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L`ospite inquietante (U. Galimberti)

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L`ospite inquietante (U. Galimberti)
UMBERTO GALIMBERTI.
L'OSPITE INQUIETANTE.
Il nichilismo e i giovani.
(c) Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano.
(Pagine: 169).
Prima edizione in "Serie Bianca" ottobre 2007.
Seconda edizione novembre 2007.
ISBN 978-88-07-17143-7.
In copertina: (c) Corbis.
Presentazione.
"Il nichilismo. Non serve a niente metterlo alla
porta, perché ovunque, già da tempo e in modo
invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che
occorre è accorgersi di quest'ospite e guardarlo
bene in faccia".
Martin Heidegger.
Un libro sui giovani, perché i giovani, anche se non sempre lo sanno,
stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza,
ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra
nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive ed
orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare. Solo il mercato si
interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo,
dove ciò che si consuma è la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi
in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa.
Va da sé che, se il disagio non è del singolo individuo, l'origine non è
psicologica ma culturale. Perciò inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla
nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia
nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il
regolatore dei rapporti tra gli uomini. Resta solo la "ragione strumentale"
che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell'orizzonte
di senso per la latitanza del pensiero e l'aridità del sentimento.
C'è una via d'uscita? Si può mettere alla porta l'ospite inquietante? Sì, se
sapremo insegnare ai giovani l'"arte del vivere", come dicevano i Greci,
che consiste nel riconoscere le proprie capacità e nell'esplicitarle e
vederle fiorire secondo misura.
Se proprio attraverso il nichilismo i giovani, adeguatamente sostenuti,
sapessero compiere questo primo passo capace di farli incuriosire ed
innamorare di sé, l'"ospite inquietante" non sarebbe passato invano.
L'autore.
Umberto Galimberti insegna Filosofia della storia e Psicologia dinamica
all'Università di Venezia. Con Feltrinelli ha pubblicato anche:
Psichiatria e fenomenologia (1979), Il corpo (1983), La terra senza il male
(1984), Gli equivoci dell'anima (1987), Il gioco delle opinioni (1989),
Idee: il catalogo è questo (1992), Parole nomadi (1994), Psiche e techne.
L'uomo nell'età della tecnica (1999), Orme del sacro (2000, premio nazionale
Corrado Alvaro 2001), I vizi capitali e i nuovi vizi (2003), Le cose
dell'amore (2004), La casa di psiche (2005, premio Cesare De Lollis).
È in corso di ripubblicazione nell'Universale Economica Saggi l'intera
sua opera, e sono già usciti Idee: il catalogo è questo, Gli equivoci dell'anima,
La terra senza il male, Psiche e techne, Il corpo, Il gioco delle opinioni,
Il tramonto dell'Occidente, Parole nomadi, Psichiatria e fenomenologia,
I vizi capitali e i nuovi vizi. È inoltre autore unico di un Dizionario
di psicologia (Utet 1992) di oltre quattromila voci, ampliato nell'edizione
Garzanti (1999).
Avvertenza.
Alcuni brani di questo libro riproducono in parte articoli apparsi su
"Repubblica" dal 1995 al 2007. Ringrazio il direttore di "Repubblica" Ezio Mauro
per avermi concesso di recuperare questi brani e integrarli nel libro.
Libri in uscita, interviste, reading,
commenti e percorsi di lettura.
Aggiornamenti quotidiani.
Dedica.
Alla piccola Kea,
che dovrà incontrare adolescenza e giovinezza.
Nietzsche chiama il nichilismo "il più inquietante
(unheimlich) fra tutti gli ospiti", perché ciò che
esso vuole è lo spaesamento (Heimatlosigkeit)
come tale. Per questo non serve a niente metterlo
alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo
invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che
occorre è accorgersi di quest'ospite e guardarlo
bene in faccia.
M. HEIDEGGER, La questione dell'essere (Sopra la
linea) (1955-1956), p. 337.
Introduzione.
Il nichilismo è alle porte: da dove ci viene costui,
il più inquietante fra tutti gli ospiti?
F. NiErzsceE, fr. 2 (127), in Frammenti postumi
1885-1887.
Un libro sui giovani: perché i giovani, anche se non
sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite
crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché
un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro,
penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella
prospettive ed orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce
le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare,
solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie
del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma
non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano
obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi
in un futuro capace di far intravedere una qualche
promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la
massima intensità, non perché questa intensità procuri
gioia, ma perché promette di seppellire l'angoscia che fa la
sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni
del deserto di senso.
Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché
hanno ormai raggiunto quell'analfabetismo emotivo
che non consente di riconoscere i propri sentimenti e
soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome dare
a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto
della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun
richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le
parole che invitano all'impegno e allo sguardo volto al futuro
affondano in quell'inarticolato all'altezza del quale c'è
solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa
del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro
segreta depressione come stato d'animo senza tempo,
governato da quell'ospite inquietante che Nietzsche chiama
"nichilismo".
E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole
di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole
che promettono, le parole che vogliono lenire la loro
segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore
insensato.
Un po' di musica sparata nelle orecchie per cancellare
tutte le parole, un po' di droga per anestetizzare il dolore o
per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica
di quell'individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni
precedenti, indotto dalla persuasione che - stante
l'inaridimento di tutti i legami affettivi - non ci si salva se
non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a
quell'unico generatore simbolico di tutti i valori che nella
nostra cultura si chiama denaro.
Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo,
ma l'individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza
di prospettive e di progetti, se non addirittura di
sensi e di legami affettivi, come accade nella nostra cultura,
è ovvio che risultano inefficaci le cure farmacologiche
cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche
che curano le sofferenze che originano nel singolo
individuo.
E questo perché se l'uomo, come dice Goethe, è un essere
volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto
dell'insensatezza che l'atmosfera nichilista del nostro tempo
diffonde il disagio non è più psicologico, ma culturale. E
allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale
che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la
causa, ma la conseguenza di un'implosione culturale di cui
i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master,
nel precariato, sono le prime vittime.
E che dire di una società che non impiega il massimo
della sua forza biologica, quella che i giovani esprimono
dai quindici ai trent'anni, progettando, ideando, generando,
se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva
credibile, una speranza in grado di attivare quella
forza che essi sentono dentro di loro e poi fanno implodere
anticipando la delusione per non vedersela di fronte?
Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del
tramonto della nostra cultura? Un segno ben più minaccioso
dell'avanzare degli integralismi di altre culture, dell'efficientismo
sfrenato di popoli che si affacciano nella nostra
storia e con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti
i valori che non si riducano al valore del denaro.
Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma
culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra
cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero
morto, sia nella versione illuminista perché non sembra
che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli
uomini, se non in quella formula ridotta della "ragione
strumentale" che garantisce il progresso tecnico, ma non
un ampliamento dell'orizzonte di senso per la latitanza del
pensiero e l'aridità del sentimento.
Le pagine di questo libro non indicano un rimedio di
facile ed immediata attuazione. E già questa ammissione di
impotenza la dice lunga sulla natura del disagio che, lo ripeto,
non è esistenziale ma culturale. Ho ritenuto comunque
che andassero scritte se non altro per far piazza pulita
di tutti i rimedi escogitati senza aver intercettato la vera
natura del disagio dei nostri giovani che, nell'atmosfera
nichilista che li avvolge, non si interrogano più sul senso
della sofferenza propria o altrui, come l'umanità ha sempre
fatto, ma - e questa, come ci ricorda Günther Anders,
è un'enorme differenza - sul significato stesso della loro
esistenza, che non appare loro priva di senso perché
costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile
perché priva di senso. La negatività che il nichilismo
diffonde, infatti, non investe la sofferenza che, con
gradazioni diverse, accompagna ogni esistenza e intorno a
cui si affollano le pratiche d'aiuto, ma più radicalmente la
sottile percezione dell'insensatezza del proprio esistere.
E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata
di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana,
ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi
propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità,
o, per dirla in greco, del proprio daimon che, quando
trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco
eu-daimonia?
In questo caso il nichilismo, pur nella desertificazione di
senso che porta con sé, può segnalare che a giustificare l'esistenza
non è tanto il reperimento di un senso vagheggiato
più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive
capacità, quanto l'arte del vivere (téchne tou biou) come
dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie
capacità (gnothi seauton, conosci te stesso) e nell'esplicitarle e
vederle fiorire secondo misura (katà métron).
Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella
greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità
di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che,
adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a
quell'espansione della vita a cui per natura tende la giovinezza
e la sua potenza creativa.
Se proprio attraversando e oltrepassando il nichilismo
i giovani sapessero operare questo spostamento di prospettiva
capace di farli incuriosire di sé, l'"ospite inquietante"
non sarebbe passato invano.
1. Il nichilismo e la svalutazione di tutti i valori.
Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al
"perché?". Che cosa significa nichilismo? - che i
valori supremi pèrdono ogni valore.
F. NIETZSCHE, fr. 9 (35), in Frammenti postumi
1887-1888.
1. Il decentramento dell'universo.
Gli uomini non hanno mai abitato il mondo, ma sempre
e solo la descrizione che di volta in volta il mito, la
religione, la filosofia, la scienza hanno dato del mondo.
Una descrizione attraverso parole stabili, collocate ai
confini dell'universo per la sua delimitazione e all'interno
dell'universo per la sua articolazione. Tra "le cose di lassù"
e "le cose di quaggiù", come voleva la geografia di Platone,
la più dicente, la più descrittiva, era possibile riconoscere
quella gerarchia di stabilità che consentiva di
orientarsi tra il vero e il falso, il giusto e l'ingiusto, il pregevole
e lo spregevole. L'ordine delle idee tracciava un itinerario
ascensionale che dalla terra portava al cielo, e il
cammino aveva una direzione, un senso, un fine. Nella
realizzazione del fine c'era promessa di salvezza e verità.
Un giorno la filosofia greca incontrò l'annuncio giudaicocristiano che parlava di una terra promessa e di una patria
ultima. L'anima che Platone aveva ideato si trovò orientata
ad una meta e prese a vivere l'inquietudine dell'attesa e
del tempo che la separava dalla meta. Un tempo non più descritto
come ciclica ripetizione dell'evento cosmico, ma come
irradiazione di un senso che trasfigurò l'accadere degli
eventi in storia, dove alla fine si sarebbe compiuto ciò che
all'inizio era stato annunciato.
Ma anche questa cosmologia e questa temporalità non
tardarono a vacillare e con esse tutte quelle idee che ne
segnavano la scansione. Annunciando che era la terra a ruotare
intorno al sole, a sua volta lanciato in una corsa senza
meta, la scienza consegnò una nuova descrizione del mondo,
in cui si riconosceva il carattere relativo di ogni movimento
e di ogni posizione nello spazio, che a sua volta andava
sempre più a confondersi con il tempo, fino a togliere
al linguaggio della filosofia e della religione tutte le idee
normative che dicevano orientamento e stabilità.
La conseguenza fu il decentramento dell'universo. La
nuova descrizione implicava ancora le antiche parole, ma
queste, nell'indicare le cose, non designavano più la loro
essenza, ma solo la loro relazione. Senza più né "alto" né
"basso", né "dentro" né "fuori", né "lontano" né "vicino",
l'universo perse il suo ordine, la sua finalità e la sua gerarchia
per offrirsi all'uomo come pura macchina indagabile
con gli strumenti della ragione fatta calcolo. Questa
dischiuse lo scenario artificiale e potente della tecnica, in
cui l'uomo scoprì la sua essenza rimasta a lungo nascosta
e resa inconoscibile dalla descrizione mitica del mondo.
Da terra-madre la terra divenne materia indifferente, il
cielo cedette la mitologia delle stelle alla polvere cosmica,
e l'anima dell'uomo, congedatasi da ogni orizzonte di senso,
prese a vagare in compagnia di quello che Nietzsche
chiama "il più inquietante fra tutti gli ospiti: il nichilismo",
in cui riconosciamo la cadenza del nostro attuale
pensare e disorientato sentire.
2. Il disincanto del mondo.
Il nichilismo è un'antica figura, perché intorno all'essere
ed al nulla si è aperto il grande scenario della filosofia
che, a differenza della religione e della scienza, non si è
assestata sul positivo atteso o realizzato, ma in quel frammezzo
tra positivo e negativo, tra essere e nulla, in cui la
decisione si fa più drammatica e più vertiginosa la scelta
di campo. Una scelta, infatti, che non è tra questo o
quell'ente, tra Dio o il mondo, ma tra il senso della totalità
dell'essere e la sua implosione.
Da Gorgia - per il quale "nulla è; se anche fosse, non
sarebbe conoscibile; se anche fosse conoscibile, non sarebbe
comunicabile - a Heidegger - per il quale "che ne è
dell'essere? Dell'essere ne è nulla! E se proprio qui si rivelasse
l'essenza del nichilismo finora rimasta nascosta?" -, per
l'intero arco della storia della filosofia, l'ospite inquietante
ha fatto sentire la sua presenza, ma solo oggi, solo nel nostro
tempo, questa presenza è divenuta clima della terra,
spaesamento di tutti i paesaggi che gli uomini nella loro
storia hanno di volta in volta faticosamente costruito per
abitare la terra. Ma perché proprio oggi? Perché, scrive
Franco Volpi:
Oggi i riferimenti tradizionali - i miti, gli dèi, le trascendenze, i
valori - sono stati erosi dal disincanto del mondo. La razionalizzazione
scientifico-tecnica ha prodotto l'indecidibilità delle scelte ultime
sul piano della sola ragione. Il risultato è il politeismo dei valori e
l'isostenia delle decisioni, la stessa stupidità delle prescrizioni e la
stessa inutilità delle proibizioni. Nel mondo governato dalla scienza
e dalla tecnica l'efficacia degli imperativi morali sembra pari a
quella dei freni di bicicletta montati su un jumbo. Sotto la calotta
d'acciaio del nichilismo non v'è più virtù o morale possibile.
Il paradigma tecnico-scientifico, infatti, non si propone
alcun fine da realizzare, ma solo dei risultati da raggiungere
come esiti delle sue procedure. Questa abolizione dei fini
destituisce, fin dalle sue fondamenta, ogni possibile ricerca
di senso per quel tipo d'uomo, l'occidentale, cresciuto nella
"cultura del senso" secondo la quale la vita è vivibile solo se
inscritta in un orizzonte di senso.
A questo tipo di domanda la tecnica non risponde,
perché la categoria del senso non appartiene alle sue competenze.
Ma siccome oggi la tecnica è diventata la forma del mondo,
l'ultimo orizzonte al di là di tutti gli orizzonti, le domande
intorno al senso vagano affannose e senza risposta in una
terra ormai abbandonata dal suo cielo che ospita l'evento
umano come qualsiasi altro evento.
3. Il tramonto della cultura occidentale.
L'indifferenza della terra, questo grido dell'antica gnosi,
torna oggi nella forma del nichilismo a ribadire l'estraneità
dell'evento umano che la terra ospita a sua insaputa e a cui
invia solo un messaggio di insignificanza. Nietzsche, buon
testimone di questa atmosfera, scrive:
Vidi una grande tristezza invadere gli uomini. I migliori si stancarono
del loro lavoro. Una dottrina apparve, una fede le si affiancò:
tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! Abbiamo fatto il raccolto: ma
perché tutti i nostri frutti si corrompono? Che cosa è accaduto
quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro
è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno, il malocchio ha
disseccato i nostri campi e i nostri cuori. Aridi siamo divenuti noi tutti.
{...} Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato. Tutto il
suolo si fenderà, ma l'abisso non inghiottirà! Ah, dov'è mai ancora
un mare dove si possa annegare: così risuona il nostro lamento sulle
piatte paludi.
La tristezza che invade è la tristezza del tramonto,
quando il sole cede il posto a una luna che è malvagia perché
giunge a concludere un giorno in cui il lavoro è stato
vano, perché la terra si è disseccata, i frutti non hanno risposto
alle attese, le fonti si sono prosciugate e nessun
abisso si è dischiuso a inghiottire l'uomo, che dunque resta
testimone dell'aridità della terra, del niente che ne è
nato.
Il nichilismo conclude la "terra della sera" e custodisce
il senso del tramonto. Nietzsche, infatti, concepisce l'uomo
moderno e il suo tempo come una fine, la fine del
movimento morale e spirituale di più di duemila anni, la fine
della metafisica e del cristianesimo, la fine di ogni giudizio
di valore. E perciò alla domanda: "Che cosa significa
nichilismo?" risponde: "Che i valori supremi pèrdono ogni
valore".
A parere di Heidegger il nichilismo denunciato da
Nietzsche non è un evento casuale, un fatto storico che
poteva anche non accadere, ma è "il processo fondamentale
della storia dell'Occidente, e l'interna logica di questa
storia". Per questo l'annuncio nichilista di Nietzsche,
connesso all'annuncio della morte di Dio, non è determinato
da un'insana mania di profanazione. Nietzsche non è
Erostrato che, per una perversa smania di gloria, incenerì
il tempio di Diana a Efeso. Per Nietzsche l'epoca finisce
perché non crede più in ciò che l'aveva promossa e per secoli
animata. Infatti:
L'uomo moderno crede sperimentalmente ora a questo ora a quel
valore, per poi lasciarlo cadere. Il circolo dei valori superati e
lasciati cadere è sempre più vasto. Si avverte sempre più il vuoto e la
povertà di valore. Il movimento è inarrestabile, sebbene si sia tentato
in grande stile di rallentarlo. Alla fine l'uomo osa una critica dei
valori in generale; ne riconosce l'origine, conosce abbastanza per
non credere più in nessun valore; ecco il pathos, il nuovo brivido.
Quella che racconto è la storia dei prossimi due secoli.
4. La razionalità della tecnica e l'implosione del senso.
A dare il nome all'ospite inquietante è stato lo scrittore
russo Ivan Sergeevic Turgenev (1818-1883), a partire
dal quale il nichilismo si è fatto strada nel Romanticismo
e nell'Idealismo, ha contaminato il pensiero sociale e
politico francese e tedesco, ha animato l'anarchismo e il
populismo del pensiero russo, ha proclamato la morte di
Dio con Nietzsche, aprendo quella cultura della crisi
connotata da relativismo, scetticismo e disincanto.
Si è fatto evento estetico e letterario, per poi diventare
sigillo della storia dell'essere con Heidegger, Junger e
Severino. Ha permeato di sé l'esistenzialismo di Sartre, la
teologia politica di Cari Schmitt, fino ad annunciare la fine
della storia con Kojève e Gehlen per l'avvenuto incontro
fra l'ospite inquietante, il nichilismo, e quell'impassibile
convitato di pietra che è la tecnica, la quale, con la sua
fredda razionalità, relativizza e relega sullo sfondo tutte le
simboliche e le immagini che l'uomo si era fatto di sé per
orientarsi nel mondo e dominarlo.
La tecnica, infatti, è entrata in profondo conflitto con
il primato che l'uomo aveva assegnato a se stesso nella storia
dell'essere. E in verità, nell'assuefazione con cui utilizziamo
strumenti e servizi che riducono lo spazio, velocizzano
il tempo, leniscono il dolore, vanificano le norme su
cui sono state scalpellate tutte le morali, rischiamo di non
chiederci se il nostro modo di essere uomini non sia troppo
antico per abitare l'età della tecnica che non noi, ma
l'astrazione della nostra mente ha creato, obbligandoci,
con un'obbligazione più forte di quella sancita da tutte le
morali che nella storia sono state scritte, a entrarvi e a
prendervi parte.
In questo inserimento rapido e ineluttabile portiamo
ancora in noi i tratti dell'uomo pre-tecnologico che agiva
in vista di scopi inscritti in un orizzonte di senso, con un
bagaglio di idee proprie ed un corredo di sentimenti in cui
si riconosceva. L'età della tecnica ha abolito questo scenario
umanistico, e le domande di senso restano inevase non
perché la tecnica non è ancora abbastanza perfezionata,
ma perché non rientra fra le sue competenze trovar risposte
a simili domande.
La tecnica, infatti, non tende a uno scopo, non
promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime,
non svela la verità: la tecnica funziona. E siccome il
suo funzionamento diventa planetario, finiscono sullo
sfondo, incerti nei loro contorni corrosi dal nichilismo, i
concetti di individuo, identità, libertà, salvezza, verità,
senso, scopo, ma anche quelli di natura, etica, politica,
religione, storia di cui si era nutrita l'età pre-tecnologica, e
che ora, nell'età della tecnica, dovranno essere riconsiderati,
dismessi, o rifondati dalle radici.
Nata con i Greci per emancipare l'uomo dall'oscurantismo
delle credenze infondate, la ragione si era imposta
sulle favole dei miti, sull'approssimazione delle opinioni
diffuse, sull'infondatezza delle fedi, sul nichilismo degli
scettici. In séguito, perfezionandosi, si è contratta nella
razionalità tecnico-scientifica che non promuove altro
senso se non il proprio potenziamento afinalizzato. E così,
in un orizzonte desertificato dove ogni fine ha la consistenza
di un ingannevole miraggio, mancano la direzione,
il senso, lo scopo.
5. Le malattie dello spirito.
Come ci ricorda il filosofo rumeno Costantin Noica,
un giorno anche le stelle si sono ammalate. Dopo aver vegliato
su un mondo inferiore alle aspettative, alcune di loro
si sono ritirate diventando stelle oziose, altre invece si
sono immischiate troppo nelle vicende umane mettendo
definitivamente a rischio la loro natura celeste, altre infine
si sono date troppe determinazioni diventando più
rispondenti ai calcoli degli astronomi che agli dèi. Le stelle
si sono ammalate.
Anche il cielo è malato. Gli antichi credevano nell'incorruttibilità
delle sfere celesti, così come credevano nell'incorruttibilità
divina. Ma il cannocchiale di Galileo venne a
mostrare le imperfezioni della luna che i suoi contemporanei
non volevano vedere. Oggi si è giunti a identificare delle
malattie galattiche. Nel cosmo è nascosto un tarlo.
Anche la luce è malata. Goethe credeva ancora nella
sua perfezione, e perciò protestava con Newton che la
considerava una mescolanza di sette colori e quindi impura.
Poi la luce venne misurata nella sua velocità di trasmissione
e si scoprì che è fessurata internamente, essendo
insieme corpuscolo e onda. Troppe malattie in un semplice
raggio di luce.
Anche il tempo è malato. Il tempo assoluto, omogeneo,
uniforme si è rivelato meno maestoso dal momento che è
divenuto semplice tempo locale, tempo solidale con lo
spazio, che a sua volta si è ridotto a semplice coesistenza
delle cose, talvolta a realtà regionale con limiti ai confini.
Anche la vita è malata con le approssimazioni e le incertezze
segnalate dalla biologia contemporanea, per la
quale la vita è una semplice tumefazione della materia, un
caso trasformato in necessità.
Malato è anche il logos frantumato in lingue regionali
quando dovrebbe portare con sé, come dice il suo nome, l'unità
della ragione. Ma se tutte le grandi entità sono malate e
se la cultura viene a mostrare le loro malattie come costituzionali,
con che occhi possiamo guardare ancora il cielo?
Fu così che la lettura del cielo, la sua regola, la sua norma,
la sua misura sprofondò nell'inconscio degli uomini e
si mescolò nelle trame confuse dell'irrazionale, per riemergere
come assillo quotidiano circa il senso del tempo e la
sorte futura. Ma oggi non siamo più all'altezza dell'antico
paesaggio, non ne individuiamo più i contorni, i pieni, i
vuoti, i volumi di senso, perché non conosciamo più il cielo
che le parole degli antichi descrivevano come una volta che
abbraccia il mondo, e tantomeno l'anima universale nel suo
dibattersi tra il cielo e la terra. Oggi conosciamo solo anime
individuali, rese asfittiche dall'incapacità di correlare la loro
sofferenza quotidiana con il dolore del mondo.
Un volume di senso, quello che gli antichi riferivano alla
volta celeste, è stato spazzato via dalle scienze psicologiche
che, delimitando il campo alla semplice descrizione
dei processi psichici individuali o alla problematica
normalizzazione dei comportamenti, hanno eluso la domanda
di fondo che percorreva l'anima del mondo nel suo
dibattersi tra spirito e materia, dove restava indecidibile se
l'uomo fosse l'autore di una storia con tutto il ventaglio
delle sue creazioni o semplicemente l'esecutore di un
destino già scritto nello spessore della materia.
Per questo scrutiamo le stelle, ma ormai con quell'occhio
obliquo che vuol piegare il loro corso alla buona riuscita
dei nostri progetti. Perdita della misura e dell'innocenza
dello sguardo, che si muove in uno spazio che non è
garantito neppure dall'aristotelico "cielo delle stelle fisse",
perché anche questo cielo è tramontato per noi.
2. L'epoca delle passioni tristi.
Cosa succede quando la crisi non è più l'eccezione
alla regola, ma essa stessa regola nella nostra
società?
M. BENASAYAG, G. SCHMIT, L'epoca delle passioni
tristi (2003), p. 13.
1. Il futuro come promessa.
Quali sono le ricadute del nichilismo soprattutto sulla
condizione giovanile? A rispondere sono un filosofo e
psicoanalista argentino, Miguel Benasayag, che vive da molti
anni a Parigi, e un professore di psichiatria infantile e
dell'adolescenza, Gérard Schmit, che insegna all'Università
di Reims.
I due studiosi hanno posto sotto osservazione i servizi
di consulenza psicologica e psichiatrica diffusi in Francia
e si sono accorti che a frequentarli, per la gran parte, sono
persone le cui sofferenze non hanno una vera e propria
origine psicologica, ma riflettono la tristezza diffusa che
caratterizza la nostra società contemporanea, percorsa da
un sentimento permanente di insicurezza e di precarietà.
Quali "tecnici della sofferenza" si sono sentiti impreparati
ad affrontare problemi che non fossero di natura
psicopatologica. E invece di adagiarsi tranquillamente sui
farmaci a loro disposizione per curare il disordine molecolare
e così stabilizzare la crisi, si sono messi a studiare ed
a pensare il senso che si nasconde nel cuore del sintomo,
quando la crisi non è tanto del singolo quanto il riflesso
nel singolo della crisi della società, che, senza preavviso, fa
il suo ingresso nei centri di consulenza psicologica e
psichiatrica, lasciando gli operatori disarmati.
In che cosa consiste questa crisi? In un cambiamento
di segno del futuro: dal futuro-promessa al futuro-minaccia.
E siccome la psiche è sana quando è aperta al futuro
(a differenza della psiche depressa tutta raccolta nel passato,
e della psiche maniacale tutta concentrata sul presente),
quando il futuro chiude le sue porte o, se le apre, è
solo per offrirsi come incertezza, precarietà, insicurezza,
inquietudine, allora, come dice Heidegger, "il terribile è
già accaduto", perché le iniziative si spengono, le speranze
appaiono vuote, la demotivazione cresce, l'energia vitale
implode.
Per i due studiosi tutto ciò è cominciato con la "morte
di Dio" annunciata da Nietzsche che ha segnato la fine
dell'ottimismo teologico che visualizzava il passato come
male, il presente come redenzione, il futuro come salvezza.
La morte di Dio non ha lasciato solo orfani, ma anche
eredi. La scienza, l'utopia e la rivoluzione hanno proseguito,
in forma laicizzata, questa visione ottimistica della storia,
dove la triade colpa, redenzione, salvezza trovava la
sua riformulazione in quell'omologa prospettiva dove il
passato appare come male, la scienza o la rivoluzione come
redenzione, il progresso (scientifico o sociologico) come
salvezza.
Il positivismo di fine Ottocento, infatti, era animato da
una sorta di messianesimo scientifico, che assicurava un
domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza.
Sul versante sociologico Marx evidenziava le contraddizioni
del capitalismo in vista di una radicale trasformazione
del mondo, mentre sul versante psicologico Freud ipotizzava
un prosciugamento delle forze inconsce non controllate
dall'Io, perché "dov'era l'Es deve subentrare l'Io.
Questa è l'opera della civiltà".
L'Occidente - una volta abbandonato il pessimismo degli
antichi Greci che, come ci ricorda Nietzsche, "sono stati
gli unici ad avere la forza di guardare in faccia il dolore" si è consegnato senza riserve all'ottimismo della tradizione
giudaico-cristiana che, sia nella versione religiosa sia
nelle forme laicizzate della scienza, dell'utopia e della
rivoluzione, ha guardato l'avvenire sorretta dalla convinzione
che la storia dell'umanità è inevitabilmente una storia
di progresso e quindi di salvezza.
2. Il futuro come minaccia.
Oggi questa visione ottimistica è crollata. Dio è davvero
morto e i suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) hanno
mancato la promessa. Inquinamenti di ogni tipo,
disuguaglianze sociali, disastri economici, comparsa di nuove
malattie, esplosioni di violenza, forme di intolleranza,
radicamento di egoismi, pratica abituale della guerra hanno
fatto precipitare il futuro dall'estrema positività della tradizione
giudaico-cristiana all'estrema negatività di un
tempo affidato a una casualità senza direzione ed
orientamento.
E questo perché, se è vero che la tecno-scienza progredisce
nella conoscenza del reale, contemporaneamente ci
getta in una forma di ignoranza molto diversa, ma forse
più temibile, che è poi quella che ci rende incapaci di far
fronte alla nostra infelicità e ai problemi che ci inquietano
e che paurosamente ruotano intorno all'assenza di senso.
Per dirla con Spinoza, viviamo in un'epoca dominata
da quelle che il filosofo chiama le "passioni tristi", dove il
riferimento non è al dolore o al pianto, ma all'impotenza,
alla disgregazione ed alla mancanza di senso, che fanno della
crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l'Occidente
ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei
fondamenti stessi della nostra civiltà.
Certo, nessuno va in un consultorio psicologico
esordendo: "Buongiorno dottore, soffro molto a causa della
crisi storica che stiamo attraversando". In compenso i
consultori sono quotidianamente sollecitati da genitori e
insegnanti che non sanno più come far fronte all'indolenza
dei loro figli o dei loro alunni, ai processi di demotivazione
che li isolano nelle loro stanze a stordirsi le orecchie
di musica, all'escalation della violenza, all'obnubilamento
degli spinelli che intercalano ore di ignavia. Come ricondurre
tutti questi sintomi alla "crisi storica"?
La mancanza di un futuro come promessa arresta il
desiderio nell'assoluto presente. Meglio star bene e gratificarsi
oggi se il domani è senza prospettiva. Ciò significa
che nell'adolescente non si verifica più quel passaggio
naturale dalla libido narcisistica (che investe sull'amore di
sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo).
Senza questo passaggio, si corre il rischio di indurre
gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche,
impostando un'educazione finalizzata alla sopravvivenza,
dove è implicito che "ci si salva da soli", con conseguente
affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali.
La mancanza di un futuro come promessa priva genitori
e insegnanti dell'autorità di indicare la strada. Tra
adolescenti e adulti si instaura allora un rapporto contrattualistico,
per effetto del quale genitori e insegnanti si sentono
continuamente tenuti a giustificare le loro scelte nei
confronti del giovane, che accetta o meno ciò che gli viene
proposto in un rapporto egualitario. Ma la relazione tra
giovani e adulti non è simmetrica, e trattare l'adolescente
come un proprio pari significa non contenerlo, e soprattutto
lasciarlo solo di fronte alle proprie pulsioni e all'ansia
che ne deriva.
Quando i sintomi del disagio si fanno evidenti, l'atteggiamento
dei genitori e degli insegnanti oscilla tra la coercizione
dura - che può avere senso quando le promesse del
futuro sono garantite - e la seduzione di tipo commerciale
di cui la cultura consumistica che si va diffondendo è un
invito.
Sennonché anche i giovani di oggi devono fare il loro
Edipo, devono cioè esplorare la loro potenza, sperimentare
i limiti della società, affrontare tutte le situazioni tipiche
dei riti di passaggio dell'adolescenza, tra cui uccidere
simbolicamente l'autorità, il padre. E siccome questo processo
non può avvenire in famiglia dove, per effetto dei rapporti
contrattuali tra padri e figli, l'autorità non esiste più, i giovani
finiscono con il fare il loro Edipo con la polizia,
scatenando nel quartiere, allo stadio, nella città, nella società la
violenza contenuta in famiglia.
Sono, questi, solo degli esempi fra i molti che si potrebbero
segnalare per mostrare il nesso tra il passaggio storico
del futuro come promessa al futuro come minaccia e le
manifestazioni psicopatologiche del disagio dei giovani
che non riescono più a percepire l'integrazione sociale,
l'acquisizione dell'apprendimento, l'investimento nei progetti
come qualcosa di connesso a un loro desiderio profondo,
che è poi il desiderio di desiderare la vita.
A ciò si aggiunga che le passioni tristi e il fatalismo
non mancano di un certo fascino, ed è facile farsi sedurre
dal canto delle sirene della disperazione, assaporare l'attesa
del peggio, lasciarsi avvolgere dalla notte apocalittica
che, dalla minaccia nucleare a quella terroristica, cade come
un cielo buio su tutti noi. Ma è anche vero che le passioni
tristi sono una costruzione, un modo di interpretare
la realtà, non la realtà stessa, che ha ancora in serbo delle
risorse se solo non ci facciamo irretire da quel significante
oggi dominante che è l'insicurezza.
Quel che è certo è che la nostra epoca smaschera l'illusione
della modernità che ha fatto credere all'uomo di poter
cambiare tutto secondo il suo volere. Non è così. Ma
l'insicurezza che ne deriva non deve portare la nostra
società ad aderire massicciamente a un discorso di tipo
paranoico, in cui non si parla d'altro se non della necessità di
proteggersi e sopravvivere, perché allora si arriva al punto
che la società si sente libera dai princìpi e dai divieti e, per
effetto di questa libertà, la barbarie è alle porte.
Se l'estirpazione radicale dell'insicurezza appartiene
ancora all'utopia modernista dell'onnipotenza umana, la
strada da seguire è un'altra: quella della costruzione di legami
affettivi e di solidarietà capaci di spingere le persone
fuori dall'isolamento nel quale la società tende a rinchiuderle,
in nome degli ideali individualistici che, a partire
dall'America, si vanno paurosamente diffondendo anche
da noi.
3. Il disinteresse della scuola.
La scuola non deve mai dimenticare di avere a che
fare con individui ancora immaturi, ai quali non è
lecito negare il diritto di indugiare in determinate fasi,
seppur sgradevoli, dello sviluppo. Essa non si deve
assumere la prerogativa di inesorabilità propria
della vita; non deve essere più che un gioco di vita.
S. Fulvo, Contributi a una discussione sul suicidio
(1910), pp. 301-302.
1. La costruzione dell'autostima.
La scuola ha a che fare con quella fase precaria dell'esistenza
che è l'adolescenza, dove l'identità appena abbozzata
non si gioca come nell'adulto tra ciò che si è e la paura
di perdere ciò che si è, ma nel divario ben più drammatico
tra il non sapere chi si è e la paura di non riuscire a essere
ciò che si sogna.
Nell'intervallo dischiuso da questo duplice non sapere
si muove incerta l'identità dell'adolescente, che la nostra
società obbliga ad una maturazione accelerata, senza sapere
indicare, come accadeva alle generazioni precedenti,
quella continuità tra preparazione attraverso gli studi e
ingresso nel mondo del lavoro che costituiva la prima saldatura
di un'identità la quale, pur nella sua incertezza, si
ancorava ad una certezza futura.
La garanzia della realizzabilità del progetto prefigurava,
nell'identità futura, quel concetto di sé indispensabile per
non brancolare nell'oscillazione dell'indeterminato. Ma per
la formazione di un adeguato concetto di sé occorre quella
considerazione positiva che siamo soliti chiamare autostima,
e quell'accoglimento del negativo che è l'autoaccettazione,
indispensabile per far fronte agli eventi avversi della vita.
