...

“Non sappia la mano sinistra quello che fa`la mano destra”

by user

on
Category: Documents
956

views

Report

Comments

Transcript

“Non sappia la mano sinistra quello che fa`la mano destra”
1
In copertina:
Saletto di Vigodarzere: la famiglia dell’ex prigioniero Robertze Henry, la figlia Graziella (nata nella casa di Nevio
Noventa a Saletto il 20 settembre 1945) e la moglie Rita Noventa. (Coll. fot. di Nevio Noventa del 1945).
2
Giulio Cesaro
VIGODARZERE
SUL FILO DELLA
MEMORIA
La sconfitta della violenza e il trionfo della solidarietà,
nell’ultimo conflitto mondiale (1940-1945).
“Norma fondamentale per chi si accosta alla storia è
non giudicare gli avvenimenti passati con criteri attuali”.
(Don Luigi Bonetto arciprete di Vigodarzere, 19 dicembre 2005).
3
4
Cesaro Giulio, nato a Vigodarzere
nel 1937, fu testimone oculare
degli ultimi mesi della guerra.
Autodidatta, dal 1964 al 1978
fu segretario della sezione
della Democrazia Cristiana
di Vigodarzere e fece parte
dell’amministrazione comunale.
Sposato e padre di due figli.
agente di commercio dal 1968 al 1998
per la Fatro S.p.a. medicinali per uso
veterinario, per il Triveneto.
Ora è in pensione e si dedica a
ricerche storiche sul territorio.
Casa rurale paterna di Giulio Cesaro, situata in via Vittorio Veneto a Vigodarzere.
(Acquarello della pittrice Elisa Zoccarato Vettore).
5
VIGODARZERE,
25 aprile 1945 – 25 aprile 2006:
61° anniversario della Liberazione.
A mia madre Oliva.
Nacque nel 1897;
rimasta vedova durante la guerra del 1915/1918,
aveva ventun anni ed era madre di una bimba di 20 giorni.
Risposatasi, ebbe tre figlie e un figlio.
Ha condiviso con le altre madri di Vigodarzere tutte le sofferenze
e i lutti della seconda guerra mondiale.
A mia moglie Maria Rosa Marisa Albertin e
ai miei figli Cristiano e Daniele
i quali, mi hanno aiutato nella stesura del libro.
La mamma, Oliva Pedron Cesaro, con accanto il nipotino Cristiano (Foto del 1977).
6
7
SOMMARIO (1)
- La posizione geografica di Vigodarzere
- Presentazione
1
2
I PRINCIPALI AVVENIMENTI DI VIGODARZERE ( DAL 1922 AL 1942 )
-
-
Vigodarzere e il fascismo
Parliamoci chiaro! Manifesto del 1923 pubblicato dal PNF di Camposampiero (PD)
Mussolini a Padova (prima visita)
Vigodarzere: le elezioni politiche del 6 aprile 1924
Cittadinanza onoraria di Vigodarzere a S. E. Benito Mussolini
L’attività del partito fascista di Vigodarzere
Contro le organizzazioni cattoliche
La milizia fascista
Una imposta per i celibi
La fabbrica di Benoni
Un nuovo podestà
Inaugurazione della nuova sede municipale
La campagna del grano
La gioventù italiana del Littorio (Radames Pasquetto e Zeno Vettore)
Il premilitare obbligatorio
Il fascismo e la preghiera
La soppressione delle fabbricerie
La scuola dell’Infanzia di Vigodarzere
Per una barzelletta (maestro Albino Bellon)
Le spiagge fluviali del “Peoceto” di Vigodarzere
L’Italia aggredita dall’Etiopia ?
Il primo incontro di Hitler con Mussolini
La nostra Africa
Oro per la patria
L’oro di Vigodarzere
La combriccola della “carrucola” (Idelino Degli Agostini e Gabriele Zorzato)
Al confino politico (Ivo Benetti)
Imposte e tasse
Mussolini a Padova (la seconda visita)
Mussolini a Padova (la terza visita) (Nazzareno Griggio, Eugenio Favero, Giovanni
Martini, Fernando Dori, Armando Pasqualotto, Carlo Ranzato, Prof. Lidia Martini,
Vito Martini , Mario Frison)
Ventimila coloni in Libia
Da striga a befana fascista
10 giugno 1940: primo giorno di guerra
Mussolini a Padova (la quarta visita)
Gli orti di guerra
L’orto di guerra di Tavo (Giuseppe Miozzo)
La requisizione di due campane (Federico Zoccarato)
A peste, fame et bello
Da Vigodarzere al fiume Don e ritorno (Guerrino Ranzato)
8
6
7
9
10
10
11
14
16
17
18
19
20
20
21
22
23
23
24
25
26
27
27
28
29
30
31
32
32
33
34
37
37
37
40
41
41
42
43
44
IL NOSTRO TERRITORIO SOTTO L’OCCUPAZIONE TEDESCA DAL 10 SETTEMBRE 1943
-
Vigodarzere e Padova dopo l’otto settembre 1943
La fame convinse a fare la spia
Dalla cronistoria di Vigodarzere (don Giulio Rettore)
L’aiuto di Padova e Provincia ai prigionieri inglesi
La reazione per i deportati in Germania
Bambini italiani rapiti e portati in Russia?
Otto fratelli Bassani prigionieri dei tedeschi (Ines Bassani Vieno)
Nascondigli per sfuggire alle ricerche dei nazi-fascisti
Lavoratori italiani ausiliari dei tedeschi (Todt) (Federico Zoccarato)
49
50
50
51
52
53
53
53
54
SOLIDARIETA’ AI PRIGIONIERI INGLESI E SOLDATI ITALIANI SBANDATI
- Prospetto dei prigionieri inglesi e dei soldati italiani nascosti nel territorio comunale
di Vigodarzere
56
I PROTAGONISTI E I TESTIMONI RACCONTANO UNA PAGINA DELLA NOSTRA RESISTENZA
-
Un sicuro rifugio per tutti (Nevio Noventa)
Il maiale clandestino salvò il prigioniero Pietro Cartens (Amelia De Marchi)
Liberata dai partigiani dal carcere dei Paolotti (Pasqualina Adelia De Marchi)
Sempre aperte le porte della Provvidenza (Marcella Callegaro Manganello)
Timante Ranzato iniziò la Resistenza aiutando i prigionieri inglesi (Gianni Ranzato)
Dentro la barchessa un prigioniero inglese (Giuseppe Tognon)
Nascosti nei pressi della Certosa (Desiderio Dorio e Bruno Dorio)
Come agnelli seguirono il miliziano (Armando Pasqualotto)
Pietro ci aiutò a vendemmiare (Mario Frison e Ugo Salviato)
Si chiamava Giorgio ed era sudafricano (Zena Marangon Bettin)
Prigioniero prelevato dalle brigate nere (Assunta Oliviero)
Tre prigionieri catturati dai Carabinieri (Maria Lina Rombaldi)
Per aver nascosto un prigioniero fu internato in Germania (Mario Gottardo)
Traduzione del “Sunday Times” del 4 giugno 1982 (Prof. Valerio Sabbadin)
Per 19 mesi vissero nel fienile (Renzo Pieretti)
Catturato dai militi fascisti (Valentino Berto)
In casa tra soldati tedeschi, russi e prigionieri inglesi (Emma Marangon Zoccarato)
Aviere al posto dei fratelli (Luigia Pegoraro Gottardo)
Il fante sardo, il pilota americano e il caccia bombardiere (Dante Cavinato)
Quattro sbandati e un renitente alla leva (Antonio Ranzato e Fidenzio Ranzato)
Contro la violenza della guerra (Fosca Nicoletti)
Solo di notte (Silvano Schiavo e don Adriano Schiavo)
Le famiglie Frigerio e Ranzato, un’amicizia da oltre 60 anni (Antonia Ranzato)
57
60
64
65
67
69
71
73
74
75
76
77
78
82
85
88
89
90
92
95
97
99
100
:
VIGODARZERE E PADOVA STORIE PARALELLE
- I consigli del vescovo Agostini
- Accoglimento in canonica di 12 prigionieri
- Arresto del parroco don Giovanni Fortin
- Al ritorno dalla prigionia
- Ricordi di padre Placido Cortese (Mario Gobbin)
- La mano lunga della “Provvidenza” (Gabriele Nobito)
- Da Padova ad Oggiano verso la Svizzera (Teresa Martini)
- Prigioniera a Mauthausen (Liliana Martini)
- Dal salvataggio dei prigionieri di guerra al campo di prigionia di
Martini Sabbadin)
Bolzano (Lidia
102
102
102
103
103
105
106
107
109
9
-
Questa pagina è dedicata ai circa 200.000 deportati a Mauthausen
Elenco degli operatori e accompagnatrici per l’espatrio di ebrei e prigionieri militari
Dai giornali
111
112
114
DOPO L’ARRESTO DI MUSSOLINI
- Viva l’Italia !
- Ordinanze del Comando Superiore Sud tedesco
- Un decreto del Prefetto per il conferimento del bestiame
- Gli arruolamenti nell’organizzazione germanica della Todt
- Il turpe mercato dei traditori
- 100.000 lire di premio
- Centro reclutamento SS Italiane
- Il sacco della Gaetana
116
116
117
117
117
117
118
119
BOMBARDAMENTI SU PADOVA VIGODARZERE E LA STORIA DEGLI ABITANTI
- Tre testimonianze del primo bombardamento aereo su Padova
- Vittime anche due uomini di Saletto
- Severe pene per l’innoservanza all’oscuramento
- La prima volta di notte
- La preghiera del buon italiano
- Dove decollavano gli aerei anglo-americani?
- Gli sfollati dalla città di Padova
- “Pippo” e il Santo di Padova (P. Tito Magnani e Giuseppe Lion)
- “Pippo” vedeva come un rapace notturno
- “Pippo” uccise quattro uomini (maestro Guerrino Spinello)
- Bombe a Saletto e a Terraglione (Mons. Antonio Moletta e Secondo Zeno Tognon)
- “Pippo” colpisce ancora (Nevio Dario)
- Le bombe a farfalla
- Matite esplosive e caramelle avvelenate
- Tre riunioni del Comitato Prov. di Liberazione dentro la canonica di Vigodarzere
121
121
122
122
124
124
124
127
129
130
130
131
131
131
131
BRIGATE NERE, MILIZIA FASCISTA E SOLDATI TEDESCHI
- Le canzoni delle brigate nere
- Rastrellamenti e perquisizioni (Giorgio Demo e Ferdinando Dori)
- Le brigate nere all’osteria “Da Stecca” (Nevio Dario)
- Bastonati all’osteria Benetello (Armando Pasqualotto)
- Scaramucce alla trattoria “Da Ventura” (Ferdinado Dori)
- Brigatisti neri e vino merlot (Mario Frison)
- Destinati alla Germania tre trattori (Arrigo Schiavon e Walter Schiavon)
- Arrestati i partigiani del “Municipio” (Gino Rombaldi)
- La lampada mancante (Vito Martini)
- L’arciprete di Vigodarzere e i Carabinieri (Antonietta Bellon Vettore)
- I soldati tedeschi uccisero due cittadini di Saletto
- “Sigla” il sergente delle SS (Nevio Dario e Umberto Gasparini)
- Sabotaggio partigiano
- Altre azioni partigiane
- Ucciso a rivoltellate all’Arcella
- Il Commissario Prefettizio di Vigodarzere
- Fotografie aeree di Saletto, Limena -Saletto, Tavo e Terraglione
- Guerra e carestia
- Le due Italie
10
132
132
134
135
135
135
135
136
136
136
137
138
138
139
140
140
141
145
146
BOMBARDAMENTI E MITRAGLIAMENTI SU VIGODARZERE (1944 – 1945)
- Il primo bombardamento aereo (don Giulio Rettore)
- Mitragliata la stazione ferroviaria di Vigodarzere (Federico Zoccarato)
- La bomba sotto le rotaie (Umberto Gasparini)
- Ancora mitragliata la stazione ferroviaria di Vigodarzere (Ferdinando Dori)
- Altro grave bombardamento aereo (don Giulio Rettore)
- Foto aerea notturna di Vigodarzere
- Propaganda della Repubblica Sociale Italiana
- Le intense nevicate dell’inverno 1944 -1945
- Due giovanissimi prigionieri russi (Federico Zoccarato)
- Salvate le persone, distrutta l’abitazione (don Giulio Rettore e Giannino Gottardo)
- La costruzione del nuovo ponte ferroviario di “legno” (Federico Zoccarato e Bruno
-
Lucadello)
La parte nord del ponte di legno era asportabile
Elaborato tecnico del ponte di legno (Pittore Giuseppe Siccardi)
L’azione della contraerea
Abbattuti due caccia-bombardieri (don Giulio Rettore, Zeno Vettore e Angela
Calzavara Vettore)
Il recupero dei resti delle salme dei piloti
Viva per miracolo (Maria Salvadego Pirazzo)
Bombardata la scuola elementare di Vigodarzere don Giulio Rettore e Teresa Pascon
Bernadello)
Una cassa di bombe a farfalla (Umberto Gasparini)
Foto aerea di Vigodarzere (del 1983)
L’albero del Paese (Eleonora Zanoni)
Falciatura e trebbiatura del frumento
Il tipografo fuggito dalla banda Carità (Renato Martinello)
Evitata la costruzione di un ponte-passarella carrabile (Gianni Ranzato)
Pasqua indimenticabile (Zoccarato Federico)
Pontevigodarzere rasa al suolo (Federico Zoccarato e don Pietro Zaramella)
Internamenti e bombardamenti (don Giulio Rettore)
Il deposito degli esplosivi nei pressi della “Certosa” (maestro Guerrino Spinello,
Gianni Cattelan, Alberto Lollo, Mario Frison e Gino Sottovia)
Il traghetto Saletto-Limena e il ponte di chiatte (don Giocchino Donazzan, Romana
Tiso, Leonilde De Rossi, Sergio Nave e Artemio Parancola )
Vigodarzere: giovedì 26 aprile 1945
- La guerra dal campanile
- Il maggiore tedesco
- Altri pericoli degli ultimi giorni di guerra (Lucillo Elardo)
147
147
147
148
148
151
152
153
153
153
155
155
156
157
158
158
159
160
161
161
162
163
164
166
166
168
169
170
172
173
173
173
Saletto-Limena: venerdì 27 aprile 1945
- Quello che rimaneva di due divisioni corazzate tedesche (Carlo Turato)
174
Vigodarzere: venerdì 27 aprile 1945
- Quella lunga colonna di soldati tedeschi disarmati (Ugo Elardo, Lucillo Elardo, Carlo
Ranzato, Radames Pasquetto, Brunone Vettore, Mario Marangon e Gino Panizzolo)
175
11
Saletto: sabato 28 aprile 1945
- Quel tragico pomeriggio
- Il rastrellamento e l’azione del parroco don Antonio Moletta (Armando Pasqualotto)
- Mitragliata la Maresana (Giacomo Renato Facco)
178
180
182
Tavo: sabato 28 aprile 1945
- Un miracolo di S. Giuseppe e della solidarietà (Giuseppe Carraro)
182
Vigodarzere: domenica 29 aprile
- L’ultimo giorno della guerra
- Rapite Stella e Dorina
184
185
Tavo: domenica 29 e Lunedì 30 aprile 1945: la Liberazione
- I soldati delle SS non uccisero perché era domenica (Roberto Martin)
- Una granata esplose nel cortile (Roberto Martin)
- La Liberazione (don Giocchino Donazzan)
- A causa della guerra
- I soldati italiani prigionieri nel mondo
- Lentamente ritornarono a casa (Bruno Giuseppe Pegoraro)
- Reduci anche da 12 anni di guerra
- La giornata del ringraziamento
185
186
186
187
189
189
190
191
ALTRE TESTIMONIANZE “PER NON DIMENTICARE”
- Il Pensionato Universitario Antonianum
- La trattoria Dorio una tradizione dal 1865 (Giovanna Dorio)
192
202
207
209
211
214
218
219
Dall’altra parte della Linea Gotica (Pasquale Carraro)
Mangiavo con un tesserino delle SS (Giovanni Fiorenzato)
Na famegia de massariotti (Luigia Pegoraro Gottardo)
Don Giulio Rettore tra fascisti, soldati tedeschi e partigiani
Alluvionati polesani a Vigodarzere
La Certosa di Vigodarzere (I discententi Passi)
L’inizio della meccanizzazione agricola a Vigodarzere (Arrigo Schiavo, Walter
Schiavon, Giuseppe Cavinato da Tavo, Paolo Rafido e il Prof. Luigi Sartori)
- Vita tormentata anche per gli animali domestici
- La dorifora della patata
- Seconda Guerra Mondiale: le nazioni coinvolte, i prigionieri militari, i partigiani e le
vittime civili.
228
Altre fotografie per non dimenticare
- A memoria delle guerre
- Fotocronaca della celebrazione del 59° anniversario della Liberazione 25 aprile 2004
230
234
Lunedì 25 aprile 2005 - 60° anniversario della Liberazione.
- La premiazione delle famiglie che hanno nascosto i prigionieri militari e i soldati
italiani sbandati
- Antologia fotografica dal 1910
- Vico Aggeris (Gazzetta Olga Bernardello)
237
243
254
-
12
220
226
226
-
Cronologia
L’autore ringrazia
Indice dei nomi di persona
257
262
263
_______________
(1) I nomi tra le parentesi sono i testimoni o gli autori.
13
La posizione geografica di Vigodarzere
Tavo
Terraglione
Saletto
Vigodarzere
Vigodarzere 1942 - 1945, una comunità di 6109 abitanti circa (1) che nascose 36 prigionieri anglo-americani e 10
soldati italiani sbandati.
(1) Nel censimento del 1921 il territorio comunale di
Vigodarzere (Padova) con le frazioni di Saletto, Tavo e
Terragglione comprendeva 5404 abitanti, in quello del 1936 gli abitanti erano 6109. La superficie del territorio
comunale era di 19,9 chilometri quadrati -Documentazione dell’Archivio di Stato di Padova.
14
Presentazione
Questo libro raccoglie storie vere raccontate da testimoni nostri concittadini che, alle
violenze di una guerra fratricida, hanno opposto la Resistenza con la solidarietà concreta
verso prigionieri inglesi e soldati italiani sbandati, sfidando la rigorosità delle leggi degli
occupanti tedeschi e dei loro alleati fascisti della Repubblica Sociale Italiana.
A Vigodarzere, nel 1944, c’era un clima esasperato dai tantissimi soldati e civili
internati nei campi di lavoro e di prigionia in Germania oltre che dai nostri soldati
prigionieri degli anglo-americani. Anche qui, come a livello nazionale, vi erano difficoltà
di comunicazione alle famiglie dei soldati deceduti, sofferenze per i rastrellamenti
effettuati nel territorio, per i bombardamenti aerei e per la fame.
In questo clima, come non ricordare le mamme ucraine che salvarono la vita di tanti
nostri soldati concittadini nella disastrosa e dolorosa ritirata di Russia nell’inverno 1942?
Allo stesso modo altre mamme di Vigodarzere, dopo l’8 settembre 1943, furono
determinanti nell’aiuto concreto ai nostri soldati allo sbando e ai prigionieri inglesi. Nel
dopoguerra i miei genitori parlavano di questi prigionieri inglesi nascosti presso le
famiglie di Vigodarzere; poi il tempo ha in parte cancellato la memoria.
Questa pubblicazione, che vi state accingendo a leggere, ha il solo scopo di fare luce a
quel passato non molto remoto.
In questa ricerca, che mi ha impegnato per sei anni, sono rimasto sorpreso per l’alto
numero di famiglie di allora che avevano solidarizzato con i prigionieri inglesi e con i
soldati italiani sbandati dopo l’8 settembre 1943.
Verso la fine è evidenziata un’altra pagina di solidarietà offerta ai 1500/2000 sfollati
che, a causa dei bombardamenti, trovarono un tetto in quelle quattro case che formavano i
paesi del nostro territorio comunale di Vigodarzere.
I motivi principali che mi hanno dederminato ad affrontare la ricerca e scrivere queste
pagine? In primo luogo esprimere gratitudine ai miei concittadini per quanto hanno fatto
con generosa solidarietà umana e cristiana senza aspettarsi onori e medaglie postume; e
poi consegnare alle nuove generazioni autentiche pagine della storia della nostra
comunità.
Spero di esserci riuscito.
L’Autore.
15
“Padova, 18.09.03
Lo scritto memorialistico di Giulio Cesaro raccoglie una serie di racconti, documenti e
testimonianze sul periodo resistenziale, riguardanti gli aiuti forniti dalle famiglie del territorio comunale
di Vigodarzere ai prigionieri inglesi e ai soldati italiani dopo l’8 settembre 1943.
Nel complesso traccia un quadro delle vicende più minute e quindi meno note, ma non per questo
prive di significato morale e “lato sensu” storico della vita di una comunità agricola durante l’ultima fase
della guerra, offrendo indubbiamente spunti utili per ulteriori indagini ed approfondimenti, volti a
ricostruire una prospettiva “dal basso” della Resistenza e del conflitto bellico.
Tanto è da augurare al benemerito autore così da far risvegliare la troppo sopita memorialistica
resistenziale.
Avv. Marcello Olivi (1)
__________
(1) Comandante militare partigiano, braccio destro del Comitato Nazionale di Liberazione del Veneto, medaglia
d’argento al valore militare, parlamentare, medaglia d’oro per il 50° di attività forense.
L’avv. Marcello Olivi nel suo studio (Foto del 2002).
16
“Tavo, 25. 10. 2003
Carissimo Giulio,
accolga il mio plauso per il volume “Vigodarzere sul filo della Memoria”.
La nostra storia, il nostro vissuto ha bisogno di persone come Lei che riportino con veridicità e con
documentazione i fatti rilevati di un passato che sembra ormai lontanissimo; eppure le persone autori
della storia dei nostri paesi sono i nostri padri nonni e bisnonni!
Il volume, ben ordinato, merita di essere conosciuto, appunto sul filo della memoria e per non
dimenticare.
Con stima.
Don Pietro Cappellari”
(Parroco di Tavo)
“Padova, 02. 02. 2005
Non c’è dubbio che un’espressione della Resistenza dopo l’8 settembre del 1943 è stata offerta
in Italia dal soccorso della popolazione ai prigionieri anglo-americani, catturati prevalentemente nei
teatri di guerra africani e presenti in molteplici campi di prigionia nel territorio nazionale.
Al momento dell’8 settembre si calcola che la massa dei prigionieri sia stata di circa 80.000 militari, dei
quali 50.000 in vario modo evasi nelle stesse giornate in cui le forze armate italiane si dissolvevano, con
la cattura da parte tedesca di oltre 600.000 italiani prontamente trasferiti nei campi di internamento della
Germania.
C’è dunque un momento in cui il salvataggio da parte della popolazione italiana si rivolge
contemporaneamente ai connazionali sbandati e agli ex–nemici, attraverso varie modalità di rifugio e di
assistenza, in una singolare attività che può giustamente segnare, nell’origine della Resistenza, una
precocissima fase di adesione non solo umanitaria, ma di repulsa alla violenta reazione nazifascista. Un
fenomeno sociale rilevante, che riguarda in particolare le donne che ne sono protagoniste, al quale
peraltro la storiografia italiana non ha dedicato grande impegno, al di fuori di frammentari contributi
di testimonianze o di ricerche locali compiute frequentemente nella direzione dei soccorsi offerti dal
clero, qui opportunamente richiamati e che hanno avuto con don Pierantonio Gios un adeguato rilievo
di dati e di sintesi critica.
Se agli sbandati militari italiani in divisa l’immediato soccorso poteva limitarsi a favorire il cambio
del vestiario civile, per evitare una facile identificazione nelle operazioni di rastrellamento, ben maggiore
era il rischio dell’ospitalità prolungata dei prigionieri stranieri: un rischio che diventò sempre maggiore
con la costituzione della Repubblica Sociale e con la sopravvivenza delle sue strutture investigative e
poliziesche. Questo straordinario fenomeno di partecipazione popolare negli eventi delle prime giornate
e per tutto il corso della Resistenza armata appartiene fondamentalmente al mondo contadino di quel
tempo, in cui l’Italia manteneva ancora la sua caratteristica di nazione prevalentemente agricola. E non
meraviglia che il classico volume sul soccorso ai prigionieri alleati in Italia, prodotto nel 1991 da Roger
Absalom abbia il suggestivo titolo di “Una strana alleanza” (R. Absalon, “A strange Alliance. Aspects of
escape and survival in Italy 1943-45”). Un’inconsueta alleanza tra lo strato sociale più antico, più
pacifico, il più lontano dalle attività militari e dall’altro uomini d’arme estranei e stranieri, isolati e
bisognosi di aiuto, ma in verità non sempre gente di mestiere e reclutati per lo più nello stesso ambiente
“internazionale” dell’agricoltura, tanto simile in ogni parte del mondo per il comune fondamento
familiare dell’esercizio lavorativo.
Anche questa ricerca condotta da Giulio Cesaro in un circoscritto territorio padovano documenta
questo rapporto di natura sociale tra benefattori e beneficati, che poi non di rado si prolunga nel tempo
con più stretti legami di amicizia, di riconoscenza e anche in qualche caso di amore coniugale. La
presentazione delle testimonianze è completata da frequenti richiami e illustrazioni di quel mondo
contadino prima che un mutamento epocale cancellasse il passato. Altrettanto opportuno il riferimento
a circostanze che meglio inquadrano gli episodi nel generale contesto storico.
17
Il ritmo vivacemente descrittivo rende facile la lettura e soprattutto la comprensione di una
complessa realtà, ben chiaramente esposta per capire la parte esercitata da coloro che erano artefici di
un rischioso e generoso beneficio e da coloro che stavano dall’altra parte, coi nazifascisti e con i delatori
collaborazionisti.
Un’operazione culturale che nello spirito del “Per non dimenticare” ben si merita ampia
divulgazione e adeguato sostegno, per una storia contemporanea e anche a vantaggio delle generazioni
non sempre edotte e che di questa materia potranno utilmente acquisire adeguata conoscenza.
Accanto a questo argomento relativo al soccorso dei prigionieri di guerra stranieri con le relative
testimonianze raccolte nel territorio comunale di Vigodarzere e che è stato all’origine dell’interesse
dell’Autore, il libro raccoglie un’ampia documentazione di fatti locali e di eventi storici nazionali,
richiamati secondo un ordine cronologico. Questo materiale consente di conoscere, soprattutto,
attraverso il recupero di notizie su giornali del tempo, il percorso degli avvenimenti che dalla
fondazione del fascismo ai giorni della Resistenza sono stati lo scenario in cui hanno vissuto gli italiani,
tra guerre e pochi momenti di pace, nella prima metà del secolo scorso.
Giuliano Lenci” (1)
__________
(1) Il prof. Giuliano Lenci: già Primario di Pneumologia nell’Ospedale di Padova è Consigliere Nazionale
dell’Ass. Naz. Partigiani d’Italia, è consigliere comunale di Padova ed è Presidente del “Museo civico di Padova
del Risorgimento e dell’Età contemporanea”.
Il Prof. Giuliano Lenci (Foto del 2003).
18
I PRINCIPALI AVVENIMENTI DAL 1921
Vigodarzere e il fascismo
I nostri anziani, nonni e bisnonni contribuirono all’instaurarsi del fascismo nei nostri paesi?
Erano passati sei anni dall’inizio della 1^ guerra mondiale. L’Italia, con gli altri vincitori, Francia, Gran
Bretagna e Stati Uniti d’America, aveva conquistato Trento, Trieste e poi Fiume. Quella vittoria pesava
come un macigno: 600.000 soldati italiani morirono in trincea e parte a causa dell’influenza chiamata
spagnola. I tantissimi soldati feriti e i reduci si aspettavano come ricompensa una vita migliore, invece la
disoccupazione e il tasso d’inflazione erano altissimi, la miseria dilagava. La guerra anche se vinta,
ancora una volta, fu pagata sopra tutto dalla povera gente. La morte continuava a mietere vittime con il
dilagare della tubercolosi e per le carenze alimentari.
In tale clima di miseria si crearono i presupposti per la nascita di movimenti di estrema sinistra, con
tanti omicidi politici (1) e i socialisti italiani indicavano la rivoluzione proletaria bolscevica iniziata nel
1917 in Russia.
Il 2 marzo 1919 a Padova si riunì la presidenza del nuovo Partito Popolare Italiano (2). Il 23 marzo
1919 a Milano nella sede degli industriali, agricoltori e commercianti, Benito Mussolini fondò il
“Movimento dei Fasci italiani di combattimento”. Il 27 ottobre 1921 convergono a Roma le squadre
fasciste chiamata anche “la marcia su Roma”. Nessuno dei cittadini di Vigodarzere vi partecipò.
Il 1921-1922 fu chiamato il “biennio nero”, segnato anche in questo da omicidi politici fomentati da
movimenti di destra e da anarchici.
Nel 1921 a Livorno durante il congresso socialista ci fu una scissione e parte formò il Partito
Comunista d’Italia.
La Milizia fascista (M.V.S.N.) formata da volontari chiamate anche “camicie nere”, fu istituita con una
deliberazione del Gran Consiglio Fascista il 12 gennaio 1923; fu una forza di polizia privata che avrebbe
dovuto rendere legale l’attività delle squadre fasciste, in concorso con l’esercito e i corpi di polizia
mantenendo l’ordine pubblico. La Milizia era formata da volontari e negli anni successivi fu suddivisa in
vari corpi: ferroviario, postale, stradale, universitaria; ad essa fu pure assegnato il compito di istruzione
del premilitare.
__________
(1) Nel febbraio del 1919 si costituiva a Padova una commissione di cattolici per la fondazione del Partito
Popolare Italiano composta dall’avv. Cesare Crescente, dall’avv. Prof. Italo Rosa, dall’avv. Gavino Sabbadin,
dall’on. Prof. Sebastiano Schiavon, e dall’avv. Pietro Tono. L’organizzatore di questa commissione fu il
sacerdote diocesano Giacomo Gianesini. Il 2 marzo dello stesso anno, in via Altinate n. 20 a Padova, si riunì la
presidenza del Partito Popolare di Padova composta dal Conte Cittadella-Vigodarzere, S. Schiavon, I. Rosa, C.
Crescente, A. De Besi, A. Zanovello, A. Casale, R. Roberti, L. Dorio (ferroviere) e G. Cecchinato (agricoltore).
(Tratto dal libro: La Resistenza dei cattolici nel Padovano di G. E. Fantelli e dalla testimonianza di mons. Alfredo
Contran del 08. 01. 2003).
19
(2) (3) Tratto dal libro: “Dizionario del fascismo” di Victoria De Grazia e Sergio Luzzatto. Ed. Enaudi ottobre
2005.
I fascisti contro i parroci
Per comprendere il clima della situazione politica dei nostri paesi riporto per intero il testo del
manifesto (pubblicato per la prima volta) del Partito Nazionale Fascista di Camposampiero del 3 marzo
1923:
Partito Nazion. Fascista
PARLIAMOCI CHIARO!
Il partito Popolare di Camposampiero, nel cui seno non figurano
certo le migliori intelligenze, diretto e comandato spavaldamente
da sacerdoti locali e forestieri, ha spadroneggiato e retto le
pubbliche amministrazioni locali, disorientato dal sorgere del
Fascismo, partito energico, giovane e fattivo è divenuto impotente
a conservare la direzione della cosa pubblica.
Il Prete, il patriota dell’ultima ora, il bolscevizzante di ieri,
l’amico dell’Austria dell’ante guerra, ha dovuto suo malgrado
vivere più in canonica che negli uffici comunali ove tutto disponeva e imponeva, e il consiglio eletto due anni prima, dopo di
aver esaurito le fonti del bilancio comunale sprecando denari in
opere di poca utilità E’ FINITO MISERAMENTE COME HA VISSUTO.
Non inveiamo contro i morti ingloriosi, ma diciamolo subito
ad alta voce: VIGILIAMO ED OPERIAMO IN MODO DA NON LASCIARLI
RISORGERE, facciamo che l’opera loro deleteria e vana sia sostituita da
un’altra patriottica, energica, illuminata e fattiva.
Le elezioni generali amministrative sono prossime ed il
Fascio di Camposampiero prima di iniziare la lotta in cui impegnerà
tutte le sue forze e che sarà lotta ad oltranza, DICHIARA E
PROCLAMA FIN DA OGGI CHE LA LOTTA LA FARA’ DA SOLO, senza
accettare nessun compromesso, senza addivenire a nessuna transazione, con
nomi propri e non degli ultimi venuti pur sapendo che tale fatto dovesse
arrecare sommo dolore a certi camaleonti dell’arrivismo che disgraziatamente
per loro mai giunsero alla meta.
IL FASCIO VUOLE SI SAPPIA CHE COMBATTERA’ LA LOTTA ASPRA, MA
DI ESITO CERTO A VANTAGGIO DI TUTTE LE CLASSI DI CITTADINI CHE
AMANO LA PATRIA E MIRANO ALLA SUA GRANDEZZA.
Non si permetterà per nessuna ragione che vengano continuati
i sistemi fino ad ora adottati dagli esponenti massimi del partito
avversario che della influenza religiosa e morale esercitata sulla
coscienza dei credenti si sono serviti per imporre la loro scheda.
CONTRO TALI METODI DI VIOLENZA MORALE NOI CI OPPORREMO COI
METODI FASCISTI.
Non deve assolutamente ritornar l’epoca in cui i politicanti
20
adoperavano le masse religiose a solo scopo elettorale in veste
talare con minacce di castighi celesti, con la coartazione dell’anima
del credente, prospettando minacce e danno alla religione cattolica che il Fascismo ha dimostrato coi fatti di rispettare ed
incoraggiare quale fattore possente ed inesauribile di alta e
patriottica idealità.
I MINISTRI DELLA RELIGIONE, TRAVIATI DALLA POLITICA,
DOVREBBERO IMPARARE IL RISPETTO A TUTTE LE FEDI, AI PRINCIPI
DI TUTTE LE RELIGIONI.
Del partito popolare italiano noi ci manterremo fieri e irriducibili
oppositori, fino a tanto che esso, come avviene ancora in tutti i
piccoli centri di campagna, sarà guidato ed impersonificato dal
sacerdote che ha cura d’anime e che per ambizione di comando
o per altri scopi, non sa o non vuole scindere il suo alto ministero
religioso, da quello DI FARE IL GALOPPINO E L’AGENTE ELETTORALE
PRIMA,
l’ispiratore ed il reggitore dei consigli comunali dopo.
RIFIUTIAMO PERTANTO E RECISAMENTE QUALUNQUE ILLEGGITTIMO CONNUBBIO,
QUALUNQUE LISTA CONCORDATA.
La coscienza popolare è desta: la fatidica marcia su Roma,
ideata e condotta con tanta fede, tenacia e bravura dal nostro
Duce, non è stata compiuta per chiudere la breccia di porta Pia,
a profitto dei politicanti di professione, indossino essi la veste
talare o l’abito borghese.
L’ITALIA NON SI NEGA MA
SIMPATTIZZANTI: AL LAVORO!
SI
IL DIRETTORIO
Camposampiero, 3 marzo 1923.
(Archivio di Stato – Padova - Busta Prefettura n. 290)
21
CONQUISTA.
FASCISTI
E
Mussolini a Padova (prima visita).
Dal giornale “Il Veneto” del 1-2 giugno 1923:
“In un trionfo di luci e di colori Padova inaugura la V^ Fiera internazionale di Campioni
Il Governo, con a capo S. E. l’on. Mussolini Presidente del Consiglio, partecipa in forma solenne alla
grandioso cerimonia”.
La propaganda commerciale di Mussolini del “Vov” da “Il Veneto” del 1-2 giugno 1923.
Vigodarzere: le elezioni politiche del 1924
Le votazioni politiche del 6 aprile 1924 si svolsero in un clima di accese rivalità tra il Partito
Nazionale Fascista (PNF), con a capo
Benito Mussolini, il Partito Popolare
Italiano (P.P.I.) di don Luigi Sturzo e i
partiti di sinistra. Secondo la testimonianza
orale di mio padre e di altri papà dei miei
amici, molti a Vigodarzere per dimostrare
la fiducia nel Partito Fascista votarono
avanti al presidente del seggio elettorale.
I parroci dei nostri paesi furono
duramente accusati dai fascisti di essere i
segretari politici del Partito Popolare
Italiano.
Il Partito Nazionale Fascista con la
maggioranza assoluta iniziò la dittatura e
dopo l’omicidio di Matteotti, Mussolini, il
Duce, la trasformò in una dittatura
personale.
22
Scheda elettorale della circoscrizione del Veneto nelle elezioni politiche del 1924.
Risultati delle elezioni politiche del 6 aprile 1924 (1-2)
Vigodarzere Cadoneghe Limena
Aventi diritto al voto
Votanti
1.087
Voti validi
956
948
Fascio
469
203
Popolari
297
195
Comunisti
49
201
Socialisti massimalisti
110
231
Repubblicani
18
16
Democratici (liberali)
1
10
Socialisti Unitari
12
59
Tedeschi
4
Schede nulle
?
29
Oppositori del Partito Nazionale Fascista
Partito Popolare Italiano ha ottenuto il 22% dei voti
651
315
111
64
35
13
75
5
33
Campodarsego Comune di Italia
Padova
29.382 12.067.275
21.035
1.068
19.473
7.165.000
475
6.317
4.650.000
350
3.380
= 64,9 %
102
2.104
91
4.435
34
490
16
935
1.769
43
?
?
2.511.000
= 35,1%
I seggi al Parlamento del listone fascista furono 356 contro i 161 dell’opposizione.
__________
(1) I risultati elettorali furono pubblicati sul quotidiano “Il Veneto” dell’8/9 aprile 1924 e dal libro: La
Resisistenza dei cattolici nel padovano di G.E. Fantelli Ed. Bolzanella 1965)
(2) Le donne italiane votarono per la prima volta nel giugno del 1946 (documentazione tratta dal libro: “Vinicio
Dalla Vecchia” di Patrizio Zanella. Edizione Messaggero Padova, ottobre 2003.
Dal quotidiano “Il Veneto” nella cronaca di Padova del 20-21 maggio 1924.
“Cittadinanza onoraria di Vigodarzere a S. E. Benito Mussolini
Vigodarzere 20 – 21 maggio 1924
Il Commissario Prefettizio avv. Petrin che scrupolosamente, da vari mesi, regge l’Amministrazione
ha preso l’iniziativa, perché sia concessa la cittadinanza onoraria all’On. Mussolini, piccolo omaggio per
la grande opera del ricostruttore delle fortune della nostra Patria.
Ma date le particolari condizioni del Comune egli, con una sincerità che altamente lo distingue, ha
voluto interpellare la popolazione con una richiesta che oltre che approvare la concessione, suonasse in
certo qual modo conferma delle votazioni del 6 aprile u. s. in cui la lista nazionale aveva avuto una
maggioranza schiacciante. E l’esito non poteva essere migliore, perché in poche ore si sono raccolte
oltre 600 firme di cittadini che approvano e plaudono, la bella iniziativa.
Il Commissario Prefettizio nel darne questa sera notizia al Comitato elettorale inneggia al valore
dell’Uomo che fortunatamente regge le sorti d’Italia e la conduce sulla via di un continuo incremento e
miglioramento, e lo proclama cittadino onorario di Vigodarzere, fra gli applausi unanimi dei convenuti.
Che il nuovo concittadino possa ispirare i futuri padri coscritti al sempre migliore benessere materiale e
morale del nostro paese”.
23
DAI QUOTIDIANI :
L’attività del Partito Nazionale Fascista di Vigodarzere.
Dal giornale “Il Veneto” del 16 -17 agosto 1921:
“AZIONE FASCISTA a Vigodarzere
Nell’osteria Dorio, a Vigodarzere l’altra sera dopo le 8, stava cenando una comitiva di operai. Ad un
certo punto irruppero nell’esercizio una trentina di fascisti, i quali si avventarono sui componenti la
comitiva percuotendoli. Indi se ne andarono, accompagnando con loro cinque della comitiva dei quali
non si ha fino ad ora alcuna notizia.
Si vuole che l’azione fascista sia stata determinata dal fatto che la comitiva cantava “bandiera rossa”.
I cinque giovanotti sequestrati dai fascisti sono Giovanni Donà di anni 26, Giuseppe Visentin di
anni 24, Gino Fasolo di anni 18, Giovanni Gallo di anni 21 ed Andrea Vittore di anni 21 tutti di
Altichiero. Fatti salire su di un “camion” furono da prima accompagnati a Bagnoli e li affidati ad una
squadra che li condusse a Piove ed a Campagnalupia. Sia dai primi, che dai secondi i cinque si ebbero
una buona dose di pugni e bastonate perchè si voleva che affermassero che erano “arditi del popolo”. A
compenso delle busse ebbero poi pagato un succulento pranzo.
Finalmente alle 1 di ieri furono posti in libertà e ieri sera stessa fecero ritorno alle loro case. La
versione fascista è questa: una trentina di arditi del popolo in giardiniera cominciarono a scorazzare per
la città cantando ogni sorta di inni sovversivi ed emettendo grida oltraggiose e feroci all’indirizzo dei
fascisti. Più tardi gli arditi stessi sostarono in una osteria a Vigodarzere. Verso le 20 transitava per
Vigodarzere, per combinazione un “camion” che portava in gita di ispezione una quindicina di fascisti.
Attratti dalle grida dei social-comunisti i fascisti si fermarono ed entrarono nell’osteria accolti
naturalmente in malo modo: ne nacque una violentissima zuffa nella quale gli arditi ebbero la peggio”.
“Il Veneto” nella cronaca di Padova del 22-23 dicembre 1922:
“VIGODARZERE
NUOVI FASCI DI COMBATTIMENTO
In un’aula delle Scuole di Saletto di Vigodarzere, convennero tutti i fascisti aderenti
alla “Sezione di Vigodarzere” per costituirla legalmente, alla presenza del segretario politico provinciale
della Federazione fascista sig. Celso Morisi.
Questi, presentato all’assemblea dall’agronomo Albertini, trattenne l’uditorio per circa due ore, e fu
molto applaudito.
A segretario politico venne eletto il sig. Albertini agr. Enrico. Il Direttorio venne costituito dai
signori Olguggiaro Francesco, Giacomelli Albano, Lincetto Ferdinado, Peruzzo Giovanni, Lorenzato
Mario. - A Sindaci revisori dei conti: signori Della Vigna Buono; Gamba Arturo. - A comandante le
squadre d’azione fu nominato il sig. Albertini agr. Enrico (1); a sottocomandante il sig. Pilli Cesare.
Fu inviato un telegramma al Presidente del Consiglio ed alla Direzione del Popolo d’Italia ”.
(1) Abitava in via C. Battisti a Padova.
“Il Veneto” del 15-16 dicembre 1923:
“VIGODARZERE
Festa danzante fascista. - La preannunciata festa danzante fascista, organizzata dal Fascio di
Vigodarzere, ebbe l’esito brillantissimo previsto: per il numero di intervenuti e per la brillante abilità
con cui venne regolata dal valente direttore di sala sig. Enrico Albertini.
Fu eletta reginetta della festa la simpatica signorina Maria Finco, la quale ebbe in regalo ricchissimi
oggetti e fu festeggiatissima. La veglia terminò alle ore 8 della mattina”.
“Il Veneto” del 9 – 10 gennaio 1928:
“La festa danzante del glicine al Casonetto.
