si stava
comportando da bambino.
Un bambino grande e grosso...
... imprevedibile...
... e molto pericoloso.
Passai il resto della mattina a chiedermi quale sarebbe stata
la sua mossa seguente. Alla quinta ora ormai ero così stanco
di guardarmi alle spalle che avrei fatto volentieri un pisolino.
Faccio per dire, ovviamente. Tanto per cominciare, non
volevo certo dargli l’occasione per tatuarmi la faccia o farmi
rotolare fuori dalla finestra.
E in più, dato che la mia giornata non era già abbastanza
complicata, alla quinta ora avevamo un’altra sessione krit.
Faceva parte di un modulo sull’arte digitale tenuto dal
signor Crawley. Il compito era scattarci una foto, caricarla
sul computer, scomporla e ricreare una nuova immagine dai
vari pezzi.
Devo dire che quello che avevo fatto mi piaceva. Avevo
chiesto a Matty di scattarmi una foto (prima che litigassimo,
ovvio). Poi avevo inserito delle parti di me in un’altra foto, di
un muro di mattoni, in modo da far sembrare che qualcuno
me l’avesse costruito intorno, con braccia, faccia e gambe
che spuntavano qua e là. Sempre con il computer avevo
creato dei graffiti e li avevo messi sul muro.
Naturalmente non mi aspettavo che piacesse a qualcuno.
La regola di Zeke e Kenny era praticamente quella di
detestare tutto ciò che facevo. In più adesso dovevo anche
preoccuparmi di che cosa avrebbe detto Matty.
Chissà, magari non avrebbe detto niente, perché era troppo
impegnato a escogitare un modo per spingermi sotto
l’autobus all’uscita da scuola. Insomma, la prospettiva della
krit non mi entusiasmava affatto.
La krit delle opere digitali funzionava un po’ diversamente
dalle altre. Finito il compito, si usava la propria password per
caricarlo sul server della scuola. Così il signor Crawley
poteva recuperarlo e proiettarlo sul grande schermo
dell’aula per farlo vedere a tutti.
Ve lo dico perché quella era forse l’unica cosa che non
avevo previsto.
Quando Matty e io stavamo ancora cercando di rimuovere
la finta pagina RAFE K che Zeke e Kenny avevano
pubblicato, io gli avevo detto la mia password. All’epoca non
mi era sembrato potesse portare a niente di male. Se c’era
una persona di cui mi potevo fidare, in tutta la scuola, era
lui.
E quello potrebbe essere stato il mio più grande errore di
tutto l’anno scolastico.
«Bene, Rafe, vediamo che cosa ci hai preparato» disse il
signor Crawley quando toccò a me. «Come si intitola la tua
opera?»
«‘Ragazzo sul muro’». Che vi posso dire? I titoli non sono il
mio forte.
Il signor Crawley premette un paio di tasti sul suo portatile
e aprì il mio file. Ma invece di ‘Ragazzo sul muro’, ecco cosa
apparve sullo schermo:
Sul laboratorio calò il silenzio. Nessuno rise, nessuno parlò,
nemmeno sottovoce. Nessuno respirò, credo.
Almeno per i primi dieci, venti secondi.
Dopodiché non saprei dirvi, perché io ero già uscito
dall’aula.
Ciò che accadde dopo fu quello che avevo pensato di fare
più o meno un milione di volte in prima media senza mai
averne il coraggio. Uscii dal portone principale della scuola,
in pieno giorno, e non mi fermai.
Non mi importava di finire nei guai. Non mi importava di
farmi sbattere fuori dalla Cathedral. Non mi importava più di
niente. Volevo solo una cosa.
ANDARMENE.
«Dove siamo diretti?» mi chiese Leo.
«A casa».
«Ma se arrivi troppo presto sospetteranno qualcosa».
«E vabbè».
Tanto non intendevo Killarney Avenue.
Oltrepassai la fermata del 23 e continuai. Ne passai
un’altra, poi un’altra e un’altra ancora. Nessuno fece caso a
me, nonostante in teoria dovessi essere a scuola. È uno dei
lati positivi dell’abitare in una grande città, immagino.
Anche soltanto camminare mi faceva bene. Mi dava il
tempo per pensare e per ideare un piano.
Quando finalmente arrivai a casa di nonna, era più o meno
l’ora in cui tornavo di solito. Bene. Non volevo attirare troppa
attenzione, nel caso avessi dovuto restare ancora un po’.
Perché personalmente mi consideravo soltanto di
passaggio.