Autostima e autoaccettazione sono tenute dalla scuola
in minimo conto. L'autostima dello studente è scambiata
spesso per presunzione, e l'autoaccettazione come un esplicito
riconoscimento da parte dello studente di non valere
un granché. Se poi è lo stesso studente a esser convinto di
valere poco, il professore si sente assolutamente assolto
nel suo ribadire, con voti e giudizi negativi, quel nulla che
lo studente avverte già per suo conto dentro di sé. E così,
"per non fare ingiustizie", "per non usare due pesi e due
misure", per simili considerazioni che fioriscono sulle labbra
apparentemente innocue di tanti professori, si allarga
e si approfondisce quella dimensione del vuoto che talvolta
porta a gesti irreversibili.
A evento compiuto, di solito i professori manifestano
meraviglia. Non si meravigliano della loro disattenzione,
ma dell'imprevedibilità di un simile gesto in un ragazzo
che sembrava così "allegro" e "vivace". Perché, nonostante
il gran frequentare letture umanistiche in cui sono descritte
tutte le pieghe dell'anima, molti professori ancora non
sanno distinguere, nel riso di un giovane, lo spunto della
gioia o la smorfia della tragedia imminente.
Ma chi tra gli insegnanti accerta, oltre alle competenze
culturali dei propri allievi, il grado di autostima che ciascuno
di loro nutre per se stesso? Chi tra gli insegnanti è consapevole
che gran parte dell'apprendimento dipende non
tanto dalla buona volontà, quanto dall'autostima che innesca
la buona volontà? Chi, con opportuni riconoscimenti,
rafforza questa autostima, primo motore della formazione
culturale, ed evita di distruggerla con epiteti e derisioni che,
rivolti a persone adulte, porterebbero di corsa in tribunale?
Chi si astiene dal mettere a confronto il comportamento
di un allievo con quello di un altro, irrobustendo chi è già
solido e distruggendo chi è già incerto e mal sicuro? Chi
ascolta uno studente con interesse riconoscendogli un minimo
di personalità, su cui egli possa continuare a edificare
invece che a demolire? Pochi, pochissimi insegnanti nella
scuola italiana, a cui si accede per competenze contenutistiche
e non per formazione personale, in base al principio
che l'educazione è una conseguenza diretta dell'istruzione.
2. L'identità e il riconoscimento.
Howard Gardner ci mette in guardia da questa falsa
persuasione, perché è impossibile istruire se prima non si
è provveduto alla costruzione di un'identità, non ci si è
inseriti nei meandri del desiderio, non si sono fatti i conti
con i problemi connessi alla frustrazione ed alla rimozione,
che sono le dinamiche abituali in ciascuno di noi e particolarmente
accentuate nell'adolescente.
L'identità, infatti, non si costruisce per il semplice fatto
che ci siamo e che ogni volta che parliamo diciamo "io",
L'identità si costruisce a partire dal riconoscimento dell'altro.
Se il riconoscimento manca, come manca sempre a
chi va male a scuola, l'identità, che è un bisogno assoluto
per ciascuno di noi, si costruisce altrove, in tutti quei luoghi,
scuola esclusa, dove è possibile ottenere riconoscimenti.
Se poi fuori dalla scuola e dalla famiglia resta solo
la strada, sarà la strada a fornire quei riconoscimenti ai
livelli in cui la strada li può concedere. Sesso e droga
cominciano ad apparire come forme esasperate di riconoscimento,
perché forme più adeguate non sono state offerte.
L'adolescenza, come ognuno sa, è promossa dal desiderio
che, proprio in quel periodo della vita, ha la sua massima
espressione. Adolescenze non desideranti annunciano
esistenze mancate, ma il desiderio è spesso in conflitto
con la realtà che non è costruita apposta per soddisfare
desideri. Qui sono possibili due atteggiamenti. O la rimozione
della realtà con conseguente rifugio in un mondo
sognato ad essa alternativo, o la frustrazione che, reiterata,
annulla l'identità.
Il processo di rimozione, molto frequente e pericoloso,
è noto ai professori come "distrazione": "Suo figlio è sempre
distratto". Quasi bastasse un richiamo per fargli accettare
la realtà che si oppone alla forza del desiderio, e fargli
dimenticare il sogno senza il quale il desiderio esploderebbe
in modo incontrollato nella realtà, come ben descrive
Aristotele nella sua Poetica. Va da sé che se la distrazione
è una cosa seria, se il sogno diurno rivela l'incapacità di
affrontare il reale, i sogni promossi dalla droga e dal sesso
non fanno fatica ad essere accolti da chi, per riconoscimenti
mancati, non è stato accettato e inserito nella realtà in
cui si trova a vivere, al punto di doverne inventare una sognante
per poter continuare in qualche modo a esistere.
In questo scontro fra realtà e desiderio in cui si dibatte
l'adolescenza può scattare la frustrazione, che è utilissima
per crescere, ma che, come tutte le medicine efficaci, va
dosata. Un eccesso di frustrazione - come nel caso di voti
troppo bassi distribuiti in nome dell'oggettività delle prove,
senza il minimo sospetto che dietro le prove c'è qualcuno
che ci prova e che si mette alla prova - sposta altrove
la ricerca di riconoscimento senza il quale non si costruisce
alcuna identità e quindi non si può vivere. Questo
spostamento, questa di-versione è nota agli adolescenti come
"divertimento". "Suo figlio pensa solo a divertirsi", dice il
professore che neppure sospetta che nel divertimento non
c'è la gioia, ma solo la di-versione.
I giovani cercano i divertimenti perché non sanno gioire.
Ma la gioia è innanzitutto gioia di sé, quindi identità riconosciuta,
realtà accettata, frustrazione superata, rimozione ridotta
al minimo. Che fa la scuola per tutto questo? La scuola
svolge programmi ministeriali, perché ritiene che il suo
compito non sia propriamente quello di educare, ma unicamente
quello di istruire, essendo l'educazione, nella falsa
coscienza dei professori, un derivato necessario dell'istruzione.
Ma le cose non stanno propriamente così. È se mai l'istruzione
un evento possibile a educazione avvenuta. E l'educazione
non è fatta solo di buone maniere, ma è una lenta
acquisizione, attraverso riconoscimenti, della gioia di sé.
Anche i topi da laboratorio alla fine non si muovono
se, dopo aver percorso in tutti i modi il labirinto, non trovano
il formaggio. Gli adolescenti, perché non sono topi,
si muovono ancora, ma non nel chiuso della gabbia scolastica,
bensì fuori, nella strada, dove non sempre, ma talvolta
c'è aria malsana. A scuola restano i problemi, ma le
vittime di questi problemi sono già lontane, fuori dalla
scuola, con buona pace di chi pensa, e sono i più, che per
educare basta istruire.
3. L'oggettivazione della soggettività.
Alla base della demotivazione scolastica esiste quella
tendenza all'oggettivazione che porta i medici a considerare
i pazienti solo come organismi, che porta nel mondo
del lavoro a considerare gli uomini in base al solo criterio
dell'efficienza, risolvendo la loro identità nell'efficacia della
loro prestazione, che porta i professori a giudicare i loro
studenti in base al profitto, termine che il mondo della
scuola ha mutuato dal mondo economico, risolvendo l'educazione
in un puro fatto quantitativo dove a sommarsi
sono nozioni e voti.
Siccome la quantità è misurabile con il calcolo, dalla
scuola vengono espulse tutte quelle dimensioni che sfuggono
alla calcolabilità, quindi: creatività, emozioni, identificazioni,
proiezioni, desideri, piaceri, dolori che costellano
la crescita giovanile e di cui la scuola non tiene il minimo
conto. Ciò spiega perché a scuola vanno bene e prendono
bei voti quei ragazzi che hanno un basso livello di creatività,
scarsi impianti emozionali, limitate proiezioni fantastiche.
Libera da questi inconvenienti, la mente può disporsi
più agevolmente a immagazzinare tutte quelle nozioni
che si ordinano con rigore e precisione; più sono
disanimate, meno coinvolgono l'anima, all'insegna di quel
risparmio emotivo che rende l'incasellamento delle informazioni
molto più agevole.
Espulsa dalla scuola l'educazione emotiva, l'emozione
vaga senza contenuti a cui applicarsi, ciondolando pericolosamente
tra istinti di rivolta, che sempre accompagnano
ciò che non può esprimersi, e tentazioni d'abbandono in
quelle derive di cui il mondo della discoteca, dell'alcol e
della droga sono solo esempi neppure troppo estremi.
Se c'è da dar ragione ad Aristotele che distingue tra
"cause prime e cause seconde", verrebbe da chiedersi se
prima di quelle cause seconde che si chiamano sesso,
alcol e droga non ci sia come causa prima del disagio
giovanile quel vuoto emotivo ed esistenziale che la scuola
crea intorno agli studenti, ai quali offre una cultura così
disanimata, per cui alla fine è indifferente al giovane non
coinvolto studiare i logaritmi o i Sepolcri del Foscolo.
Eppure, diceva Paolo di Tarso: "Non si entra nella verità
senza l'amore (Non intratur in veritate nisi per charitatem)".
Nelle nostre scuole l'amore si risolve nella miseria delle
simpatie e delle antipatie. L'identità degli studenti bravi si
costruisce sulle disfatte di quelli meno bravi, o, come si dice
nel gergo scolastico, "insufficienti". Le valutazioni avvengono
sulla base di impressioni soggettive, dove le proiezioni
sfuse di studenti e professori si mescolano e alla fine approdano
a un giudizio in cui è difficile riconoscersi.
4. Il mito della buona volontà.
Non parliamo poi di quel lessico impreciso al limite
dell'insignificanza che alimenta i colloqui fra genitori e professori,
costruito con espressioni: "Dovrebbe metterci più buona
volontà", "Dovrebbe impegnarsi di più", "È sempre
disattento", "Lega poco in classe", in cui c'è un precipitato di
genericità e forse di ignoranza propria di chi non sa che la
volontà non esiste al di fuori dell'interesse, che l'interesse
non esiste separato da un legame emotivo, che il legame
emotivo non si costruisce quando il rapporto tra professore
e studente è un rapporto di reciproca diffidenza, se non di
assoluta incomprensione che scatta non appena la psicologia
dello studente esce dagli schemi della psicologia del professore.
Per questo basta pochissimo e, se si evita il suicidio
che, come scrive Luigi Cancrini "non dipende tanto dalle
difficoltà che si incontrano, quanto dalla paura di essere
rifiutati o abbandonati", certo non si evita quella demotivazione
insidiosa che spegne in giovani vite il rispetto di sé.
Ha lasciato scritto in proposito una studentessa liceale:
Sia genitori sia insegnanti mi esortavano a studiare. E io studiavo,
provando una noia mortale, con l'attenzione corrotta dal dubbio
che stessi lavorando inutilmente, perché era indipendente dalla volontà
l'esito del mio lavoro. Mi era negata ogni possibilità di sentirmi
capace di gestire gli eventi scolastici che mi riguardavano. Le
pagine erano disanimate, straniere, mi avvicinavo a loro con l'urgenza
di altri pensieri insieme al senso di colpa per il fatto di averne.
Piano piano sentivo che cresceva in me la convinzione che la
cosa non mi riguardasse, e alla fine, quando i miei genitori erano
arrivati a preoccuparsi gravemente, a me non interessava più nulla
di quel che veniva detto a scuola.
Erano discorsi di cui vedevo immediatamente l'inutilità, la
contraddizione. Mi sembravano linguaggi parlati da estranei e non certo
rivolti a me. E a nessun insegnante sembrava importasse qualcosa
di queste mie sensazioni, anzi, andava bene perché non
disturbavo più, non facevo più domande e non mi arrabbiavo. Non
parlavo neppure con i compagni, perché loro erano bravi e mi
guardavano come se fossero dei professori. Non c'erano più amici
con cui parlare dei pensieri che mi venivano al posto della voglia di
studiare, ma solo giudici, tante persone che avevano capito tutto e
sapevano proprio tutto. Ma tutto cosa?
Quando ci riflettevo, spesso piangendo, mi chiedevo che segreti
avessero scoperto dai libri o dai discorsi degli insegnanti. Poi, col
tempo, me ne importava sempre meno, e questo tipo di domande
ora non me le pongo più. Quello che sanno delle cose della vita non
gli serve a niente, e non li fa neppure essere felici: qualsiasi cosa sia,
ciò che hanno capito non gli ha cambiato il modo di stare al mondo.
È questo uno dei percorsi adolescenziali che, non
intercettati dallo sguardo opaco di genitori e insegnanti, si
possono leggere in Domenico Starnone che, con la partecipazione
viva di chi sa che nella scuola si seminano le
successive disavventure della vita, parla da professore
ricordando la sua afasia da studente:
Tutta la mia vita di studente è stata, se ridotta all'osso, uno star
buono, schivare all'occorrenza, arrendersi subito in caso di necessità.
Parlare, naturalmente parlavo solo se interrogato.
L'interrogazione misura il "profitto", ma siccome il
profitto è l'ultimo risultato di quella catena che, percorsa a
ritroso, indica comprensione, interesse, sollecitazione emotiva,
non è difficile demotivare, anche in modo grave,
studenti giudicati in base all'esito che può scaturire solo da
premesse che la scuola ha evitato di curare.
5. L'educazione del cuore.
Se non si dà apprendimento senza gratificazione emotiva,
l'incuria dell'emotività, o la sua cura a livelli così sbrigativi
da essere controproducenti, è il massimo rischio che oggi
uno studente, andando a scuola, corre. E non è un rischio
da poco perché, se è vero che la scuola è l'esperienza più alta
in cui si offrono i modelli di secoli di cultura, se questi
modelli restano contenuti della mente senza diventare
spunti formativi del cuore, il cuore comincerà a vagare senza
orizzonte in quel nulla inquieto e depresso che neppure
il baccano della musica giovanile riesce a mascherare.
Quando parlo di "cuore" parlo di ciò che nell'età evolutiva
dischiude alla vita, con quella forza disordinata e propulsiva
senza la quale difficilmente gli adolescenti troverebbero
il coraggio di proseguire l'impresa. Il sapere trasmesso
a scuola non deve comprimere questa forza, ma
porsi al suo servizio per consentirle un'espressione più
articolata in termini di scenari, progetti, investimenti,
interessi. Infine resta la vita, e il sapere lo strumento per meglio
esprimerla.
Laddove invece il sapere diventa lo scopo e il profitto il
metro per misurarlo qualunque siano le condizioni d'esistenza
in cui una vita è riuscita ad esprimersi, la scuola fallisce,
perché livella, quando non mortifica, soggettività nascenti
in nome di un presunto sapere oggettivo che serve a
dare identità più ai professori che agli studenti in affannosa
ricerca.
"Causa prima" di devianza, rispetto a tutte le "cause
seconde" che la sociologia vede alla base del disagio giovanile,
la scuola si offre con quel volto irresponsabile di chi si
tiene fuori dai problemi connessi ai processi di crescita e,
limitando consapevolmente il suo spazio operativo, manifesta
quella falsa innocenza che l'oggettività del trattamento
(profitto-giudizio) è sempre disposta a concedere a
chi non si prende cura della soggettività dei giovani, perché
mettervi le mani non garantisce di poterle tirar fuori
davvero pulite e disinfettate.
6. La formazione dei professori.
Questi sono i problemi della scuola, problemi che si
possono risolvere solo con la formazione, e non solo la preparazione,
di professori che abbiano come tensione della
loro vita la cura dei giovani. E come non si può fare i
corazzieri se si è alti un metro e cinquanta, cominciamo a
chiederci perché si può insegnare per il solo fatto di
possedere una laurea, senza alcuna richiesta in ordine alla
competenza psicologica, alla capacità di comunicazione,
al carisma. Sì, proprio il carisma.
Tutti abbiamo conosciuto almeno un professore che è
stato decisivo nelle nostre scelte di vita. Perché questa
possibilità è sempre più ridotta per i giovani di oggi, quando
la psicologia ci insegna che i processi di identificazione
con gli adulti, le cariche emozionali che su di loro vengono
convogliate sono le prime condizioni per la costruzione
di un concetto di sé così necessario per non brancolare
nell'oscillazione dell'indeterminatezza?
La mancanza di formazione personale, infatti, se non
porta gli adolescenti al suicidio, li porta spesso là dove si
spaccia musica, alcol e droga, in quella deriva dell'esistere
che è poi quell'assistere allo scorrere della vita in terza
persona senza esserne granché coinvolti, in ritmi sempre
più estremi ed estranei. Per cui, in certo modo, ci si sente
stranieri nella propria vita, in quell'insipido trascorrere di
giorni, dove equivalente diventa esserci o non esserci, senza
che alcun gradiente faccia apparire la vita preferibile al
suo nulla, in quell'atmosfera opaca e spessa che si frappone
tra sé e le proprie cose, che se ne vanno lontane da una
vita che avverte se stessa sempre più anonima e altra.
A queste forme di disagio si è soliti rispondere con
quell'elenco di riforme dove ciò che si prospetta sono autonomie
gestionali, rivalutazione della figura del preside, incentivi
materiali, nuovi programmi ministeriali messi a punto
in funzione di nuovi profili professionali, accorpamento di
indirizzi di studio, commissioni di esperti, informatizzazione
di questo e di quello, magnifici libri di testo, corsi integrativi,
corsi d'aggiornamento. L'unico fattore trascurato è
il frequente disinteresse emotivo e intellettuale dell'insegnante,
con trasmissione diretta allo studente, che tra i banchi
di scuola finisce per trovare solo quanto di più lontano e
astratto c'è in ordine alla sua vita, in quella calda stagione
dove il sapere non riesce, per difetto di trasmissione, a divenire
nutrimento della passione e suo percorso futuro.
7. Il bullismo degli studenti.
E così per tutta l'adolescenza e la prima giovinezza,
quando massima è la forza biologica, emotiva e intellettuale,
i nostri ragazzi vivono parcheggiati in quella terra
di nessuno dove la famiglia non svolge più alcuna funzione,
la scuola non desta alcun interesse, la società alcun
richiamo, dove il tempo è vuoto, l'identità non trova alcun
riscontro, il senso di sé si smarrisce, l'autostima deperisce.
Hanno smesso di dire "noi" come lo si diceva nel Sessantotto,
l'hanno detto sempre meno dopo il crollo delle
ideologie, si sono rifugiati in quello pseudonimo di se stessi
che ripete ossessivamente "io" dalle pareti strette come
quelle di un ascensore. E di quella dimensione sociale che
non ha più trovato dove esprimersi: né in chiesa, né a scuola,
né nelle sezioni di partito, né sul posto di lavoro, è rimasto
solo quel tratto primitivo o quel cascame che è la banda.
Solo con gli amici della banda oggi molti dei nostri ragazzi
hanno l'impressione di poter dire davvero "noi", e di
riconfermarlo in quelle pratiche di bullismo che sempre
più caratterizzano i loro comportamenti a scuola. Lo sfondo
è quello della violenza sui più deboli e la pratica della
sessualità precoce ed esibita sui telefonini e su internet
dove, compiaciuti, fanno circolare le immagini delle loro
imprese.
8. Che fare?
Che fare non lo so, che dire ci provo. Penso che la
generazione dei nostri figli abbia, rispetto a quella dei loro
genitori, un'emotività molto più incontrollata e uno spazio
di riflessione molto più modesto. Il loro fondo emotivo
è stato sollecitato fin dalla più tenera età da un volume di
sensazioni e impressioni eccessivo rispetto alla loro capacità
di contenimento. Sin dai primi anni di vita hanno fatto
troppa esperienza (televisiva e non) rispetto alla loro
capacità di elaborarla.
Di loro abbiamo detto: "Come sono intelligenti, noi alla
loro età eravamo più stupidi". E non l'abbiamo detto solo
a noi, l'abbiamo detto anche a loro. E loro ci hanno creduto,
avviandosi, con la nostra benedizione ed il nostro
compiacimento, su quella strada ingannevole dove si confonde
l'intelligenza con l'impressionabilità, a cui segue una risposta
immediata.
In questo gioco di inganni abbiamo confuso la loro
risposta immediata con la prontezza dei riflessi e la velocità
di ideazione, mentre era semplicemente un cortocircuito.
Ora questi nostri figli si trovano ad avere un'emotività carica
e sovraeccitata che li sposta dove vuole, a loro stessa
insaputa, senza che un briciolo di riflessione, a cui non sono
stati educati, sia in grado di raffreddare l'emozione e
non confondere il desiderio con la pratica anche violenta
per soddisfarlo.
L'eccesso emozionale e la mancanza del raffreddamento
riflessivo portano sostanzialmente a quattro possibili esiti:
1) lo stordimento dell'apparato emotivo attraverso quelle
pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi
della droga; 2) il disinteresse per tutto, messo in atto per
assopire le emozioni attraverso i percorsi dell'ignavia e della
non partecipazione che portano all'atteggiamento opaco
dell'indifferenza; 3) il gesto violento, quando non omicida,
per scaricare le emozioni e per ottenere un'overdose che
superi il livello di assuefazione come nella droga; 4) la
genialità creativa, se il carico emotivo è corredato da buone
autodiscipline.
Autodiscipline, non divieti immotivati e punizioni
casuali. E perché le autodiscipline si formino occorre aver
passato tanto tempo con i figli, perché la teoria secondo la
quale è decisiva la qualità del tempo che si passa con i figli
e non la quantità è una patetica storia che genitori, in
tutt'altro affaccendati, si sono raccontati a loro giustificazione,
lasciando ai figli una gran quantità di tempo da
passare in solitudine, con un carico emozionale eccessivo
e nessuno strumento di contenimento.
Ma ormai questo mio parere, se ha una sua plausibilità,
può tornar utile a chi mette al mondo dei figli oggi.
Per chi li ha già in quell'età che possiamo definire dell'adolescenza
infinita, resta solo da dire a genitori e professori:
non interrompete mai la comunicazione, buona o cattiva
che sia, qualunque cosa i vostri figli o i vostri studenti
facciano. A interromperla ci pensano già loro e, come di
frequente ci dicono le cronache quotidiane, anche in
maniera distruttiva.
4. L'analfabetismo emotivo.
L'essenziale è invisibile agli occhi. Lo si vede bene
solo col cuore.
A. DE SAINT-ExUP RE, Il piccolo principe (1941), p. 79.
1. L'alfabeto emotivo.
Conosciamo la collera quando il sangue affluisce alle
mani rendendo più facile impugnare un'arma o sferrare un
pugno, mentre la frequenza cardiaca aumenta e una scarica
di ormoni, tra i quali l'adrenalina, genera un'energia
abbastanza forte da permettere un'azione vigorosa.
Conosciamo la paura quando il sangue fluisce verso i
grandi muscoli scheletrici, come ad esempio quelli delle
gambe, rendendo così più facile la fuga, mentre il volto,
momentaneamente meno irrorato, impallidisce.
Conosciamo l'amore che, con il risveglio del sistema
parasimpatico, produce una reazione opposta a quella che
abbiamo visto nella reazione di combattimento e fuga,
tipica della collera e della paura.
Conosciamo la tristezza che, rallentando il metabolismo,
consente di adeguarci a una perdita significativa, a
una delusione d'amore, a un evento di morte. La chiusura
in se stessi che si determina, la risposta ridotta agli stimoli
esterni tengono animali e uomini vicini ai loro rifugi,
quindi al sicuro quando sono tristi e perciò vulnerabili.
Oggi lo sviluppo delle neuroscienze sa dirci quasi tutto
sulle nostre emozioni, ma ancora non ci dice quel che Aristotele
riferisce nella Retorica, là dove scrive: "Le emozioni
hanno relazioni con l'apparato cognitivo perché si
lasciano modificare dalla persuasione". Ciò significa che la
nostra emotività può essere educata e, se vogliamo una società
migliore, deve essere educata.
Ogni giorno i notiziari fanno l'elenco degli attacchi
furiosi sprigionati dagli impulsi sfuggiti al nostro controllo.
Veniamo così a sapere di segretarie massacrate davanti al
loro computer, di vicini di casa che tentano di stuprare la
donna della porta accanto, di inviti a ragazze che, ignare,
trascorrono con amici l'ultima sera della loro vita, di neonati
abbandonati nei cassonetti, di figli che a martellate
uccidono i genitori, in un crescendo che, fra i paesi industrializzati,
colloca l'Italia al secondo posto dopo gli Stati
Uniti.
A ciò si aggiunge un incremento esponenziale dei fenomeni
di depressione, con una percentuale tripla, per i nati
dopo il 1945, rispetto a quella dei loro nonni, e con tassi di
suicidio che hanno subìto un'impennata soprattutto fra i
giovani, vittime di insuccessi scolastici, di delusioni d'amore
e persino della congiuntura economica in un contesto,
tipico delle società avanzate, dove il denaro è l'unico
generatore simbolico di tutti i valori.
Che c'entra tutto ciò con l'educazione delle emozioni?
C'entra perché chi non sa sillabare l'alfabeto emotivo, chi
ha lasciato disseccare le radici del cuore, si muove nel
mondo pervaso da un timore inaffidabile, e quindi con
una vigilanza aggressiva, spesso non disgiunta da spunti
paranoici che inducono a percepire il prossimo innanzitutto
come un potenziale nemico da temere o da aggredire.
Tragedie come quelle sopra elencate non possono essere
sbrigativamente liquidate come "casi psichiatrici" e qui
relegate e rimosse. La frequenza con cui ricorrono obbliga
tutti noi a una riflessione più seria.
2. La fiducia di base.
Dispongono ancora i nostri giovani di una psiche
capace di elaborare i conflitti e quindi, grazie a questa
elaborazione, di trattenersi dal gesto? Esiste nella loro cultura
e nelle loro pratiche di vita un'educazione emotiva
che consenta loro di mettere in contatto e quindi di conoscere
i loro sentimenti, le loro pulsioni, la qualità della
loro sessualità e i moti della loro aggressività? Oppure
il mondo emotivo vive dentro di loro a loro insaputa, come
un ospite sconosciuto a cui non sanno dare neppure
un nome? Se così fosse, di fatti simili a quelli sopra elencati
aspettiamocene molti, perché è difficile pensare di
poter governare la propria vita senza un'adeguata conoscenza
di sé.
E qui non alludo alla conoscenza postuma che in età
adolescenziale o in età adulta porta qualcuno dallo psicoterapeuta
a cercar l'anima o direttamente in farmacia nel
tentativo di sedarla. Qui faccio riferimento a quella cura
dell'emotività che prende avvio il giorno della nascita,
quando il neonato si attacca al seno materno e, insieme al
latte, assapora l'accoglienza, l'indifferenza o il rifiuto. Moti
impercettibili che sfuggono all'osservazione esterna, ma
decisivi per la formazione nel neonato di quel nucleo caldo
o "fiducia di base", come la chiama Michael Balint, che è
la prima condizione per essere al mondo, senza essere
soverchiati dall'angoscia.
Poi si cresce, e nell'educazione della prima infanzia vedo
padri e madri che promuovono un'educazione fisica e
un'educazione intellettuale, ma non un'educazione emotiva,
che è poi l'educazione dei sentimenti, delle emozioni,
degli entusiasmi, delle paure. Tutte queste cose il bambino
se le organizza da sé come può e soprattutto con gli strumenti
che non ha.
Tra una palestra e un corso di nuoto perché bisogna
crescere con un bel corpo, tra una spiegazione ora sbrigativa,
ora articolata, ora un po' imbrogliata perché bisogna
diventare intelligenti, quanto passa tra genitori e figli di
quella comunicazione indiretta per cui si sente nella pancia,
prima che nella testa, che del padre e della madre ci si
può fidare, perché li si avverte al proprio fianco nei primi
movimenti un po' impacciati della vita? Cura del corpo,
cura dell'intelligenza, ma quanta cura dell'anima?
Qui gli adulti annaspano un po'. E veicolano l'amore
attraverso le cose che in abbondanza acquistano per soddisfare
quei desideri infantili che vanno a occupare il vuoto
di comunicazione, che già manifesta i suoi primi segni
nella svogliatezza, nell'indolenza, nella pigrizia, nella
ribellione e, nei casi più gravi anche se meno eclatanti,
nella rassegnazione depressiva.
Quel che si può avvertire in questo periodo caratterizzato
da sovrabbondanza di stimoli esterni e carenza di
comunicazione sono i primi segnali di quell'indifferenza
emotiva, oggi sempre più diffusa, per effetto della quale non si
ha risonanza emozionale di fronte ai fatti a cui si assiste o
ai gesti che si compiono.
E tutto ciò perché? Perché manca un'educazione
emotiva: dapprima in famiglia, dove i giovanissimi trascorrono
il loro tempo in quella tranquilla solitudine con le chiavi
di casa in tasca e la televisione come baby-sitter, e poi a
scuola quando, sotto gli occhi molto spesso appannati dei
loro professori, ascoltano parole inincidenti, che fanno
riferimento a una cultura troppo lontana da ciò che la televisione
ha loro offerto come base di reazione emozionale.
E così la loro sensibilità fragile, introversa e indolente,
che la scuola si guarda bene di educare, tracolla in quell'inerzia
a cui li aveva allenati l'apprendimento passivo
davanti al video e oggi davanti a internet, con frequenti fughe
nel sogno o nel mito, nella ricerca neppure troppo
spasmodica di un'identità, di cui troppo presto si dubita di
poter reperire la fisionomia, per incapacità di rintracciare
radici emotive proprie.
Il tutto condito da un acritico consumismo, reso possibile
da una società opulenta, dove le cose sono a disposizione
prima ancora che sorga quell'emozione desiderante,
che quindi non è sollecitata a conquistarle, e perciò le consuma
con disinteresse e snobismo in modo individualistico,
dove il pieno delle cose sta al posto del vuoto delle
relazioni mancate.
3. L'educazione emotiva.
Per avviarci lungo questo sentiero dobbiamo innanzitutto
renderci conto che l'emozione è essenzialmente relazione.
E dalla qualità delle nostre relazioni possiamo leggere
il grado della nostra intelligenza emotiva a cui la
scuola potrebbe dare un positivo contributo, introducendo
quei programmi di alfabetizzazione emotiva, come
opportunamente li chiama Daniel Goleman, in modo da
insegnare ai bambini, oltre alla matematica e alla lingua,
anche le capacità interpersonali essenziali, che hanno la
loro matrice in quei centri emozionali del cervello che sono
poi i più antichi, quelli che hanno consentito agli uomini
di dare avvio alla loro storia.
Qui torna alla mente la tesi di Eugenio Scalfari secondo
il quale la morale è un istinto, l'istinto di solidarietà che
favorisce la conservazione della specie, spesso in lotta con l'istinto
di sopravvivenza individuale. Non furono pochi quelli
che, dopo aver ornato la morale dei più nobili paludamenti,
storsero il naso di fronte a questa riduzione della morale al
regime pulsionale. Ma Goleman ce ne dà conferma:
Siccome l'educazione delle emozioni ci porta a quell'empatia che
è la capacità di leggere le emozioni degli altri, e siccome senza
percezione delle esigenze e della disperazione altrui non può
esserci preoccupazione per gli altri, la radice dell'altruismo sta
nell'empatia, che si raggiunge con quell'educazione emotiva che consente
a ciascuno di conseguire quegli atteggiamenti morali dei
quali i nostri tempi hanno grande bisogno: l'autocontrollo e la
compassione.
Oggi l'educazione emotiva è lasciata al caso e tutti gli
studi e le statistiche concordano nel segnalare la tendenza,
nell'attuale generazione, ad avere un maggior numero
di problemi emotivi rispetto a quelle precedenti. E
questo perché oggi i giovanissimi sono più soli e più depressi,
più rabbiosi e ribelli, più nervosi e impulsivi, più
aggressivi e quindi impreparati alla vita, perché privi di
quegli strumenti emotivi indispensabili per dare avvio a
quei comportamenti quali l'autoconsapevolezza, l'autocontrollo,
l'empatia, senza i quali saranno sì capaci di
parlare, ma non di ascoltare, di risolvere i conflitti, di
cooperare.
Ai professori che ogni giorno si apprestano a dare giudizi
sulle capacità intellettuali dei loro allievi un invito a
riflettere prima su quanta educazione emotiva hanno
distribuito, perché, a se stessi almeno, non possono nascondere
che l'intelligenza e l'apprendimento non funzionano
se non li alimenta il cuore.
Se la scuola non è sempre all'altezza dell'educazione
psicologica, che prevede, oltre a una maturazione intellettuale,
anche una maturazione emotiva, l'ultima chance
potrebbe offrirla la società se i suoi valori non fossero solo
business, successo, denaro, immagine e tutela della privacy,
ma anche qualche straccio di solidarietà, relazione,
comunicazione, aiuto reciproco, che possano temperare il
carattere asociale che, nella nostra cultura, caratterizza
sempre di più il nucleo familiare.
4. L'inaridimento del cuore.
Oggi quel che succede in casa resta lì compresso e incomunicato,
e quel che succede fuori è trattato con quelle
maschere che ogni giorno indossiamo per non lasciar trasparire
proprio nulla dei drammi, delle gioie e dei dolori
che si vivono dentro le mura di casa ben protette.
Nel deserto della comunicazione emotiva che da piccoli
non ci è arrivata, da adolescenti non abbiamo incontrato
e da adulti ci hanno insegnato a controllare, fa la sua
comparsa il gesto, soprattutto quello violento, che prende
il posto di tutte le parole che non abbiamo scambiato né
con gli altri per istintiva diffidenza, né con noi stessi per
afasia emotiva.
E allora prima del lettino dello psicoterapeuta dove le
parole si scambiano, come è noto, a pagamento, prima dei
farmaci che soffocano tutte le parole con cui potremmo
imparare a nominare ed a conoscere i nostri moti d'anima,
dobbiamo convincerci della necessità e dell'urgenza di
un'educazione emotiva preventiva, di cui scarsissime sono
le occasioni in famiglia, a scuola e nella società.
E questo soprattutto nella nostra società, che ha sviluppato
un individualismo esasperato e una possibilità di
scelta e di libertà che le società che ci hanno preceduto
non hanno mai conosciuto, arginate com'erano dalle
ristrettezze della povertà e dall'inquadramento offerto dalla
tradizione religiosa condivisa, che fungevano da strutture
di contenimento. Oggi questi argini, grazie a Dio, sono
crollati, ma la nuova individualità che si va affermando ha
la forza per reggere lo spazio di libertà e di solitudine che
le è stato concesso? Io credo di no.
Per questo c'è un gran lavoro da fare nell'educazione
preventiva dell'anima (e non solo del corpo e dell'intelligenza)
per essere all'altezza del nostro tempo, che ha bruciato
gli spazi della riflessione, ridotto all'insignificanza
quelli della comunicazione, ma soprattutto ha inaridito il
cuore, che è poi l'organo attraverso il quale si sente, prima
ancora di sapere, cos'è bene e cos'è male.
Ma oggi chi si prende cura del cuore? Del cuore in senso
forte, così come Pascal lo descrive quando parla di esprit de
finesse da armonizzare con l'esprit de géometrie, quindi con
la nostra intelligenza che, senza cuore, non diventa solo lucida
e fredda, ma origine prima del male, quel male assoluto
che il Genesi descrive quando, nel tratteggiare la figura di
Lucifero, ne parla come del "più intelligente degli angeli".
5. Il deserto emotivo.
Conoscevamo la follia come eccesso della passione. Ne
vedevamo i sintomi, ne prevedevamo i possibili scenari.
Oggi sempre più di frequente, nell'universo giovanile, la
follia veste gli abiti della freddezza e della razionalità, non
lascia trasparire alcunché ed esplode in contesti insospettabili
che nulla lasciano presagire e neppure lontanamente
sospettare.
Così è stato per le tre ragazze per bene che in quel di
Sondrio qualche anno fa hanno ammazzato una suora;
così è stato a Sesto San Giovanni dove un ragazzo, anche
lui per bene, è finito in carcere per una coltellata inferta
alla sua amica nel cortile della scuola; e così è stato in quel
di Padova, dove un figlio ha ammazzato suo padre, professore
d'università, e poi ne ha bruciato nel cortile il
cadavere.