La sala del Casonetto, in occasione dell’attesa festa danzante, organizzata dal Fascio di Vigodarzere,
era stata trasformata in una serra di glicine. Festoni del delticato fiore stesi lungo le pareti, davano al
24
ritrovo un’impronta di signorile eleganza che non venne certo meno attraverso le divertenti fasi della
riuscitissima soirèe.
E’ bene, quindi, ricordare i nomi di coloro che contribuirono intelligentemente alla completa riuscita
della festa. Anzitutto il promotore della medesima, signor Enrico Albertini, segretario politico del
Fascio locale, sapientemente coadiuvato dai sigg. Giacomelli Francesco, Giacomelli Bruno, Moscon
Nevio, Peruzzo Giovanni e Zorzato Rizzieri, facenti parte del Direttorio.
Le danze che in fin dalle 22 procedevano animatissime sui ritmi segnati dalla nota orchestra “The
Harold Jazz” vennero più tardi intramezzate da originalissimi e divertenti cotillons (creati dalla
signorina Jole Giacomelli, assieme a due cortesi collaboratori) che segnarono il “clou” della serata. Le
eleganti toilettes femminili, la numerosità dei cavalieri e la larga rappresentanza dell’Esercito e della
Milizia, portarono anch’essi alla riuscitissima festa, che si protrasse fino all’alba, una nota di distinta
eleganza.”
Da “Il Veneto” del 29-30 ottobre 1932:
“A VIGODARZERE
Ieri ha avuto luogo anche a Vigodarzere con grandioso intervento di popolo la celebrazione del X°
annuale della Marcia su Roma e alle ore 9.45 il grandioso cortile del Municipio era già affollatissimo. Fra
le autorità abbiamo notato: il e. m. Enrico Albertini comandante del Presidio della Milizia che
rappresentava il Podestà impegnato a Padova., il signor Bonaventura Dori vicepresidente dei
combattenti, il sig. Benoni ex Podestà del luogo, il sig. Severino Ragazzo rappresentante la Federazione
artigiani. Fra le rappresentanze fasciste vi erano, con i gagliardetti e i labari: Fascio giovanile al completo
con il proprio comandante, le Piccole e Giovani italiane, i Balilla e gli Avanguardisti, gli alunni delle
Scuole “Arnaldo Mussolini” di Vigodarzere e Saletto con gli insegnanti e le bandiere.
Dopo che è giunto il Segretario politico accompagnato dal sig. Lincetto con il gagliardetto della
Sezione alle 10.30 uno squillo d’attenti dà il segnale dell’inizio della celebrazione.
Si alza allora un alalà possente al Duce da parte di tutti e quindi il Segretario politico legge lo storico
messaggio, invitando poscia tutti a stringersi sempre più attorno al Duce per marciare compatti verso
alte mete e la vittoria finale.
Con i canti della Rivoluzione e con potenti alalà al Duce, al Fascismo e ai gloriosi Caduti per la
Causa della Rivoluzione la significativa ed austera cerimonia ha termine”.
“L’INAUGURAZIONE DI UNA CAPPELLA AI CADUTI
Venerdì p.v. anniversario della Vittoria di Vittorio Veneto, Vigodarzere renderà perenne omaggio ai
figli Caduti per la grande Italia, inaugurando una cappella e nel contempo sarà anche benedetta la
bandiera della Sezione combattenti. L’inaugurazione avrà luogo alle ore 10 in Municipio.
La locale Sezione dei combattenti ha inviato a tutti i commilitoni l’invito e si prevede che la
cerimonia assurgerà ad una vera manifestazione di amor patrio”.
“Il Veneto” nella cronaca di Padova del 31 dicembre 1932:
“VIGODARZERE - La riunione dei nuovi tesserati al Partito Nazionale Fascista
Ieri sera, nella sala locale della sezione P.N.F. ebbe luogo la riunione del primo nucleo di nuovi
iscritti. All’adunata intervennero il Segretario politico sig. Rizzieri Zorzato con il Direttorio al completo,
il segretario comunale sig. Turri per il podestà, il comandante del Presidio della M.V.S.N. , il maestro
Albertini, il comandante del Fascio giovanile e molti fascisti anziani.
Prese la parola il segretario politico che pronunciò un breve discorso illustrando i doveri che ogni
fascista ha verso la Patria e l’Italia.
Si intrattennero sullo spirito di fratellanza e collaborazione che deve animare ogni camicia nera, per il
raggiungimento di mete sempre migliori.
Con commoventi parole rievocò infine, i fatti di Trevié mettendo evidenza l’onore che ci lega ai fratelli
dell’altra sponda”.
25
“Il Veneto” nella cronaca di Padova del 4 -5 aprile 1933:
“Vigodarzere
La corsa campestre per i giovani fascisti Domenica mattina, alle ore 10.00, si è svolta una gara campestre per soli giovani fascisti del Comando
locale a scopo di propaganda.
L’organizzazione è stata curata dal Comandante locale rag. Elio Gualtieri (che personalmente assistette
alla partenza e all’arrivo) con la collaborazione del sig. Bruno Zanarotti che funzionava da
cronometrista. Presero il via diciotto concorrenti, disputando di Km. 2500 (1) con diversi ostacoli
naturali. Si qualificava primo il giovane fascista Luigi Saretta, che impiegava a compiere il percorso 8’
35’’, seguito a breve distanza da Giorgio Casarotto in 8’ 40’’, Lorenzato, Borsato e da altri, giunti in
tempo massimo”.
(1) Errore di stampa.
“Il Veneto” del 18-19 aprile 1933:
“Vigodarzere
I combattenti chiedono l’iscrizione al Partito
- E’ seguita in un locale delle scuole di Saletto l’assemblea dei combattenti presieduta dal cav.
Francesco Giacomelli Podestà del luogo. L’aula era affollatissima di intervenuti e dopo un
applauditissimo discorso del Presidente il quale levò un pensiero agli Eroi caduti in guerra e per la
Causa fascista, tutti i combattenti hanno deciso di presentare in massa la domanda d’iscrizione al
P. N. F. . Dopo altissimi alalà al Re e al Duce l’assemblea si sciolse con i canti della trincea e della
Rivoluzione”.
Dal giornale “Il Veneto” del 22-23 gennaio 1935:
“A VIGODARZERE
Sullo spiazzo prospiciente il palazzo comunale erano schierati i Fasci giovanili dei Comuni di
Vigodarzere, Cadoneghe, Piazzola sul Brenta, Limena, Campodoro, Vigonza, Villafranca, Montà. I
giovani fascisti avevano raggiunto il luogo di adunata in bicicletta. Il contingente, forte di oltre seicento
camicie nere, era al comando del dott. Castagnero.Nelle vicinanze del Municipio avevano preso posto
invece i fascisti e le rappresentanze delle altre organizzazioni del Regime.
Fra le autorità abbiamo notato: il Podestà cav. Giacomelli, il Segretario del Fascio e comandante del
Fascio giovanile sig. Zorzato Rizzieri, la fiduciaria del Fascio femminile signora Turri, l’arciprete e molti
altri. Il Segretario federale ha passato in rassegna le centurie, salutato dal possente A Noi dei giovani.
Dopo la rivista alle forze giovanili, è stata tenuta l’assemblea del Fascio.
Il camerata Rizzieri ha fatto una succinta relazione dell’attività svolta. I fascisti assommano a 164, di
cui 100 tesserati per l’anno XIII, e i giovani fascisti a 155. Illustrata l’opera svolta dal Fascio Giovanile,
il Segretario del Fascio ha parlato diffusamente del lavoro espletato dall’Ente Opere assistenziali e dal
Fascio femminile. Le famiglie attualmente assistite sono 93. Le donne fasciste hanno prestato con
entusiasmo la loro opera, sia per il confezionamento dei pacchi di Natale che per quelli della Befana del
Duce. Dopo aver parlato degli ottimi rapporti che intercorrono fra tutte le autorità, il camerata Rizzieri
ha terminato il suo breve dire col saluto al Duce.
Il dott. Podestà - Il Segretario federale ha reso noto che il 3 febbraio ritornerà a Vigodarzere per
presiedere l’assemblea del Fascio. In quella occasione i fascisti e i giovani fascisti dovranno essere in
perfetta divisa e il Fascio femminile dovrà essere raddoppiato.
Tutte le organizzazioni giovanili saranno passate in rivista e dovranno dare una magnifica
dimostrazione di forza e di disciplina.
Con chiaro e vibrante dire il dott. Podestà ha parlato dell’opera che diuturnamente svolge il Duce
per il sempre maggior potenziamento della nostra Patria e ha spronato i fascisti a collaborare con
passione e fede.
Sciolto con un inno agli eroi della guerra e della Rivoluzione, l’oratore ha affermato che ancora
molto cammino dobbiamo percorrere e che perciò tutti debbono dare per il raggiungimento delle mete
segnate dal Duce.
26
Al termine del discorso il dott. Podestà è stato calorosamente applaudito, mentre i giovani fascisti
improvvisavano una vibrante dimostrazione di fede”.
“Il Veneto” del 16 marzo 1937:
“DA VIGODARZERE L’ASSEMBLEA DEL FASCIO
A Vigodarzere l’assemblea del Fascio è riuscita imponente. E’ stata presieduta dal Vice Segretario
federale Castegnaro. Ricevuto dall’ispettore di Zona avv. Rosa, dal Podestà cav. uff. Giacomelli, dal
segretario del Fascio Gualtieri il Gerarca ha passato in rivista le organizzazione schierate.
Quindi il Segretario del Fascio ha svolto una relazione sull’attività svolta. Ha preso quindi la parola il
dott. Castegnaro che ha rivolto al relatore un caldo elogio. Egli ha comunicato numerose direttive del
Segretario federale in merito al potenziamento dei reparti., al perfezionamento dei fasci giovanili e
femminili – nei cui ranghi del resto, regna la disciplina e si manifesta un sensibilissimo sviluppo – ha
parlato dell’abolizione progressiva dei casoni, ed infine, con ispirata parola, ha esaltato l’opera del Duce
ed il risorto Impero romano”.
Dal “Il Veneto del 3 febbraio 1940:
“VIGODARZERE Ispezione alla GIL
L’altra sera l’ispettore federale Cent. Albanese ricevuto dal Comandante della G.I.L. Gualtiero
Gualtieri e dal segretario amministrativo Nazzareno Paccagnella, ha passato in rivista la fanfara dei
giovani fascisti e quindi ha ispezionato minutamente l’amministrazione della Gil e del Patronato
scolastico, rilevando la perfetta regolarità. Alle ore 23 il Gerarca lasciò la Casa del Fascio”.
“RIUNIONI DELLE MASSAIE RURALI
L’attivista segretaria del Fascio femminile ha riunito in una sala della Casa Littoria le massaie rurali
della Sezione. Il Segretario politico il quale ha presenziato alla riunione, dopo il saluto al Duce ha porto
alla segretaria ed alle convenute il suo cameratesco saluto spiegando l’alta importanza del settore delle
“massaie rurali”, i delicati compiti loro affidati e le ha esortate a stringersi sempre più intorno al Fascio
Littorio. Vennero poi distribuiti dolci a tutte le organizzate.
La simpatica riunione svoltasi in un clima di schietto cameratismo si sciolse col saluto al Duce”.
IL DOPO ELEZIONI DEL 1924
La sconfitta del Partito Popolare It. e l’affermazione del Partito Nazionale Fascista creò un clima di
persecuzione nei confronti degli oppositori e dei parroci considerati facenti funzioni di segretari del
Partito Popolare Italiano.
“Gli anziani di Vigodarzere mi informarono e dai documenti risulta che il 26 aprile 1925, faceva il
suo ingresso nella chiesa di Vigodarzere don Girolamo Rizzato. Era stato parroco di Saonara per 16
anni. Per i contrasti col podestà Sgaravatti, che spadroneggiava nella zona, chiese il trasferimento e gli
fu assegnata la parrocchia di Vigodarzere.
(Testimonianza resa da Federico Zoccarato (classe 1923), di Vigodarzere il 25. 02. 2002).
“Nel 1927 il questore di Padova chiese il trasferimento, per la sua avversione alla organizzazione dei
Balilla, di don Gioacchino Donazzan parroco di Tavo”.
(Dal libro: “Antifascisti padovani” 1925-1943 di Grazia Ciotta e Silvia Zoletto. Istituto Veneto per la Storia della
Resistenza e dell’Età contemporanea. 1999. Pag. 97.
Contro le organizzazioni cattoliche.
“Negli anni in cui incalzava con violenza il movimento fascista, sotto gli occhi delle autorità locali
quasi sempre insufficienti e qualche volta nettamente partigiane della parte agraria e fascista, il giornale
La Difesa del Popolo non tacque gli episodi di violenza nella diocesi, come quelli verificatisi nei distretti di
Este e Conselve: centinaia e centinaia di lavoratori furono bastonati a sangue! I feriti da arma da fuoco
furono oltre trenta. Ci furono alcuni morti tutti di parte operaia (La Difesa del Popolo, 19 febbraio 1922).
La repressione del regime si rivolse anche alla stampa. Il 31 maggio del 1925 andò in fiamme Il
Popolo Veneto e l’ex teatro Concordi, sede delle associazioni cattoliche, fu invaso e devastato. L’ostilità
sorda al Partito Nazionale Fascista costò alla Difesa l’incendio e la devastazione. I soliti Ignoti, la notte tra
27
l’1 e il 2 novembre 1926 forzarono l’ingresso della tipografia, danno fuoco ai macchinari e all’archivio
della redazione: 75 mila lire di danni e nessun giornale cittadino ne parlò, per ordine dall’alto. Solo un
accenno alla vicenda, da parte del direttore Ruffatti, in un breve messaggio ai lettori: Il nostro giornale
in seguito a fatti a tutti noti, versa in gravi particolari necessità. Non diciamo di più. Gli abbonati e gli
amici ci intendano e si comportino di conseguenza.(Tratto dal supplemento alla Difesa del Popolo N. 17 del
26 aprile 1998).
Ordine del giorno del Partito Nazionale Fascista del 5 gennaio 1925 della sezione di Vigodarzere.
(Archivio di Stato di Padova).
28
La Milizia Volontaria per la Sicurezza dello Stato (M.V. S. S.) chiamate “Camicie nere”.
Fu istituita nel 1923 per legalizzare gli squadristi fascisti. Nel 1933 nella ricorrenza del decennale
dell’istituzione della Milizia fascista venne “celebrato con riti austeri, in tutta Italia”.
Il quotidiano “Il Veneto” dell’1-2 febbraio 1933 pubblicava il messaggio del Duce; specificatamente:
… “Nati dallo squadrismo impetuoso ed eroico della vigilia, voi ne conservate l’animo e le speranze.
La Rivoluzione Fascista ha in voi i suoi difensori armati, il popolo dei campi e delle officine, da cui
uscite, vi guarda con orgoglio”
Nello stesso giornale veniva riporta il Decalogo delle Camicie nere:
“1) Sappi che il Fascista, ed in specie il Milite, non deve credere alla pace perpetua.
2) I giorni di prigione sono sempre meritati.
3) La Patria si serve anche facendo la guardia a un bidone di benzina.
4) Un compagno deve essere un fratello: primo, perché vive con te; secondo, la pensa come te.
5) Il moschetto, le giberne, ecc. ti sono state affidate non per sciuparle nell’ozio, ma per conservarle
per la guerra.
6) Non dire mai: “Tanto, paga il Governo!”, perché sei tu stesso che paghi, e il Governo è quello che
tu hai voluto e per il quale indossi la divisa.
7) La disciplina è il sole degli eserciti: senza di essa non si hanno soldati, ma confusione e disfatta.
8) Mussolini ha sempre ragione.
9) Il Volontario non ha attenuanti quando disobbedisce.
10) Una cosa deve essere cara soprattutto: la vita del Duce”.
Grazie all’attivismo del coordinatore Albertin Enrico, inviato dalla direzione provinciale del P.N.F. ,
nel quotidiano fascista “Il Veneto”, caso unico in provincia di Padova, sono riportati i verbali delle
riunioni della sezione del P.N.F. della sezione di Vigodarzere.
Albertin Enrico, abitava in via C. Battisti a Padova e dopo dieci anni fu promosso Commissario
Prefettizio di Vigonza.
“Topolino” si salvò.
Nel 1925 i giornali furono tutti fascistizzati, oppure non dovevano scrivere della situazione e
riportare solo informazione religiosa. Il giornale a fumetti “Topolino” si salvò perché piaceva ai figli del
Duce.
Vigodarzere: si inizia a migliorare.
In data 23 febbraio 1929 il podestà con una lettera informava il prefetto che nell’anno 1927 fu
costruito il tronco stradale Vigodarzere-Pontevigodarzere; nella stessa rilevava che nell’anno 1927 i
centri di Vigodarzere, Saletto e Tavo furono allacciati alla corrente elettrica. Inoltre il territorio di
Vigodarzere stava per essere collegato alla linea telegrafica Padova -Limena -Piazzola.
(Archivio di Stato di Padova).
29
Dal giornale: “Il Veneto” del 31 genn. 1 febb. 1928:
“L’imposta progressiva sui celibi.
Come sarà applicata nel 1928 - Quindici milioni nel primo quadrimestre
Entro oggi saranno allestiti dai competenti Uffici finanziari i nuovi ruoli dei contribuenti all’imposta
personale progressiva sui celibi. Intanto si sa che nel primo quadrimestre l’Erario nazionale ha incassato
a titolo di tale imposta 15 milioni, che saliranno a 50 milioni col nuovo ruolo, tutti destinati come fu
annunciato a favore dell’Opera nazionale per la protezione della maternità e dell’infanzia.
Le cifre subiranno senza dubbie modificazioni col nuovo anno. Anzitutto, saranno inoltre esentati dal
pagamento dall’imposta tutti quei celibi che nel 1927 hanno compiuto il sessantacinquesimo anno di
età. Verranno inoltre esentati dall’imposta coloro che, già iscritti nei ruoli dei celibi, durante lo scorso
anno sono convolati a più o meno a felici nozze. In compenso il Fisco iscriverà nelle file dei
contribuenti tutti coloro che al 31 dicembre scorso hanno compiuto il 25° anno, senza essere sposati.
Chi sono i tassabili Soggetti dell’imposta, si ripete, per l’art. 1 del R. decreto legge 19 dicembre 1926 n.
2123 sono tutti i celibi, che abbiano compiuto i 25 anni e non abbiano ancora compiuto i 65 anni ,
avvertendo che l’obbligo all’imposta si inizia col 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui si è
contratto matrimonio o si è compiuto il 65° anno d’età; cosicché, il celibe cha ha compiuto gli anni 25
fra il 1° gennaio e il 31 dicembre 1927 deve l’imposta per il 1928, e non la deve per il 1928 chi compie
i 25 anni fra il 1° gennaio ed il 31 dicembre di quest’anno.
Qui ora interessano i nuovi soggetti all’imposta, cioè i celibi che nel 1927 hanno compiuto i 25 anni
d’età. Essi devono fare dichiarazione individuale entro il corrente mese, esponendo le generalità,
l’indirizzo domiciliare, il luogo e la data di nascita, la professione, l’indicazione dei redditi accertati agli
effetti dell’imposta complementare, e, in mancanza di qualsiasi accertamento la dichiarazione deve
contenere la indicazione dei redditi di cui il denunziante gode.
Per i celibi che si trovino nelle condizioni dell’art. 5 del decreto regolamentare 13 febbraio 1927 - e
che potrebbero definirsi figli di famiglia - cioè che non sono iscritti nei ruoli delle imposte dirette per i
redditi nella famiglia di origine, la dichiarazione come ne fa obbligo l’articolo 8, deve essere presentata,
Casi tipici di tassazione.
In lire 35 annue per i celibi fra 25 anni ed i 35 compiuti; in lire 50 annue per i celibi fra i 35 e i 50
anni compiuti; in lire 25 annue per i celibi fra i 50 ed i 65 anni compiuti.
Alla quota fissa si aggiunge una quota integrativa corrispondente a un quarto della imposta
complementare - che sarebbe applicabile sul reddito complessivo del celibe…”
Questa imposta anticipò una serie di disposizioni di legge favorevoli all’incremento demografico con
premi di nuzialità, natalità e privilegi nelle carriere statali e parastatali per gli ammogliati.
Le ambizioni del regime fascista.
30
La fabbrica di Benoni.
Qui sotto è riprodotta la fotografia dell’industria della selezione e trasformazione degli stracci della
ditta “Benoni”. Oggi di quel complesso industriale rimane solo la torre per il deposito dell’acqua
nell’attuale via Carducci a Vigodarzere.
La foto è stata scattata in occasione dell’inaugurazione della torre serbatoio dell’acqua per lo stabilimento “Benoni”nel
1928. Da destra: si intravede la chiesa di Pontevigodarzere e il vecchio ponte stradale sul fiume Brenta, inoltre si vedono
la ciminiera della fabbrica, la torre del deposito dell’acqua e nello sfondo i capannoni dell’Autocentro del Regio Esercito
Italiano. Sulla sinistra, tutta l’area era occupata dalla fabbrica.
(Per gentile concessione del rag. Ruggero Benoni).
IL cav. Battista Benoni nel 1920 acquistò quell’ampio immobile ex Cinex stabilimento cinematografico
Vi costruì nel 1926, la fabbrica per il riciclaggio e la lavorazione degli stracci, impiegando circa 500
operai . Nel 1935 il governo Mussolini espropriò una parte e nel 1938 fu trasformata nel 202°
Magazzino della Regia Aeronautica Militare (2), (attuale Deposito Centrale Sistemi Missilistici
dell’Aeronautica Militare sito in via Roma, 23 a Vigodarzere.
(1).
__________
(1) Nel 1916 i capannoni della Cinex furono adibiti ad ospedale militare (La Difesa del Popolo 11 giugno 1916).
(2) “Brevi cenni storici del Magazzino della Regia Aeronautica Militare di Vigodarzere.
Il 23 febbraio 1938, con decreto del Prefetto di Padova n. 3.400/7535, l’attuale Sede del Deposito fu
acquisita dall’allora Regia Aeronautica per essere adibita a “Magazzino Materiali Speciali Aeronautica” della 2^
ZAT di Padova per i reparti operanti nell’Africa orientale italiana.
Dal termine della 2^ Guerra Mondiale, la struttura continuò ad essere utilizzata come “Magazzino Materiali
Speciali Aeronautica” fino alla primavera del 1959, anno in cui, con la costituzione in data 01.01.1966 fu
costituito il “7° Deposito Centrale” e posto alle dipendenze dirette dell’allora 3° Reparto dell’Ispettorato
logistico; e dopo 30 anni, e precisamente il 1° gennaio 1996, l’ente venne ridenominato “Deposito Centrale
Sistemi Missilistici” alle dipendenze del Comandante del 2° Reparto Manutenzione missili di Padova.
Il Deposito gestisce i sistemi missilistici Nike e Spada usati per la difesa del Territorio Italiano, ed alimenta a
livello nazionale tutti i Magazzini ed Enti in possesso di tali sistemi”
(Per gentile concessione del Comandante dell’Aeronautica Militare Italiana – Deposito Centrale Sistemi
Missilistici Ten. Col. Aldo Palmitesta).
L’AMMINISTRAZIONE DEI COMUNI
I consigli comunali furono sciolti e la conduzione dell’amministrazione fu affidata ad una persona
chiamata il “podestà” che era nominato dal prefetto della provincia.
Quasi tutti i podestà di Vigodarzere lasciarono un buon ricordo, fatta eccezione per alcuni che non
abitavano a Vigodarzere ed erano uomini di carriera politica.
Un nuovo podestà.
Prima di nominare un nuovo podestà, non nativo nel territorio, il prefetto faceva svolgere delle
indagini dalla Legione Territoriale dei Carabinieri Reali di Padova.
31
Ecco la relazione riservata relativa alle informazioni assunte dai Reali Carabinieri in data 9 marzo 1929:
“Il signor Benoni Battista, di Michele e di Briosi Cristina, nato a Maderno il 1 febbraio 1884 e residente
permanentemente e stabilmente a Vigodarzere, industriale, coniugato con prole, è di buona condotta
morale e politica ed è iscritto al Partito Nazionale Fascista. Non ha titoli di studio, però possiede
sufficiente cultura letteraria.
Non ha prestato servizio militare, perché riformato; ha ricoperto per circa due anni la carica di
assessore in detto comune. Gode molta stima della popolazione e, per correttezza, capacità e devozione
al Governo Nazionale, è meritevole di essere nominato alla carica podestarile…(omissis). Firmato Il
Maggiore Comandante della Divisione, Francesco Mazzarelli”.
Durante il suo breve periodo podestarile realizzò tramite il Consorzio di Bonifica Brenta Vecchia
delle canalette di irrigazione del nostro territorio. Acquistò dalla Banca Commerciale la Villa Zusto per
L. 100.000 e la adibì a nuova sede municipale(1). In precedenza, la sede municipale era collocata
nell’edificio, ora inagibile, situato in via L. da Vinci a Saletto (2). La chiesetta accanto alla Villa Zusto,
intitolata alla Madonna Immacolata, fu dedicata alla memoria dei soldati del territorio comunale Caduti
in guerra. Inoltre, elaborò il progetto della scuola elementare che fù inaugurata nel 1932 (nello stesso
anno, a Vigodarzere fu istituita la classe Va elementare). I più anziani di Vigodarzere ricordano bene che
per frequentare la Va elementare dovevano portarsi a piedi sino alle scuole elementari di
Pontevigodarzere, ora Casetta Michelino centro diurno per anziani.
Il 1929 è ricordato come l’anno del grande gelo (3), fu anche l’anno in cui la Borsa di New York crollò
mandando in forte crisi l’economia italiana
con il fallimento di tante imprese.
Probabilmente anche la ditta “Benoni”
risentì della crisi. Il titolare Cav. Battista
Benoni diede le dimissioni da podestà in
data 4 novembre 1930.
(Tratto dai documenti conservati presso
l’Archivio di Stato di Padova e dalla
testimonianza resa dal rag. Ruggero Benoni di
Vigodarzere il 15. 11. 2003).
__________
(1) Il trasporto dei documenti del municipio fu
fatto di notte, perché vi era nella popolazione
locale una forte contrarietà al trasloco della
sede municipale.
(2) Nello stesso edificio vi erano le scuole
elementari e l’ufficio postale.
(3) A Padova la temperatura minima scese a
meno 17° C. -Notizia rilevata dal quotidiano “Il
Veneto” del 16-17 febbraio 1929.
Attestato consegnato al podestà Cav. Battista
Benoni.
32
Testata del quotidiano “Il Veneto” del 11-12 novembre 1929 in cui è riportata la cerimonia di inaugurazione della
nuova sede municipale di Vigodarzere.
Foto della cerimonia dell’inaugurazione della nuova sede municipale di Vigodarzere.
Da sinistra dietro il tavolo: Ten. Mencarelli Alighiero comandante dell’Autocentro Militare di Pontevigodarzere;
il terzo è il segretario politico figlio del medico condotto Gaetano Bragagnolo, il quarto è il podestà Cav. Giambattista
Benoni, il quinto è l’arciprete don Girolamo Rizzato (Collezione del. rag. Ruggero Benoni).
Un podestà buono come il pane.
Nel 1934 il prefetto incaricò a fungere da podestà di Vigodarzere Guerrino Beccegato. Abitava e
gestiva il panificio nell’attuale via Roma a Vigodarzere, vicino all’ingresso principale del cimitero. Era
noto nel paese come un lavoratore instancabile e appassionato, sposato senza figli. In molti lo
ricordano per la corporatura massiccia che si evidenziava quando usava la bicicletta o quando occupava
un notevole spazio nell’interno del campanile trasformato in rifugio antiaereo. La popolazione del
podestà Beccegato conservò, anche dopo la guerra, un ottimo ricordo.
La campagna del grano.
Nel 1929 iniziò la diffusione delle tecniche agrarie per l’aumento della produzione del frumento da
parte dei tecnici della Cattedra Ambulante dell’Ispettorato Agrario Provinciale. Le lezioni erano tenute
di sera nei vari paesi; ciò serviva a migliorare le conoscenze agronomiche e per aumentare la superficie
per la semina della coltura del frumento anche in terreni marginali. Per aumentare la produzione per
ettaro di frumento si dovette aspettare il 1960, vale a dire quando fu possibile con la meccanizzazione
aumentare la profondità del terreno arato e sostituire le varietà di sementi di frumento più resistenti
33
alla forza del vento e alle malattie. La campagna del grano proseguì per tutto il ventennio fascista. Fu
soprattutto un’azione massiccia di propaganda politica del regime.
Diploma conferito ad un agricoltore di Vigodarzere per la partecipazione alla campagna del grano, del 1929/1930.
La Gioventù Italiana del Littorio e le scritte murarie.
Nel 1937 fu istituita l’organizzazione della Gioventù del Littorio per organizzare i giovani in modo
globale. I motti della propaganda erano scritti su molti edifici: “Credere, combattere, obbedire”. “Me ne frego”.
“Il Duce ha sempre ragione”. “E’ l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende”. “Il fascista non ama la
felicità del ventre e disdegna la vita comoda”. “Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi”. “Molti nemici, molto
onore” e “Noi tireremo diritto”. Anche sui muri delle case di Vigodarzere c’erano alcune di queste scritte,
cancellate dopo la guerra. Scomparvero definitivamente, nel corso di decenni, con l’abbattimento dei
vecchi edifici.
Secondo la moda in quel periodo, molti giovani di Vigodarzere, si recavano dalla “morosa” con passo
gagliardo, con la fronte alta e il petto in fuori, ma soprattutto indossavano fieramente la camicia nera.
Le organizzazioni fasciste dei bambini e dei ragazzi.
I bambini dai 3 ai 6 anni dovevano essere iscritti ai Figli della Lupa, dai 6 ai
10 anni l’Opera Nazionale Balilla, dai 10 ai 14 anni agli Avanguardisti, infine i
giovani dai 14 ai 20 anni ai Giovani Fascisti.
(Tratto dalle ricerche degli studenti della scuola media di Vigodarzere, terza A, anno
1999 e pubblicata sul giornale “Tra il Brenta e il Muson” n. 3 anno 2.000).
Un figlio della lupa.
34
Opera Nazionale Balilla (1).
Testimonianza resa da Radames Pasquetto (classe 1930), del 20 ottobre 2001.
“Noi ragazzi dalla terza alla quinta elementare dovevamo iscriverci all’ Opera Nazionale Balilla.
L’appuntamento era fisso: ogni sabato pomeriggio alla casa del fascio e poi, incolonnati, ci recavamo al
campo sportivo a nord della chiesa di Vigodarzere, dove si marciava, si riceveva informazioni sull’uso
delle armi e si cantava Faccetta nera.
“Se tu dall’altipiano guardi il mare,/moretta che sei schiava tra gli schiavi,/ vedrai come un sogno tante
navi/ e un tricolore sventolar per te./ Faccetta nera,/ bell’abissina (etiope)/ aspetta e spera/ che già
l’ora si avvicina!/ Quando saremo/ insieme a te,/noi ti daremo un’altra legge e un altro Re./La legge
nostra è schiavitù d’amore,/ il nostro motto è LIBERTA’ e DOVERE,/ vendicheremo noi camice
nere,/ gli eroi caduti liberando te!./Faccetta nera ,/ bell’abissina/ aspetta e spera/ che già l’ora si
avvicina!./Quando saremo/ insieme a te,/ noi ti daremo un’altra legge e un altro Re./ Faccetta nera,/
piccola abissina,/ ti porteremo a Roma, liberata./ Dal sole nostro tu sarai baciata,/sarai in camicia nera
pure tu./ Faccetta nera,/ sarai Romana/ la tua bandiera/ sarà sol quella italiana!/ Noi marceremo/
insieme a te/ e sfileremo avanti al Duce/ e avanti al Re!”
Testimonianza resa da Zeno Vettore (classe 1926), del 12. 12. 2001.
“Nel 1935 eravamo in sette tra fratelli e sorelle e per frequentare la scuola elementare era
obbligatoria l’iscrizione all’Opera Nazionale dei Figli della Lupa o di quella dei Balilla. Questa iscrizione
costava per ognuno una “colombina d’argento” in pratica cinque lire, più una lira per la pagella. Mio
padre Domenico, agricoltore, non aveva neanche un centesimo e non poteva mandare i figli a scuola,
espose la situazione economica al maestro Alessandro Zanarotti, che rispose: “ Metterò io le
“colombine” e le lire per l’iscrizione alla scuola elementare. In cambio doveva fargli delle scope di
saggina per pulire il cortile della sua abitazione. L’iscrizione all’ Opera Nazionale Balilla comportava, per
gli studenti, l’obbligo di partecipare alle riunioni che si tenevano ogni sabato pomeriggio presso la Casa
del Fascio di Vigodarzere. Tale obbligo interferiva con l’orario dell’insegnamento della dottrina cristiana
ed era giudicato con preoccupazione dai genitori e dai sacerdoti perché non era conforme agli
insegnamenti della dottrina cristiana”.
__________
(1) Fu istituita nel 1926
Il premilitare obbligatorio.
Per completare un’educazione conforme all’ideologia fascista e patriottica nel 1928 fu istituito il
premilitare per i giovani, inizialmente volontario. Tutti i giovani di Vigodarzere dai 17 ai 20 anni,
dovevano confluire al sabato pomeriggio, nei pressi della Certosa, per eseguire le esercitazioni militari
armati di fucile con la baionetta e seguire lezioni di cultura fascista.
Nel 1935 era loro presentata la Gran Bretagna come malvagia perché “ci soffocava nei nostri mari,
limitava la navigazione e la commercializzazione”. In realtà erano le sanzioni della Società delle Nazioni
inflitte all’Italia per avere aggredito l’Etiopia. Facevano poi ripetere gli slogan : “Dio stramaledica
l’Inghilterra”; “Con un piede solo ma combattere contro l’Inghilterra” (che per fare passare le navi
italiane attraverso il canale di Suez volevano oro a palate). Gli inglesi, padroni di un quarto di mondo,
non volevano che noi italiani allargassimo i confini delle colonie della Somalia e dell’Eritrea. Gli inglesi
fornivano agli abissini le armi perché uccidessero i soldati italiani che presiedevamo la Somalia.
Alcuni giovani di Vigodarzere rifiutarono il premilitare, presentando un falso certificato medico,
perché era una scuola di turpiloquio e di bestemmie. Negli ultimi anni gli insegnanti del premilitare
furono Nazareno Paccagnella (1), Giovanni Peruzzo (2) e Ettore Vettore (3). Il premilitare fu sospeso
all’inizio della guerra nel 1940. Il giuramento di fedeltà a Mussolini era imposto dall’età di otto anni (4).
__________
(1) Nazareno Paccagnella morì il 3 maggio del 1945 ucciso per le torture subite nella prigione di Enego.
(2) Giovanni Peruzzo morì all’Arcella di Padova per le ferite d’arma da fuoco il 22 settembre 1944.
(3) Ettore Vettore morì per le torture e per le ferite d’arma da fuoco accanto il cimitero di Cadoneghe il 3 maggio
del 1945.
(4) Dal libro: “Vinicio Dalla Vecchia” di Patrizio Zanella, ed. Messaggero Padova 2003.
35
La formula del giuramento dei Balilla che fu esposta alla mostra antibolscevica di Monaco (Germania) nel 1936.
(Da il quotidiano “Il Veneto della Sera” del 16. 12. 1936).
Il fascismo e la preghiera.
I dirigenti fascisti pretendevano la presenza dei sacerdoti nelle dimostrazioni politiche però,
spesso, emergeva anche negli scritti lo spirito anticlericale che dominava il partito fascista.
Il credo fascista: “Io credo nel sommo Duce / creatore delle camice nere./ E in Gesù Cristo, suo unico
protettore./ Il nostro Salvatore fu concepito / da una buona maestra e da un laborioso fabbro. / Fu
prode soldato, ebbe dei nemici. / Discese a Roma / il terzo giorno stabilì lo Stato, / salì all’alto ufficio.
/ Siede alla destra del nostro sovrano. / Di là ha da venire a giudicare / il bolscevismo. / Credo nelle
savie leggi. / La comunione dei cittadini. / La remissione delle pene. / La resurrezione dell’Italia. / La
forza eterna e così sia.
(Dal quotidiano: “Il Popolo d’Italia” del 12. 10. 1932; fu pure pubblicata dal libro: La fabbrica del Duce di
Biondi, Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova).
Dal quotidiano “Il Veneto della Sera” del 20 novembre 1936:
“ Soppressione delle fabbricerie (1) di centosettanta chiese della Diocesi di Padova.
Su proposta del Capo del Governo, Primo Ministro Segretario di Stato, ministro dell’Interno,
vengono soppresse le Fabbricerie della Diocesi vescovile di Padova, comprese nel territorio della
Provincia di Padova: … (segue l’elenco tra cui Vigodarzere: Fabbriceria della Chiesa parrocchiale di S.
Martino, Fabbriceria della Chiesa parrocchiale di S. Pietro in Tavo, Fabbriceria della Chiesa di S.
Silvestro Papa di Saletto”.
__________
(1) Le Fabbricerie erano composte di fedeli che consigliavano i parroci nell’amministrazione delle parrocchie.
36
La Scuola dell’Infanzia di Vigodarzere (1).
Il podestà di Vigodarzere nel 1929 acquistò dalla parrocchia di Vigodarzere il terreno dell’attuale
Piazza Bachelet per costruire il nuovo edificio delle scuole elementari. In quel luogo vi era la colonna
con sopra la statua della “Madonna delle Acque” che fu trasferita di fronte alla chiesa. Il vecchio
edificio delle scuole elementari con due aule fu dato in uso, sulla parola, alla parrocchia di Vigodarzere
che il 25 settembre dello stesso anno lo utilizzò per inaugurare l’Asilo Infantile, ora Scuola dell’Infanzia.
Nel 1955 per ristrutturare e ampliare l’edificio, fu necessario l’acquisto dell’immobile, da parte della
parrocchia di S. Martino di Vigodarzere perché, nelle traversie della storia, era rimasto proprietà del
Comune.
__________
(1) Informazioni di Federico Zoccarato e dal Bollettino parrocchiale di Vigodarzere - dicembre 1962 -
Foto della Scuola dell’Infanzia di
Vigodarzere (ex scuola elementare
sino al 1931), come si presentava
nel 1944/45 - (2) (3).
L’edificio delle scuole elementari di Vigodarzere inaugurato nel 1932.
Nell’agosto del 1944 fu occupato da un presidio di soldati tedeschi del Genio Pontieri e gli alunni furono trasferiti nella
scuola materna, nella chiesetta della Villa Zusto e nella sala del teatro della parrocchia di Vigodarzere.
37
La maestra Maria Cerato Paccagnella,
accanto a Cesaro Giulio, suo ex alunno
della 1^ elementare, nell’anno scolastico
1944-45. (Foto dell’ 11 novembre 2001).
__________
(2) Nel 1929 nel paese di Vigodarzere due aule elementari erano nell’edificio scolastico (nella parte centrale vi era
l’abitazione del maestro), la terza sopra il palco del teatro della parrocchia e la quarta nella ex scuderia ora
barchessa della Villa Zusto.
(Testimonianza di Federico Zoccarato - classe 1923 - Vigodarzere il 10 febbraio 2005).
(3) Dal quotidiano “Il Veneto” del 11-12 novembre 1929:
“… Infelicissima fin qui, la situazione dell’edilizia scolastica. Un migliaio circa di alunni di tutto il territorio del
Comune non trovano sufficiente capienza nelle due misere aule del capoluogo e fra quelle ancora peggiori delle
frazioni. Si era ridotti al punto di dover ripartire gli scolari in due turni con orario diverso, impartendo le lezioni
anche in chiesa. Ma c’è di più: la dotazione di materiale era così meschina, che i banchi non bastavano ad
accogliere tutti gli scolari, e si doveva ricorrere, incredibilmente, ma vero, al sistema di farli sedere per turno, si
che, durante lo svolgimento delle lezioni, in buona parte dovevano rimanere in piedi”.
Per una barzelletta.
Mio padre Vincenzo Cesaro mi ha più volte raccontato un fatto accaduto nel 1934 ad un
parrocchiano di Vigodarzere che abitava nell’attuale via del Santo nel territorio del comune di
Cadoneghe. L’episodio è riportato dallo scrittore maestro Albino Bellon nel libro “Due secoli di
Cadoneghe”, Edizioni Società Cooperativa Tipografica di Padova, giugno 1995. A pagina 92 viene
descritto con dovizie di particolari, l’accaduto. “Ormai la dittatura controllava ogni attività ed era
presente in ogni ambiente. La gente taceva ed ubbidiva. Non si udivano voci di dissenso. Sapremo più
tardi, a guerra finita, che queste voci esistevano, ma non giunsero
mai a farsi sentire. L’unico fatto di cui si ebbe notizia, confidata in
gran segreto, fu l’arresto di uno stradino della Provincia. Nel mentre
riposava un momento, all’ombra di un platano, durante un’afosa
giornata estiva, ebbe la cattiva idea di raccontare una barzelletta
poco rispettosa del duce ad un caro amico. Fu, da questi,
denunciato e fu incarcerato, processato e condannato a cinque anni
di internamento nel penitenziario di Matera: perse naturalmente il
posto di stradino e la pensione. Si chiamava Sante Camporese, detto
Santo Bogetta, abitava in strada del Santo nella grande casa dei
Camporese. La cosa destò molto scalpore e molta impressione fra la
gente, che lo conosceva come un uomo per bene che non si
occupava di politica. Ma nessuno azzardò la minima protesta
nemmeno dopo la caduta del fascismo. Morì dimenticato da tutti”.
Mio padre commentava quel fatto e ricordava il proverbio: “Nel
piatto dove si mangia non si sputa”.
Cartolina di avvertimento
che fu recapitata alle famiglie
non allineate al fascismo.
38
Le spiagge fluviali elioterapiche del “Peoceto” di Vigodarzere.
Lungo il fiume Brenta nella zona di Vigodarzere, da entrambi i lati, emergevano molte spiagge di
sabbia fine che erano chiamate: Peoceto 1°, Peoceto 2° e così di seguito. Molti cittadini di Padova
scendevano dal tram al capolinea di Pontevigodarzere e si inoltravano lungo il fiume occupando le
spiagge per abbronzarsi, per fare il bagno e per fini terapeutici. Gli abitanti di Vigodarzere, al contrario,
si servivano della sabbia per la costruzione di case in muratura. In tanti ricordano che a ridosso degli
argini dalla parte interna, c’erano delle sorgenti di acqua pura a bassa temperatura che serviva per
dissetarsi. L’erba degli argini veniva regolarmente e manualmente falciata per ottenere del buon fieno
per alimentare i bovini; pertanto non crescevano piante infestanti e gli argini di allora assomigliavano
agli attuali prati dell’Alto Adige.
Nell’estate dal 1935, le autorità scolastiche allestirono la colonia fluviale: una costruzione in legno per
cucinare il pranzo e confezionare nel pomeriggio un panino con la marmellata (cosa allora rarissima e
molto desiderata). I bambini delle famiglie molto povere erano prelevati al mattino con dei carri agricoli
e portati nella spiaggia vicino alla Certosa per fare l’elioterapia. I giovani del premilitare facevano loro la
guardia d’onore.
Dal 1945 al 1960 la sabbia delle nostre spiagge del fiume Brenta fu asportata per riparare, le nostre
abitazioni danneggiate, dai bombardamenti e in seguito per costruire le molte abitazioni del territorio
comunale di Vigodarzere e di Padova (giudizio espresso dai tecnici del Genio Civile di Padova il 12. 11.
