...

Le parole sono finestre … oppure muri

by user

on
Category: Documents
15

views

Report

Comments

Transcript

Le parole sono finestre … oppure muri
Le parole sono finestre … oppure muri
Collana “Dire, fare, comunicare” – Comunicazione Non Violenta
Edizioni Esserci, Reggio Emilia
Via Silvano Caleri, 14
42100 Reggio Emilia
www.centroesserci.it
Bisogna essere felici con ciò che si ha e non essere avidi: questo è un precetto
fondamentale del vivere in modo non violento.
L’uso disinvolto e approssimativo delle parole ci fa contribuire quasi senza che
ce ne accorgiamo alla strutturazione violenta dei nostri rapporti sociali.
Anche quando non consideriamo “violento” il modo in cui parliamo, le nostre
parole spesso portano al dolore e al ferimento, sia di noi stessi che degli altri.
La CNV (comunicazione non violenta) si basa su abilità di linguaggio e di
comunicazione che rafforzano la nostra capacità di rimanere umani, anche in condizioni
difficili. La CNV ci guida nel ripensare il modo in cui esprimiamo noi stessi ed
ascoltiamo gli altri. Invece di limitarsi ad essere reazioni automatiche, abitudinari, le
nostre parole diventano risposte coscienti basate sulla solida consapevolezza di ciò che
percepiamo, ciò che sentiamo e ciò che vogliamo.
Quando utilizziamo la CNV per ascoltare i bisogni più profondi, nostri ed altrui,
percepiamo le relazioni in una luce nuova. Quando ci concentriamo sul fare chiarezza su
ciò che osserviamo, ciò che proviamo e ciò di cui abbiamo bisogno, anziché
sull’emettere diagnosi e giudizi, scopriamo la profondità della nostra empatia. La CNV
promuove il rispetto, l’attenzione, l’empatia e genera un reciproco desiderio di dare con
il cuore.
Ho sviluppato la CNV come un modo per focalizzare la mia attenzione - per far
brillare la luce della consapevolezza – su luoghi che hanno il potenziale di portarmi
quello che sto cercando.
L’uso della CNV non richiede che le persone con cui comunichiamo siano gia a
conoscenza della CNV e neppure che siano motivate a relazionarsi con noi in modo
empatico. Se rimaniamo vicini ai principi della CNV, con il solo scopo di dare e
ricevere empaticamente e facciamo il possibile per far si che gli altri sappiano che
questo è il nostro solo movente, essi si uniranno a noi nel processo.
Le 4 componenti della CNV:
osservazioni
sentimenti
bisogni
richieste
Innanzi tutto osserviamo che cosa sta veramente accadendo in una certa situazione.
Il trucco sta nell’essere in grado di articolare questa osservazione senza introdurvi alcun
giudizio ne alcuna valutazione – ma dire semplicemente quello che altre persone fanno
che a noi piace o non piace. In seguito, affermiamo in che modo ci sentiamo quando
osserviamo questa azione: siamo tristi, spaventati, gioiosi, divertiti, irritati? Ed in terzo
luogo, diciamo quali nostri bisogni sono collegati ai sentimenti che abbiamo
identificato.
Esempio:
La madre al figlio adolescente: “ Francesco, quando vedo due paia di calze sporche
sotto il tavolo a altre tre paia vicino alla TV, mi sento irritata perché ho bisogno di
maggior ordine nelle stanze che utilizziamo in comune” – “Saresti disposto a portare le
calze in camera tua oppure a metterle in lavatrice?” (questa quarta componente fa
riferimento a ciò che vogliamo dall’altra persona che potrebbe arricchire la nostra vita o
rendercela migliore).
Schema:
Le azioni concrete che osserviamo, che influenzano il nostro benessere;
Come ci sentiamo in relazione a ciò che osserviamo;
I bisogni, valori, desideri che creano i nostri sentimenti;
Le azioni concrete che desideriamo richiedere al fine di arricchire la nostra vita.
La CNV è un approccio che può essere applicato con efficacia ad ogni livello della
comunicazione ed in situazioni diverse: relazioni personali, famiglia, scuola,
organizzazioni ed istituzioni, terapie e consulenze, relazioni diplomatiche e
commerciali.
Sintesi:
La CNV ci aiuta a metterci in relazione con noi stessi e con gli altri in un modo
che permette alla nostra naturale empatia di sbocciare. Ci guida nel ridare forma al
mondo in cui ci esprimiamo ed ascoltiamo gli altri, concentrando la nostra
consapevolezza su quattro aree: che cosa osserviamo, che cosa sentiamo, di che cosa
abbiamo bisogno e che cosa chiediamo per arricchire le nostre vite. La CNV promuove
l’ascolto profondo, il rispetto e l’empatia e genera un desiderio reciproco di dare con il
cuore. Alcune persone usano la CNV per rispondere con empatia a se stesse, altre per
dare maggiore profondità alle loro relazioni personali ed altre ancora per costruire
relazioni efficaci sul luogo di lavoro o nell’area politica. In tutto il mondo, la CNV è
utilizzata per mediare dispute e conflitti ad ogni livello.
