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Parmenide. Frammento 2
Frammento 2 Traduzione di Pasquinelli: Orsù, io dirò – e tu porgi orecchio alle parole che odi – quali sono le vie di ricerca che sole sono da pensare: l’una che è e che non è possibile che non sia, e questa è la via della Persuasione (giacché segue la verità), l’altra che non è e che è necessario che non sia, e questo, ti dico, è un sentiero inaccessibile ad ogni ricerca. Perché il non-essere non puoi né conoscerlo (è infatti impossibile), né esprimerlo. Traduzione di M. Untersteiner: Suvvia, io dirò, tu intanto ascolta e accogli la mia rivelazione, cioè quali sole via di ricerca siano logicamente pensabili: e precisamente, in quale modo una esista e che non è possibile che non esista – è il cammino della persuasione (infatti accompagna la verità) – e che l’altra non esiste e che è logico che non esista: io ti chiarisco come questo sia un sentiero che non si può scrutare; infatti non potresti conoscere il non essere – che ciò non è fattibile – né esprimerlo. Traduzione di G. Calogero: Ecco dunque che ti dirò, e tu ascolta e intendi il mio discorso, quali sole vie di ricerca sia possibile concepire: l’una, secondo cui è e non è dato non-essere, è il cammino della persuasione la quale infatti tiene dietro alla verità l’altra, secondo cui non è ed è lecito e necessario non essere; questa davvero ti dico che è un sentiero in cui non ci si orienta: giacché non potresti conoscere quel che appunto non è (è infatti impossibile) né potresti farne parola. Traduzione di G. Cerri: Ecco che ora ti dico, e tu fa’ tesoro del detto, quelle che sono le sole due vie di ricerca pensabili: l’una com’“è” e come impossibile sia che “non sia” […] l’altra come “non è”, come sia necessario “non sia”. Le principali difficoltà di comprensione che il brano contiene riguardano la traduzione e l’interpretazione dei versi 3 e 5. Parmenide scrive che due vie sono le sole pensabili: «una ‘che dice’ che è (e[stin)»; «l’altra ‘che dice’ che non è (oujk e[sti)». Il problema interpretativo più importante può essere formulato in questo modo: c’è un soggetto sottinteso all’«è» della prima via e al «non è» della seconda via? Secondo la prima interpretazione (Pasquinelli), la più tradizionale, il soggetto sottinteso del verso 3 è tov o[n, e che significa «ciò che è», «l’essere». Pasquinelli infatti afferma (I presocratici, p. 396): «il soggetto delle due strade è l’essere», rimandando a K. Reinhardt, e questo sulla base del termine che Parmenide introduce solo più avanti, nel frammento 8, appunto tov o[n. Ciò che il filosofo intenderebbe dire nei due versi sarebbe quindi: «l’essere è, il non essere non è». Ma cosa viene inteso per essere? La realtà nella sua generalità, tutto ciò che esiste, la totalità delle cose. La seconda interpretazione (Untersteiner) ritiene invece, più semplicemente, che il soggetto di e[stin non debba essere cercato in qualche cosa di poco determinato, o introducendo parole che nel testo non esistono, ma sia piuttosto contenuto nel testo stesso. Il soggetto sono le due «vie di ricerca» del verso 2. Parmenide dunque afferma che la prima via esiste e conduce alla verità (è dunque la via «che è») e che la seconda via invece non esiste, è falsa e conduce all’errore (è dunque la via «che non è»). Anche secondo una terza interpretazione (Calogero), considerare soggetto di tutti gli ‘è’ del frammento tov o[n «significa aggiungere nel testo una parola che assolutamente non si trova». Il verbo ‘essere’ quindi non va riferito a un soggetto determinato che non c’è, ma deve essere inteso come il necessario presupposto logico che è alla base del pensiero e del linguaggio. Il significato dei due versi sarebbe quindi il seguente: la via della verità è quella che dice ‘è’ e dichiara impossibile il ‘non è’; la via dell’errore è quella che dice ‘non è’ e intende questo ‘non è’ come necessario. Quest’ultima via è impercorribile, perché il non essere non si può né pensare, né esprimere attraverso il linguaggio. Il ‘non è’ non può essere vero, giacché pensare e dire sono sempre in assoluto un pensare e dire ‘che è’, mai ‘che non è’. Questa unità tra essere e pensiero verrà successivamente enunciata nel breve frammento 3. Vi è poi una quarta interpretazione (Cerri), assai più complessa. Per lui l’‘è’ del v. 3 non è predicato verbale e non significa ‘esistere’: è una copula il cui soggetto e il cui predicato nominale non sono espressi, una copula completabile con qualsiasi soggetto e predicato. Non mi addentro nell’interpretazione proposta da Cerri: mi limito a rilevare che qui il soggetto è per così dire una variabile, ma certamente non l’‘essere’. Senza fornire un’interpretazione di Parmenide o aderire a una di quelle già proposte, vorrei stabilire alcuni punti fermi. Chi è il soggetto di ‘è’? Non può trattarsi de ‘l’Essere’, che al tempo di Parmenide non è un concetto comprensibile nella sua astrazione. Chi traduce ‘l’essere’ sottintende il participio presente tov o[n, che Parmenide effettivamente usa. Ma tov o[n, come abbiamo visto, designa in primo luogo le cose che sono, e questo sembra in effetti il soggetto più probabile. Il senso più immediato che l’espressione doveva avere per un greco è allora che non è possibile dire che ciò che è non sia e che bisogna sempre dire che ciò che è è. Si tratta di una banale tautologia? Di un’ovvia contraddizione da evitare, quando si dice che ciò che è non è? Per ora lasciamo in sospeso la domanda, ma vedremo che il Sofista di Platone chiarirà che si tratta di un problema filosofico fondamentale.