«Ciao, bello» disse nonna quando entrai. «Com’è andata a
scuola?»
«Be’... è stato incredibile».
«Sono contenta«.
«Mamma c’è?» Non avevo visto la sua macchina
parcheggiata fuori.
«Aveva un altro colloquio di lavoro. Ma tornerà presto».
Mamma era stata a così tanti colloqui che non facevano più
differenza, ormai. Non era mai tornata a casa con un lavoro.
Però la cosa avrebbe reso più facile la mia mossa
successiva.
Non appena nonna andò in cucina, salii di corsa le scale
verso la camera di mamma e Georgia. Quando entrai,
Georgia era sul letto, al telefono.
«Esci» le dissi.
«Ma esci tu! È la mia st...»
Probabilmente si sarebbe fiondata di sotto a piangere con
nonna perché l’avevo trattata male. O magari prima si
sarebbe fermata a rovinare un po’ della mia roba, per
ripicca. Ma non mi importava. L’importante per me era
continuare a muovermi.
Quando Georgia uscì, io aprii il cassetto più in alto nel
mobile di mamma e presi la scatolina ricoperta di conchiglie
dove teneva i soldi per le emergenze (‘giusto nel caso’ diceva
lei). Dentro c’erano tre biglietti da venti piegati e fermati con
una grossa clip.
Ne presi due e rimisi a posto l’altro, con una nota.
L’unica altra cosa che presi fu la chiave del grande box a
Hills Village in cui avevamo ancora molta della nostra roba,
tipo il mio sacco a pelo e altri vestiti.
Dopodiché scesi piano fino a metà delle scale e cercai di
capire se Georgia si stesse lamentando in cucina. Non sentii
niente, ma la via sembrava libera e allora scesi.
Poi, quando stavo già girando la maniglia della porta...
«Cosa fai?»
Mi voltai. Georgia mi stava osservando da dietro lo
schienale della grande poltrona-sdraio di nonna. Davvero,
dovrebbe lavorare come agente segreto per la CIA. In
Mongolia, magari.
«Niente. Però di’ a mamma che la chiamo più tardi».
«Rafe, ma...?»
Georgia aveva l’espressione di chi aveva capito che c’era
sotto qualcosa e non voleva che me ne andassi.
«Scusa se prima ti ho sgridato» le dissi. Poi aprii la porta e
uscii prima che lei potesse ribattere.
Arrivato al marciapiede mi misi a camminare veloce, lungo
Killarney Avenue, nella direzione da cui ero arrivato solo
pochi minuti prima.
«Sei sicuro che sia una buona idea?» mi chiese Leo.
«No, ma ci vado lo stesso. Tu vieni?»
«Secondo te?»
«Non stai bene, tesoro?» mi chiese la signora seduta sul
sedile accanto. «Sembra che tu abbia la testa da tutt’altra
parte».
«No, no, grazie, va tutto bene».
Eravamo più o meno a metà strada per Hills Village. Sulla
corriera faceva troppo caldo e io ero mezzo addormentato.
«Come ti chiami, tesoro?»
«Ehm... Leo».
«È un bel nome. Dove stai andando?»
«Vado a trovare il mio amico Matty. È in ospedale, con una
bruttissima malattia che gli sta consumando la pelle».
Lei mi fissò senza sapere bene se credermi o no.
«Mi deve ancora cinque dollari» aggiunsi. «Quindi mi tocca
arrivare da lui... be’, sì, prima che sia troppo tardi».
A quel punto di sicuro stava già valutando se cambiare
posto.
«No, scherzo» dissi.
«Senti, Leo... non sei un po’ troppo giovane per viaggiare
da solo?» Si mise a frugare nella borsetta. «Devo chiamarti
qualcuno?»
«No, grazie. Sul serio, sono andato in città a trovare mia
nonna. Mia madre viene a prendermi all’autostazione».
Per la prima volta la guardai negli occhi mentre le parlavo.
Non troppo a lungo, solo quanto bastava. Se la bevette,
credo. Non mi fece altre domande e il resto del viaggio verso
Hills Village filò tranquillo.
Matty
il
Freak
qualcosa
evidentemente.
Tipo come mentire bene.
me
l’aveva
insegnata,
Fu PROOOPRIO strano scendere dalla corriera nel bel
mezzo di Hills Village.
C’era il Duper Market dove mamma faceva la spesa quando
abitavamo qui. C’era il parchimetro su cui mi ero rotto un
dente a dieci anni. C’era anche un ragazzino che conoscevo
ma di cui non mi ricordavo il nome.