2004). Oggi di quelle spiagge rimane solo il ricordo.
Documentazione da il quotidiano “Il Veneto” del 3 agosto 1935:
“ …Vigodarzere: In questo Comune, a favore dell’infanzia venne istituita la Colonia Fluviale con apposito
padiglione. Raccoglie 84 bambini ai quali vengono somministrati giornalmente tre abbondanti pasti. E’ stata
aperta il 10 luglio e si chiuderà il 10 agosto”
Dal giornale “Il Veneto” del 15 luglio 1940:
“Nel nome del Duce da stamane le colonie elioterapiche della Gil accolgono cinquemila figli del
popolo.
Oggi 15, come appare dal Comunicato degli “Atti Federali”, in nome del Duce, si sono aperte le Colonie
elioterapiche a favore di oltre 5.000 organizzati presso i seguenti Comandi G.I.L.: Abano Terme, Arquà Tetrarca,
Arzegrande, Bagnoli di Sopra, Battaglia T, Borgoricco, Bovolenta, Brugine, Cadoneghe, Campodarsego,
Campodoro, Camposampiero, Camposanmartino, Carmignano di Brenta, Carrara S. Stefano, Casale Scodosia,
Casalserugo, Castelbaldo, Cittadella, Codevigo, Conselve, Galliera Veneta, Galzignano, Gazzo Padovano,
Limena, Legnaro, Loreggia, Massanzago, Megliadino S. Fidenzio, Megliadino S. Vitale, Merlara, Mestrino,
Mezzavia, Montagnana, Montegrotto T. , Noventa Padovana, Ospedaletto Euganeo, Pernumia, Piacenza
d’Adige, Piombino Dese, Piove di Sacco, Ponte S. Nicolò, Rubano, Saccolongo, Saletto di Montagnana, S.
Martino di Lupari, Sant’Elena, Selvazzano, Teolo,Trebaseleghe, Veggiano,Vigodarzere,Vigonza, Villafranca
Padovana, Villanova di Camposampiero, Vò, Monselice, Anguillara Veneta, S. Giustina in Colle.
In Padova funzionano le Colonie istituite presso i seguenti Stabilimenti scolastici: Ardirò, Carrarese, Cesarotti
Aria, Camillo Alta, Rosmini, Randi, Luzzato Dina, Speroni, A. Volta.
La scuola padovana ha offerto la sua preziosa collaborazione con 68 direttrici e 104 vigilatrici”.
Dal quotidiano “Il Veneto” del 9 agosto 1941:
“Vigodarzere – Secondo turno della colonia.
Dopo un mese di amorosa assistenza dedicata a settanta bambini, quasi tutti figli dei nostri combattenti, si è
chiusa la colonia elioterapica. Subito si è iniziato il secondo turno. Le cure verranno effettuate da parte della
direttrice sig.na Angela Sardena, coadiuvata dalle vigilatrici signorina Anna Maria Polledri, Dionisia Vettore e
Maria Scapolo assicurano che anche il secondo turno sarà copioso di frutti veramente lusinghieri”.
39
Il primo incotro di Hitler con Mussolini
Hitler (1) nel parco della Villa Pisani a Stra mentre si accinge ad incontrare Mussolini il 14 giugno del 1934.
(1) Di Hitler il Cardinale Joseph Ratzinger ha scritto nel libro: “DIO E IL MONDO” Ed. Paoline, 2000 pag. 112:
“E’ terribile e inquietante allo stesso tempo che un uomo che si è inerpicato sulla scala sociale partendo dai
gradini più bassi - aveva vivacchiato da nullafacente e non aveva studiato - possa lasciare un'impronta così
profonda su un intero secolo, possa prendere decisioni politiche con lucidità demoniaca e riesca a rendere
succubi uomini anche colti. Da un lato Hitler è stato una figura demoniaca. Basti leggere la storia di quei generali
tedeschi che si proposero ripetutamente di dirgli in faccia ciò che pensavano e che ogni volta venivano
sopraffatti dalla fascinazione che emanava da lui fino a perdere il coraggio di parlare. Ma, visto da vicino, questo
stesso uomo che possedeva un fascino demoniaco si rivelava un banalissimo farabutto. E che proprio nella
banalità si annidi la forza del male lo dimostra la stessa fisionomia del male: quanto più grande e miserevole
diventa, tanto minore è la sua grandezza effettiva.
Hitler aveva anche previsto delle situazioni in una maniera che potremmo definire demoniaca. Ho letto per
esempio il resoconto dei preparativi fatti in occasione della visita di Mussolini a Berlino. Gli incaricati avevano
avanzato le loro proposte, e dopo parecchio tempo prese la parola dicendo: «No, tutto questo non va. Io vedo
come deve andare». E, come in estasi, descrisse lo svolgimento della visita, che fu poi predisposta sulla base di
questo racconto. Significa che c'è una forza demoniaca che conferisce grandezza alla banalità - e che riduce la
grandezza a banalità - e che è pericolosa e distruttiva.
Certo non si può dire che Hitler fosse il demonio; era un uomo. Ci sono però credibili resoconti di testimoni
oculari da cui traspare che doveva avere incontri demoniaci”.
LA PRIMA GUERRA FASCISTA.
L’Italia aggredita dall’Etiopia ?
Molti giovani militari di Vigodarzere furono costretti a partecipare alla guerra contro gli abissini. La
grandezza delle nazioni europee era giudicata in base ai chilometri quadrati, alle popolazioni
assoggettate e alla quantità di minerali che potevano estrarre nelle cosiddette colonie di quello che oggi si
chiama terzo mondo.
Furono inviati nella guerra d’Etiopia circa 110.000 soldati italiani volontari. Mussolini personalmente,
per mezzo di un telegramma (1) inviato al capo delle operazioni militari in Etiopia generale Badoglio,
diede l’ordine di usare i gas venefici contro la popolazione indigena; la guerra terminò in meno di un
anno. La sera del 9 giugno 1936 Mussolini apparve al balcone di Palazzo Venezia, a Roma,
40
proclamando: “I territori e le genti che appartengono all’Impero d’Etiopia sono posti sotto la sovranità
piena del Regno d’Italia”.
Inoltre Benito Mussolini si presentava ed era chiamato “il condottiero”, mentre Vittorio Emanuele III°
si poteva vantare di essere il Re d’Italia, l’Imperatore d’Etiopia e delle terre d’oltremare.
Forse fu l’ansia di raggiungere la pacificazione ad ogni costo, per evitare altri lutti, che spinsero le
nostre autorità ad adoperare la mano di ferro contro la guerriglia in Etiopia. La repressione continuò
durissima, ma non riuscì a domare le popolazioni locali. Non è mai stato reso pubblico il numero dei
caduti italiani ed etiopi in quel conflitto.
__________
(1) Telegramma: “Rinnovo autorizzazione impiego gas qualunque specie e su qualunque scala”. Il telegramma di
Benito Mussolini è stato inviato il 29. 3. 1936 al comandante generale delle truppe italiane in Etiopia Pietro
Badoglio -Dal libro: “L’Obbedienza non è più una virtù” Don Milani,. Libreria Ed. Fiorentina 1977.
Testata del 10 novembre 1935 che riporta le azioni della Regia Aeronautica Militare Italiana nella guerra d’Etiopia.
La nostra Africa.
Nel 1936 furono inviati in Etiopia circa 146.000 operai italiani; costruirono centinaia di chilometri di
strade asfaltate e molte abitazioni e ambulatori medici. Tutti i macchinari e il materiale (cemento,
asfalto, ferro, ecc.,) venivano dall’Italia. Fu un’opera grandiosa, ma le popolazioni nomadi preferivano
le vecchie abitudini. In quel periodo nacquero in Etiopia migliaia di bambini figli di italiani. Quella
guerra non è stata come la propaganda del regime presentava: un’azione di civilizzazione dei popoli
dell’Abissinia e di una conquista di un posto al sole.
Il territorio dell’Etiopia ora è quasi senza alberi: furono bruciati per cucinare del cibo e per riscaldarsi.
La popolazione etiope è fra le più povere del mondo e detiene la percentuale più elevata nel mondo di
bambini nati malati di AIDS.
41
Cartolina del 1936.
Diploma di partecipazione di una “casa chiusa” italiana che collaborò alla conquista
dell’Etiopia seguendo i soldati italiani in Africa Orientale.
Oro per la patria.
Gli italiani furono sollecitati ad offrire alla patria i propri oggetti d’oro come contributo economico
per pagare le spese belliche della guerra d’Etiopia. Si affermava anche che quell’oro sarebbe servito
soprattutto per pagare alla Gran Bretagna il pedaggio di passaggio delle nostre navi nel canale di Suez.
Il 18 dicembre 1935 il Partito Nazionale Fascista istituì la Giornata delle fedi si doveva consegnare l’anello
nuziale d’oro e in cambio si riceveva una fede nuziale di alluminio e qualche volta davano anche la
ricevuta.
La regina Elena fu la prima sposa d’Italia a donare la propria fede deponendola davanti all’altare del
Milite Ignoto nel corso di una grande manifestazione a Roma. Maria José, moglie del principe ereditario
Umberto, la imitò. In quell’occasione, per dimostrare il saldo vincolo che univa Casa Savoia al regime
fascista, Elena scrisse al Duce una lettera che fu riportata da tutti i giornali : “Desidero che ella sappia
che fra i molti anelli nuziali che le donne d’Italia offrono per la gloria della nostra cara patria, ci sarà
l’anello nuziale del Re, simbolo di affetto e di fede, unito al mio che dono con gioia alla patria”.
42
La raccolta dell’oro, dell’argento e del ferro si protrasse nel tempo. Le prime settimane della raccolta,
costituirono una delle manifestazioni più clamorose del consenso riscosso dalla politica mussoliniana.
La raccolta fu estesa anche ad altri valori sino al 1938 e raggiunse i seguenti totali: oro kg. 36.895,
argento kg 115.131, contante lire 1.543.134.
L’oro di Vigodarzere.
Lunedì 23 dicembre 1935, antivigilia del S. Natale, le donne sposate di Vigodarzere donarono alla
patria le fedi nuziali (i mariti per risparmiare non avevano la fede nuziale) e qualcuna, convinta della
bontà dell’iniziativa, donò anche tutto l’oro della famiglia. Nel corso degli anni più di qualcuno asserì
che tutto quell’oro non finì nelle casse dello Stato.
Mia madre ogni qualvolta che parlava di quella donazione si ingropava ea goa (gli veniva un nodo alla
gola) e ricordava che la sua fede benedetta era consumata dai lavori domestici e agricoli, specialmente
tirando la catena di ferro nell’attingere l’acqua dal pozzo. L’oro, a quel tempo, spesso serviva come
pegno al Monte di Pietà per ottenere dei soldi per pagare l’affitto o gli interessi sui debiti contratti.
Negli anni successivi le persone che portavano la fede d’oro non erano considerate patriottiche ed
erano guardate con disprezzo dagli attivisti fascisti.
La ricevuta, che mia madre Oliva Pedron Cesaro pretese, alla consegna della fede d’oro.
43
“La combriccola” della carrucola.
Testimonianza resa da Zorzato Gabriele di Vigodarzere (classe 1938), il 10. 10. 2002.
“I miei genitori nel 1935 nell’attuale via Cà Zusto gestivano uno spaccio tabacchi, un negozio di
alimentari, un’osteria con annesso campo per il gioco delle bocce.
Spesso mi hanno raccontato che nell’osteria c’era un gruppo di giovani
della zona che si incontravano quasi tutte le sere per divertirsi. C’era
anche la Cassa Peota e cantavano, accompagnati dalla fisarmonica di
Edoardo Ranzato chiamato Barbetta Napoeon, la canzone del Club della
carrucola:
“Carrucola, carrucola, che bella compagnia,
per questo tu mi dici: vieni, vieni all’osteria!
Già che siamo in tanti, cantiamo la
nostra canzon,
già che siamo in tanti, cantiamo, cantiamo la
nostra canzon:
Carrucola, carrucola, che bella compagnia …
Cantavano così per l’intera serata, non conoscendo altre strofe. E appena
riprendevano fiato, tra un ritornello e l’altro, buttavano giù fiumi di vino
corbineo.
Foto della vecchia carrucola di legno, simbolo del “Club”dell’osteria Pinton - Zorzato.
44
La testimonianza di Idelino Agostini di Vigodarzere(classe1937), il 12. 10. 2002.
“Mio padre Mario faceva il calzolaio, gestiva un negozio per la riparazione delle calzature in via T.
Vecellio a Padova, e abitava nell’attuale via Cà Zusto che, ancora oggi, è chiamata la “strada dei morti”.
Infatti i defunti di Terraglione venivano seppelliti nel cimitero di Vigodarzere e il corteo funebre da
Terraglione transitava in quell’unica strada che collegava i due paesi. Mi raccontava sempre mio padre
che i partecipanti del gruppo della carrucola non avevano la tessera del partito fascista e furono sospettati
di attività politica. Una sera dell’estate del 1935 cinque miliziani fascisti in abiti borghesi arrivarono in
bicicletta da Padova; i giovani, che si trovavano all’osteria, viste quelle facce fuggirono; i militi
spararono alcuni colpi di pistola. Mio padre nella precipitosa fuga si ferì alle gambe a causa dei reticolati
che dividevano la proprietà dei campi”.
Al confino politico.
Dal 1931 al 1936 Anselmo Benetti, che abitava a Meianiga di Cadoneghe, fu più volte arrestato e
per due volte inviato al confino (1) per propaganda comunista. Nel 1941 venne ad abitare a Vigodarzere
in affitto presso la casa di Domenico Don nell’attuale via Giotto.
__________
(1) Provvedimento del tribunale speciale per la sicurezza dello Stato consistente nell’obbligo imposto al
condannato di dimorare in un luogo lontano da quello abituale di residenza.
Imposte e tasse.
Per realizzare le opere pubbliche e sviluppare le attività sociali e culturali in Italia, ma soprattutto
per pagare le spese della guerra in Etiopia e i grandissimi investimenti fatti nel 1936, lo Stato dovette
aumentare i tributi. La gente ricorda le imposte sulle proprietà, ovverosia il priale, l’odiata tassa famiglia
decisa dal podestà in base ad un presunto reddito della famiglia e al tenore di vita che conduceva.
Aumentarono pure le imposte sugli animali da reddito (bovini, equini, ovini e suini), le tasse per
iscrivere i bambini nelle scuole elementari, quelle per la circolazione dei mezzi di trasporto (autoveicoli
e motociclette), sui carri agricoli e anche sui calessi biroccio che servivano anche per il trasporto
all’ospedale degli ammalati e il bollo per la circolazione delle biciclette.
Tessera di esenzione del bollo di circolazione della bicicletta di un nostro
concittadino che abitava a Terraglione.
(Per gentile concessione del rag. Alberto Manganello).
Bicicletta con fanale ad olio
DAI QUOTIDIANI:
Da “Il Veneto della Sera” del 27 luglio 1937:
45
IL DUCE A PADOVA (seconda
visita).
La visita alla Basilica del Santo – Breve sosta nel centro della città - Ardenti manifestazioni
d’entusiasmo.
Questa mattina verso le 10.40 il Duce è giunto in volo improvvisamente a Padova ed accompagnato
da S. E. il gen. Pericolo comandante la II^ Zona Aerea e dal generale capo di Stato Maggiore, si è
recato al Santo. Fermatasi la macchina del Capo del Governo davanti alla Basilica antoniana e quando il
Duce si accingeva a sorpassare la muretta che cinge il sagrato, le si fa incontro una coronara certa Maria
Zanellato in Gastaldello la quale non riconoscendolo le offriva in vendita un ricordo di Sant’Antonio.
Quindi riconosciuto il Duce la buona donna con una esclamazione di “Oh! Maria Vergine” si lasciava
cadere sulla sedia tutta smarrita. Il Duce sorridendo entrava subito nella Basilica ove gli si faceva
incontro i padri Ilario Dimeck e Matteo De Franceschi ai quali dimostrava il suo vivo interessamento
per il tempio antoniano chiedendo ragguagli sulla frequenza dei fedeli …
Uscito dalla chiesa, il Duce acconsentiva a posare per una fotografia davanti alla Basilica pregando,
anzi, padre Dimeck di volerne inviare una copia. Intanto la folla, che aveva riconosciuto il Duce fin da
quando egli sostava davanti all’altare del Santissimo nell’interno della Basilica, gli si faceva intorno non
stancandosi di gridargli il suo affetto.
Una signora confusa tra la gente gli gridava: “Che Sant’Antonio ti protegga, o Duce”. Mentre la
macchina del Capo del Governo stava per partire, una straniera, che si è poi saputo essere una francese,
si avvicinava salutando romanamente. Il Duce rispondeva cordialmente al saluto.
Intanto la coronara ancora mezza sbigottita dalla emozione, andava rammaricandosi con le altre
venditrici di oggetti sacri di aver perduto la presenza di spirito e di non avere potuto donare, come
sarebbe stato suo vivo desiderio, un ricordino di Sant’Antonio al Duce. In breve tutte le altre coronare
erano attorno alla Gastaldello dicendosi a vicenda tutta la loro gioia per avere avuto la fortuna di vedere
il Duce da vicino. E ognuna avrebbe voluto dimostragli il suo amore facendogli omaggio di qualche
oggetto sacro.
Risalito in macchina il Duce si è diretto al centro della città sostando brevemente al Pedrocchi.
Riconosciuto immediatamente, la voce della sua presenza si è sparsa in un baleno e, in men che non si
dica, si era radunata una numerosa folla entusiasta che lo acclamava.
Il Duce si è soffermato qualche istante ad osservare e, sorridendo, levava il braccio nel saluto
romano. Da tutti i negozi, da tutte le vie e le piazze la folla era accorsa quasi per incanto.
La breve palpitante dimostrazione aumentava di tono quando il Duce, risalito in macchina,
riprendeva la corsa per tornare all’aeroporto dove, prima ch’egli ripartisse in volo, veniva ossequiato da
S. E. il Prefetto e dal Segretario Federale.
Dopo quattordici anni il Duce ha toccato il suolo di Padova. La lunga attesa aveva affinato gli spiriti
che è parso che la sua presenza di stamane a Padova sia stata inspiegabilmente avvertita da tutti. In
un’istante, infatti, la notizia che si è propagata in un batter d’occhio ha attirato dappertutto, prima sul
sagrato del Santo e subito dopo nel cuore della nostra città, al Pedrocchi, numerosissima folla.
Il Duce certamente dopo di aver sentito nella folla pervasa da un palpito d’amore e di commozione,
tanto più grande per la fulmineità dell’avvenimento, il gran cuore di Padova. Il popolo in tutte le sue
categorie gli ha gridato una sola invocazione: “ Ti siamo grati per essere venuto, o Duce”. Facendosi
eco anche di tutti coloro che, nella città, nelle campagne, in tutte le schiere fasciste, intenti nel ritmo
operoso del loro lavoro, non gli hanno potuto correre incontro.
La popolazione delle piazze, che per prima fra i primi è accorsa a circondare il Duce, ha costituito
indubbiamente l’espressione più genuina del cuore di tutti i padovani. E così, mentre per tutta la città la
voce della venuta del Duce si spandeva e la popolazione in una amorosa fusione di spiriti era tutta
protesa in un incontenibile slancio verso di Lui, il Capo attraversava le vie di Padova suscitando
un’ondata di vibrante entusiasmo.
E poscia, mentre il Duce si librava nell’aria e a bassissima quota sorvolava la città, questa ondata di
entusiasmo saliva e come un abbraccio tentava di trattenerlo.
Fra le migliaia di persone che hanno avuto stamane la fortuna di vedere il Duce erano le donne del
popolo, erano i fedeli che gremivano le navate della Basilica del Santo l’espressione, cioè, più pura del
popolo. Le manifestazioni di devozione che il popolo padovano ha improvvisato stamane Padova.
46
Per tutta la giornata la città è stata animata per la tanto inattesa quanto desiderata visita che ha
colpito profondamente. Il popolo padovano è grato al Duce di questa sosta che, superando il significato
di una semplice visita ispettiva all’aeroporto, sta costituendo una presa di contatto del Capo amatissimo
con la nostra terra, con la nostra gente”.
Mussolini in Prato della Valle (la terza visita a Padova).
Sabato 24 settembre 1938 (anno XVI° dell’era fascista), alle ore 8.15, alla stazione ferroviaria di
Padova arrivò il treno presidenziale con il Cavaliere Benito Mussolini capo del Governo Italiano, dei
fasci di combattimento, dei sindacati e fondatore dell’Impero d’Italia. In città inaugurò due sedi rionali.
In automobile il Duce fu portato a Candiana (Padova) dove tagliò il nastro tricolore inaugurando il
Borgo Littorio costituito dalla casa del fascio e da numerose abitazioni nuove per i lavoratori dei campi,
in sostituzione dei “casoni” abbattuti. Alle ore 11.05 era già in Prato della Valle a Padova dove, per la
prima volta nella storia, fu totalmente riempito da una folla di manifestanti. Un’adunata oceanica di
300.000 partecipanti tra Balilla, Avanguardisti, squadristi, donne fasciste, legionari; molti dei presenti
erano stati fatti arrivare dalle province del Veneto e c’era pure una rappresentanza dei soldati della
Somalia.
Il comitato fascista di Vigodarzere iniziò il trasporto dei giovani fin dalla sera precedente. Essi con carri
agricoli, trainati da cavalli, furono trasportati sino all’Arcella, dove pernottarono, per raggiungere la
mattina seguente il Prato della Valle. Alle ore 3.00, della notte del sabato, un camion della ditta
Domenichelli fece da navetta tra Vigodarzere e il Prato della Valle. Quel sabato, 24 settembre 1938,
Vigodarzere era semideserta: quasi tutti i cittadini si erano portati in Prato della Valle per curiosità o per
convinzione ideologica ma, soprattutto, bisognava dimostrare ai maggiorenti politici locali il personale
contributo alla riuscita della manifestazione.
Dal il quotidiano “Il Veneto della Sera” si legge: “ Quindi (Mussolini) procede verso l’ingresso al
Podio, ove gli si fa incontro a rendere omaggio il Capo della Diocesi S. E. Mons. Agostini, contornato
dai più alti dignitari della Curia”.
Al termine dell’articolo si legge: “ Risuonano, le canzoni della rivoluzione: le trombe d’argento dei
Balilla , diffondono squillanti le note trionfali dell’Aida. E’ un’atmosfera di trionfo romano. E il Duce
ne è al centro, l’oggetto, il Dominatore. E quando finalmente il Capo deve staccarsi dal suo popolo la
dimostrazione si fraziona in cento episodi d’entusiasmo. Vediamo i goliardi cingere in un cerchio di
affettuoso cameratismo i camerati hitleriani: e portarli trionfalmente sulle spalle a suggellare un patto
inscindibile d’amicizia”. In un passaggio del suo discorso Mussolini affermava:“Io so che ognuno di
voi, e tutti voi, siete pronti a qualsiasi evento”.“Sì, subito!” Vogliamo la guerra, gridò la folla
prorompendo in una altissima, prolungata ovazione.
Testimonianza resa da Nazzareno Griggio (1930), il 25. 10. 2003.
“Ero un Balilla e il mio maestro Ranieri delle scuole elementari mi obbligò a partecipare all’adunata.
Assieme ai miei compagni di scuola fummo raggruppati presso la casa del fascio locale e a piedi
raggiungemmo la stazione ferroviaria di Vigodarzere dove salimmo su di un treno speciale per arrivare a
Padova. Fummo incollonati e cantando inni fascisti, raggiungemmo in Prato della Valle la postazione
assegnata. Gli ordini impartiti da maestro Ranieri erano precisi; quando il Duce avrebbe accennato alla
guerra, tutti dovevamo urlare “Sì subito! Vogliamo la guerra”.
Censurate le frasi urlate dal pubblico.
Ho interpellato molti che hanno partecipato all’adunata in Prato della Valle e tutti hanno
testimoniato sulla precettazione orale per partecipare all’adunata; tutti ricordano unanimemente quel
solo “SI’, SUBITO! VOGLIAMO LA GUERRA” che, a detta di qualcuno, come un boato, fece tremare i
vetri delle abitazioni vicine al Prato della Valle. I giornali e i documenti ufficiali della visita di Mussolini
non riportarono quel “sì, vogliamo la guerra”. Sicuramente la macchina propagandistica del Partito
Fascista ritenne opportuno la censura di quella frase.
Ospite della prigione dei “Paolotti” a Padova.
Testimonianza resa da Eugenio Favero di Vigodarzere (classe 1924), il 19. 01. 2003.
47
“Abitavo con i genitori, fratelli e sorelle nell’attuale via G. Pascoli a Vigodarzere. Lavoravamo
nell’azienda agricola a mezzadria di proprietà del conte Passi. Il venerdì che precedeva l’arrivo a Padova
di Mussolini, nella mia casa vennero i Carabinieri, prelevarono mio padre Giovanni (classe1891) e lo
reclusero nella prigione “Paolotti” a Padova, per rilasciarlo sabato sera dopo la partenza di Mussolini.
Mio padre fu incarcerato perché di idee socialiste, aveva rifiutato la tessera del partito fascista”.
Notizie rilevate dal quotidiano “Il Veneto” del 26. 9. 1938 , da “Padova Rassegna mensile del Comune” 1938 n.
10 e dai testimoni oculari Giovanni Martini (1926), Ferdinado Dori (1929), Armando Pasqualotto (1926)
Nazzareno Griggio (1930), Carlo Ranzato (1927 ), prof. Lidia Martini (1921), Vito Martini (1920) Mario Frison
(1924) e altri.
48
Mussolini a Padova (Collezione fototografica di
Gianfranco Elardo).
Ventimila coloni in Libia.
49
Nell’ottobre del 1938 ventimila braccianti italiani, la maggioranza veneti, furono sbarcati in Libia
dove era stata predisposta una ampia zona di terreno sabbioso da colonizzare. Fra i volontari vi erano
anche sei famiglie, con tanti figli, del territorio comunale di Vigodarzere. Prima della dichiarazione della
guerra ritornarono a Vigodarzere, con solo i vestiti che indossavano. Vissero fino al termine della
guerra grazie alla solidarietà delle famiglie dei parenti.
Da striga veneta a befana fascista .
La tradizione della striga nel Veneto si perde nella notte dei tempi. Dal 1928 anche la befana
divenne fascista.
Foto della testata del giornale “Il Veneto” del 7 gennaio 1940.
Da “Il Veneto di Padova” del 17 gennaio 1940:
“Vigodarzere – Befana fascista.
Domenica mattina alle ore 10.30 presso la Casa del Fascio, alla presenza delle autorità locali ebbe
luogo la distribuzione della “Befana Fascista”. Prima di iniziare la distribuzione il Segretario politico e
Comandante della GIL, ordinato il saluto al Duce, pronunciò parole di circostanza esprimendo il suo
vivo ringraziamento al capitano Eneo Fiumani direttore del locale Magazzino Aeronautico ed alla
popolazione, che con spontanee offerte contribuirono a beneficare oltre cento bambini. Meritato elogio
va rivolto anche all’ instancabile segretario del Fascio femminile Sardena Angela ed alle donne fasciste
pel lavoro di preparazione da loro svolto”.
10 GIUGNO 1940: PRIMO GIORNO DI GUERRA
La nostra gente informata che l’esercito di Hitler aveva invaso quasi tutta l’Europa temeva che
Mussolini, alleato di Hitler, trascinasse nella guerra anche l’Italia.
Gli anziani di Vigodarzere erano preoccupati; ricordavano che durante l’ultimo periodo della guerra
del 1915-1918, da Vigodarzere si vedeva lampeggiare la cima del monte Grappa allo scoppio delle
granate. Ricordavano pure le trincee scavate lungo l’argine del fiume Brenta e lungo la via Certosa di
Vigodarzere, costruite perché si temeva l’invasione delle truppe austro-ungariche nella nostra pianura. I
reduci della I^ Guerra Mondiale erano stati testimoni dei sacrifici di tanti soldati caduti al fronte e dei
decessi causati dall’influenza chiamata spagnola. I danni di quella guerra, seppure vinta, furono pagati
dalla popolazione con un forte aumento del tasso dell’inflazione e della miseria.
Per lunedì 10 giugno 1940, giorno della dichiarazione della guerra per bocca di Mussolini,
l’organizzazione della propaganda fascista di Vigodarzere aveva predisposto l’ascolto, con amplificatori
nascosti tra le bandiere, per il discorso del Duce, sia presso le scuole di Busiago, sia presso l’osteria
“Benetello” a Saletto e sia presso l’osteria da “Bazzea” a fianco dell’attuale edificio della scuola materna
di Vigodarzere (1). Alle ore 18.00 iniziò il discorso, Mussolini dichiarò la guerra contro l’Inghilterra e
Francia e terminò affermando “Vinceremo per dare finalmente un lungo periodo di pace con giustizia,
all’Italia, all’Europa, al mondo” …
A Saletto il discorso fu ascoltato in silenzio e senza applausi, mentre a Vigodarzere, dove si erano
riuniti tutti gli attivisti fascisti del territorio comunale, gli applausi furono scroscianti.
I campanari di Vigodarzere (gente semplice e non politicizzata) suonarono una campana a morto
perché consideravano la guerra una disgrazia portatrice di morte. Mia madre Oliva Pedron Cesaro
50
parlava citando spesso la saggezza dei provverbi veneti e più volte affermò: copar i omeni e batar e nose xe
tempo perso (uccidere gli uomini e battere le noci è tempo perso) e affermava spesso: la guerra è sempre
una disgrazia che arriva sempre in compagnia di altre sventure”.
A Padova l’organizzazione fascista predispose l’ascolto del discorso di Mussolini in diversi punti. Quella
tenutasi nell’allora Piazza Spalato, ora Piazza Insurrezione, gli ascoltatori erano persone d’elite: docenti
universitari, dirigenti provinciali del partito, studenti universitari .. . Le ovazioni di approvazione per la
dichiarazione di guerra furono così intense che si udirono sino al palazzo del vescovado in piazza
Duomo. Monsignor Antonio Michieli segretario particolare del vescovo, annotava nel suo libro: “Il
vescovo Carlo Agostini quel famoso 10 giugno 1940 sperava fino alla fine che Mussolini non scendesse
in guerra. Quando udimmo l’urlo della folla radunata in Piazza Spalato, ne provò un grande dolore e i
suoi occhi si inumidirono di pianto”. Si è calcolato che in Italia il discorso di Mussolini fu ascoltato da
circa 20 milioni di cittadini.
La macelleria e osteria da “Bazzea”(1) si trovava di fronte alla chiesa di Vigodarzere. L’edificio fu demolito nel 1955.
(Foto del 1928, collezione di Roberto Gaspari).
Il 10 giugno 1940 sul poggiolo, di questo edificio, ubicato di fronte alla chiesa di Vigodarzere, fu installato un
apparecchio radio che trasmise la dichiarazione di guerra di Mussolini contro la Francia e la Gran Bretagna. Nel
cortile si erano riuniti tutti gli attivisti fascisti del territorio comunale, che avevano applaudito entusiasticamente
la proclamazione della guerra (2).
__________
(1) Nel 1948 dallo stesso poggiolo dell’osteria “Bazzea” i comunisti tennero di domenica degli infuocati comizi
elettorali. Ciò accadeva dopo le funzioni religiose pomeridiane, ed erano sempre disturbati dal suono a distesa
delle campane.
(2) Testimonianza di don Ubaldo Zanettin del 10. 05. 2000, presente a Vigodarzere come cooperatore vicariale
all’inizio della 2^ Guerra Mondiale e di altri tre testimoni.
51
Le vecchie scuole elementari di Busiago (Foto del 10 novembre 2004).
Padova, Piazza Spalato, ora Piazza Insurrezione. I partecipanti, ascoltarono la dichiarazione
della guerra e urlarono in delirio il loro consenso.
Dal giornale “Il Veneto”dell’ 11 giugno 1940.
52
Dal giornale “Il Veneto” dell’11 giugno 1940.
Mussolini a Padova (la quarta visita).
Della quarta visita di Mussolini a Padova il quotidiano “Il Veneto” del 10 ottobre del 1940 riporta:
“C’è in questa manifestazione un po’ il ricordo di quell’altra, di due anni or sono, quando al Duce in
questa stessa piazza sconfinata il popolo padovano si presentò compatto come un esercito, forte di più
di trecentomila persone. Oggi in Prato ci sono i ventiduemila della Marcia della Giovinezza e la visione
è diversa: ma il cuore è sempre lo stesso”. Il corteo dal Prato della Valle, proseguì per Battaglia,
Monselice, Este e la manifestazione terminò con la sfilata a Baone.
Prosegue l’articolo: “esattamente quattro mesi di guerra e dopo venti anni di Fascismo il fervore delle
masse attorno al Duce e l’efficienza del Partito sono apparsi, come ineguagliabili: e la città di Padova, la
città interventista, guerriera e fascistissima è stata degna di testimoniarlo al mondo”.
Da quotidiano “Il Veneto” del 17 luglio 1941:
guardia al Comune.
Dopo ventiduemesi di reggenza, quale Commissario Prefettizio il cav. dottor Alberto Pasqualucci
fece la consegna dell’Amministrazione al fascista cav. Andriotti Romanin nominato, come abbiamo
pubblicato, Podestà di questo Comune.
All’uscente Commissario Prefettizio va la riconoscenza di questa popolazione per l’instancabile
opera prestata a suo favore, insieme ai più fervidi auguri; al nuovo Podestà il nostro cordiale
benvenuto”.
“VIGODARZERE - cambio della
Cartolina postale censurata, spedita dalla Grecia, il 6 febbraio del 1941, da un cittadino di Vigodarzere.
53
Gli orti di guerra.
Dall’inizio della guerra si diffuse la coltivazione di terreni marginali incolti e la trasformazione dei
giardini delle città in orti.
Nel quotidiano Il Veneto del 17 luglio 1941 si legge: “Per disposizione del Partito, a cura dei Fasci
femminili, è stato indetto anche nella nostra Provincia un concorso per l’orto di guerra. Il concorso è
curato dalla sezione delle massaie rurali. Ogni estensione di terreno tenuta a giardino oppure incolta o
semi-coltivata che venga destinata in questo periodo alla coltura intensiva di piante ortive è da
considerarsi orto di guerra…”.
Sullo stesso argomento sul quotidiano Il Gazzettino di Padova del 2 luglio 1942, si legge che la superficie
totale degli orti di guerra coltivata dai dopolavoristi della città e provincia “ha raggiunto 107.772,50
metri quadrati … Là dove prima erano degli appezzamenti incolti, le aree di nuova coltivazione vedono
quotidianamente l’opera dei dopolavoristi che, terminata la quotidiana fatica, vanno a curare l’orto di
guerra … anche la donna non resta esclusa da questa nobile gara per il maggiore rendimento della terra:
la donna dopolavorista, particolarmente nell’ambito famigliare, ha saputo trasformare il suo giardino o
qualche altra piccola area incolta adiacente alla sua casa, in un redditizio orto. E tutto, mentre davanti a
tutti gli italiani appare la visione luminosa dei nostri combattenti che, sulla terra, sul mare e nei cieli,
donano alla storia della Patria le loro epiche gesta, l’immagine di questa parte del popolo che, sul fronte
interno opera in semplicità e silenziosamente per la Patria, viene a dimostrarci come anche chi non ha
avuto il privilegio di indossare il grigioverde, abbia saputo e abbia cercato con ogni mezzo, di essere per
la Patria, seppure in un campo incruento, un soldato”.
Sempre dal il Gazzettino di Padova del 31 ottobre 1942 in un articolo intestato: Gli orti di guerra nelle
scuole portava a conoscenza: … l’attività che la Scuola elementare ha svolto nella nostra provincia
attraverso gli orti di guerra, con i quali ha trovato applicazione pratica lo spirito che, sotto questo
aspetto, informa la Carta Mussoliniana della Scuola. Seguendo le chiare direttive del Provveditore agli
Studi tutti gli istituti, dell’ordine elementare che dispongono di terreno, anche se di modeste estensioni,
o segnatamente le scuole rurali, si sono accinti alacremente alla realizzazione degli orti di guerra con
risultati ideali e pratici degni di marcato rilievo. Infatti non soltanto l’amore alla terra è stato risvegliato
e rinsaldato nei piccini, che con la loro volonterosa opera hanno potuto costatare direttamente, e
personalmente, la trasformazione della santa fatica agreste in preziosi alimenti, ed hanno anche
contribuito in un apporto notevole al funzionamento delle colonie solari della Gil; ma hanno nello
stesso tempo, allargato la sfera delle cognizioni e potuto rendersi conto, sia pure in linea succinta,
dell’immane sforzo che la Nazione sotto l’impulso fascista, va compiendo con la Battaglia del Grano e
con il potenziamento dell’azienda agraria”.
L’orto di guerra di Tavo.
La testimonianza è resa da Giuseppe Miozzo (classe
1927), Tavo di Vigodarzere il 19. 12. 2004
(Alla ricerca ha collaborato Antonio Broetto).
“Nel 1941 frequentavo la scuola elementare di Tavo
nell’attuale edificio scolastico; facevo la IV^
elementare(1) e la classe si componeva di 30 alunni, tra
questi vi era Gina De Santi che divenne mia moglie;
l’insegnante era la maestra Vera Benedetti Moscardin.
Allora abitavo nell’attuale via Palladio a Tavo e per
recarmi a scuola o in chiesa usavo sempre il cavallo di
S. Francesco cioè, a piedi.
L’aula si poteva riscaldare solo bruciando, nella stufa di
terracotta, la legna che noi scolari portavamo da casa. Su
incarico dell’insegnante, due volte la settimana, dovevo
togliere la cenere dalla stufa.
Noi maschi, a turno, avevamo il compito di coltivare, ad
ortaggi, l’appezzamento di terreno
(40 x 5 metri) adiacente alla scuola. Vangavamo il
54
terreno, preparavamo il letto di semina, quindi piantavamo le cipolle, l’aglio e seminavamo le verze e i
pomodori.
Era nostro dovere compiere tutte le operazioni colturali necessarie come la zappatura del terreno,
togliere le erbacce infestanti e, soprattutto, irrigare l’orto mediante l’acqua pompata manualmente dal
sottosuolo. Questo lavoro ci impegnava durante tutte le vacanze estive.
Gli ortaggi alla maturazione erano raccolti e li consegnavamo alla maestra”.
__________
(1) Nel 1942 a Tavo fu istituita la classe V^ elementare.
Nella foto del 1942: gli alunni della IV^ elementare di Tavo di Vigodarzere con gli arnesi per
lavorare “l’orto di guerra”. Il primo da destra: è Gino Miozzo, la prima in piedi da sinistra è Gina De Santi
(La fotografia è stata concessa dall’archivio della Comunità di Tavo).
Il Duce contro una deplorevole abitudine.
Il 23 maggio 1941 l’Istituto Nazionale Fascista per l’Assicurazione contro gli infortuni sul lavoro,
con circolare n. 48/1941 riportava il seguente telegramma del Duce: “E’ ormai diventato un sistema
quello adottato da Ufficiali e Funzionari che consiste nell’avviarsi all’ufficio alle 8 il che significa essere
al tavolo di lavoro non prima delle 8 et 15 e forse più tardi alt. Esigo che questa deplorevole abitudine
tipica manifestazione di quel pressappochismo deleteria tara del carattere di troppi italiani abbia
immediatamente a cessare alt. Alle 8 chi non è già al lavoro ha perduto la giornata con le relative
conseguenze alt. Farò controllare quanto sopra alt Mussolini”.
Requisizione di due campane a Vigodarzere.
“Il 23 aprile 1942, il governo Mussolini, con il decreto ministeriale n. 505, imponeva la consegna del
60% del peso delle campane possedute da ogni singola parrocchia; in seguito delle rimostranze
dell’Episcopato Italiano la percentuale fu ridotta al 50% .
Nelle prime ore del pomeriggio del 15 luglio 1943 gli operai della ditta Cobalchini di Padova
suonarono alla porta della canonica di Vigodarzere. La sorella dell’arciprete Rina aprì la porta e gli
operai mostrarono a don Giulio Rettore il decreto di requisizione delle campane. Don Giulio si assestò
il tricorno e con gesto del viso, arrossato, indicò la cella campanaria. Gli operai tolsero prima la
55
balaustra ad ovest della cella campanaria, poi staccarono dal castello la campana intitolata a S. Antonio
da Padova, del peso di 7.56 quintali, e la precipitarono al suolo. Stessa sorte toccò alla campana
intitolata a S. Rocco che pesava 13. 34 quintali. Ambedue (per il peso erano la prima e la terza) caddero
nel sottostante orto del cappellano. Tra i presenti, compreso lo scrivente (Federico Zoccarato), nacque
subito un sentimento di disprezzo per il fatto brutale. Per la coscienza dei fedeli tutta l’operazione fu
una profanazione di un simbolo sacro del popolo. Furono requisite anche le piccole campane della
chiesetta della Certosa e quella del municipio. Dopo l’8 settembre 1943, il vescovo Carlo Agostini
telefonò ai parroci invitandoli ad andare nel deposito della ditta Cobalchini per riprendersi le campane
requisite. L’arciprete don Giulio Rettore con grande tempestività incaricò i parrocchiani Carlo, Antonio
e Albano Marangon a prelevare le campane presso il deposito di Padova ed effettuarono il trasporto
con due carri agricoli trainati da cavalli. Nella stessa giornata furono nascoste sotto il palco della sala
parrocchiale (1) e, nei giorni seguenti, furono seppellite nel cortile dal lato est della canonica. La gente
mormorava: “Campane, sottoterra, persa la guerra”. L’occultamento durò sino ai primi d’agosto del
1944, perché il vescovo Carlo Agostini consigliò i parroci di ricollocare le campane al loro posto nella
cella campanaria al fine di evitare una nuova requisizione nazi-fascista. Un pomeriggio con grande
partecipazione di uomini muniti di corde e carrucole, le due campane vennero issate e sistemate al loro
posto nella cella campanaria”.
(Dalla relazione di Federico Zoccarato del 11. 11. 1972 depositata presso l’archivio parrocchiale di Vigodarzere).
__________
(1) Testimoni: Ivano Pasquetto (1933) e Alberto Lollo (1929).
“A peste, fame et bello libera nos Domine” (Dalla peste, dalla fame e dalla guerra, liberaci o
Signore).
Il 24 agosto 1939 Pio XII° con accorato radiomessaggio implorò: “Nulla è perduto con la pace;
tutto può esserlo con la guerra”. Analoghi concetti li espresse il 31 ottobre 1942 e per porre fine alla
guerra annunciò l’intenzione di consacrare la Chiesa e il mondo alla Santissima Vergine Maria. Il
vescovo di Padova, monsignor Carlo Agostini, promosse una giornata di affidamento della diocesi al
Cuore della Madre di Dio. Il 16 maggio 1943 i sacerdoti e i fedeli delle parrocchie della città di Padova
sfilarono, in quella processione penitenziale, in 50.000. I fascisti accusarono il clero d’aver promosso
una stupida e inopportuna manifestazione pacifista. Anche le parrocchie del territorio comunale di
Vigodarzere affidarono le loro sorti alla Madonna.
Il parroco di Tavo annotava nella cronistoria parrocchiale:
“… La parrocchia di Tavo fece la solenne consacrazione al Cuore Immacolato di Maria il 1° gennaio
1943 e lo rinnovò il 16 maggio dello stesso anno in unione con tutta la Diocesi di Padova”.