Non sono passati molti anni da quando a Novi Ligure
una ragazza, che le cronache hanno descritto bella e intelligente,
cresciuta in una famiglia serena, educata in un
istituto privato retto da religiosi, ha inflitto, con il fidanzatino
suo coetaneo, quaranta coltellate alla madre, cinquantasei
al fratello e, senza troppo scomporsi, ha retto
per diversi giorni gli interrogatori a cui è stata sottoposta,
senza cedimenti emotivi.
Tutti questi casi hanno in comune quell'evento terribile
che è l'imprevedibilità. E di fronte all'imprevedibile, di
fronte a ciò che non si lascia in alcun modo anticipare, si
scatena in tutti noi l'angoscia primordiale, quella che provavano
i primi uomini di fronte a un mondo che non riuscivano
a decifrare.
Quando la causa è irreperibile, quando il furore che di
solito accompagna i gesti della follia è assente, allora bisogna
scavare più a fondo e scoprire chi sono e come sono
fatti coloro che compiono gesti così orrendi senza dare a
vedere alcuna risonanza emotiva.
La psichiatria conosce questa sindrome, e la rubrica
sotto il nome di "psicopatia" o "sociopatia". Lo psicopatico
è colui che è capace di compiere gesti anche terribili
senza che il suo sentimento registri il minimo sussulto
emotivo. Il cuore non è in sintonia con il pensiero e il pensiero
con il gesto. Ma non si accorge nessuno di questa
condizione giovanile peraltro molto diffusa?
Tendenzialmente no. Una buona educazione - soprattutto
quella borghese che insegna a tenere a bada gli eccessi
emotivi - confeziona per ciascuno di questi ragazzi un
abito di buone maniere, di stereotipi linguistici, di controllo
dei sentimenti che, come una corazza, rende questi giovani
impenetrabili e scarsamente leggibili a chi sta loro
intorno. Alla base c'è una mancata crescita emotiva, che ha
reso il sentimento atrofico, inespressivo, non reattivo, per
cui gli eventi della vita passano loro accanto senza una vera
partecipazione, senza un'adeguata risposta di sentimento
a quanto intorno accade.
Buon terreno di cultura sono di solito le famiglie per
bene, dove i problemi, quando si affrontano, si affrontano
sempre in modo razionale, dove non si alza mai la voce,
dove non si piange e non si ride, e dove soprattutto non si
comunica, perché quando i figli hanno dato le loro informazioni
sull'andamento scolastico e sull'ora del rientro
quando si fa notte il sabato sera, sono lasciati nel rispetto
della loro autonomia, dietro cui si nasconde il terrore dei
genitori (anche questo mascherato) ad aprire quell'enigma
che i figli sono diventati per loro.
E i figli, come gli animali, sentono quando c'è la paura
dei genitori, e, quando non c'è, sentono il loro sostanziale
disinteresse emotivo. Soli da piccoli, affidati alla televisione
o alle prestazioni mercenarie dell'esercito delle baby-sitter,
questi figli, figli del benessere e della razionalità, crescono
con un cuore dapprima tumultuoso che invoca attenzione
emotiva, poi, quando questa attenzione non arriva, giocano
d'anticipo la delusione ed il cinismo per difendersi da una
risposta d'amore che sospettano non arriverà mai.
A questo punto il cuore, un tempo tumultuoso e invocante,
si fa piatto, non reattivo, pronto a declinare ora nella
depressione ora nella noia. E quando la tempesta emotiva si
abbatte sul cuore, ormai arido perché mai irrigato, si comprime
tutto con le difese impenetrabili approntate dalla buona
educazione, dalle buone maniere, dal buon allenamento
nella palestra gelida della razionalità.
Tutto bene dunque? All'apparenza sì, tutto bene. A
scuola non vanno male, col prossimo si sanno comportare,
vestono anche bene, e con le maschere, che con estrema
facilità indossano e sostituiscono, l'allenamento è
collaudato.
La sessualità, quando c'è, è tecnica corporea, perché
questi ragazzi sono "emancipati", in discoteca ballano in
modo parossistico, insieme a tutti gli altri, la propria solitudine.
Un po' di ecstasy dà quella leggera scossa emotiva
di cui si è assetati, ma non lo si dice, lo si fa per moda, per
essere come gli altri, con cui si fa "gruppo", anche gruppo
ben educato, nel tentativo di ottenere dagli amici quel residuo
di conforto affettivo di cui il loro cuore, come un organo
autonomo, saltuariamente ha sete.
Finché alla fine tutto esplode. La compressione della
razionalità mai diluita nell'emozione, la difesa delle buone
maniere che ormai, persino a propria insaputa, fanno
tutt'uno con l'insincerità, la noia, che come un macigno
comprime la vita emotiva, impedendole di entrare in
sintonia con il mondo, formano quella miscela che sotterra
l'io di questi adolescenti infelici, facendoli agire in terza
persona con gesti che la storia dell'uomo fa fatica a reperire
come suoi.
Sono gesti che mettono in crisi la giustizia e, con la
giustizia, la società che, per tranquillizzarsi, è sempre alla
ricerca di un movente. E il movente in effetti non c'è, o se c'è
è insufficiente, comunque sproporzionato alla tragedia,
perché ignoto agli stessi autori. Cercarlo ci porta lontano,
tanto lontano quanto può esserlo l'avvio della loro vita,
lungo la quale è stato loro insegnato tutto, ma non come
mettere in contatto il cuore con la mente, e la mente con il
comportamento, e il comportamento con il riverbero emotivo
che gli eventi del mondo incidono nel loro cuore.
Queste connessioni che fanno di un uomo un uomo
non si sono costituite, e perciò nascono biografie capaci di
gesti tra loro a tal punto slegati da non essere percepiti
neppure come propri. E questo perché il cuore non è in
sintonia con il pensiero e il pensiero con il comportamento,
perché è fallita la comunicazione emotiva, e quindi la
formazione del cuore come organo che, prima di ragionare,
ci fa sentire che cosa è giusto e che cosa non è giusto,
chi sono io e che ci faccio al mondo.
6. La forza d'animo.
Oggi la si chiama "resilienza", una volta la si chiamava
"forza d'animo", Platone la nominava thymoeidés e
indicava la sua sede nel cuore. Il cuore è l'espressione
metaforica del "sen-timento", una parola dove ancora risuona
la platonica thymoeidés.
Il sentimento non è languore, non è malcelata malinconia,
non è struggimento dell'anima, non è sconsolato
abbandono. Il sentimento è forza. Quella forza che riconosciamo
al fondo di ogni decisione quando, dopo aver analizzato
tutti i pro e i contro che le argomentazioni razionali
dispiegano, si decide, perché in una scelta piuttosto che
in un'altra ci si sente a casa. E guai a imboccare, per
convenienza o per debolezza, una scelta che non è la nostra,
guai a essere stranieri nella propria vita.
La forza d'animo, che è poi la forza del sentimento, ci
difende da questa estraneità, ci fa sentire a casa, presso di
noi. Qui è la salute. Una sorta di coincidenza di noi con noi
stessi, che ci evita tutti quegli "altrove" della vita che non ci
appartengono e che spesso imbocchiamo perché altri, da
cui pensiamo dipenda la nostra vita, semplicemente ce lo
chiedono, e noi non sappiamo dire di no.
Il bisogno di essere accettati e il desiderio di essere
amati ci fanno percorrere strade che il nostro sentimento
ci fa avvertire come non nostre, e così l'animo si indebolisce
e si ripiega su se stesso nell'inutile fatica di compiacere
agli altri. Alla fine l'anima si ammala, perché la malattia,
lo sappiamo tutti, è una metafora, la metafora della
devianza dal sentiero della nostra vita.
Bisogna educare i giovani a essere se stessi, assolutamente
se stessi. Questa è la forza d'animo. Ma per essere
se stessi occorre accogliere a braccia aperte la propria ombra.
Che è ciò che rifiutiamo di noi. Quella parte oscura
che, quando qualcuno la sfiora, ci fa sentire "punti nel vivo".
Perché l'ombra è viva e vuole essere accolta. Anche un
quadro senza ombre non ci concede le sue figure. Accolta,
l'ombra cede la sua forza. Cessa la guerra tra noi e noi
stessi e perciò siamo in grado di dire: "Ebbene sì, sono anche
questo". Ed è la pace così raggiunta a darci la forza
d'animo e la capacità di guardare in faccia il dolore senza
illusorie vie di fuga.
"Tutto quello che non mi fa morire, mi rende più forte",
scrive Nietzsche. Ma allora bisogna attraversare e
non evitare le terre seminate di dolore. Quello proprio,
quello altrui. Perché il dolore appartiene alla vita allo stesso
titolo della felicità. Non il dolore come caparra della vita
eterna, ma il dolore come inevitabile contrappunto della
vita, come fatica del quotidiano, come oscurità dello
sguardo che non vede via d'uscita. Eppure la cerca, perché
sa che il buio della notte non è l'unico colore del cielo.
Di forza d'animo hanno bisogno i giovani soprattutto
oggi perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché
si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della
morale, perché si è smarrito il senso dell'esistenza e incerta
s'è fatta la sua direzione. La storia non racconta più la
vita dei loro padri, e la parola che i padri rivolgono ai figli
è insicura e incerta. I loro sguardi si incontrano, ma spesso
solo per evitarsi.
Eppure i giovani, anche se mai lo confesseranno,
attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il
mare che attraversano è minaccioso, anche quando il suo
aspetto è trasognato. Il rischio che corrono, quando evitano
le soluzioni estreme, è quello di passare il tempo della
loro vita, senza sentimento, senza nobiltà, confusi tra i
piccoli uomini a cui basta, secondo Nietzsche, "una
vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo
restando la salute". E così pèrdono il contatto con se stessi
nel rumore del mondo.
Passioncelle generiche sfiorano le loro anime assopite,
ma non le risvegliano. Non hanno forza. Sono state
acquietate da quell'ideale di vita che viene spacciato per
equilibrio, buona educazione. E invece è sonno, conformismo,
dimenticanza di sé. Nulla del coraggio del navigante
che, come vuole la metafora di Nietzsche, "lasciata la terra
che era solo terra di protezione, non si lascia prendere
dalla nostalgia, ma incoraggia il suo cuore". Il cuore non
come languido contraltare della ragione, ma come sua
forza, sua animazione, affinché le idee, ben animate dalle
passioni, divengano attive e facciano storia. Una storia più
soddisfacente.
5. La pubblicizzazione dell'intimità.
Il sentimento del pudore consiste in un ritorno
dell'individuo su se stesso, volto a proteggere il
proprio sé profondo dalla sfera pubblica.
M. ScHELER, Pudore e sentimento del pudore
(1957), p. 49.
1. La neutralizzazione della differenza tra interiorità ed esteriorità.
Perché tanta partecipazione di giovani a reality show
come Il Grande Fratello, L'isola dei famosi e altre trasmissioni
consimili, dove si esibiscono senza pudore i sentimenti
più profondi e i segreti più nascosti della propria
intimità? Se questi spettacoli sono particolarmente seguiti
nelle ore pomeridiane e serali da un vasto pubblico vuol
dire che oggi la cosa più sconosciuta e di cui si ha la massima
curiosità non è più, come un tempo, la vita degli dèi
o dei sovrani, ma la vita comune interpretata da persone
comuni, la vita quotidiana di tutti noi.
Brutto segno. Perché questo significa che sono crollate
le pareti che consentono di distinguere l'interiorità dall'esteriorità,
la parte "discreta", "singolare", "privata", "intima"
di ciascuno di noi dalla sua esposizione e pubblicizzazione.
Se infatti chiamiamo "intimo" ciò che si nega all'estraneo
per concederlo a chi si vuol fare entrare nel proprio
segreto profondo e spesso ignoto a noi stessi, allora il pudore,
che difende la nostra intimità, difende anche la nostra
libertà. E la difende in quel nucleo dove la nostra identità
personale decide che tipo di relazione instaurare con l'altro.
Il pudore, infatti, non è una faccenda di vesti, sottovesti
o abbigliamento intimo, ma una sorta di vigilanza, dove
si decide il grado di apertura e di chiusura verso l'altro.
Si può infatti essere nudi senza nulla concedere, senza
aprire all'altro neppure una fessura della propria anima.
La nudità del nostro corpo non dice ancora nulla della nostra
disponibilità all'altro.
Siccome agli altri siamo irrimediabilmente esposti e,
come ci ricorda Sartre, "dallo sguardo degli altri siamo
irrimediabilmente oggettivati", il pudore è un tentativo di
mantenere la propria soggettività in modo da essere segretamente
se stessi in presenza degli altri. E qui l'intimità si
coniuga con la discrezione, nel senso che, se "essere in intimità
con un altro" significa "essere irrimediabilmente
nelle mani dell'altro", nell'intimità occorre essere discreti
e non svelare per intero il proprio intimo, affinché non si
dissolva quel mistero che, se interamente svelato, estingue
non solo la fonte della fascinazione, ma anche il recinto
della nostra identità, che a questo punto non è più disponibile
neppure per noi.
Ma contro tutto ciò soffia il vento del nostro tempo che
vuole la pubblicizzazione dell'intimo, perché in una società
consumistica, dove le merci per essere prese in considerazione
devono essere pubblicizzate, si propaga un costume
che contagia anche il comportamento dei giovani, i quali
hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra,
per cui, come le merci, il mondo è diventato una mostra,
un'esposizione pubblica che è impossibile non visitare
perché comunque ci siamo dentro.
In questo modo molti giovani scambiano la loro identità
con la pubblicità dell'immagine e, così facendo, si producono
in quella metamorfosi dell'individuo che non cerca
più se stesso, ma la pubblicità che lo costruisce. Per effetto
di questa esposizione, che abolisce la parola segreta,
quella intima, quella nascosta, il pudore, per loro, non è
più un sentimento umano, il tracciato di un limite. La parola
che li espone pubblicamente ha rotto i confini, e l'anima,
che un giorno abitava il segreto della loro interiorità,
si è esteriorizzata come la pelle rovesciata di un serpente.
Chi infatti non irradia una forza di esibizione e di attrazione
più intensa degli altri, chi non si mette in mostra
e non è irraggiato dalla luce della pubblicità non ha la forza
di sollecitarci, di lui neppure ci accorgiamo, il suo
richiamo non lo avvertiamo, non ci lasciamo coinvolgere,
non lo riconosciamo, non lo usiamo, non lo consumiamo,
al limite "non c'è".
Per esserci bisogna dunque apparire. E chi non ha nulla
da mettere in mostra, non una merce, non un corpo,
non un'abilità, non un messaggio, pur di apparire ed uscire
dall'anonimato mette in mostra la propria interiorità,
dove è custodita quella riserva di sensazioni, sentimenti,
significati "propri" che resistono all'omologazione, che, nella
nostra società di massa, è ciò a cui il potere tende per
una più comoda gestione degli individui.
Il Grande Fratello o L'isola dei famosi sono stati ideati
fondamentalmente per questo, ma falliscono lo scopo, perché
quando una dozzina di persone sono chiuse in uno
spazio ristretto o relegate su un'isola remota, senza libri né
giornali, con nulla da fare per tutto il giorno, quello che
mostreranno non sarà assolutamente la loro normalità, ma
la loro patologia. Sviscereranno quanto di più contorto c'è
nella loro anima, senza la possibilità di contenerla, come
facciamo noi nella vita reale con le occupazioni e il lavoro.
Spettacolo della pazzia quindi, e non della normalità.
2. La matrice religiosa della spudoratezza.
Eppure queste trasmissioni - che dobbiamo considerare
più pornografiche della pornografia propriamente detta,
perché denudare la propria anima è peggio che denudare
il proprio corpo - si alimentano dei cascami della
cultura religiosa che, per quanto laicizzata, ancora si nutre
della sua simbolica. La morte di Dio, infatti, non ha
lasciato solo orfani, ma anche eredi. E non si fatica a cogliere
nell'occhio del Grande Fratello la trasposizione dell'occhio
di Dio.
Più che al voyeurismo di chi è in attesa di uno scorcio
sessuale, penso che la curiosità degli spettatori stia proprio
in questa trasposizione inconscia, che consiste nel
mettersi al posto di Dio e guardare la vita degli uomini.
Non come un padre guarda la vita dei figli ("Dio è morto",
ci ricorda Nietzsche), ma come un fratello guarda la vita
dei suoi simili.
Del resto il cristianesimo, da tutti noi inconsciamente
assorbito, ci ha insegnato anche che nell'interiorità dell'uomo
abita la verità. A dirlo a chiare lettere è Agostino di
Tagaste: "In interioritate animu habitat veritas", e su questo
principio sono cresciute le fortune degli scrutatori dell'anima:
dai preti nei confessionali agli psicoanalisti, che sono la
versione laica dell'indagine interiore.
Il Grande Fratello e trasmissioni simili offrono a tutti i
fruitori della televisione e di internet la possibilità di scrutare
l'anima altrui, perché è quella che dopo alcuni giorni
viene fuori, pubblicata dai rotocalchi, quando, disimpegnati
da qualsiasi attività, i protagonisti non avranno altro
da fare, per passare il tempo senza impazzire, che sfoderare
davanti a milioni di spettatori e di lettori la loro anima
nei suoi aspetti resi patologici dall'inattività.
Capiamo allora perché trasmissioni in cui i giovani fanno
a gara a sfoderare la loro intimità riscuotono un così
grande successo: attivano metafore teologiche appena
sepolte nel nostro inconscio collettivo. Da spettatori ci consegnano
la prerogativa che era propria dell'occhio di Dio, che
scruta l'interiorità di ciascuno di noi.
Non è un caso che le autorità ecclesiastiche, per bocca
del cardinale Ersilio Tonini, non cessino di invitare "le autorità
ad interessarsi di simili trasmissioni, perché rappresentano
un'aperta violazione della privacy". In un certo
senso le capisco. Prima della morte di Dio la privacy, nel
suo spaccato più intimo che è l'interiorità dell'anima, era
gestita solo dai preti. Oggi questo genere di trasmissioni
televisive la mettono a disposizione di tutti. In una parola
la aboliscono.
3. L'omologazione dell'interiorità.
Se la religione è il terreno di cultura in cui possono nascere
trasmissioni del genere, il risultato è tutto politico,
perché la pubblicizzazione del privato è l'arma più efficace
impiegata nelle società conformiste per togliere agli individui
il loro tratto discreto, singolare, intimo.
Allo scopo vengono solitamente impiegati i mezzi di
comunicazione che, dalla televisione ai giornali, con sempre
più insistenza irrompono con indiscrezione nella parte
discreta dell'individuo, per ottenere non solo attraverso test,
questionari, campionature, statistiche, sondaggi d'opinione,
indagini di mercato, ma anche e soprattutto con intime
confessioni, emozioni in diretta, storie d'amore, trivellazioni
di vite private, che sia lo stesso individuo a consegnare
la sua interiorità, la sua parte intima, rendendo pubblici i
suoi sentimenti, le sue emozioni, le sue sensazioni, secondo
quei tracciati di spudoratezza che vengono acclamati come
espressioni di sincerità, perché in fondo: "Non si ha
nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi".
A parte che "vergognarsi" è un verbo riflessivo che
dunque rinvia ad una riflessione, a una relazione con se
stessi di cui non è proprio il caso di vergognarsi, c'è da notare
anche che è un verbo che dice la nostra "esposizione
agli altri". "Vergogna" viene infatti da vereor gognam che
significa "temo la gogna, la mia esposizione pubblica". E
questa è la ragione per cui solitamente non ci si vergogna
della colpa, ma della sua pubblicizzazione, ossia della nostra
esposizione agli altri, che il pudore avverte più disdicevole
della colpa.
Quando dico: "Non ho nulla di cui vergognarmi" non
sto dicendo solo: "Non mi vergogno, quindi non sono colpevole",
ma anche: "Non mi vergogno, quindi non temo
l'esposizione agli altri. Ho oltrepassato quello che per
chiunque sarebbe il pudore, e ho fatto della spudoratezza
non solo la mia virtù, ma la prova della mia sincerità e della
mia innocenza".
I giovani che si comportano in questo modo danno un
ottimo esempio di quell'omologazione dell'intimo a cui tendono
tutte le società conformiste che, alla massima "ad
ognuno il suo", sostituiscono quell'altra "ad ognuno il mio",
per cui ciascuno finisce con il sentirsi "proprietà comune"
e si comporta come se appartenesse a tutti. E poiché sa
che se non si comportasse così, se rifiutasse espressamente
questo comportamento, verrebbe considerato "sconveniente"
e diventerebbe "sospetto", lo fa anche con un certo
ardore, con somma gioia di chi deve governare la società,
perché, una volta pubblicizzata, l'intimità viene dissolta
come intimità, e gli altri, che dovrebbero stare al confine
esterno dell'intimo, diventano letteralmente "inevitabili",
ogni volta che ciascuno di noi prova una sensazione, un'emozione,
un sentimento.
Questi tracciati segreti dell'anima, in cui ciascuno
dovrebbe riconoscere le radici profonde di se stesso, una volta
immessi senza pudore nel circuito della pubblicizzazione,
quando non addirittura in quello della pubblicità, non
sono più propriamente miei, ma proprietà comune. E questo
sia in ordine alla qualità del vissuto, sia in ordine al
modo di viverlo, perché il pudore, prima di una faccenda
di mutande che uno può cavarsi o infilarsi quando vuole, è
una faccenda d'anima che, una volta de-psicologizzata,
perché si sono fatte cadere le pareti che difendono il dentro
dal fuori, l'interiorità dall'esteriorità, non esiste
semplicemente più.
A questo punto si potrebbe obiettare che, siccome il
male avviene di solito segretamente, "segretezza" e "riservatezza"
sono per l'opinione pubblica prove del male. E allora,
per smentire l'opinione pubblica omologata su questo
pregiudizio, non resta che la spudoratezza di chi si tiene
sempre pronto, "mani alla chiusura lampo", per interviste,
pubbliche confessioni, rivelazioni dell'intimità, come
è facile vedere in quelle numerose trasmissioni televisive
particolarmente seguite, dove l'invito è quello di collaborare
attivamente e con gioia alla propria de-privatizzazione
con l'ostensione spudorata di sé.
Quanti sono interessati a che l'individuo non abbia più
segreti e al limite neppure più un'interiorità, perché le pareti
della casa di psiche sono crollate, alimentano il proliferare
incontrollato di queste trasmissioni che, a livello
subliminale, veicolano la persuasione che la spudoratezza
è una virtù: la virtù della sincerità.
Per quanto la cosa possa apparire strana, la sua realizzazione
nella nostra società è già in corso e il processo di
eliminazione del pudore è quasi completo, perché il pudore
può essere non solo sintomo di "insincerità", ma addirittura
- e qui anche gli psicologi danno una mano - di
"introversione", di "chiusura in se stessi", quindi di "inibizione"
se non di "repressione". E inibizione e repressione,
recitano i manuali di psicologia, sono sintomi di un "adattamento
sociale frustrato", quindi di una socializzazione
fallita. Vedete dove si può arrivare avviando una sequenza
un po' disinvolta di sillogismi?
Ma purtroppo la sequenza è avviata e la nostra vita è
diventata proprietà comune. E allora perché non lasciarsi
intervistare senza riserva e senza pudore? In fondo anche
il nostro corpo è diventato proprietà comune, e quel che
un tempo era prerogativa di alcune dive - farsi misurare
seni e sederi e pubblicare le relative cifre sotto la fotografia oggi è il gioco di qualsiasi ragazza che non voglia passar
per inibita. Ma anche il sesso è diventato proprietà comune
e, dalla stampa alla televisione, è un susseguirsi di
articoli e servizi sui piaceri e sulle difficoltà della camera
da letto, redatti sotto forma di consigli, in modo confidenziale,
come se fossero rivolti solo a te, e non a un milione
di orecchie avide di sapere quel che da sé non sanno più
scoprire.
Questo significa "Non aver nulla da nascondere, nulla
di cui vergognarsi". Significa che le istanze del conformismo
e dell'omologazione lavorano per portare alla luce
ogni segreto, per rendere visibile ciascuno a ciascuno, per
toglier di mezzo ogni interiorità come un impedimento,
ogni riservatezza come un tradimento, per apprezzare
ogni volontaria esibizione di sé come fatto di lealtà se non
addirittura di salute psichica.
E tutto ciò, anche se non ci pensiamo, approda ad un
solo effetto: attuare l'omologazione totale della società fin
nell'intimità dei singoli individui e portare a compimento
il conformismo. In fondo non è un'operazione difficile.
Basta "non aver nulla da nascondere, nulla di cui vergognarsi",
che tradotto significa: "Sono completamente
esposto", "non custodisco nulla di intimo", "sono del tutto
de-psicologizzato", ma in compenso ho guadagnato appariscenza,
conformità sociale e forse qualche apprezzamento
per il mio coraggio e la mia sincerità.
Di qui la necessità di rivendicare i diritti del pudore:
non solo per sottrarre la sessualità a quella genericità in
cui si celebra il piacere nel misconoscimento dell'individuo,
ma anche e soprattutto per sottrarre l'individuo a
quei processi di omologazione in cui ciascuno di noi
rischia di perdere il proprio nome.
6. La seduzione della droga.
L'approccio al problema delle droghe non deve
essere centrato sul prodotto, ma sulle persone e
sulle loro relazioni sociali. Duole constatare che
la nostra società preferisce emarginare chi diventa
vittima delle sue contraddizioni, piuttosto che
tentare di rimuoverle.
H. MARGARON, Le stagioni degli dèi (2001), p. 311.
1. Il nichilismo sotteso alla droga.
Il consumo della droga è in continuo aumento. I danni,
anche se non immediatamente avvertiti, sono spaventosi.
Una voluttà nichilista sembra pervadere la nostra società,
soprattutto nella sua fascia giovanile, senza che adeguati
rimedi appaiano disponibili e soprattutto efficaci. Siccome
sono persuaso che l'uso ormai così diffuso della droga
non dipende tanto da un disagio esistenziale quanto culturale,
sarà bene affrontare il problema della droga con gli
strumenti che la nostra cultura, anche se appare ormai
esangue, sembra ancora in grado di offrire.
Cominciamo col dire che, non solo nel caso della droga,
ma in genere, il piacere è negativo e il desiderio è insaziabile.
Questa formula, che ogni tossicomane conosce, riproduce
esattamente quanto la filosofia dell'Occidente, a
partire da Platone, ha pensato intorno al piacere ed al desiderio,
per cui, se la filosofia vuole raccogliere la sfida, può
mettere la sua ricchezza analitica a disposizione della
comprensione di quel fenomeno inquietante e sempre più
vasto che è l'uso e l'abuso della droga.
Nessuno, infatti, come Platone, ha mai indagato la
natura del desiderio, cogliendone l'essenza nell'insaziabilità,
perché il desiderio è mancanza, è vuoto, da pensare non
come uno stato stabile contrario al pieno, ma come uno
stato insaturabile che si svuota man mano che cerchiamo
di riempirlo, come la "giara bucata", per stare alle immagini
di Platone, o come il "piviere" che è quell'uccello che
mangia e nel contempo evacua.
Iniettarsi eroina si dice in italiano "bucarsi". Il corpo si
fa "abisso", che etimologicamente significa "senza fondo".
Allo stesso modo in francese "essere alcolizzato" si dice
"bere come un buco (boire comme un trou)". Tossici e
alcolizzati parlano in greco antico e descrivono la loro incapacità
di "contenere" con immagini platoniche.
La tossicomania sembra infatti incarnare alla lettera
la teoria platonica del desiderio che fa della mancanza
non il motore della ricerca della felicità, ma quella "belva
dispotica e indomabile", per stare a un'altra immagine
platonica, che spinge ad aggrapparsi a essa senza poter
più tendere ad altro. Sotto questa forma il desiderio ci fa
provare un dolore insopportabile eppure irresistibile, e il
piacere che ne segue è cessazione di questa pena, anestesia,
piacere negativo, come dopo la prima dose, quando
quella successiva non porta voluttà, ma evita la caduta
nella sofferenza.
Torna qui in mente la dialettica hegeliana servo-signore,
nonché la metafora heideggeriana del pendio, in tedesco
Hang, da cui hangen, essere appeso, e anhangen, dipendere.
Torna il concetto lacaniano di manque, la mancanza come
molla del desiderio, e la teoria freudiana del piacere narcotico
come piacere affascinante perché doppiamente negativo:
fa cessare il dolore fisico e fa da sedativo al male di vivere
di cui non ci si prende più cura.
"Cura" in tedesco si dice Sorge, e Freud, dopo aver fatto
uso per diverso tempo di cocaina, chiama la droga Sorgenbrecher,
ciò che consente di "scacciare i pensieri", di non
"prendersi cura" e, come lui stesso scrive, "il più antico
rimedio contro il disagio della civiltà". Grande lettore di
Goethe, Freud aveva meditato sul Faust, che è poi quel
dramma del desiderio che si conclude con il trionfo sarcastico
di Sorge, la Cura in persona, ospite inamovibile di ogni
vicenda umana. Così dicendo, Freud, dopo aver indicato
con tanta precisione la malattia chiamata "uomo", include
il ricorso alle droghe in una prospettiva esistenziale, e in
proposito scrive:
Gli effetti prodotti dagli inebrianti nella lotta per conquistare la
felicità e per difendersi dalla miseria vengono considerati talmente
benefici che gli individui e i popoli hanno loro riservato
un posto ben preciso nella loro economia libidica. Con l'aiuto
dello scacciapensieri (Sorgenbrecher) sappiamo dunque di poterci
sempre sottrarre alla pressione della realtà e trovare riparo in
un mondo nostro, che ci offre condizioni sensitive migliori. È
noto che proprio questa caratteristica degli inebrianti ne costituisce
in pari tempo il pericolo e la dannosità. Per colpa loro in
talune circostanze si sciupano inutilmente grandi ammontari di
energia che potrebbero essere utilizzati per il miglioramento della
sorte umana.
Come per Aristotele, anche per Freud il piacere è il primo
principio della vita psichica, nonché il movente più
forte dell'azione umana, ma sia Aristotele sia Freud
distinguono il piacere immediato, incurante, non negoziato
dell'infanzia, dal piacere adulto che nasce dal differimento
del godimento spostato su oggetti compatibili con il mondo,
con gli altri e soprattutto con l'autoconservazione.
Qui cade la differenza instaurata da Freud tra il principio
di piacere (infantile) e il principio di realtà (adulto) che non
è negazione del piacere, ma suo differimento, perché non tralascia
la cura di uomini e cose, ma cerca il piacere attraverso
questa cura, fattore essenziale di ogni vicenda umana.
Sulla traccia dell'etica aristotelica, Freud ipotizza che il
nostro cervello sia fatto per godere dell'inerzia e della noncuranza,
assecondando le quali non ci si cura di nient'altro
se non di quell'oggetto che pensiamo possa dispensarci da
ogni cura. Tale è l'oggetto tossico, nevrotico, onirico, in presenza
del quale la pulsione si fa insistente, implacabile e
coatta, dove il desiderio, come vuole il nichilismo denunciato
da Platone e da Aristotele, è sempre vivo perché insoddisfatto,
e insoddisfatto perché il piacere che cerca è negativo,
è l'uscire dalla pena dell'insaziabilità del desiderio.
Per spezzare il circolo vizioso occorre, sia per Platone
e Aristotele sia per Freud, passare attraverso la realtà che
ci obbliga a congedarci dalla non-curanza, per abituarci a
prenderci cura dei nostri piaceri, non nella forma an-estetica
della soddisfazione immediata come fanno i bambini,
ma in quella estetica nell'accezione greca dell'aisthesis o
sensazione, che percorre la gamma che dal "sensibile"
giunge al "bello".
Ma il tratto "anestetico" non è tipico solo delle droghe,
ma anche dei farmaci che, per il loro valore anestetizzante
e quindi nichilistico," hanno un successo da far invidia al
sistema moderno delle merci, dal momento che nessun
bene di consumo può competere con loro in termini di
soddisfazione e di piacere. Facendo infatti sognare come
mai è capitato a qualsiasi responsabile delle vendite, la
differenza tra droghe e farmaci sfuma, perché la neurofarmacologia
ci invita a pensare che esiste un'omogeneità
qualitativa tra i composti chimici che assumiamo e quelli
che fisiologicamente agiscono sulle cellule cerebrali per
regolare le nostre gioie ed i nostri dolori.
In questo modo la neurofarmacologia razionalizza i
comportamenti tossicomani e, a sua insaputa, contribuisce
alla loro sdrammatizzazione, perché riconosce l'intenzione
ragionevole del gesto medico od autoterapeutico che
consiste nel modificare la sensibilità del corpo. In questo
modo, come scrive lo psichiatra E. Khantzian:
Il tossicomane non appare più come un immaturo che regredisce e
si comporta in modo irrazionale, bensì come un adulto che individua
un disagio, sceglie un rimedio specifico, si cura e si limita ad
anticipare il medico con un prodotto il cui unico difetto è di essere
inadeguato in quanto mal dosato.
Dello stesso avviso è Peter Kramer per il quale:
Il paziente anedonico, così chiamato per la sua incapacità di provar
piacere, che assume il prozac e il cocainomane che assume la
droga tentano entrambi di compensare la loro mancanza di capacità
edoniche. La finalità del loro gesto è identica.
Infatti, se è vero che il prozac non crea dipendenza e
non procura l'eccitazione della cocaina né l'appagamento
dell'eroina, al pari di queste viene a compensare un'incapacità
di felicità, non attraverso un coinvolgimento nel mondo,
ma attraverso un godimento appetitivo e consumatorio
della vita, che Platone rubrica tra le esperienze "miste e impure",
caratterizzate cioè dall'insaziabilità del desiderio e
dalla negatività del piacere.
Qui filosofia e psicoanalisi convengono nel dirci che,
quando la voluttà tende all'anestesia - e tutte le droghe,
anche quelle euforizzanti che i nostri giovani consumano ogni
sabato sera nelle discoteche, sono paradossalmente anestetiche
perché anestetizzano dalla "cura" del mondo -, l'appetito
si fa divorante, ma il prodotto con cui si tenta di placarlo
si rivela di volta in volta sempre più insoddisfacente.
La macchina del nulla che avvia questo circolo vizioso
inabissa il tempo in un'ossessione volta alla ricerca del
prodotto che promette la liberazione da ogni "cura",
innescando quella meccanica della ripetizione che Freud chiama
"coazione a ripetere", dove l'insaziabilità della pulsione
si scontra con l'inadeguatezza dell'oggetto e quindi con
l'impossibilità del godimento.
A questo punto il desiderio che, come ci ricorda Platone,
è fatto di "mancanza" e di "nulla", chiede che si aumenti la
dose, per cui in un certo senso la tossicomania riprodurrebbe,
come nessun'altra cosa, il perfetto funzionamento del
desiderio, che non cerca il piacere nel mondo, ma l'estinzione
rapida e immediata di quella "mancanza" che è la sua
struttura costitutiva. Nessuno infatti desidera ciò che ha,
ma solo ciò che non ha. Il nulla è l'anima del desiderio che,
nella sua versione anestetica, rende l'appetito irresistibile ed
il piacere insoddisfacente.
Sulla natura insaziabile del desiderio i tossicomani sono
d'accordo. Lo sanno anche se non hanno letto Platone.
È la droga ad averglielo insegnato. E a proprie spese hanno
imparato che "ci si droga per essere assuefatti" come
scrive William Burroughs," e che darsi alla droga è un full
time job, "un lavoro a tempo pieno" come dice Mark Renton
in Trainspotting. Ma siccome il tempo è la nostra vita,
e la nostra vita siamo noi, la tossicomania come rimedio
al dolore invoca per sé un altro rimedio.