“Non giudicate, e non sarete giudicati.
Perché se giudicate gli altri, così voi stessi sarete giudicati …”
(Matteo 7:1)
Certi modi di comunicare ci allontanano dal nostro stato naturale di empatia,
vediamo quali sono:
I giudizi moralistici: esempi: “Il tuo problema è che sei troppo egoista”, “E’ pigra”,
“Sei inopportuno”. Incolpare, umiliare, etichettare, fare paragoni sono tutti dei
giudizi. Quando parliamo questo linguaggio, giudichiamo gli altri e il loro
comportamento, e ci preoccupiamo di decidere chi è buono, chi è cattivo, chi
normale, chi anormale , chi responsabile, ecc. in realtà, le analisi che facciamo
sugli altri sono in realtà espressione dei nostri stessi bisogni e valori. Quando
parliamo questo linguaggio, pensiamo e comunichiamo nei termini di cos’è che
“non va” negli altri perché si comportano in un certo modo. Concentriamo la
nostra attenzione sul classificare, analizzare e determinare livelli di “torto”,
anziché sull’individuare quello di cui noi e gli altri abbiamo bisogno e che non
otteniamo. Esempio: se la nostra/o compagna/o vuole più affetto di quello che
noi gli/le diamo, lei/lui è “dipendente e piena di esigenze”. Ma se siamo noi a
volere più affetto , allora è lei/lui ad essere “distaccato/a e insensibile”.
Classificare e giudicare le persone favorisce la violenza.
Fare paragoni: chiunque di voi ha un sincero desiderio di rendere la propria vita
infelice, impari a paragonarsi agli altri.
Negare le proprie responsabilità: il nostro linguaggio offusca la consapevolezza
della responsabilità personale. Neghiamo la responsabilità delle nostre azioni
quando le attribuiamo a: a) forze vaghe e impersonali: “Ho pulito la mia stanza
perché dovevo”; b) la nostra condizione o storia personale: “Bevo perché sono
alcolizzato”; c) le azioni altrui: “Ho picchiato mio figlio perché è corso in
strada”; d) gli ordini dell’autorità: “Ho mentito al cliente perché me lo ha detto il
capo”; e) le pressioni del gruppo: “Ho iniziato a fumare perché lo facevano tutti
i miei amici”; f) impulsi incontrollabili: “Sono stato sopraffatto dal desiderio di
mangiare un pacchetto di caramelle”. Possiamo sostituire al linguaggio che
implica una mancanza di scelta il linguaggio che riconosce la scelta. Siamo
pericolosi quando non siamo consapevoli di essere responsabili del nostro
comportamento, dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti.
Le pretese: un’altra caratteristica del linguaggio che blocca l’empatia è il
comunicare i propri desideri nella forma di pretese. Non possiamo mai far fare
qualcosa a qualcuno.
Sintesi:
Provare gioia nel dare e nel ricevere con empatia fa parte della nostra natura .
tuttavia, abbiamo imparato presto molte forme di “comunicazione che aliena dalla
vita”, che ci portano a parlare e a comportarci in modi che feriscono gli altri e noi
stessi. Una forma di comunicazione che aliena dalla vita è l’uso di giudizi moralistici
che implicano il torto o la cattiveria di coloro i quali non agiscono in armonia con i
nostri valori. Un’altra forma di comunicazione di questo tipo è l’uso di paragoni, che
possono bloccare l’empatia sia verso noi stessi che verso gli altri. La comunicazione
che aliena dalla vita, inoltre, offusca la nostra consapevolezza di essere ognuno
responsabile dei propri pensieri, sentimenti ed azioni. Un’ulteriore forma di linguaggio
che blocca l’empatia è comunicare i nostri desideri in forma di pretese.
“Osservare senza valutare
è la forma più elevata di intelligenza umana”
( J. Krishnamurti, filosofo indiano)
La prima componente della CNV richiede di separare l’osservazione dalla
valutazione. Abbiamo bisogno di osservare con chiarezza quello che vediamo,
sentiamo, tocchiamo, che influenza il nostro benessere, senza mescolare ad esso alcuna
valutazione. Quando mescoliamo l’osservazione e la valutazione, gli altri sono propensi
a sentire una critica.
Esempio di osservazione
mescolata alla
valutazione
Esempio di osservazione
separata dalla
valutazione
Uso del verbo essere senza
indicare che chi valuta si
prende la responsabilità della
valutazione
Sei troppo generoso
Quando ti vedo dare ad altri
tutti i soldi del tuo pranzo,
penso che tu sia troppo
generoso.
Uso
dei
verbi
connotazione valutativa
Sergio rimanda
domani
Comunicazione
con
Confusione tra previsione e
certezza
sempre
a
Sergio studia per gli esami
soltanto la sera prima
Se non fai pasti equilibrati, la
tua salute ne risentirà
Se non fai pasti equilibrati,
temo che la tua salute ne
risentirà
Le parole sempre, mai, ogni volta, esprimono osservazioni.