56
DA VIGODARZERE AL FIUME DON E RITORNO.
Testimonianza resa da Guerrino Ranzato di Vigodarzere (classe1916), il 29. 06. 2002. “Il 6 luglio 1942
partii in treno con l’89° Reggimento di Fanteria da Ventimiglia (Imperia) diretto al fronte di guerra
nell’Ucraina, che allora si chiamava fronte russo, sulla riva destra del fiume Don. Dal treno si vedeva la
grande pianura russa ondulata con grande estensione di terreno, coltivata a frumento pronto per la
mietitura: era tutto di colore giallo oro. Altre ampie zone erano coltivate a girasoli, creando delle
macchie verde oro. La messe era molta, ma i villaggi e i gruppi di isbe erano senza uomini perché fatti
prigionieri dall’esercito tedesco o avevano seguito la ritirata delle truppe sovietiche. Arrivammo il 19
luglio nella cittadina di Gomel dove la ferrovia terminava”.
La torrida estate della pianura russo-ucraina.
“Proseguimmo a piedi; portando sulle spalle un pesante zaino, eravamo affiancati dai nostri alpini
con i muli carichi di munizioni e vettovagliamento. Fummo in marcia alle prime luci dell’alba e a
mezzogiorno il sole sembrava che ci bruciasse: il caldo continentale di quella pianura ci faceva grondare
di sudore. Passando tra i miseri villaggi di contadini russo-ucraini incontravamo solo anziani, donne e
bambini; non vi furono azioni di ostilità nei nostri confronti, perché erano buona gente e dopo le soste
ci salutavano. Passo dopo passo, marciando su piste di terra torbosa, scoprimmo una pianura molto
diversa dalla nostra padano-veneta, con un terreno molto fertile: vi erano anche coltivazioni di segale e
patate. Furono giornate di sforzi sovrumani; il sole screpolava le nostre labbra e le calzature di cuoio. A
volte la pista era molto soffice, gli scarponi affondavano nel terreno di torba (con la stessa gli abitanti
facevano dei mattoni; li mettevano al sole e d’inverno erano bruciati per proteggere le isbe dal freddo)
sollevando una polvere scura che si appiccicava nel viso grondante di sudore colando sulla divisa. Ogni
tanto qualcuno colpito da insolazione e dalla fatica stramazzava al suolo. Il trasferimento coprì una
distanza di circa 500 chilometri: il nostro alimento di tutti i giorni di marcia erano gallette e carne in
scatola. La sera del 15 agosto 1942, arrivammo alla riva destra del fiume Don. Largo come il nostro
fiume Brenta, non aveva gli argini e l’acqua azzurra rispecchiava il cielo senza nuvole e scorreva
lentamente. Ci schierammo lavorando tutti intensamente dall’alba al tramonto e si dovevano fare anche
i turni di guardia notte e giorno. Costruimmo delle fortificazioni lungo i 18 chilometri di competenza
del nostro reggimento. Si sistemò la cucina, si fecero i servizi igienici e scavammo dei camminamentitrincee. Si lavorò sodo per spostare la terra usando badili e carriole, con l’accetta tagliammo degli alberi
e con i tronchi e la terra coprivamo le trincee.
Nelle retrovie c’era un villaggio abbandonato da molti dei suoi abitanti che, avevano abbandonato
anche gli animali domestici: galline, faraone, pecore, maiali e pure un bue. Una mattina quel bue fu
condotto ad abbeverarsi sul fiume Don; i cecchini (noi li chiamavamo i “ta-pum”) appollaiati sugli
alberi dall’altra sponda del fiume, gli spararono ammazzandolo. La carne di quel bovino arricchì il
nostro rancio e fece recuperare le nostre energie fisiche. Una notte una nostra spedizione di volontari
attraversò il fiume e si inoltrarono nella terra controllata dai soldati russi. Ritornarono con 14 prigionieri
con tratti somatici asiatici. Furono mandati nelle retrovie, impararono la nostra lingua e ripetevano
anche le nostre parolacce. Non tentarono mai di fuggire, aiutavano i nostri soldati tagliando la legna e si
prestavano ad eseguire altri lavori. I campi di patate si trovavano nei pressi delle nostre postazioni e un
giorno mi recai in quel campo e, scavando con le mani nel terreno, riempii un cesto di patate. Mi
accorsi, appena in tempo, che a qualche centimetro dal mio piede destro vi era una mina antiuomo.
Avvisai i superiori ma, nonostante l’avvertimento, uno del nostro gruppo nel raccogliere le patate fu
ucciso dall’esplosione di uno di quelli ordigni. Sottovoce si iniziò a maledire la guerra e ad interrogarci
sui motivi per cui noi contadini italiani avevamo occupate quelle terre lontane dalla nostra patria e
abitate da altri contadini come noi. Guardavamo il fiume Don sempre con maggiore apprensione.
Infine, con l’arrivo dell’autunno, dall’altra sponda si intensificava la presenza di soldati russi”.
L’attacco russo e l’inverno siberiano del 1942/1943.
“A metà novembre la temperatura notturna si abbassò e raggiunse i meno 25°. Il 10 dicembre
nevicò e continuò per alcuni giorni; il manto nevoso superava i 30 centimetri e poi il cielo si rasserenò
abbassando la temperatura notturna a meno 40° (1): in quei giorni, persino il sole sembrava pallido o di
57
colore ghiaccio, il rancio si gelava, il vino veniva distribuito in cubetti; i turni di guardia erano ridotti a
20 minuti, l’anticongelante delle armi si rapprese rendendone problematico l’uso; i motori a scoppio
dovevano rimanere sempre accesi per evitare che le bielle si rompessero.
L’acqua del fiume Don era gelata e ogni giorno aumentava lo spessore del ghiaccio. Si cominciò a
prevedere un massiccio attacco nemico; i soldati russi sempre più spesso si udivano cantare a
squarciagola. Il 16 dicembre cedemmo la nostra zona ad altri 18 soldati che erano giunti dalla riviera
ligure. Spiegai loro la posizione delle mitragliatrici e le precauzioni da prendersi per non essere colpiti
dai cecchini; dissi anche che quelle postazioni erano state fatte con il lavoro e i sacrifici del mio gruppo.
Salutandoli dissi loro: “Vi lascio in consegna anche la numerosa colonia di topi che con noi hanno
condiviso le trincee”. Ci trasferirono a circa due chilometri, sempre sulla stessa riva del fiume, in una
zona priva di fortificazioni. Con il piccone scavammo delle buche e postazioni. Dopo qualche ora, la
zona lasciata ai commilitoni liguri fu investita da un intenso fuoco d’artiglieria; fu una strage, solo un
soldato si salvò. Passarono quattro o cinque giorni e una mattina, all’alba, una nebbia fitta
improvvisamente si diradò e vennero allo scoperto circa 50 soldati russi che si stavano avvicinando alle
nostre postazioni: finirono sotto il tiro delle nostre mitragliatrici e in pochi si salvarono”.
L’inizio della tragica ritirata.
“Nel pomeriggio un intenso fuoco di katiuscia (lanciarazzi costituito da più canne montate su di un
camion, con possibilità di lancio simultaneo di tutti i razzi) ci colpì; io mi ero appena trasferito in una
profonda buca provocata dall’esplosione dei razzi granata. Mi ripresi, costatai che i miei sette compagni
erano tutti morti. Poco dopo vidi i carri armati sovietici che attraversavano il fiume Don ghiacciato e i
soldati russi erano a trenta metri dalla mia postazione; strisciando raggiunsi una zona alberata ed iniziai
così la ritirata. Poco dopo trovai un soldato italiano ferito ad una gamba, lo caricai in spalla e dopo 400
metri lo diedi in consegna a dei militari italiani della sanità che avevano un’autoambulanza. Proseguii da
solo tutta la notte, al mattino raggiunsi un nostro magazzino.
Un tenente mi riconobbe e mi consigliò di prendere tutto quello che mi serviva di vestiario e
alimenti perché i russi avevano sfondato la nostra linea di difesa del fiume Don. Con altri soldati ripresi
a camminare in quel mare bianco di neve nella direzione contraria all’arrivo dell’agosto 1942. La notte si
avvicinava e dovevamo trovare un ricovero. Il freddo, il vento e la stanchezza fisica e morale creavano
una situazione che induceva ad un pericoloso sonno soporifero che ci avrebbe portato all’eternità.
Finalmente all’orizzonte individuammo un gruppo di isbe dandoci la speranza di continuare a vivere.
Bussai alla prima porta e, mentre il cuore batteva forte, un’anziana donna la schiuse. Nel loro dialetto
ucraino gli chiesi un ricovero per la notte; l’anziana nonna ucraina mi fissò, con uno sguardo indagatore
e indotto, da sentimenti di pietà mi fece passare la notte al riparo. In quella stanza c’erano altre donne,
bambini e soldati italiani sdraiati sul pavimento di legno. Nel focolare il fuoco era acceso: finalmente un
poco di tepore. La donna ucraina prese un pentolino e versò in una tazza dell’acqua calda e m’invitò a
berla; tagliò delle patate, le mise in una gavetta con due dita d’acqua e le pose sul fuoco. Mangiando le
patate si calmarono gli stimoli della fame e lo sguardo sorridente e materno della mamma ucraina lenì i
traumi di quella prima giornata della ritirata. Gli altri soldati mi fecero posto per sdraiarmi per dormire.
Nei giorni successivi continuai a camminare ritrovando alcuni del mio battaglione e assieme
proseguimmo con la forza della disperazione. Per le lunghe marce molti soldati erano esausti e
cadevano sulla neve rimanendo esanimi sopra quel grande lenzuolo bianco. Un giorno, in quel gelo
spettrale, un camion tedesco ci passò vicino e con un balzo salimmo silenziosi sul cassone. Dopo 20
chilometri ci scambiammo qualche frase e l’autista si accorse della nostra presenza; fermò il camion,
scese arrabbiato con la pistola in pugno e con gesti gutturali (era proprio una brutta bestia) ci impose di
scendere”.
Tentativo di stupro.
“Una sera eravamo riparati dentro una isba di una mamma ucraina con due sue figlie molto giovani,
noi eravamo in quattro, di cui due erano del sud Italia. Questi a gesti si erano messi d’accordo per
violentare le ragazze. Appena presero le ragazze per le braccia per denudarle il mio energico intervento
evitò lo stupro”.
58
La nascita di Cristo in una stalla dell’Ucraina.
“Al crepuscolo della vigilia di Natale del 1942 (presto sarebbe stato buio) si cercava disperatamente
un ricovero per un’altra notte siberiana. Eravamo in 12 ed io, caporal maggiore, ero il soldato di grado
superiore. Finalmente trovammo un villaggio e costatammo, però, che le isbe erano tutte piene di
soldati italiani. All’orizzonte vi era un ricovero vuoto per i cavalli; in centro c’era un gran mucchio di
letame equino. Le porte e le finestre chiuse ci proteggevano dal gelo siberiano e il letamaio fungeva da
letto. Con la forca spargemmo della paglia sopra il letame e stendemmo sopra le nostre coperte. Due
commilitoni abruzzesi, pastori di professione, uscirono per cercare degli alimenti e ritornarono con due
pecore; le soffocarono perché non emettessero belati strazianti, le scuoiarono e le tagliarono a pezzi:
accesero un fuoco e quella sera mangiammo carne arrostita. Dopo aver mangiato ci stendemmo in un
soffice letto; i due abruzzesi ci ricordarono che era la notte di Natale e chiesero, intercalando le
domande con qualche bestemmia: “Gesù sarebbe nato in questa stalla senza pecore, occupata da soldati
stranieri, uccisori di altri soldati? Sarebbe nato il figlio di Dio fra noi?”. Come ritornare vivi, dalla
Russia-Ucraina gelata, senza l’aiuto divino? Mentalmente ci portammo nelle nostre case, al paese e nelle
chiese per la messa di mezzanotte fra parenti e amici. La stanchezza poi ci sprofondò nel sonno”.
La corona del rosario.
“Con il nuovo gruppo camminammo tutto il giorno di Natale. Al tramonto, il solito problema:
trovare un posto al riparo dal gelo per trascorrere la notte. Arrivammo in un piccolo villaggio e
bussammo alle porte d’ingresso delle isbe e parlando in ucraino domandavamo di passare la notte al
riparo perché eravamo stanchi e non avevamo niente da mangiare. Entrammo in una isba e trovammo
tre donne; la più anziana, mentre mi toglievo il pastrano, notò che attorno al collo avevo una corona del
rosario. Bussarono altri soldati e chiesero di dormire, ma la stanza era al completo. La mamma ucraina,
mi chiese il rosario e in cambio loro avrebbero dormito nella baracca non riscaldata.
Quel rosario mi era stato messo da mia madre, prima di partire per la guerra; non potevo però rifiutare
la proposta di quella donna. Felice del mio consenso ci preparò una tazza di acqua calda e delle patate
bollite. Poi si recarono a dormire in quel piccolo locale dove sicuramente a fare loro compagnia c’erano
i topi. Al mattino sorridendo ci offersero una pentola di latte caldo e del pane: tutto quello che avevano.
Dopo due mesi di marce forzate, finalmente arrivammo nella città di Gomel dove eravamo giunti in
treno da Ventimiglia nell’agosto del 1942.
Nel maggio del 1943 rientrammo in Italia. Il treno, zeppo di soldati malandati, si fermò alla stazione
ferroviaria di Bolzano; i ferrovieri ci guardavano, noi reduci dalla Russia, con evidente disprezzo:
eravamo in condizioni pietose e anche sconfitti. Ci tennero in
quarantena, non solo per motivi di salute, ma soprattutto
perché non raccontassimo alla gente la nostra dolorosa e
tragica ritirata. Poi mi mandarono all’ospedale per curare la
malaria e mi inviarono a casa in convalescenza.
Pure l’8 settembre 1943, giorno in cui fu diffuso
l’armistizio e iniziò lo sfacelo del Regio Esercito italiano, mi
trovavo a casa dove rimasi sino al termine della guerra,
nascondendomi solo durante i rastrellamenti effettuati dalla
milizia fascista”.
__________
(1) A Vigodarzere la notte del 25-26 gennaio del 1985, il vento
siberiano soffiò forte e il termometro segnò i meno 22°.
Guerrino Ranzato, il reduce della ritirata
dalla Russia del 1942, presso il focolare della
sua abitazione in via A. Manzoni.
(Foto del 2002).
59
Carta militare del fronte del fiume Don nel dicembre del 1942.
60
Un’ isba; a destra la planimetria (1)
Dipinto dell’ultimo casone di Vigodarzere (2) (costruito con materiali semplici che poteva essere paragonato ad una isba
russa-ucraina), era ubicato nell’attuale via Don Mazzolari; fu demolito nel 1950.
(Per gentile concessione di Liseo Pulliero; opera eseguita da Cesare Peruffo).
__________
(1) Le pareti erano un intreccio a canestro di ramaglie impastate di argilla e sterco bovino, imbiancate
internamente ed esternamente. La foto è dell’Archivio dell’A.N.A. di Milano.
(2) Abitazione molto diffusa sino al 1925, poi sostituita con le case in muratura e il tetto in cotto. I muri
perimetrali erano mattoni d’argilla fatti seccare al sole; legati con sabbia miscelata con calce spenta. I pavimenti
erano di mattoni o di nuda terra. L’intelaiatura del tetto era costituita da travi e tavole di legno. La copertura del
tetto era fatta con paglia di frumento.
Quanto ci costò la “campagna di Russia”?
“Dei 229.000 uomini iniziali i caduti furono 84.830; 29.690 rimpatriarono feriti o congelati e 10.030
prigionieri furono restituiti dalla Russia; degli altri circa 100.000 uomini, che mancano tuttora
all’appello, nulla si è saputo”.
(Dal libro: Padova nel 1943 a cura di Pietro Grassi; pag. 55. Ed. Il Poligrafo, 1996).
61
IL NOSTRO TERRITORIO SOTTO L’OCCUPAZIONE TEDESCA
A giudizio degli storici, il 9 luglio 1943, all’annuncio dello sbarco anglo-americano in Sicilia, gli
italiani furono sconvolti. Neppure la disastrosa ritirata dei soldati italiani dalla Russia e la resa delle
truppe italiane e tedesche in Tunisia avevano fatto tanta impressione. Il Re Vittorio Emanuele III°, gli
alti vertici dell’esercito e molti gerarchi fascisti ritenevano che la guerra contro gli anglo-americani fosse
sicuramente persa. Mussolini, capo del governo e delle forze armate, che nel corso degli anni aveva
trasformato il governo e il Partito Nazionale Fascista in una dittatura personale, era deciso a proseguire
la guerra con l’alleato tedesco, convinto che le sorti sarebbero state capovolte con l’impiego delle armi
segrete di Hitler.
Il 19 luglio la città di Roma subì il primo bombardamento aereo anglo-americano che provocò circa
1500 morti. Alle ore 17.00 del 24 luglio si riunì il Consiglio Nazionale Fascista che proseguì tutta la
notte: alle ore 2.00 del mattino del 25 fu votata una mozione di sfiducia per Mussolini; il giorno
successivo, alle ore 12.00, presentò al Re le dimissioni che furono accettate. Il Re nominò nuovo capo
del governo il maresciallo Pietro Badoglio. Questi, nel proclama alla nazione, informò che il Re aveva
assunto le sue funzioni di capo dell’Esercito Italiano e che la guerra continuava a fianco della Germania.
Il 28 luglio Badoglio con un decreto sciolse il Partito Nazionale Fascista e tutte le altre organizzazioni
del regime. Senza autorizzazione del Governo Italiano, dal Brennero affluirono in Italia 5 divisioni
tedesche; portando il numero dei soldati germanici presenti in Italia a circa 400.000.
Il giornale radio alle 19.45 di mercoledì 8 settembre 1943 portava a conoscenza che l’armistizio tra il
rappresentante del Governo Italiano presieduto dal maresciallo Badoglio e gli anglo-americani.
Nel paese di Vigodarzere c’erano una dozzina di apparecchi radio, la notizia dell’armistizio fu portata a
conoscenza delle tante persone che si trovavano nel sagrato e nella chiesa, là convenute, in quanto si
festeggiava la sagra della Natività di Maria. Nella serata sia nel sagrato, sia nelle osterie furono notati fra
la gente alcuni prigionieri inglesi che si erano allontanati dal campo dei prigionieri militari del Regio
Esercito Italiano situato a Pontevigodarzere periferia di Padova.
Secondo le testimonianze, la gente era euforica, si pensava che la guerra fosse proprio terminata. Si era
lontani dal prevedere la reazione delle forze armate tedesche già piazzate nei punti strategici. L’esercito
italiano, composto da circa un milione di soldati presenti in Italia e di altri 200.000 che si trovavano sui
fronti di guerra all’estero, rimase senza ordini mentre i soldati tedeschi, presenti in Italia, avevano un
piano preciso di occupazione della nostra patria e di deportazione dei nostri soldati in Germania.
Vigodarzere e Padova dopo l`8 settembre 1943.
La mattina di giovedì 9 settembre nella città di Padova ci fu un grande spiegamento d’automezzi
tedeschi, che s’incrociarono con i carri agricoli con i quali molti parroci erano andati a riprendersi le
campane, requisite per essere fuse per scopi bellici. Nello stesso giorno il Re e il Capo del governo
Badoglio abbandonarono la città di Roma e si rifugiarono a Brindisi, nella zona occupata dall’esercito
anglo-americano. I militari italiani rimasti senza ordini, presi dallo sconforto, con ogni mezzo cercarono
di ritornare alle proprie case.
Venerdì 10 i prigionieri neozelandesi e sudafricani che si trovavano nel campo di prigionia di
Chiesanuova (Padova), alle prime notizie dell’arrivo delle truppe tedesche, su consiglio del loro
cappellano, il Missionario della Consolata padre Domenico Artero, abbandonarono il campo di
prigionia e si inoltrarono nella campagna circostante. Padre Artero poi si recò negli altri campi di
prigionia di Pontevigodarzere, Ponte S. Nicoló, Saonara, Pegolotte e Codevigo, per ripetere le stesse
raccomandazioni.
Nella sera del 10 settembre avvenne l’occupazione tedesca di Padova: un numero limitato di soldati
tedeschi, dotati di pochi carri armati leggeri, catturò più di 10.000 uomini che, chiusi nelle caserme,
attendevano ordini.
L`11 settembre i tedeschi completarono il loro controllo su tutta la città. Alla sera, presso la stazione
ferroviaria di Padova, c’erano molte persone che attendevano l’arrivo dei soldati italiani, ma con
impotenza videro transitare e partire solo dei treni carichi di soldati fatti prigionieri dai tedeschi diretti
in Germania.
62
Sabato 11 settembre, a Padova, i monaci benedettini del convento di S. Giustina riuscirono a far
entrare nel monastero circa cinquecento militari italiani della vicina caserma e li dotarono di vestiti
borghesi, per evitare che i soldati tedeschi li prendessero.
Gli avieri del Magazzino dell’Aeronautica Militare di Vigodarzere e i soldati dell`Autocentro del Regio
Esercito Italiano si allontanarono indossando vestiti civili; molti intrapresero il viaggio di ritorno alle
loro case, altri trovarono ospitalità e rifugio presso famiglie del territorio.
A Padova la domenica mattina del 12 settembre, comparvero sui muri i primi bandi del comando
tedesco. Nel frattempo, i soldati tedeschi volgendo in giro il loro sguardo freddo, davano prova di forza
con il passaggio ininterrotto d’autoblinde con le mitragliatrici spianate.
A Vigodarzere, sempre nella mattinata del giorno 12, si presentò all’ingresso dell`Autocentro del
Regio Esercito Italiano, (ubicato a nord del fiume Brenta, vicino al ponte stradale di Pontevigodarzere,
attuale campo sportivo), un carro armato tedesco seguito da un camion carico di soldati che
occuparono l’edificio. Stessa sorte subì il Regio Magazzino Aeronautico Militare di Vigodarzere, dove
furono fatti prigionieri i Carabinieri che erano di guardia.
Padova e provincia.
Il comando tedesco situato nella Zona Militare in Prato della Valle a Padova (attuale Circolo
Ufficiali) e con un comunicato pubblicato su “Il Gazzettino di Padova” del 13 settembre, al punto n. 3
avvisava la cittadinanza che “… tutta la popolazione deve rispettare gli ordini del Comando Tedesco”.
(Dai libri: “Dal soccorso ai prigionieri inglesi ai campi di sterminio tedeschi” di Pierantonio Gios del 1987 e “La
Resistenza dei cattolici nel Padovano di G. E. Fantelli. Ed. Volontari della Libertà. Padova 1965 e “Una strana
alleanza” -R. Absalon, “A strange. Aspects of escape and survival in Italy 1943-45”- 1991. Hanno collaborato alla
ricostruzione degli avvenimenti anche alcuni testimoni dei paesi del comune di Vigodarzere).
La fame convinse a fare la spia.
Il comunicato tedesco (sotto riportato) indusse alcuni cittadini del comune di Vigodarzere, non per
motivi politici ma per nera miseria, a collaborare con il comando tedesco, segnalando loro l’ubicazione
dei prigionieri inglesi nascosti nelle famiglie del territorio comunale di Vigodarzere. La Guardia
Nazionale Repubblicana di Vigodarzere (milizia fascista), i Carabinieri della Stazione di Vigodarzere e
poi le brigate nere agirono a seguito delle delazioni.
Da anni la propaganda del regime fascista denigrava la Gran Bretagna a mezzo della stampa, nelle
riunioni delle varie associazioni, nelle lezioni di cultura fascista durante il premilitare. Chi visse in quel
tempo ricorda il motto del regime: “Dio stramaledica l’Inghilterra”; slogan stampato anche su una
tessera di stoffa, che era cucita sui maglioni dei Balilla e delle altre organizzazioni giovanili fasciste.
Nonostante questo clima di odio tantissime famiglie protessero i prigionieri inglesi dopo l’8 settembre
1943. Ecco la taglia nazista pubblicata da “Il Gazzettino” e dal “Il Veneto” del 26 settembre 1943 a
favore degli spioni che indicavano il luogo dove erano nascosti i prigionieri militari:
“COMUNICATO del Comando tedesco
Ad ogni borghese che fornisce indicazioni utili per l’arresto di un prigioniero inglese, il
Comando militare tedesco paga subito un premio cattura di L. 1.800”.
Dalla cronistoria della parrocchia di Vigodarzere.
Don Giulio Rettore (Arciprete di Vigodarzere dal 1940 sino al 1970), dopo l’8 settembre 1943 ha
scritto: “I soldati, sciolto ogni vincolo di disciplina e di ordine, fuggono, si disperdono da ogni parte
d’Italia e da fuori nel tentativo di ritornare alle proprie case. Arrivano nei paesi mal vestiti, laceri,
affamati, insidiati dai tedeschi invasori, proclamatisi padroni, spalleggiati dalla parte faziosa dei
concittadini; trovano però dovunque accoglienza cordiale, affettuosa, efficace, in generale da tutti;
anche Vigodarzere si è distinta in quest’opera altamente umanitaria e cristiana; sia i sacerdoti come la
popolazione si prodigano in ogni forma d’assistenza, aiuto e indirizzo, estendendola anche ai prigionieri
anglo-americani fuggiti dai campi di prigionia, sfidando i rigori della legge marziale tedesca, scrivendo in
mezzo a tanti orrori d’una guerra infame una bella pagina di generosità e carità cristiana…”
63
L’aiuto di Padova e Provincia ai prigionieri inglesi.
Sono stati 80.000 i soldati dell’esercito inglese (1), fatti prigionieri dai soldati italiani quasi tutti
nell’Africa Orientale e reclusi in appositi campi di prigionia costruiti in Italia. A Padova il primo campo
di prigionia fu approntato a Chiesanuova nel territorio comunale di Padova; in seguito altri 18 campi di
prigionia furono costruiti nelle provincie di Padova e di Rovigo; i prigionieri inglesi erano circa 1000. Il
campo di prigionia di Pontevigodarzere racchiudeva un centinaio di prigionieri ed era ubicato a sud del
fiume Brenta, tra il ponte della ferrovia e quello stradale.
Nel 1943 era stato nominato cappellano dei prigionieri di guerra anglo-americani padre Domenico
Artero, Missionario della Consolata, reduce dal Kenja, a cui va il merito maggiore di avere organizzato
tanti viaggi-fuga di prigionieri verso la Svizzera, assieme al Comitato di Liberazione di Padova e a molti
sacerdoti. In particolare don Pietro Zaramella cappellano a Pontevigodarzere; don Antonio Varotto
parroco di S. Prosdocimo, che coinvolse il suo confratello di Terranegra don Giovanni Fortin, don
Mario Zanin del Bassanello, il frate conventuale del Santo Padre Placido Cortese, don Antonio Michieli,
maestro di camera del vescovo Agostini. Il merito va anche al gruppo di solidarietà FRA.MA (2) diretto
dai professori Ezio Franceschini (docente dell'Università di Padova e del Sacro Cuore di Milano) e
Concetto Marchesi (Rettore dell’Università di Padova); dediti inizialmente al salvataggio degli ebrei e in
seguito a nascondere e fare espatriare i prigionieri inglesi. In tale iniziativa si distinsero anche il
padovano Libero Marzetto, il dott. Lorenzo Bidoli, direttore del Lazzaretto, e molti altri cittadini; anche
il parroco del Torresino don Gerolamo Tessarolo partecipò alla gara di solidarietà verso i prigionieri
inglesi, i quali accompagnati da persone di sua fiducia, si presentavano di nascosto, chiedendo di essere
protetti. I primi che accolse furono in numero di sette. Li ospitò per circa un mese nella casetta attigua
alla chiesa. Poi si aggiunsero altri in numero di una quindicina per volta, restando nascosti per due, tre
settimane. Si continuò così fino alla metà di aprile del 1944.
Per il vitto fu aiutato settimanalmente e, nei giorni fissi, dal Seminario maggiore di Padova, dal
Collegio Barbarigo, dal Collegio delle Dimesse, dalle suore dell’Asilo Rossi e dal cavalier Armando
Boscolo. Il pane e il vestiario furono sempre forniti da padre Placido Cortese, della Basilica del Santo.
Nella fase dell’espatrio verso la Svizzera o la Jugoslavia riceveva indicazioni precise e indirizzi da padre
Stefano Graiff, benedettino di Santa Giustina, dal capitano jugoslavo Carovic, emissario inglese durante
la cospirazione e dal parrocchiano Angelo Cipriani della milizia ferroviaria fascista. Tramite queste
organizzazioni umanitarie dei 36 prigionieri inglesi nascosti nei paesi del territorio comunale di
Vigodarzere (di cui si racconta la storia nelle pagine seguenti), tre sono stati accompagnati in Svizzera.
__________
(Dal libro: “Il contributo del clero del comune di Padova e la Resistenza”, di Pierantonio Gios, Ed.Tip.
Moderna, Asiago Ottobre 2002) e da “Una strana alleanza” (R. Absalon, “A strange. Aspects of escape and
survival in Italy 1943-45”) 1991.
(1) Nel campo di prigionia di Zonderwater in Sudafrica furono internati 78 mila soldati italiani fatti prigionieri nel
1943 dagli anglo-americani (Tratto dalla rivista “L’Alpino” giugno 2005).
(2) “ Espatrio clandestino di perseguitati razziali e politici.
Presso l’Università Cattolica del S. Cuore (Piazza S. Ambrogio, 9 - Milano) nella quale io sono insegnante, diresse
con grande abilità e coraggio un centro di espatrio clandestino il cappuccino dr. padre Carlo da Milano, che
giovandosi dell’aiuto di contrabbandieri e di guardie di finanza, convogliò in Svizzera ebrei, prigionieri di guerra
alleati e perseguitati politici, attraverso diversi valichi di frontiera fra cui principalmente quello di Maslianico
(Como). Si tratta di un centinaio circa di ebrei e di altrettanti prigionieri alleati, questi ultimi fatti passare
direttamente o indirettamente, agevolando cioè l’opera di alcuni emissari delle autorità alleate con sede in
Svizzera, a cui era stato affidato quel compito: con due di essi i rapporti furono particolarmente stretti: don
Mario Zanin da Padova e Armando Romani da Milano …”.
(Da: “Appunti sul “Gruppo FRA.MA” di Ezio Franceschini pubblicato su: “Il Movimento di Liberazione in
Italia”. Archivio dell’Istituto della Storia della Resistenza -Università di Padova)
64
La reazione della nostra gente per i deportati in Germania
Le testimonianze di tante persone costatarono che i nostri soldati, prima rimasero consegnati per
ordini superiori nelle caserme cittadine e poi furono fatti prigionieri dai soldati tedeschi. Molti cittadini
li videro in vagoni ferroviari diretti verso la Germania. L’internamento in Germania, di tanti soldati
italiani, provocò nella popolazione un trauma che fu decisivo nella presa di coscienza del profondo
baratro in cui si trovava il nostro Paese. Il vescovo di Padova diede ordine ai parroci di aiutare i soldati
italiani sbandati e i prigionieri di guerra. Concetto Marchesi, Rettore dell’Università di Padova, prese
posizione contro la Repubblica Sociale Italiana.
Molto spesso ai nostri soldati internati, con insistenza e lusinghe, fu proposto l’arruolamento
nell’esercito di Mussolini. Solo una bassa percentuale accettò.
Ai soldati deportati si devono aggiungere anche circa 300.000 lavoratori italiani che da anni
periodicamente emigravano in Germania. Nel 1944 molti lavoratori disoccupati furono consigliati dalla
Guardia Nazionale Repubblicana e dalla milizia fascista a firmare la domanda di emigrazione.
Nella Casa del Fascio di Vigodarzere c’era l’Ufficio di Collocamento, a giudizio di un testimone, gli
operai disoccupati spesso erano in fila per fare la domanda per recarsi a lavorare in Germania.
I giornali nel 1944 pubblicavano spesso inviti come quelli sopra riportati, per invogliare i lavoratori italiani a recarsi come
“volontari”a lavorare in Germania.
65
Bambini italiani rapiti e portati in Russia?
Da “Il Gazzettino” venerdì 24 dicembre 1943:
“Questa volta i “si dice” hanno avuto breve durata. Gli italiani increduli per natura, i S. Tommasi,
numerosissimi e spesso animati da un sentimento di ostilità, di dubbio verso la propaganda, nei
confronti degli scritti e dei commenti che pubblichiamo o che dirama la nostra radio, sono serviti. E’
con una stretta al cuore che ieri abbiamo dato la notizia, la tragica notizia, della deportazione sovietica.
E’ vero, si; da Siracusa, là nell’azzurro Mediterraneo, sei navi sono salpate nella luce di una giornata di
sole invernale cariche di fanciulli per la gelida e sconfinata Russia.
Non vogliamo sapere chi sono, nè se i loro genitori, i loro parenti sono fascisti o antifascisti, se sono
monarchici o repubblicani, se operai o professionisti: ci basata sapere che sono italiani, cioè come noi,
figli di questa terra martoriata e tradita e che, a dispetto di tutte le avversità, non vuole perire …”.
Quello sopra scritto sul giornale è una bugia, perché non fu trovato nessun riscontro.
Otto fratelli Bassani prigionieri dei tedeschi.
Testimonianza resa da Ines Bassani Vieno di Vigodarzere il 10. 12. 2002. “Avevo 25 anni e abitavo
nell’attuale via Cà Zusto a Vigodarzere. Dopo l’8 settembre 1943, i miei otto fratelli militari del Regio
Esercito Italiano, furono fatti prigionieri dai soldati tedeschi; due furono mandati nei campi di prigionia
nel nord Italia e gli altri sei, furono trasferiti in territorio tedesco (1).
Per i miei fratelli prigionieri in Italia, escogitai un piano.
Mi recai da Candiani Paladin, vicino Porta Trento a Padova, il quale gestiva un piccolo laboratorioofficina per la costruzione di biciclette e lavorava anche per l’esercito tedesco. Mi feci rilasciare una
richiesta d’assunzione per i miei due fratelli. Dopodiché in treno (era la prima volta che uscivo da
Vigodarzere) raggiunsi il comando tedesco in una località vicino a Mantova. Il viaggio fu pieno di
contrattempi, ma fui aiutata da persone di gran cuore. Al presidio tedesco parlai con il Comandante il
quale, dopo avermi ascoltato, mi consegnò mio fratello e un salvacondotto per raggiungere Torino
dove ottenni la liberazione dell’altro fratello.
Ritornai a casa con i miei due fratelli e con un raggio di speranza per la sorte degli altri sei.
Alla fine della guerra, tale speranza si concretizzò con il ritorno dai campi di concentramento in
Germania degli altri sei fratelli.
__________
(1) Gli otto fratelli Bassani abitavano nell’attuale via Cà Zusto a Vigodarzere e sono Bassani Anchille del 1900,
Bassani Natale del 1902, Bassani Silvio del 1906, Bassani Gianni del 1908, Bassani Luigi del 1913, Bassani
Francesco del 1914, Bassani Ruggero del 1917, Bassani Livio del 1921.
Nascondigli per sfuggire alle ricerche dei nazi-fascisti.
La nostra gente era allarmata per nostri soldati internati in Germania.Tanti giovani delle nuove leve
si rifiutarono di arruolarsi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, chiamata anche di Salò, mentre
i militari ritornati a casa non intendevano ripresentarsi nei distretti militari. A questi si dovevano
aggiungere i soldati italiani sbandati e i prigionieri inglesi allontanatisi dai campi di prigionia italiani.
Ecco alcuni tipi di nascondigli.
- Nel granaio, costruendo un muretto, si ricavava un piccolo ambiente sufficiente a contenere i
ricercati.
- Dalla mangiatoia della stalla dei bovini si scavava un cunicolo che comunicava con un ambiente
sotterraneo.
- Forando il muro di una stanza si dava la possibilità di passare nell’adiacente fienile.
- Si scavava una profonda buca in mezzo ai campi e la si ricopriva di travi e di cotica erbosa.
- Nella fossa della latrina o dei liquami dei bovini si ricavava un “bunker”.
- Dal centro del focolare sollevando la lastra di ferro (sopra cui si bruciava la legna) per mezzo di un
cunicolo si passava in un’altra stanzetta senza finestre e porte.
- I giovani di Saletto, alle prime avvisaglie di rastrellamenti, guadavano il fiume Brenta e riparavano nel
territorio di Limena.
66
Il giovane renitente alla leva L. P. che abitava in una strada laterale di Via A. Manzoni a Vigodarzere in
data 15 luglio 2004 mi disse: “Quando c’era il pericolo di rastrellamenti, io avevo un posto sicuro:
riparavo nell’abitazione di G. P. noto fascista del luogo”.
Foto del classico focolare domestico veneto. Dal centro del focolare iniziava un cunicolo che permetteva ad un ricercato di
trasferirsi in una stanzetta senza porte e senza finestre.
Lavoratori italiani ausiliari dell’esercito tedesco (Todt).
Quasi tutti i giovani renitenti alla chiamata delle armi della Repubblica Sociale Italiana e i soldati
ritornati dai vari fronti di guerra, per non ritornare al fronte o essere deportati in Germania dovettero
iscriversi all’organizzazione ausiliaria per l’esercito tedesco.
Il tedesco ingegner Fritz Todt, ispettore generale delle strade del governo di Hitler, istituì una poderosa
organizzazione, nota poi con il nome di “Organizzazione della Todt” e durante la guerra fu incaricato
alla realizzazione di grandi opere militare e di comunicazione reclutando gli uomini dai paesi occupati
dall’esercito tedesco. Nell’ottobre del 1943 fece pubblicare dai giornali italiani dei comunicati per
reclutare i nostri operai.
A Vigodarzere inizialmente questa disposizione fu vista con diffidenza, ma in seguito, sia per evitare
l’arruolamento nella nuova Repubblica fascista di Salò con capo Benito Mussolini, sia per evitare
l’internamento in Germania; malvolentieri, ma tantissimi, vi aderirono; erano dotati di un cartellino
bilingue simile che dava abbastanza libertà di movimento e anche un modesto salario. Pure i lavoratori
delle fabbriche erano dotati di un apposito cartellino bilingue.
Nel 1944 a Vigodarzere i lavoratori della Todt erano centinaia, comprendevano anche i partigiani e si
erano iscritti “volontari” alla Todt per regolarizzare la loro posizione di fronte alle autorità fasciste e
tedesche. Terminata la guerra, nel tentativo di dimenticare quell’esperienza umiliante stracciarono il
cartellino della Todt.
67
Testimonianza scritta da Federico Zoccarato (classe1923), di Vigodarzere.
“Nel 1944 la mobilitazione maschile dai 14 sino ai 60 anni fu imposta per fortificare le retrovie, per
risparmiare i soldati tedeschi. I renitenti e molti soldati italiani aderirono immediatamente in quanto il
possesso del cartellino della Todt era un salvacondotto, che evitava l’arruolamento dei giovani e dei
disertori al servizio militare nella nuova Repubblica Sociale Italiana e anche l’internamento in Germania.
A Vigodarzere, come altrove, centinaia di uomini e giovani si presentarono ai posti di lavoro nella Todt
con vanghe, pale, picconi e carriole. Inizialmente, per qualche tempo, dominò la paura perché si temeva
l’internamento coatto in Germania.
Moltissimi furono i partigiani che si arruolarono nella Todt, perché dava una certa libertà di
movimento, ma soprattutto per guadagnare, per sopravvivere e superare gli stenti della vita di quel
periodo. Nel 1944, in previsione dello sfondamento della linea Gotica, il comando tedesco trasformò il
Veneto, in particolare la provincia di Padova, in un immenso cantiere.
Una prima linea di fortificazione aveva il suo punto di forza nella parte del sud-est dei colli Euganei
tra Este e Monselice per proseguire poi lungo la Rovignana, il canale Gorzone sino a Cavarzere e il
mare. Una seconda linea di fortificazione seguiva il fiume Bacchiglione da Vicenza sino a Padova per
proseguire con il fiume Brenta sino alla laguna di Venezia. La terza linea fortificata fu predisposta lungo
la costa delle prealpi venete. In tutte le zone, il lavoro consisteva nello scavare con la vanga la terra e
trasportarla con le carriole (come ai tempi dei “carriolanti” dei secoli scorsi quando costruirono i
possenti argini dei fiumi) per costruire fosse anticarro con i lati di metri tre per cinque e profonde
cinque. Inoltre dovevano costruire delle postazioni di artiglieria pesante e trincee (1). Nel 1944 non
c’erano le macchine per il movimento della terra; e per fare l’obbligatorio lavoro di scavi vi erano nobili
e contadini, gli uni accanto agli altri, senza distinzione, costretti dalla legge tedesca.
Dall’agosto del 1944 fummo impegnati in centinaia di uomini per riparare la linea ferroviaria e il
ponte ferroviario sul fiume Brenta tra Vigodarzere e Padova; inoltre ci fecero coprire le buche causate
dall’esplosione delle bombe aeree. Nel mese di gennaio del 1945, noi lavoratori della Todt di
Vigodarzere e di Cadoneghe fummo impegnati per costruire il nuovo ponte ferroviario in legno di
conifere. Dopo il bombardamento della scuola di Vigodarzere, i tedeschi erano demoralizzati e una
sera, nella prima decade del mese di aprile, dopo lo sfondamento della linea Gotica da parte dell’esercito
anglo-americano, il tenente tedesco addetto al controllo dei lavoratori
non si presentò
all’appuntamento e per noi terminò l’avventura con la Todt”.
La carriola tutta di legno che si usava per il trasporto della terra.
__________
(1) Da altre testimonianze risulta che l’esercito tedesco per ritardare l’avanzata anglo-americana aveva progettato
di allagare una parte del territorio compreso tra il fiume Adige e il Po (Polesine).
68
Prospetto dei 36 prigionieri anglo-americani e dei
10 soldati italiani nascosti nelle famiglie del territorio comunale
di Vigodarzere nel periodo 1942-1945
-
n. 3 furono accompagnati in Svizzera;
n. 9 nascosti sino all’arrivo delle truppe alleate anglo-americane;
n. 5 trasferiti in famiglie di paesi vicini e vi rimasero sino alla Liberazione;
n. 2 arrestati dai militi della Guardia Nazionale Repubblicana di Vigodarzere;
n. 6 arrestati dai Carabinieri;
n. 1 fu trasferito dai partigiani;
n. 1 arrestato dalle brigate nere;
n. 9 trasferiti, dei quali non si ebbero altre notizie.
Nazionalità dei prigionieri.
n.1 Stati Uniti d’America, n. 2 Gran Bretagna e dal Sud Africa n. 33.
I prigionieri provenivano
n. 2 dal campo di prigionia di Chiesanuova (Padova);
n. 1 pilota d’aereo lanciatosi col paracadute ad Arsego;
n. 33 dal campo di prigionia di Pontevigodarzere (Padova).
23 le famiglie del territorio comunale di Vigodarzere che nascosero i prigionieri
inglesi (di cui tre famiglie nascosero anche dei soldati italiani sbandati);
5 gli ex prigionieri inglesi che nei decenni dopo la fine della guerra ritornarono a
Vigodarzere per ringraziare le famiglie che li avevano nascosti.
10 furono i soldati italiani sbandati che trovarono assistenza e protezione nelle
famiglie del territorio comunale di Vigodarzere. Provenivano: n. 5 da Bari, n. 1 da
Cagliari, n. 1 da Como, n. 1 da Reggio Calabria, n. 1 da Milano e n. 1 da Sanremo
(Imperia).