Contro l'insaziabilità del desiderio Platone consigliava
il pensiero, Freud invitava a piegarsi al principio di realtà,
nel senso che per godere bisogna fare uno sforzo. E allora
contro la voluttà degli "scacciadolori" o Sorgenbrecher, come
li chiama Freud, che sono tanto le droghe quanto i farmaci
così agognati dal nostro cervello che ce la mette tutta
per diventare cronicamente desiderante ed in astinenza,
l'antropologa Giulia Sissa consiglia:
Mettiamoci a sedurre uomini, conquistare donne, guadagnare
denaro, scrivere un libro. Passiamo attraverso le persone e le cose.
{...} Dopotutto - ed è appunto il dopo che conta - si gode di più.
Un modo per dire: "Non ripudiamo il nostro desiderio",
ma per evitare che, dall'abisso della negatività che lo costituisce,
il desiderio si faccia insaziabile e cerchi nella droga
o nel farmaco quel piacere negativo che consiste nel riempire
la "giara bucata", facciamolo passare attraverso le persone
e le cose. Il piacere, infatti, va assecondato, non negato.
Si tratta solo di indicargli la via, come l'auriga di cui
parla Platone la indica al cavallo indomito.
E questo va raccomandato soprattutto alle campagne
pubblicitarie che, con le loro minacce e le loro raccomandazioni
tautologiche del tipo just say no (di' di no e basta),
mancano di efficacia perché trascurando la natura del desiderio
e la qualità del piacere dicono cose in cui sono del tutto
trascurati gli incanti della vita. E ognuno sa che, senza
incanti, la vita non ha più voglia di vivere.
2. Eroina: l'anestesia della droga "sporca".
Dovevamo aspettare Irvine Welsh, l'autore del romanzo
Trainspotting, per apprendere che l'eroina, considerata
una droga "sporca", anestetizza tutti i dolori, e che una
delle cause della sua diffusione è dovuta al fatto che
l'informazione, mentre terrorizza i giovani illustrando le
drammatiche conseguenze connesse all'assunzione della
sostanza, trascura di dire che l'eroina procura anche uno
sconfinato piacere. E così si relega il problema della droga
nel recinto ristretto del piacere-dispiacere come si fa con
il tabacco e con l'alcol, sottintendendo che, se la questione
è tutta lì, per uscirne basta la forza di volontà. Ma la questione
non è tutta lì, anzi non è proprio lì.
Alla base dell'assunzione delle droghe, di tutte le droghe,
anche del tabacco e dell'alcol, c'è da considerare se la
vita offre un margine di senso sufficiente per giustificare
tutta la fatica che si fa per vivere. Se questo senso non si
dà, se non c'è neppure la prospettiva di poterlo reperire, se
i giorni si succedono solo per distribuire insensatezza e
dosi massicce di insignificanza, allora si va alla ricerca di
qualche anestetico capace di renderci insensibili alla vita.
A differenza del piacere sessuale che è intenso, attivo e
produttivo, il piacere dell'eroina è anestetico. Chi lo cerca
non vuol sentire di più, ma sentir di meno, non vuole partecipare
più intensamente alla vita, ma prendervi parte il
meno possibile. Come i martiri, come gli eremiti che dicono
no al mondo perché nel mondo non scorgono alcun
senso e alcuna traccia di salvezza, così gli eroinomani si
sottraggono alla vita quotidiana perché la successione dei
giorni propaga solo quella noia senza speranza che ispessisce
l'aria che si respira fino al soffocamento. Di qui la
ricerca spasmodica di tutto ciò che può anestetizzare.
Il piacere dell'anestesia è il più sottile dei piaceri, forse
il più insidioso, senz'altro il più diffuso. Lo incontriamo
ogni volta che accendiamo una sigaretta per attutire noia
o stress, piccoli indizi della fatica di vivere, ogni volta che
ci affidiamo all'alcol per liberare quanto siamo costretti
abitualmente a reprimere. Tutto ciò avviene quando si è
detto sì alla vita e ci si vuol solo sostenere per mantenere
la promessa. Quando invece alla vita si è detto no, senza
neppure bisogno di dirlo perché è la vita stessa a non essere
mai sorta come una passione, allora si cerca un piacere
anestetico più forte, che vuol dire cercare un modo qualsiasi
per non esserci.
I recettori che l'eroina impregna fanno già da sé il lavoro
anestetico, ma se questo non basta perché la vita nella
sua insensatezza oltrepassa i nostri limiti fisiologici di
sopportazione, non resta che aiutare i nostri recettori a
renderci più insensibili a tutto ciò che non si ha più voglia
di sentire, né di vedere, né di sopportare.
Il problema allora non è quello di far sapere ai giovani
che, per evitare terribili conseguenze, bisogna saper
rinunciare al piacere che l'eroina indubbiamente dà, perché
chi inizia a bucarsi non ha in vista quel piacere, ma proprio
quelle terribili conseguenze a cui desidera arrivare
anestetizzato. Il no alla vita non è ciò che si trova alla fine
di un percorso intrapreso per la ricerca del piacere, ma è
ciò che si trova all'inizio del percorso, ciò che da subito ci
si propone di raggiungere nel modo più possibile
anestetizzato.
Questa è la ragione per cui quanti si fanno ripulire i
recettori dai farmaci si trovano, a lavaggio avvenuto, davanti
alla stessa insensata biografia del cui peso avevano cercato
di liberarsi con l'anestetico. Ma questa è anche la ragione
per cui quando la comunità terapeutica ha disintossicato
il drogato con il calore della comunicazione non
può che riconsegnarlo al mondo esterno dove quel calore
si raggela e il bisogno dell'anestesia ritorna più urgente.
La disintossicazione farmaceutica e la disintossicazione
comunitaria, l'una con la chimica l'altra con il calore
della comunità, alla fine restituiscono l'individuo alla sua
esistenza nuda e cruda, da cui un giorno quell'individuo si
era allontanato perché la vita non aveva "fatto presa". E
dove la vita non fa presa non c'è chimica né comunità che
tenga, c'è solo la voglia di non vivere come puro quantitativo
biologico. E se la biologia segue la sua legge o costringe
a vivere quella vita in terza persona scandita dai ritmi
dell'organismo, allora non resta che il piacere dell'anestesia,
quel sì alla vita, purché in nostra assenza, che è il sì di
ogni esistenza traghettata dalla droga.
I lettori di Trainspotting e quanti sono accorsi a vederne
la versione cinematografica non si lascino ingannare.
Sia il libro sia il film dicono che la droga è anche piacere,
e chiunque è libero di cercare il piacer suo e di preferire
una vita breve ma piacevole a una lunga ma insignificante.
Non è vero! Il piacere della droga non è la scelta di una
maggiore intensità della vita al prezzo della sua brevità, è
la scelta dell'astinenza dalla vita, perché questa, una volta
apparsa in tutta la sua insignificanza, prosegua pure il
tracciato della sua insensatezza, ma risparmiando almeno
il dolore. A questo tende il piacere della droga, ossia il piacere
dell'anestesia, a null'altro.
3. Ecstasy: l'euforia della droga "pulita".
Se l'eroina è una droga "sporca", che dire di quella droga
cosiddetta "pulita", come molti giovani ritengono sia
l'ecstasy, la più famosa delle cosiddette "nuove droghe",
che poi tanto "nuova" non è?
L'ecstasy, infatti, o MDMA come si chiama in chimica,
venne brevettata nel 1913 dalla compagnia tedesca Merk
come pillola dimagrante con delle comiche descrizioni dei
suoi effetti collaterali, ma non fu commercializzata.
Ritornò in auge nel 1953 quando l'esercito americano provò
una serie di droghe per usi militari. Messa sul mercato nel
1977, la MDMA vi rimase come droga terapeutica fino al
1985 quando la Dea, l'agenzia federale antidroga americana,
la rubricò nella tabella 1, la più restrittiva. Da allora
l'ecstasy, in un primo tempo battezzata "empaty" per la
sua capacità di favorire la comunicazione, fu lavorata in
laboratori clandestini e distribuita attraverso la rete degli
spacciatori.
Ricavo queste informazioni da un libro di Nicholas
Saunders, un personaggio da tempo presente sulla scena
alternativa londinese ed europea che, avvertendo la totale
mancanza di informazione su questa pillola cosiddetta
"pulita" che molti nostri giovani inghiottono il sabato sera,
decide di scrivere un libro per raccontarci i piaceri dell'ecstasy
e poi anche, come si conviene, la storia di questa pillola,
la composizione chimica, l'effetto che fa, i rischi a cui
si va incontro, gli effetti collaterali, il target sociale di chi la
consuma e tante altre cose scritte in modo un po' pedante,
un po' statistico, con stralci narrativi poco commoventi,
ma comunque già qualcosa in quella lotta al buio in cui
brancolano troppi genitori che ogni sabato sera si apprestano
a passare la loro nottata d'ansia per quei loro figli,
poco appariscenti e abbastanza integrati, che spendono il
loro tempo libero in quei santuari dove un'altra trinità ha
preso il posto di quella religiosa, e che, al pari di questa,
ha il suo cerimoniale in quella "techno-scena" composta
da techno-sound, techno-droga e techno-party. L'ecstasy è
la techno-droga, la seconda componente di questa trinità.
Sempre in questo libro leggo questo dialogo:
Dice la ragazza: "Non puoi mettere l'amore in una pillola".
E il ragazzo risponde: "Non sto dicendo questo. Non penso che l'ecstasy
crei un'esperienza d'amore. Penso che faccia qualcosa di molto
più umile e specifico. Elimina la paura. E tolta quella, l'amore
viene da sé".
Se confrontiamo il dialogo di questi giovani con quello
che possono aver sentito nella scuola che frequentano o da
cui sono appena usciti, dove non vien fatto alcuno sforzo
per informare, educare, mettere a disposizione quel complesso
corpo di informazioni che permette l'uso del giudizio,
la distanza diventa incolmabile.
Il messaggio della scuola, ma anche quello della televisione,
è che "le droghe uccidono". Friggono a fuoco lento
il cervello finché la frittata è fatta. Il rimedio è uno solo:
"Basta dire di no". Un "no" che riesce facile solo a quelli
che hanno già detto no all'eccesso di immaginazione, alle
vertigini della fantasia, alla forza dell'emozione, all'abisso
della disperazione, al bisogno spasmodico di comunicazione.
E dopo tutti questi no, che spesso molti giovani non
sono in grado di dire, possono anche dire di no alla droga.
Che significa tutto questo? Significa che l'attenzione deve
essere spostata dalle conseguenze dell'uso e dell'abuso
della droga alle cause. E solo allora la droga può apparire
per quello che è: non una dipendenza ormai diffusa su larga
scala nel mondo giovanile e non solo, ma un sintomo, se
non addirittura un tentativo disperato di rimedio a un disagio
che pare impossibile poter sopportare.
Se guardiamo le cose da questo punto di vista è più
istruttivo conoscere non solo i pericoli connessi all'uso della
droga, ma anche i piaceri dalla droga indotti. Perché solo
la conoscenza dei piaceri assicurati, o anche solo promessi,
può gettar luce sulla qualità della sofferenza e del
disagio che porta al consumo di droghe.
Gli effetti piacevoli dell'ecstasy possono sostanzialmente
essere ridotti a due: il sollievo della tensione muscolare e,
come riferiva il dialogo tra i due giovani, il dissolversi delle
paure. Il primo effetto, quello fisico, consente ai giovani del
sabato sera di ballare per trentasei ore senza avvertire la
fatica. Questo non significa che il corpo non si stanchi e
che la fatica non si paghi, semplicemente non se ne ha la
sensazione. Tutto ciò non è una gran bella cosa, perché le
soglie di dolore o di affaticamento sono lì ad avvertirci che
non possiamo fare del nostro corpo ciò che vogliamo, e che
i deliri di onnipotenza, anche se piacevoli, non cessano di
essere deliri che, a effetto concluso, presentano il conto.
Più interessante è l'effetto psicologico che si traduce
nel dissolvimento delle paure, sia nei confronti dei nuclei
profondi della propria personalità (al punto che alcuni
psicoterapeuti americani tra il 1977 ed il 1985, gli anni d'oro
dell'ecstasy in America, ne avevano sperimentato l'uso
per un più rapido rapporto con il proprio inconscio), sia
nei confronti degli altri a cui ci si relaziona in modo più
disinibito e affettuoso.
Per quanto concerne il rapporto con gli altri, si ha una
maggiore apertura e capacità di interazione dovute allo
scioglimento delle barriere difensive e a una diminuzione
della paura e dell'aggressività. Quest'ultimo tratto riduce
nei maschi la possibilità di rapporti sessuali, ma questo
rassicura le ragazze che possono celebrare il loro narcisismo
senza il timore di essere aggredite, perché il clima
che si crea è quello di un appassionato innamoramento o
di una insolita sensibilità verso il partner, sempre meno
specifico in termini di compagno di vita o incontro occasionale,
di omosessuale o eterosessuale.
Tra gli effetti spiacevoli vanno ricordati: sul versante
fisico il surriscaldamento con la possibilità, peraltro non
frequente, di morire per collasso da calore, per cui l'ecstasy
è cinque volte più tossico in condizioni affollate che in
isolamento; sul versante psicologico il possibile scatenamento
di attacchi epilettici o di attacchi psicotici, più frequenti
in personalità già predisposte.
Dalla qualità dei piaceri attesi o comunque promessi
sembra che i consumatori di ecstasy - e qui siamo al punto siano alla ricerca di una riduzione delle barriere che
nella nostra cultura rendono così difficile la comunicazione:
artificiale in pubblico e noiosa e ripetitiva nel privato.
Hanno scelto come strada la chimica, e come effetto la sua
azione sul proprio cervello e quindi sul proprio corpo.
Dell'anima non si fidano, con le sue possibilità non hanno
consuetudine, troppi sono stati i tentativi che non hanno
avuto successo. E allora quel che nella nostra cultura non si
riesce più a far con l'anima lo si fa con la chimica, pur di
riuscire a raggiungere quello scopo che è la comunicazione
e il contatto, al di là di tutte le barriere che ci costringono
nel recinto stretto della nostra solitudine di massa.
Si tratta di quella solitudine che i giovani, tra i quindici
e i venticinque anni, non tollerano e allora chiedono alla
chimica di precisare la loro passione che non sa orientarsi
tra i richiami del cuore o quelli del sesso, per celebrare
l'eccesso della vita nei riti del sabato sera, con sonno
diurno per smaltire, oltre agli effetti di una notte che
di "estasi" aveva solo il nome, le conseguenze distruttive
di quell'energia giovanile che le nostre società efficienti e
avanzate non sanno come utilizzare. Vivono di notte i nostri
giovani, perché di giorno nessuno li riconosce, nessuno
ha bisogno di loro. E loro lo sanno e non vogliono
sbattere ogni giorno la faccia contro il misconoscimento
della loro esistenza.
Per coloro invece che già sono inseriti nel mondo del
lavoro l'ecstasy rappresenta una liberazione dall'oppressione
dei ruoli, delle funzioni, dell'estetica della distanza e
della freddezza, che negli usi e costumi degli occidentali si
chiama "correttezza". Una parola elegante cresciuta nel
giardino della non-comunicazione, dove il contatto è
formalizzato, la parola stereotipata, lo sguardo impersonale,
il tutto all'insegna della non-confidenza che garantisce a
ciascuno di noi di ritirarsi dai rapporti senza offendere
nessuno.
Una sorta di "liberazione in vita (jivanmuktiviveka)
come si legge nel commento ai Veda di Vidyaranya, capo
del centro monastico sankariano di Srnegevi dove morì
probabilmente nel 1386. Pur nella radicale differenza
degli scenari c'è un punto in comune tra la via della
liberazione indicata dalla meditazione orientale e quella
freneticamente cercata dai consumatori di chimica occidentale:
la soppressione della mente perché, scrive
Vidyaranya:
La prosperità della mente è una rovina, la rovina della mente è
grande prosperità. Fino a che la mente non è stata vinta esercitandosi
a mantenere saldamente l'attenzione su una sola realtà, nel
cuore si levano le predisposizioni, demoni di mezzanotte. La mente,
infatti, è il mezzo della ruota dell'illusione, vincendo la quale, si
raggiunge l'assenza di paura (abhaya), l'estinzione del dolore, la
conoscenza di sé, come anche la pace imperitura.
Dunque le stesse cose che i nostri giovani cercano con
l'ecstasy, ma la via da essi percorsa rischia di sollevare
quelli che per la meditazione orientale sono i "demoni di
mezzanotte", proprio quelle predisposizioni che non danno,
ma tolgono la pace. Per raggiungere la pace, scrive ancora
Vidyaranya:
Vi sono due tipi di controllo: metodico e violento. Il controllo violento
delle facoltà sensoriali e di azione avviene tramite il controllo
delle loro sedi fisiche. È questa la via che non porta alla vera quiete,
e perciò è seguita solo dagli sciocchi che si adoperano a vincere
la mente con la violenza, che è come legare un grosso elefante
impazzito con filamenti di loto.
Non possiamo seguire le vie orientali perché siamo
occidentali, e se è delirio di onnipotenza sconfinare con l'ecstasy
oltre i limiti del proprio io, non lo è da meno sconfinare
in Oriente con l'anima gravida d'Occidente.
Ma se non possiamo seguire la via indicata dall'Oriente
evitiamo almeno di seguire quella sconsigliata, quella
dei "demoni di mezzanotte" e di credere che la chimica
possa farci raggiungere a fine settimana, su nostro comando,
qualcosa che assomigli a quello che in Oriente
chiamano Brahman-Nirvana. Coloro infatti che si nutrono
di ecstasy, anche se animati dal desiderio di sottrarsi
agli aspetti invivibili della cultura dell'Occidente, a loro
insaputa non fanno che confermare a livelli elementari quello
che è il tratto tipico di questa cultura, ossia la volontà di
potenza che nulla vuole se non che il mondo desiderato
accada a nostro comando.
4. Cocaina: l'eccitazione della droga "stimolante".
Qual è il bisogno sotteso all'uso sempre più diffuso di
cocaina e, in sua mancanza, al ricorso a psicofarmaci più
o meno stimolanti? Abbiamo così bisogno di tono, di
prontezza di prestazioni al massimo dell'efficienza che
non ci facciano sentire la stanchezza, lo sforzo, la fatica?
Oppure siamo così depressi che, senza quella sostanza o i
suoi sostituti, non sapremmo essere all'altezza di quanto
gli altri da noi si attendono o noi stessi pretendiamo da
noi? E infine di che genere è quella depressione che spinge
senza esitazione tanti giovani e non all'uso frequente e
spesso incontrollato di questa sostanza?
Sappiamo che le sofferenze dell'anima non sono patologie
fisse come quelle del corpo, perché subiscono l'influenza
dell'atmosfera del tempo e il clima che si diffonde.
Fu così che, a partire dagli anni settanta, la depressione
divenne la forma della sofferenza psichica per eccellenza,
che ha liquidato d'un colpo le forme "nevrotiche" che hanno
caratterizzato il Novecento, riducendo di molto le
chance della psicoanalisi nata e cresciuta come cura della
nevrosi.
La nevrosi, infatti, è un conflitto tra il desiderio che
vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il
desiderio. Come conflitto, la nevrosi trova il suo spazio
espressivo nelle società della disciplina che si alimentano
della contrapposizione fra il permesso e il proibito, una
macchina che i più adulti fra noi conoscono perché regolava
l'individualità fino a tutti gli anni cinquanta e sessanta.
Poi, a partire dal Sessantotto e via via nel corso degli anni
successivi, la contrapposizione fra il permesso e il proibito
tramonta per far spazio a una contrapposizione ben più
lacerante che è quella tra il possibile e l'impossibile.
Che significa tutto questo agli effetti della depressione
e quindi della cocaina e degli psicofarmaci eccitanti a cui
si ricorre come a un rimedio? Significa che nel rapporto
fra individuo e società la misura dell'individuo ideale non
è più data dalla docilità e dall'obbedienza disciplinare, ma
dall'iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati
che si è in grado di ottenere nella massima espressione
di sé. L'individuo non è più regolato da un ordine esterno,
da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi
di colpa (per cui il vissuto di colpevolezza era il nucleo
centrale delle forme depressive), ma deve fare appello alle
sue risorse interne, alle sue competenze mentali, alle sue
prestazioni oggettive, per raggiungere quei risultati a partire
dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni settanta in poi, la depressione
ha cambiato radicalmente forma: non più il conflitto
nevrotico tra norma e trasgressione, con conseguente senso
di colpa, ma, in uno scenario sociale dove non c'è più norma
perché tutto è possibile, il nucleo depressivo origina
da un senso di insufficienza per ciò che si potrebbe fare e
non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le
attese altrui, a partire dalle quali ciascuno misura il valore
di se stesso.
Questo mutamento strutturale della depressione, così
ben segnalato dal sociologo francese Alain Ehrenberg,
ha fatto sì che i sintomi classici della depressione, quali la
tristezza, il dolore morale, il senso di colpa, passassero in
secondo piano rispetto all'ansia, all'insonnia, all'inibizione,
in una parola alla fatica di essere se stessi.
E questo perché in una società dove la norma non è
più fondata, come in passato, sull'obbedienza, la disciplina
interiore ed il senso di colpa, ma sulla responsabilità
individuale, sulla capacità di iniziativa, sull'autonomia nelle
decisioni e nell'azione, la depressione tende a configurarsi
non più come una perdita della gioia di vivere, ma come
una patologia dell'azione, e il suo asse sintomatologico si
sposta dalla tristezza all'inibizione ed alla perdita di iniziativa,
in un contesto sociale dove "realizzare iniziative" è
assunto come criterio unico e decisivo per misurare e
sigillare il valore di una persona.
Di qui il ricorso alla cocaina e agli psicofarmaci stimolanti
per attutire l'ansia parossistica, oppure la perdita più
o meno estesa di iniziativa, l'inibizione all'azione, il senso
di fallimento e di scacco, fattori questi che entrano in
implacabile collisione con i paradigmi di efficienza e di
successo che la società odierna considera essenziali per riconoscere
dignità e significanza esistenziale a ciascuno di
noi. Del resto già Freud, considerando le richieste che la
società esigeva dai singoli individui, a più riprese si chiedeva
se alle volte:
Non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e
magari tutto il genere umano, sono diventati "nevrotici" per effetto
del loro stesso sforzo di civiltà? {...} Pertanto non provo indignazione
quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri
sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il
gioco non valga la candela e che l'esito non possa essere per il singolo
altro che intollerabile.
Questa intollerabilità, a parere di Freud, era dovuta
all'eccesso di regole che governano le società civili, e ciò consentiva
di inscrivere la depressione nel novero delle "nevrosi",
dove si registra il conflitto tra norma e trasgressione, con
conseguente vissuto di colpevolezza. Oggi le norme limitative
non esistono più, per cui ciò che un tempo era proibito è
sfumato nel possibile e nel consentito.
Per effetto di questo slittamento oggi la depressione
non si presenta più come un conflitto e quindi come una
"nevrosi", ma come un fallimento nella capacità di spingere
a tutto gas il possibile fino al limite dell'impossibile. E
quando l'orizzonte di riferimento non è più in ordine a ciò
che è permesso, ma in ordine a ciò che è possibile, la domanda
che si pone alle soglie del vissuto depressivo non è
più "Ho il diritto di compiere quest'azione?", ma "Sono in
grado di compiere quest'azione?".
Quel che è saltato nella nostra attuale società è il concetto
di limite. E in assenza di un limite, il vissuto soggettivo
non può che essere di inadeguatezza, quando non di
ansia, e infine di inibizione. Tratti, questi, che entrano in
collisione con l'immagine che la società pretende da ciascuno
di noi. E la coscienza di questo crudele fallimento
sul piano della responsabilità e dell'iniziativa, o anche sul
piano del mancato sfruttamento di una possibilità, amplifica
immediatamente i confini della sofferenza e dell'inadeguatezza
che sono presenti in ogni depressione e che i
modelli sociali dominanti rendono ancora più dolorose e
talora insanabili. Di qui il ricorso massiccio alla cocaina e
agli psicofarmaci "tonificanti".
Possiamo scorgere l'origine dell'odierna depressione in
due cambiamenti di tendenza registrati negli ultimi trent'anni
della nostra storia circa il modo di concepire l'individuo
e le possibilità della sua azione. Il primo cambiamento
si è registrato verso la fine degli anni sessanta,
quando la parola d'ordine dell'intero continente giovanile
era "emancipazione" all'insegna del "tutto è possibile", per
cui: la famiglia è una camera a gas, la scuola una caserma,
il lavoro, e il suo rovescio il consumismo, un'alienazione,
e la legge uno strumento di sopraffazione di cui ci si deve
liberare ("vietato vietare").
Una libertà di costumi fino ad allora sconosciuta si
coniuga ad un progresso delle condizioni materiali, e nuove
prospettive di vita diventano una realtà tangibile nel corso
del decennio. Se la follia, nel comune sentire dei primi anni
settanta, appare come il simbolo dell'oppressione sociale
e non più come una malattia mentale, questo è appunto
dovuto al fatto che tutto è possibile: il pazzo non è malato,
è solo diverso, e soffre proprio per la mancata accettazione
della sua diversità.
Su questa cultura preparata dal Sessantotto, ma che il
Sessantotto aveva pensato in termini sociali, si impianta,
per uno strano gioco di confluenza degli opposti, la stessa
logica di importazione americana, giocata però a livello
individuale, dove ancora una volta tutto è possibile, ma in
termini di iniziativa, di performance spinta, di efficienza,
di successo al di là di ogni limite, anzi con il concetto di limite
spinto all'infinito, per cui oggi siamo a chiederci:
qual è il limite fra un ritocco di chirurgia estetica e la
trasformazione in androide di Michael Jackson, fra un'abile
gestione dei propri umori attraverso farmaci psicotropi e
la trasformazione in robot chimici o in veri e propri drogati,
fra le strategie di seduzione troppo spinte e l'abuso
sessuale, fra il riconoscimento dei diritti degli omosessuali
e il diritto all'adozione, fra il desiderio di avere figli e le
tecniche artificiali per ottenerli, fra il diritto alla salute ed
al prolungamento della vita e la manipolazione genetica?
E questo solo per fare degli esempi che dimostrano come
le frontiere della persona e quelle fra le persone determinano
un tale stato d'allarme da non sapere più chi è chi.
Come scrive Augustin Jeanneau: "La liberazione sessuale
ha sostituito la preoccupazione di sbagliare con la
preoccupazione di essere normali". Espressione sintomatica
del cambiamento, non dissimile da quella segnalata
da Vidiadhar S. Naipaul:
Non potevo più rassegnarmi al destino. Il mio destino non era di
essere buono, secondo la nostra tradizione, ma di fare fortuna. Ma
in che modo? Che cosa avevo da offrire? L'inquietudine cominciava
a mangiarmi dentro.
E allora psicofarmaci, e se vogliamo anche un certo
piacere: droga. Tra l'odierna depressione e la dipendenza
da cocaina c'è infatti un parallelismo che approda ad una
sorta di complementarità. E questo perché sia la depressione
sia la tossicodipendenza, per differenti che possano
apparire, esprimono la patologia di un individuo che non
è mai sufficientemente se stesso, mai sufficientemente
colmo di identità, mai sufficientemente attivo, perché troppo
indeciso, troppo titubante, troppo ansioso, per cui
depressione e tossicodipendenza sono come il diritto e il rovescio
di una medesima patologia dell'insufficienza.
Il vissuto di insufficienza, causa prima della depressione
odierna, attiva la dipendenza da cocaina per le promesse
di onnipotenza che prospetta, lasciando intravedere la
possibilità di infrangere la barriera che ci separa da quella
meta agognata dove "tutto è possibile", "tutto è permesso".
In questo modo si radicalizza la figura dell'individuo
sovrano che paga naturalmente il conto con la schiavitù
della dipendenza, che è poi il prezzo della libertà illimitata
che l'individuo persegue.
Alimentando l'immaginario di poter maneggiare illimitatamente
la propria psiche, senza i rischi di tossicità delle
droghe "sporche", la cocaina sopprime i sintomi della
depressione, che è un arresto nella corsa sfrenata a cui siamo
chiamati e, accelerando la corsa, ci rende perfettamente
omogenei alle richieste sociali.
Mettendo a tacere il sintomo, vietando che lo si ascolti,
la cocaina induce il soggetto a superare se stesso, senza essere
mai se stesso, ma solo una risposta agli altri, alle esigenze
efficientistiche ed afinalistiche della nostra società,
con conseguente inaridimento della vita interiore, desertificazione
della vita emozionale, omogeneizzazione alle
norme di socializzazione richieste dalla nostra società a
cui fanno più comodo robot automatizzati e automi
impersonali che soggetti capaci di essere se stessi e di riflettere
sulle contraddizioni, sulle ferite della vita, e sulla fatica
di vivere.
Nel 1887, un anno prima di scendere nel buio della follia,
Nietzsche annunciava profeticamente "l'avvento
dell'individuo sovrano, uguale soltanto a se stesso, riscattato
dall'eticità dei costumi". Oggi, a più di cento anni dalla
morte di Nietzsche, possiamo dire che l'emancipazione ci
ha forse affrancato dai drammi del senso di colpa e dallo
spirito d'obbedienza, ma ci ha inesorabilmente condannato
al parossismo della prestazione, dell'iniziativa e dell'azione,
nella più assoluta incapacità di essere noi stessi al di
là delle richieste sociali di efficienza, iniziativa, rapidità di
decisione e di azione, di cui non è dato scorgere il limite.
5. Drogati e spacciatori: due pesi e due misure.
Negli anni settanta, la psichiatria cominciò a interrogarsi
non tanto sui metodi più idonei di cura, quanto sui
fondamenti teorici che giustificavano quei metodi. Questo
genere di interrogazioni suscitò reazioni ostili da parte
della città, sempre affamata di soluzioni e mai di problemi,
di risposte e mai di domande. A Socrate che, inaugurando
la filosofia, aveva messo in circolazione una serie
di domande, la città riservò la cicuta, una droga (pharmakon)
che, nel momento in cui veniva somministrata
dallo stato, diventava legale e contribuiva all'ordine.
Resta infatti da dimostrare che le droghe lecite, quelle
autorizzate dallo stato - alcol e tabacco, per non parlare di
quella droga chiamata "gioco" -, mietano meno vittime di
quelle illecite - hashish, eroina, cocaina - proibite dallo
stato. In questa strana incongruenza sembra si annidi non
solo una sorta di inganno ideologico che maschera quanto
vi è di inconfessabile nell'intenzione politica, ma anche
quella riduzione di libertà che l'uomo sperimenta su di sé
non per effetto delle strategie del potere (cosa che gli uomini
conoscono dall'inizio della loro storia), ma per effetto
delle persuasioni indotte dal sapere, rispetto alle quali le
strategie del potere, come ci ricorda Foucault, per quanto
accanite e brutali, sono povera cosa.
Con ciò non intendo puntare l'indice sulle delibere di
questo o quel governo, sulla manipolazione dell'industria
dell'informazione, sul bisogno di quanti trovano a buon
prezzo la loro innocenza individuando negli altri (drogati
e spacciatori) i capri espiatori della loro cattiva coscienza,
ma focalizzare un passaggio storico, avvenuto in epoca
illuministica, quando alla visione mitico-religiosa del mondo
è subentrata quella scientifica e, nella fattispecie, quella
medica.
È noto che l'uomo non ha mai abitato il mondo, ma
sempre e solo la descrizione che le varie epoche storiche si
sono incaricate di dare al mondo. Altro è vivere in un
mondo i cui riferimenti sono mitici, altro in un mondo i
cui riferimenti sono scientifici. Se questo è vero, può essere
che la droga sia diventata un problema non per la sua
composizione chimica, ma per il fatto di essere stata
sottratta al mondo mitico-rituale dove è sempre circolata con
la facilità e la semplicità con cui si esprimono tutte le abitudini
della vita quotidiana, per essere inserita in un mondo
scientificamente determinato, in cui la ritualità, che
cadenza comunque la vita dell'uomo, non trova più la sua
andatura, perché il fattore chimico agisce nell'immaginario
collettivo con l'inesorabilità che la crudeltà di un dio
neppure sfiora.
Nella descrizione mitico-religiosa del mondo c'era più
considerazione per l'uomo non ancora ridotto, come nella
descrizione scientifica del mondo, a semplice organismo.
Con questo non si vuol assolvere nessuna delle crudeltà che
in nome di Dio sono state inflitte agli uomini, ma semplicemente
dire che sotto ogni crudeltà e punizione e tortura, fino
al supplizio della morte, c'era sottesa l'idea che l'uomo è
libero di fare sia il bene sia il male e, proprio per ridurre
questa riconosciuta libertà, si rendevano necessarie crudeltà,
punizioni e torture, fino al supplizio della morte.
La scienza non riconosce all'uomo la sua libertà, e questo
non perché è giunta a scoperte incontestabili, ma perché
non rientra nel suo metodo, regolato dal determinismo
della ragione matematica, prendere le mosse da una
simile ipotesi. Per queste sue esigenze di metodo, la scienza,
a partire da Cartesio, fu costretta a trasformare il corpo
vivente in organismo, e a indagare l'organismo come
il fisico indaga un campo di forze.
Per effetto di questa oggettivazione, l'uomo è diventato
una cosa, la cui espressione è leggibile nelle forze che la
determinano. E come un ponte costruito per sostenere
cinque tonnellate è impensabile che "si impegni" a reggerne
dieci, così l'uomo, ridotto a organismo, è impensabile
che "si impegni" a reggere una dose di droga. Una volta
che si prescinde dal concetto di libertà si giunge al misconoscimento
delle capacità di autocontrollo dell'uomo, che
inevitabilmente porta, "su base scientifica", al controllo
esterno dell'uomo ridotto a cosa.
Nella visione mitico-religiosa l'uomo è visto come un
attore responsabile delle sue azioni, che possono essere
insidiate dalla tentazione a cui l'individuo può resistere o
soccombere. Non c'è visione mitico-religiosa che non
prenda le mosse da una tentazione originaria in cui, insieme
alle catastrofi previste come conseguenza del cedimento
alla tentazione, c'è una celebrazione della libertà
dell'uomo. Nella visione scientifica del mondo l'uomo è un
organismo che non agisce liberamente, ma si esprime come
risultato di una dinamica di impulsi o forze pulsionali
individuabili a un'attenta analisi psicologica se non addirittura
biologica.
In questo scenario, dove il concetto di "tentazione" che
si offre alla libertà dell'individuo è stato scientificamente
tradotto in quello di "forza pulsionale" che agisce alle
spalle dell'individuo, è ovvio che per il contenimento di
quest'ultima non ci si potrà affidare all'autocontrollo che
l'immagine della tentazione evoca, ma al controllo esterno
evocato dall'immagine di forza pulsionale che agisce in un
soggetto al di là della sua libertà.
Ma allora spontanea sorge la domanda: la droga è
mortale perché più forte della libertà del soggetto, o perché
la visione scientifica dell'uomo, non ospitando la categoria
della libertà ma solo quella della dinamica delle forze,
visualizza la droga come una forza a cui nulla si oppone se
non una forza esterna superiore e contraria?
Come ci ricorda Thomas Szasz," vedere nel drogato
una persona che liberamente cede a una tentazione è ben
altra cosa che vederlo come una vittima che non può non
soccombere a una forza pulsionale irresistibile. La visione
mitico-religiosa dell'uomo riconosce al drogato la libertà,
dal cui cattivo uso consegue la punizione, anche nelle forme
più crudeli che la storia testimonia. La visione scientifica
dell'uomo, invece, è disposta a restituire al drogato
l'innocenza (è una vittima), solo perché prima non gli ha
riconosciuto la libertà di autodeterminarsi e di autocontrollarsi,
avendo visualizzato la droga non come una tentazione,
ma come una forza (irresistibile).