Mi sentivo come Scrooge nel Canto di Natale, quando torna
dove aveva vissuto, si guarda intorno e nessuno si accorge di
lui.
«Ehi, ricordati che quello invisibile sono io» disse Leo.
«Comunque se fossi in te non mi fermerei troppo in centro».
Aveva ragione. Hills Village non è molto grande ed era solo
questione di minuti prima che incontrassi qualcuno che non
avrei voluto vedere. Avevo speso ventinove dollari per il
biglietto della corriera, quindi me ne rimanevano undici in
tasca. Ne spesi qualcuno per comprarmi un sacchetto di
patatine gusto barbecue piccante e una lattina di Zoom, al
chioschetto dell’autostazione. Poi mi rimisi a camminare.
La casa di Jeanne Galletta era solo a un chilometro e mezzo
di distanza, più o meno, ma quando vi arrivai era già quasi
buio.
Sì, avete capito bene, la casa di Jeanne Galletta. Non ho mai
detto che fosse un buon piano, okay? Era un piano e basta.
Per un attimo mi chiesi se non fosse meglio aspettare
l’indomani. Poi però ripensai a tutto quello che avevo fatto
per arrivare lì.
Non potevo fermarmi solo perché era quasi notte. Così feci
tutto il vialetto e suonai il campanello.
Ancora prima che qualcuno arrivasse alla porta, una tenda
della finestra sul davanti si mosse, ed ecco Jeanne.
Sembrava non credere ai suoi occhi.
Poi la porta si aprì e mi ritrovai davanti il signor Galletta.
«Sì?» disse.
«Salve. C’è Jeanne?»
«Sai che ora è, giovanotto?»
Confesso che avrei potuto essere agitato. Anzi, avrei dovuto
essere agitato. Ma avete presente quei giocatori di poker
che si vedono in tv, quando spingono in mezzo al tavolo tutte
le fiches che hanno?
Ero io in quel momento. Niente mezze misure.
«Rafe?» disse Jeanne, che era spuntata all’improvviso
dietro al padre. «C’è qualcosa che non va?»
«Ciao, Jeanne».
«Cos’è ’sta storia?» chiese il padre.
«Non lo so» disse lei. «Che c’è, Rafe?»
«Ah, niente di grave. Volevo solo passare per... per
ringraziarti perché sei stata gentile con me l’anno scorso».
Tutti e due mi guardarono come mi aveva guardato la
signora sulla corriera: come se fossi pazzo davvero, e magari
pericoloso.
Non mi importava. Avevo fatto quello per cui ero venuto fin
lì. Se non altro potevo dire di avere concluso almeno
qualcosa nell’anno.
«Tutto qui. Ci vediamo, Jeanne». Uscii dal portico.
Il signor Galletta guardò su e giù per la via. «Sei da solo?»
chiese.
«Sì. Cioè, per adesso. Mia madre si è fermata al Duper
Market per comprare del latte. La raggiungo all’angolo fra
un minuto».
Si vedeva benissimo che Jeanne non era convinta, ma prima
che potesse dire qualcosa suo padre fece per chiudere la
porta.
«Va bene, allora. Buonanotte, Rafe. E la prossima volta non
così tardi, eh?»
«Certo» dissi e mi incamminai.
Aspettai di sentire la porta chiudersi prima di voltarmi.
Jeanne era di nuovo alla finestra e mi osservava. Non so
bene perché, ma la cosa mi fece piacere. La salutai con la
mano e poi guardai da un’altra parte, prima che lo facesse
lei.
Non andai molto lontano. Ero ancora sulla sua via quando
sentii di nuovo il signor Galletta chiamarmi.
«Ehi, Rafe!»
Mi voltai e lo vidi venire verso di me. Per un attimo fui
tentato di scappare.
«Perché non ti fermi un momento da noi?»
Non era una vera domanda, però. E poi non avevo più
voglia di scappare.
Una volta in casa, i Galletta mi fecero telefonare a mamma
per dirle di non preoccuparsi. Lei era parecchio agitata, ma
non mi sgridò. Be’, non subito.
Poi si fece passare la signora Galletta, che disse più volte
che le sembrava che stessi bene e che per loro non era un
disturbo se avessi dormito lì. Mamma disse che sarebbe
venuta subito a prendermi l’indomani mattina.