6 le famiglie del territorio comunale di Vigodarzere che nascosero soldati italiani
sbandati dopo l’8 settembre 1943.
4 gli ex soldati italiani sbandati che negli anni dopo la guerra ritornarono a
Vigodarzere per ringraziare le famiglie che li avevano protetti durante la guerra.
69
I PROTAGONISTI E I TESTIMONI RACCONTANO UNA PAGINA DELLA RESISTENZA
DELLA NOSTRA GENTE
Dallo studio di documenti e dalle testimonianze delle persone del territorio di Vigodarzere emerge,
con sorpresa, l’alto numero di prigionieri inglesi e soldati italiani sbandati che dopo l’8 settembre 1943,
trovarono protezione.
Non tutte le famiglie che nascosero i prigionieri o i soldati italiani sbandati sono citate in questo
lavoro; il tempo ha già cancellato una parte della storia di Vigodarzere.
Questi concittadini perchè sfidarono le leggi dell’esercito occupante tedesco con il pericolo costante
di essere internati in Germania? Perché condivisero il “piatto di polenta” con i prigionieri e militari
sbandati ? Sicuramente non lo fecero per ricevere onori o medaglie postume.
I protagonisti sono gente semplice, lontani dalla propaganda politica che, in mezzo a tanti orrori di
una guerra fratricida, seppero esercitare una solidarietà eroica umana e cristiana.
Un sicuro rifugio per tutti.
La testimonianza è resa da Nevio Noventa di Saletto di Vigodarzere (classe 1925), dell’11. 02. 2002.
“Nel 1943 avevo 18 anni ed ero capo famiglia. Mia madre Simonato Gisella era vedova e aveva altre
cinque figlie, le mie sorelle erano tutte più giovani di me.
Abitavamo in una tipica vecchia casa rurale veneta nell’attuale via Busiago a Saletto di Vigodarzere.
Si viveva con i raccolti di tre campi padovani di terreno. Nella stalla si allevava una mucca e una vitella.
L`8 settembre del 1943 apprendemmo la notizia della firma dell’armistizio tra il governo italiano del
presidente Badoglio e gli anglo-americani. Per noi la guerra era terminata.
La sera indossai l’abito da festa e in bicicletta mi recai alla sagra di Vigodarzere; la musica trasmessa
dagli altoparlanti delle giostre era al massimo volume.
La gioia per la ritrovata pace si leggeva nei volti sorridenti di ciascuno. Fra la folla festante che riempiva
il sagrato si vedevano anche visi “foresti”: erano giovani provenienti dal campo di prigionia di
Pontevigodarzere che indossavano vestiti alquanto malandati regalati dalle famiglie della zona. Molti di
quei giovani, dopo la serata trascorsa alla sagra, ritornarono a dormire liberi, nelle loro brande nel
campo di prigionia a Pontevigodarzere, già sprovvisto di guardie, convinte che la guerra fosse
terminata. Il giorno successivo i prigionieri furono avvisati che stavano per arrivare i soldati tedeschi.
Consapevoli che uno dei principali obiettivi delle truppe tedesche d’occupazione era di procedere alla
loro cattura, tutti i cento e oltre prigionieri dell’esercito inglese provenienti dal Sudafrica, a piedi, con
solo quello che indossavano, si allontanarono seguendo gli argini del fiume Brenta, guadabile in diverse
zone. Qualche gruppo, percorrendo delle stradine campestri, arrivò nel nostro paese di Saletto. Vicino
alla mia abitazione, tra la folta vegetazione, notai dei giovani smarriti che sostavano. Mi avvicinai e li
invitai ad entrare nella mia casa. Si sedettero attorno alla tavola della cucina e qualcuno vicino al
focolare. Mia madre scaldò del latte, lo versò nelle tazze e lo offrì ai giovani che lo sorseggiarono
lentamente. Poi ringraziarono e parlando un italiano stentato accennarono alle loro mamme lontane e al
pericolo di finire nei campi di concentramento in Germania.
Semplicemente pensai che per solidarietà cristiana avrei dovuto trovare un sicuro rifugio per tutti.
Tre li accompagnai in bicicletta presso degli zii a Piombino Dese, un quarto, tale Henry Robertze,
d’accordo con mia madre Gisella, lo aggiungemmo alla nostra famiglia.
Lo chiamai “Robi”. Gli assegnai un materasso di “scartossi” (foglie che avvolgono le pannocchie di
granoturco) accanto al mio, in una stanza al piano superiore della casa.
Robi, che era stato fatto prigioniero dal Regio Esercito Italiano tra la Libia e l’Egitto, fu considerato
come uno della nostra famiglia, imparò presto la nostra lingua e socializzò con mia sorella Rina”.
Il piano di fuga “Artero” (Per una migliore comprensione del personaggio vedere a pag. 112).
“La mattina del 1° novembre 1943, Robi ed io, in bicicletta, arrivammo all'Arcella a Padova dove
lasciammo presso un’abitazione di conoscenti le biciclette. Lì incontrammo due partigiani che, per non
farsi riconoscere, vestivano la divisa dei militi della Repubblica di Salò. Con loro, a piedi, ci recammo
alla stazione della ferrovia privata, con il capolinea di fronte all’Istituto Pietro Selvatico nell’attuale via
70
Meneghetti a Padova. Dopo mezz’ora arrivò una staffetta e ci avvisò che il piano era fallito:
ritornammo a casa amareggiati”.
Il Santo e i fascisti.
“A seguito di una spiata, all’inizio dell’anno 1944, la mia abitazione fu accerchiata dalla milizia
fascista. Entrarono in casa e chiesero a mia madre la consegna del nemico inglese; la quale rispose che
in casa c’erano solo i suoi sei figli. Buttarono tutto sottosopra e entrarono anche nella camera poco
illuminata di Robi che era nascosto sotto il materasso. Passata la furia della perquisizione, Robi uscì dal
precario nascondiglio tenendo stretto in mano un santino raffigurante S. Antonio da Padova che nella
furia della perquisizione era caduto sul pavimento sotto il materasso. Robi indicando il Santo a voce alta
esclamò: “E’ stato S. Antonio a salvarmi la vita”.
Restavano i rischi di un’altra eventuale perquisizione. Aiutato da Robi e da mia madre, nel muro
della stanza da letto praticammo un foro che comunicava con il fienile dove si ricavò una nicchia nel
fieno. Il foro fu coperto da un asciugamano che pendeva dal muro.
Nel frattempo, sia per evitare di fare il servizio militare nella repubblica di Salò, sia per sviare i sospetti
di collaborazionismo con i nemici anglo-americani e sia per avere un sostegno economico, mi offrii
“volontario” per il lavoro ausiliario con i tedeschi nell’organizzazione della Todt . Mi misero a lavorare,
per riparare i danni causati dai bombardamenti a Pontevigodarzere, vicino al ponte ferroviario e lungo
la ferrovia”
La “cicogna” incominciò a volare.
“Mia sorella non restò indifferente agli sguardi di Robi. In seguito si accorsero che una nuova vita
stava per sbocciare formando una nuova famiglia.
Questo fu motivo di gioia ma anche di trepidazione perché mia sorella ebbe una gestazione difficile.
Robi non usciva di giorno, ma solo a notte inoltrata. La vigilanza dei fascisti della zona si era
intensificata in modo evidente”.
Convocato nella sede delle brigate nere di Ponte di Brenta.
“Una mattina stavo lavorando per la Todt, vicino la stazione ferroviaria di Ponte di Brenta, un
agente delle brigate nere m’invitò a recarmi al presidio perché il tenente N. P. mi aspettava.
Gli era arrivata voce che in casa nascondevo un inglese. Mi interrogò e gli risposi: “Se a casa mia c’è un
prigioniero inglese, perché non viene a prelevarlo? ”. Arrabbiato per la mia mancata collaborazione mi
chiuse in uno stanzino e a sera inoltrata mi lasciò libero”.
Il cane e le brigate nere.
“Le precauzioni adottate non furono sufficienti; a seguito delle solite spiate, ci fu un’altra
perquisizione. Questa volta indossavano la divisa delle brigate nere ed erano armati di mitra.
La presenza degli estranei fu subito segnalata dal cagnolino meticcio di guardia, che abbaiò
rabbiosamente. Robi passò per lo stretto foro ricavato nel muro della stanza, abbassò l’asciugamano ed
entrò in quella nicchia predisposta nel fienile. Le brigate nere entrarono in casa violentemente, avevano
gli occhi spiritati: urlando e bestemmiando chiedevano la consegna del nemico inglese, alternavano
minacce di fucilazione di tutta la famiglia, comprese le bambine, con le minacce della deportazione in
Germania. Mia madre, con eccezionale controllo ripeteva che in casa non c’era nessun estraneo;
rovesciarono i letti e gli armadi con furia devastatrice, ma non sollevarono l’asciugamano steso sopra il
foro del muro. Robi e la mia famiglia evitarono la vendetta nazi-fascista. Le mie sorelle, spaventate,
poco dopo smisero di piangere, si asciugarono le lacrime e assieme rimettemmo a posto la casa” .
La Liberazione con il passaggio delle truppe anglo-americane.
“Dopo la Liberazione da parte dell’esercito anglo-americano Robi si presentò subito al comando
inglese. Rina e Robi celebrarono il loro matrimonio nella chiesa di Saletto il 21 luglio 1945 officiato dal
parroco don Antonio Moletta.
Il giorno 20 del mese di settembre 1945 presso la famiglia Noventa nacque, assistita da una levatrice,
Graziella Helena Antonietta Robertze. Puerpera e neonata erano in ottime condizioni di salute.
71
Graziella fu battezzata nella chiesa di Saletto il 30 settembre 1945. Robi prima fu battezzato dal parroco
don Antonio Moletta e poi, a Padova, fu cresimato dal vescovo Agostini. Alla fine d’ottobre 1945, Robi
con la moglie Rina e la figlia Graziella, si trasferirono in Sud Africa. La famiglia aumentò con la nascita
di un altro figlio. Robi e la moglie ritornarono a Saletto nel 1950 e nel 1974. Ora vivono a Joannesburg
con i figli Graziella, Nevio, Sandro e quattro nipoti (1)”.
(Su segnalazione di Teresa Berto Pegoraro).
(1) Testimonianza resa da Artemio Parancola classe 1922, Saletto di Vigodarzere, 3 giugno 2005:
“Robi terminata la guerra ritornò in Sud Africa e trovò lavoro come impiegato nelle ferrovie dello Stato. Scoperta
la sua conversione al cattolicesimo fu licenziato dai protestanti e successivamente lavorò per 12 anni come autista
di camion per il trasporto dei lavoratori di colore nelle miniere”.
Nella foto del 1945: la famiglia Robertze
a Saletto di Vigodarzere. Prima della
partenza per il Sud Africa. Da destra:
l’ex prigioniero Robertze Henry, la figlia
Graziella nata in via Busiago a Saletto di
Vigodarzere il 20 settembre 1945 e la
moglie Rina Noventa. (Collezione Nevio
Noventa).
Nevio Noventa, che nascose il prigioniero Robi e soccorse molti
altri, acccanto la moglie Laurina Cavraro.
(Foto del 2003).
72
Saletto di Vigodarzere - La famiglia di Nevio
Noventa con i parenti. Sedute da sinistra la terza, è
la mamma Gisella Simionato Noventa, la quarta,
Rina Noventa, moglie di Henry Robertze (Robi).
In piedi da sinistra: il quarto, è Nevio Noventa, il
sesto, è l’ex prigioniero Robertze Henry (Robi).
(Collezione di Nevio Noventa, foto del 1974.
Robertze Henry con la moglie Noventa Rina,
scattata a Pontevigodarzere, dove nel 1943,
esisteva il campo di prigionia dei soldati del
Commonwealth.
Notare sullo sfondo i capannoni, ora presenti nel
campo sportivo di Pontevigodarzere, che facevano
parte dell’Autocentro del Regio Esercito Italiano.
(Foto del 1974, collezione di Nevio Noventa.
Il maiale clandestino salvò il prigioniero Pietro Cartens.
La testimonianza è resa da Amelia De Marchi di Vigodarzere (classe 1925), il 29. 05. 2003.
“Nel 1943 abitavo nell’attuale Via Spinetti a Tavo di Vigodarzere. Appartenevo ad una famiglia
composta da mio padre Domenico De Marchi (1882), da mia mamma Emilia Veggiani, dalle sorelle
Argia, Marcella, Antonia, Lucia, e dai due fratelli Giuseppe e Marcello Antonio, detto “Ciccio”. La mia
famiglia proveniva da Caldogno (Vicenza) e conduceva un’azienda agricola di circa 40.000 mq. e
allevava, nella stalla, tre mucche, una vitella e una cavalla che si usava esclusivamente per il lavoro di
preparazione del terreno per la semina. Nell’ultimo piano della casa c’erano il fienile e il granaio.
L’introduzione del controllo dell’annonaria (chiamato anche ammasso obbligatorio), aveva portato a
dei controlli severi nella produzione di cereali, ma anche della carne e del latte prodotto dalle vacche. Il
tutto si compensava con l’obbligo di consegnare una mucca una tantum. Per evitare di consegnare uno
dei nostri animali al foro boario, mio padre, attraverso un mediatore locale (il sig. Zattarin), acquistava
al mercato nero una vacca vecchia e la accompagnava alla macellazione per l’ammasso obbligatorio.
Salvava così le nostre vacche, che noi chiamavamo per nome e alle quali eravamo anche affezionati e
riconoscenti perché ci aiutavano ad arare il terreno, ci fornivano dei vitelli e soprattutto il latte. Vicino
alla casa mio padre aveva costruito una porcilaia di legno di robinia per allevare due maiali. Il primo
maiale era regolarmente denunciato all’annonaria e dopo la sua macellazione, fatta in casa, si doveva
73
consegnare alla macelleria indicata dalle autorità fasciste, la quantità di lardo e di prosciutto gratis; il
secondo maiale non era denunciato per cui si correva il rischio della prigione (1).
Tutti i giorni feriali i poareti, sempre nello stesso giorno settimanale, entravano nel cortile e bussavano
alla porta della nostra casa. A volte l’ultimo arrivato aspettava che l’altro uscisse per chiedere la carità,
che consisteva nel contenuto di un mestolo di legno di farina bianca di mais, versata direttamente nella
bisaccia del povero. La nostra casa era un punto di riferimento anche per le donne bellunesi e quelle da
Claut (Pordenone), che scendevano nei paesi di pianura a vendere la loro mercanzia. Nella gerla
portavano nei nostri paesi arnesi di legno come mestoli, crivelli, rubinetti di legno (cànoe), tutti ricavati
dal legno delle piante di montagna. Arrivavano anche uomini anziani che riparavano ombrelli,
impagliavano le sedie, pulivano i camini, ecc. Alla sera, chiedevano di dormire al riparo dal freddo. Noi
non chiedevamo i loro documenti, ma che ci consegnassero i fiammiferi, perché fumando potevano
incendiare il fienile e la casa. D’estate dormivano nel fienile e d’inverno si sistemavano nella stalla in un
giaciglio di paglia di frumento, riscaldata dal tepore procurato dalle mucche. Prima di coricarsi anche
per loro c’era un bicchiere di vino clintòn, una fetta di salame e una fettina di polenta abbrustolita sopra
le braci del focolare.
Una settimana dopo l’otto settembre 1943, nei campi di mais della zona si nascosero parecchi
prigionieri che noi chiamavamo “gli americani”; erano in realtà soldati dell’esercito inglese provenienti
dal Sud Africa. Si erano allontanati dal campo di prigionia di Pontevigodarzere per evitare che i soldati
tedeschi li catturassero per condurli prigionieri in Germania. Molte famiglie della zona portavano loro
da mangiare. Mio padre mi consegnava un pentolino con della minestra e del cibo e mi ordinava :
“Piccola, va in quel campo di mais e porta da mangiare a Pietro Cartens”. La zona era vicina ai campi
di proprietà di Gregorio Pieretti: anche loro nascondevano due prigionieri inglesi.
Pietro fece confidenza con noi e si lamentava di forti dolori addominali; chiamammo il medico
condotto dr. Paolo Rossi, che era molto disponibile e coraggioso, il quale diagnosticò un’ulcera allo
stomaco. Il medico venne in bicicletta per diversi giorni, guardingo raggiungeva l’ammalato, che
cambiava sempre collocazione; a volte lo raggiungeva nel campo di mais, altre volte lungo il fossato. Per
via endovenosa gli faceva dei flebo. A causa dell’ulcera Pietro richiedeva una dieta particolare, fatta di
patate e latte, di cui mia madre teneva conto.
Poi incominciò a venire a mangiare in casa da noi. A volte andava anche dalla famiglia dello zio
Giovanni De Marchi (classe 1895) che abitava nello stesso edificio.. Pietro dormiva nella stanza di mio
padre; in un letto provvisorio al piano terra, mia madre dormiva in una stanza con noi figlie al primo
piano. Le condizioni di salute di Pietro non miglioravano. Attraverso le conoscenze del medico, si era
deciso di portarlo clandestinamente all’ospedale di Camposampiero per farlo operare allo stomaco”.
Una spiata e i Carabinieri dovettero intervenire.
“Era l’ultimo giorno di gennaio del 1944, alle ore cinque del mattino fummo avvisati dai vicini che
la casa era circondata dai Carabinieri della stazione di Vigodarzere e dai militi della Guardia Nazionale
Repubblicana del governo Mussolini. Mia madre informò Pietro il quale constatata la situazione, salì al
piano superiore, nella stanza delle sorelle, e si nascose tra il paiòn (materasso riempito da brattee delle
pannocchie del mais) e le tavole di sostegno del letto sul quale stavano dormendo le mie sorelle. I militi,
prima di entrare in casa, spararono in aria, alcuni colpi di moschetto; poi iniziarono a perquisire la
stanza dei genitori. Il maresciallo rovesciò tutto, aprì con forza le porte dell’armadio che, mancando
degli zoccoli poggiava su dei mattoni; l’armadio traballò e si rovesciò sul pavimento. L’inglese non si
trovava; perquisirono la camera delle mie sorelle, al primo piano, tolsero la colsara (piumone da letto), le
mie sorelle per il freddo erano andate a letto vestite. Il maresciallo con una torcia elettrica illuminò la
zona sotto il letto, ma vide solo gli orinali, tentò allora di rovesciare il letto, allora gli urlai: “Maresciallo
sono solo delle bambine !”.
Nel frattempo un milite era salito nel granaio, dove scoprì le mezzene di un maiale (era stato macellato
quella stessa mattina) e chiamò tutti a controllare quel ben di Dio.
Sospesero la perquisizione, scesero in cucina ed interrogarono mio padre, che non aveva la bolletta
della denuncia all’annonaria del maiale non denunciato. Mio padre fu arrestato (1) e condotto nelle
prigioni di Vigodarzere”.
74
Mio padre in prigione.
“Nel pomeriggio con mio fratello, ci recammo alla caserma dei Carabinieri per avere informazioni
su nostro padre. Un Carabiniere ci rispose che si trovava ben controllato dentro la camera di sicurezza.
Invece il maresciallo rivolgendosi a me, mi domandò perché mi ero opposta al rovesciamento del letto.
Risposi che tutte le mie quattro sorelle avevano le mestruazioni ed esclamai: “Maresciallo vuole che le
dica anche delle parolacce?”. Accettarono la sporta di viveri destinata a nostro padre perchè non
riuscimmo a vederlo. In seguito fu trasferito nelle prigioni dei Paolotti di Padova. Ci affidammo ad un
avvocato difensore e il processo si tenne dopo 32 giorni. Mio padre, scontata la pena, fu liberato. La
sera stessa della perquisizione, Nevio Noventa portò in bicicletta, presso i suoi parenti, a Piombino
Dese, il prigioniero Pietro Cartens; dopo alcuni mesi con Nevio lo andammo a trovare portandogli una
sporta di viveri: si era ripreso e rimase in quella casa sino al passaggio delle truppe anglo-americane”.
(Su segnalazione di Silvia De Marchi).
__________
(1) Dal “Il Gazzettino di Padova” di sabato 19 agosto 1944:
“Lotta al mercato nero – L’arresto immediato per i reati annonari.
Il Capo della Provincia, data la particolare situazione del momento, che esige l’osservanza più scrupolosa, da
parte di tutti, delle discipline in vigore, e in particolare delle disposizioni agli ammassi dei prodotti agricoli, al
razionamento e all’osservanza dei decreti, constatata una certa recrudescenza delle infrazioni annonarie, che
debbono essere represse e punite esemplarmente; visto l’art. 19 del testo vigente della legge provinciale,
approvata con D. L. 8 marzo 1943 N. 383, decreta:
A datare da oggi, tutti coloro che si rendono responsabili di reati previsti dalle vigenti disposizioni relative alle
disciplina delle produzioni, dell’approvvigionamento, della distribuzione, commercio e consumo dei prodotti
razionati o contingentati, saranno passibili dell’immediato arresto, oltre che della denuncia all’autorità giudiziaria.
A tutti gli organi preposti alla vigilanza è affidata la scrupolosa esecuzione del presente decreto. Il decreto entra
in vigore immediatamente”.
(2) Silvia De Marchi classe 1933, figlia di Giovanni, che abitava accanto all’abitazione di Amelia De Marchi
conferma la deposizione sopra riportata.
Da sinistra Amelia De Marchi e Silvia De Marchi che nascosero Pietro Cartens, il prigioniero con l’ulcera
allo stomaco. (Foto 2003).
75
A sinistra: porcile (staea dei mas-ci), in legno di robinia, in cui venivano allevati due maiali che fornivano la carne per
l’alimentazione delle famiglie degli agricoltori. A destra: la macellazione di un maiale.
Una venditrice di utensili di legno. Provenivano dai paesi del bellunese e da Claut (PN).
76
Liberata dai partigiani dal carcere dei “Paolotti”.
La testimonianza è resa da Pasqualina Adelia De Marchi di Padova (classe 1914) il 02. 11. 2003; ed è
stata scritta dalle nipoti Manuela e Loretta De Marchi.
“I Carabinieri della stazione di Vigodarzere, assieme agli agenti della Guardia Nazionale
Repubblicana, la mattina del 18 settembre 1944 eseguirono una perquisizione nella mia abitazione
ubicata nell’attuale via A. Volta a Saletto di Vigodarzere: constatarono che due letti erano ancora caldi e
trovarono oggetti e documenti dei prigionieri inglesi Tommaso e Santi (1).
Le guardie si sentirono beffate, mi arrestarono e fui reclusa nelle prigioni chiamate “Paolotti” a Padova.
Dall’atto di consegna (conservato presso la biblioteca dell’Istituto per la Storia della Resistenza
dell’Università di Padova) risulta che fui incarcerata il 18 settembre 1944 e che dovevo essere processata
dal tribunale speciale per la sicurezza dello Stato fascista. Per evitare il processo e l’internamento in
Germania, la notte del 12 ottobre 1944 con un abile colpo di mano, i partigiani (comandati da Timante
Ranzato) mi liberarono con altre 22 detenute. Dalla prigione, in gruppo, fummo accompagnate dal
comandante partigiano Timante Ranzato sino nei pressi della chiesa degli Scrovegni, e là ci separammo.
Io, con l’aiuto di conoscenti, raggiunsi Meianiga dove passai la notte. Il giorno successivo ritornai a
casa, per salutare la madre e i familiari e sotto la protezione di Timante Ranzato mi trasferii da una mia
sorella a Camisano Vicentino, sfuggendo così alle ricerche della milizia fascista”
(Su segnalazione di Amelia De Marchi -classe 1925).
__________
(1) I due prigionieri, scappati dalla casa De Marchi appena in tempo, si erano rifugiati nell’abitazione di Nevio
Noventa, che essi conoscevano bene, in quanto erano amici di “Robi”. Nevio Noventa per i prigionieri
Tommaso e Santi contattò Domenico Callegaro, che accettò di nasconderli nella sua abitazione, a Saletto di
Vigodarzere, in via Busiago.
Pasqualina Adelia De Marchi,
fu arrestata perché nascondeva
i prigionieri inglesi Tommaso
e Santi. Fu fatta evadere dal
carcere “Paolotti” a Padova
dai partigiani comandati
da Timante Ranzato
(Foto del 1944).
Fotocopia dell’atto di consegna di Pasqualina
Adelia De Marchi dalla Guardia Nazionale
Repubblicana di Vigodarzere, alla direzione del
carcere “Paolotti” a Padova. (Per gentile
concessione dell’Istituto Veneto per la storia
della Resistenza e dell’età contemporanea della
Università di Padova).
77
Sempre aperta la porta alla Provvidenza
La testimonianza è stata resa da Marcella Callegaro Manganello (classe 1925), Terraglione di
Vigodarzere il 02. 02. 2002.
“Abitavo nell’attuale via Busiago a Saletto di Vigodarzere e con mio padre Domenico e mia madre
Antonia Pasqualon, vivevo in una famiglia numerosa composta anche da tre fratelli e quattro sorelle;
altri due fratelli erano già sposati e vivevano poco lontano da noi. La casa rurale aveva al piano terra la
cucina e il tinello, e le scale di legno per salire ai piani superiori. Al primo piano c’erano le stanze da
letto; all’ultimo piano c’era un ampio granaio per la conservazione delle pannocchie di mais, del
frumento, dei fagioli, ecc. In un edificio vicino c’era la stalla con sopra il fienile. Una notte del mese di
settembre del 1944, si sentì bussare alla porta, mio padre aprì la finestra della sua stanza da letto e una
voce conosciuta bisbigliò: “Sono Nevio Noventa”. Mio padre si vestì rapidamente e uscì. Nevio
proseguì: “Ho da farti una proposta, andiamo in cucina”. Nevio propose: “Ci sono due prigionieri da
nascondere”. Mio padre, raccontando il colloquio qualche giorno dopo disse:“La porta della nostra casa
è sempre stata aperta alla Provvidenza, ai poveri che chiedono la carità, agli arrotini, agli spazzacamini e
agli impagliatori delle sedie che provengono dal bellunese e dai Friuli”. I due prigionieri erano fuggiti
appena in tempo dalla casa di De Marchi Domenico. Il primo prigioniero si chiamava Tommaso, era
molto giovane e alto di statura. Il secondo si chiamava Santi, aveva trent’anni, piccolo di statura e
malaticcio ed entrambi provenivano dal Sud Africa. Tommaso aveva una infezione alla gola e tutto il
collo era gonfio. Mio padre mi mandò nella farmacia di Vigodarzere e il dottor Porra mi preparò delle
bustine contenenti un medicinale; pagai e mantenni il segreto della persona ammalata. Tommaso dopo
qualche giorno guarì. Entrambi i prigionieri furono sistemati nel granaio, in un piccolo locale ricavato
con la costruzione di un muro; l’entrata era sempre mimetizzata con cesti di vimini, con la macchina
sgranatrice delle pannocchie di granoturco e utensili agricoli vari.
Mia madre con un cesto di vimini portava loro da mangiare e con lo stesso cesto portava giù le
urine e gli escrementi dei due rifugiati; preoccupavano soprattutto gli occhi indiscreti di un vicino di
casa il quale era un noto dirigente provinciale fascista. La nostra famiglia fu invitata dalle autorità
fasciste ad ospitare una signora e sua figlia, sfollate da Padova; esse furono sistemate nel tinello ubicato
al piano terra della casa. La loro presenza rendeva più rischiosa la nostra posizione in quanto il marito
di quella sfollata era un graduato dell’esercito della Repubblica di Salò.
Quasi tutte le notti Tommaso e Santi usavano la scala a pioli, che facevano scivolare da una finestra del
granaio, per poi camminare liberi nei campi protetti dall’oscurità. Una notte alcune persone del luogo
notarono delle ombre furtive che vagavano per la campagna. Noi della famiglia sostenevamo che si
trattava di visioni provocate da qualche bicchiere di troppo di vino corbineo o di clintòn.
La signora sfollata udiva degli strani rumori provenienti dal granaio e ci chiese spiegazioni. In un primo
tempo risposi che erano i topi che a volte scorrazzavano anche nel cortile dell’abitazione e altre volte
raggiungevano il granaio per mangiare le nostre riserve
alimentari.
Un pomeriggio eravamo nel cortile; un tonfo che
proveniva dal piano superiore dell’abitazione mise in
allarme la signora. I suoi sguardi indagatori si
puntarono su di me. Presi al volo una bugia e con
voce mesta raccontai: “La nostra famiglia è bersagliata
da una zia morta improvvisamente, senza i conforti
religiosi. In vita aveva avuto un animo cattivo e dopo
morta ci tortura, picchiando notte e giorno le finestre
del piano superiore e il solaio del granaio. Abbiamo
chiamato il cappellano don Beniamino Guzzo a
benedire e ad esorcizzare gli ambienti, ma niente.
Forse se fosse venuto il parroco don Antonio
Moletta? Chissà!” . Un rimedio sicuro c’èra: recitai ad
alta voce una preghiera e i rumori cessarono. Lo
stupore della signora fu grande e rimase sbigottita. La
Macchina a manovella per sgranare le pannocchie
nostra casa non subì perquisizioni. Avevamo tanta
di mais.
78
paura che i fascisti ci mandassero le brigate nere. Ancora adesso, quando racconto questi avvenimenti,
mi viene la pelle d’oca. I nostri ospiti una sera d’inverno partirono per raggiungere la Svizzera. Mio
padre aveva loro consegnato una piccola somma di denaro e li aveva affidati ad un’organizzazione
umanitaria. Dopo una settimana Tommaso ritornò: il piano di fuga era stato intercettato. Ci
assicurarono che Santi aveva raggiunto la Svizzera, ma il suo cuore già malato non resse”.
La casa fu invasa dalle truppe tedesche in ritirata.
“Fu, probabilmente, venerdì 27 aprile 1945, alle prime luci dell’alba, che il cortile fu invaso da un
folto gruppo di soldati tedeschi armati. A seguito condussi Tommaso nella stanza dove dormiva la
nonna Colomba, cieca, e lo nascosi sotto il suo letto.
I tedeschi stanchi, pretesero di entrare nelle stanze da letto per dormire, volevano occupare anche la
camera da letto della nonna Colomba. Davanti alla porta chiusa c’ero io di guardia e dicevo ai soldati
che non si poteva entrare in quella stanza, perché vi era una vecchia nonna cieca che aveva tanta paura.
Li supplicai: “Per favore non fatela morire di spavento”. I tedeschi nel pomeriggio razziarono la casa di
tutto quello che c’era da mangiare, prelevarono le nostre biciclette, un piccolo carro agricolo, una vitella
e poi si allontanarono. La domenica 29 aprile, nel pomeriggio, per la strada del Terraglione passò
l’ultimo gruppo di tedeschi armati i quali, dopo il ponte del torrente Muson, uccisero cinque partigiani.
Alcuni giorni dopo mi feci prestare dai parenti due biciclette e accompagnai Tommaso, finalmente
libero, a Curtarolo, dove fummo ricevuti con entusiasmo e riconoscenza dal presidio delle truppe
alleate anglo-americane. Dopo una settimana, mia sorella ed io, sempre in bicicletta, accompagnammo
Tommaso alla stazione ferroviaria di Padova e tramite un camion militare, raggiunse la sede delle truppe
inglesi. In seguito dal Sud Africa inviò delle lettere. Nell’anno 1969 Tommaso con la mamma e con la
moglie vennero a trovarci, a Saletto, per salutare e ringraziare.
Un giorno Tommaso e la moglie si recarono al sacrario di Redipuglia a rendere omaggio alla salma
del papà di Tommaso, ucciso nella guerra 1915-18: era stato un combattente dell’esercito inglese nostro
alleato nella prima guerra mondiale. Il figlio di Tommaso (si chiamava anche lui Tommaso) venne a
trovarci nel 1973 assieme alla fidanzata e alcuni amici di una comunità cattolica del Sud Africa. Alla loro
partenza, come nelle favole, si piansero lacrime di gioia”.
(Su segnalazione di Bruno Callegaro, classe 1925, Terraglione di Vigodarzere e da don Marcello Callegaro,
sacerdote).
A sinistra: Marcella Callegaro Manganello. A destra: la sua abitazione, dove, furono nascosti Tommaso e Santi in via
Busiago a Saletto (Foto 2003).
79
Timante Ranzato iniziò la Resistenza aiutando i prigionieri inglesi.
Testimonianza resa da Gianni Ranzato (classe1934) Meianiga di Cadoneghe (Padova) il 30. 01. 2004.
“Nel 1943 abitavo all’inizio dell’attuale Via Perarello a Terraglione di Vigodarzere.
Mio padre si chiamava Timante, e “Gianni” era il suo nome di battaglia, era un idealista e voleva
un’Italia libera e democratica. Anche mia madre Felicita Vieno (1) era una partigiana.
Il 10 settembre 1943 mio padre si recò nel campo dei prigionieri di guerra inglesi, situato a
Pontevigodarzere, e ritornò nella nostra abitazione con tre sudafricani di nome Auxi, Ronny e Denis i
quali rimasero nascosti nella nostra casa di Terraglione. Per il costante pericolo di rastrellamenti, i tre
prigionieri nel periodo del Natale 1943, furono trasferiti ad Arsego (Padova) dove rimasero sino al
passaggio dell’esercito di liberazione anglo-americano. Mio padre aveva frequenti contatti con il
Comitato Regionale di Liberazione e aiutato da volontari riunì molti prigionieri inglesi i quali, con vari
mezzi, raggiunsero Mestre e furono affidati a partigiani del luogo. Altri, invece trovarono protezione
nelle famiglie dei paesi vicini. Nei primi mesi del 1944 la mia famiglia dovette trasferirsi
clandestinamente a Cocche di Arsego; nell’occasione mio padre, fornendo un nome storpiato, si era
fatto rilasciare un libretto di lavoro dalla Todt (organizzazione tedesca) e convalidato con il timbro di
“invalido del lavoro”. Mio padre era coraggioso e abile comandante di brigata partigiana, si distinse
quale ottimo organizzatore (2) (3)”. Ai primi giorni del mese di febbraio del 1945 agenti delle brigate
nere del presidio di Campodarsego bruciarono la casa dei miei nonni di Terraglione con tutto quello
che conteneva. I miei nonni trovarono ospitalità nell’abitazione di Giuseppe Bano e figli Aldo e
Antonio: era una casa colonica situata a nord della chiesa di Terraglione. Timante Ranzato il 27 aprile
1945 (tre giorni prima del passaggio delle truppe anglo-americane) a Pieve di Curtarolo fu ferito
mortalmente da piombo sconosciuto. Il 20 maggio 1973 in una solenne cerimonia svoltasi nella
Caserma Pierobon, a Padova, al fratello Guido venne consegnata, alla memoria, la medaglia d’argento al
valore militare. Timante Ranzato riposa nella cappella dei partigiani del cimitero di Vigodarzere”.
La presenza dei prigionieri in casa di Timante è confermata anche dalla sig.ra Maria Callegaro Dario
(classe 1928) testimonianza resa il 10 /12/2002: “Mi recavo in casa di Timante Ranzato, la moglie
faceva la sarta ed io la sua aiutante apprendista. Più volte vidi in quella casa dei prigionieri inglesi che si
alimentavano”
(Su segnalazione di Luciano Marangon e Nevio Dario).
__________
(1) A fine della guerra a Felicita Vieno è stato consegnato il Certificato di Patriota anche per l’azione di aiuto
fornito ai prigionieri inglesi contribuendo validamente alla liberazione dell’Italia e alla grande causa di tutti gli uomini liberi
firmato dal Comandante Supremo Alleato Alexander.
(2) Dal diploma di Medaglia d’Argento al valore militare di Timante Ranzato.
(3) Testimonianza di Nevio Dario: “Nell’autunno del 1944 Timante Ranzato ritornava da Padova e nel mezzo
della passerella di Pontevigodarzere incrocio il comandante delle brigate nere che abitava presso la zona della
Castagnara di Cadoneghe. Entrambi impugnavano con la mano destra dentro la tasca dei pantaloni una pistola.
I loro sguardi si incrociarono riconoscendosi, ma nessuno dei due sparò”.
80
Gianni Ranzato, è testimone
dell’attività partigiana di suo
padre Timante Ranzato,
che agiva con il nome di
battaglia “Gianni”.
(Foto 2004).
Libretto di lavoro dell’organizzazione dei lavoratori ausiliari
italiani dell’esercito tedesco (Todt ) rilasciato a Timante
Ranzato, che si era fatto dichiarare “invalido del lavoro” e
aveva fornito un cognome alterato.
Diploma con medaglia d’argento al Valore Militare alla memoria
del comandante partigiano Timante Ranzato.
(Documenti forniti da Gianni Ranzato).
81
Dentro la barchessa un prigioniero inglese.
La testimonianza è stata resa da Giuseppe Tognon (classe 1924), Saletto di Vigodarzere il 17. 08. 2003.
“Da Pola, prigioniero dei tedeschi, mi stavano trasportando in Germania su di un carro ferroviario.
Un soldato italiano riuscì a schiodare delle tavole del carro e noi tutti ci buttammo giù dal treno. Arrivai
a casa alla fine di settembre 1943 e i miei genitori, Sante e Valentina Nalesso, sotto una piccola e
precaria barchessa con il tetto in paglia, che serviva per proteggere gli arnesi e gli attrezzi da lavoro,
nascondevano un prigioniero inglese; solo mia madre portava da mangiare al prigioniero, nascosto
durante il giorno. Da lì usciva qualche volta, di notte.
Lo incontrai poche volte, perché la mia libertà durò poco. La milizia fascista perquisì l’abitazione,
ma non guardò nel piccolo deposito attrezzi, dove era nascosto il prigioniero inglese. Arrestarono me
perché non mi ero arruolato nelle nuove formazioni militari della Repubblica Sociale Italiana.
Fui portato a Sassuolo (Modena) e poi trasferito in un accampamento militare ad Abano Terme. La
prima domenica dopo Pasqua del 1944, riuscii ad eludere la sorveglianza delle guardie tedesche e
ritornai a casa. Per prudenza mi ero trasferito dallo zio materno Antonio Nalesso. Alle cinque del
mattino di lunedì due graduati tedeschi perquisirono la casa e la cantina (anche in questa perquisizione
tralasciarono di controllare la barchessa), non trovandomi portarono con loro mio padre Sante.
Fu accompagnato nel solito accampamento ad Abano Terme, ma dopo qualche giorno il parroco di
Abano visitò il campo e riuscì a convincere il comandante a rilasciarlo. Anzi la milizia lo accompagnò a
casa, mio padre però si era con loro impegnato di riportarmi nella caserma della milizia. Quella stessa
sera mio cugino Dino Tognon (chiamato Bai Battiston) mi caricò sul telaio della bicicletta e mi condusse
dal cugino materno Cesare Bardella a Camisano Vicentino. Mi nascosero in una camera sotterranea
ricoperta da un soffitto di cotica d’erba che si trovava in mezzo ad un terreno coltivato a prato perenne.
Assieme ad altri quattro rimasi quasi un anno sepolto vivo. Mio padre nel marzo 1945 si recò dal parroco
di Saletto per avere dei consigli: egli suggerì di iscrivermi alla organizzazione tedesca Todt. Nel
pomeriggio del 28 aprile i soldati tedeschi delle SS eseguirono l’ultimo rastrellamento e nello stesso
tempo furono uccisi il cappellano don Beniamino Guzzo e il cittadino Guido Munaron; gli stessi soldati
mi sorpresero nel cortile di casa e mi chiesero: “ Lavori per la Todt?”. Con il cuore in gola tirai fuori dal
taschino il tesserino attestante che lavoravo per la Todt e glielo mostrai. Mi ordinarono: “Va a lavorare
sul ponte ferroviario”. Si allontanarono senza guardare dentro la barchessa, dove era nascosto il
prigioniero inglese. Al passaggio delle truppe inglesi, il prigioniero, finalmente libero, fu portato a
Limena, per unirsi alle truppe inglesi. Nel 1946 ricevemmo una lettera dal comando inglese, con un
assegno di lire 12.000 per l’aiuto dato al prigioniero inglese.
(Su segnalazione di Antonio e Fidenzio Ranzato).
Giuseppe Tognon
nella cui famiglia fu nascosto
un prigioniero inglese.
(Foto 2003).
82
Nascosti nei pressi della Certosa.
Testimonianze dei fratelli Desiderio e Bruno (Mario) Dorio. Ecco quella di
Desiderio Dorio (classe 1930), di Vigodarzere il 18. 02. 2002 .
“Mio padre Luigi lavorava come bracciante e raccoglieva la carta usata per Festi Dionisio, piccolo
imprenditore che aveva il deposito nei pressi di Chiesanuova.
Dopo l`8 settembre1943 il titolare chiese a mio padre di nascondere e ospitare due sudafricani
dell’esercito inglese per evitare che finissero nei campi di concentramento tedeschi. Mio padre
acconsentì e ritornò dal lavoro con i due prigionieri provenienti dal campo di prigionia situato a
Chiesanuova di Padova. Si chiamavano Angelo e Cristoforo, erano fratelli e furono subito nascosti
presso l’abitazione di Virginio Frison nell’attuale edificio rimodernato situato nell’attuale in via G.
Pascoli, vicino al capitello di S. Antonio a Vigodarzere.
Fu fatto un ricovero, di rami e canne di mais, vicino ad un fosso in mezzo ai campi; a turno,
portavamo loro da mangiare con la famiglia Frison. Cristoforo soffriva di disturbi cardiaci; più volte
l’ho accompagnato, dal medico condotto dottor Paolo Rossi. Percorrendo l’interno dell’argine del
fiume Brenta e, per non fare notare la presenza estranea, si camminava entrambi avvolti nello stesso
tabarro.
La presenza dei prigionieri era molto pericolosa perché i fascisti controllavano il territorio, per cui
niente doveva essere portato a conoscenza dei vicini di casa.
Una domenica con le amiche e gli amici della “Certosa” organizzammo una festa per il compleanno di
Angelo, si ballò nella cucina e nell’ingresso della mia casa, si cantò anche: “Fora, fora tutti / che noialtri
della Certosa non abbiamo paura / fastidi manco ancora”.
Due sessole di farina.
“Il periodo era molto triste e non c’era niente da mangiare. Un pomeriggio mi recai nel sagrato della
chiesa di Vigodarzere, esposi la situazione all’arciprete don Giulio Rettore che mi rispose: “Neppure io
ho da mangiare”. Poi ci ripensò; mi fece entrare in canonica, prese il mestolo di legno e raschiò il fondo
della madia e mi consegnò le ultime due sessolate di farina bianca di granoturco per fare la polenta.
Alcuni mesi prima dalla Liberazione mia madre, Vettore Rosa Dorio, e Isa, moglie di Virginio Frison,
mentre stavano parlando sedute fuori casa, videro arrivare una camionetta con quattro graduati tedeschi
e diedero l’allarme. I due prigionieri si nascosero sotto il mio letto (cavalletti e traverse di legno con
pagliericcio de scartossi). Si fermarono davanti alla mia casa e mi chiesero dove portava la stradina di
campagna. Risposi che terminava vicino ad un fosso, ma non ci credettero e avanzarono per cento
metri sin dove la strada terminava. In quel punto fecero una breve sosta e poi in retromarcia, rifecero la
stradina di campagna, ripassando di fronte alla mia casa; noi eravamo ancora fuori quasi a rassicurarli.
Ripresero la strada principale e si allontanarono definitivamente. Qualche giorno dopo il titolare di mio
padre, Dionisio Festi, tramite un’organizzazione umanitaria, fece partire Angelo per la Svizzera.Tornato
a casa in Sud Africa ci mandò un messaggio: “Angelo a casa, grazie”.