Analoga sorte spetta allo spacciatore. In uno scenario
mitico-religioso lo spacciatore occupa il posto del diavolo
tentatore o di una Eva tentatrice che mette alla prova Adamo.
"Mettere alla prova" non è di per sé qualcosa di diabolico
o di esecrabile, ma è semplicemente il passaggio
necessario richiesto per uscire dall'infanzia attraverso l'esercizio
della libertà. Se aboliamo il concetto di tentazione
che sottintende quello di libertà, lo spacciatore è colui che
innesca la "forza irresistibile" a cui la vittima non può che
cedere. E allora nasce quella sociologia a due pesi e a due
misure per cui il tentatore non "mette alla prova", ma
"commette un reato", e il tentato che cede non è un "colpevole",
ma gode dell'innocenza della "vittima".
I risultati di questa sociologia, che su base scientifica
opera con due pesi e due misure, sono visibili in tutte le
strade della nostra città, dove la prostituta in quanto tentatrice
è perseguitata dalla legge, mentre il cliente, in
quanto cede a una forza a cui non può resistere, è innocente
o al massimo, indipendentemente dalla sua volontà,
è "disturbato nella sua condotta" e quindi di nuovo innocente.
Lo stesso dicasi per il drogato, che non può fare a
meno di comportarsi come fa, e quindi è innocente, mentre
lo spacciatore, in quanto tentatore, è un criminale
diabolico.
Ma perché questa sociologia che fa tesoro delle scoperte
scientifiche mantiene la categoria mitico-religiosa della
tentazione per lo spacciatore e per la prostituta, e adotta invece
la categoria psico-biologica della forza irresistibile per
il drogato e il cliente della prostituta? Per sottrarre al drogato
e al cliente anche la sola ipotesi di avere a disposizione
la libertà dell'autocontrollo, perché solo persuadendo gli
uomini che non si possono autocontrollare si può esercitare
su di loro il controllo esterno a cui il potere per sua natura
e per sua essenza tende.
E così, concedendo a spacciatori e prostitute la prerogativa
della "libertà", è possibile adottare nei loro confronti
tutta quella serie di controlli, punizioni e reclusioni di
cui la storia mitico-religiosa offre una ricca documentazione,
mentre, adottando per il drogato e per il cliente della
prostituta la categoria scientifica della "forza irresistibile"
da cui scaturisce la loro innocenza, è possibile applicare
a essi, con la benedizione della scienza medica, quel
controllo esterno che è il dovere della cura.
Con due pesi e due misure, utilizzando insieme due
visioni del mondo, quella mitico-religiosa e quella scientifica,
tra loro antitetiche, il potere raggiunge in entrambi i
casi il suo scopo che è quello di negare l'autocontrollo,
come prerogativa inalienabile dell'uomo, per esercitare sugli
uomini il suo controllo.
Il problema della droga non può essere adontato solo a
livello sociologico dove, tra test e campionature, lo sguardo
resta in superficie senza mai azzardare uno strato di
profondità; e neppure a livello psicoanalitico perché, non
essendo ancora riuscita ad emanciparsi dal seno materno, la
psicoanalisi vede latte succhiato dal seno sia nel bicchiere
dell'alcolista sia nella siringa del drogato.
Il problema della droga va affrontato anzitutto a livello
di storia delle idee, quindi con uno sguardo filosofico, che
può sembrare inutile ed essere trascurato per negligenza,
per pigrizia o per una certa fatica che tutti avvertiamo di
fronte all'astrattezza, ma non può essere evitato, se non si
vuol scambiare per razionale ciò che è semplicemente conseguente
a una determinata visione del mondo, dalla cui
insidia non ci difenderà mai la nostra ignoranza.
6. Per una cultura della droga.
Le strategie oggi in campo per trovare una via d'uscita
al problema della droga sono l'approccio organicista della
disintossicazione farmacologica e l'approccio biograficoesistenziale della comunità terapeutica, che appare più rispettoso
dell'individuo e delle sue scelte. Pur nella loro radicale
differenza, entrambe le strategie restringono il problema
della droga al problema della tossicodipendenza, dove
la parola più importante è "dipendenza", in cui vengono
a trovarsi quei soggetti che affidano alle droghe l'incapacità
di gestire la loro autonomia.
Così facendo sia l'approccio organicista sia quello
biografico-esistenziale promettono di più di quanto medici e
operatori di comunità, in piena coscienza, possono davvero
attendersi. Infatti, il metodo farmacologico della disintossicazione
rapida non fa che ripulire i recettori (anche
se non è da escludere che una certa "impregnazione" ancora
rimanga), senza intaccare la biografia del soggetto
che ha trovato nell'assunzione della droga l'unico modo
per poter sopravvivere. Ma se l'incontro con la droga è un
incontro biografico (i recettori vengono dopo) che farà
quella biografia nello stesso contesto di vita con i recettori
ripuliti?
Ma anche la comunità terapeutica promette di più di
quanto non mantenga. Qui la scommessa è con l'uomo,
non con i suoi recettori. In comunità si instaurano stili di
vita, abitudini, relazioni diverse rispetto a quelle consolidate
nelle strade buie e periferiche delle nostre città. Ma
poi si riesce a uscire dalla comunità capaci di vivere senza
quel tessuto di relazioni comunitarie a cui il bisogno di
dipendenza si è ancorato come un tempo alla droga?
Non sarebbe più corretto dire che le comunità assolvono
la funzione che un tempo assolvevano i conventi, dove
uomini bisognosi di regole riuscivano a esprimere il meglio
di sé, fino alla santità, purché tutelati dalle mura del
chiostro e dall'ordine rigoroso delle regole? Può darsi che
per congedarsi dalla droga sia necessario anche un parziale
e forse definitivo sacrificio della propria autonomia, e allora
diciamolo, e in questo modo creeremo una cultura per
cui, come un tempo, un figlio o una figlia in convento non
rappresentavano una tragedia.
In realtà le cose non stanno così, perché lo scenario
della tossicodipendenza non esaurisce il mondo della droga
che, oltre a essere ben più vasto e variegato, è scarsamente
leggibile sulla base della distinzione elementare tra
"droghe pesanti" e "droghe leggère", non perché la differenza
non esista, ma semplicemente perché la cultura giovanile
non rispetta questa differenza.
Con ciò non voglio dire che dalle droghe leggère si passa
a quelle pesanti, ma che le une e le altre sono di continuo
mescolate nella pratica quotidiana, per cui se quasi
tutti fumano gli spinelli (non chiudiamo troppo gli occhi
nella beatitudine della nostra disattenzione assopita),
molti tra di essi al sabato sera in discoteca si fanno di ecstasy,
quando càpita si calano un acido, e se non si bucano,
difficilmente rifiutano di sniffare un po' di cocaina e
all'occasione anche un po' di eroina, per non dire, per i
meno fortunati, delle ubriacature dei fumi di benzina in
mancanza d'altro.
A questo punto se vogliamo allargare il discorso dal
problema della tossicodipendenza a quello più generale
della droga, vista la diffusione sempre più capillare del
fenomeno, nonostante i sonni tranquilli dei genitori, degli
insegnanti e degli educatori, spingiamoci un passo più in
là, oltre il limite dell'ipocrisia. E allora come abbiamo
creato una cultura dell'alcol, per cui sempre meno incontriamo
gente che beve quattro litri di vino al giorno, come
abbiamo creato una cultura del tabacco, per cui sempre
meno incontriamo gente che fuma ottanta sigarette al
giorno, così si potrebbe creare una cultura della droga a
partire dalla scuola.
La scuola, anche nei rari casi in cui riesce a trasmettere
qualche contenuto culturale, quasi mai tiene conto della
creatività, delle emozioni, delle identificazioni, delle
proiezioni, dei desideri, dei piaceri e dei dolori che costellano
la crescita giovanile, dove l'emozione, un tempo contenuta
dalla povertà sociale e dalle istituzioni giovanili oggi
in via di estinzione, vaga senza contenuti a cui applicarsi,
ciondolando pericolosamente tra istinti di rivolta, che
sempre accompagnano ciò che non riesce a esprimersi, e
tentazioni di abbandono in quelle derive di cui il mondo
della discoteca, dell'alcol e della droga sono solo esempi, e
neppure quelli estremi, se solo pensiamo ai suicidi.
Per questo è necessario che a scuola, e in quel suo
sostituto che è la televisione, si parli di droga in modo analitico,
determinato, scientifico e persino filosofico, in modo
che i giovani sappiano che cosa assumono, che effetto fa,
che danni procura, che piaceri promette e da che visione
del mondo scaturisce.
L'ignoranza non ha mai salvato nessuno e l'ignoranza
dei giovani a proposito della droga è pari alla sua diffusione.
Una cultura della droga toglierebbe la droga dal segreto
e la priverebbe di quel fascino iniziatico che, tra i molti,
è forse l'aspetto più attraente e più invitante. Ma possiamo
sperare in una cultura della droga se nelle nostre scuole
non è ancora avviata una cultura del sesso, quando per i
nostri giovani il sesso non è neppure più un tabù?
Per tentare di capire il disagio sotteso al consumo della
droga dobbiamo smettere di pensarci a partire dall'animalità
come pretende la nostra cultura quando ci definisce
"animali ragionevoli". Imprigionati da questa definizione,
guardiamo le nostre passioni come gli animali
guardano alla loro fame e alla loro sete, pure esigenze da
soddisfare. Mai ci ha sfiorato il sospetto che le nostre passioni
non abbiano tanto un bisogno da soddisfare quanto
un senso da dischiudere. Non abbiamo mai riconosciuto
loro dell'intelligenza. Rinchiuse nel fondo opaco e buio
dell'animalità, le abbiamo considerate sempre come qualcosa
da contenere.
Cos'altro significa infatti essere "ragionevoli"? Non
essere ostinati, adattarsi alla realtà così com'è, controllare le
emozioni profonde, guardarsi dagli amori passionali non
meno che dagli odii. La ragione è misura, e chi non vi si
attiene ospita quel desiderio "fuori misura" che lo colloca
fuori dalla ragione. Ma il desiderio rimanda alle stelle
(de-sidera), allo struggimento delle passioni. In mezzo
l'immenso vuoto che separa l'abisso delle passioni dall'altezza
del cielo. Certo la droga non colma questo vuoto, ma
è in questo vuoto che essa nasce come desiderio, come
anelito, come brama di vedere dove conducono le passioni,
a cosa aspirano, a cosa tendono.
Le stelle sono in cielo, non a portata di mano. Dal cielo
cade la pioggia, ma non cade anche l'azzurro. E chi vuole
dal cielo anche l'azzurro? Non credo, infatti, che chi si
droga voglia solo riempire un vuoto, o cerchi un generico
desiderio di evasione fino alla perdita della memoria di sé.
Penso che chi si droga voglia sperimentare ben altro, la
morte per esempio. Non tanto come fatto, come esito biologico
di un organismo che si disfa, ma come esperienza
del morire e del rinascere che la nostra cultura, impegnata
solo a esorcizzare la morte, più non concede, mentre i
drogati forse la cercano, quasi per un'impossibilità di
accettare una vita che sia puro accumulo e non anche rinnovamento.
A ricordarcelo è Luigi Zoja, secondo il quale:
Occorre ripristinare una cultura che non si ponga, rispetto alla
morte, in un rapporto di semplice opposizione, che non la percepisca
solo come la massima patologia del corpo, ma anche come una
esperienza di trasformazione dell'anima, e che non cerchi di negarla,
sentendola solo come fine, ma la valuti anche, simbolicamente,
come inizio. La società in cui l'iniziazione aveva un ruolo istituzionale
era anche una società in cui la morte aveva un posto ufficiale.
Queste due condizioni sono venute a mancare, non a caso,
contemporaneamente.
Se il nostro tempo, regolato dalla rigida razionalità
imposta dalla tecnica, ha espulso quelle che pure erano, e
forse sono ancora, le grandi passioni dell'uomo, c'è da
meravigliarsi se qualcuno le sperimenta secondo quelle
modalità eroiche che portano fin dall'inizio i segni della
sconfitta? Perché con i drogati si passa subito alla cura? Che
paura esiste a capire ed a leggere cosa vogliono raccontare
con la loro immolazione negli angoli più insignificanti
delle nostre città? Perché si guarda ai margini solo per
rassicurarsi della nostra non-emarginazione? Perché si
guarda ai bordi solo per sapere dove si deve contenere la
nostra scrittura? E che cosa scriviamo, contenuti nei bordi,
se non ricalcando parole già scritte che non debordano
mai, che non vogliono capire di più?
Quel che resta da capire è la forma assunta dalla nostra
vita che il drogato rifiuta. Il suo percorso è quello del sacrificio,
neppure eroico perché non avviene sull'ara, ma ai
bordi. Resta comunque il suo messaggio alla città che non
mette più in circolazione la morte e la rinascita, ma solo la
crescita, il progresso, lo sviluppo. In fondo gli uomini non
hanno mai creduto, e forse ancora non credono, che questo
itinerario possa avere un andamento tranquillo.
Certo ci affrettiamo a porre rimedio a tutti i mali, ma
forse la fretta dei rimedi ha come sua lontana radice il desiderio
di non vedere e non accettare il male per quello
che ha di costruttivo e non solo di distruttivo. Ma questo
sguardo esige lavoro. È un po' come l'azzurro del cielo che
non cade con l'acqua, ma chiede di essere rapito.
7. Il gesto estremo.
Non importa se la gola è strozzata da un laccio, o
se l'acqua soffoca il respiro, o se è il duro terreno
a spezzare il cranio di quel che vi si schianta a
capofitto, o ancora se sia una boccata di fuoco a
mozzare il fiato. Sia come sia: la fine è veloce.
SENEcA, Ad Lucilium de providentia, 6, 9.
1. Il gesto omicida.
L'hanno trovata morta in un cascinale abbandonato,
vicino alla sua abitazione. Non si sa se il ragazzo che ha
confessato il delitto abbia agito da solo od insieme ad altri,
che per ora restano in quella cupa ombra dove la sessualità
si mescola alla violenza, in quel cocktail micidiale che,
a dosi massicce, la televisione quotidianamente distribuisce
nell'indifferenza generale. Quel che è certo è che una
giovane ragazza di quattordici anni, che era uscita con le
chiavi di casa e il suo cellulare, come fanno tutti i ragazzi
della sua età, a casa non è più tornata.
"Omicidio volontario premeditato, senza movente":
questa è la sentenza per tre ragazze di sedici e diciassette
anni che hanno confessato di aver ucciso una religiosa del
convento di Chiavenna. Si uccide per amore, si uccide per
vendetta, si uccide per odio. Le tre ragazze hanno ucciso
"senza movente", come le loro coetanee di Castelluccio dei
Sauri, condannate all'ergastolo per aver ucciso una loro
amica "senza movente".
Ed è proprio questo "senza movente" la cosa che più
preoccupa, e che inquieta ancor più dell'omicidio perché,
una volta spezzato il nesso di causalità che di solito esiste
tra un'azione e la sua motivazione, tutto si fa buio, indecifrabile,
incomprensibile, e tutto può accadere, anche la
cosa più terribile, senza che un segno, un sintomo, un indizio
possa far presagire alcunché.
Fin dai suoi primordi l'umanità si è difesa dall'angoscia
dell'imprevedibile andando affannosamente alla ricerca
di nessi di causalità che consentissero, in presenza
di un evento, di reperirne la causa. Quando la causa non
era reperibile su questa terra, la si cercava in cielo,
nell'intervento di Dio. Da qui sono nate le religioni, che rispondono
al bisogno irrinunciabile di rintracciare nessi di causalità
per non brancolare nel buio e nell'indecifrabile di
fronte agli eventi incomprensibili della terra.
Per ironia della sorte, l'operazione dei carabinieri
chiamati a indagare sull'omicidio della religiosa è stata battezzata
"Raggio di luce". In realtà è buio pesto. Buio sul movente
che pare non ci sia, non potendosi chiamare
"movente" il bisogno delle tre ragazze di "emozionarsi", e buio
nei loro cuori e nelle loro facce atoniche, se è vero che chi
ha assistito al loro interrogatorio è rimasto sconvolto dalla
totale indifferenza, tranquillità e serenità con cui le ragazze
hanno risposto alle domande del procuratore, come
se nulla fosse accaduto, o nulla per davvero le riguardasse.
Ma chi sono questi ragazzi e queste ragazze che uccidono
"per gioco", per "provare un'emozione"? Come è fatto
il loro mondo? Non dico il mondo dei giovani in generale,
ma il mondo di questi adolescenti, che pure frequentano
la scuola e dei quali Marco Lodoli ha descritto l'apparato
cognitivo in questi termini:
A me sembra che sia in corso un genocidio di cui pochi si stanno
rendendo conto. A essere massacrate sono le intelligenze degli adolescenti,
il bene più prezioso di ogni società che vuole distendersi
verso il futuro. {...} La mia non è una sparata moralistica di chi
rimpiange i bei tempi in cui i ragazzi leggevano tanti libri e facevano
tanta politica. Io sto notando qualcosa di molto più grave, e cioè
che gli adolescenti non capiscono più niente. I processi intellettivi
più semplici, un'elementare operazione matematica, la comprensione
di una favoletta, ma anche il resoconto di un pomeriggio passato
con gli amici o della trama di un film sono diventati compiti
sovrumani, di fronte ai quali gli adolescenti rimangono a bocca
aperta, in silenzio. {...}
In ogni classe ci sono almeno due o tre studenti che hanno bisogno
di insegnanti di sostegno, non per qualche handicap fisico o qualche
grave disturbo mentale. Semplicemente non capiscono niente,
non riescono a connettere i dati più elementari, a stabilire dei nessi
anche minimi tra i fatti che accadono davanti a loro, che accadono
a loro stessi. Sono appena più inebetiti degli altri, come se li
precedessero di qualche metro appena nel cammino verso il nulla.
Loro vengono considerati ragazzi in difficoltà, ma i compagni di
banco, quelli della fila davanti o dietro, stanno quasi nelle stesse
condizioni. {...} Non riescono a ragionare su nessun argomento
perché qualcosa nella testa si è sfasciato. Vi prego di credermi, non
sono un apocalittico, sono semplicemente un testimone quotidiano
di una tragedia immensa.
A questa diagnosi, che posso tranquillamente confermare
perché questi stessi ragazzi li ascolto quattro o cinque
anni dopo, un po' più evoluti ma non tanto, all'università,
resta solo da aggiungere che carenti non sono solo i
nessi cognitivi, verbalizzati con un linguaggio che più povero
non si può immaginare, ma anche quelli emotivi, per
cui viene da chiedersi se questi ragazzi dispongono ancora
di una psiche capace di elaborare i conflitti e, grazie a
questa elaborazione, in grado di trattenersi dal gesto.
È morta a sedici anni Monica, che frequentava un istituto
magistrale a Sesto San Giovanni, uccisa dal suo
fidanzatino che frequentava lo stesso istituto e che, durante
l'intervallo, le ha reciso la giugulare. Monica era tra le più
brave della classe; il suo fidanzatino, nonostante fosse in
ritardo di un anno, non se la cavava male. Il loro ambiente
sociale era medio-borghese.
Si conoscevano e si frequentavano da tre anni. Forse
erano alla fine del loro rapporto. Di certo è che, con il loro
rapporto, hanno finito anche la loro vita. Lei per sempre,
lui non potrà più continuare quella di prima. Il tutto a
scuola, sotto gli occhi dei loro compagni e spero anche di
qualche professore, uno dei quali ha dichiarato: "Davanti
a una tragedia così, non c'è nulla da dire".
E se i professori, che hanno questi ragazzi tutti i giorni
sotto gli occhi, non hanno nulla da dire, che speranza possiamo
avere noi nella scuola che, se non è la sola responsabile,
certamente non è innocente, perché non si può trascorrere
ogni giorno quattro o cinque ore in mezzo ai ragazzi
senza sapere neppure chi sono, e che cosa passa nelle
loro teste vuote e nei loro cuori pieni.
I professori entrano in classe. Ma li vedono in faccia
questi ragazzi? Li guardano a uno a uno? Li chiamano per
nome? O solo per cognome quando devono essere interrogati?
Sanno che la generazione di giovani con cui oggi hanno
a che fare, non per colpa dei professori ma a causa delle
rapidissime trasformazioni economiche, sociali e tecnologiche
che li coinvolgono, sono di una fragilità emotiva
impressionante? Sanno che l'emozione, se non trova il veicolo
della parola, ricorre al gesto? Gesto truculento d'amore
o gesto truculento di violenza?
Ma chi doveva insegnare a questi ragazzi a parlare, a
utilizzare quell'abbondante letteratura a loro disposizione
che insegna come un'emozione trova forma di parola, di
poesia e di sublimazione dell'amore e del dolore? Altrimenti
perché leggere Petrarca e Leopardi, Pirandello o Primo
Levi? A quell'età la letteratura o è educazione delle emozioni,
o altrimenti vale la pena di gettarla, e, come già si sta facendo,
piazzare tutti gli studenti davanti a un computer e
renderli efficienti in questa pratica visivo-manuale.
Vogliamo renderci conto che le emozioni scoppiano
nell'adolescenza quando i figli allentano, se non chiudono,
la comunicazione in famiglia, e l'unico sbocco comunicativo
resta l'ambiente scolastico che su queste emozioni deve
lavorare? Anzi questo è il suo primo compito, perché
senza emozione non si crea nessun interesse e senza interesse
nessuna volontà di applicazione.
E allora guai se tra i banchi di scuola, nel disinteresse
emotivo dei professori, lo studente finisce per trovare solo
quanto di più lontano e astratto c'è in ordine alla sua vita,
in quella calda stagione dove il sapere, per difetto di trasmissione,
non riesce a diventare nutrimento della passione
e suo percorso futuro.
2. Il gesto suicida.
Cari genitori, chi sono quei nostri figli che, senza nulla
dire, se ne vanno per sempre con la stessa semplicità con
cui si esce di casa? In Italia, infatti, tra i giovani sotto i
venticinque anni, il suicidio è la seconda causa di morte
dopo gli incidenti automobilistici, che solo per un differente
livello di coscienza possiamo tenere distinti dai suicidi
veri e propri che sono comunque quattromila all'anno,
di cui il sessanta per cento nell'età compresa tra i quindici
e i venticinque anni.
Mi rivolgo a voi, cari genitori, dopo essermi rivolto agli
insegnanti, molti dei quali impegnati a far domanda di
prepensionamento perché più non reggono le loro classi, e
siccome voi in pensione dalla vostra funzione genitoriale
non potete andarci mai, con voi c'è forse più tempo e più
disponibilità per provare a capire quel deserto affettivo
che sembra sia diventato il paesaggio abituale di molti dei
nostri figli.
Un deserto che si espande da quel presente muto, in
cui disabitano per invivibilità ogni evento, al passato che
ha desertificato amori che non si sono radicati, creatività
estinte al loro sorgere, ricordi che non hanno nulla a cui
riaccordarsi, in quella solitudine frammentata dove l'identico,
nella sua immobilità senza espressione, coglie
quell'altra faccia della verità che è l'insignificanza dell'esistere.
Non si può parlare neppure di disperazione, perché la
loro anima non è più solcata dai residui della speranza. E
le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti, più
o meno sincere, le parole che non si rassegnano, le parole
che insistono, le parole che promettono, le parole che
vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono tutte
attorno a loro come rumore insensato.
Bisogna avere il coraggio di vivere fino in fondo anche
l'insignificanza dell'esistenza per essere all'altezza di un
dialogo con loro. E solo muovendosi intorno a questa loro
verità, che è poi la verità che tutti gli uomini si affannano
a non voler sentire, può aprirsi una comunicazione.
Comunicazione rischiosa, perché può tradire la nostra
insincerità. Anche se giovane, chi ha deciso di morire è
sensibile al volto che smentisce la parola, e il suo silenzio
smaschera la finzione e l'inconsistenza. Perciò i volti dei
nostri figli sono spesso rigidi e pietrificati. Abitando la verità
dell'esistenza con tutto il suo dolore, essi non stanno
al doppio gioco della parola che danza disinvolta sull'insensatezza
della vita, o che, impegnata, indica una formazione
di senso, laggiù ai confini del deserto.
Essi sanno che il confine, come l'orizzonte, è sempre al
di là di ciò che di volta in volta appare come confine ed
orizzonte. Sanno che non c'è gioia nell'esserci, non c'è felicità
nella sequenza dei giorni. Il sole che muore è lo stesso
che risorge e, nel cerchio perfetto che il ritorno disegna,
naufraga, secondo verità, il progetto che per un giorno s'era
levato per reperire un senso nella vita.
L'invisibile armonia del cerchio che ripete se stesso
spezza ogni irruzione rumorosa del senso. Il loro sguardo
di pietra vede troppa progettualità nello sguardo degli uomini,
troppa speranza che vuole seppellire disperazione,
troppo desiderio che la fine si traduca in un fine. E allora
il loro silenzio va ascoltato perché dice la verità che, con la
nostra vita euforica, ogni giorno noi seppelliamo per la
gioia della nostra epidermide, perché il loro sguardo di
pietra è un atto d'accusa al silenzio che abbiamo imposto
al nostro cuore.
Il colloquio è fatto solo di parole, ma le parole non si
dicono solo, si ascoltano anche. Ascoltare non è "prestare
l'orecchio", è farsi condurre dalla loro parola là dove la parola
conduce. Se poi, invece della parola, c'è il loro silenzio,
allora ci si fa guidare da quel silenzio.
Nel luogo indicato da quel silenzio è dato reperire, per
chi ha uno sguardo forte ed osa guardare in faccia il dolore,
la verità avvertita dal loro cuore e sepolta dalle nostre parole.
Questa verità, che si annuncia nel loro volto di pietra,
tace per non confondersi con tutte le altre parole. Parole
perdute per l'evento che ogni giorno tentiamo di disabitare
dietro le maschere in cui sono dipinte ovvietà, incrostazioni
di felicità, o recitate euforie.
Finché si parla della malinconia giovanile con le parole
ed i toni dell'atto consolatorio non si capisce la sua
verità, che fa retrocedere tutte le parole nell'inarticolato che
inabissa nel silenzio. Perforando il silenzio è possibile raggiungere
quel grido taciuto che è tale perché non c'è parola
che possa esprimerlo. Allora il silenzio diventa tumultuoso,
e la loro malinconia prende a parlare, non con le
nostre parole assolutamente euforiche o inutilmente
consolatorie, ma con quelle rotture simili alla lacerazione delle
ferite quando l'anima le conosce come ferite mortali.
E allora un invito ai genitori, soprattutto a quelli che si
rivolgono ai figli solo per sapere come sono andati a scuola,
e ai professori per ricordar loro che, quando sono a
scuola, non hanno di fronte una "classe", ma tante facce
diverse da guardare per davvero in faccia, a una a una,
senza nascondersi dietro la scusa che non si è psicologi,
perché non si è neppure uomini se non ci si accorge della
sofferenza di un giovane.
A giovani siffatti, probabilmente disattenti a scuola,
non perché la materia non è interessante, ma perché nulla
è più interessante, che dice la scuola? E soprattutto quando
avverte quei passaggi d'atmosfera in adolescenti che
troppo presto, saltando tutte le stagioni, passano dalla primavera
a cui la vita li aveva immessi in quell'inverno
dell'anima dove anche il rigore del gelo si fa sempre meno
avvertito, che dice la scuola?
E che dicono quelli che sono intorno a questo freddo,
che dopo diventa un gelido addio, quando neppure sanno
e neppure avvertono che una distanza, un tempo colmabile,
è stata trascurata al punto da divenire abissale ed
impercorribile? In quel momento, nell'innocenza di tutti,
impercettibilmente, un adolescente, ogni giorno, senza neppure
lasciare tracce, dice "addio".
So che la prevenzione al suicidio degli adolescenti non
rientra nei programmi ministeriali della nostra scuola, ma
non sono pochi i giovani che si tolgono la vita o tentano di
farlo. Ci provano di più le ragazze, riescono a farlo con più
determinazione i ragazzi. Quando non se ne vanno muti,
per la sfiducia nell'ascolto da parte degli adulti, una sfiducia
che hanno sperimentato nella loro breve esistenza,
abbandonano nei loro cassetti messaggi come questo di una
quindicenne suicida, che largamente lasciavano presagire:
A che serve tutto questo? Mi guardo intorno e tutto quello che riesco
a vedere è una scuola e un mondo che possono andare avanti senza
di me. Sono venuta al mondo per caso. La mia morte, ne sono sicura,
non tarderà. Ho cercato tutti i giorni di capire il senso di tutto
questo, ma non c'è senso. Anche se le guerre sono state già combattute,
la mia battaglia deve ancora venire. Quando chiudo gli occhi il
dolore si scioglie, quando li riapro di nuovo il dolore riemerge. Ho
cercato di non strillare, non sarebbe comunque servito a nulla, sono
persa in questa folla. Non potete far finta di non vedere. Ma sopravviverò
finché la mia vita mi rimarrà appiccicata addosso.
Questa estraneità tra sé e la vita, passata inosservata a
quanti sono così dentro nella propria vita da non scorgere
minimamente lo scollamento della vita altrui, impone a
chi opera con gli adolescenti una riflessione sulla propria
capacità di percepire ed accorgersi di quelle esistenze precarie
che sono le esistenze giovanili, dove assistiamo a gesti
che non diventano stili di vita, azioni che si esauriscono
nei gesti, progetti che si dileguano nei sogni, passioni
di un giorno cancellate da una notte, incertezza di un corpo
che si fa e si disfa a seconda delle ore del giorno,
infedeltà ai modelli che si assumono per darsi un contegno,
trasgressioni che si rinnovano per la creazione di un ordine
nuovo, tappa inconclusa dell'eterno disordine.
Sensualità imprecisa dove il cuore ha ancora legami
con l'ideale e con il sesso, senza riuscire a decidere con chi
dei due entrare in intensa relazione. Sguardo cattivo che
non sa dove scatenarsi: se su di sé o sugli altri. Vigilie di
notti in cui si celebra l'eccesso della vita oltre le misure
concesse. Gioiosa confusione dei codici, fino al limite dove
è il codice della vita a confondersi con quello della morte.
Malinconie radicali che nessun diario riesce a contenere,
perché il volume delle sensazioni è troppo al di là delle
parole a disposizione.
Non chiedo agli insegnanti di farsi carico dell'esistenza
dei giovani. Non tutti possono. Molti di loro avrebbero dovuto
avere un'altra formazione ed essere stati educati ad
altra sensibilità. Chiedo loro solo di riflettere su questa
considerazione di Sigmund Freud:
La scuola deve fare qualcosa di più che evitare di spingere i giovani
al suicidio. Essa deve creare in loro il piacere di vivere ed ofkire
appoggio e sostegno in un periodo della loro esistenza in cui sono
necessitati dalle condizioni del proprio sviluppo ad allentare i legami
con la casa paterna e la famiglia. Mi sembra incontestabile che la
scuola non faccia ciò e che per molti aspetti rimanga al di sotto del
proprio compito, che è quello di offrire un sostituto della famiglia e
di suscitare l'interesse per la vita che si svolge fuori, nel mondo.
Non è questa l'occasione di fare una critica della scuola nella sua
attuale struttura. Mi è tuttavia consentito di mettere l'accento su
un singolo punto. La scuola non deve mai dimenticare di avere a
che fare con individui ancora immaturi, ai quali non è lecito negare
il diritto di indugiare in determinate fasi, seppur sgradevoli, dello
sviluppo. Essa non si deve assumere la prerogativa di inesorabilità
propria della vita; non deve essere più che un gioco di vita.
8. I ragazzi del cavalcavia e l'insensatezza nichilista.
Teste vuote, come nessuno di voi può immaginare.
Ho trovato il vuoto, il nulla. Quando potrete conoscere
tutti i materiali di questa storia, capirete il
loro vuoto tremendo.
A. CuvA, Dichiarazione rilasciata alla stampa il 21
gennaio 1997.
1. L'angoscia dell'inquietante e la maledizione.
Ci sono forme di nichilismo giovanile che hanno la loro
radice in una sorta di speranza delusa circa la possibilità
di reperire un senso, nell'inerzia in ordine a un produttivo
darsi da fare, nella sovrabbondanza e nell'opulenza
che funzionano da addormentatori sociali, nell'indifferenza
di fronte alla gerarchia dei valori, nella noia, nello
spleen senza poesia. I suoi tratti sono l'incomunicabilità,
non come fatto fisiologico tra generazioni, ma come presa
di posizione. Un vuoto pieno di rinuncia, assordato solo
dalla musica a tutto volume.
Tutti questi fattori scavano un terreno dove prende forma
quel genere di solitudine che non è la disperazione che
attanaglia quanti un giorno hanno sperato, ma una sorta
di assenza di gravità di chi si trova a muoversi nel sociale
come in uno spazio in disuso, dove non è il caso di lanciare
alcun messaggio, perché non c'è anima viva che lo raccolga,
e dove, se si dovesse gridare "aiuto", ciò che ritorna
sarebbe solo l'eco del proprio grido.
Nascono da qui gesti senza movente che ho voluto indagare
scrivendo e incontrando i "ragazzi del cavalcavia" che
così, per passare il tempo, gettavano i sassi sulle automobili
che sfrecciavano sull'autostrada sottostante, giusto per
fare "bingo", come in un videogioco. Il problema era come
raggiungerli, come trovare il luogo dove erano, come catturarli,
come parlare con loro. Non nel senso delle forze
dell'ordine quando alla fine li trovano, li interrogano, li
ammanettano, ma nel senso di come sia possibile raggiungere
la loro mente, come trovare la dimora abituale della loro
anima, come conoscere la loro lingua straniera, perché
estranea alla comunità degli uomini, di tutti gli uomini.
Se per loro la vita è uguale alla morte, se la morte può
essere inflitta ad arbitrio in regime di assoluta casualità,
al primo che passa sotto un ponte d'autostrada, c'è da pensare
se chi compie quel gesto appartiene ancora alla comunità
degli uomini, dal momento che si è sottratto a tutte
le regole, non solo a quelle del vivere civile, ma anche a
quelle primordiali dell'amore e dell'odio che esprimono
comunque una ragione e quindi la spiegazione di un gesto.
E allora, senza regole né civili né primordiali, come si
fa a raggiungere i "ragazzi del cavalcavia" e quanti compiono
azioni simili, come si fa a parlare con loro? Un certo
giorno le forze dell'ordine li trovano, i giudici valutano
la colpa e infliggono la pena, ma, così procedendo, non
fanno altro che applicare il principio logico della causa e
dell'effetto, quindi a parlare con una lingua che loro non
capiscono, perché il loro gesto viene prima della logica,
prima della ragione e della relazione causa-effetto,
movente-gesto, colpa-pena.
E neppure la logica del perdono li può raggiungere, perché
il perdono ha senso in chi riconosce la colpa di un gesto
provocato da un movente, da un movente qualsiasi,
fosse pure il più terribile degli odii. Ma loro non dispongono
neppure di questo movente, perché ammazzare chi càpita
sotto un ponte, chiunque egli sia, qualcuno che neppure
conoscono, è un fatto che esula anche dalla logica
più elementare che è quella dell'amore e dell'odio. E quindi
neppure con questi sentimenti umani si può raggiungerli
e parlare con loro.
Se il discorso della giustizia, con la sua consequenzialità
logica, non arriva a chi, come loro, compie delitti al di fuori
di questa logica, se il discorso del perdono, che segue il principio
dell'amore incondizionato, non perviene a chi come
loro ammazza al di fuori della logica dell'amore e dell'odio,
come si arriva ad entrare nel loro cervello e nel loro cuore se
non con un linguaggio che l'umanità ha conosciuto prima
della logica, prima dell'amore e dell'odio, e che affonda la
sua radice nell'impotenza potente della magia.