Credetemi: di tutte le cose che non mi sarei mai e poi mai
aspettato che mi succedessero nella vita, direi che dormire a
casa di Jeanne Galletta era quasi in cima alla lista. Passare la
notte nella loro camera degli ospiti fu praticamente la
conclusione più assurda in assoluta per una giornata che era
stata assurda dall’inizio alla fine.
Non dormii molto, comunque. Più che altro rimasi lì disteso
a pensare a mamma e a quanto ero stato stupido a
comportarmi così. E anche a quant’ero contento per non
aver dovuto passare la notte in un sacco a pelo in un box
freddo e buio (sul serio, ma cosa m’ero messo in testa?).
Quando mamma disse che sarebbe venuta subito a
prendermi non scherzava. Alle sei la signora Galletta venne a
svegliarmi e poi la sentii chiedere a mamma se volessimo
fare colazione prima di ripartire.
«No, grazie. Prenderemo qualcosa fuori» rispose lei.
«Abbiamo bisogno di parlare un po’».
Ero abbastanza sicuro che intendesse uccidermi lontano da
occhi indiscreti, ma non potevo dirlo ad alta voce. Mi limitai
a ringraziare la signora Galletta (Jeanne dormiva ancora) e
salii in macchina.
Appena mamma chiuse la portiera, iniziai a parlare.
«Senti...»
Non riuscii ad andare oltre. Mamma si sporse dal suo sedile
e mi abbracciò forte, un abbraccione come quelli di nonna. E
mi strinse a lungo, pure.
«Scusami, mamma» riprovai. Non si capì molto, perché
avevo la faccia schiacciata contro il suo giaccone, ma credo
che capì.
«Sono io che devo chiederti scusa, Rafe. Il signor Crawley
mi ha detto cos’è successo a scuola ieri. E mi spiace tanto,
davvero».
«Ma non sei arrabbiata perché ho preso i soldi? E la
corriera?»
Lei mollò l’abbraccio e si sistemò di nuovo sul sedile. «Certo
che sono arrabbiata. Però a questo punto c’è una cosa che
devo dirti, Rafe. Avrei dovuto dirtela già da tempo. Quello
che è successo ieri in classe me l’ha confermato».
«Non ti capisco, mamma». C’era roba super-seria di mezzo,
altrimenti ormai sarei già stato in guai seri.
Perché non mi stava facendo una scenata?
«Sto parlando di tuo padre, tesoro. Andiamo, devo
mostrarti una cosa».
Avevate già capito che saremmo finiti in un cimitero, eh? E
infatti fu proprio lì che mi portò mamma.
E non posso dire che sia stata una sorpresa al cento per
cento nemmeno per me. Solo non avevo intuito quanto lo
sospettassi già. Fino al momento in cui arrivammo ai cancelli
non mi resi conto di dove eravamo.
Mamma mi prese la mano. Più che stringerla, la copriva con
la sua.
«Tuo padre era un soldato» disse. «Si era arruolato
nell’esercito quando tu avevi sette anni e Georgia cinque. E
poi è andato in guerra».
Mi guardò e aveva gli occhi lucidi. Credo che lo fossero
anche i miei.
Prese una scatola dal sedile posteriore e mi fece vedere
una foto di papà in divisa e una medaglia che probabilmente
si era guadagnato mentre era in missione.
«Perché non mi hai mai detto niente?» le chiesi. Non capivo
ancora.
«Ti chiedo scusa, Rafe, ma per me è difficile. Tuo padre alla
fine è stato un eroe per il suo paese, ma non è sempre stato
un eroe per la sua famiglia, la nostra famiglia. Non quando ci
ha abbandonato. Trovare il modo giusto per parlartene non
era facile, certo, ma avrei dovuto farlo prima».
Guardai a lungo la foto e la medaglia. Poi alzai gli occhi
fuori dal finestrino, verso l’ingresso del cimitero.
«Dov’è?»
Mamma indicò alcuni alberi. «È laggiù. Vuoi andare a
trovarlo?»
Feci un respiro profondo. «Sì».
Così scendemmo.
Mamma mi diede la mano e insieme andammo a trovare
mio padre.
Okay, facciamo un’altra pausa. Non so che dire di questa
faccenda. Non posso dare la colpa a mamma per non
avermelo detto prima. Era stata lei a rimanermi accanto per
tutta la mia vita, non lui.
Fu triste e mi fece un effetto davvero strano scoprire che
mio padre era morto da soldato, ma allo stesso tempo non
cambiò di molto le cose. Come ho detto prima, ormai ero
abituato alla situazione.
In un certo senso l’unica cosa che cambiò fu la mia opinione
su papà. Fino a quel momento avevo considerato solo uno
che era fuggito e non era mai più tornato.