Lettera di ringraziamento
inviata alla famiglia Dorio dal
Comando Militare alleato del
Mediterraneo.
83
L’affresco sulla lunetta della facciata della chiesa di Vigodarzere raffigura S. Martino, mentre taglia il mantello per fare
a metà con un povero. Sullo sfondo la Certosa di Vigodarzere. L’affresco è opera del pittore Meneghetti ed è stato eseguito
nel settembre del 1978. Il precedente affresco, con lo stesso soggetto, fatto nel 1941, era stato cancellato dalle intemperie.
Nascosti nei pressi della Certosa.
Testimonianza resa da Bruno (Mario) Dorio (classe 1925), di Vigodarzere del 3 maggio 2004.
“Prima e durante la guerra abitavo con i miei genitori e con i miei fratelli Desiderio e Ernesta (negli
anni dal 1910 al 1923 morirono, ancora piccoli, 5 fratelli) nell’attuale via Giovanni Pascoli a Vigodarzere
in una modestissima casa di proprietà dei fratelli Frison figli di Antonio. Mia madre comprava a credito
i pochi alimenti. In poco tempo il debito era notevolmente aumentato. Mio padre fin dalla prima guerra
mondiale era mutilato, ci vedeva con un occhio solo. Nel 1939 lavoravo come garzone nella macelleria
di Giuseppe Bardella a Saletto di Vigodarzere (il proprietario del locale era Francesco Giacomelli); il
cappellano di Saletto, don Beniamino Guzzo, quando veniva a comprare della carne avviava delle
conversazioni con il gestore della macelleria ed esprimeva le sue vive preoccupazioni per il pericolo di
una guerra. Nella casa rurale di Guerrino Frison nel 1942, andavo alla sera per il filò (1) con alcuni
abitanti della zona della Certosa. Ne ricordo alcuni: Augusto Marangon, Cattelan Angelo e Saretta
Giuseppe; parlavamo degli avvenimenti., giocavamo a carte e si beveva qualche bicchiere di vino ma
anche di graspia (2).
Dopo l’8 settembre 1943 ci riunivamo in una stanza dell’abitazione della famiglia dei fratelli Frison, figli
di Antonio. Alle ore 23.00 smettevamo di giocare a carte e ascoltavamo Nicolò Carosio che da Radio
Londra ci informava dell’andamento della guerra e trasmetteva i messaggi per i partigiani italiani.
Nell’inverno 1943-44 al gruppo del gruppo del filò si aggiunse Carmelo Frison e Giovanni Griggio
chiamato Rei. Le leggi permettevano l’ascolto solo delle emittenti della Repubblica Sociale Italiana per
cui si doveva essere estremamente cauti ad ascoltare Radio Londra.
Rei e suo cugino Guerrino Griggio erano nati e cresciuti in via Italo Bordin a Meianiga di Cadoneghe.
Ambedue erano bravi meccanici, abituati a vivere in mezzo ai motori ma Rei era il più portato verso la
meccanica e le macchine in genere le esaminava cercando di comprenderne il funzionamento. Guerrino
era un buon conoscitore di motori ma comprendeva bene anche il valore del denaro: sapeva ben
spendere e comprare con intelligenza. Egli aveva lavorato dal 1929 sino al 1939 in una fabbrica
esistente all’Arcella (Ona), che costruiva ricambi per motori, poi lavorò alle officine Breda dal 1940 al
1942. Rei, invece lavorava da Pinton detto Cagnetta che costruiva cassette di legno per la Stock ed era
addetto alla manutenzione delle macchine. Un giorno Guerrino subì un incidente sul lavoro e si ferì
abbastanza seriamente il dito di una mano tanto che ebbe una modesta indennità. Dopo, varie
84
valutazioni, Rei e Guerrino decisero di impiegare quella somma per mettersi in proprio e di acquistare
un tornio e un trapano danneggiati ma riparabili. Li resero operativi e si misero subito a lavorare in una
stanza di 4 x 4 metri, ricavata nell’abitazione di Rei vicino alla Castagnara di Meianiga. Costruivano
macchinette per affilare le lame delle seghe a nastro impiegate nella lavorazione del legno. Fui preso
come bocia de botega, ma già dopo poco tempo lavoravo da solo in quella piccola officina; quasi sempre
di notte perché di giorno mancava la fornitura della corrente elettrica. Nel 1942 fu costruito a
Pontevigodarzere il campo di prigionia per i soldati sudafricani. Ogni mattina alle ore 8.00 i prigionieri
inglesi, in colonna e in fila per quattro, scortati dalle guardie del Regio Esercito Italiano, andavano a
lavorare nell’Autocentro (3) che si trovava dove ora c’è il campo sportivo di Pontevigodarzere, terreno
ancora ora di proprietà del Demanio dello Stato.
Dopo l’armistizio, i prigionieri si allontanarono e domandarono aiuto alla popolazione. Mio padre Luigi
lavorava a Porta Savonarola a Padova e raccoglieva e imballava la carta straccia per conto di Dionisio
Festi. Una sera ritornò dal lavoro con due fratelli prigionieri inglesi, fuggiti dal campo di prigionia di
Chiesanuova (Padova) a seguito di una richiesta del titolare Dionisio Festi. Uno si chiamava Angelo e di
notte riparava nella casa rurale di Gino Vettore nell’attuale via Vittorio Veneto a Vigodarzere, l’altro si
chiamava Cristoforo. Entrambi originari da Johannesburg capitale del Sud Africa, colonia inglese
(Commonwealth). Un giorno Cristoforo scottava dalla febbre; chiamammo il medico che venne solo di
notte perché alla sera c’era stato un rastrellamento.
Un delatore aveva informato G. P. appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana che in casa
Dorio erano nascosti dei prigionieri inglesi. G. P. proprietario del negozio di alimentari dove mia madre
andava a comperare qualche alimento, evitò di proposito la perquisizione della nostra casa.
Una domenica pomeriggio si riunirono presso la mia abitazione altri 10 prigionieri inglesi nascosti nelle
famiglie del territorio. Mio padre ed io rimanemmo fuori dalla casa di guardia. Mio padre in ansia ogni
tanto sussurrava: "Se arrivano i nazi-fascisti ci prendono e ci fucilano tutti”.
Una domenica Dionisio Festi con la moglie e i figli vennero a trovarci; per salutare i prigionieri
inglesi ci portarono dei dolci e alimenti che si trovavano solo al mercato nero.
Mio padre cominciò a lavorare in nero nella fabbrica di stracci Benoni, vicino all’Aeronautica Militare.
Un giorno un camion in retromarcia gli schiacciò il torace, costringendolo ad una lunga convalescenza.
Mia madre comprava a credito i pochi alimenti. In poco tempo il debito era fortemente aumentato.
Giovanni Peruzzo proprietario del negozio di alimentari (ubicata di fronte all’attuale capitello della
Sacra Famiglia in via Roma a Vigodarzere) continuò a fargli credito. Benoni compensò il danno subito
da mio padre con un biglietto da mille lire, che servì a saldare il debito a Peruzzo. Una sera,
improvvisamente, Cristoforo salutò i miei genitori e ci informò che si recava con i partigiani sui Colli
Euganei. Emozionato nel salutarlo, mi si riempirono gli occhi di lacrime.
Angelo, su consiglio dell’ex datore di lavoro di mio padre Festi, fu condotto in Svizzera attraverso una
organizzazione umanitaria. Terminata la guerra inviai una lettera a Cristoforo e un’altra ad Angelo ad
Johannesburg, ma solo quest’ultimo rispose: “Tutto bene sono ritornato a casa”.
Il 28 agosto 1944 il ponte stradale di Pontevigodarzere fu gravemente danneggiato dall’esplosione di
alcune mine poste dai partigiani.
Il 31 agosto durante il primo bombardamento aereo, mi nascosi sotto il tornio e qualche settimana
dopo l’officina fu trasferita a Saletto di Vigodarzere nello stanzone ex-porcilaia dei fratelli Gomiero,
proprietari del molino. Il 20 di aprile del 1945 i soldati tedeschi in ritirata occuparono la Villa Gomiero
e anche lo stanzone officina. Sicuramente vi dormirono perché quando ritornai trovai il pavimento
dello stanzone ricoperto di molta paglia.
Al termine della guerra l’officina fu trasferita nell’ex-Casa del fascio a Vigodarzere. Nel 1947 mia madre,
Vettore Rosa Dorio, ricevette dal Comando Supremo delle forze Alleate del Mediterraneo un diploma
di gratitudine, con allegata una modesta somma di denaro, che servì per acquistare la prima bicicletta”.
__________
(1) Veglia nella stalla.
(2) Bevanda ottenuta aggiungendo acqua alle vinacce.
(3) Caserma con un grande deposito di pezzi di ricambio e con un’officina di riparazione per camion militari del
Regio Esercito Italiano.
85
A sinistra: Bruno (Mario) Dorio (Foto del 2004.
A destra,Bruno Dorio in bicicletta in centro a Padova; la bici fu
acquistata con il denaro allegato al diploma (Collezione di Bruno Dorio, foto del 1947).
Come agnelli seguirono il milite della G.N.R. .
Testimonianze rese da Armando Pasqualotto (classe 1926), e da Ines Bruna Maddalena (classe 1929), di
Saletto di Vigodarzere il 23. 10. 2003.
“Erano gli ultimi giorni del mese di ottobre 1943. Giovanni e Giorgio, prigionieri inglesi sudafricani,
allontanatisi dal campo di Pontevigodarzere, si erano rifugiati nella zona dell’attuale via Capitello, a
Saletto di Vigodarzere. Erano alimentati a turno dalle famiglie e dormivano nei fienili.
Allora abitavo in un lungo edificio dove vivevano tutte le famiglie dei “campanari di Saletto (1)” e altre
imparentate con noi.
I due prigionieri avevano simpatizzato con le mie cugine Fanin e Gina.
Quella sera, mia madre Emilia Rizzo aggiunse due posti a tavola; terminata la cena, entrarono in cucina
le due cugine e colloquiavano vivacemente con i prigionieri. Giovanni e Giorgio parlavano
stentatamente la nostra lingua, ma sufficiente per dialogare.
Qualcuno bussò alla porta d’ingresso. Tutti zitti, rimanemmo con il respiro sospeso; la porta che
neanche di notte si chiudeva con la chiave, fu spinta ed aperta: era un nostro vicino di casa,
appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana (ex- milizia fascista) e, pistola in pugno, ordinò ai
due prigionieri di seguirlo.
Non tentarono di scappare e, come agnelli, a piedi furono condotti presso la sede del fascio a
Vigodarzere. Mia moglie Ines Maddalena, che con la sua famiglia gestiva l’osteria “Da Metrio” (si
trovava nell’attuale edificio dove ora c’è il giornalaio e la pasticceria in via G. Marconi a Saletto), ricorda
che a lungo gli avventori dell’osteria descrivevano e biasimavano questo avvenimento, come indice della
precaria e pericolosa situazione dei nostri paesi. Dei due prigionieri inglesi non si seppe più nulla”.
__________
(1) Erano incaricati a far suonare le campane del paese di Saletto tirando manualmente le corde.
86
Pietro ci aiutò a vendemmiare.
Testimonianza resa da Mario Frison (classe 1924), di Vigodarzere il 31. 01.03.
“Dopo la sagra di Vigodarzere dell’8 settembre 1943, proveniente dall’argine del fiume Brenta,
all’alba arrivò nella casa dei fratelli Frison, nell’attuale via G. Pascoli, era un prigioniero inglese che
aveva lasciato il campo situato a Pontevigodarzere; entrò nel cortile e chiese a mia madre Rosa Griggio
protezione e da mangiare.
Mia madre lo accompagnò nella cucina e gli preparò un’abbondante colazione con polenta, pancetta e
frittata. Parlava stentatamente l’italiano, ma riuscì a farsi comprendere.
C’era anche da vendemmiare, e appena l’uva si asciugò dalla rugiada, la famiglia e gli amici diedero
inizio alla vendemmia.
“Piero”, l’inglese, alto e robusto, prigioniero del Regio Esercito Italiano, appartenente all’esercito del
Commonwealth, di sua spontanea iniziativa si offrì a portare i cesti dell’uva e a svuotarli nel tino già
sistemato sopra un carro agricolo con le ruote di legno.
Piero verso sera si mise i calzoncini corti, entrò nel tino e pigiò l’uva merlot, la nuova varietà che per
primo mio padre Antonio aveva coltivato nel 1935. Per dormire gli fu dato un locale adiacente alla stalla
del cavallo. Dopo quattro mesi fummo informati che la milizia fascista l’aveva individuato. Gli
preparammo un capanno ai margini di un campo, vicino ad un fosso, dove dormì alcune notti. Noi
non eravamo tranquilli. Fummo avvisati che era prossimo un rastrellamento.
Di sera, in bicicletta, assieme al fratello Luigi, lo accompagnai a Tavo presso la famiglia di Luigi
Salviato, in precedenza contattata da mio fratello Angelo. Pietro ritornò a casa mia nel 1950, per
salutare mia madre Rosa Griggio e tutti noi”.
Mario Frison che nascose nel 1943 il
prigioniero sudafricano “Piero”. (Foto 2003).
Vendemmia 1943:
La ua vegnèa messa nel tinasso e pestà coi piè.
Un’importante collaborazione da Saletto.
Nel marzo del 2003 fui informato che Ugo Salviato, abitante a Saletto, manteneva contatti telefonici
con la Teresina sua parente. Per la stesura della presente memoria, il 03. 04. 2003 interpellai il Sig. Ugo
il quale telefonò alla signora Teresina in Sud Africa, richiedendo particolari e documenti. Dopo alcuni
giorni gli arrivò con una lettera via posta elettronica la fotografia dei coniugi Salviato-Johannes. Da
quella relazione si rilevava che il prigioniero inglese si chiamava Petrus Johannes Janse van Rensburg
matricola n. 198170, nato il 27 agosto 1912 a Nylstroom, Transvaal, (Sud Africa). Era stato fatto
prigioniero nel 1943 a Tobruk (Libia) nel nord dell’Africa e portato nel campo di prigionia di
Pontevigodarzere. Per alcuni mesi aveva trovato ospitalità presso una famiglia di Vigodarzere e in
seguito presso la famiglia di Luigi Salviato a Tavo. Il parroco di Tavo, don Gioacchino Donazzan,
andava spesso a trovarlo e lo informava sull’andamento della guerra. In quella lettera si evince che tra
Petrus e il parroco intercorreva un’amicizia fraterna.
87
Nel maggio o giugno del 1945, il sergente Petrus fu rimpatriato in Sud Africa e mantenne con
Teresina Salviato una corrispondenza dal 1945 sino al 1947.
Teresina, al compimento dei 21 anni, partì con una nave e sbarcò in Egitto, da dove proseguì il viaggio
in aereo, raggiungendo Petrus a Pretoria, in Sudafrica. L’avventuroso viaggio era durato quasi un mese e
Teresina aveva i soldi solo per il viaggio d’andata. Teresina e Petrus si sposarono il 23 luglio 1947.
Nel 1948 in Sud Africa i coniugi ebbero una figlia, che chiamarono Engela Janse. Ritornarono a Saletto
per rivedere i parenti nel 1950.
Nel 1951 ebbero un altro figlio, cui diedero il nome di Andries Henderik.
La famiglia si trasferì a Johannesburg. Petrus fece per 38 anni servizio nella polizia di Stato, terminando
con il grado di capitano. I coniugi Petrus e
Teresina ritornarono a Saletto altre due volte.
Petrus morì il 20 maggio 1988. Ora Teresina
vive a Johannesburg con la figlia e il figlio e
con quattro nipoti. È in buona salute, tanto
che conta di ritornare in Italia per una visita
ai suoi parenti.
(Segnalazione di Antonio Broetto di Tavo di
Vigodarzere del 15. 02. 03)
Teresina Salviato con il marito
Petrus Johannes Janse van Rensburg.
Foto scattata nello studio fotografico
Tagliapietra a Padova nel 1950.
Si chiamava Giorgio ed era sudafricano.
La testimonianza è resa da Zena Marangon Bettin (classe 1928), di Vigodarzere il 26. 01. 03.
“Nell’attuale via Giotto, nel 1943, in una piccola casa abitava la famiglia di Raimondo Rettore, con
la moglie Coletto Giuditta; i loro due figli, Alfredo e Antonio, erano a servizio militare.
Accolsero un prigioniero che si era allontanato dal campo di prigionia di Pontevigodarzere. Il soldato
del Commonwealth si chiamava Giorgio e lo sistemarono sotto un girotondo di fasci di stocchi di
mais, vicino ad un fosso.
Poi con l’arrivo del freddo fu ospitato in casa. Era sempre pronto a fuggire alle prime voci di
rastrellamenti della milizia fascista. Nei primi giorni del mese di novembre 1943 fu accompagnato a
Porto Fossone (foci dell’Adige) per fuggire nelle isole della Croazia, a mezzo di una motosilurante
inglese con il piano di fuga fu approntato dal frate missionario Domenico Artero. Tale progetto
prevedeva il trasferimento nelle isole della Croazia di circa un migliaio di prigionieri inglesi di Padova e
Rovigo. Il piano di fuga fallì per le proibitive condizioni del mare e per la nebbia. Giorgio trovò
ospitalità presso una famiglia di un paese vicino al mare. Di lui non arrivarono altre notizie, neppure
una cartolina”.
(Su segnalazione di Ivo Benetti).
Girotondi di stocchi di mais,
sotto i quali si riparavano i
prigionieri inglesi e i soldati
italiani sbandati.
(Foto di Luigi Giacon).
88
Prigioniero prelevato dalle brigate nere.
Testimonianza resa da Assunta Oliviero (Belluno) il 03. 09. 2002.
“Mia mamma Michelon Maria e mio padre Oliviero Giacinto, che abitavano nell’attuale via S.
Antonio a Terraglione, mi raccontavano spesso dell’ospitalità che avevano dato ad un inglese fuggito
dal campo di prigionia di Pontevigodarzere.
Dopo il 10 settembre 1943 furono individuati, tra il campo di mais e gli arbusti di un fosso, quattro
prigionieri dell’esercito della Gran Bretagna (Commonwealt).
Sino ai primi di dicembre dello stesso anno rimasero in quel luogo, dove con delle fascine e con dei
rami d’albero si erano costruiti un precario nascondiglio. A turno quattro famiglie della zona li
rifornivano di cibo e di vestiti. Con l’abbassarsi della temperatura, i prigionieri inglesi chiesero di essere
ospitati nelle abitazioni delle famiglie della zona. La mia famiglia prese in consegna un prigioniero e lo
nascose nella soffitta dell’abitazione.
I miei genitori mi raccontavano che il prigioniero si integrò bene in famiglia, era di animo buono ed
era bravo a disegnare e fare i personaggi del presepe in terracotta.
Dopo il bombardamento aereo della zona dell'Arcella (Padova) del 16 dicembre 1943 si diede
alloggio anche a dei nostri parenti sfollati. Così la famiglia diventò ancora più numerosa. Allora si
viveva lavorando quattro campi padovani (poco più di un ettaro di terreno). Due volte alla settimana,
col favore delle tenebre, il prigioniero usciva di casa per incontrare altri prigionieri inglesi, tutti
provenienti dal Sud Africa e nascosti, a loro volta, presso altre famiglie con loro c’era anche il
prigioniero Robi ospitato dalla famiglia di Noventa Nevio a Busiago. Spesso si riunivano a casa nostra e
mia madre dava da mangiare a tutto il gruppo. Un pomeriggio, prima del Natale del 1944, a seguito di
una spiata, un tenente delle brigate nere con altri miliziani fecero irruzione nella casa; controllarono
l’abitazione e prelevarono il prigioniero accompagnandolo nella sede delle brigate nere di Ponte di
Brenta. Il prigioniero riuscì a fuggire con l’aiuto della popolazione e dei partigiani e raggiunse le isole
della Croazia per fare ritorno in Sud Africa. La famiglia Oliviero fu severamente richiamata dalle
autorità fasciste per avere protetto il prigioniero, ma non subì altre conseguenze.
Nel 1946 il fratello del nostro prigioniero ospite, che era militare dell’esercito inglese nel presidio di
Ponte di Brenta (Padova), venne a farci visita. Ci ringraziò dell’ospitalità che avevamo dato a suo
fratello, G. F. West (matricola n. 72521) e ci informò che era a casa e godeva di buona salute. Il
comando militare alleato inviò alla famiglia Oliviero una lettera di ringraziamento con allegate lire
30.000 che servirono ad acquistare la prima bicicletta”.
(Su segnalazione di Gino Rombaldi. Hanno collaborato alla ricerca dei fatti e alla stesura della testimonianza il
rag. Adriano Pilli e Amedeo Vettore).
La calunnia è un venticello …
Nel corso della verifica, durata quasi due anni, dell’episodio, ascoltai delle storie relative al
prigioniero inglese G. F. West. Una in particolare mi lasciò sconcertato perché smentita dalla verità che
ho documentato qui sopra. Un pomeriggio, verso la fine del mese di agosto 2002, mi trovavo in centro
a Vigodarzere e fui avvicinato da un’anziana signora che mi disse: “Devo raccontarle una brutta storia;
mi raccomando, parlo con lei come se fossi in confessionale”. La rassicurai che avrei mantenuto il
segreto, però, dissi scherzando, che per l’eventuale assoluzione doveva rivolgersi a Don Franco,
arciprete di Vigodarzere. Riprese: “Con i miei occhi ho visto i miliziani di Vigodarzere transitare in
gruppo in bicicletta. Uno di loro sulla canna della bicicletta trasportava il prigioniero inglese nascosto
dalla famiglia Oliviero. Alcuni conoscenti, in seguito, mi informarono che il prigioniero era stato
accompagnato presso una nota famiglia fascista di Saletto e rinchiuso nella stalla di legno dei maiali”.
La signora, respirando profondamente, continuò: “Dentro la porcilaia, il prigioniero inglese fu
ammazzato a bastonate”; poi sentenziò: “La mamma di quella famiglia si troverà ora nel più profondo
dell’inferno”.
89
Sei mesi di prigione.
Con discrezione indagai per molti mesi e non trovai riscontri del presunto assassinio descritto
dall’anziana signora. A seguito delle mie ricerche, il 20 marzo 2004 venne presso la mia abitazione una
persona che nel 1944 abitava a Vigodarzere. Tale persona fu accusata, dopo la Liberazione,
dell’omicidio del prigioniero inglese. Per questo motivo fu imprigionata e dopo sei mesi il giudice
militare del tribunale inglese la assolse con formula piena, in quanto constatò che il prigioniero nascosto
dalla famiglia Oliviero era vivo in Sud Africa. La sentenza del processo evidenziò che l’accusa di quella
signora era solo una riprovevole insinuazione.
Quella persona accusata ingiustamente era serena e senza rancore per l’ingiusta detenzione subita e
mi ha chiesto di rimanere anonima. Negli anni del dopoguerra, aiutò i suoi accusatori partigiani
seguendo volontariamente e gratuitamente le loro pratiche pensionistiche.
Tre prigionieri inglesi catturati dai Carabinieri.
La testimonianza è resa da Maria Lina Rombaldi (classe 1925), di Padova il 09. 02. 2003.
“Aurelio Boscaro abitava nell’attuale via Giotto a Vigodarzere. Nel 1943 era militare del Regio
Esercito Italiano e faceva i turni di guardia presso il campo dei prigionieri del Commonwealth (esercito
inglese) a Pontevigodarzere, tra il ponte ferroviario e quello stradale sul fiume Brenta. Il campo di
prigionia era costituito da una decina di casette di legno delimitate da una recinzione metallica e da
numerosi fari di illuminazione. Tutti gli addetti alla guardia del campo tenevano ottimi rapporti con i
prigionieri. Aurelio Boscaro aveva consegnato a Giovanni, un giovanissimo prigioniero sudafricano, un
foglio su cui aveva disegnato il percorso che doveva fare in caso d’emergenza per raggiungere la sua
abitazione a Vigodarzere.
Il giorno dopo l’8 settembre le guardie italiane del campo non si presentarono e i prigionieri si
ritennero liberi. Giovanni, seguendo l’indicazione del foglietto lasciatogli da Aurelio, con due compagni
di prigionia Osvaldo e Pier, raggiunsero la piccola abitazione della famiglia Boscaro a Vigodarzere.
Tra gli abitanti di quel luogo si manifestò subito simpatia e solidarietà: chi diede loro dei vestiti civili,
chi qualcosa da mangiare. La mia famiglia li ospitava di notte nel fienile; di giorno erano in mezzo ai
campi di mais o tra gli alberi lungo i fossi. Per alcuni giorni si rifugiarono presso una famiglia di
agricoltori di Altichiero, vicino alla vecchia chiesa. Poi ritornarono a Vigodarzere, perché la ritenevano
una zona più sicura dalle ricerche della milizia fascista repubblicana.
Presero come punto di riferimento per dormire e mangiare la mia famiglia, composta da mio padre
Rombaldi Alessandro, da mia madre Ester Pirazzo e dai miei fratelli Edoardo, Nadir, Giovanni,
Agostino, dalla sorella Carla e dalla sottoscritta Maria Lina. Purtroppo non c’era mio fratello Giuseppe
che, al comando di un idrovolante, morì in battaglia. La famiglia, era notevolmente aumentata e si
viveva con il lavoro della piccola azienda agricola di circa 13.000 mq; nella stalla si allevavano due
vacche. Mi ricordo che Pier, quando si radeva la barba usava uno specchietto che nel retro portava
incollate le fotografie di sua moglie e di due figlie piccole.
Una mattina si presentarono nel cortile cinque Carabinieri della stazione di Vigodarzere ed entrarono
nella nostra abitazione. Mio fratello Edoardo a sua volta ricercato dalla Repubblica di Salò, perché
renitente al servizio militare, e i tre prigionieri si rifugiarono nella stanza da letto dei miei genitori e
fuggirono saltando dalla finestra che dava nel vigneto. Un Carabiniere sparò invano alcuni colpi di
moschetto all’indirizzo dei fuggitivi”.
Minacciò il maresciallo dei Carabinieri con un coltello.
“In quel momento, ero in cucina e di fronte a me, c’era il maresciallo dei Carabinieri. Atterrita dagli
spari, con una mano afferrai la lista della divisa del maresciallo e con l’altra impugnai un grosso coltello
da cucina e glielo puntai verso il basso ventre e gli urlai: “Varda quea fotografia, el xe me fradeo Bepi disperso
in guera. Se i to Carabinieri i continua a sparare, mi te copo” (“Guarda quella foto: è mio fratello Giuseppe
dato per disperso in guerra. Se i tuoi Carabinieri continuano a sparare, t’ammazzo!”).
Mio fratello Edoardo, che conosceva meglio il territorio, riuscì a fuggire, mentre i tre prigionieri
nell’attraversare il campo, da poco arato, si trovarono in difficoltà, furono accerchiati e arrestati. Di loro
non abbiamo più avuto notizie; probabilmente furono portati in un campo di prigionia in Germania.
Dopo la cattura dei prigionieri mia madre e la zia Colomba si recarono dall’arciprete don Giulio Rettore
90
e gli raccontarono l’accaduto. Il parroco consigliò che fossi
trasferita per qualche settimana da casa e che ciò rimanesse
segreto. Sicuramente don Giulio intervenne presso i Carabinieri
per evitare che scrivessero verbali di minacce rivolte a loro e per
il reato di avere nascosto dei nemici inglesi” .
(Su segnalazione di Gino Rombaldi, Arrigo Schiavon, Romeo
Rombaldi e Umberto Gasparini).
Lina Maria Rombaldi
che nascose tre prigionieri
sudafricani.
(Foto del 2003).
Per aver nascosto un inglese fu internato in Germania.
Testimonianza resa da Mario Gottardo (classe 1926), Limena il 20. 03. 2002.
“Abitavo a Vigodarzere, nell’attuale via Vittorio Veneto. Nel mese di gennaio del 1943, mio padre
Amedeo fu prelevato a casa dagli agenti della milizia fascista e trasportato nella loro sede presso la
caserma B. Mussolini, in via Cesarotti a nord della Basilica del Santo, dove fu arrestato e tenuto in
carcere.
Fu incarcerato perché un delatore li aveva informati che nella nostra abitazione avevamo ospite un
prigioniero inglese, fuggito nel 1942 dal campo di prigionia di Pontevigodarzere.
Nel frattempo il nostro ospite fu condotto da dei conoscenti a S. Maria di Non e poi, attraverso
un’organizzazione umanitaria, accompagnato in Svizzera.
In un secondo interrogatorio a mio padre fu imposto di scegliere tra la mia deportazione in
a
Germania oppure l’arruolamento come volontario nella X Mas della Repubblica di Salò con l’invio
immediato nel fronte di guerra nel Sud Italia (avevo 17 anni e mezzo, ancora minorenne).
Mio padre fece presente la situazione della sua famiglia, con tre figli militari in guerra, e ottenne il mio
invio in Germania a lavorare per la Marina Militare tedesca.
Per mio padre fu una scelta dolorosa, perché non riteneva veritiere le affermazioni del tipo: “In
Germania ai lavoratori italiani danno da mangiare anche panini con burro e marmellata”.
In Germania fui prigioniero in diversi campi di lavoro. All’avanzata dell’esercito sovietico; riuscii a
fuggire da un campo di prigionia dell’est della Germania, occupato dalle truppe russe e, a tappe forzate,
nel caos della ritirata dell’esercito tedesco, riparai nella zona ovest della Germania occupata dall’esercito
americano.
Mi consegnai alle autorità militari americane e rimasi loro prigioniero sino all’agosto del 1945.
Mi trattarono bene e recuperai il mio peso normale. Un giorno mi invitarono a salire, assieme ad altri
prigionieri, su un camion e ci portarono a visitare quello che restava della capitale della Germania: la
città di Berlino rasa al suolo dai bombardamenti.
Si vedevano solo muri perimetrali, macerie, donne e ragazzi che vagavano spettrali tra le rovine. A fine
dell’agosto del 1945 eravamo tutti a casa, reduci di una guerra atroce. A tavola c’era un ex-soldato
russo-ucraino che si chiamava Piero, fatto prigioniero dall’esercito tedesco durante la fulminea avanzata
nel 1941 e, per evitare l’internamento nei campi di prigionia in Germania, si era arruolato “volontario”
nell’esercito di Hitler. Nel mese di settembre, a Vigodarzere, la polizia militare inglese caricò su di un
camion un certo numero di prigionieri russo-ucraini e di loro non si ebbero altre notizie (1).
Intanto il prigioniero inglese caporale Richard Smith, nascosto dal mese di novembre 1942 sino
all’ottobre 1943, presso la mia famiglia e poi accompagnato in Svizzera, era ritornato in Sud Africa.
Di noi ricordava il cognome e aveva conservato anche delle nostre fotografie. Aveva dimenticato come
si chiamava il nostro paese. Nel 1981, scrisse una lettera a diverse famiglie di cognome Gottardo del
comune di Padova. Una di queste la ricevette mio cugino Settimo Gottardo, che allora era Sindaco di
91
Padova. Ci telefonò comunicando il numero telefonico di Richard Smith. Nello stesso anno l’exprigioniero ritornò a Vigodarzere, a salutare e ringraziare la famiglia dei fratelli Gottardo.
L’avvenimento è riportato dal giornale “Il Mattino di Padova” del 19 agosto e nel numero del 15
settembre 1981. Mario Gottardo e Luigia Pegoraro nel 1982 ricambiarono la visita recandosi in Sud Africa, ospiti di Richard.
Il Col. Richard Smith ogni fine anno mi invia gli auguri.
Per la festa del 25 aprile 2004 ho invitato il Colonnello R. Smith a ritornare in Italia; rispose
telefonandomi e, inviando una lettera fax, espresse il suo rammarico di non poter venire in Italia perché
cardiopatico”.
__________
(1) Gli storici padovani Proff. Giuliano Lenci e Pierantonio Gios affermano che l’esercito tedesco, catturò 3
milioni di prigionieri russi. Stalin negli accordi di Yalta del 4. 11. 1945, pretese la consegna di quei prigionieri; al
loro rientro in Russia, in parte furono fucilati, gli altri finirono internati nei gulag sovietici.
Mario Gottardo nella sua abitazione a Limena.
(Foto del 2004).
__________
Mario Gottardo, fu internato in Germania perché la sua famiglia aveva nascosto nel 1942, per 11 mesi, il
caporale Richard Smith. A sinistra della foto la testa di un cudù (2) che l’ex-prigioniero inglese inviò a Mario
Gottardo nel 1983 quale ulteriore dono di riconoscenza. (Foto 2004).
(2) Il cudù è un’antilope africana dal peso di circa 2 quintali. E’ un ruminante, che come alimento
gradisce il frutto dell'avogado. Ha delle magnifiche corna a forma di cava-turacciolo.
92
Il Mattino di Padova del 19 agosto 1981, annuncia il ritorno a Vigodarzere
dell’ex- prigioniero colonnello Richard Smith.
93
94
Dal giornale sudafricano “Sunday Times” July. 4. 1982. Nella foto centrale i coniugi Gottardo a Pretoria ospiti dell'exprigioniero Colonnello Richard Smith. Da destra Luigina Pegoraro, Richard Smith e Mario Gottardo.
Traduzione dell’articolo del “Sunday Times”:
(A cura del prof. Valerio Sabbadin)
“Pretoria “Sunday Times” 4 giugno 1982
Dopo 39 anni, il Colonnello salda il debito con la famiglia dell’uomo che lo aveva salvato dai
nazisti … Benvenuti!
[Era un soldato sudafricano in fuga dai tedeschi dopo essere evaso da un campo per prigionieri
di guerra in Italia.
Era stato salvato da un contadino italiano e dalla sua famiglia … che avrebbero potuto essere fucilati
dai nazisti per avere dato rifugio ad un prigioniero di guerra”.
“Ora l’ufficiale colonnello dell’esercito sudafricano, adesso in pensione, Richard “Boero”(1) Smith, ha
realizzato una aspirazione durata 39 anni regalando al figlio, di quel contadino benefattore, un mese di
vacanze in Sud Africa.
Nel novembre 1943 (si legga 1942 n.d.a.), l’allora caporale Smith era fuggito da un campo per
prigionieri di guerra in Italia. Disperato, affamato ed assetato, il giovane soldato chiese aiuto ad un
anziano italiano. Sebbene il contadino -Amedeo Gottardo- sapesse che sarebbe stato giustiziato se
sorpreso ad aiutare un prigioniero di guerra evaso, lasciò che il soldato rimanesse con lui e la sua
famiglia per 11 mesi].
“Ero fortemente debitore nei riguardi di quella famiglia,” il Colonnello Smith mi ha detto questa
settimana, “perché senza di loro sarei morto assiderato o sarei stato fucilato dai tedeschi”.
95
Anche se Amedeo e la moglie Erminia sono morti alcuni anni fa, il loro figlio Mario che a quel tempo
aveva 18 anni, è tuttora vivo.
Mario ha sposato la ragazza amata sin dalla prima giovinezza, Luigina, e la coppia è al momento ospite
della famiglia Smith. “Era davvero il minimo che potessi fare per loro, dopo tutti questi anni,” ha detto
il colonnello.
Nato a Waterpoort, nella provincia del Soutpansberg, nel 1921, il colonnello si unì al battaglione dello
Speciale Service il 20 maggio del 1937”.
Catturato.
[La sua nomina alla Forza Permanente fu approvata, quando aveva ancora 16 anni e nel 1941 fu
inviato in Nord Africa con il Quarto reggimento corazzato sudafricano parte dei “Topi del Deserto”.
Fu catturato il 2 giugno 1942 e inviato in Italia, ad un campo per prigionieri di guerra vicino alla città di
Padova, nel Nord Est].
“La mia non è stata un’evasione memorabile,” (diceva il colonnello Smith), “e quando gli altri
raccontano delle loro fughe dai campi io di solito rimango zitto.”.
L’evasione dal campo di prigionia di Pontevigodarzere.
“Un giorno di novembre, nel 1943 (si legga 1942, n.d.a.), mentre stavo barattando delle merci
con le guardie notai un buco nella recinzione vicino alla chiesa del campo. Dopo una breve preghiera
mi calai fuori da una finestra della chiesa e strisciai fuori dal buco.
“E’ stato semplice, … ho avuto la fortuna dalla mia parte.”
Dopo molti giorni di fuga, chiesi aiuto al contadino Gottardo. “Amedeo stava camminando tra i
cespugli nelle vicinanze della sua fattoria, a caccia di uccelli, quando mi avvicinai a lui” (ricorda il
colonnello Smith), era chiaro dalla mia uniforme che ero un prigioniero di guerra evaso, ma lui non
esitò neppure un istante. Mi disse che un paio di mani in più potevano servigli, e che potevo restare con
lui quanto desideravo”.
“Amedeo sapeva che stava rischiando la vita, ma rideva della mia paura. Fui velocemente accettato
come un membro della sua famiglia e, Mario ed io, presto diventammo inseparabili come fratelli. Gli
italiani mi chiamavano Riccardo e presto imparai la loro lingua meglio della maggior parte dei tedeschi
della zona”.
Uno shock.
“Ogni volta che venivo a sapere di rastrellamenti casa per casa sellavo la cavalla della fattoria, di
nome Olga, e mi nascondevo nel bosco lì vicino. Nessun tedesco mi fermò mai, perché non avevano
mai pensato di cercare un prigioniero di guerra scappato a cavallo.”
Ebbi però un incontro ravvicinato con un tedesco. “Ero in bicicletta e pedalavo verso il paese quando
fui improvvisamente fermato da un ufficiale tedesco.
Fu proprio uno shock, quando mi resi conto che mi parlava in un eccellente italiano … .
Sapevo, infatti, che se avessi provato a rispondergli nella stessa lingua sarei stato catturato.”
Il tedesco mi chiese i documenti. “Non potevo fare niente, se non fingermi sordo (tonto) … : indicare
le orecchie e scuotere la testa.”
[l Colonnello Smith ammise che da quel momento il suo stomaco non è più stato lo stesso].
“Capii in quel momento che entro poco tempo sarei stato catturato. Così, all’inizio della primavera del
1944, contattai il movimento della resistenza e chiese aiuto per attraversare le Alpi e raggiungere la
Svizzera. Le parole non possono descrivere il momento in cui ho lasciato la famiglia Gottardo,” ha
detto il Colonnello. “Avevano corso rischi enormi per me, che ero un completo sconosciuto, e sapevo
che non sarei mai riuscito a ripagarli completamente. Dissi loro, comunque, che non li avrei mai
dimenticati”.
A pezzi.
“Per il duro viaggio attraverso il confine il Movimento della Resistenza raccolse un certo
numero di prigionieri di guerra evasi. Il gruppo era numeroso”.
96
“Indossavamo tutti dei vestiti marroni e scarpe dello stesso colore. Il problema era che le scarpe
erano fatte di cartone e presto si sfasciarono, mentre camminavamo sulla neve …”.
[Il Colonnello Smith rimase in Svizzera sino alla fine della guerra. Al suo ritorno in Sud Africa, nel
1945, fu assegnato al Comando Witwatersrand.
Nel 1979 gli fu assegnata la medaglia Southern Cross e, nel 1975, fu nominato Ufficiale di comando del
magazzino della base 61.
Andò in pensione nel 1979 dopo 42 anni di servizio. Fu l’ufficiale della forza permanente dell’esercito
sudafricano con maggiore anzianità di servizio].
L’ex prigioniero cercò la famiglia Gottardo.
“Una volta in pensione avevo molto tempo libero e iniziai a pensare alla famiglia Gottardo”.
(riferì Smith).. “All’inizio dello scorso anno mia moglie vide una pubblicità di un viaggio, che includeva
una visita a Padova.
Dopo aver scoperto che sulla guida telefonica della città erano elencate sessanta persone di cognome
Gottardo, inviai 10 lettere a persone con quel cognome. Il 26 giugno dello scorso anno, a notte fonda,
ricevetti una telefonata da Mario Gottardo (figlio di Amedeo). Eravamo così eccitati che ognuno di noi
iniziò ad urlare le proprie novità contemporaneamente” (ricorda il colonnello Smith). Mario mi disse
che i suoi genitori erano morti. “Venni anche a sapere che, poco dopo che io avevo attraversato il
confine, i tedeschi avevano imprigionato Amedeo sospettandolo di aver aiutato un prigioniero di guerra
…. Ed ero io. Ma Amedeo era stato presto rilasciato, perché Mario promise che si sarebbe arruolato
nella marina tedesca se suo padre fosse stato rilasciato. Mario rimase internato per 19 mesi prima di
fuggire e ritornare nella sua fattoria.”
I coniugi Gottardo ospiti del Colonnello Smith in Sud Africa.
“Mario e Luigia hanno trascorso le ultime tre settimane ospiti del colonnello in Sud Africa”…
Diceva Smith: “Naturalmente non posso fare abbastanza per loro, poiché devo a loro la vita.”
Mario comunque minimizza l’aiuto dato dalla sua famiglia con un’alzata di spalle affermando:
“Chiunque avrebbe fatto lo stesso”.
[Di Ken Slade-giornalista].
__________
(1) La lingua degli antichi coloni olandesi del Sud Africa.
97
Per ben 19 mesi vissero nel fienile.
Testimonianza resa da Renzo Pieretti (1925), Saletto di Vigodarzere il 21. 05. 2003:
“ Nel 1943 abitavo nell’attuale strada via Capitello, a Saletto di Vigodarzere. La mia famiglia era
composta dai genitori Gregorio Pieretti e Maria Seconda Prisco, dalle sorelle Ester, Francesca e dal mio
fratellino Norberto, nato da pochi mesi. Era una famiglia molto affiatata e unita. Mia madre era
dinamica e dotata di un senso pratico delle cose. Economicamente eravamo considerati benestanti. Si
conduceva una media azienda agricola della superficie di circa 30.000 metri quadrati, coltivati a
frumento, mais, erba medica e vigneto. Vicino alla casa c’era un grande orto, dove si coltivavano le
verdure. Nella stalla si allevavano quattro vacche e due vitelle, inoltre, in una zona recintata, vi erano
tanti animali da cortile e la gabbia con dei conigli posta sotto la barchessa, tra gli attrezzi da lavoro”.
“Dare da mangiare agli affamati”
“Verso la metà del mese settembre del 1943, si avvicinarono alla nostra abitazione alcuni prigionieri
del Commonwealth, che si erano allontanati dal campo di prigionia di Pontevigodarzere. Erano molto
affamati, da diversi giorni non si alimentavano e vedendo mia madre nel cortile le chiesero qualcosa da
mangiare. Per mia mamma il precetto evangelico “dar da mangiare agli affamati” era sacro, pertanto, li
fece entrare in cucina e li rifocillò.
Sorse subito il problema dove nascondere questi ospiti, in quanto ricercati dalla milizia fascista. Si fece
nell’interno del fienile una capace nicchia, il cui foro d’accesso fu nascosto con del fieno.
Intanto apprendemmo dai giornali la pubblicazione di un bando del Comando Tedesco del presidio di
Padova, che prometteva un premio di lire 1.800 a chi consegnava ai germanici un prigioniero inglese o
dava indicazioni utili per la cattura. I soldati tedeschi avevano occupato l’Autocentro del Regio Esercito
Italiano di Pontevigodarzere e il Magazzino della Regia Aeronautica Militare a Vigodarzere. Il nuovo
Partito Repubblicano Fascista si andava riorganizzando e si vedevano passare per le strade le camicie
nere. Si prospettavano giorni e mesi densi di pericoli e d’incognite, nella bufera di una violenta guerra
fratricida, della quale non si riusciva a prevedere la fine.