Tale è il linguaggio della maledizione lanciato dalla sorella
della vittima, l'unico che può interloquire con il loro,
perché, come il loro, viene prima del rapporto causa-effetto,
movente-gesto, colpa-pena, e raggiunge il cervello e il
cuore facendoli tracollare nell'angoscia dell'inquietante
che, diffondendosi in tutti i volti che incontrano, su tutte le
strade che percorrono, su tutti i sassi in cui inciampano, su
tutti i ponti sotto i quali passeranno, su tutte le automobili
che vedranno, su tutti i sogni che faranno, porterà la loro
vita a quelle soglie dell'invivibile dove, se non si ammazzeranno
per liberarsene, potranno forse capire la differenza
tra la vita e la morte, quella differenza che era a loro ignota
quando, da un ponte, giocavano a colpire le macchine
che passavano sotto, come si gioca in un videogame.
Allora, e solo allora, si potrà cominciare a parlare con
loro, perché solo quando avranno capito la differenza tra
la vita e la morte potranno avvicinarsi prima alla differenza
tra l'amore e l'odio, e poi alla differenza tra il gesto
motivato e quello senza ragione e senza perché.
Portarli in tribunale prima che abbiano capito questa
differenza significa infliggere una pena a persone che neppure
sanno d'aver commesso una colpa. Perdonarli con un
atto d'amore incondizionato significa rivolgersi, con il più
nobile dei sentimenti, a chi è ancora così lontano dalla logica
dei sentimenti, da non farli neppure entrare tra i moventi
dei suoi gesti. E allora la maledizione della sorella della
vittima, la maledizione, con tutto il suo corredo magico e
inquietante, è l'unico linguaggio all'altezza del loro sentire.
In questa maledizione non c'è odio, anche se chi la
pronuncia usa questa parola come ciascuno di noi usa le
parole che ha a disposizione. L'odio, come l'amore, è un
sentimento organizzato e potente che mette in atto una
strategia che va a colpire nel segno. La maledizione è una
minaccia impotente, ma che ha la possibilità magica di
diffondere l'inquietante ovunque tu ti muova e volgi il tuo
sguardo, in modo da assediarti e costringerti ad andare in
rovina con le tue stesse mani. Tale era la pratica primitiva,
usata anche dal Dio biblico quando intendeva mandare in
rovina qualcuno e voleva che ciò accadesse con le sue stesse
mani, senza misericordia.
Con la sua maledizione la sorella della vittima ha trovato
la strada per raggiungere i "ragazzi del cavalcavia" e
l'unico linguaggio possibile per parlare con loro. L'ha fatto
controvoglia, perché non è facile rinunciare alla logica
della giustizia e scendere un gradino sotto, non è facile
rinunciare alla logica del perdono e scendere un gradino ancora
più sotto, ma che cosa doveva fare per cercare di raggiungere
quei ragazzi là dove erano e dove era possibile
incontrarli, se abitano dimore ben al di sotto della logica
della ragione che prevede che ogni gesto abbia un movente,
e ben al di sotto della logica dei sentimenti, perché, nella
loro perfetta indifferenza, ancora non distinguono l'amore
dall'odio, e da nessuno dei due sentimenti fanno
dipendere i loro gesti?
E allora va accolta la maledizione ed a essa occorre
attaccarsi come un naufrago a una corda che gli è stata lanciata,
se non si vuole che la maledizione, con la magia della
sua impotenza potente, diffonda l'angoscia dell'inquietante
ovunque ci si muova. E questo per dare ai ragazzi del
cavalcavia l'opportunità di sollevarsi all'altezza dei sentimenti,
almeno i più elementari, dove è possibile distinguere
l'amore dall'odio, e poi all'altezza della ragione dove ogni
gesto chiede un movente, una spiegazione, un perché.
Nell'insensatezza, la stessa che ha prodotto il gesto omicida
nella più assoluta casualità, non c'è orientamento neppure
per chi l'ha compiuto, a cominciare dai suoi pensieri
e dai suoi sentimenti che la maledizione, forse per la prima
volta, agita da quel sonno profondo che li lasciava ad un
livello minacciosamente indifferenziato.
Se la maledizione tiene ed è in grado di far risalire i
ragazzi del cavalcavia dall'abisso in cui si trovano, essi devono
ringraziare quella donna che li ha maledetti. È scesa,
rinunciando alla sua dignità e all'approvazione dei sonnolenti
benpensanti, per trovare un linguaggio alla loro portata,
e quindi per poter parlare nonostante tutto con loro.
Perché questa è l'esigenza degli uomini, un'esigenza che
forse un giorno capiranno anche i ragazzi del cavalcavia,
se appena si lasceranno persuadere dall'intenzione di dialogo
e quindi di amore che, nonostante tutto, è nascosta
sotto ogni maledizione.
I ragazzi del cavalcavia, che qui abbiamo assunto come
esempio paradigmatico di neppur troppo episodiche
condizioni giovanili, si sono messi fuori dalla comunità
degli uomini, non tanto per la delittuosità del loro gesto,
quanto perché il loro gesto non ha alle spalle alcun movente
né razionale né emotivo.
E quando si interrompe il rapporto causa-effetto,
qualsiasi parola che a loro si dovesse rivolgere in termini di
giustizia (colpa con conseguente pena) o in termini di perdono
(riconoscimento della colpa con conseguente cambiamento
di vita) non arriva alle loro menti e neppure al
loro cuore, perché in loro si è inceppato il meccanismo
che motiva le azioni e le rende leggibili agli altri, che è poi
la prima condizione perché esista una comunità umana.
Di questi ragazzi dobbiamo pensare che tra sé e l'angoscia
di esistere non c'è alcuno spazio di mediazione, quello
spazio che l'umanità ha sempre cercato di procurarsi e che,
nelle sue forme più diverse, porta il nome di "cultura", che
non è solo un'educazione intellettuale, ma soprattutto educazione
delle emozioni e quindi dei comportamenti.
2. La lettera.
Fu così che, per cominciare a parlare e tentare di capire,
scrissi ai ragazzi del cavalcavia questa lettera aperta:
"Non càpita sempre, ma nel vostro caso vi hanno identificato.
E questa è una buona notizia, non perché le autostrade
saranno più sicure, e neppure perché giustizia sarà
fatta, ma perché almeno si può cominciare a parlare con
voi, che sembrate giovani fuori da ogni logica e quindi da
ogni possibilità di dialogo.
"Un dialogo collassato dal vostro gesto, che nessuna
ragione della mente e del cuore riesce a spiegare. Neppure la
folla che ha urlato fuori dal palazzo di giustizia dove vi
hanno portato, perché, se l'urlo giustifica l'ira, non aiuta a
capire. E nessuno deve dare una mano affinché il mondo
si faccia sempre più incomprensibile e quindi imprevedibile
nei suoi accadimenti.
"Dicono che siete tre fratelli e un cugino. Non conosciamo
vostro padre e vostra madre. Non sappiamo neanche da
chi e da che cosa potranno trarre conforto. Non siete infatti
una compagnia di assortiti, ma avete un solo padre ed una
sola madre che vi hanno generato e cresciuto come un solo
individuo indifferenziato. Tutte le vostre relazioni con gli altri,
a giudicare da questa impresa, si estendono solo fino al
cugino. E chi non incontra nessuno nella vita è difficile che
capisca chi è un 'altro.
"Il mondo degli oggetti in cui probabilmente siete cresciuti,
dai giocattoli alla televisione, dalla televisione a internet,
da internet ai videogiochi, non vi ha fatto capire la
differenza tra le cose e gli uomini, e, come le automobili
sullo schermo dei videogame, anche le macchine che corrono
sulle autostrade per voi non contengono nessuno.
"Ma poi siete anche andati a scuola, io penso, e sarebbe
interessante conoscere i maestri e i professori con cui
siete cresciuti. A differenza dei vostri genitori, ai quali non
è riuscito di far entrare nella vostra testa la differenza tra
una cosa e un uomo, i vostri insegnanti qualche carta in
più l'avevano, se non altro perché non erano accecati da
quell'amore incondizionato con cui i genitori di solito aiutano
e insieme ostacolano la crescita dei figli. Fateci sapere
qualcosa dei vostri insegnanti, diteci se qualche volta vi
hanno guardato negli occhi o invece sono passati vicino a
voi come quando, camminando, si passa vicino ai muri.
"Oggi vi hanno identificato e, grazie a Dio, potete
cominciare a parlare. Ma non dite solo come è accaduto il
fatto, quanta birra avevate in corpo. Non andate a cercar
ragioni che non avevate quando siete saliti sulla macchina
per andare a fare un altro gioco. Adesso che potete cominciare
a parlare, dite qualcosa di più.
"Dite come è fatta questa vostra giovinezza, perché è fatta
così, perché agisce senza scopo e senza motivo, perché
non si è fatta raggiungere da nessuna parola, da nessuna
preghiera, da nessuna implorazione, neppure da una maledizione.
Dite di che genere è quel mondo che voi siete, perché
siete un mondo e non solo voi tre fratelli e un cugino.
Come voi, infatti, ce ne sono altri che vi hanno subito imitato
e altri che, anche se non vi imiteranno, sono come voi.
"Anche se vi ritenete di un altro mondo e disprezzate
questo, il vostro gesto è caduto in questo mondo, e perciò
con questo mondo dovete parlare. Non solo per chiedere
perdono, non solo per sottomettervi al giudizio di questo
mondo, ma perché nel vostro gesto forse c'era la prima parola
che rivolgevate a questo mondo.
"Come ogni gesto, infatti, anche il vostro, pur essendo
per noi incomprensibile, porta con sé un tentativo di
comunicazione che non può non essere raccolto. Seppellirlo
equivale di nuovo a non capire. E rifiutarsi di capire
vuol dire da parte nostra accettare che queste cose accadono
come accadono le tempeste o i flagelli sulla terra.
Ma sulla terra dobbiamo capirci, perché unico è il mondo
che ospita noi e voi, e qui dobbiamo intenderci.
"Se non potete restituire la vita che avete ucciso, restituiteci
almeno uno straccio di motivazione che spieghi
non il vostro gesto che ragione non ha, ma il tipo di uomo
che voi siete e che forse è già una popolazione con cui stiamo
convivendo a nostra insaputa. E sia per voi, sia per noi
non si dà più società se il nostro vicino, quello normale,
quello di tutti i giorni, quello che si incontra sulle scale di
casa, sul posto di lavoro, al bar, è incomprensibile.
"Se voi, oltre che gli autori di un gesto assurdo, foste
anche il sintomo di una società assurda, allora dobbiamo
ricominciare a pensare tante cose da capo. Datecene la
possibilità. Raccogliete tutte le parole di cui disponete e
con quelle fate nascere un senso che, anche se insufficiente,
sia almeno una parziale riparazione all'insensatezza
del vostro gesto. Perché nella vita il tragico non è
solo la morte, ma anche non riuscire a capirsi".
3. Le teste vuote e la suonatrice d'arpa.
Quello che noi tutti non possiamo rassegnarci a non capire
e a non colmare è quel vuoto che il procuratore che ha
condotto le indagini sui ragazzi del cavalcavia denunciava.
Teste vuote, come nessuno di voi può immaginare. Ho trovato il
vuoto, il nulla. Quando potrete conoscere tutti i materiali di questa
storia, capirete il loro vuoto tremendo.
Per entrare in questo vuoto, dobbiamo per prima cosa
non circoscrivere il fatto ai ragazzi del cavalcavia che hanno
compiuto il terribile gesto, e non chiamare "branco" la
loro "compagnia". Assimilarli alle bestie e con ciò sancire
la loro assoluta differenza da noi, se da un lato ci restituisce
a buon prezzo la nostra innocenza, se non addirittura
la nostra "umanità", dall'altro non aiuta a capire. Qualche
giorno dopo il fatto, su un treno, una ragazza dai lineamenti
finissimi, che seppi dopo essere suonatrice d'arpa,
diceva alla sua amica:
Io quei ragazzi li capisco. Sono il frutto di quella generazione di genitori
che hanno riempito i loro figli di cose, senza disporre di un attimo
di tempo per farli crescere con loro, e far passar loro un po' d'amore. Io
non la sopporto più la generazione dei miei genitori. Se non avessi
incontrato l'arpa sarei finita anch'io sul cavalcavia. Se scoprono che sono
davvero loro li condanneranno per omicidio, quando quello di ammazzare
era l'ultimo dei loro pensieri. Per loro che erano sul cavalcavia,
quelle macchine erano macchine vuote.
Guardavo i lineamenti finissimi di quella ragazza. Nessuna
parentela con quelli di uno dei ragazzi del cavalcavia
apparso in televisione. Eppure, nonostante le differenze di
corpo, di cultura, di classe sociale e di educazione, la suonatrice
d'arpa capiva i ragazzi del cavalcavia. Al pari di loro
si sentiva orfana di cure genitoriali e d'amore.
Noi della nostra generazione siamo diversi - proseguiva nella sua
chiacchierata con l'amica - io sono molto contenta di appartenere
a questa generazione. Usiamo tutte le cose di cui ci hanno rifornito
con il disprezzo con cui si usano tutte le cose superflue, ma ciò che
davvero ci importa è la comunicazione tra noi. Tra di noi sappiamo
di poter contare gli uni sugli altri. E che non è "perso", come pensano
i nostri genitori, quel tempo che passiamo a raccontarci. Ma
loro non possono capire queste cose, perché, al di là delle cose di
cui ci hanno rifornito e con cui pensano di averci amato, non capiscono
niente.
Dalla posta dei lettori di "D la Repubblica delle Donne"
ricevo una cartolina che illustra una stampa antica di
piazza San Pietro in Vincoli con due suore che camminano
verso una torre che si eleva su un paesaggio di campagna.
Sul retro c'è scritto:
Giovani (e) cavalcavia. La dialettica non è tra vita/morte, ma tra
natura/mondo = tecnologia = merce. L'epoca della macchina non
può che richiamare l'età della pietra.
La cartolina è firmata, ma la firma "Roberto" è preceduta
da un p.s. (post scriptum). Non è una cartolina
demenziale. Roberto si sente già fuori dall'epoca della tecnologia,
delle macchine e delle merci, che sono poi quelle
"cose" a cui i genitori si erano affidati per veicolare, senza
un gran successo, il loro amore.
E allora distruggiamole queste "cose", queste "macchine",
tanto non contengono niente, men che meno l'amore
che dovevano surrogare. A questo punto il vuoto di cui
parla il procuratore che ha indagato sui ragazzi del cavalcavia
comincia ad acquistare una sua fisionomia, e il gesto
dei ragazzi del cavalcavia, se non un principio di senso,
almeno uno straccio di spiegazione. Ma la suonatrice
d'arpa diceva un'altra cosa:
Tra noi della nostra generazione ci intendiamo, possiamo contare
l'uno sull'altro, la nostra comunicazione non passa attraverso le cose.
Per questo mi piace la nostra generazione, perché sappiamo dire
"noi", perché uno che dice solo "io" o se la tira o è fuori dal giro.
Se alla socializzazione restano solo miseri residui, perché
il resto del sociale è egoismo, arrivismo, acquisizione
di beni, di mezzi, di prestigio, nella più totale indifferenza
del prossimo, con il quale al massimo ci si urta o accanto
al quale si passa nella più completa indifferenza, allora
qualcosa si comincia a capire di quel gesto in chi non ha
possibilità e mezzi culturali per uno scambio sociale,
soprattutto quando la società è più uno strumento per produrre,
acquistare e fruire cose, piuttosto che luogo di possibili
relazioni.
Che i sassi lanciati dal cavalcavia siano stati raccolti
fuori da un supermercato è del tutto casuale, ma anche altamente
simbolico. Quei santuari delle merci, dove nell'acquisto
silenzioso e individuale la gente compensa una parte
del proprio vuoto, dicono quanti santuari per le relazioni
sociali dobbiamo ancora costruire, dove, invece delle
merci, si possono scambiare emozioni, affetti e parole, senza
i quali è molto difficile acquisire e mantenere la differenza
tra le cose e gli uomini, e soprattutto percepire che le
macchine che corrono sull'autostrada non sono macchine
vuote, puri prodotti tecnologici, anche se la tecnologia tende
sempre di più a farci dimenticare che cos'è un "uomo".
"Eppure ho fiducia nella nostra generazione", diceva la
giovane suonatrice d'arpa. Dobbiamo partire per forza da
qui. Non abbiamo scelta. Ma se decidiamo di partire da
qui dobbiamo capire bene e per intero sia il discorso della
giovane musicista che parlava di relazioni affettive che
non passano attraverso le cose di cui i giovani sono riforniti,
sia il discorso della cartolina illustrata spedita da Roberto
che, nei ragazzi del cavalcavia, vede solo degli esempi
di strati sempre più ampi di popolazione che della
tecnologizzazione forzata del mondo fruisce solo dei cascami,
al di fuori di qualsiasi orizzonte di senso che non si
profila, non solo per i giovani del cavalcavia, ma forse
neppure per noi.
E allora se l'insensazezza è il sigillo del gesto di quei
ragazzi, non chiudiamo con un semplice atto giudiziario il
discorso che con il loro gesto quei ragazzi hanno aperto.
Se abbiamo riempito gli schermi televisivi e le pagine dei
nostri giornali vuol dire che lo spessore opaco dell'insensatezza
(di cui quel gesto è solo un sintomo), subdolo e
per nostra cecità un po' nascosto, circola già tra noi, tra
tutti noi. I ragazzi del cavalcavia l'hanno messo solo tragicamente
in vista.
4. L'incontro: "Io sono come tutti".
Il procuratore della Repubblica mi concede un incontro
con un ragazzo del cavalcavia che, per il diritto all'oblio,
chiameremo con un nome di fantasia: Paolo. Appare
come un ragazzo mite e, pur nella sua chiusura e nel suo
scarso repertorio linguistico, simpatico. È abbastanza
estraneo a se stesso, inserito in una storia che non percepisce
come sua. I suoi punti di forza sono la famiglia e il
lavoro, limitatamente ai soldi che dà.
Relazioni sociali esterne alla famiglia quasi nulle dal
punto di vista emotivo. Se consideriamo che la scuola è il
primo luogo in cui si acquisisce una partecipazione emotiva
per l'"altro" che non è il padre, la madre, il fratello, bisogna
dire che la scuola, con Paolo, ha fallito su tutta la linea,
ed è la maggior responsabile della sua situazione.
L'ambiente è un centro di trentamila abitanti della Pianura
padana dove c'è poco lavoro ma abbastanza soldi, e
dove i giovani si ritagliano una compagnia che, più del
paese, diventa il loro mondo.
La famiglia sembra l'orizzonte massimo delle relazioni
emotive di Paolo. Fuori dalla famiglia restano solo un prete
ed una suora che hanno ribadito i valori della famiglia. I
professori sono rimasti puri fantasmi.
Gli amici sono quelli del bar. L'impressione è quella di
un'assoluta casualità delle relazioni esterne alla famiglia.
Quindi rapporti superficiali e difficilmente integrabili al
nucleo di personalità.
I valori di riferimento sembrano del tutto assenti, eccezion
fatta per il lavoro, solo per i soldi che procura per
aiutare la famiglia.
Il carattere è scarsamente individuato. Trae più forza
dal gruppo familiare che dalla sintesi delle proprie
esperienze.
Il linguaggio è costituito dalle solite duecento parole
tipiche dei ragazzi che si fermano dopo la terza media dopo
aver sperimentato, dell'obbligo scolastico, solo l'obbligo,
senza aver incontrato nessun insegnante con cui aprire un
canale di comunicazione emotiva.
Paolo è rimasto immobile e chiuso nel suo corpo per
tutto il tempo del nostro colloquio che aveva accettato
senza alcuna resistenza e direi con una certa disponibilità
in presenza del suo avvocato.
Quando è venuta la polizia a prenderlo a casa gli hanno
detto "Su, dai, vieni", e lui è andato tranquillo come
quando un amico ti chiama per scendere al bar. I carabinieri,
che dopo ha incontrato, già lo conoscevano, non
perché avesse fatto qualcosa di strano: "Ma perché", dice
Paolo, "ogni giorno girano nei giardinetti del paese e prendono
il nome dei ragazzi che son lì".
La polizia e i carabinieri l'hanno trattato bene, solo il
procuratore era un po' nervoso, diceva che non aveva dormito
la notte. "Anch'io", dice Paolo, "gli ho detto che non
ho dormito la notte dopo che mi hanno fermato".
E che cosa hai pensato quella notte?
"Niente". Questo "niente" ritorna di frequente nel nostro
colloquio, spesso come spessa è la nebbia del paese di Paolo
in certe giornate d'inverno. Sembra un "niente" di chi
non sa, di chi si trova in una storia che non conosce. Al limite
non conosce neppure se stesso messo dentro in quella
storia, come se fosse la storia di altri, e lui stesso un altro.
Prima di quella storia la sua giornata passava così: "Mi
alzo alle sette ed un quarto, vado a prendere la mia ragazza
che ha la mia età e l'accompagno a scuola, poi bevo un
caffè in piazza e vado a lavorare fino alle quattro e mezzo.
Alle cinque mi trovo con la mia ragazza sotto i portici, poi
vado a casa a mangiare. Guardo un po' di televisione, non
i giochi a premi ma i film, e alle undici vado a letto. Con
me dormono i miei fratelli".
Parlate prima di dormire?
"No. Io ascolto a basso volume un po' di radio e poi mi
addormento. La domenica si dorme fino a mezzogiorno
perché si torna dalla discoteca alle tre, e al pomeriggio
faccio un po' di portici con la mia ragazza e un po' di bar
con gli amici. Una vita normale".
Dopo la parola "niente" anche la parola "normale"
ricorre di frequente, dove "normale" vuol dire "come tutti".
E vien voglia di chiedergli perché la sua faccia è come
quella di tutti, anche i suoi capelli tirati in fila con un po'
di gel, anche i suoi occhiali da vista, la sua timidezza, il
repertorio delle sue parole, la sua calma quieta.
La tua ragazza ti è stata vicina in questa circostanza o ti
ha lasciato?
"No, mi è stata vicina perché mi vuole bene, così come
la mamma, anche lei mi vuole bene. Perché noi ci vogliamo
bene tutti. Anche tra noi fratelli ci vogliamo bene. Ci
vuole bene suor Teresa e il prete del paese". Suor Teresa è
una suora che gioca a pallone, che va in bicicletta. E solo
a nominarla gli occhi di Paolo si ravvivano. È l'unico
segnale emotivo in due ore di colloquio.
Hanno detto che voi ragazzi confondete le autostrade che
appaiono sui videogame con le autostrade vere.
"Quelli che dicono queste cose ci considerano degli
scemi, come la gente che ci aspettava fuori dal tribunale ci
considerava delle bestie".
Che effetto ti ha fatto?
"Niente, tanto io non avevo fatto niente".
E il confronto con tuo fratello davanti al procuratore?
Eri emozionato?
"Sì, l'unica emozione che provavo è che avevo voglia di
abbracciarlo".
Ti fidi dell'avvocato che il tribunale ti ha assegnato?
"Sì, i miei amici dicono che è il più bravo della città".
I tuoi amici? Anche i tuoi fratelli sono tuoi amici? Di
solito uno va con la sua compagnia?
"Sì, noi abbiamo compagnie diverse, però siamo spesso
insieme. Anzi a un fratello ho fatto persino conoscere
quella che oggi è la sua ragazza. È una famiglia unita la
nostra".
Nella tua famiglia c'è anche una sorella che si chiama
proprio come quella povera ragazza morta sotto i sassi tirati
giù dal cavalcavia.
"Be', questa mia sorella si è sposata ed è andata via di
casa. Con lei non c'è un gran rapporto. Però adesso, per
via di questa storia, ha telefonato tante volte. Noi vogliamo
bene anche a lei, e anche lei a noi".
E il papà. Avete un rapporto con papà?
"Papà è malato. È caduto da un trattore e si è impigliato
dentro in una manovra per evitare la macchina di un
prete. Adesso deve guarire per tornare a lavorare come
tutti noi".
E tu perché ti sei messo a lavorare dopo la terza media?
"Perché non andavo tanto bene a scuola".
Si occupavano di te i tuoi professori?
"Normale, come tutti".
Ne hai trovato uno con cui parlare, uno con cui aver più
confidenza?
"No, i professori lo sai come sono, fanno il loro mestiere".
Hai imparato più dalla televisione che a scuola?
"In un certo senso sì".
L'hai visto in televisione il marito di quella ragazza uccisa
sotto il cavalcavia?
"Sì, l'ho visto, e non mi pare che soffra tanto".
Forse è solo una maschera che indossa davanti alle telecamere
a cui nessuno di noi è abituato.
"Sarà così".
Anche intorno a te adesso ronzano giornalisti e telecamere.
Che impressione hai di questo mondo?
"Niente, normale". A questo punto interviene l'avvocato
di Paolo. Ha una faccia simpatica e un modo di fare che
dice quanto sul serio ha preso l'incarico che il tribunale gli
ha affidato. È andato a prendere Paolo a casa per evitare i
giornalisti. Dice di loro che è un mondo duro, dove non si
risparmiano colpi reciproci, dove si vendono le interviste.
Dove le cose si dicono a poco a poco per creare la suspence
del giallo.
Prima tre colpevoli, poi dubbio su tutto, poi un colpevole
e due no, poi le telecamere sempre piazzate e pronte
ad assalire. Una condotta, secondo l'avvocato, non dissimile
dalla folla che urlava. La folla cercava il capro espiatorio,
i giornalisti la notizia da condire e poi da vendere.
"Io", dice l'avvocato, "adotto la religione del no. Nulla è vero
finché non si verifica tutto".
Paolo fa un cenno d'assenso. Squilla un telefono. Paolo
si toglie gli occhiali da vista, la sua faccia non cambia. È
una faccia normale, come quella di tutti i ragazzi della sua
età che non hanno troppi mezzi per mettersi in scena. Di
quel fatto non sa niente.
E allora cosa pensi di quelli che hanno tirato i sassi dal
cavalcavia?
"Boh, gente impazzita, gente fuori di testa".
E che senso ha fare questo gioco?
"Non lo so, per me niente".
Scendendo le scale dello studio dell'avvocato avevo
l'impressione di essere capitato in una storia in cui non
c'entravo, la stessa sensazione che mi aveva trasmesso
Paolo a proposito della sua storia. Ma Paolo mi aveva dato
anche un'altra impressione, quella di chi non c'entrava
neanche con se stesso. Sì, certo, avevano preso lui. Lui era
andato in tribunale e poi in stato di fermo, e poi davanti al
procuratore, e poi davanti al fratello nel confronto diretto.
Ma chi era lui?
Per diciotto anni l'avevano chiamato Paolo. Anch'io lo
chiamavo Paolo. Ma chi era Paolo? Paolo era per lui stesso
"uno come tutti". Qualcosa di abbastanza indifferenziato,
e che, nell'indifferenziato, prima cercava compagnia,
amicizia, amore, adesso cerca rifugio.
Arrivederci Paolo, verrò a trovarti di nuovo.
"Grazie, sarei contento".
9. Le generazioni nichiliste.
Qui si esprime il fondamentale dato di fatto
dell'umano volere, il suo horror vacui. Quel volere ha
bisogno di una meta. E preferisce volere il nulla,
piuttosto che non volere.
F. NIETzscHE, Genealogia della morale, Terza
dissertazione, õ 1.
1. La generazione del pugno chiuso.
La davamo per archiviata. Ma, a sentire il ministro degli
Interni Giuliano Amato, così non è. Mi riferisco a
quella generazione di giovani dal pugno chiuso, che a
trent'anni di distanza si ripropone: o per una richiesta
d'amnistia o per il riaccendersi di alcuni temibili focolai
che nulla di buono lasciano presagire.
Di che si tratta? Di quel terrorismo ideologico che non
rappresenta "una serie di provocazioni illecite destinate a
passare", come si pensava negli anni settanta e forse ancora
oggi da parte di chi sottovaluta i numerosi casi di minacce
ed insulti alle forze dell'ordine, ma neanche, come allora
riteneva Rossana Rossanda, "la fisiologia di una società
vivente di diversi soggetti e interessi nel loro maturare,
incrociarsi, scatenarsi, cadere, modificare l'esistente".
L'una e l'altra interpretazione, infatti, rimangono sul piano
sociologico e perciò leggono l'emergenza o come aberrazione
del corretto procedere sociale o come fisiologia
che sta alla base di ogni trasformazione sociale.
Finché le definizioni non sporgono dal piano sociologico,
l'alternativa "amnistia" o "soluzione politica" resta
una scelta conseguente alle definizioni date. Ma il terrorismo
ideologico non è un fatto sociale, bensì la rottura del
patto sociale. Il patto sociale, infatti, si regola sul valore di
scambio. L'emergenza terroristica interrompe il valore di
scambio e sposta tutto nella sfera dello scambio simbolico
dove in gioco non è la contrattazione, ma la sfida.
Parliamo di sfida quando la contrattazione è abolita e il
sistema non può rispondere se non con la morte del terrorista
o con la propria morte. Tale è la violenza del simbolico
che interrompe ogni forma di contrattazione che le società
civili hanno faticosamente raggiunto con il progressivo
emanciparsi dalle modalità primitive di convivenza.
In ogni azione terroristica, infatti, nessuno sa che cosa
si può negoziare, non ci si accorda sui termini o sulle possibili
equivalenze di scambio. Se i terroristi formulano delle
richieste, queste sono tali che equivalgono a un rifiuto radicale
a negoziare. Ed è appunto questa l'interruzione della
regola sociale e quindi il passaggio all'ordine simbolico, la
cui forza sta proprio nell'ignorare ogni tipo di calcolo e di
scambio, per cui il sistema, che non vive che di negoziati,
fosse anche nell'equilibrio della violenza, è messo in scacco.
La sfida simbolica è di un'efficacia enorme. Tutte le società
primitive lo sapevano. La nostra lo sta riscoprendo,
ma può nasconderselo leggendo il terrorismo come "aberrazione"
o come "fisiologia" del sistema sociale. Gli anni
di piombo non sono né l'una né l'altra cosa. Sono l'interruzione
del rapporto sociale, perché rappresentano il rifiuto
alla sua regola che trova espressione nella contrattazione,
nel negoziato, nello scambio. Come scrive Jean
Baudrillard:
Qualsiasi morte è facilmente computabile nel sistema, anche le carneficine
della guerra, ma non la morte-sfida, la morte simbolica, perché
questa non ha più un equivalente contabile: essa dà accesso a un rilancio
inespiabile se non con un'altra morte. Nessun'altra risposta alla
morte che la morte. Ed è ciò che accade in questo caso: il sistema è
chiamato a suicidarsi a sua volta. Cosa che esso fa manifestamente
con il suo smarrimento e il suo fallimento.
Non dico che i giovani dal pugno chiuso ne siano consapevoli,
ma questo non ha rilevanza, perché il simbolico opera
comunque, al di là della loro e delle nostre consapevolezze.
Opera ogni volta che tra i due contraenti si verifica quella
situazione per cui uno dei due non ha più potere contrattuale.
E questo può essere avvenuto negli anni sessanta e
settanta quando lo stato, dopo il miracolo economico e
l'introduzione di solide garanzie previdenziali, ha riempito la
società di doni senza la possibilità del contro-dono. Già
Nietzsche aveva colto l'essenza del potere nel dono senza la
possibilità del contro-dono, anzi in questo aveva visto il colpo
di genio del cristianesimo:
Questo alleviamento del debito fu il colpo di genio del cristianesimo.
Dio che paga se stesso. Dio che riesce da solo a liberare l'uomo
da ciò che per l'uomo stesso è diventato irremissibile, il creditore
che si offre per il suo debitore per amore (chi lo avrebbe mai detto),
per amore del suo debitore.
Il dono del lavoro, il dono del salario, il dono dei beni
da consumare, il dono del tempo libero, il dono dei media
e dei loro messaggi, tutto naturalmente sotto il monopolio
del codice che non permette di replicare. Poi il dono della
protezione, della sicurezza, della gratificazione, della
partecipazione sociale, naturalmente nelle modalità previste,
ma comunque tali da non consentire a nessuno di sfuggire.
Avendo così ridotto i soggetti sociali da contraenti a oggetti
sociali gratificati dai doni, il sistema ha preparato il terreno
all'irruzione del simbolico, che ritorce contro il sistema il
principio stesso del suo potere: l'impossibilità di risposta.
Un sistema sociale, infatti, è sfidato quando è posto
nella condizione di non poter rispondere con la sua logica
che è quella della contrattazione, tipica di ogni società che
si è emancipata dalla violenza simbolica che regolava le
società primitive.
Se concordiamo che il terrorismo ideologico non è
aberrazione sociale o fisiologia del sociale, ma interruzione
del sociale e della sua regola, possiamo dirci usciti dagli
anni di piombo quando la contrattazione riprende il
sopravvento sulla sfida simbolica. È quanto sta accadendo
con la legge sui pentiti, dove in un certo senso si assiste alla
restaurazione dei contraenti e quindi al ritorno della
contrattazione.
A questo punto l'amnistia è da scartare perché sarebbe
un dono che torna a celebrare il potere che dona senza
contropartita, e quindi a riproporre quel meccanismo perverso
che abbiamo visto essere alla base delle sfide simboliche.
La soluzione politica è invece da praticare se non si
vuole che il sistema sociale s'infilzi sulla propria violenza,
senza rispondere veramente alla sfida che gli era stata lanciata.
Se la sfida, infatti, aveva avuto origine dalla privazione
della soggettività politica in una società che si era vista
gratificata dai doni, ma insieme oggettivata, non resta
che la soluzione politica per restituire quella soggettività
che l'abbondanza dei doni aveva sottratto.
Tutto ciò è possibile solo se si rileggono gli eventi non
solo con gli occhi liberi dal velo dell'emergenza, ma
soprattutto con gli occhi puntati sulla vera natura dell'emergenza
che è l'emersione del simbolico per interruzione del
rapporto sociale e della sua trama contrattuale. È questa
una trama che si interrompe quando il potere nega l'altro
come soggetto e gli toglie la possibilità di contrattare.
Nascono allora le sfide simboliche come risposta totale
all'impossibilità della contrattazione.
2. La "generazione x" degli indifferenti.
Non abbiamo occhi, non abbiamo schemi di lettura
per capire qualcosa di molti ragazzi tra i quindici e i venticinque
anni, nonostante questa generazione sia stata studiata,
classificata, vivisezionata da istituti di ricerca come
mai era capitato ad altre generazioni di giovani.
Di loro si parla come del "pianeta degli svuotati" o come
della "generazione degli sprecati", indecifrabili come
una "x" ignota. I loro progetti hanno il respiro di un giorno,
l'interesse e la durata di un'emozione, il gesto non
diventa stile di vita e l'azione si esaurisce nel gesto. La passione
imprecisa non sa se aver legami con il cuore o con il
sesso e non riesce a decidere con chi dei due entrare in
intensa relazione.
L'aggressività non sa se scatenarsi su di sé o sugli altri, e
l'ira di un giorno è subito cancellata da una notte, nella cui
vigilia si celebra l'eccesso della vita oltre la misura concessa,
in quella gioiosa confusione dei codici, fino al limite dove è
il codice della vita a confondersi con quello della morte, se è
vero, come abbiamo visto, che tra i giovani sotto i venticinque
anni il suicidio è la seconda causa di morte dopo gli
incidenti automobilistici. Un suicida su dieci raggiunge il suo
obiettivo al secondo tentativo, senza che in famiglia, a scuola,
o tra gli amici traspaia qualcosa del loro mal di vivere.
A questi ragazzi ha dedicato uno studio Stefano Pistolini
che ha la fortuna di non essere né uno psicologo né un
sociologo. Ha conosciuto i ragazzi non perché li guardava
da una cattedra, ma perché li frequentava quando giocava
a pallacanestro, quando faceva il chitarrista punk e adesso
quando cura i pop festival internazionali e gli spazi serali
in Rai. Una cultura giovanile guardata dall'interno, non
con gli occhi statistici del sociologo, quelli tortuosi dello
psicologo, quelli appannati e disinteressati dell'insegnante,
ma con quella partecipazione che è tanto più strana perché
si esprime all'interno di quella tribù giovanile che ha nella
non-partecipazione forse il suo tratto più distintivo.