Sintesi:
La prima componente della CNV comporta la separazione dell’osservazione
dalla valutazione. Quando combiniamo l’osservazione con la valutazione, gli altri
saranno propensi a udire una critica e ad apporre resistenza a quello che diciamo. La
CNV è un linguaggio di processo che scoraggia le generalizzazioni statiche. Al
contrario, le osservazioni dovrebbero essere circostanziate, nel tempo e nel contesto, ad
esempio “Paolo non ha segnato un gol in 20 partite” anziché “Paolo è un calciatore
scadente”.
La seconda componente della CNV consiste nell’esprimere come ci
sentiamo.
Il nostro repertorio di parole utili per affibbiare etichette alle persone è spesso assai più
grande del nostro vocabolario di parole che ci permettono di descrivere con chiarezza il
nostro stato emotivo.
Questa difficoltà nell’esprimere i propri sentimenti è assai comune, e, nella mia
esperienza, è ancora più diffusa presso gli avvocati, gli ingegneri, gli ufficiali di polizia,
i dirigenti d’azienda, i militari di carriera – persone per le quali sono gli stessi codici di
condotta professionale a scoraggiare la manifestazione di emozioni. All’interno della
famiglia, quando accade che i suoi membri non riescono a comunicare le loro emozioni
il prezzo da pagare è molto alto.
Esprimere la nostra vulnerabilità può aiutare a risolvere i conflitti. In generale, i
sentimenti non sono espressi in modo chiaro quando il verbo sentire è seguito da:
Parole quali che, come, come se : 1) “Sento che dovrei saperne di più”, “Sento di
essere un fallimento”, “Mi sento come se vivessi con un muro”.
I pronomi personali (io, tu, lui, lei, voi, loro): “Sento che (io) sono sempre in
servizio”
Nomi riferiti a persone: “Sento che Amelia è stata molto responsabile”.
Nell’ambito della CNV dobbiamo distinguere tra ciò che sentiamo e ciò che
pensiamo di essere.
Esempio:
descrizione di ciò che pensiamo di essere: “Mi sento incapace come chitarrista”. In
questa frase sto valutando la mia abilità come chitarrista anziché esprimere con
chiarezza i miei sentimenti.
Espressione di sentimenti veri e propri: “Mi sento insoddisfatto di me come
chitarrista”, “Mi sento impaziente di progredire come chitarrista”
In modo analogo, è utile distinguere tra le parole che descrivono quello che pensiamo
che altre persone attorno a noi stiano facendo, e le parole che descrivono veri e propri
sentimenti: esse, in realtà, descrivono come noi riteniamo che gli altri si stiano
comportando, più che quello che noi stessi proviamo:
“Mi sento poco importante agli occhi delle persone con cui lavoro”. La parola poco
importante descrive il modo in cui penso che gli altri mi giudichino, anziché un
sentimento vero, che in questa situazione potrebbe essere qualcosa come “Mi
sento triste” oppure “Mi sento demoralizzato”;
“MI sento frainteso”: la parola frainteso indica la mia valutazione del grado di
comprensione dell’altra persona nei miei confronti, piuttosto che un sentimento
reale. In questa situazione, potrei sentirmi ansioso o infastidito, oppure potrei
provare qualche altra emozione.
“Mi sento ignorato”. Questa è un’interpretazione delle azioni di altri che non una
chiara affermazione di quello che sentiamo.
Per esprimere i nostri sentimenti è utile servirsi di parole che fanno riferimento ad
emozioni specifiche, anziché parole vaghe e generiche. Parole come bene o male
impediscono al nostro interlocutore di connettersi facilmente con i sentimenti che
stiamo davvero provando. “Stare bene” può significare vari stati d’animo come: essere
contento, essere compiaciuto, essere elettrizzato, essere calmo, coinvolto, caloroso ecc,
insomma, ci sono tantissime sfaccettature dello “stare bene”.
Questo vale anche per alcuni sentimenti che possiamo provare quando i nostri
bisogni non sono soddisfatti. “Stare male” potrebbe significare: essere addolorato,
diffidente, indifferente, fiacco, annoiato, inappagato, impotente, esausto, geloso,
insicuro ecc ecc.
Sintesi:
La seconda componente che è necessaria per esprimere noi stessi sono i
sentimenti. Sviluppando un vocabolario di sentimenti che ci permetta di descrivere le
nostre emozioni con chiarezza e specificità, possiamo connetterci più facilmente l’uno
con l’altro. Permettere a noi stessi di mostrarci vulnerabili, esprimendo i nostri
sentimenti, può aiutarci a risolvere i conflitti. La CNV distingue l’espressione dei
sentimenti veri e propri da quelle parole e quelle affermazioni che descrivono pensieri,
considerazioni e interpretazioni.
La terza componente della CNV riguarda l’accettazione di ciò che è alla
radice dei nostri sentimenti.
La CNV accresce la nostra consapevolezza del fatto che quello che gli altri
dicono o fanno può si essere uno stimolo, ma non è la causa dei nostri sentimenti.