A quel punto però era diventato anche un eroe.
Non dico che non fossi giù, e anche un tantino confuso.
Adesso comunque sto bene.
Capito?
Tutto qui, in pratica. E nel caso stiate pensando che questo
libro avrà il finale più triste del mondo, ora vi racconterò che
cosa successe dopo.
Una figata, ripensandoci.
Quando uscimmo dal cimitero, mamma mi chiese se
preferissi mangiare qualcosa o andare subito a casa.
Lo so che nei film e nei romanzi la gente perde sempre
l’appetito nei momenti tristi, ma se vi devo dire la verità io
non ci vedevo più dalla fame.
«Andiamo a mangiare» dissi.
Tornando verso il centro passammo dove una volta c’era
Swifty’s... e nel frattempo era successa una cosa stupenda.
Swifty’s era tornato!
Quindi ovviamente fu lì che ci fermammo a fare colazione.
Io ordinai una pila alta così di frittelle con bacon e anche con
salsiccia. Mamma invece prese una fetta di torta di mele, un
caffè e del succo d’arancia.
Quando Swifty ci vide ci venne subito incontro dalla cucina.
Lui e mamma si abbracciarono. Non li avevo mai visti
abbracciarsi.
«Ma guarda un po’ chi c’è!» disse. «Credevo che vi foste
trasferiti».
Mamma mi guardò e sorrise. «Siamo qui solo per una
gitarella».
«Ah, peccato» disse Swifty.
«Peccato?»
«Avrei proprio bisogno di qualcuno che mi desse una mano,
qui. Guarda, sono perfino riuscito a salvare dall’incendio uno
dei tuoi quadri».
E infatti era proprio lì, appeso alla parete dietro il bancone.
«Comunque, se per caso decidete di tornare ad abitare qui
fammelo sapere, eh, Jules?»
Quando Swifty tornò in cucina, mamma si sedette di nuovo
al tavolo con me. Restammo lì a guardarci, entrambi con
un’espressione strana.
«Pensi anche tu quello che penso io?» mi disse.
«Non saprei, ma credo di sì».
Non ci fu neppure bisogno di dirlo. Stava per cambiare
tutto, di nuovo.
Perché è così che va sempre a finire, no?
E come sono cambiate, le cose! Sono di nuovo a scuola e sto
finendo la seconda alla Airbrook, dove avrei dovuto iniziare
l’anno. La signora Donatello si è fatta in quattro per me (di
nuovo!) e la direzione ha detto che potevo frequentare lì il
trimestre finale e anche la terza, con un po’ di corsi estivi di
recupero.
Eh, sì, passerò un’altra estate a scuola, come l’anno scorso.
Solo che stavolta è perché lo voglio io. Pazzesco, eh?
Ovviamente siamo tornati a vivere a Hills Village: io,
Georgia, mamma e nonna Dotty.
Come abbiamo scoperto, anche una casa piccola e
malmessa vale qualcosa, se è in città. Dopo aver venduto
quella di nonna, ci siamo ritrovati con i soldi sufficienti per
pagare l’affitto del nostro nuovo appartamento per anni. Sì,
siamo in un appartamento e non più in una casetta, ma ci
stiamo tutti e quattro comodi lo stesso. Non devo nemmeno
più dormire sul divano!
Se c’è un lato negativo in tutta questa storia, riguarda
Matty il Freak. Ho cercato di chiamarlo prima di partire, ma
non ha mai risposto.
E sapete che vi dico? Mi va bene così. Mi sono divertito
molto con Matty, ma credo che in realtà non sia mai stato un
vero amico.
D’altra parte forse nessuna delle cose buone che sono
successe sarebbe mai arrivata se lui non si fosse comportato
così. E quindi non posso neanche arrabbiarmi del tutto. È
pure finito due volte sulla mia lista per l’Operazione ‘Fatti
una vita’! Non solo come primo amico in tutta la scuola
media, ma anche come primo amico perso (ehi, quando
cerchi di farti una vita capitano cose belle e brutte, no?).
Sì,
ho
ancora
la
mia
lista.
Sono
arrivato
a
duecentosettantanove e non ho intenzione di fermarmi. Mi
sono chiesto: perché smettere a centonovantacinque?
Perché smettere, punto e basta? A volte mamma dice che
vivere è come i lavori in corso, e io sono d’accordo. Sto
ancora cercando di farmi una vita e FORSE, magari,
diventare un artista. Chi lo sa?