È una tribù che ha un basso livello di autoconsiderazione,
una sensibilità fragile, introversa, indolente, un'inerzia
provocata da un'eccessiva esposizione agli influssi della
televisione, un'unica preoccupazione: procurarsi un'incredibile
quantità di tempo libero per assaporare fino in fondo
l'assoluta insignificanza del proprio peso epocale.
Di qui le frequenti fughe nel mito, il mimetismo nella
ricerca, neppure troppo spasmodica, di un'identità venata
dalla nostalgia relativa all'impossibilità di reperire radici
proprie. Il tutto condito da un acritico consumismo, reso
possibile da un'inedita disponibilità economica che, per
disinteresse o per snobismo, questi giovani nemmeno utilizzano,
perché le cose sono a loro disposizione prima ancora
che le abbiano desiderate.
E così a questa tribù del malessere viene attribuita
una valenza di mercato prima che di identità. Su di essa si
buttano le nuove aree di profitto che hanno fatto proprie
le istanze stilistiche, comportamentali ed espressive tipiche
della condizione psichica di questa generazione, che
la pubblicità, la produzione dell'abbigliamento, le agenzie
di viaggio e l'industria del divertimento hanno decodificato
molto meglio di quanto non abbiano fatto le statistiche
sociologiche, le analisi psicologiche del profondo,
la cultura devitalizzata della scuola, dove molti insegnanti
neppure si accorgono che quei giovani, che sono ogni
giorno sotto i loro occhi, non avvertono più alcuna corrispondenza
tra quanto si apprende in classe e quanto si intravede
dalle finestre dell'aula. Al di là dei vetri, scrive
Stefano Pistolini:
C'è l'America, la cui scoperta è questione di mesi per qualsiasi
ragazzino del pianeta. Il tempo di essere svezzato, di appropriarsi
delle categorie del discernimento e l'America diventa uno stato
mentale, in certi casi un desiderio di appartenenza o un'evidente
condizione di felicità aprioristica.
A questo punto comincia quell'emigrazione mentale verso
il modello americano da parte di legioni di adolescenti,
teenager e ventenni, che porta a quell'omologazione planetaria
che Pier Paolo Pasolini denunciava come il rischio
maggiore per le generazioni future, le quali, deprivate delle
specificità locali ormai umiliate, sarebbero rapidamente
entrate in crisi di identità.
E così la gioventù di tutto il mondo, senza particolari
sforzi, per il solo fatto di entrare in un McDonald's, nonostante
la deprimente prospettiva alimentare diventa un satellite
della cultura popolare statunitense che, trascinando
con sé interi procedimenti esistenziali, si diffonde a pioggia
come una necessità vitale al di sopra dei livelli minimi
di sopravvivenza.
E da qui prende avvio quella "morte felice" della propria
specificità, per imboccare quella strada a senso unico
che compensa la carenza di identità con la sicurezza concessa
dall'appartenenza alla tribù, fuori dalla quale resta
solo la solitudine dell'anonimato sociale, dove si spalancano
baratri insuperabili in ordine alla comunicazione che
nemmeno il rumore assordante della discoteca riesce a
colmare.
Nascono allora quelle malinconie che hanno abbandonato
il tono del tumulto per frequentare le stanze della
rassegnazione. E nei giovani meno autentici, neppure un
attimo di disperazione, perché non si dà disperazione là
dove la speranza si è da tempo congedata.
Le parole degli adulti - siano essi educatori, psicologi,
insegnanti, esperti, genitori - dicono, ordinate, l'ordine
della vita, ma gli adulti ormai, abbandonati dalla memoria
della loro adolescenza peraltro inutile per capire questa
adolescenza, inseguono quella comunicazione impossibile
in cui è la loro ansia di sapere e, con essa, la loro ormai
pienamente raggiunta incapacità di capire.
Archiviata con la troppo facile gioia di tutti la "generazione
dei giovani dal pugno chiuso", perdendo così anche
la speranza di poter sperimentare cosa diventa una mano
quando il pugno si apre, oggi ci troviamo con la "generazione
degli abbastanza" che secondo la relazione sui giovani
realizzata dall'Eurisko: "Vanno abbastanza d'accordo
con i genitori, che concedono loro abbastanza libertà e
hanno abbastanza voglia di diventare adulti", ma non
troppo in fretta. Nessun progetto per il futuro, anche perché
non ci sono "abbastanza" opportunità, nessun ideale
da realizzare, anche perché non ce ne sono di "abbastanza"
coinvolgenti.
Ma che ne è di una società che fa a meno dei suoi
giovani? È solo una faccenda di spreco di energie o il
primo sintomo della sua dissoluzione? Forse l'Occidente
non sparirà per l'inarrestabilità dei processi migratori
contro cui tutti urlano, e neppure per la minaccia terroristica
che tutti temono, ma per non aver dato senso e
identità, e quindi per aver sprecato le proprie giovani
generazioni.
3. La "generazione 0" dal basso quoziente intellettivo ed emotivo.
Conoscono la differenza tra il bene e il male e se ne fregano.
Che si tratti dei ragazzi che per festeggiare la fine
degli esami di maturità impediscono a un extracomunitario
di risalire l'argine del fiume, che si tratti dei ragazzi del
cavalcavia che non per volontà omicida, ma così, scaraventano
pietre sull'autostrada, che si tratti di studenti
universitari che, non per ragioni premeditate, ma così, traforano
il cranio a una studentessa, sono questi i rappresentanti
di quella "generazione 0", come la chiama il sociologo
tedesco Falko Blask, dove "o" sta per "quoziente intellettivo
ed emotivo non particolarmente elevato", che si è
aggiunta alla "generazione x" raccolta nella sua rassegnata
commiserazione. Blask parla di chi è affetto dal "fattore
o" come di:
Un buffone cosmico, fantasioso ed egocentrico, che rappresenta
l'incarnazione ideale del mascalzone, privo di scrupoli, ma equanime,
al di là del bene e del male.
Quanto basta per definire i seguàci del "fattore 0"
affetti da sociopatia o psicopatia, due parole che stanno a
designare quella condizione psicologica per cui il soggetto
non prova alcuna risonanza emotiva per le azioni che
compie, anche le più criminose.
Nell'Ottocento questa sindrome veniva chiamata oligotimia,
con riferimento a quel disturbo della personalità
proprio di chi, incapace di realizzare un'adeguata integrazione
nel proprio contesto socioculturale, si trova molto
spesso nelle condizioni di trasgredire norme etiche e sociali
che condizionano la convivenza umana.
Per questo tratto peculiare non episodico, ma fondamentalmente
stabile e costitutivo, la psicopatia è detta anche
sociopatia, un termine introdotto da J.A. Koch che, nel
1891, ribattezzò come "inferiorità psicopatica" quelle forme
d'esistenza che la psichiatria precedente definiva affette da
"follia morale" o "imbecillità morale".
In questa accezione il termine ricorre anche in R. von
Kraft-Ebing per definire le perversioni e le anomalie sessuali,
e in psicologia criminale, dove ritorna per rubricare
le forme di "personalità abnorme", con riferimento alla
"norma" che regola i rapporti sociali. In séguito K. Schneider
distinse la psicopatia dalla psicosi perché la personalità
psicopatica non è destrutturata, e dalla nevrosi perché
il disturbo non nasce da un conflitto, ma da una predisposizione
costituzionale.
I tratti caratteristici della personalità psicopatica
intorno a cui si registra un maggior consenso sono: un'immaturità
affettiva che nasconde una puerilità di fondo con
conseguente insofferenza alle frustrazioni, incapacità di
esprimere sentimenti positivi come simpatia e gratitudine,
vita sessuale impersonale e non coinvolgente, apatia
morale con assenza di sentimenti di rimorso o di colpa,
mancanza di responsabilità, falsità e insincerità sistematiche,
condotta antisociale non episodica o impulsiva, ma
costante e programmata, che spesso mette capo a condotte
delittuose realizzate con freddezza e indifferenza.
Circa le cause, in passato dominò l'interpretazione
organicista formulata da Cesare Lombroso che incluse la
psicopatia tra le forme di "degenerazione". Oggi prevale
l'interpretazione psicogena, che fa risalire la psicopatia ad
una mancata integrazione dell'affettività nel corso dei primi
anni di vita, con conseguenti carenze sul piano emotivo,
e difficoltà di identificazione, che portano a un ideale
dell'io informe e confuso.
La psicoanalisi a orientamento freudiano vede l'origine
della personalità psicopatica nei primi rapporti del bambino
con la figura materna inconsistente, anaffettiva o ambigua,
da cui scaturisce la successiva costituzione psicologica
caratterizzata da un Io debole, da un Super-io assente con
conseguente mancanza di rimozione delle richieste pulsionali
dell'inconscio, che verrebbero immediatamente agite e
non differite ed elaborate. Di qui la proiezione continua
dell'aggressività sul mondo esterno.
Ma a sentire Falko Blask oggi la psicopatia o sociopatia
non sarebbe più la sindrome di alcuni, ma il modo di
vivere di un'intera generazione, ben descritta nel romanzo
Blue Belle dello scrittore americano Andrew Vachss, dove:
Il sociopatico segue solo i suoi pensieri, procede per la sua strada,
avverte solo il proprio dolore. Sì. Non è forse la via giusta per
sopravvivere in questo letamaio? Aspetta il tuo momento, abbassa la
visiera. Non lasciare che ti leggano il cuore.
Questa indifferenza egocentrica, abbinata alla rinascita
del concetto di destino ("Sono fatto così"), dà luogo al più
potente esplosivo sociale del nostro tempo, da cui non si
salva neppure la cultura piccolo-borghese della nostra
società gratta e vinci, che passa le serate davanti alla televisione,
dove il "fattore 0" inorridisce ed insieme affascina, se
è vero che il serial killer sospettato di aver ucciso Versace
diventa star dei media, così come eroi delle letture più frequenti
in metropolitana diventano quei pazzi sanguinari
dal grilletto facile o gli stupratori dei bambini, protagonisti
delle conversazioni quotidiane nelle redazioni e a tavola.
Portando alle estreme conseguenze il principio di non
dover mai chiedere il permesso a nessuno, i sociopatici
della "generazione 0" non chiedono più nulla nemmeno a
se stessi, e si dedicano totalmente al compito di inventare
nuove regole del gioco laddove grava la routine, oppure si
concentrano sulle possibilità di escogitare qualche sorpresa
dove domina l'angoscia dell'eterna ripetizione. Inscenano
in questo modo tutta la loro vita come un esperimento
sociale dall'esito incerto e vanno su di giri al semplice ed
esaltante pensiero che ciascuno nella propria vita va in diretta
ventiquattro ore su ventiquattro.
Quando sento parlare di scuola pubblica e scuola privata
e penso a questi potenziali appartenenti alla "generazione
o", capisco quanto la politica giochi con se stessa,
senza neppure l'eco lontana che viene dalla società che dovrebbe
amministrare, dove non servono tanto transenne
sui fiumi, tornelli all'ingresso degli stadi, orari anticipati
di chiusura dei locali, maggior spiegamento delle forze
dell'ordine, perché il male non è tanto nei luoghi della
città quanto nell'animo di questi giovani, dove famiglie
dai genitori distratti e scuole dai professori annoiati hanno
celebrato il loro fallimento.
Ma qui non servono geremiadi e lamentazioni, occorre
trovare nell'incapacità di stabilire relazioni, che è tipica
delle nuove generazioni, su cui si interrogano dolenti
sociologi e psicologi che deplorano con crescente petulanza
il presunto abbrutimento dell'individuo post-moderno, che
cosa motiva la condotta dei seguàci del "fattore 0", a cui
non appartengono solo i giovani che festeggiano la maturità
buttando nel fiume gli extracomunitari, i ragazzi del
cavalcavia, gli studenti universitari che sparano senza una
ragione, ma anche i giovani in carriera che si concedono il
lusso dell'uso costante di alcol e droghe, fedeli al motto:
"Se il mondo non funziona, io bevo o mi faccio".
Criticare i single misantropi, i carrieristi ambiziosi, gli
egocentrici troppo restii ad aprirsi alle relazioni con gli altri
significa lavarsi la coscienza con detersivi a basso costo.
Disapprovare il bisogno spasmodico di apparire, la
promiscuità, la perdita dei valori, la mania di protagonismo
significa non capire che, dopo la scomparsa delle
ideologie e degli ideali ritenuti eterni, i seguàci del "fattore
o", con più coraggio della generazione che li ha preceduti,
guardano in faccia l'incertezza dell'esistenza e, senza
sfuggire a questo vuoto di significati da fine della storia,
scoprono una forma di ottimismo egocentrico dove il motto
è, come scrive Falko Blask:
Meglio esagitati ma attivi che sprofondati in un mare di tristezza
meditativa, perché se la vita è solo uno stupido scherzo, dovremmo
almeno poterci ridere sopra.
Questo è lo scenario dei seguàci del "fattore 0", che però
non vanno intesi come una setta, un gruppo od una tribù. Il
"fattore 0" è un atteggiamento, un modo di relazionarsi alla
vita, dove si agisce come virtuosi dell'irresponsabilità, senza
alcun riguardo per la propria storia personale, senza rispettare
impegni e senza temere le eventuali conseguenze del
proprio agire, dal momento che tutte le scelte vengono
considerate revocabili: dalla professione al matrimonio, dall'identità
sessuale alla gravidanza.
Dalla perdita di identità, che si costruisce solo con la
consequenzialità delle proprie azioni e con l'irrevocabilità
delle proprie scelte, nasce quel frazionamento psichico dove
l'identità vive nel gesto misurato non sulla scala del bene
e del male, di cui non si distingue più il confine, ma sulla
scala della noia e dell'eccitazione, della ripetizione e
della novità.
Nell'esperienza ormai assaporata dai giovani circa la
loro non incidenza, neppur minima, di cambiare le regole
di una società tecnologicamente, e non politicamente o
moralmente ordinata, ognuno va alla ricerca della nicchia
adeguata dove poter mettere in scena la propria disarticolata
avventura, che appare naturalmente come un'esplorazione
delle sconosciute possibilità dell'esistenza.
Ma soprattutto i seguàci del "fattore 0", che non sono
solo giovani, ma ciascuno di noi per un certo stile di vita,
hanno ormai imparato a rifiutare la comunicazione ed a
negare l'accesso al proprio cuore, perché preferiscono
tenerlo ben nascosto al centro di un labirinto, in cui gli altri
possono solo vagare senza alcuna speranza.
4. Il silenzio degli squatter.
Dopo la "generazione dei giovani dal pugno chiuso"
che, con il grido insurrezionale e con il gesto anche violento,
volevano cambiare il mondo e gridare in faccia
qualcosa a qualcuno, siamo precipitati nel collasso della
comunicazione: o perché non si ha niente da dire ("generazione
x" degli indifferenti), o perché si è incapaci di stabilire
relazioni ("generazione 0" dei sociopatici), o per decisa
volontà di non parlare, di non raccontarsi e di non
farsi raccontare, perché si è persa qualsiasi forma di fiducia
in chi ha la possibilità di rispondere, e non risponde.
Siamo agli "squatter", che non sono figli del benessere e
neppure figli della noia. Non assomigliano nemmeno ai loro
predecessori dal pugno chiuso, perché costoro volevano
cambiare il mondo e lo urlavano a quanti lo volevano tener
fermo nella roccaforte dei loro solidificati interessi, mentre
gli squatter a questo cambiamento del mondo non ci credono
più. E allora non gridano rivoluzione, ma disperata
rassegnazione. Una rassegnazione che conoscono quanti non
solo non ritengono che le cose possano cambiare, ma neppure
che gli altri, gli uomini dell'informazione, della politica,
della scuola, del mondo del lavoro, possano capire.
Dopo aver assaporato l'irrilevanza della loro incidenza
sociale, gli squatter vanno alla ricerca di una nicchia dove
poter mettere in scena la loro disarticolata ed epocale
sventura. Dico epocale perché è la prima volta nella storia
che, come vuole l'indicazione di Hegel, un "servo" non
ha davanti un "signore" con cui prendersela, perché i
padroni sono diventati, come i loro dipendenti, a loro volta
semplici funzionari di un sistema (il mercato) che entrambi
li trascende.
Accade così che per la prima volta un "disagiato sociale"
non può prendersela con la politica, perché ha annusato
che la politica non è più il luogo delle decisioni, essendosi
questo luogo trasferito altrove: nell'economia organizzata
quasi esclusivamente da fattori tecnici. Ma la tecnica,
ognuno lo sa, e gli squatter lo fiutano, non ha fini da
realizzare, né altro scopo a cui tendere che non sia il proprio
potenziamento. E ciò trasforma subito il lavoratore in
un semplice ed anonimo col-laboratore di questo potenziamento
senza scopo e senza perché.
A tutto questo lo squatter dice no! E siccome l'età della
tecnica non offre più uno scenario dove si possono scontrare,
come pensava Marx, due volontà, quella del "servo"
e quella del "signore", ma uno scenario di automatismi
tecnici muti ma efficaci e funzionali, con chi dovrebbero
parlare gli squatter? Con i politici che si trovano nella
condizione di non poter decidere, ma solo far eseguire la
sequenza ordinata di questi automatismi? Con gli uomini
dell'informazione che ogni giorno spiegano gli atti esecutivi
e non decisionali della politica, che agli squatter appare
come un sovrano spodestato?
No, gli squatter cercano una boccata di senso nel mondo
dell'insensatezza, che ha come sua unica direzione la
crescita infinita senza ragione e senza perché. Resta da capire
se l'eco-terrorismo, di cui gli squatter sono stati
inizialmente accusati, abbia qualche attinenza con il mondo
della tecnica che vediamo come causa prima della mancanza
di senso dilagante.
Ma gli squatter non parlano. E forse il loro silenzio è
l'unica risposta adeguata al silenzio dell'automatismo tecnico,
che procede senza una direzione, senza uno straccio
di spiegazione, senza una parola, spinto avanti solo dal
proprio cieco e inarrestabile potenziamento, che non dà
gioia a nessuno, né prospettiva, né futuro fornito di una
qualche prospettiva. Non è assolutamente facile vivere in
queste condizioni, e gli squatter lo dicono portando in
manifestazione il loro silenzio.
5. I ragazzi dello stadio e la violenza nichilista.
Non è l'unica, ma quella degli stadi è la violenza più
emblematica, messa in atto da quanti, ogni domenica, con
una cadenza ormai rituale, sono soliti provocare incidenti,
guerriglie neppure tanto simulate, con i loro passamontagna
calati, perché la violenza è codarda, con i loro fumogeni
che annebbiano l'ambiente per garantire impunità, le
loro sassaiole che piovono come grandine da tutte le parti
in modo che non ti puoi difendere, con i petardi, che
quando non spaventano, feriscono, con le loro bombe-carta
che uccidono.
Qui i colori politici sono irrilevanti, perché il calcio si è
sempre definito, con un po' di ipocrisia, "politicamente
neutrale", e questa neutralità apre le porte al piacere
dell'eccesso, allo sconfinamento dell'eccitazione, al rituale
ripetuto della messa in scena, alla festa del massacro, alla
socievolezza dell'assassinio, al lavoro di gruppo dei complici,
alla pianificazione della crudeltà, alla risata di scherno
sul dolore della vittima, dove la freddezza del calcolo è
inscindibilmente intrecciata alla furia del sangue, la noia
dello spirito alla bestialità umana.
Finito il rito della crudeltà tutti spariscono, e solo le
registrazioni delle telecamere consentono di individuare
qualcuno di quei pavidi che si nascondono nella massa. Si
sentono innocenti, semplicemente perché non sono in
grado di fornire uno straccio di giustificazione ai loro gesti.
L'ignoranza e l'ottusità che li caratterizzano sono, ai
loro occhi, un'attenuante. L'analfabetismo mentale, verbale
ed emotivo con cui rispondono a chi li interroga sono
per loro una giustificazione.
La loro violenza è nichilista perché è assurda, e assurda
perché non è neppure un mezzo per raggiungere uno
scopo. È puro scatenamento della forza che non si sa come
impiegare e dove convogliare, e perciò si sfoga nell'anonimato
di massa, senza considerazione e senza calcolo
delle conseguenze. La mancanza di scopi rende la violenza
infondata, e quindi assoluta. Ma proprio nel momento
in cui la violenza è libera da qualsiasi considerazione e da
qualsiasi scopo, e quindi da qualsiasi razionalità, diventa
completamente se stessa e si trasforma in pura e sfrenata
crudeltà nichilista.
Le pene miti finora inflitte ai violenti, come ad esempio
l'interdizione a frequentare gli stadi o i patteggiamenti, abituano
progressivamente a ripetere, con la cadenza del rito,
ciò che all'inizio era solo un fatto isolato. È come aprire una
chiusa. E siccome il primo gesto è rimasto senza particolari
conseguenze, dopo che il divieto era stato violato, il percorso
è libero. Tutto diventa possibile. Al primo atto ne segue un
secondo, e poi un terzo, e infine ogni volta che c'è una partita
di calcio. E così la violenza nichilista si ritualizza.
Si ritualizza secondo quel meccanismo che Freud ci ha
spiegato là dove scrive che la violenza, latente nell'inconscio
individuale di ciascuno di noi, diventa manifesta
nell'inconscio collettivo di massa, dove la responsabilità
individuale è difficile da identificare e l'impunità generale
diventa un salvacondotto per gesti più esecrati e senza motivazione,
perché la violenza nichilista è autosufficiente,
E allora l'orgia della crudeltà si ripete con la monotona
regolarità con cui si succedono i sabati e le domeniche di
campionato. Nel rito i tifosi più scalmanati agiscono
secondo routine. E siccome la routine annoia, come i drogati,
anche i criminali da stadio hanno bisogno di dosi sempre
più forti, per allontanare la noia sempre incombente.
La violenza da stadio, infatti, non ha creatività e lascia
poco spazio alla fantasia. E dal momento che è ripetitiva e
qualitativamente identica, l'unica variazione può essere
solo quantitativa, e perciò ogni volta si aumenta la dose e,
con la dose, l'euforia di un incontrollato sconfinamento di
sé, di una sovranità illimitata e di un'assoluta libertà dal
peso della morale e del vincolo sociale.
La caratteristica rituale della violenza nichilista dei
ragazzi dello stadio rende questa violenza diversa dall'insurrezione
o dal tumulto che, avendo di mira uno scopo, si placa
quando lo scopo è raggiunto. Proprio perché è senza scopo,
la violenza nichilista si compie con annoiata indifferenza,
prorompe senza motivo e interesse e, per effetto della
ritualità del suo compiersi, non necessita di alcuna decisione.
Vivendo esclusivamente per la prosecuzione di se stessa, la
violenza nichilista traduce la barbarie in normalità.
10. Oltre il nichilismo.
Pensare significa oltrepassare. Certo, finora
l'oltrepassare non è stato troppo acuto nel cercarsi il
proprio pensiero. O, se questo è stato trovato,
c'erano occhi troppo malmessi. {...} Infatti l'immenso
giacimento utopico del mondo è esplicitamente
quasi privo di rischiaramento. {...} E allora la
filosofia avrà coscienza del domani e prenderà
partito per il futuro solo se saprà della speranza, in
caso diverso non saprà più nulla.
E. BLocH, Il principio speranza (1954-1959), pp. 8-10.
1. La vita come sperimentazione.
È possibile oltrepassare il nichilismo e soprattutto la
ricaduta sui giovani della sua atmosfera che fa ripiegare
ogni senso su se stesso, che spegne ogni iniziativa, che
cancella ogni prospettiva, che inoltra in quella notte buia
e così poco rassicurante dove il futuro si fa incerto e ogni
slancio vitale implode? O dobbiamo dire quello che Nietzsche
diceva di sé, quando si definiva:
Il primo perfetto nichilista d'Europa, che però ha già vissuto in sé
fino in fondo il nichilismo stesso - che lo ha dentro di sé, sotto di
sé, fuori di sé.
Eppure, anche se non più protetto dalla verità, dalla fede,
dall'ideologia, perché queste figure sono state investite
da quello che Nietzsche chiama "il vento del disgelo", forse
è possibile un oltrepassamento del nichilismo, se è vero,
come scrive Franco Volpi, che:
Il nichilismo ha corroso le verità e indebolito le religioni, ha anche
dissolto i dogmatismi e fatto cadere le ideologie, insegnandoci così
a mantenere quella ragionevole prudenza del pensiero, quel paradigma
di pensiero obliquo e prudente, che ci rende capaci di navigare
a vista tra gli scogli del mare della precarietà, nella traversata del
divenire, nella transizione da una cultura all'altra, nella negoziazione
tra un gruppo di interessi e un altro.
Dopo la caduta della trascendenza e l'entrata nel mondo moderno
della tecnica e delle masse, dopo la corruzione del regno della legittimità
e il passaggio a quello della convenzione, la sola condotta
raccomandabile è operare con le convenzioni senza credervi troppo,
il solo atteggiamento non ingenuo è la rinuncia a una sovradeterminazione
ideologica e morale dei nostri comportamenti. La nostra
è una filosofia di Penelope che disfa (analyei) incessantemente
la sua tela perché non sa se Ulisse ritornerà.
Questa "filosofia di Penelope", come la definisce Volpi,
assomiglia a quella che da tempo vado chiamando "etica
del viandante", che i giovani, affrancati dall'illusione di
una meta da raggiungere, già hanno fatto propria quando
si abbandonano alla corrente della vita, non più da spettatori,
ma da naviganti e, in qualche caso, come l'Ulisse dantesco,
da naufraghi. Nietzsche, che del nomadismo è forse
il miglior interprete, scrive:
Se in me è quella voglia di cercare che spinge le vele verso terre non
ancora scoperte, se nel mio piacere è un piacere di navigante: se
mai gridai giubilante: "la costa scomparve - ecco anche la mia ultima
catena è caduta - il senza-fine mugghia intorno a me, laggiù
lontano splende per me lo spazio e il tempo, orsù! coraggio!
vecchio cuore!"
L'appello al cuore dice che i giovani sono già oltre i territori
giurisdizionali in cui finora abbiamo fissato le nostre
dimore, ma questa ulteriorità dice cose più profonde di
quanto non lasci pensare. Cancellata ogni meta e quindi
ogni visualizzazione del mondo a partire da un senso ultimo,
i giovani non stanno al gioco delle stabilità o delle definitività,
e perciò liberano il mondo come assoluta e continua
novità, perché non c'è evento già inscritto in una trama
di sensatezza che ne pregiudichi l'immotivato accadere.
L'andare che salva se stesso, cancellando la meta, inaugura
infatti una visione del mondo radicalmente diversa
da quella dischiusa dalla prospettiva della meta che cancella
l'andare. Nel primo caso si aderisce al mondo come a
un'offerta di accadimenti, dove si può prendere provvisoria
dimora finché l'accadimento lo concede; nel secondo
caso si aderisce al senso anticipato che cancella tutti gli
accadimenti i quali, non percepiti, passano accanto agli
uomini senza lasciar traccia, puro spreco della ricchezza
del mondo.
Non attraversate dall'evento nel suo accadere immotivato,
le generazioni che hanno preceduto la gioventù di
oggi hanno riprodotto il modello dell'uomo della stabilità,
difeso e chiuso nelle spesse mura della Società della torre
di cui parla Goethe, mentre i giovani d'oggi, al pari del
viandante che accade insieme all'evento, recalcitrano a
ogni schema di progressione e significazione, per dire sì al
mondo, e non a una rappresentazione tranquillizzante del
mondo. Impossibilitati a dominare il tempo inscrivendolo
in una rappresentazione di senso, i giovani d'oggi, dopo
aver rinunciato alla meta, sanno guardare in faccia l'indecifrabilità
del destino, rifiutando quei cascami irradiati da
un destino risolto in benevola provvidenza.
Non si legga quindi l'etica del viandante come anarchica
erranza. Il nomadismo è la delusione dei forti che
rifiuta il gioco fittizio delle illusioni evocate come sfondo
protettivo. È la capacità di disertare le prospettive escatologiche
per abitare il mondo nella casualità della sua
innocenza, non pregiudicata da alcuna anticipazione di
senso, dove è l'accadimento stesso, l'accadimento non
inscritto nelle prospettive del senso finale, della meta o del
progetto, a porgere il suo senso provvisorio e perituro.
Se noi adulti siamo disposti a rinunciare alle nostre
radicate convinzioni, quando il radicamento non ha altra
profondità che non sia quella della vecchia abitudine, allora
l'etica del viandante può offrire ai giovani un modello di
cultura che educa perché non immobilizza, perché desitua,
perché non offre mai un terreno stabile e sicuro su cui edificare
le loro costruzioni, perché l'apertura che chiede sfiora
l'abisso, dove non c'è nulla di rassicurante, ma dove è anche
scongiurata la monotonia della ripetizione che i giovani
aborrono, che è poi quell'andare e riandare sulla stessa strada,
senza che una meta si profili davvero all'orizzonte.
Gli anni che stiamo vivendo hanno visto lo sfaldarsi di
un dominio, e insieme hanno accennato a quel processo
migratorio che confonderà i confini dei territori su cui si
orientava la nostra geografia. Usi e costumi si contaminano
e, se "etica" vuol dire "costume", è possibile ipotizzare
la fine delle nostre etiche fondate sulle nozioni di proprietà,
territorio e confine per lasciar spazio a un'etica
che, dissolvendo recinti e certezze, va configurandosi come
etica del viandante che non si appella al diritto ma
all'esperienza e all'ideazione.
A differenza dell'uomo del territorio che ha la sua
certezza nella proprietà, nel confine e nella legge, il viandante,
infatti, non può vivere senza elaborare la diversità dell'esperienza,
cercando il centro non nel reticolato dei confini,
ma in quei due poli che Kant indicava nel "cielo stellato" e
nella "legge morale", che per ogni viandante hanno sempre
costituito gli estremi dell'arco in cui si esprime la sua
vita in tensione. Senza meta e senza punti di partenza e di
arrivo, che non siano punti occasionali, il viandante con la
sua etica può essere il punto di riferimento dei giovani
d'oggi, se appena la storia accelera i processi di recente avviati,
che sono nel segno della de-territorializzazione.
Fine dell'uomo come l'abbiamo conosciuto sotto la tutela
della fede, o della verità, o della certezza scientifica,
che finora hanno fatto da argine alla sua intrinseca debolezza,
e nascita di un uomo sempre meno garantito e perciò
costretto a cercare valori che trascendono quelle che
per noi erano salde garanzie. Il prossimo, sempre meno
specchio di me e sempre più "altro", obbligherà tutti a fare
i conti con la differenza, come un giorno, ormai lontano
nel tempo, siamo stati costretti a farli con il territorio e la
proprietà.
La diversità sarà il terreno su cui i giovani dovranno
maturare le loro decisioni etiche, mentre le leggi del territorio
si attorciglieranno come i rami secchi di un albero
inaridito. Fine del legalismo e quindi dell'uomo come
l'abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà,
del confine e della legge, e nascita di un uomo più
difficile da collocare, perché viandante infaticabile in uno
spazio che non è garantito neppure dall'aristotelico "cielo
delle stelle fisse", perché anche questo cielo è tramontato
per noi.
E con il cielo la terra, perché è stata scoperta come terra
di protezione e luogo di riparo. Tagliati gli ormeggi, l'orizzonte
si dilata, il suo dilatarsi lo abolisce come orizzonte,
come punto di riferimento, come incontro della terra
con il suo cielo. E questo perché, scrive Nietzsche:
Abbiamo lasciato la terra e ci siamo imbarcati sulla nave! Abbiamo
tagliato i ponti alle nostre spalle - e non è tutto: abbiamo tagliato la
terra dietro di noi. Ebbene, navicella! Guàrdati innanzi! Ai tuoi
fianchi c'è l'oceano: è vero, non sempre muggisce, talvolta la sua
distesa è come seta e oro e trasognamento della bontà. Ma verranno
momenti in cui saprai che è infinito e che non c'è niente di più
spaventevole dell'infinito. Oh quel misero uccello che si è sentito libero
e urta ora nelle pareti di questa gabbia! Guai se ti coglie la
nostalgia della terra, come se là ci fosse stata più libertà - e non esiste
più "terra" alcuna!
2. L'attesa e la speranza.
Il nichilismo e l'ipotesi del suo oltrepassamento avviano
a questi pensieri sostenuti dall'attesa e dalla speranza,
che sono figure che hanno a che fare con il futuro, quindi
con la vita che ha da venire. L'attesa con l'avvenire immediato
solitamente legato a un evento, la speranza con un
futuro lontano pieno di promesse, senza le tracce dell'ansia,
dell'inquietudine, della perplessità, dell'insicurezza
che caratterizzano l'attesa.
Come infatti ci ricorda Eugenio Borgna, nell'attesa c'è
"una vertiginosa accelerazione ed un'enigmatica anticipazione
del futuro" che bruciano il presente e rendono insignificanti
i suoi momenti, perché tutta l'attenzione e la tensione
sono spostate in avanti, spasmodicamente concentrate
sull'evento che si attende come evento di felicità che può andare
deluso o come evento infausto che non si sa come evitare.
Nell'attesa non c'è durata, non c'è organizzazione del
tempo, perché il tempo è divorato dal futuro che risucchia
il presente a cui toglie ogni significato, perché tutto ciò
che succede è attraversato dal timore e dall'angoscia di
mancare l'evento. La speranza, invece, guardando più lontano
e ampliando lo spazio del futuro, distoglie l'attesa
dalla concentrazione sull'immediato e dilata l'orizzonte.
La speranza, infatti, è l'apertura del possibile. Essa fa
riferimento a quei "nuovi cieli" e a quelle "nuove terre" che
sono promessi dalla religione, dall'utopia, dalla rivoluzione,
dalla trasformazione personale che siamo soliti temere,
perché arroccati alla nostra identità assunta come un fatto
e non come un'interminabile e mai conclusa costruzione.
I giovani sono una costruzione. E se l'attesa è l'ansia che
quella costruzione che essi sono abbia buon fine, la speranza
attiva il loro comportamento affinché sia nelle loro mani
l'accadere del buon fine. In questo senso diciamo che l'attesa
è passiva, perché vive il tempo come qualcosa che viene
verso di noi, la speranza invece è attiva perché ci spinge verso
il tempo, come verso quella dimensione che ci è assegnata
per la nostra realizzazione. I giovani sono attivi quando
con la speranza vanno verso il tempo e non quando con l'attesa
aspettano che il tempo venga verso di loro.
Quando l'attesa è disabitata dalla speranza nei giovani
subentra la noia, dove il futuro perde slancio e il presente si
dilata in uno spessore opaco dove il tempo oggettivo, quello
dell'orologio, cadenza il suo ritmo sul tempo vissuto che si è
arenato, infossato, arrestato. Nella noia, infatti, ogni attesa
è risucchiata, ogni speranza è estinta, non ci sono più né
progetti né storia, ma tutto affoga nel gorgo di un presente
in cui ogni orizzonte di senso si inaridisce e si spegne.
Se un giorno è come tutti, tutti i giorni sono come uno
solo, nell'uniformità perfetta di una vita che assapora quel
vuoto d'esperienza che accade quando si sono vanificate
tutte le attese, tutte le speranze, tutte le illusioni. È allora
che l'impossibile, come un muro, sbarra tutte le vie del
possibile che alimentano il futuro. E lo spazio lasciato
vuoto dal futuro, disertato sia dall'attesa sia dalla speranza,
viene occupato dal dilagare del passato che divora tutte
le attese e tutte le speranze sottraendo al tempo la sua
dimensione a venire.