Vediamo che i nostri sentimenti sono il risultato del modo in cui scegliamo di ricevere
quello che gli altri dicono e fanno, nonché dei nostri particolari bisogni e delle nostre
aspettative in quel momento.
Quando qualcuno ci manda un messaggio negativo, sia esso verbale oppure non
verbale, abbiamo quattro modi possibili di riceverlo:
Incolpare noi stessi: prendiamo il messaggio negativo come un attacco
personale e vi vediamo una critica o un’attribuzione di colpa. Esempio:
quando qualcuno ci dice “Sei la persona più egocentrica che io conosca”,
se prendessimo questo messaggio come qualcosa di personale
reagiremmo così: “Oh, avrei dovuto dimostrarmi più sensibile”.
Reagendo così accettiamo il giudizio di un’altra persona e diamo la colpa
a noi stessi, pagando a caro prezzo in termini di autostima.
Incolpare gli altri: ritornando all’esempio appena fatto, la risposta
accusatoria potrebbe essere così: “Non hai alcun diritto di parlare così!Io
tengo sempre in considerazione i tuoi bisogni. Sei tu quello veramente
egoista”. Attribuendo la colpa all’interlocutore proviamo sentimenti di
rabbia.
Percepire i nostri sentimenti e bisogni: in questo modo facciamo brillare la
luce della nostra consapevolezza sui nostri bisogni e sentimenti
personali. In questa ottica la risposta alla frase di prima potrebbe essere:
“Quando ti sento dire che sono la persona più egocentrica che tu abbia
mai incontrato, mi sento addolorato, perché ho bisogno che i mie sforzi
nel tener conto delle tue preferenze siano in qualche modo riconosciuti”.
Percepire i sentimenti ed i bisogni dell’altro: la risposta potrebbe essere: “Ti
senti amareggiato perché hai bisogno che le tue preferenze siano tenute
in maggiore considerazione?”
L’attribuzione ad altri della responsabilità per i nostri sentimenti è il
meccanismo che sta alla base del motivare le persone attraverso il senso di colpa.
Esempio: sei dei genitori dicono: “Fai star male la mamma e il papà quando prendi
brutti voti a scuola”, essi implicano che le azioni del bambino sono la causa della
felicità o dell’infelicità dei genitori. Se i bambini si assumono questo tipo di
responsabilità modificano il loro comportamento in risposta ai desideri dei genitori, non
lo fanno con il cuore, ma lo fanno per evitare i sensi di colpa.
Ci sono vari schemi linguistici che tendono a mascherare la responsabilità per i
propri sentimenti:
“La mamma è triste se non finisci il tuo pranzo”
“Mi sento ferito perché tu hai detto che non mi ami”
In ciascuno di questi esempi, potremmo approfondire la consapevolezza della nostra
responsabilità personale inserendovi la frase “Mi sento … perché io …”, ad esempio:
“Quando non finisci il tuo pranzo, la mamma si sente triste, perché (io) voglio che tu
cresca sano e forte”.
“Mi sento arrabbiata per il fatto che il supervisore non abbia mantenuto la sua
promessa, perché io contavo di aver libero quel fine settimana per andare a
trovare mio fratello”.
I giudizi, le critiche, le interpretazioni e le diagnosi sugli altri sono tutte espressioni
alienate dei propri bisogni. Quando esprimiamo i nostri bisogni in modo indiretto,
attraverso l’uso di valutazioni, interpretazioni ed immagini, gli altri probabilmente vi
sentiranno una critica. E quando le persone sentono qualcosa che suona come una
critica, tendono ad investire le loro energie nell’autodifesa o nel contrattacco.
Tanto più riusciamo a collegare direttamente i nostri sentimenti ai nostri bisogni,
tanto più gli altri troveranno facile rispondervi con empatia. Purtroppo, a molti di noi
non è mai stato insegnato a pensare in termini di bisogni. Siamo abituati a chiederci che
cos’è che non va nelle altre persone quando i nostri bisogni non sono soddisfatti.
Se non attribuiamo valore ai nostri bisogni, è probabile che neppure gli altri lo
faranno.
Sintesi:
La terza componente della CNV è il riconoscimento dei bisogni che stanno
dietro i nostri sentimenti. Ciò che gli altri dicono o fanno può essere lo stimolo, ma mai
la causa dei nostri sentimenti. Quando qualcuno ci comunica qualcosa in modo
negativo, abbiamo quattro possibilità di scelta relative ai modi in cui ricevere il
messaggio: 1) incolpare noi stessi; 2) incolpare gli altri; 3) percepire i nostri sentimenti
ed i nostri bisogni; 4) percepire i sentimenti ed i bisogni nascosti nel messaggio
negativo dell’altra persona.
I giudizi, le critiche, le diagnosi e le interpretazioni degli altri sono tutte
espressioni alienate dei nostri bisogni e valori personali. Quando gli altri sentono una
critica, tendono ad investire le loro energie nell’autodifesa o nel contrattacco. Tanto
più direttamente riusciamo a collegare i nostri sentimenti ai nostri bisogni, tanto più
facile è per gli altri rispondere con empatia.