I due nostri ospiti si chiamavano Alfredo Plisch, nato in Gran Bretagna, e Giovanni Suars, proveniente
dal Sud Africa. I pericoli aumentavano quotidianamente e anche in questa zona, lontana dal centro del
paese e da strade principali, gli agenti della Guardia Nazionale Repubblicana operavano rastrellamenti. I
nostri ospiti soffrivano di malaria. Mia madre si recò da suo cugino Prisco Dino (1), che era vice
federale del fascio di Padova e ottenne più volte il chinino.
Ovviamente il cugino sapeva per chi era quella medicina, tanto che raccomandò a mia madre che
usassimo tutte le precauzioni in quanto, se la cosa fosse stata risaputa, anche per noi ci sarebbe stata la
deportazione in Germania”.
Viaggi notturni verso la libertà.
“I nostri ospiti inglesi di notte scendevano dal fienile e spesso si incontravano con altri loro
commilitoni. I due prigionieri mi informarono che diversi prigionieri si rivolgevano a Timante Ranzato
(capo partigiano che abitava a Terraglione di Vigodarzere), il quale organizzava trasferimenti di
prigionieri inglesi sino a Mestre; da lì i pescatori con le barche li trasportavano in alcune isole della
Croazia. Nel mese di ottobre avvicinai Timante Ranzato il quale mi propose di accompagnare i
prigionieri
inglesi
nascosti
nella
zona
di
Vigodarzere
sino
a
Mestre.
Nottetempo con due biciclette, una usata da me con un prigioniero seduto sulla canna della
bicicletta e l’altra condotta dal secondo prigioniero, ci inoltrammo, con comprensibile angoscia, per
strade secondarie, sino a giungere nei pressi della città veneziana. Nel ritorno dovevo guidare con l’altra
mano, la seconda bicicletta. I prigionieri erano prelevati da pescatori incaricati dal Comitato Nazionale
di Liberazione di Venezia, che provvedevano a traghettarli con la barca da pesca sulle isole della costa
jugoslava. Nel giro di qualche mese trasferii verso la libertà 16 prigionieri e altri tre li accompagnai da
alcuni miei parenti a Camisano Vicentino”.
I rastrellamenti a pettine.
“Nel febbraio del 1945 mi stavo recando a fare il pane presso l’abitazione delle famiglie di Pino e
Luigi Tognon; durante il tragitto fui sorpreso da un rastrellamento a pettine delle brigate nere. Mi
98
bloccarono e mi chiesero i documenti (avevo 17 anni). Uno di loro con un fischio chiamò i suoi
camerati, che si trovavano su un camion a poca distanza, e contemporaneamente fui avvertito: “Se
tenti di fuggire, ti spariamo”. Domandai di andare sino alla vicina abitazione dei Tognon, che si trovava
nell’attuale via S. Antonio a Saletto di Vigodarzere, perché avvisassero i miei famigliari. La mia richiesta
fu accolta. Attorno a quella casa c’erano dei pagliai e arrivato nei pressi, con uno scatto, li superai e
percorrendo poi un viottolo parallelo il fossato, mi allontanai dal pericolo. I membri delle due
famiglie, con donne e bambini, furono allineati davanti alla casa dagli incolleriti militi delle brigate nere
che minacciarono di fucilarli, ma per fortuna si limitarono a sparare sul tetto della casa”.
La liberazione era prossima.
“Finalmente si avvicinava l’arrivo delle truppe alleate di liberazione. Nel pomeriggio di sabato 28
aprile 1945 arrivò nel cortile della mia abitazione un carro agricolo trainato da due cavalli, condotti da
un paio di soldati delle SS tedesche. Costoro esibivano un fucile mitragliatore e senza tanti complimenti
entrarono in cucina e chiesero da mangiare affermando che erano digiuni da tre giorni.
Mia madre si recò nell’orto per raccogliere insalata. Intanto i soldati, perlustrando la casa, scoprirono
un cesto di uova e pretesero che mia madre le cucinasse. Un soldato recuperò un’insalatiera vi versò
tutte le uova (erano trentasei) e l’insalata e con il coltello il tutto fu finemente tagliuzzato e mangiato
con comprensibile avidità, accompagnato da alcuni bicchieri di buon vino clintòn. Mi ordinarono di
alimentare i loro i cavalli, di posteggiarli nella nostra stalla accanto ai miei animali e di fare loro la
pulizia con brusca e striglia. In compenso mi offrirono dei rasoi con lamette, facendomi osservare:
“Ragazzo, hai la barba lunga, và a tagliarla subito! ”. I due soldati sospinsero il carro sotto il portico, si
stesero sopra e si avvolsero con delle coperte, addormentandosi e russando fragorosamente per tutta la
notte. Era giorno inoltrato, quando si destarono quel lunedì 30 aprile. Li informai che le truppe angloamericane avevano liberato Cittadella. Pertanto, la loro ritirata strategica per raggiungere le Prealpi
venete, dove era preparata un’altra “Linea Gotica”, era fallita. I due soldati delle SS si consultarono,
strapparono i loro documenti, ci chiesero dei vestiti civili, si sbarazzarono della divisa, ci consegnarono
il fucile mitragliatore, le pistole e mi regalarono il carro e i cavalli”.
Il dono del perdono e della pace.
“La situazione era radicalmente mutata; anche loro si sentivano sollevati e liberi dal nazismo. Invitai
i due ex-soldati SS di Hitler a seguirmi. Giunti nel fienile liberai il foro dell’ingresso alla nicchia e invitai
i due ex-prigionieri inglesi Alfredo e Giovanni ad uscire. I due tedeschi, alla vista degli inglesi, sbigottiti
impallidirono, si inginocchiarono, chinarono la testa ripetutamente battendola sul pavimento e chiesero
perdono. Passati i primi minuti cruciali esclamarono: “Se ieri sera avessimo scoperto la loro presenza,
avremmo bruciato la casa con tutti voi dentro e disperso le vostre ceneri. Ora voi siete liberi e noi
siamo vostri prigionieri”.
Gli inglesi abbracciarono il soldato tedesco e l’austriaco, mentre tutti eravamo fortemente
emozionati nell’assistere a quella scena. Un tiepido sole primaverile splendeva, testimone della pace
ritrovata. Nel tardo pomeriggio arrivarono due partigiani di Vigodarzere e presero in consegna i due
soldati tedeschi, senza dire della loro appartenenza al corpo speciale delle SS. Si presero anche i due
cavalli, nonostante le proteste dei due tedeschi, affermando che quei cavalli erano nati e cresciuti nelle
loro aziende agricole in Austria e che erano di loro proprietà personale e che ce li avevano donati”.
Ho domandato al signor Renzo Pieretti perché avesse rischiato l’internamento in Germania, aiutando i
prigionieri inglesi.
Mi rispose: “Mia madre aveva un cuore grande, era la santola (madrina) di tanti bambini poveri di
Saletto. Una donna che, praticava la fede cristiana con coerenza, impegnandosi in tante azioni di carità.
Una madre che, seppe trasmettere ai figli i principi della solidarietà evangelica”.
(Su segnalazione di Ugo Elardo)
__________
1) Nel processo svolto nel 1946 il tribunale speciale inglese tenne conto di ciò e condannò a pene lievi l’ex-vice
federale fascista..
99
Renzo Pieretti che nascose nella
sua casa due prigionieri inglesi e
si prodigò per molti altri. (Foto 2003).
La lettera inviata alla famiglia di Gregorio Pieretti,
da un Ufficiale Comandante dell’esercito alleato anglo-americano.
Certificato di benemerenza per l’assistenza elargita dalla famiglia di Gregorio Pieretti
ai prigionieri inglesi.
100
Incontro che si fa perdono.
-Basilica del Santo - Cappella delle confessioni: particolare dell’affresco di Pietro Annigoni del 1987.
.
Catturato dai militi fascisti l’inglese che, si faceva chiamare “Giorgio”.
Testimonianza resa da Valentino Berto Faìva Boaro (classe 1922), Saletto di Vigodarzere,
il 02.08.2003:
“Dopo l’alba di una mattina della fine del mese di settembre del 1943, mentre stavo raccogliendo i
baccelli di fagioli rampicanti, coltivati vicino alle piante di mais che facevano da sostegno, si avvicinò
un prigioniero inglese dicendomi che era affamato e ricercato dai nazi-fascisti. Lo feci entrare in casa e
mia madre gli offrì del cibo. La famiglia al completo decise di adottare il prigioniero inglese di nome
Giorgio. Per farlo dormire si preparò un paion di cartocci di mais, sistemato nella mia stanza accanto al
mio letto. Spesso, senza darci spiegazioni, si allontanava per alcuni giorni e poi ritornava. Non
sapevamo dove andasse, probabilmente aveva anche un’altra famiglia che lo proteggeva. Nelle prime
ore della notte “Robi”, il prigioniero nascosto nella casa di Nevio Noventa, frequentemente veniva a
trovare Giorgio e con altri si riunivano nella mia cucina dove
cenavano dividendo la polenta e qualche fetta di salame. Un
pomeriggio dell’agosto 1944 mi stavo recando in bicicletta
nei pressi del centro di Saletto per fare acquisti e vidi che, in
senso contrario, procedevano in bicicletta tre noti fascisti
E.V., N.P. e G.P.. Sul telaio di una bicicletta vi era Giorgio
che, vedendomi, girò il volto dall’altra parte; notai che aveva
la mano destra tesa e per salutarmi chiuse la mano a pugno.
Di Giorgio, il prigioniero inglese, non abbiamo più ricevuto
notizie”.
(Su segnalazione di Teresa Berto Pegoraro) .
Valentino Berto, chiamato Faìva Boaro, che protesse nascondendo
“Giorgio” l’inglese. (Foto 2003).
101
In casa tra prigionieri inglesi, sfollati, soldati tedeschi e russi.
Testimonianza resa da Emma Marangon Zoccarato (classe1930), di Vigodarzere il 06.02.2003:
“Bruno Coliandro, di anni 35, abitava in via Nazionale a Pellaro di S. Leo, frazione della città di
Reggio Calabria, con moglie e due figli. Nel 1943 prestava servizio militare nel Magazzino Aeronautico
di Vigodarzere. Con l’arrivo dei tedeschi Bruno, per evitare l’internamento in Germania, a malavoglia
aveva acconsentito di lavorare per i tedeschi nel Magazzino Aeronautico di Vigodarzere aiutandoli a
smontare e a caricare gli strumenti e i motori nei vagoni ferroviari che venivano inviati in Germania.
Per dormire si presentò a casa mia e chiese ospitalità.
Abitavamo nell’attuale via Cesare Battisti di Vigodarzere. Eravamo in 11 persone: i miei genitori
Antonio e Rosina Schiavon, quattro figli, gli zii Carlo Marangon e Maria Schiavon e i cugini.
Bruno nei primi giorni, dopo le ore di lavoro all’Aeronautica Militare, ci aiutava molto volentieri nel
lavoro dei campi. Poi intuì che i tedeschi volevano trasferirlo in Germania e lasciò il servizio perciò
fummo costretti a nasconderlo in un piccolo locale, ricavato sotto la barchessa, dove l’ingresso era
mimetizzato da vari attrezzi agricoli”.
Arrivarono i prigionieri inglesi, gli sfollati, i soldati russi e tedeschi.
“Le autorità fasciste c’imposero di alloggiare due soldati tedeschi, che in realtà erano due giovani
russi, fatti prigionieri dai tedeschi che, per evitare l’internamento nei campi di concentramento in
Germania, avevano aderito ad entrare come ausiliari armati nell’esercito tedesco.
In casa ospitavamo quattro sfollati che provenivano dalla zona vicina alla stazione ferroviaria di
Padova dopo il primo bombardamento dell’Arcella (Padova) del 16 dicembre 1943. Una notte
l’arciprete don Giulio Rettore fece accompagnare nella nostra casa tre prigionieri inglesi. Mia madre
Rosina portava da mangiare a Bruno e ai tre inglesi nascosti nella barchessa, recando del cibo tra i lembi
del suo grembiule.
Un giorno, mentre fingeva di portare da mangiare alle galline nel pollaio, com’era solita fare, si avvicinò
il più giovane dei soldati russi come per aiutarla, ma per non essere scoperta fece il giro del recinto del
pollaio e poi rientrò in casa. Quel giorno i rifugiati mangiarono solo alla sera, quando i due russi
andarono a fare il turno di guardia. Il rischio aumentava; mio padre si consigliò con l’arciprete don
Giulio Rettore che si prestò a trasferire i tre prigionieri inglesi fuori dal paese di Vigodarzere.
In quell’occasione don Giulio disse a mio padre che a Vigodarzere era alto il numero di prigionieri
inglesi nascosti ed era consigliabile spostarne un certo numero per evitare che i tedeschi facessero dei
rastrellamenti e bruciassero le case.
Si seppe poi che don Giulio si era adoperato per altri prigionieri inglesi, indirizzandoli presso famiglie
d’altri paesi. Poi arrivò a Vigodarzere una compagnia di soldati tedeschi reduci dal fronte per riposarsi.
Requisirono le stanze di alcune famiglie di Vigodarzere. Cinque soldati occuparono una stanza del
piano terra della nostra casa e i sei cavalli vennero posteggiati sotto il portico.
Gli occupanti si preparavano da mangiare nella nostra cucina e pretendevano la precedenza nell’uso
della stufa a legna, ma non ci chiesero mai i nostri alimenti.
Ai cavalli diedero da mangiare quasi tutto il fieno che avevamo raccolto nei nostri campi per i nostri
bovini”.
Bruno ritornò a casa a Pellaro di S. Leo a Reggio Calabria.
“Bruno Coliandro, terminata la guerra, ritornò sano e salvo alla
sua famiglia a Pellaro di Reggio Calabria. Nei vari matrimoni della
famiglia Marangon fu sempre presente. Spesso ci ha inviato dei
pacchi dono contenenti frutti della sua terra natia.
La figlia di Bruno è l’unica della famiglia ancora viva; di recente
con i figli è stata ospite a Vigodarzere della famiglia di Mario
Marangon. In questa circostanza ha mostrato ai figli dove il nonno
Bruno s’era nascosto salvandosi dall’internamento in Germania”.
Emma Marangon Zoccarato testimone della permanenza nella sua casa di
soldati tedeschi, russi, inglesi e italiani. (Foto del 2003).
102
Aviere al posto dei fratelli.
La testimonianza è stata resa da Luigia Pegoraro Gottardo (Classe 1929), di Limena il 20. 08. 2002.
“Abitavo in Vigodarzere, nell’attuale via Vittorio Veneto n. 49 nella casa patriarcale con annessa
azienda agricola. Una mattina dopo l’8 settembre 1943, un giovane si presentò nel cortile entrando dai
campi in modo quasi furtivo con l’aria smarrita e la barba lunga. Indossava la divisa da aviere, ed era
fuggito dal Magazzino dell’Aereonautica Militare di Vigodarzere.
Mia madre, Alba Marangon, lo avvicinò e gli chiese come si chiamava e da dove proveniva. Poi lo
invitò ad entrare in cucina dove gli diede del latte e del pane biscotto; era preoccupata per mio fratello
Silla, prigioniero dei tedeschi in Austria e per l’altro fratello Romeo, prigioniero degli americani a
Reggio Calabria. Mio padre Alberto e gli zii Battista e Giuseppe, tornati dal lavoro dei campi, furono
informati del nuovo arrivato, si guardarono negli occhi e convennero: “Se noi trattiamo bene questo
giovane, altri lo faranno con i nostri ragazzi lontani e prigionieri”.
Il giovane aviere di 22 anni era un bel moro, si chiamava Antonio Polignano, proveniva da Putignano
(Bari) dove la sua famiglia aveva una casetta e un podere coltivato ad ortaggi e oliveto. Non poteva
tornare a casa per la linea del fronte di guerra “Gustav”, tra Termoli e l’Abbazia di Montecassino. Fu
accolto in casa dai miei genitori come un figlio, era volonteroso e aiutava nei lavori dei campi. Nella
stalla invece non aveva dimestichezza con le vacche e i buoi e, mentre mio padre con gli zii
“governavano” gli animali, lui preferiva fare dei lavori esterni alla stalla. Mangiava con noi e dormiva nel
letto dei fratelli assenti per prigionia. Alla fine della settimana mio padre dava al giovane qualche soldo
per comprarsi le sigarette. Si era bene integrato nella nostra famiglia ed era ben visto anche dal vicinato.
Un giorno, lungo una stradina di campagna trovò un volantino lo lesse con avidità e vi trovò che
promettevano un buon stipendio e la cancellazione di ogni pena prevista per coloro che non si erano
ripresentati al distretto militare dopo l`8 settembre.
Si consigliò anche con mio padre e con gli zii. Ebbe una risposta negativa: non doveva fidarsi delle
promesse del nuovo governo Mussolini, chiamato in senso spregiativo Governo dei Repubblichini,
voluto da Hitler.
Mio padre e gli zii cercarono in ogni modo di dissuaderlo, ma Antonio fu fatalmente attratto dai soldi
promessi”.
Da aiuto agricoltore a brigatista.
“Antonio Polignano si presentò al distretto militare di Padova, firmò come volontario e fu
inquadrato nelle nuove formazioni delle brigate nere. Fu inviato ad operare nel Piemonte e partecipò ai
rastrellamenti contro i partigiani di quella regione.
Nell’ottobre del 1944 Antonio ebbe quattro giorni di licenza. Non potendo raggiungere la sua
abitazione in provincia di Bari, a causa del fronte di guerra, cioè quella della “ Linea Gotica” a nord di
Firenze e Ancona, una mattina si ripresentò a casa mia chiedendo nuovamente ospitalità.
La seconda notte che Antonio era da noi, alcuni giovani, provenienti dal vigneto entrarono nel nostro
cortile. I cani abbaiarono furiosamente e mio padre uscì. Quei giovani armati (non erano di
Vigodarzere) pretesero di portare Antonio con loro e rassicurarono mio padre che non gli avrebbero
fatto alcun male. Salutando Antonio, mio padre disse ai giovani: “Fra una settimana voglio rivederlo!” .
Terminata la guerra, un nipote di Antonio Polignano, che si chiamava Francesco ed era Carabiniere a
Treviso, venne a trovarci e stette da noi due settimane. Indagò sulla scomparsa dello zio Antonio
Polignano, che non fu più trovato né vivo né morto ”.
La conferma dell’episodio.
Il comandante della Guardia Nazionale Repubblicana della zona, ha scritto: “Vigodarzere: Il 15
ottobre u.s. (1944), verso le ore 22.30, in Vigodarzere, elementi banditi si presentavano all’abitazione di
certo Giuseppe Pegoraro chiedendo di parlare con il milite della Brigata nera Antonio Polignano che
era ospite della famiglia Pegoraro. I banditi, dopo aver percosso il milite, lo condussero con loro”.
(Dal libro: “Notiziari della Guardia Nazionale Repubblicana Padova e provincia. Ed. Promodis Italia. 1966”).
103
Luigia Pegoraro Gottardo
testimone della scomparsa
di Antonio Polignano.
(Foto 2003).
Manifesto del 1944, affisso nella città
di Padova che invitava i giovani ad
arruolarsi nelle legioni militari delle SS della
Repubblica Sociale Italiana. Le SS italiane,
che giuravano fedeltà ad Hitler, agirono
in Piemonte e in altre località con
rastrellamenti e rappresaglie, come
quelle tedesche.
La casa rurale della famiglia Pegoraro ubicata in via Vittorio Veneto a Vigodarzere. (Foto del 2000 della
collezione di Bruno Giuseppe Pegoraro).
104
Il fante sardo, Luigi Musiu. Il pilota americano Paolo Jackson e il caccia bombardiere
precipitato.
La testimonianza è stata resa da Dante Cavinato (classe1928), di Tavo di Vigodarzere il 04. 09. 2003.
“Dopo l’otto settembre 1943, data dell’annuncio dell’armistizio del governo Badoglio con gli angloamericani, molti soldati italiani sbandati passarono qui a Tavo e dicevano: “Tutti a casa” perché
ritenevano la guerra terminata. Cercavano con ogni mezzo di raggiungere le loro abitazioni. Erano
affamati, molti con le scarpe rotte e i piedi piagati, ma soprattutto avevano la necessità di mangiare e di
riposare. I miei genitori, Matteo Ambrogio Cavinato e Ottava Settima Coletto, ritenevano un loro
preciso dovere di buoni cristiani rifocillarli e ospitarli per la notte. Nell’ottobre del 1943 arrivò un
giovane di 26 anni; era mal ridotto, si chiamava Luigi Musiu, di Settimo S. Pietro di Cagliari. Nei giorni
successivi l’8 settembre, si trovava in Jugoslavia perché, dopo aver abbandonato il Regio Esercito
Italiano, si era aggregato ai partigiani jugoslavi. In uno scontro a fuoco con i tedeschi un suo amico
rimase ucciso. Luigi, stanco della guerra, lasciò anche i partigiani e a piedi raggiunse il Veneto, nella
segreta speranza di ritornare nella sua terra sarda. Riuscì ad evitare i vari posti di blocco dei soldati
tedeschi e anche i rastrellamenti dei militi della Repubblica Sociale Italiana. Non voleva arruolarsi nel
nuovo esercito del governo di Mussolini, era demoralizzato, temeva ormai di finire internato nei campi
di prigionia in Germania. I miei genitori decisero di aiutarlo e mio padre pensò di costruire per lui un
rifugio sicuro. La fossa sotterranea dei liquami della concimaia, fu coperta con una soletta in cemento
armato; fu lavata, tinteggiata, con della calce e furono fatte delle prese d’aria; inoltre fu collegata alla
latrina con un tombino che permetteva il passaggio di vivande; divenne una piccola stanza sotterranea. I
liquami della concimaia furono deviati in un’altra fossa a cielo aperto. Luigi, di giorno nelle ore
tranquille senza allarmi di rastrellamento, ci aiutava molto diligentemente nel lavoro dei campi e di notte
riposava nella mia stanza da letto. Nel locale sotterraneo si rifugiava solo quando c’era il pericolo di
rastrellamenti.
Nell’ottobre del 1944 nella zona ci furono due rastrellamenti effettuati dai militi fascisti della
Guardia Nazionale Repubblicana, accompagnati da due soldati tedeschi delle SS. Mio padre riconobbe
uno dei militi: era il guardiano del cimitero di Vicenza.
La mia abitazione e gli annessi rustici furono perquisiti, ma non trovarono niente di sospetto. Attorno
alla fossa sotterranea in muratura avevamo gettato dell’acqua, che dava la sensazione che fosse piena di
liquame e addirittura tracimasse.
Nel secondo rastrellamento mentre i militi fascisti controllavano la zona i due soldati tedeschi delle SS
restarono fermi presso la mia abitazione. Parlando con mio padre seppero che era stato tiratore scelto
a
nella 1 Guerra Mondiale e vollero fare una gara di tiro. Proposero di piazzarsi sopra la stanza sotterranea
ma mio padre, però, li convinse a spostarsi in mezzo ai campi dicendo loro che alcune vacche erano
gravide che spaventandosi con gli spari d’arma da fuoco, potevano abortire. Passarono da noi anche la
notte, i miei genitori diedero ai soldati tedeschi la stanza matrimoniale e loro si misero a dormire in un
giaciglio nella stalla. Non ci dissero se riuscirono a chiudere occhio: temevano, infatti, che Luigi,
accanito fumatore, fosse colpito da attacchi di tosse e rivelasse così la sua presenza clandestina”.
Paolo Jackson pilota americano con Luigi Musiu il fante sardo.
“Ai primi di gennaio del 1945, i partigiani di Curtarolo accompagnarono di notte nella mia casa un
pilota americano di nome Paolo Jackson, il quale si era lanciato dall’aereo in fiamme con il paracadute,
fu recuperato dai partigiani nelle risaie di Arsego e nascosto nella mia casa. Anche lui durante il pericolo
di rastrellamenti si nascondeva dentro l’ex fossa dei liquami organici trasformata in rifugio, assieme al
sardo fante Luigi Musiu. Rimase con noi circa un mese, poi i partigiani lo trasferirono”.
Il caccia bombardiere precipitò in fiamme accanto alla casa.
“Domenica 11 febbraio del 1945 il terreno era coperto da 15 - 20 centimetri di neve; alle ore tre del
pomeriggio ero nel cortile dell’abitazione assieme a mia sorella Dirce il nostro ospite Luigi e la nipotina
Laura Elardo di Vigodarzere (i miei genitori si erano recati nella chiesa di Cavino d’Arsego per
partecipare alle funzioni religiose). Improvvisamente vedemmo un aereo caccia bombardiere (1) che
precipitava lasciando dietro una lunga scia di fumo e il pilota che scendeva con il paracadute. L’aereo
puntava dritto su di noi; con quattro salti raggiungemmo l’orto di casa poi ci fu una forte esplosione. Il
105
caccia anglo-americano, che era stato colpito dalla contraerea tedesca a Bassano del Grappa, si schiantò
nel cortile ad ovest della casa: un’ala con il serbatoio finì a ridosso degli annessi rustici, la porcilaia e il
pollaio bruciarono, i getti di carburante in fiamme si erano sparsi nella zona, alcuni finirono tra i capelli
di mia sorella che presero fuoco ma non subì ustioni, perché Luigi l’avvolse con la sua giacca
spegnendolo. La parte ovest della casa fu danneggiata dall’altra ala dell’aereo e si incendiò. I primi ad
accorrere furono due agenti delle brigate nere, che stavano transitando sulla strada poi tutti gli uomini
della zona, il parroco e la gente che era in chiesa.
Fecero una catena umana e con secchi d’acqua prelevata dal pozzo riuscirono a spegnere l’incendio
della casa. Quattro stanze dell’abitazione rimasero fortemente danneggiate, ma noi rimanemmo indenni:
neanche un graffio, ma solo un grandissimo spavento. La zona per giorni fu rastrellata dai fascisti e dai
soldati tedeschi, cercavano il pilota che si era lanciato con il paracadute e toccò terra nei pressi
dell’attuale chiesa della Madonna della Salute, lungo la strada provinciale Brentana. Il pilota fu subito
preso in consegna e nascosto dai partigiani di Curtarolo. In seguito i soldati tedeschi, addetti
all’antiaerea di Bassano vennero a controllare il relitto dell’aereo.
I militi fascisti di Campodarsego organizzarono il recupero di varie parti dell’aereo, fecero lavorare
circa 15 operai della Todt (lavoratori ausiliari dei paesi occupati dai soldati tedeschi) e per il trasporto
precettarono alcuni agricoltori della zona che, con carri agricoli trainati da animali, trasportarono i
rottami dell’aereo in una zona di Campodarsego. I fascisti affermavano che quei rottami servivano per
essere fusi per uso bellico e potevano aiutare a vincere la guerra contro gli anglo-americani. Finalmente,
dopo due settimane terminarono i lavori di recupero e finì anche la presenza continua dei fascisti. Si
riprese con più serenità a riparare l’abitazione.
Nella circostanza della caduta dell’aereo, durante il recupero dei rottami e della riparazione della casa, in
molti si accorsero della presenza clandestina di Luigi, ma non lo segnalarono alle autorità fasciste”.
Il ritorno alle loro case.
“Dopo la liberazione con il passaggio dell’esercito anglo-americano Luigi Musiu raggiunse la sua
casa in Sardegna. Si sposò e, in viaggio di nozze con la moglie Maria, venne a trovarci e rimase da noi
diversi giorni. Nel corso dei decenni ritornò a trovarci altre due volte assieme ai figli.
Con mia moglie mi recai in Sardegna nel 1996 e un’altra volta nel 1997: fummo ospiti della famiglia
Musiu in una abitazione in riva al mare a Settimo S. Pietro di Cagliari. Organizzarono una gran festa e ci
fecero conoscere tutti i loro parenti e amici. Nel 1997 Luigi morì. Sua moglie Maria, tutte le settimane,
ci telefona per informarci della sua famiglia.
La mamma di Paolo, il pilota americano, nel 1946 ci scrisse una lettera di ringraziamento
dall’Oklahoma, con allegata una fotografia di Paolo con la fidanzata e in seguito c’inviò dei pacchi
dono. Dell’aereo caccia bombardiere resta un pezzo di un’ala d’alluminio duro che serve da tetto alla
casetta del cane”.
(Su segnalazione del prof. Gianni Cavinato).
La conferma dell’accaduto
Telegramma n. R. 98 – 68 … inviato dal Comando Militare alleato ai partigiani di Padova:
“x tenente Jackson pilotava Thunderbolt colpito da antiaerea nemica vicino a Tavo coordinate 3258”
Telegramma n. 477: …“ x attendiamo vostra risposta precisa non generica su risultati vostro intervento
Vostri 68 e 99 tenenti Lindsay et Jackson sono assieme stanno bene aiutati popolazione”.
(Dal libro: “Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto” a cura di Chiara Saonara. Istituto Veneto per
la Storia della Resistenza. Padova annuali 1988 – 1989).
_________________
(1) Il caccia precipitato a Tavo era un “Thunderbolt P47, il pilota si chiamava Douglas. Ricerca di Giuseppe
Versolato, Vicenza 03. 10. 2005.
106
In prima fila: Luigi Musiu
(ex- soldato del Regio Esercito
Italiano nascosto in casa Cavinato)
e la consorte Maria Murena,
dietro Dante Cavinato con la
moglie Franca De Marchi.
(Foto scattata a Cagliari del 1997).
Dante Cavinato che salvò
dalla deportazione in Germania
il sardo Luigi Musio e un pilota
degli Stati Uniti d’America.
(Fotografia del 2003).
La casa rurale della famiglia Cavinato ubicata in via Baruchella a Tavo di Vigodarzere, dove furono nascosti il fante
sardo Luigi Musiu e il pilota americano Paolo Jackson. Nel cortile a ridosso della casa nel lato ovest, l’11 febbraio 1945,
si schiantò un caccia bombardiere americano. (Foto 2003).
107
Quattro sbandati e un renitente alla leva.
Testimonianze di Antonio Ranzato (classe 1928) e da Fidenzio Ranzato (classe 1930), di Vigodarzere il
10. 08. 2003:
“Abitavamo in cinque famiglie in un’unica grande casa rurale, ubicata nell’attuale via Ca’ Zusto,
angolo con via S. Antonio, a Vigodarzere. Quell’edificio è stato modificato ed è attualmente in parte
abitato. Ognuna delle cinque famiglie coltivava 5 - 6 campi padovani di terreno in affitto. Nelle stalle si
allevavano dei bovini e di animali da cortile (galline, anatre e conigli).
Alcuni giorni dopo l’8 settembre 1943 entrarono nel cortile quattro giovani sbandati; avevano
abbandonato l’Autocentro del Regio Esercito Militare Italiano che consisteva in una officina meccanica
con diversi mezzi militari e ricambi. L’Autocentro si trovava nella zona ora adibita a campo sportivo di
Pontevigodarzere, a ridosso dell’argine nord del fiume Brenta.
I giovani (tutti di Bari e provincia) avevano molta fame e secondo la nostra tradizione cristiana, furono
sfamati e affidati alle famiglie, così suddivisi: Domenico Laterza presso la famiglia Raimondo Ranzato e
Emma Miozzo; Pastore fu ospitato da Giulio Ranzato e Angela Marangon; Vito fu tutelato da Olindo
Olivo e Brunetta Bonetto; Nicola fu alloggiato da Oreste Ranzato e Gemma Dalan.
Notte e giorno si viveva sul chi va là. Nella nostra casa c’era anche un mio parente, Evaristo, della
classe 1924, renitente alla chiamata alla leva militare. Il nuovo governo di Mussolini della Repubblica
Sociale Italiana o di Salò, aveva chiamato alle armi, in data 18 febbraio 1944, le classi 1923, 1924, 1925.
Gli sbandati, nelle notti d’inverno si riparavano dentro le case. Alle preoccupazioni del passaggio
dell’aereo ricognitore si sommava il rischio di perquisizioni da parte della Guardia Nazionale
Repubblicana o delle brigate nere. Per nascondere i nostri protetti, sotto la barchessa dove si mettevano
i carri agricoli e gli attrezzi di lavoro, avevamo scavato una fossa di tre metri per tre e per due di
profondità, la copertura era fatta con travi, tavole di legno e coperta con terra. Per fortuna da noi non
vi furono né bombardamenti aerei né perquisizioni.
Solo negli ultimi giorni della guerra una compagnia di soldati tedeschi delle SS (1), in transito sull’attuale
via S. Antonio, avendo notato dei partigiani vicino alla nostra abitazione (individuati perché tenevano
un cappello con un nastro rosso), spararono diverse raffiche di fucile mitragliatore senza,
fortunatamente, colpire le persone; furono colpiti, invece, i muri che per decenni rimasero testimoni del
fatto. Dopo una settimana dalla Liberazione con il passaggio delle truppe anglo-americane, le nostre
famiglie dotarono gli ospiti di una sporta di alimenti e, in gruppo, partirono per tornare alle loro
famiglie a Bari e dintorni. Ricordiamo che i nostri genitori più volte affermarono: I gavemo tratà come
nostri fioi; chissà se i sarà rivài a casa. (“Li abbiamo trattati come i nostri figli; chissà, se avranno raggiunto
le loro famiglie”). Di loro non è mai arrivata neppure una cartolina”.
__________
(1) I soldati erano diretti a Tavo dove vi era un importante presidio tedesco. Essi non videro il tritolo che
proveniva dall’argine del Brenta nei pressi della Certosa, che da alcuni giorni erano stato trasportato nelle
vicinanze di via S. Antonio dagli agricoltori.
108
I cugini Antonio Ranzato(a sinistra) e Fidenzio Ranzato.
Nel loro caseggiato trovarono rifugio quattro soldati sbandati di Bari. (Foto 2003).
Per la mancanza di alimenti l’allevamento avicolo domestico era di vitale importanza.
109
“Quanto minacciato nel suddetto Decreto non è stato mai attuato nella provincia di Padova.”
(Dr.ssa Chiara Saonara 20. 01. 2003).
Contro la violenza della guerra, la solidarietà della nostra gente.
La testimonianza è stata resa da Fosca Nicoletti (classe1935), Saletto di Vigodarzere il 27. 06 2004.
“Dopo l’euforia per la fine della guerra contro la Gran Bretagna e gli Stati Uniti d’America con la
firma dell’Armistizio tra il governo italiano e i rappresentanti dei governi anglo-americano, reso
pubblico l’otto settembre 1943, i soldati del Regio Esercito Italiano rimasti senza ordini e braccati dalle
truppe tedesche di occupazione, disperatamente cercavano aiuto e protezione.
Nella zona della “Maresana” di Saletto di Vigodarzere le famiglie Nicoletti, Cavinato e Facco aiutarono
i soldati Italiani allo sbando. I primi a chiedere aiuto furono gli avieri allontanatisi dal Magazzino della
Regia Aeronautica Militare di via Roma a Vigodarzere, seguirono poi i soldati del Regio Esercito
Italiano dell’Autocentro di Pontevigodarzere Padova. A tutti furono consegnati dei vestiti civili, del cibo
e dei consigli utili. La mia famiglia, come tante, aveva gravi problemi. Mio padre Noè, classe 1908,
nell’inverno del 1942 era al fronte nella zona del fiume Don in Ucraina e partecipò alla dolorosa e
tragica ritirata a piedi. Arrivò in Italia con una grave malattia dovuta ad una forma di tubercolosi
polmonare bilaterale. Nonostante le precarie condizioni di salute fu fatto rientrare al servizio militare.
110
L’8 settembre 1943, con una bicicletta offerta da una famiglia di agricoltori di S. Bonifacio (VR,
ritornò a casa. Non ebbe il necessario ricovero all’ospedale militare di Padova perché aveva sempre
rifiutato la tessera di iscrizione al Partito Nazionale Fascista. Fu, invece, ricoverato all’ospedale civile di
Camposampiero, con la retta a carico totale della famiglia. Mia madre, Regina Pasqua Tognon (classe
1911) chiamata Pasquina, per pagare gli alimenti e altre spese faceva la sarta confezionando dei vestiti
per delle signore di Padova. Con quell’attività riuscì a procurare lo stretto necessario per vivere e pagare
il debito accumulato per la degenza ospedaliera. Mio padre, ancora non guarito, ritornò a casa
dall’ospedale e poco alla volta riprese l’attività di calafato (lavoro d’impermeabilizzazione del fondo
delle barche con stoppa, pece e catrame). Lavorava all’aperto nell’area vicino all’approdo del traghetto
che collegava Saletto a Limena ed essendo ammalato di TBC la Todt gli rilasciò il cartellino di lavoro
bilingue (italiano e tedesco) con stampigliato la dicitura di invalido del lavoro”.
Due soldati italiani sbandati.
“Dopo l’8 settembre 1943 molti soldati italiani allo sbando entrarono nella mia abitazione per
ricevere accoglienza e aiuto. Due di quei soldati vi rimasero sino alla Liberazione (le ultime truppe
tedesche passarono per il territorio comunale di Vigodarzere domenica 29 aprile 1945).
Il primo si chiamava Renzo; proveniva da Sanremo (Imperia) ed era grande e simpatico. Qualche volta
per muoversi si recava lungo gli argini del fiume Brenta. In una di queste passeggiate aveva incontrato e
conosciuto alcune ragazze di Limena, che lo venivano a trovare nella nostra abitazione e gli donavano
dei pacchetti di sigarette, qualche camicia e altri regali utili. L’altro si chiamava Francesco, proveniva da
Milano, aveva circa 35 anni ed era volonteroso, faceva vari lavoretti e riparava biciclette. Quasi tutti i
giorni qualcuno gli consegnava il giornale quotidiano sovietico russo la “Pravda” (“La Verità”) scritto in
cirillico. La provenienza di quel quotidiano fu sempre un segreto condiviso fra mio padre e Francesco. I
due soldati dormivano nella soffitta della nostra abitazione tra cataste di mobili di alcuni sfollati.
Renzo e Francesco rimasero presso la mia famiglia anche negli ultimi giorni di guerra. In quegli stessi
giorni, nella Maresana di Saletto, ci furono diversi mitragliamenti aerei perché c’era in numeroso
transito di truppe tedesche e soldati delle SS. Dopo la Liberazione Renzo e Francesco ci salutarono
con un forte abbraccio e intrapresero il viaggio per raggiungere le loro abitazioni.
Renzo mantenne con mio padre un’intensa corrispondenza e ritornò a Saletto con la madre, il 5 ottobre
1947, nella circostanza del funerale di mio padre. Di Francesco non abbiamo ricevuto nessun’altra
notizia”.
Giovanni e Antony amici dei bambini.
“Nel mese di novembre del 1943, trovarono ospitalità e protezione anche due prigionieri inglesi:
uno si chiamava Giovanni, era biondo, di altissima statura ma malato di TBC e proveniva dal
Sud Africa; l’altro si chiamava Antony nato in Gran Bretagna allegro, furbo ed intelligente e pronto a
collaborare con le famiglie della zona con dei piccoli lavori. Per loro due c’era la solidarietà delle
famiglie Cavinato, Facco e Nicoletti e si intrattenevano volentieri a giocare con i bambini.
Si costruì un rifugio scavato nell’argine del fiume Brenta; il foro d’ingresso era mimetizzato da un
grosso macigno. Quando nella zona arrivavano i miliziani della Repubblica di Salò, venivano fermati da
mia madre Regina Pasqua Tognon e da Eleonora Cavinato e da altre donne le quali o con le buone
maniere o con l’uso minaccioso delle scope, intrattenevano i militi sino a quando i nostri protetti erano
al sicuro nei rifugi predisposti.
In uno dei tanti rastrellamenti della zona, Giovanni e Antony furono arrestati. Durante il viaggio di
trasferimento verso i campi di concentramento in Germania, esattamente nella stazione ferroviaria di
Verona, Antony riuscì a fuggire e ritornare da noi, mentre Giovanni fu internato in Germania, dove
fece amicizia con mio zio Aurelio Tognon il quale, al ritorno dalla prigionia, ci raccontò che Giovanni
morì per la dura vita del campo. Con il passaggio delle truppe anglo-americane l’ex- prigioniero Antony
ritornò nell’esercito inglese e fu assegnato al presidio militare di Padova. Ritornò a trovarci più volte
assieme a dei suoi commilitoni. Per riconoscenza, organizzavano pranzi presso la nostra abitazione,
durante i quali, partecipava, con allegria, il vicinato tutto. Con le loro camionette militari ci portavano a
fare delle lunghe visite sia a Padova che in provincia.
111
Negli anni successivi Antony dalla Gran Bretagna ritornò a Saletto almeno quattro volte, era
innamorato di Eleonora Cavinato detta Nora, conosciuta durante la permanenza clandestina, ma
Eleonora non accettò la proposta di matrimonio. Le fotografie con documenti dei prigionieri inglesi e
dei due soldati italiani, che conservavo in casa, furono distrutti, durante l’alluvione del 6 novembre
1966”.
I due ultimi giorni della guerra.
“I ponti stradali di Pontevigodarzere e di Curtarolo furono distrutti dai bombardamenti aerei. A
seguito di ciò, i soldati ( il resto di due divisioni corazzate tedesche) guadarono il fiume Brenta nel
punto dove nel 1956 fu costruito l’attuale ponte stradale che congiunge Saletto a Limena.
Ricordo bene quel primo pomeriggio di sabato 28 aprile 1945: soldati tedeschi (molti portavano la
divisa delle SS), in ordine sparso risalivano dal fiume Brenta. Erano bagnati fradici, furono attaccati da
uno sparuto numero di partigiani; i soldati reagirono rastrellando una vasta zona di Saletto e causando
la morte del cappellano don Beniamino Guzzo e del capo famiglia Guido Munaron. Inoltre circa 60 tra
ragazzi giovani ed anziani furono messi al muro per essere fucilati. Fu evitata la fucilazione per il
coraggioso intervento del parroco don Antonio Moletta e di una signora di Saletto di origine austriaca.
Accanto a queste note di dolore sento il desiderio di raccontare un aneddoto. Quella sera nella mia casa
c’era un andirivieni di soldati tedeschi. Mi trovavo accanto all’ingresso, quando i tedeschi
accompagnarono dentro un loro commilitone con un piede spappolato: era in condizioni gravi. Quel
tedesco mi chiamò ed esprimendosi in italiano mi disse: -Io non ritornerò nella mia famiglia, ho una
figlia che si chiama Elisabetta e ha la tua età, per favore, quando la guerra sarà terminata, consegna
questo portacarte (conteneva fotografie e i suoi documenti) all’ambasciata tedesca.
Presi in consegna quei documenti e in seguito furono recapitati dai miei genitori al Consolato tedesco di
Venezia”(segnalazione di Gino Panizzolo). La testimonianza appena descritta viene confermata da Fernanda
Serraggiotto Facco oggi 23.05.06: “Mio suocero Giulio Facco ripetutamente mi ha raccontato della presenza dei
prigionieri inglesi e dei soldati italiani sbandati protetti dalla famiglia di Noè Nicoletti”.
L’abitazione di
Fosca Nicoletti, ubicata
nell’attuale via Annibale da Bassano
(nel 1945 zona Maresana a Saletto)
dove furono nascosti due prigionieri
inglesi e due soldati sbandati italiani.
(Foto 2004).
Solo di notte.
Le testimonianze rese sono dei fratelli Silvano Schiavo e di don Adriano Schiavo del 16 agosto 2005.