È a questo punto che dalla noia si passa alla depressione,
sempre più diffusa tra i giovani. Senza attesa e senza
speranza il tempo si fa deserto e, in assenza di futuro, rifà
la sua comparsa quell'ospite inquietante che abbiamo
chiamato nichilismo. È a questo punto che la tentazione
della morte, con il suo assoluto silenzio, inizia a parlare
con il tono tranquillo di chi sa quanto, in certe circostanze,
sia seducente il suo invito. Fine del baccano indiavolato
con cui quotidianamente i giovani tentano di distrarre
la loro anima. Un baccano che è la parodia del grido che
affonda in un tempo senza attesa.
Eppure, scrive Borgna, anche nel suicida la speranza
non è del tutto estinta, perché non si potrebbe compiere
quel gesto se la morte non fosse vista come la sola ragione
di vita, dopo che le speranze sono state negate, le illusioni
falciate e le attese sono apparse senza fine. In questa condizione,
così frequente nell'adolescenza resa fragile dagli
eventi e dalle situazioni tragiche che spesso sconfiggono
un'esistenza, la speranza porta alla morte come "ultima
speranza" quando questa più non riesce a proiettarsi in un
futuro, perché più non è capace di recuperare un passato.
Sia Giuda sia Pietro, infatti, hanno tradito Gesù, ma
mentre Giuda suicidandosi ha assegnato al passato il compito
di esprimere tutto il senso della sua vita, Pietro ha conosciuto
la fatica di ri-assumere il proprio passato togliendogli
l'onore di dire l'ultima parola sul senso della sua vita. Questo
è lo spazio dove si gioca la speranza o il gesto suicida.
Sperare, infatti, non significa solo guardare avanti con
ottimismo, ma soprattutto guardare indietro per vedere
come è possibile configurare quel passato che ci abita per
giocarlo in vista di possibilità a venire. Suicidarsi invece è
decidere che il nostro passato contiene il senso ultimo e
definitivo della nostra vita, per cui non è più il caso di
riassumerlo, ma solo di porvi semplicemente fine.
E così sia la speranza sia il suicidio giocano i loro dadi
sul passato e sul senso che il passato viene assumendo per
me. E siccome sono io a dar senso al passato, nella speranza
c'è la libertà di conferire al passato la custodia di sensi
ulteriori, mentre nel suicidio c'è l'illibertà di chi nel passato
vede solo un senso inoltrepassabile e perciò definitivo.
Queste sono le riflessioni che nascono dall'aver ipotizzato
un possibile oltrepassamento del nichilismo giovanile,
dove ci si muove in quella notte enigmatica e buia che,
senza la forza di attendere e soprattutto di sperare, non
garantisce che l'indomani sia giorno e poi ancora giorno.
11. La musica giovanile ed il ritmo del cuore.
Non è il tempo che fonda il ritmo.
È il ritmo che fonda il tempo.
C. SINI, L'incanto del ritmo (1993), p. 54.
1. La musica giovanile e l'urto dell'inquietante.
Con insolita radicalità oggi i giovani hanno spezzato il
modo in cui finora in Occidente è stata considerata la musica
a partire da Platone, che la instaurò come arte edificante
che doveva svolgere la funzione morale di accompagnare
l'uomo su quel retto sentiero che portava al Bene, in
cui si esprimevano la verità e il dovere.
Per questo, a sentir Platone, bisognava salvare "solo la
lira e la cetra, gli strumenti di Apollo utili alla città", e
bandire "trigoni e pettidi, nonché gli auloi, gli strumenti di
Marsia e dei portatori di tirso, seguàci di Dioniso", perché
Dioniso, come già aveva mostrato Euripide nelle Baccanti,
distrugge la città. Si tratta infatti, scrive Platone, "di strumenti
dal potere scabroso, capaci di sedurre, incantare,
affascinare, inebriare, penetrare negli animi e
impossessarsene". Di qui la necessità di purificare la musica di
questo suo potere, e contenerla nella pura armonia della
lira e della cetra che sanno riprodurre l'armonia cosmica,
modello dell'armonia della città.
Questa intenzione metafisico-edificante, che fa preferire
a Platone la musica uni-lineare, e bandire "gli strumenti
a più corde capaci di molteplici armonie", influirà sulle
sorti della musica in Occidente, che resterà inquadrata nel
registro etico-metafisico come mezzo formativo della
spiritualità, come allegoria della realtà metafisica che rinvia
alla verità dell'essere, al di là dell'apparenza delle cose.
Oggi i giovani, con le loro pratiche musicali, hanno
capovolto questo modo di pensare la musica, che da Platone a
Schopenhauer, passando per Plotino, Agostino, Leibniz,
Hegel, non fa che ribadire l'architrave portante dell'intera
cultura occidentale, e hanno coniugato la musica non con la
verità dell'essere, con il "Sole platonico", con lo Spirito hegeliano
"onnipresente ed integro nel profondo delle cose", ma
con l'Ineffabile, come è ineffabile, scrive Jankélévitch, "il volto
di Jahvè che è indescrivibile, perché chi lo vede muore".
La musica giovanile, lungi dall'essere un discorso
lineare e costruttivo come Platone voleva che fosse, lungi
dall'essere lo specchio dell'essere, si muove tra essere e
non essere, sempre sul ciglio di un abisso, metafora della
vita che, per i giovani, è ben lungi dall'essere fondata, perché
nel fondo è senza ragione e senza perché, quindi evento
gratuito, grazia.
Ma proprio perché è evento gratuito, senza ragione e
senza perché, la musica esprime anche quella minaccia
veramente tragica per cui ogni suono, ogni parola, ogni
voce può venire veramente estinta. Qui la musica giovanile,
se da un lato si sottrae alla pretesa platonica che la prevede
come ausiliaria a quella visione centrata sull'Uno
indefettibile e splendente tanto cara ai moralisti edificanti
da Platone a Tolstoj, dall'altro si offre all'urto della
contraddizione che la vita, la realtà, l'essere sempre portano
con sé, e che la musica canta.
Questo inquieto contrasto, questa minaccia erano già
stati illustrati dalla tragedia greca che, con la musica
dionisiaca, aveva arrestato i suoni e le voci al di qua della
salvezza, registrando quell'eterno transitare della vita nella
morte, del suono nel silenzio. Variazioni su questo tema
sono state rappresentate da Ulisse che per non lasciarsi sedurre
dal canto delle sirene s'era fatto legare a un palo dopo
aver turato le orecchie ai suoi uomini, mentre Orfeo
aveva vinto il canto delle sirene con una musica più bella,
per cui le sirene, private del loro potere, si gettarono in
mare e diventarono scogli.
Questo confronto è di Ernst Bloch, il filosofo dell'utopia
che evidenzia la natura intrinsecamente utopica della
musica, capace di risvegliare nei giovani la loro dimensione
più profonda, quella che non si identifica in una vuota
astrazione, né tantomeno in un principio d'ordine come il
"Bene" di Platone e lo "Spirito" di Hegel, ma coincide
piuttosto con quello che in loro c'è di più irriducibile, in
un certo senso con lo scarto che c'è tra loro e ciò che sanno
di loro, quindi con l'utopia di se stessi. La musica,
dunque, non come la nave di Ulisse che conduce a casa, ma
come la barca di Orfeo che li porta agli Inferi, nello strato
più profondo e interiore di loro stessi, in cui è custodito il
loro futuro realizzabile, anche se lontano.
Questa lontananza, che nessun progetto raggiunge perché
è puro suono del sentimento, viene avvistata dalla musica
giovanile che, a differenza della musica classica, immette
nel tempo puro che disintegra il tempo reale, perché la musica
giovanile, in qualche modo, è un gesto dell'empietà che redime
dal tempo ordinato della successione dei giorni.
Ma per effetto dell'urto della contraddizione, oltre alla
lontananza la musica giovanile concede la prossimità alla
profondità dell'intimo, quindi a ciò che di irriducibile c'è
in ciascuno di noi. Sotto questo profilo è qualcosa di
benevolo, qualcosa di prossimo, più dell'amore che, come
amore per l'altro, allontana da sé.
Nella musica giovanile agisce infatti una reminiscenza
che porta a casa più intimamente di quanto non possa fare
un processo di interiorizzazione, e al tempo stesso dis-loca,
non nel senso che porta i giovani da un luogo all'altro, ma
nel senso che li conduce dall'intimità del soggettivo all'assoluto,
qui inteso come ciò che è sciolto da ogni legame (solutus
ab), perché alla musica nulla di ciò che è mondo e attualità
del mondo può corrispondere.
2. La cadenza del ritmo.
Capiamo allora cos'è tutto quel bisogno di musica di
cui i giovani sembrano assetati. Cos'è quell'ossessione
settimanale che li ammassa nelle discoteche. E poi le folle dei
concerti, le solitudini con i walkman sparati nelle orecchie.
Cos'è quel bisogno di suoni, i più primitivi, i più ritmici,
i più cadenzati.
Non diciamo bisogno d'aggregazione, perché, oltre una
certa misura, la folla non concede più comunicazione. Non
diciamo crollo delle ideologie per cui, in assenza di idee, è la
musica a richiamare le masse. Non diciamo droga: droga
leggera che si aggiunge a quella pesante. Non diciamo neppure
sesso, perché le dimensioni orgiastiche hanno a che
fare più con la castità che con la fusione dei corpi.
Tutte queste cose sono in parte vere, ma non arrivano a
quella radice a cui, senza saperlo, i giovani tendono nel tentativo
disperato di rifondare un tempo che non sia solo "progetto"
e "sguardo al futuro", in cui è completamente ed asfitticamente
racchiusa la nostra cultura, ma quel tempo originario
che ha nel corpo il suo semplice ritmo, di cui la musica, e
in particolare la musica rock, è la più gelosa custode.
Parlo di quel ritmo che, come scrive lucidamente Carlo
Sini, è "battere e levare, battere e levare, uno/due, uno/due".
È il ritmo del nostro respiro, il ritmo del battito del nostro
cuore, il ritmo sonno e veglia, il ritmo sazietà e fame, il ritmo
del coito, il ritmo che nella vita intrauterina scandisce
la prima figura del tempo.
L'incanto del ritmo nella sua eterna ripetizione non è
un modello teorico, ma piuttosto una sfida a vivere fuori
dal disegno tracciato dall'idea di progresso all'infinito, da
cui i giovani spesso si sentono esclusi per le difficoltà a
prendervi parte. E quando lo sguardo rivolto al futuro si riduce,
forte nasce da un lato l'insistenza sul presente, ben
rappresentato dal battito ritmato dei piedi su questa terribile
terra, quando un'altra non è promessa, dall'altro lato il
bisogno di tornare indietro, al passato, anzi a quel primitivo
ritmo del corpo che, custodendo la prima origine del
tempo, apre la speranza di un altro futuro.
In questa operazione regressiva, dove nella regressione
c'è anche il valore positivo della possibilità di una rifondazione
del mondo, prepotenti si fanno avanti quelle domande
che non chiedono la soluzione dei problemi, perché la sfiducia,
neppure avvertita come tale, ha già bruciato tutto lo spazio
dell'attesa di una possibile risposta. E perciò nella cadenza
del ritmo più primitivo, quella del battere e levare, quella
dell'uno/due, si rivive, nel ventre della folla, quella prima
esperienza nel ventre della madre, dove il battito del proprio
cuore non si distingueva dal battito del cuore materno.
Si raggiunge così quella condizione dove le domande si
pongono non in modo teorico, ma corporeo, e con il corpo
si chiede qual è l'origine per sapere chi siamo noi, che cos'è
il mondo per sapere che cosa ci facciamo, chi è Dio per
sapere quale altro Dio si nasconde dietro il racconto che ci
hanno fatto, constatando con Nietzsche che: "Quasi due
millenni, e non un solo nuovo dio!".
Sono queste delle domande che non si sciolgono in
una risposta teorica, ma si vivono solo come domande,
con tutta la tensione che la domanda conosce quando la
risposta non è all'orizzonte, una tensione che il corpo scarica
nel ritmo incessante, ripetuto fino allo sfinimento,
perché tutte le domande senza risposta sfiniscono.
Eppure in quest'esperienza del nulla, che solo il
rumore fragoroso della musica e degli effetti speciali riesce
momentaneamente a non far percepire, in questa assenza
del proprio nome perso nella folla che, nel suo
anonimato, ha inghiottito tutti i nomi, c'è nell'urlo
primordiale collettivo una ripresa dell'atto fondativo delle
prime comunità che non si sono raccolte, come vogliono
le ipotesi psicoanalitiche, intorno al focolare, ma, come
ci ricorda Emanuele Severino, intorno al grido:
Il grido. Sta all'inizio della vita dell'uomo sulla terra. Il grido di caccia,
di guerra, d'amore, di terrore, di gioia, di dolore, di morte. Ma
anche gli animali gridano, e per l'uomo primitivo grida anche il
vento e la terra, la nube ed il mare, l'albero, la pietra, il fiume. Ma solo
l'uomo si raccoglie attorno al proprio grido, in assenza degli
eventi che l'hanno provocato. Al grido sono legati gli aspetti decisivi
dell'esistenza e nella rievocazione del grido le più antiche comunità
umane non solo scorgono le trame che le formano, ma annodano
stabilmente i fili della trama, cioè si stabiliscono e confermano
nel loro essere comunità umane. L'intera vita dei popoli più antichi
si raccoglie attorno alla rievocazione del grido, cioè attorno al
canto. E il canto avvolge i viventi ben più strettamente del calore
dei fuochi attorno a cui essi stanno.
Interprete di questa trama profonda è la musica che,
nel suo ritmo originario, precede la parola che si scambia
a comunità già costituita. Se i nostri giovani per esistere
devono ricorrere alla musica-grido, questo dovrebbe farci
riflettere su quanto la nostra comunità non sia più accogliente,
quanto asfittiche e mascherate siano le parole bene
educate che si scambiano, quanta solitudine di massa
si aggiri nella nostra città dove ciascuno è dedito ai soli
suoi traffici e dove i mezzi di comunicazione servono solo
a renderli più spediti, in quella "menzogna della civiltà",
come scrive Nietzsche, nella quale il giovane stenta sempre
più a trovare la sua abituale dimora. E perciò lo dice
con quel linguaggio originario che è la musica, nel suo
tratto più primitivo, quello ritmato, quello del corpo, quello
del battito del cuore.
Fra tutte le arti, infatti, la musica è l'unica che non si
vede, come invece la pittura o la scultura, che non perviene
a un senso finale al di là delle parole in cui si articola,
come invece accade nel linguaggio. La musica si sente, come
si sentono i gesti d'amore che si incidono nella carne
che sfiorano e penetrano. Per questo l'erotico è l'oggetto
naturale del musicale, e non si dà musica se non come
cadenza erotica, come sua incisione. Comprendiamo allora
perché Kierkegaard può dire che:
In questo regno non abita il linguaggio, né la ponderatezza del pensiero,
né il travagliato acquisire della riflessione, ivi risuona soltanto la
voce elementare della passione, il gioco dei desideri, il chiasso selvaggio
dell'ebbrezza, ivi si gode soltanto in eterno tumulto.
Ne scaturisce un'eternità che si nutre di tempo, una
spiritualità che si incarna, una sensualità che lascia alle
spalle come bassa pianura tutto ciò che viene indicato come
vetta dello spirito. Il punto di fusione è l'immediatezza,
per cui, come l'erotismo, anche la musica vive l'istante,
la successione degli istanti che sorgono l'uno nell'estinzione
dell'altro.
Questi istanti non si danno tutti dispiegati, come
dispiegati in successione si danno i passaggi con cui un
ragionamento si offre al pensiero e alla riflessione, ma uno
vive la morte dell'altro, come i gesti erotici che si susseguono
cancellandosi, perdendo convulsamente la loro
successione ed affidando la loro memoria ai sensi, perché
questa è l'autentica condizione dell'uomo, a cui non è dato
l'eterno se non per rapidi e fugaci assaggi, e non elevandosi,
ma incarnandosi.
Più si fa abisso, più si fa universo. Ma nell'abisso non
si può stare, così come non si può stare nell'universo troppo
vasto e privo di riferimenti. Brevi istanti sono concessi
all'uomo per accogliere l'eterno. Musica e sensualità sono
i veicoli e i mediatori, ma per questo occorre essere all'altezza
della sensualità, e saper avvertire nella musica lo
spessore della carne toccata e fuggita.
Qui a reggere il tutto è la forza dell'inconsistenza in cui
risuonano sia la rapidità di una nota sia la leggera pressione
di una carezza. Quanto basta perché la nostra esistenza
possa galleggiare tra l'angoscia, l'entusiasmo e la disperazione,
in cui è gettata la sorte di ogni uomo provvisto di
una sensibilità appena decente.
3. La danza e la liberazione del corpo.
"Tra santi e prostitute, tra Dio e mondo, la danza. ) lt9
Così parla Nietzsche, dopo aver scosso tutte le figure di
stabilità che Platone aveva ordinato in quell'al di là del cielo
nominato "iperuranio". Ma proprio puntando verso il
cielo il suo Cannocchiale aristotelico, Emanuele Tesauro
nel 1663 scopre che all'origine del mondo c'è "quell'arte
nobilissima che è la danza di cui si dice ella esser nata da
principio col mondo istesso".
In verità, prima che il divino fosse irrigidito nel concetto
di Dio e il sacro separato dal profano, anche Platone
conveniva che "furono proprio quegli dèi, che ci sono stati
offerti come compagni di danza, a farci dono del ritmo e
dell'armonia come espressioni del piacere". Qui l'antica
cultura greca consuona con quella biblica dove il salmista
loda il Signore "con timpani e danze", e dove Davide
"danzava con tutte le sue forze davanti al Signore".
Fu il cristianesimo a separare il sacro dalla danza e a
irrigidire il corpo in uno spazio controllato e chiuso. Così Giovanni
Crisostomo scrive che "Ubi saltatio, ibi diabolus",
mentre Ambrogio indica nella "saltationem" la via più prossima
all'impudicizia. Se poi la danza dovesse essere il modo
di celebrare la festa, allora Agostino non ha dubbi: anche
nei giorni festivi "melius est arare guam saltare".
A mano a mano che il sacro cessa di essere il luogo d'incontro
di puro e impuro, per diventare luogo di mortificazione
ed ascesi, a mano a mano che la parola, la scrittura, la
mente diventano i veicoli del sacro, il corpo e i suoi gesti
che la danza anima passano dal regno di Dioniso a quello
del Diavolo, dalle Baccanti alle Streghe del sabba.
Con il Rinascimento e la nascita della scienza moderna
il corpo viene riscattato dall'inferno in cui era stato relegato
dalla religione dell'anima, e disposto sulla tavola anatomica
come corpo disciplinato dalla descrizione del sapere
medico. Alle categorie religiose bene/male, anima/corpo,
sacro/profano subentrano quelle mediche di salute/malattia
che consentono di recuperare la danza come "benefico
movimento", purché eviti gli eccessi e accada secondo
disciplina. Atrofizzata nella ritualità delle buone maniere, la
danza riappare come gesto acculturato. Ma è ormai la danza
di un corpo chiuso. definito dai suoi confini con il mondo,
non di un corpo aperto, grottesco, che entra ed è invaso
dal mondo.
La riscoperta del corpo non comporta quindi alcuna
apertura al mondo e perciò la danza codificata di corte
può essere accolta anche in àmbito religioso purché,
nell'esprimersi, i corpi evitino i contatti, perché, come scrive
Francesco di Sales:
I corpi umani assomigliano a dei cristalli, che non possono essere
trasportati insieme, perché toccandosi l'un con l'altro corrono il rischio
di rompersi, e ai frutti che, sebbene intatti e ben preparati, si
guastano, se si toccano gli uni con gli altri.
I consigli di Francesco di Sales sembrano presi alla lettera
dai giovani delle nostre discoteche avvolti in una danza
solipsistica, dove anche quando si mimano gli atti del
coito non si spezzano le pareti dell'incomunicabilità. L'eccesso
d'energia sprigionata dai corpi, il tentativo di compensare
con i gesti l'afasia del linguaggio, il ritmo meccanico
che affoga l'espressività gestuale in una cadenza senza
tempo, le luci stroboscopiche che, spezzando la continuità
del movimento, ne inchiodano le forme, sono in
realtà la parodia della danza, dove ciò che drammaticamente
trapela è l'incapacità di riportare il corpo al centro
della propria esperienza.
Infatti l'atmosfera apocalittica, orgiastica, ipertecnologica
delle nostre discoteche in cui è ricoverata la danza,
come la malattia all'ospedale e la morte al cimitero, dice
di corpi che hanno rinunciato ai propri gesti, per regredire
a quel movimento autonomo e per tutti identico che è il
ritmo, qui inteso non come ritmo cardiaco, ritmo respiratorio,
in cui sono rintracciabili le prime forme d'esistenza,
quelle del ventre buio della madre, e quella del grido lacerante
appena se ne esce, ma il ritmo della ripetizione che
non sposta le gabbie del proprio corpo oltre quelle delle
convenzioni. E così si perde il segreto della danza che,
come scrive Fabrizio Andreella, è poi quello di:
Curare una società che tende a rimuovere ciò che vive come malattia.
La malattia di un'emotività che non sarà mai sistematica, la
malattia di un'umanità irriducibile alle regole comportamentali
che si è data, la malattia di un corpo che sfugge alla dimensione
carnale che gli è stata imposta, la malattia di un'anima che non sa
resistere nella gabbia dell'intelletto, la malattia di una ragione che
ciclicamente abdica al suo ruolo di dominatrice repressiva
dell'esperienza.
Sì, perché c'è un senso in cui è possibile dire che la
ragione ha costruito se stessa come ragione disincarnata,
con conseguente riduzione del corpo nei confini dell'opacità
della carne. E siccome la danza rifiuta il dualismo
conflittuale tra materiale ed immateriale, siccome non vive il
corpo come antagonista dell'anima, la danza, con la semplicità
del suo gesto, dissolve il tratto disgiuntivo con cui la
ragione procede, opponendo il vero al falso, il bene al male,
il positivo al negativo, l'alto al basso, per richiamare
quell'ordine simbolico (nell'accezione greca di syn-ballein
che significa "mettere assieme") da cui proveniamo e che
ancora ci abita come fondo abissale in cui la coscienza cerca
di gettare la sua pallida luce.
Nella danza, infatti, il corpo incarna le produzioni del
senso simbolico per confermarle nella ritmicità rituale o
per dissolverle nella frenesia orgiastica. Ciò è possibile
perché nella danza il corpo abbandona i gesti abituali che
hanno nel mondo il loro campo d'applicazione, per prodursi
in sequenze gestuali senza intenzionalità e senza
destinazione che, nel loro ritmo e nel loro movimento,
producono uno spazio e un tempo assolutamente nuovi,
perché senza limiti e senza costrizioni.
Perdendo l'aderenza alle cose del mondo, nella danza
ogni gesto diventa polisemico, ed è proprio in questa polisemia
che il corpo può riciclare simboli, può confonderli o
addirittura abolirli. Liberandosi nella pura gestualità non
intenzionata, il corpo del danzatore descrive un mondo
che è al di là di tutti i codici e di tutte le relative iscrizioni,
perché nella danza l'unico segno visibile è quello in cui il
corpo inscrive se stesso tra la terra e il cielo.
In questo senso i giovani vedono nella danza un mezzo
per sfuggire alla serietà dei codici che li minacciano.
Infatti, scivolando l'uno sull'altro, nella danza i movimenti
del corpo non si lasciano individuare, e quindi neppure
analizzare, perché danzati. Per la rapidità dei movimenti,
la danza cancella di colpo le figure appena costruite,
continua creazione e distruzione del mondo, composizione
dei massimamente distanti, e quindi abolizione dei significati
costruiti in questa distanza. Parodia di ogni sistema,
la danza dissolve tutti i sensi che vogliono proporsi come
sensi definitivi. Leggerezza del corpo che ripristina la
leggerezza dei simboli, la loro fluttuazione che gioca con la
gravità dei codici e con il rigore delle loro iscrizioni.
Se nel linguaggio sistematico dei codici il corpo si lascia
esprimere dalla razionalità, nel linguaggio simbolico e
nell'eccedenza semantica fluttuante che lo connota il corpo
esprime la sua e-motività, ciò che lo muove. Non essendo
sistematica, l'emotività non potrà mai costituirsi nel
linguaggio. Debordando dai segni e slittando sui significati,
l'emotività non ha altra possibilità di espressione se
non nell'eccedenza semantica che scivola ai confini dei
codici. Per questo le società più diventano razionali, più
aboliscono il linguaggio simbolico, togliendo sempre più
spazio alle manifestazioni emotive che hanno nel corpo la
loro radice.
Eppure non è la razionalità, ma il fenomeno emotivo a
far vivere i codici. Non basta infatti un sistema di segni
perché vi sia senso. Il senso è sempre immesso da un referente
emotivo, che può essere anche la paura per la decodificazione
parziale o totale. Il linguaggio primitivo, che usa
metafore organiche per esprimere le emozioni, parla del
cuore, dello stomaco, del fegato, dei reni e in generale degli
organi corporei come della sede delle reazioni emotive, e
poi trasferisce questi organi fuori di sé per nominare le cose
del mondo, per cui la casa ha una "faccia", il vaso una
"pancia", il villaggio una "fronte".
Con ciò il corpo e le sue parti non diventano il referente
o il codice di tutti i codici, ma ciò che traduce un
codice nell'altro, un sentimento in un organo, un organo
in una cosa del mondo. La danza è il simbolo vivente di
questa continua e ininterrotta traduzione, e a partire da
qui possiamo cominciare a capire quel frammento gnostico
che recita: "Chi non danza non sa cosa succede".
12. Il segreto della giovinezza.
Per un risveglio della simbolica giovanile.
No. La vita non mi ha disilluso. Di anno in anno
la trovo sempre più ricca, più desiderabile e più
misteriosa - da quel giorno in cui venne a me il
grande liberatore, quel pensiero che la vita potrebbe
essere un esperimento di chi è vòlto alla
conoscenza - e non un dovere, non una fatalità,
non una fede. {...} La vita come mezzo di conoscenza.
Con questo principio nel cuore si può non
soltanto valorosamente, ma anche gioiosamente
vivere e gioiosamente ridere.
F. NIETZSCHE, La gaia scienza (1882), õ 324.
Forse un modo per oltrepassare il nichilismo, almeno
nelle sue catastrofiche ricadute giovanili, è quello di risvegliare
e consentire ai giovani di dischiudere il loro segreto,
spesso a loro stessi ignoto. È questa la proposta di Maurizio
Mancuso, la cui ricerca si scosta senza esitazioni da tutti gli
studi che le scienze umane hanno dedicato al mondo giovanile,
senza coglierne la simbolica che lo promuove, nonostante
la letteratura, la filosofia, il cinema, la pubblicità non
hanno mai smesso di segnalarla. Questa simbolica è custodita
e secretata nel loro cuore, ora silenzioso ora tumultuoso,
della cui forza, forse, abbiamo privato i nostri giovani,
spuntando quelle che il Salmo 127 definisce "frecce": "Come
frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza".
Per riscoprire questa simbolica occorre distanziarsi dallo
sguardo psicologico che considera la giovinezza come
un'età di mezzo in cui non si è più bambini e non si è ancora
adulti, e perciò età faticosa, difficile, fonte di sofferenze e
di ansie, età di transito, età inadeguata. E anche dallo
sguardo sociologico che punta gli occhi sulla devianza (i
drogati, i violenti, gli sfaccendati), versione scientifica delle
ansie genitoriali che si nutrono di timore per il futuro, senza
neppure il sospetto che la devianza forse altro non è che
la frustrazione della simbolica che anima la giovinezza.
È come se lo sguardo senile della cultura occidentale non
avesse più occhi per la condizione giovanile che potrebbe
portare un rinnovamento, e perciò la lascia ai margini del
proprio incedere, parcheggiata in spazi vuoti e privi di prospettive,
senza farsi sfiorare dal dubbio che forse il sintomo
della fine di una civiltà non è da addebitare tanto all'inarrestabilità
dei processi migratori o ai gesti disperati dei terroristi,
quanto piuttosto al non aver dato senso e identità e
quindi aver sprecato le proprie giovani generazioni, la massima
forza biologica e ideativa di cui una società dispone.
Il segreto della giovinezza, forse più noto ai ricercatori
di mercato che ai sociologi, agli psicologi, agli educatori e
agli stessi genitori, deve essere riconosciuto e riconsegnato
ai giovani, che lo vivono comunque, ma un po' alla cieca,
perché è stata loro sottratta la mappa, che occorre rintracciare,
ricomponendo i pezzi spesso incodificabili dei
comportamenti giovanili.
Nel segreto della giovinezza, la prima figura che
rintracciamo è l'espansività. Già gli antichi Greci avvertivano
che la vita non è eterna, ma breve, e, proprio perché breve,
va vissuta in tutta la sua espansività. Espansività vuol dire
pienezza, quella pienezza cantata da Africa Unite: "Ci
sono notti che le labbra bruciano nel sale, quelle notti da
farci l'amore fin quando fa male".
Espansività vuol dire potenza che si esprime nello spirito
animale del giovane che sfida romanticamente gli elementi,
puro tuffo nella vita che osa la temerarietà. Espansività vuol
dire accelerazione della vita che detesta la ripetizione e giunge
a stressare l'esperienza, fino al "dis-astro" che, come ci
ricorda Steiner, "è una pioggia di stelle sull'umanità".
E poi coralità giovanile ben espressa da quella canzone
dei Beatles: "Io sono lui, come tu sei lui, come tu sei me e
noi siamo tutti assieme". Sensazione di appartenere a una
comunità nascente, sentimento di nascere insieme al mondo,
di essere tra giovani prima ancora che nel mondo.
Stupore incantato del riconoscimento, da cui nasce la propria
identità, non attraverso un processo di interiorizzazione,
ma come dice il poeta spagnolo Aleixandre, "attraverso
quel palpito che muove migliaia di cuori che fanno un unico
cuore", per intonare, direbbe Apollinaire, "il canto di
tutto l'amore del mondo".
All'area mitica della giovinezza, oltre all'espansione per
cui Nietzsche scrive: "Il giovane viene spinto selvaggiamente
nell'esistenza", in quella bella continuità di speranze
che, al dire di Conrad: "non conosce pause né introspezioni",
appartiene anche la figura dell'assenza che non è
mancanza, ma tensione esplorativa, dinamica, immaginativa,
fantastica. Se l'espansività è l'adesione incondizionata
alla pienezza della vita, la sensazione che il reale, come dice
Musil, "non esaurisce tutto il possibile", spinge i giovani
verso quegli universi alternativi alla realtà, perché, prima
di essere reale, la vita deve essere fantasticata.
È la forma della passione che, diceva Stendhal, "non è
cieca, ma visionaria" e perciò "prende il vento dell'eventuale"
(Breton), "come il mare che è sempre qualcosa
che ricomincia" (Sartre), perché ogni giovane, come il
Tonio Kroger di Thomas Mann, "è portato per mille modi
d'esistenza".
La passione per l'assenza inventa il gioco, come quel
muoversi di qua e di là per non farsi risucchiare dalla
monotona ripetizione del reale, inventa l'utopia per creare
spazio a un'idea e, con la luce dell'ideale, illuminare lo
spessore opaco del reale. L'utopia giovanile non è necessariamente
una fuga nel sogno e neppure, all'altro estremo,
una densa consistenza ideologica, ma un pensare
con il cuore che immette nel pensiero una corrente di calore,
perché, ce lo ricorda Dostoevskij, nel giovane "la logica
è sempre fusa ad un violento sentimento che si impadronisce
di tutto l'essere" e porta a "scardinare la
mediocrità della vita di tutti i giorni e andare a far volare
l'aquilone nel prato" (Brizzi), perché l'utopia, come
scrive Beck, "invoca l'immaginazione come soluzione".
E poi il viaggio che per Elias Canetti è la metafora del
"desiderio giovanile di varcare ogni confine". "Dove
andiamo", si legge in Kerouac, "non lo so, ma dobbiamo
andare". "Anche dall'altra parte della vita", scrive Céline,
come i bambini che, per scoprire, guardano gli oggetti
che ricevono in regalo anche da dietro, anche dall'altra
parte. Viaggiare, magari o soprattutto senza una meta,
per il giovane vuol dire assorbire visi, parole, moltitudini,
inghiottire l'universo per non morire di noia.
E poi, a fianco dell'utopia, la sfida per mettersi alla
prova, per far nuovi tentativi, per commentare, lanciando
una sfida, il mondo che stanno ereditando, prima che siano
date le consegne. In ogni sfida giovanile c'è sempre un
gesto ulteriore, una sorta di escursionismo simbolico, in
cui traluce il desiderio di annaspare per qualcosa di diverso,
qualcosa di meglio rispetto a quello che si è in procinto
di ricevere. "Un abisso a mia disposizione? Grazie per
l'occasione", scrive Paul Claudel.
E oltre la pienezza espansiva e l'assenza che promuove
la ricerca, al segreto della giovinezza appartiene la trasformazione,
la missione creativa del cambiamento che Paul
Valéry descrive come un "andare senza dèi verso la divinità".
È nella trasformazione, infatti, che il giovane valorizza
i suoi maestri, semmai ne ha avuti, perché il passato
è l'abbrivio del futuro.
In mezzo c'è la figura della riappropriazione di quanto,
nello slancio della vita, si è depositato nel sottosuolo
dell'anima, ma non si è estinto. La riappropriazione giovanile
non è senza ribaltamento. "Mi avete fregato di nuovo",
si legge nella Lettera ad una professoressa della Scuola di
Barbiana di don Lorenzo Milani. "Ma io sarò maestro e
farò scuola meglio di voi".
Il ribaltamento non è dissoluzione pantoclastica, non è
azzeramento, ma, come dice il giovane protagonista di
Padri e figli, è "sgombrare lo spazio", rifiutare "i sorrisi col
cuore piegato" (G. Corso), ribellarsi alla morale quietista
che "insegna alla gente ad accettare le calamità della vita"
come si dice nel film Mosquito Coast.
Il ribaltamento allude alla ricostruzione, che non consiste
nel far vincere il contrario di ciò che è stato, perché,
come ci ricorda Breton, "attaccare la morale è un altro
modo di renderle omaggio", ma consiste nel prendere
consapevolezza che, come scrive Benjamin, "ogni giorno
noi usiamo forze immense, come i dormienti. Ciò che
noi facciamo e pensiamo è colmo dell'essere dei padri e
degli avi".
Dopo l'irruenza espansiva, dopo il vagabondare nell'assenza,
dopo la passione che trasforma, i giovani prendono
a scrutare nel proprio cuore e si svelano a se stessi. La rivelazione
di sé a sé, che accompagna l'individuazione, è l'ultima
costellazione del mito della giovinezza quando, come
scrive Yeats, "si scruta dentro il cuore, perché è lì che sta
crescendo l'albero sacro".
È allora che comincia a declinarsi il "pronome riflessivo"
(Kierkegaard) con la voglia di andare oltre la soglia,
fino al proprio centro. L'io cerca casa, ma la trova all'aperto,
perché l'io non è una costruzione, ma una scoperta resa
possibile da una danza che "danza verso la propria
definizione" (Rukeyser), che è poi quella che Holderlin
chiama "la grande ora".
Proprio perché si è "infranta la propria fatalità"
(Artaud) si può far prova della propria vita. Non nel senso,
come si è soliti dire, che i giovani rappresentano il futuro
perché un giorno diventeranno adulti. Niente di più falso.
La loro età non è un transito. Il futuro è già ben descritto
nel presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo
perché noi adulti, consegnati alla nostra rassegnazione,
quando non al cosiddetto "sano realismo", abbiamo svilito
il segreto della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico
in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro,
che solo la nostra pigrizia mentale ed affettiva ci impedisce
di cogliere.
FINE.
Stampa Grafica Sipiel Milano, novembre 2007.
29/12/07 21:06:43
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