In un mondo in cui siamo spesso giudicati con asprezza se individuiamo e
rileviamo i nostri bisogni, esprimerli può fare paura, soprattutto alle donne cui è stato
insegnato ad ignorare i loro bisogni per avere cura di quelli altrui. Nel processo di
sviluppo della responsabilità emotiva, la maggior parte di noi sperimenta tre stadi: a)
la “schiavitù emotiva” – in cui ci crediamo responsabili dei sentimenti altrui; b) lo
“stadio scontroso” – nel corso del quale rifiutiamo di ammettere che ci importa di
quello che gli altri sentono e desiderano; c) la “liberazione emotiva” – in cui
accettiamo la piena responsabilità dei nostri sentimenti ma non di quelli altrui, e
contemporaneamente siamo consapevoli del fatto che non potremo mai soddisfare i
nostri bisogni a spese di quelli di altre persone.
La quarta componente di CNV riguarda il problema di quello che vorremmo
chiedere gli uni agli altri per arricchire le nostre vite. Cerchiamo di evitare le
formulazioni vaghe, astratte o ambigue, e ricordiamo di usare un linguaggio di
azione positivo, dichiarando quello che vogliamo anziché quello che non vogliamo.
Quando parliamo, tanto più ci è chiaro che cosa vogliamo in cambio, tanto più è
probabile che lo otterremo. Dal momento che il messaggio che mandiamo non
sempre coincide con quello che viene ricevuto, abbiamo bisogno di imparare a
scoprire se il nostro messaggio è stato ricevuto in modo esatto. Abbiamo bisogno di
aver chiara la natura della risposta che vogliamo ricevere soprattutto quando
stiamo esprimendoci in un gruppo. Altrimenti potremmo dar vita a conversazioni
improduttive che fanno perdere al gruppo un notevole ammontare di tempo.
Le richieste sono percepite come pretese quando chi ascolta crede che sarà
incolpato o punito se non si conformerà ad esse. Possiamo aiutare gli altri ad aver
fiducia nel fatto che stiamo facendo una richiesta e non una pretesa esprimendo il
nostro desiderio che loro obbediscano solo se lo fanno volentieri. Lo scopo della
CNV non è quello di cambiare le persone e il loro comportamento per fare le cose a
modo nostro; è invece quello di creare relazioni basate sull’onestà e sull’empatia,
che successivamente soddisferanno i bisogni di tutti.
Quando i nostri bisogni non sono soddisfatti, facciamo seguire all’espressione di
ciò che osserviamo, sentiamo e desideriamo una richiesta specifica: chiediamo agli altri
che essi compiano azioni che possono soddisfare i nostri bisogni. E’ importante usare
un linguaggio positivo nel formulare le richieste. Bisogna esprimersi in termini di quello
che si vuol fare e non in termini di quello che non si vuole fare. Esempio: “Se mai mi
troverò in un altro dibattito, non mi comporterò come ho fatto in quel programma! Non
starò sulla difensiva. Non permetterò a nessuno di farmi passare per stupido”.
E’ importante, in sostanza, esprimere quello che si vuole e non quello che
non si vuole, la positività ha successo! Oltre ad usare un linguaggio positivo,
vogliamo anche evitare le forme linguistiche vaghe, astratte o ambigue ed
articolare le nostre richieste nella forma di azioni concrete che gli altri possono
intraprendere.
Esempio: Tra moglie e marito.
Moglie: “Voglio che mi lasci in pace”.
Marito: “Lo faccio!”
Moglie: “No. Non lo fai!”
Viene chiesto alla moglie di esprimere più chiaramente i suoi sentimenti:
Moglie: “Voglio che tu mi dia la libertà di crescere e di essere me stessa”
E’ troppo imprecisa. Le viene chiesto di esprimere ancora più chiaramente quello che
prova e che vorrebbe.
Moglie: “E’ un po’ imbarazzante, ma se devo essere precisa, credo che quello che
voglio è che tu sorrida e che dica che tutto quello che faccio va bene”.
Quando esprimiamo una richiesta, è utile anche verificare che nella nostra mente
non vi siano pensieri del tipo seguente, i quali automaticamente trasformano in pretese e
richieste:
Dovrebbe pulire dove ha sporcato
E’ il suo dovere fare quello che le dico
Merito un aumento di stipendio
Sono giustificato per farli rimanere fino a tardi
Ho diritto ad avere maggior tempo libero.
Quando formuliamo i nostri bisogni in questi modi, finiamo per giudicare gli altri
quando non fanno quello che chiediamo.
Ricevere con empatia.
L’empatia è una componente rispettosa di quello che gli altri provano. Invece di
offrire empatia, spesso abbiamo un forte impulso a dare consigli o rassicurazioni e a
spiegare la nostra opinione o i nostri sentimenti personali. L’empatia, invece, ci chiede
di svuotare la nostra mente e di ascoltare gli altri con il nostro intero essere.