Il che mi porta all’ultima cosa buona che è capitata, finora.
Swifty mi ha dato l’opportunità di aggiungere una voce alla
lista: la mia prima vera mostra.
Forse è stato perché avvertivo meno la pressione, non lo so,
ma non mi ci è voluto molto per capire cosa volessi fare.
Anzi, mi è quasi sembrato ovvio, adesso che ci ripenso.
Voltate pagina e guardate.
All’inaugurazione sono venuti tutti e hanno mangiato una
tonnellata di torta. Jeanne ha portato i suoi genitori, la
signora Donatello suo marito, Capello il Bigfoot dei sigari di
cioccolato. Hanno fatto un salto anche due o tre insegnanti
della Airbrook. Da una parte è stato un po’ imbarazzante, ma
dall’altra è stata la serata migliore della mia vita.
Finora, naturalmente.
INDICE
Presentazione
Frontespizio
Pagina di Copyright
1 VUUUM!
2 TRASLOCO
3 PIÙ O MENO
4 LA MIA TOP TEN (CON SOLE SEI VOCI, VERAMENTE)
5 BENVENUTI NELLA METROPOLI!
6 PICCOLA... E STIPATA
7 UNA SERATA IN CITTÀ
8 PAUSA
9 MAMMA E IL SUO TIRO MANCINO
10 IL RITORNO DI LADY DRAGON
11 IL COLLOQUIO
12 DENTRO
13 SALUTI DALLA METROPOLI!
14 VENTIDUE ORE E QUARANTANOVE MINUTI DOPO
(NON CHE STESSI TENENDO IL CONTO, O COSA)
15 IL PRIMO GIORNO DEL RESTO DELLA MIA VITA
16 IL PRIMO GIORNO SUL PIANETA CATHEDRAL
17 LA FREGATURA
18 L’ESSENZA DELL’ARTE
19 E LA GRANDE IDEA?
20 IN CONDIZIONI KRIT–ICHE!
21 NASCOSTO IN BAGNO
22 E LA VENDETTA È DOLCE (E BAGNATA)
23 OPERAZIONE: FATTI UNA VITA
24 BENE, MALE, PEGGIO
25 IL RAGNO CRAWLEY
26 OPERAZIONI SEGRETE
27 CONSIGLI PER LA SOPRAVVIVENZA
28 LA MIA NUOVA VITA, FASE 1
29 LEO ALZA IL LIVELLO
30 UN ALTRO PUNTO DI VISTA
31 QUESTO È IL TUFFO NEI BIDONI
32 VECCHIE FOTO
33 TANTE DOMANDE
34 SALONE CAPELLO
35 VUOTO IL SACCO (PIÙ O MENO)
36 CHE GIORNATA!
37 LA RISPOSTA DI DOTTY
38 CI RISIAMO
39 GUERRA!
40 RI-VENDETTA
41 UN PIANO COI FIOCCHI
42 OPERAZIONE ‘ARTEPIMENTO’
43 QUANTO MI MERITAVO, E PURE DI PIÙ
44
RAFE KHATCHADORIAN: IL PEGGIOR FIGLIO AL
MONDO
45 COME RAFE È SOPRAVVISSUTO ALLA SOSPENSIONE A
SCUOLA
46 L’ARTE DI ARRANGIARSI
47 SEREN(ISSIM)O NATAL
48 ALLA GRANDE OPPURE NIENTE
49 L’APPOSTAMENTO
50 BECCATI!
51 NON ADESSO
52 TRENTADUE TRILIONI E PASSA
53 CARTOLINE A CINQUE DOLLARI, UN CERTO
MONDRIAN E QUALCHE ALTRA COSETTA CHE MI È
SFUGGITA
54 L’ASSEDIO!
55 NON È GIUSTO
56 MATTY IL FURIOSO
57 LA PRIMA PARTE DELLA PARTE PEGGIORE
58 IL RESTO DELLA PARTE PEGGIORE
59 ME NE VADO
60 SOLO DI PASSAGGIO
61 DI NUOVO IN VIAGGIO
62 BE’, SE AVESTE DOVUTO VIAGGIARE
CORRIERA
CALDA
E
PUZZOLENTE
VI
INVENTATI UNA STORIA PURE VOI
63 RIECCOMIII!
64 UNA NOTTE FUORI CASA
65 LA VERITÀ
SU UNA
SARESTE
66 PAUSA
67 UNA PILA ALTA
68 IL MIO LIETO (PIÙ O MENO) FINE
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