Con la CNV, a prescindere dalle parole che gli altri utilizzano per esprimersi,
ascoltiamo semplicemente le loro osservazioni, i loro sentimenti, i loro bisogni e le loro
richieste. Poi potremmo desiderare di ripetergli, parafrasando ciò che abbiamo
compreso. Rimaniamo con l’empatia, dando agli altri la possibilità di esprimere
completamente loro stessi prima di volgere la nostra attenzione alla soluzione o di
offrire aiuto.
Per dare empatia abbiamo bisogno di empatia. Quando ci accorgiamo di stare
sulla difensiva o di essere incapaci di empatizzare, allora dobbiamo: a) fermarci,
respirare, dare empatia a noi stessi, oppure, b) urlare in modo non-violento, oppure c)
prenderci un “time out”.
Ascoltare empaticamente significa svuotare la mente ed ascoltare con tutto il
nostro essere. Vi sono però atteggiamenti comuni che ci impediscono di essere presenti
in misura sufficiente per poterci relazionare agli altri con empatia:
Dare consigli: “Penso che dovresti …”, “come mai non hai fatto …”
Cercare di tirar su: “Questo non è niente; aspetta di sentire che cosa è capitato a me”
Educare: “Questo per te potrebbe trasformarsi in un’esperienza molto positiva se tu
soltanto…”
Consolare: “Non è stata colpa tua; hai fatto tutto quello che hai potuto”
Raccontare storie: “Mi fa venire in mente quella volta che…”
Zittire: “Tirati su. Non starci così male”
Commiserare: “Oh, poverino!”
Interrogare: “Quando è cominciato tutto questo…”
Dare spiegazioni: “Ti avrei voluto chiamare, ma…”
Correggere: “Non è così che è andata”.
Dopo aver focalizzato la nostra attenzione e il nostro ascolto su quello che gli altri
osservano, sentono, desiderano e richiedono allo scopo di arricchire le loro vite
potremmo volere un riscontro, mettendo in parole (parafrasando) quello che
abbiamo compreso. Esempi:
“A quale delle cose che ho fatto ti stai riferendo?”
“Come ti senti?” “Perché ti senti così?”
“Che cosa vuoi che faccia per te?”
Non ci sono regole infallibili sul momento in cui è opportuno parafrasare, ma, in genere,
si può supporre con certezza che le persone che esprimono messaggi intensamente
emotivi apprezzeranno un riscontro da parte nostra. Quando siamo noi stessi a parlare,
potremmo aiutare che ci ascolta dicendo chiaramente se vogliamo oppure no che questi
ci ripeta le nostre parole. Quando facciamo la parafrasi, il tono di voce che usiamo è
estremamente importante. Quando sentono che le loro parole vengono ripetute, le
persone sono estremamente sensibili a qualsiasi indizio di critica o di sarcasmo. Sono
altresì colpite negativamente da un tono dichiarativo che implica che stiamo spiegando
quello che sta succedendo loro. Se stiamo ascoltando consapevolmente i sentimenti e i
bisogni degli altri, comunque, il nostro tono comunicherà che stiamo chiedendo se
abbiamo capito.
Qual è la prova del fatto che abbiamo empatizzato abbastanza con l’altra
persona? Innanzitutto, quando un individuo si rende conto che tutto quello che accade in
lui ha ricevuto una comprensione piena ed empatica, egli prova un senso di sollievo. Un
secondo segnale, ancora più evidente, è che la persona smetterà di parlare. Se non siamo
sicuri di essere rimasti abbastanza a lungo nel processo, possiamo sempre domandare:
“C’è qualcos’altro che vuoi dire?”.
Ancora sull’empatia.
La nostra capacità di dare empatia ci permette di essere vulnerabili, di ridurre
la violenza potenziale, di aiutarci ad ascoltare la parola “no” senza prenderla come un
rifiuto, di ridare vita ad una conversazione spenta e persino di ascoltare i sentimenti ed
i bisogni espressi tramite il silenzio. Molte volte le perone che hanno avuto un
sufficiente contatto con qualcuno che li ascolta empaticamente possono superare gli
effetti paralizzanti del dolore psicologico.
Usare l’empatia per ridurre il pericolo.
La capacità di offrire empatia agli altri in situazioni di tensione può ridurre la violenza
potenziale.
Esempio:
Un’insegnate rimase in aula con uno studente, dopo l’orario di lezione. Sebbene
fosse stato sconsigliato alla professoressa di rimanere da sola nell’istituto a causa del
quartiere malfamato dove si trovava la scuola, l’insegnante vi rimase per aiutare lo
studente che aveva difficoltà. Uno sconosciuto entrò nella sua classe, dove ebbe luogo
questo dialogo:
Uomo: “Togliti i vestiti”
Insegnante: (nota che l’uomo sta tremando) “Mi sembra che questo ti faccia paura”
Uomo: “Mi hai sentito? Maledizione togliti i vestiti!”
Insegnante: “Sei davvero arrabbiato e vuoi che io faccia quello che mi stai
dicendo?”
Uomo: “Hai proprio ragione, e ti farò del male se non lo fai”
Insegnante: “ Vorrei che mi dicessi se c’è qualche altro modo di soddisfare i tuoi
bisogni che non faccia del male a me”
Uomo: “Ho detto di toglierli”
Insegnante: “ Vuoi proprio che questo accada. Allo stesso tempo, voglio che tu
sappia che ho paura e che mi sento malissimo e che sarei molto grata se te ne
andassi senza farmi male”.
Uomo: “Dammi il portafogli”.
La donna allungò il suo portafogli allo sconosciuto, sollevata per non essere stata
violentata. Più tardi raccontò che, ogni volta che dava empatia all’uomo, avvertiva che
lui diventava meno fermo nella sua intenzione di procedere con la violenza.
Durante le situazioni di conflitto è importante dare empatia e non sbattere in
faccia al nostro interlocutore il “Ma”:
“Ma non ho una stanza da darti”, “Ma ti ho detto già che…”, “Ma insomma non
capisci”, ecc.
A causa della nostra tendenza a leggere come un rifiuto messaggi quali “no” e “non
voglio”, è molto importante riuscire ad empatizzare con essi. Se li prendiamo in modo
personale, potremmo sentirci feriti senza aver compreso quello che in realtà sta
accadendo nell’altro. Quando facciamo brillare la luce della consapevolezza sui
sentimenti e sui bisogni dietro il “no” di qualcuno, tuttavia, individuiamo che c’è quello
che desidera che gli/le impedisce di risponderci come vorremmo.
Diventiamo noi stessi il cambiamento che desideriamo
(Mahatma Gandhi)
La più importante applicazione della CNV potrebbe riguardare il modo in cui
trattiamo noi stessi. Quando facciamo degli sbagli, possiamo utilizzare il processo di
celebrare la perdita in CNV e di perdono verso noi stessi per capire come possiamo
crescere invece di farci intrappolare da giudizi moralistici su noi stessi. Valutando i
nostri comportamenti in termini di bisogni non soddisfatti, lo stimolo al cambiamento
proviene non dal senso di vergogna o di colpa, dalla rabbia o dalla depressione, ma dal
nostro genuino desiderio di contribuire al benessere nostro e altrui.
Coltiviamo l’empatia verso noi stessi anche quando scegliamo di agire, nella vita
di tutti i giorni, solo servendo i nostri bisogni e valori anziché per dovere, per ottenere
riconoscimenti esteriori, o per evitare la vergogna, il senso di colpa o la punizione. Se
riesaminiamo le azioni onerose cui ci sottoponiamo quotidianamente e traduciamo
“devo” in “scelgo di”, riportiamo il gioco e l’integrità nella nostra vita.
Ricordiamoci di quanto ognuno di noi sia “speciale”. Quando i pensieri critici
che formuliamo su noi stessi ci impediscono di vedere la bellezza che è in noi, perdiamo
la connessione con l’energia divina che ci sostiene. Condizionati come siamo a vedere
noi stessi come oggetti – oltrettutto, oggetti pieni di difetti – c’è da sorprendersi che
molti di noi finiscano per essere violenti verso se stessi? Un primo aspetto importante
della nostra vita in cui possiamo cominciare a sostituire la violenza verso noi stessi
con l’empatia è nel modo in cui, momento per momento, valutiamo noi stessi.
Nella nostra lingua c’è una parola che ha un fortissimo potere di creare vergogna
e senso di colpa. Questa parola violenta, che usiamo comunemente per giudicare noi
stessi, è talmente radicata nella nostra coscienza che molti di noi non saprebbero
immaginarsi come vivere senza di essa. Si tratta del verbo “dovere”. La maggior parte
delle volte in cui usiamo questa parola verso noi stessi ci impediamo di imparare,
perché essa implica che non abbiamo scelta. Gli esseri umani, quando sentono una
pretesa di qualunque tipo, tendono ad opporvi resistenza perché la pretesa minaccia la
loro autonomia.
Esprimiamo una pretesa anche quando ci giudichiamo nel modo seguente:
“Quello che sto facendo è una cosa terribile. Devo proprio fare qualcosa in proposito”.
Pensate per un attimo a tutte le persone che avete sentito dire “Dovrei davvero smettere
di fumare”, “Devo cominciare a fare più movimento”. Queste persone continuano a
dirsi quello che devono fare e continuano a non farlo, perché in quanto esseri umani non
siamo nati per essere schiavi. Non siamo nati per sottometterci agli ordini dei “doveri” e
dei “mi tocca fare questo”, sia che provengano da fuori sia che vengano da dentro di
noi. E se cediamo e ci sottomettiamo a queste pretese, le nostre azioni sono stimolate da
un’energia che è priva di gioia vitale. I giudizi su se stessi, come tutti i giudizi, sono
tragiche espressioni di bisogni non soddisfatti.
Esprimere interamente la propria rabbia.
Incolpare e punire gli altri sono espressioni superficiali della rabbia. Se
desideriamo esprimere la rabbia pienamente, il primo gradino consiste nel sollevare
l’altra persona dalla responsabilità per la nostra rabbia. Invece, facciamo brillare la luce
della consapevolezza sui nostri sentimenti e bisogni personali. Esprimendo i nostri
bisogni, è molto più probabile che essi siano soddisfatti che non se giudichiamo,
incolpiamo o puniamo gli altri. I quattro gradini verso l’espressione della rabbia sono:
1) fermiamoci e respiriamo
2) individuiamo i nostri pensieri di giudizio
colleghiamoci ai nostri bisogni e
3)
4) esprimiamo i nostri sentimenti e bisogni
insoddisfatti. Abbiamo bisogno di “prenderci il tempo” necessario sia nell’apprendere
che nell’applicare il processo di CNV.
Liberare noi stessi ed aiutare gli altri.
La CNV migliora la comunicazione interiore aiutandoci a tradurre i messaggi
interni negativi in sentimenti e bisogni. La nostra capacità di individuare i nostri
sentimenti ed i nostri bisogni e di empatizzare con essi ci può liberare dalla depressione.
Possiamo sostituire la CNV al “linguaggio che uccide i sogni” e riconoscere che esiste
una scelta in tutte le nostre azioni. Mostrandoci come possiamo concentrarci su ciò che
veramente vogliamo anziché su ciò che non va in noi o negli altri, la CNV ci offre gli
strumenti e la comprensione necessari per crearci uno stato d’animo più sereno. La
CNV può anche essere usata dai professionisti nelle consulenze e nella psicoterapia per
produrre relazioni reciproche ed autentiche con i clienti.
Esprimere apprezzamento in comunicazione nonviolenta.
I complimenti convenzionali prendono spesso la forma di giudizi, benché
positivi, e spesso vengono fatti per manipolare il comportamento altrui. La CNV invita
ad esprimere apprezzamento solo per festeggiare. Esprimiamo: 1) l’azione che ha
contribuito al nostro benessere 2) il nostro particolare bisogno che è stato soddisfatto
3) il sentimento piacevole che come risultato si è prodotto in noi.
Quando riceviamo un apprezzamento espresso in questo modo, possiamo farlo
senza alcun sentimento di superiorità o di falsa modestia, festeggiando assieme alla
persona che offre l’apprezzamento.
Dire grazie in CNV:
Questo è ciò che hai fatto;
Questo è ciò che sento;
Questo è il mio bisogno che è stato soddisfatto.
Esempio: Il prof. Rosemberg dopo un seminario ….
Partecipante: si avvicina alla fine del seminario: “Prof. Rosemberg, lei è magnifico!”
Rosemberg: “Non riesco a ricavare dal suo apprezzamento tanto piacere quanto vorrei”
Partecipante: “Perché, cosa vuole dire?”
Rosemberg: “Nel corso della mia vita sono stato chiamato con una molteplicità di
aggettivi, ma non ricordo di aver mai imparato niente di importante dal sentirmi dire che
cosa sono. Vorrei imparare dal suo apprezzamento e trarne piacere, ma avrei bisogno di
più informazioni”.
Partecipante: “Come cosa?”
Rosemberg: “Innanzitutto, vorrei sapere che cosa ho detto o fatto che le ha reso la vita
più bella”.
Partecipante: “Bè, lei è così intelligente”.
Rosemberg: “Temo che lei mi abbia appena offerto un altro giudizio che mi lascia
ancora a domandarmi che cosa ho fatto che le ha reso la vita più bella”.
La partecipante dovette pensarci un po’, poi indicò gli appunti che aveva preso
durante il seminario:
Partecipante: “Guardi in questi due punti. Sono state queste due cose che lei ha detto”
Rosemberg: “Ah, quindi quello che lei ha apprezzato è il fatto che ho detto queste due
cose”
Partecipante: “Si”.
Rosemberg: “Successivamente vorrei sapere come si è sentita in associazione al fatto
che ho detto queste due cose”.
Partecipante: “Speranzosa e sollevata”
Rosemberg: “E ora vorrei sapere quali suoi bisogni sono stati soddisfatti dal fatto che ho
detto queste due cose”.
Partecipante: “Ho un figlio di 18 anni con cui non sono capace di comunicare. Ho
cercato disperatamente una qualche direzione che mi possa aiutare a relazionarmi con
lui in modo più affettuoso e queste due cose che lei ha detto mi offrono la direzione che
stavo cercando”.
Bisogna ricevere gli apprezzamenti senza superiorità né falsa modestia, e a tal proposito
sono utili le parole della scrittrice contemporanea Marianne Williamson:
La nostra paura più profonda non è quella di essere inadeguati.
La nostra paura più profonda è quella di essere smisuratamente potenti.
A spaventarci è la nostra luce, non il nostro buio. Siete figli di Dio.
Il vostro sminuirvi non giova al mondo.
Non c’è niente di nobile nel farvi piccoli affinché gli altri si sentano meno insicuri
accanto a voi.
Siamo nati per manifestare la gloria di Dio che è dentro di noi.
Non soltanto in alcuni di noi, ma in tutti.
E quando lasciamo che la nostra luce splenda, diamo agli altri, inconsapevolmente,
il permesso di fare altrettanto.
Quando ci liberiamo dal nostro timore,
la nostra presenza libera automaticamente gli altri.
Fly UP