La famiglia di Schiavo Pasquale (classe 1910) e Maria Rossetto (classe 1917) con altri 13 parenti
(di cui una inferma da otto anni) abitavano nella stessa casa nell’attuale via Busiago a Saletto.
Come attestano i documenti e dalle testimonianze la famiglia Schiavo, nascose due prigionieri
sudafricani, dai primi di ottobre 1943 sino a metà del mese di ottobre 1944.
Si facevano chiamare Napoleon e Carnera, si sa che quasi tutte le notti le trascorrevano nel fienile della
fattoria della famiglia, mentre all’alba si allontanavano guardinghi. Ritornavano a notte inoltrata e prima
di coricarsi nel fienile passavano nel pollaio dove la famiglia metteva per loro del cibo.
La famiglia Schiavo era visitata dai partigiani che chiedevano alimenti e soldi. In particolare la sera
del 2 ottobre 1944 pretesero un prestito di lire 10.000 e una mucca, rilasciando una ricevuta del
112
Comando di Brigata. Nonostante le
numerose richieste di rimborso quanto
prestato non fu più restituito. Anche i
fascisti di passaggio si fermavano in
quell’abitazione e il capo famiglia forniva
loro del pane biscotto, del salame e
qualche bicchiere di vino.
Dalle testimonianze è emerso che i due
prigionieri all’arrivo presso la famiglia
ospitante avevano aiutato a pigiare l’uva
con la macchina ottenuta a prestito dalla
famiglia Pegoraro che abitava nell’attuale
via Vittorio Veneto a Vigodarzere. La
macchina pigiatrice e diraspante, era una
delle prime nel territorio padovano e per
farla funzionare occorreva l’impiego di
quattro uomini. Verso la metà del 1944 i
due prigionieri scomparvero senza lasciare
notizie.
L’attestato inviato alla famiglia Schiavo
Pasquale dal Comando anglo-americano
conferma l’aiuto dato ai prigionieri inglesi.
Le famiglie Frigerio e Ranzato: un’amicizia da oltre 60 anni.
Testimonianza resa da Antonia Ranzato (classe1920), di Vigodarzere il 23.02.2003.
“Erminio Frigerio, classe 1922, abitava vicino al lago di Como. Nel 1942 era in servizio militare
nell’Autocentro del Regio Esercito Italiano, che si trovava nella zona dell’attuale campo sportivo di
Pontevigodarzere, a nord del fiume Brenta. Su segnalazione del dirigente del servizio religioso don
Giulio Rettore, che era anche arciprete di Vigodarzere, Erminio si presentò nella nostra abitazione e
fece conoscenza con tutti noi Ranzato abitanti nell’attuale abitazione via don Milani, a Vigodarzere. Il
tempo libero dagli impegni militari lo passava da noi e ci aiutava nel lavoro dei campi.
Dopo l`8 settembre del 1943 abbandonò l’esercito e venne a stare da noi. Indossò i vestiti civili, scavò
una buca nell’orto e sotterrò la divisa militare. Più tardi, cercò affannosamente il suo portafoglio, era
rimasto nella tasca dei calzoni della divisa e dovette recuperarlo. I miei fratelli abbandonarono il servizio
militare per tornare a casa: Ireneo ritornò da Trieste, Alfredo da Genova e Antonio dalla prigionia in
Francia. Tutti erano sfuggiti alla cattura dei soldati dell’esercito tedesco. Alla fine del mese d’ottobre i
miei fratelli erano tutti rientrati a casa. C’era il pericolo di rastrellamenti della milizia fascista che cercava
i soldati ritornati a casa, i quali non avevano aderito alla nuova Repubblica Sociale Italiana”.
Un rifugio sotterraneo.
“I miei fratelli, preoccupati del nuovo pericolo, costruirono una stanza sotto il cortile. L’ingresso era
collocato nella mangiatoia della stalla. Attraversando un cunicolo si raggiungeva il nascondiglio
sotterraneo che aveva le pareti in muratura, il tetto di travi e tavole di legno. Il tutto poi era coperto di
terra, diventando un’ampia stanza sotterranea, con sopra il cortile. Erminio ci aiutò e nella costruzione
113
del rifugio. Il nascondiglio, molto capiente, fu poi usato anche da molti giovani della zona durante i
rastrellamenti del 1944. La settimana prima del Natale 1943 Erminio volle tornare a casa a Como.
Affrontò il viaggio in borghese e senza documenti, seguendo i consigli dei miei fratelli che già avevano
affrontato il viaggio di ritorno a casa. Scendeva dai treni prima delle stazioni ferroviarie e risaliva dopo il
centro abitato in aperta campagna (nelle stazioni i soldati tedeschi controllavano sempre tutti i vagoni).
Dopo che fu tornato a casa, sua madre si accordò con dei valligiani molto pratici della frontiera italo–
svizzera ed Erminio riparò in Svizzera, paese neutrale. Terminata la guerra Erminio si sposò e continuò
a vivere a Como. Erminio ogni anno è ritornato per aiutarci a vendemmiare ed è stato sempre
presente in occasione dei matrimoni della famiglia. Due anni fa, per il giorno del suo 80° compleanno,
ci invitò tutti a Como con pernottamento e pranzo in un albergo a sue spese. Da quando è rimasto
vedovo è ancora più legato alla nostra famiglia e spesso viene a vivere da noi”.
(Su segnalazione di Ivano Ranzato).
Da sinistra, accosciati, il quarto è l’ex- militare del Regio Esercito Erminio Frigerio;
in piedi, la seconda è Antonia Ranzato, il quinto, Alfredo Ranzato attorniato dalla numerosa famiglia.
(Foto del 1990, collezione di Gabriele Ranzato).
114
:
VIGODARZERE E PADOVA STORIE PARALLELE
Collaboratori e accompagnatrici dei prigionieri inglesi e degli ebrei.
Dalle testimonianze risulta che dei 36 prigionieri, nascosti nel territorio del comune di Vigodarzere,
3 furono accompagnati sino in Svizzera, eludendo la sorveglianza della Guardia Nazionale
Repubblicana (1), dei soldati tedeschi e, da metà luglio 1944, delle brigate nere che spadroneggiavano
ovunque. Eppure le diverse centinaia di prigionieri, che dalla zona di Padova furono accompagnati alla
frontiera o nel territorio svizzero, avevano tratti somatici che evidenziavano la loro origine straniera.
__________
(1) E’ noto che la milizia repubblicana e in particolare i Carabinieri spesso evitavano di intervenire per arrestare i
prigionieri inglesi o i soldati italiani sbandati.
I consigli del vescovo Agostini
“Radunato il clero cittadino, il Vescovo Mons. Carlo Agostini esortò a lavorare per la salvezza dei
fratelli. I Sacerdoti e Religiosi prontamente obbedirono. La Parrocchia del Duomo, del Bassanello e di
San Prosdocimo fecero da centro di accoglimento dei prigionieri. Queste Parrocchie furono prese di
mira dai fascisti che spiavano ogni mossa dei sacerdoti e delle persone che entravano in canonica”.
Accoglimento in canonica di 12 prigionieri.
“La sera della domenica 5 dicembre 1943 una segreta informazione avvertiva il parroco don
Antonio Varotto che durante la notte sarebbe avvenuta una perquisizione nella sua parrocchia di S.
Prosdocimo nella città di Padova. Don Antonio si premurò di mettere al sicuro i prigionieri anglo americani e li spedì, verso le ore 22.00, a Terranegra pregando don Giovanni di accoglierli e di metterli
al sicuro. Nel teatrino parrocchiale stavano, quella sera, debuttando giovani di Azione Cattolica col
dramma di Ambrosi: “Il grande silenzio”. Al termine della rappresentazione il parroco accolse in
canonica i 12 prigionieri e, d’accordo coi giovani attori, procurò loro del cibo, bevande e studiarono nel
contempo il modo di occultarli: in quella notte stessa alcune famiglie si prestarono alla bisogna. I
prigionieri rimasero a Terranegra per otto giorni. Alla mattina essi raggiungevano la canonica e vi
rimanevano nascosti mangiando quello che le famiglie fornivano, giocando a carte ed ascoltando la
radio inglese. Otto giorni dopo il Comitato di Liberazione di Padova si fece premura di spedire i
prigionieri a Venezia, accordandosi con il Comitato di Liberazione di quella città. Con mezzi e persone
diverse essi furono condotti chi a S. Sofia, chi alla Stanga e chi a Ponte di Brenta per essere condotti
con la ferrovia secondaria (Società Veneta Ferrovie) fino a Mestre - Venezia dove persone incaricate
dovevano prelevarli e consegnarli al Comitato di Liberazione di Venezia”.
Vittime del doppio gioco.
“Quello di Venezia era un falso Comitato di Liberazione vale a dire un comitato fascista che faceva
il doppio gioco; infatti, un prigioniero sudafricano che don Giovanni aveva inviato a Venezia, riuscì a
fuggire e ritornare a Terranegra, rivelando la trama. Don Giovanni riferì la cosa al Comitato di
Liberazione di Padova che immediatamente inviò due persone, ma queste furono arrestate ed eliminate.
La mattina del 14 dicembre 1943 vennero a Padova degli agenti fascisti veneziani ed arrestarono venti
persone che si erano interessate per aiutare i prigionieri”.
Arresto del Parroco.
“Il primo ad essere arrestato fu don Giovanni Fortin che, condotto al comitato fascista di Venezia
assieme agli altri, fu immediatamente processato e condannato.
Da lui si voleva sapere dove erano gli altri prigionieri, in quali Parrocchie erano nascosti e da quali
persone erano state aiutate. Si rifiutava di rispondere e fu condannato alla fucilazione che doveva essere
eseguita nel cortile dallo stesso comitato il mattino del 15 dicembre 1943 alle ore otto.
Avuto il permesso di celebrare l’ultima Messa, vi fu un supplemento di interrogatorio e da qui fu
dichiarato: “Traditore della Patria per aver favorito il nemico procurandogli cibo, vestiti e pane”.
115
Come risposta, don Giovanni affermò che questa è la dottrina del Vangelo. Il Presidente esclamò: “ Ed
ora per il suo Vangelo, lei, sarà fucilato…”.
(Dal libro: “ Non più reticolati nel mondo” di
dell’Internato Ignoto, Terranegra (Padova 1995).
Ferdinando Baldan e Giuseppe Bracconieri. Tempio
Al ritorno dalla prigionia.
Don Giovanni Fortin fu invece internato a Dachau in Germania. Ritornò a Terranegra il 24 giugno
1945 e costruì a memoria il Tempio contenente la salma dell’Internato Ignoto.
Gli avvenimenti sopra descritti sono riportati nella cronistoria parrocchiale di Terranegra di Padova,
scritti di pugno da Mons. Giovanni Fortin.
Don Franco Tescari Arciprete di Vigodarzere (dal 18. 11. 1979 al 25 ottobre 2003 ) nel 2002 mi disse:
“ Nel 1978 insegnavo l’inglese nel seminario maggiore di Padova, tradussi le lettere che i prigionieri
inglesi nel 1943 avevano consegnato a don Giovanni Fortin perché fossero inoltrate alle loro famiglie;
quelle lettere che il parroco aveva nascoste dentro un vaso di ceramica nella vetrina di un mobile,
sfuggirono alla perquisizione della canonica e don Giovanni Fortin al ritorno dal campo di
concentramento di Dachau le ritrovò ancora nascoste. In pratica gli ex-prigionieri ricevettero dopo 35
anni le lettere da loro scritte durante la vita clandestina nel padovano negli ultimi mesi del 1943”.
Quelle lettere in sintesi sono pubblicate nel libro: “Dal soccorso ai prigionieri inglesi ai campi di
sterminio tedeschi di Pierantonio Gios, gennaio 1987, a pag. 26”.
Un busto per Placido Cortese, noto come il "Padre Kolbe padovano".
“L'otto ottobre del 2004 è stato inaugurato a Padova nella Basilica del Santo un busto raffigurante
padre Placido Cortese, un francescano minore conventuale già direttore della rivista "Messaggero di
Sant'Antonio", il quale salvò un numero imprecisato di persone dalla persecuzione nazista, prima di
essere incarcerato, torturato e ucciso dalla Gestapo. Il un libro dal titolo: "Padre Placido Cortese.
Vittima del Nazismo" appena ripubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova, padre Apollonio Tottoli
racconta che Nicolò Cortese di Cherso, chiamato Padre Placido tra i suoi confratelli, dell'eroe non
aveva l'aspetto: piccolo, mingherlino e zoppo. Come tutte le persone normali sorprendentemente aveva
in sé coraggio e determinazione tali da fargli affrontare in preghiera il martirio".Nel mezzo della guerra,
con Padova occupata dai nazi-fascisti, Padre Cortese aveva organizzato una rete che sottraeva
prigionieri ai campi di concentramento nazista. Salvò rifugiati, prigionieri, perseguitati politici ebrei,
sloveni e altri. Il direttore di una tipografia il signor Carlo Bolzonella, ha raccontato: "Padre Cortese era
un angelo di uomo, carità da far rabbrividire, frate veramente tutto cuore". "Una volta l'ho visto
piangere, perché non poteva aiutare tutti quelli che glielo chiedevano. Aiutava gli ebrei e per loro mi
chiedeva spesso due operai che poi si recavano verso Como e la Svizzera", ha aggiunto. Ma poiché la
Gestapo cominciò a cercarlo, padre Placido decise di non uscire più dal convento che godeva della
extraterritorialità pontificia. In seguito, l'otto ottobre del 1944, accadde che con un pretesto di aiutare
una persona in difficoltà, fu attirato fuori delle mura del convento, per poi essere preso dai nazisti.
Dicono alcuni testimoni oculari che, durante gli interrogatori, nonostante le torture inaudite, si addossò
ogni responsabilità e non rivelò alcun nome dei suoi collaboratori della rete della carità.
Vladimiro Vauhnih, colonnello sloveno, capo della rete informativa pro-alleati, ha raccontato che: "Al
religioso la Gestapo cavò gli occhi, tagliò la lingua e lo seppellì vivo".Quando morì padre Placido aveva
37 anni. Dal gennaio 2002 è stata avviata proprio a Trieste, dove morì sotto tortura, la causa di
beatificazione di questo martire della Carità che la gente chiama già il "Padre Kolbe padovano". Padova,
mercoledì, 13 ottobre 2004 (zenit.org ).
Ricordi di padre Placido Cortese.
Testimonianza resa da Mario Gobbin classe 1929, di Altichiero in Padova il 09. 09. 2002:
“Verso la fine di maggio del 1943 fui presentato al padre Placido Cortese, allora direttore del
“Messaggero di S. Antonio”, da una mia ex-insegnante di matematica (credo che il padre fosse il suo
direttore spirituale) per una richiesta di lavoro.
Non avevo ancora compiuto 15 anni. Pur essendo molto giovane, mi ricordo assai bene quel mio
primo incontro con padre Cortese, nel chiostro della Magnolia, al Santo; veniva dalla Basilica, dopo
aver confessato e lo ricordo così: piccolo di statura, mingherlino, un po’ claudicante e dall’aspetto mite
116
e affabile, un volto sorridente che ispirava fiducia e serenità, gli occhi erano vispi intelligenti e pieni di
comprensione. Dopo la mia richiesta di lavoro, mi fece alcune domande e alla fine disse: “Ripassa
domani, che un posticino ci sarà anche per te”. Il giorno dopo fui assunto e assegnato, data la mia
giovane età, al negozio di oggetti religiosi. Credo di essere stato l’ultimo assunto da padre Cortese.
Eravamo in guerra e le cose peggioravano di giorno in giorno, ma grazie a P. Cortese mi sentivo
felice, perché avevo trovato il mio primo impiego. Fin dai primi giorni in cui prestavo servizio tante
persone chiedevano di poter incontrare il frate. Ero nuovo dell’ambiente e non sapevo nulla di lui, ma
ben presto mi resi conto che il Padre era impegnato ad aiutare tante persone che a causa della guerra,
della politica e della diversità di religione, si trovavano in difficoltà gravissime.
Dopo la caduta del regime fascista vi era una confusione tremenda, specie nei primi tempi, a causa
del dissidio di molti cittadini con le forze militari tedesche, assai numerose a Padova. Le caserme si
svuotarono e così pure le carceri e i campi di prigionia militari. Molti si dettero alla fuga e alla macchia.
All’improvviso, se prima c’era da aiutare gli sfollati e i senza tetto, P. Cortese si trovò ad affrontare
altri casi vitali e richieste di aiuto, sia di militari fuggiaschi, sia di prigionieri di guerra evasi dai campi di
prigionia; tra questi ex-prigionieri vi erano molti slavi e croati per i quali padre Cortese si impegnò
particolarmente. Non rifiutò e non lasciò mai nessuno senza il suo aiuto materiale. Come facesse ad
accontentare tutti per me è rimasto sempre un mistero. Durante la giornata veniva molte volte in
negozio dove incontrava gente che lo aspettava, poi usciva nel chiostro e trovava altre persone che
avevano bisogno di lui. Ho visto con i miei occhi padre Cortese distribuire con grande generosità
denaro e indirizzi di persone fidate, per trovare aiuto. Posso affermare questo in quanto più di una
volta fui io stesso incaricato da padre Cortese di accompagnare persone (per lo più stranieri fuggiti dai
campi di prigionia o provenienti da chissà dove) in certi luoghi da lui indicatimi.
Mi diceva: “Accompagna questo o questi signori al tale indirizzo. Dirai che ti manda padre Cortese”.
Non parlare mai con le persone che accompagni e una volta sistemate vieni via immediatamente. Se
qualcuno ti ferma e ti chiede chi siano, rispondi semplicemente che ti avevano chiesto l’indicazione di
una via che non conoscevano e tu avevi fatto il piacere di accompagnarli”.
Più volte ho accompagnato delle persone affidatemi dal padre alla stazione di Santa Sofia (ora
soppressa). Il mio compito era quello di acquistare i biglietti e di sistemare quelle persone sulla littorina,
possibilmente in scompartimenti non troppo affollati, un rapido saluto a quei poveretti dal destino
incerto, un cenno con la mano e poi di corsa al “Messaggero”, dove lui mi attendeva per saper com’era
andata la missione. Spesso era preoccupato. Una volta gli è sfuggita la frase: “Poveretti, speriamo che ce
la facciano”! Padre Placido Cortese era una persona molto umana e sensibile, amava veramente il
prossimo più di se stesso e viveva intensamente i drammi, le preoccupazioni e le angoscie della gente
senza distinzione di idee e di orientamenti, specie in quei momenti tanto tristi di dolore, di
persecuzione, di distruzione e di morte. Per tutti aveva un sorriso e parole di incoraggiamento per
continuare a vivere e a sperare. Il risultato si poteva capire o, almeno, intuire dal volto delle persone
dopo un incontro con lui. I suoi rapporti con il personale del “Messaggero di S. Antonio” non posso
dire quali siano stati, dato il poco tempo
trascorso alle sue dipendenze, ma sono convinto
che fossero buoni, se non ottimi perché, dopo
anni dalla sua scomparsa, era ancora vivo il
ricordo della sua bontà e generosità in quanti
l’avevano avuto come direttore. Certo è che, alla
notizia della sua scomparsa e in che modo, tutti
ne siamo rimasti addolorati e sbigottiti: avevamo
perduto una persona di grande cuore aperta al
prossimo fino all’estremo sacrificio della propria
vita”.
Mario Gobbin il fattorino di Padre Placido Cortese.
(Foto 2003).
117
La lunga mano della Provvidenza.
Testimonianza resa da Gabriele Nomito (classe 1941), di Altichiero in Padova il 24 ottobre 2003:
“Mio padre Cesare Nomito, nato a Padova, il 17 luglio 1909, abitava ad Altichiero e morì nel mese
di giugno 1954; era una persona laboriosa, altruista, buono e amante della famiglia e molto discreto.
Durante la guerra lavorava al “Messaggero di Sant’Antonio” come uomo di fiducia del direttore padre
Placido Cortese. Mio padre molte notti, su richiesta del direttore, non tornava a casa per accompagnare
in treno, vicino al confine della Svizzera ebrei e, successivamente, soprattutto prigionieri inglesi.
Oltre ai rischi di questi viaggi, padre Cortese gli aveva affidato un libretto nel quale erano annotati
gli indirizzi di famiglie del circondario presso le quali erano nascosti prigionieri inglesi.
Mio padre, avvolto nel tabarro, di notte con una piccola barca, a volte accompagnato da mia madre,
attraversava il fiume Brenta e si recava, nei pressi della Certosa, da una famiglia che nascondeva due
prigionieri inglesi, per portare loro da mangiare. Nell’inverno del 1944-45, essendo gelata l’acqua del
fiume, mio padre riuscì ad attraversarlo camminando sul ghiaccio.
Dopo la Liberazione delle truppe anglo-americane, la Commissione Militare Alleata gli inviò un
attestato di benemerenza e di gratitudine per l’aiuto fornito ai prigionieri inglesi”.
(Su segnalazione di Mario Gobbin).
Attestato di benemerenza rilasciato a Cesare Nomito, firmato dal Gen. Alexander.
118
Dal salvataggio dei prigionieri di guerra al campo di prigionia di Mauthausen
Le tre sorelle Martini, su incarico di padre Placido Cortese accompagnarono da Padova a Oggiono
(Como) circa 300 tra ebrei e prigionieri inglesi; furono arrestate e internate. Queste le loro
testimonianze:
Da Padova ad Oggiono verso la Svizzera
Testimonianza di Teresa Martini (classe 1919) ved. Redetti, decorata con la croce al merito a Padova nel
1981. “Ho frequentato il liceo scientifico, iscrivendomi poi alla facoltà di chimica a Padova nel 1940.
Poiché la mia famiglia di cattolici praticanti non si era mai occupata di politica non avevo mai fatto
riflessioni approfondite sulla situazione del nostro Paese. All’Università, invece, cominciai a prendere
coscienza, discutendo con alcuni miei compagni di studio, soprattutto su problemi sociali e sul
confronto fra società democratiche e dittatura fascista. Le teorie razziste del nazismo e l’alleanza
militare con la Germania mi avevano, in seguito, rafforzato l’avversione al fascismo.
Con il 25 luglio del 1943 arrivò improvviso l’annuncio del crollo del fascismo che ci riempì di gioia,
ma la nostra mente presagiva oscure vicende.
L’8 settembre 1943, con lo sfaldamento dell’esercito, ci vide tutti impegnati, soprattutto noi donne,
nell’opera di assistenza ai soldati sbandati. Un nuovo più difficile compito ci attendeva nei giorni
seguenti: trovare rifugio per i numerosi prigionieri, anglo-americani e alleati, evasi dai campi di
concentramento, ai quali i tedeschi cominciarono a dare la caccia. Si costituì allora una rete clandestina
per farli espatriare in Svizzera con documenti falsi e il padre Placido Cortese, dei frati di S. Antonio, fu
tra gli organizzatori il più importante. A quest’opera di solidarietà partecipai entusiasta con mia sorella
Carla Liliana, ancora giovanissima; si unirono a noi alcuni studenti ed altre persone buone, delle quali
ricordo qualche nome: Delfina Borgato e sua zia Maria di Saonara, Milena Zambon di Piove di Sacco,
Parisina Lazzari di Padova.
Padre Placido Cortese per truccare i documenti toglieva dagli ex-voto le foto cercando le
rassomiglianze con i prigionieri o gli ebrei. La via per la Svizzera da Padova passava per Milano, dove
un certo Armando provvedeva ai collegamenti con l’organizzazione svizzera. La partenza avveniva con
singole persone o a piccoli gruppi, in treno o con mezzi di fortuna. Lo stesso canale Milano-Svizzera
diverrà poi uno dei mezzi di comunicazione fra il Comitato di Liberazione Nazionale e gli alleati.
Nell’autunno e nell’inverno 1943 i primi gruppi partigiani già operavano attivamente contro i
nazifascisti con azioni di sabotaggio. Altri diffondevano la stampa clandestina alla cui preparazione
partecipavo anch’io con altri compagni già esperti e le nuove reclute partigiane: Gianfranco Bosio, i
fratelli Prosdocimi, Ennio Ronchitelli, Lanfranco Zancan, tutti del Comitato di Liberazione nazionale, il
cui presidente era il prof. Egidio Meneghetti. Il 14 marzo del 1944 la mia attività e quella di mia sorella
vennero stroncate in via Galilei dove abitavamo, perché due agenti delle SS tedesche ci arrestarono e ci
portarono prima in Prato della Valle al loro Comando poi, con altri compagni di sventura, ci fecero
salire su di un camion e condotte alle carceri di S. Maria Maggiore a Venezia. Rimanemmo là circa
quattro mesi in celle isolate. Un tenente delle brigate nere, provvedeva agli interrogatori. Negammo
sempre di conoscere i nomi dei compagni e degli organizzatori; mia sorella per questo si prese anche
delle botte e io, forse perché piccola e mingherlina, le risparmiai.
In luglio venne decisa la nostra sorte: destinazione campo di concentramento in Germania. Allora
era tutto molto incerto sulla vita nei campi di punizione; eravamo timorose del nostro futuro, ma anche
ottimiste. Con i soliti treni del dolore partimmo da Verona in un lungo interminabile viaggio verso
l’Austria. Arrivammo ad una stazione, fummo fatte scendere e incolonnate (eravamo in migliaia)
cominciammo la marcia, si sentivano degli spari della scorta SS davanti la colonna. Qualcuno poi diceva
che ci avrebbero rapati a zero; tutto questo e il buio della notte faceva aumentare la nostra apprensione
ed angoscia. Giungemmo quasi all’alba a Mauthausen e ci rendemmo conto della penosissima realtà,
dopo i consueti rigorosi controlli e visite mediche, ci raparono a zero e iniziò la nostra vita nelle
baracche; nel campo c’erano diversi ebrei e molti prigionieri russi trattati ancora peggio.
A Linz, dopo un certo periodo, vi fu un violento bombardamento, con diverse centinaia di morti,
anche tra italiani, furono colpiti numerosi impianti industriali bellici e così venne richiesta della mano
d’opera di gente giovane. Mia sorella ed io partimmo per un campo di smistamento dove sostammo
insieme a molti altri deportati per un breve periodo. Un giorno, durante la breve passeggiata consentita,
sentimmo con gioia due giovani parlare in dialetto padovano. Uno di questi era Andrea Redetti (in
119
seguito divenne mio marito), studente di medicina a Padova, militante del Fronte della Gioventù; aveva
partecipato anche lui con entusiasmo alla Resistenza a S. Margherita d’Adige e nei paesi vicini. Poi
venne arrestato e condannato alla deportazione a Mauthausen. Dal campo di smistamento partimmo
per il lavoro obbligatorio a Grein-Linz, in un’officina dove venivano costruiti pezzi d’aereo (venimmo a
saperlo dopo); io facevo il turno di 8 ore alla fresatrice e mia sorella al tornio ad acqua per 12 ore.
Anche là non mancammo di sabotare la produzione, pensando che ciò poteva far finire più presto la
guerra; era estremamente pericoloso, ma allora eravamo giovani ed incoscienti. Lavoravano nell’officina
dei deportati di tutte le nazionalità, senza nessuna misura di prevenzione e con vitto insufficiente. Al
ritorno mia sorella dovette per lunghi anni venire curata in un sanatorio e non poté avere figli. Con lei
lavorava anche Delfina Borgato, la zia Maria Borgato entrambe da Saonara (PD); l’anziana, era stata
inviata in un campo di sterminio, da dove non fece più ritorno.
Quando la guerra finì e noi facemmo finalmente ritorno a casa, andai alla Basilica del Santo per
avere notizie di padre Cortese e seppi con dolore che era stato arrestato dalle SS il 7 ottobre 1944; da
Padova portato a Trieste e torturato. Da allora si persero le sue tracce; si suppone sia stato ucciso e
bruciato in un forno crematorio nella Risiera di S. Sabba”.
(Dal libro: “Donne nella Resistenza”. Editore Zanocco, Milano, 1981. A cura dell’Anpi di Padova).
Teresa Martini, che ora
abita nella zona della
Guizza a Padova.
(Foto del 1941).
Prigioniera a Mauthausen.
Testimonianza di Liliana Martini De Muri (classe 1926), Padova, 1981.
“Ho perdonato, ma non si deve dimenticare. Il 13 marzo 1944 avevo incontrato dei prigionieri inglesi a
Saonara (PD) presso la famiglia contadina Borgato, dove da mesi vivevano. Si fingevano prigionieri di
guerra inglesi scappati l’8 settembre 1943 dai campi di concentramento. In realtà erano soldati delle SS
incaricati di scoprire il movimento, la rete clandestina che organizzava l’accompagnamento di cittadini
di diverse nazionalità fino al confine svizzero. Tale incontro precedeva la partenza dei prigionieri per la
Svizzera, dove noi sorelle li accompagnavamo. Il giorno successivo sono stata arrestata con mia sorella
Teresa a Padova dalle SS tedesche. Fui tradotta nel carcere di S. Maria Maggiore, a Venezia. Allora la
cosa peggiore fu per me il prendermi le impronte digitali, come i delinquenti, e la vista della carceriera :
alta, magra, vestita di nero e con un grande mazzo di chiavi alla cintola. Fui portata in cella
d’isolamento (n. 5) di circa m. 2x1,5. Ebbi interrogatori, schiaffi, minacce di ritorsioni nei riguardi degli
altri familiari, ma sempre tanta fiducia in Dio. Da qui, circa il 10 luglio 1944, fui condotta con tanti altri
prigionieri dello stesso carcere (speravamo che nel tragitto dal carcere alla stazione ferroviaria il
Comitato di Liberazione Nazionale provvedesse alla nostra liberazione …) a Bolzano, altro campo di
concentramento. Qui mi trovai finalmente insieme a mia sorella Teresa, a Milena Zambon, a Delfina
Borgato ed altre. Ai primi di agosto fui condotta in treno a Mauthausen. Terribile e indicibile il primo
impatto! Giunti col buio alla stazione ferroviaria di Mauthausen, grazioso paesino austriaco, fummo
incolonnati, dolenti ed ignari di quanto ci attendeva. Alla vista dell’enorme portone (così m’è parso
allora), delle alte mura e della garitta con teschio sovrastante (notte di luna punteggiata di stelle), mi
hanno fatto desolatamente pensare: “Dio, non esisti” e mia sorella rivolta a me, disse sottovoce: “Da
qui non usciremo più vive”. Trascorremmo tutta la notte in piedi in un cortile illuminato a giorno e
120
guardate a vista; alle nostre spalle una bella baracca con fiori intorno, quella che facevano visitare ai
rappresentanti della Croce Rossa. Nel giorno seguente fummo sottoposte a getti d’acqua bollente e
fredda, alternativamente; poi una “visita medica” molto umiliante. Avuti gli abiti da carcerati con il
triangolino rosso con sigla IT e numero di matricola sottostante, in 15 ragazze siamo state rinchiuse in
una cella molto piccola (non potevamo neppure distenderci sul pavimento nudo e inclinato). Fame e
preoccupazioni del domani, ma nello stesso tempo di fiducia in Dio. Qui ho compiuto 18 anni.
Dopo una ventina di giorni, fatteci denudare, ci hanno portato nella camera a gas: bassa piastrellata
di bianco, con tanti fiori sul soffitto. Miracolosamente uscite vive da qui, riavuti i nostri abiti civili, ci
hanno portato a Linz, nel campo di concentramento n. 39. Anche qui, sempre fame, sporcizia, cimici e
pidocchi, ma anche una grande solidarietà tra noi prigionieri politici. Il ricordo della famiglia, delle
buone cose passate, la recita di poesie, la preghiera, la conoscenza di compagni di sventura sono stati di
grande conforto assieme alla certezza dell’aiuto divino.
Fui avviata al lavoro come tanti milioni di stranieri; vita dura (12 ore al giorno di lavoro al tornio),
cibo sempre scarso, freddo, abiti mal ridotti. Meno male che i tedeschi ci fornirono di una tuta di tela
pesante specialmente il turno di notte; la mia testa minacciava di cadere, per il sonno e la debolezza,
sull’asse che girava. Una volta un piccolo truciolo di ferro mi si è conficcato nell’occhio sinistro; dopo
15 giorni trascorsi al buio, ci ho visto ancora.
Bombardata la fabbrica, i macchinari salvati sono stati trasferiti nelle cantine del castello di Grein
a.d. Donau; in quel periodo ho lavorato per il loro trasporto anche 14 - 15 ore al giorno in compagnia
della fame. Piccolo il nuovo lager, ma terribile la lager fuhrerin e così il nuovo meister nel lavoro. Grossi
problemi perché eravamo donne e la fame e il freddo erano compagni quotidiani. Ma avevamo una
forte volontà di farcela, in barba ai nazisti. In varie circostanze ho sperimentato l’aiuto divino. Infatti,
una volta ho corso il rischio immediato di morire ammazzata e cioè quando un aguzzino delle SS mi ha
puntato la pistola contro (lo avevo chiamato carogna), ma l’intervento di un ufficiale della Wehrmacht
(che di nascosto ci aveva prestato la “Vita nova” di Dante) l’ha fatto desistere abbassandogli il braccio.
Scarsità di notizie dall’esterno, bombardamenti frequenti e rovinosi ad est come ad ovest. Teresa ed io,
siamo fuggite nottetempo con una giovane greca e incontrati dei militari italiani, a loro volta fuggiti dal
campo di concentramento, ci siamo presentate ad un comando militare americano nel paese di
Mauthausen. Da essi abbiamo avuto un lasciapassare. Le strade del paese rigurgitavano delle più
svariate merci a testimonianza della precipitosa fuga dei tedeschi al sopraggiungere delle armate alleate.
Da parte mia, incredulità, stupore, meraviglia, per quanto di gioioso ci stava accadendo; e, finalmente,
cibo. Presto a casa.
Ma ad Innsbruck, altra sosta, a causa del tifo petecchiale. Qui mia sorella s’è ammalata di difterite, ma fu
ben curata dagli americani. Ormai non ci faceva paura più niente e nessuno. Siamo rientrate a Padova in
un soleggiato meriggio di giugno, non sapendo chi a casa avremmo ritrovato i nostri familiari (genitori e
12 fratelli, noi comprese). In seguito, ho trascorso due anni a letto, immobile, per quanto avevo subito
durante la prigionia”.
(Dal libro: “ Donne nella Resistenza” Editore Zanocco, Milano, 1981,
A cura dell’Anpi di Padova).
Liliana Martini De Muri,
ora abita a Zanè -Vicenza.
(Foto del 1941).
121
Dal salvataggio dei prigionieri di guerra al campo di prigionia di Bolzano
Testimonianza di Lidia Martini Sabbadin (classe 1921), Padova 1981.
“Dopo l’8 settembre 1943 con l’annuncio dell’Armistizio e l’occupazione tedesca di Padova i
prigionieri di guerra fuggiti dai campi di concentramento vissero ore drammatiche nei campi e nei
fossati delle nostre campagne; di questa grave situazione venni a conoscenza dopo qualche giorno da
un’amica, Elsa Vicinante, impiegata in Prefettura. Con le mie sorelle decidemmo così di assisterli con
cibo e vestiario ed anche ospitandoli a casa nostra o presso famiglie fidate.
In seguito conobbi, attraverso un mio allievo, Vittorio Duse, un ex ufficiale pilota di Milano,
Armando Romani, che stava organizzando una rete di salvataggio anche per gli ebrei, che da Padova
arrivava a Milano e poi in Svizzera. Necessitavano di accompagnatrici sicure ed io aderii, assieme alle
mie sorelle Teresa e Liliana, desiderosa di rendermi utile in quest’opera di umanità, rendendomi conto
del pericolo, ma con la speranza che anche per i nostri famigliari internati, vittime delle stesse
situazioni, vi potessero essere uguale solidarietà.
I viaggi furono numerosi e avvenivano principalmente in treno; ne facevano parte, oltre alle donne,
anche dei frati e parroci; finanziatore era padre Placido Cortese della Basilica del Santo, che venne poi
per questo arrestato ed ucciso dai soldati tedeschi delle SS.
Quest’attività si interruppe il 14 marzo 1944, quando le mie sorelle Teresa e Liliana furono arrestate
nella nostra casa di via Galilei, a Padova, e condotte a Santa Maria Maggiore, il carcere di Venezia. Quel
giorno mi trovavo a Milano dove avevo accompagnato due ebrei e fortuna volle che fossi arrivata in
ritardo per il viaggio di ritorno; telefonai per avvertire i miei familiari, ma la ragazza che ci aiutava in
casa mi mise al corrente dell’accaduto e mi avvertì che le SS tedesche cercavano anche me. Rimasi ad
Annone Brianza ospite della famiglia del Ten. Col. Buonaguri, la cui abitazione mi era stata segnalata
dallo stesso Armando Romani come rifugio sicuro.
Trascorsi là quattro mesi e tornai a casa desiderosa di avere notizie delle mie sorelle che temevo
deportate in Germania (come dopo avvenne), sperando che il pericolo fosse diminuito. Invece poco
dopo venni arrestata e portata anch’io a Santa Maria Maggiore. A mia mamma che già era stata provata
dal dolore per la sorte di Teresa e Liliana e aveva subito un collasso cardiaco, venne nascosta la verità;
le buste delle lettere dal carcere venivano sostituite con altre, come provenienti dal Collegio dove avevo
insegnato precedentemente.
Dopo due mesi di detenzione, venni condotta con altre compagne di sventura (fra queste anche
Parisina Lazzari) al carcere in cella di isolamento, avviata al campo di Bolzano in attesa di partire per la
Germania. Quando giunsi l’impressione fu della più nera desolazione. Venni utilizzata dai tedeschi
come lavandaia, lavoro che preferii ad un altro di pulizie che mi avrebbero fatto subire la loro vicinanza;
conoscendomi bene, ciò avrebbe fatto esplodere la carica di ribellione ch’era in me più forte della paura.
Dal campo maschile ci divideva una grossa rete metallica; là si trovava anche il prof. Egidio Meneghetti
reduce da palazzo Giusti, “la Villa triste di Padova”; con cautela ci salutavamo; era pericoloso
avvicinarsi e un giorno che un prigioniero tentò di passare un uovo per la sua fidanzata rimanemmo
senza brodaglia per una settimana: questi erano i sistemi tedeschi.
Il giorno 25 aprile 1945 avvenne la nostra liberazione dal
campo. Con Meneghetti e molti altri partimmo per la Svizzera e
Milano, poi finalmente a casa. In quei tre giorni ebbi modo di
conoscere bene Meneghetti l’anima della Resistenza veneta, il cui
ricordo mi è caro per la sua grande umanità e fede immensa nella
Libertà”.
(Dal libro: “Donne nella Resistenza”. Ed. Zanocco , Milano 1981. A
cura dell’Anpi di Padova).
Lidia Martini Sabbadin,
ora abita a Meianiga
di Cadoneghe, Padova.
(Foto del 1941).
122
Il campo di concentramento di Bolzano (di transito verso la Germania).
Le tre sorelle
Martini.
Da sinistra:
Liliana Martini De
Muri di Zanè (VI),
Teresa Martini di
Padova e
Lidia Martini
Sabbadin da
Castagnara di
Cadoneghe (PD).
(Foto 11. 12. 03).
Le tre sorelle Martini collaboratrici di Padre Placido Cortese della Basilica del Santo,
accompagnarono nel 1943-44 da Padova sino ad Oggiono (Como), circa trecento tra ebrei e prigionieri
inglesi. Li consegnavano agli “spalloni”, che di notte facevano loro attraversare il confine portandoli in
salvo in Svizzera. Arrestate dalle SS tedesche, Liliana e Teresa furono internate nel campo di sterminio
di Mauthasen (Liliana con altre deportate furono accompagnate nude dentro una camera a gas e poi
fatte uscire vive, non si seppe per quale causa). Lidia arrestata fu trasportata nel campo di
concentramento di Bolzano. Le sorelle Martini nel loro incontro dell’11. 11. 2003, ancora una volta,
hanno confermato: “Se dovessimo tornare indietro rifaremmo tutto quello che abbiamo fatto,
compreso il perdono dei nostri torturatori nazi-fascisti”.
123
Questa pagina è dedicata al ricordo dei circa 200.000 deportati a Mauthausen di cui oltre
123.000 tra uomini e donne furono sterminati di questi 5.750 erano italiani.
“Dio era lì, che raccoglieva le mie miserie e sollevava il velo della mia oscurità.
Era lì immenso e sconfitto, davanti alle mie lacrime” (Elisa Springer) .
La foto è stata scattata dai soldati tedeschi delle SS, nel campo di sterminio di Mauthausen in Austria.
All’arrivo dei soldati dell’esercito U.S.A. di liberazione, i deportati strapparono l’aquila e la croce uncinata che
sovrastava la porta del garage delle SS del campo di Mauthausen. (Foto del 7 maggio 1945).
“In pochi sono ripassati e usciti da quei cancelli, come uomini liberi. In pochi…, per raccontare al
mondo i propri incubi, la disperazione, il martirio e la miseria di un popolo. In pochi …,
soprattutto, per raccontare l’odio, la malvagità e la follia di uomini che, accecati dal miraggio della
“Razza Pura”, hanno ridotto a brandelli la carne e lo spirito, l’uomo e Dio”.
(Dal libro autobiografico: “Il silenzio dei vivi” di Elisa Springer internata ad Auschwitz, ed in altri campi di
sterminio, dal 6 agosto 1944, sino alla Liberazione. Ed. Marsiglio –Venezia .
124
Elenco degli operatori e accompagnatrici degli ebrei e dei prigionieri inglesi
appartenenti alle organizzazioni umanitarie e della Resistenza di Padova (1) :
Apolloni don Giovanni: docente del collegio Barbarigo a Padova. Ricercò e diede indirizzi sicuri ai
prigionieri inglesi; fu imprigionato e torturato dalla famigerata banda nazi-fascista del maggiore Carità,
che era ubicata in via S. Francesco a Padova. Condusse le trattative con i membri della banda “Carità”.
Venerdì 28 aprile 1945 ritornò libero con tutti i detenuti politici della banda che erano detenuti a Villa
Giusti.
Artero padre Domenico: era un missionario della Consolata, assistente spirituale dei prigionieri inglesi
nel territorio di Padova e Rovigo. A piedi si recò a Bari e con il comando anglo-americano studiarono
una fuga di massa di prigionieri militari, per mezzo di una motosilurante, partendo dalle foci dell’Adige.
Il piano fallì per le condizioni avverse del mare e la fitta nebbia. Ritentò con un’imbarcazione da
Chioggia, anche questo piano di fuga fallì per la perfida azione di una spia. Quindi si attivò per fare
riparare in Svizzera molti prigionieri.
Ricercato dalla milizia dovette anche lui fuggire in Svizzera. Ritornò nella sua missione in Kenya
dove morì il 2 ottobre 1979.
(Tratto dalla relazione di Padre Artero, depositata presso l’archivio dei Missionari della Consolata, Roma)
Borgato Delfina: da Saonara (Padova) collaboratrice di Padre Placido Cortese. Arrestata fu deportata
nel campo di sterminio di Mauthausen assieme alla zia Maria. Al termine della lunga e drammatica
deportazione, con il passaggio delle truppe anglo-americane, ritornò a casa. Ora vive a S. Bonifacio
(Verona).
Borgato Maria: da Saonara (Padova), collaboratrice di Padre Placido Cortese. Assieme alla nipote
Delfina fu internata nel campo di sterminio di Mauthausen; trasferita in un altro campo fu uccisa in una
camera a gas. Era zoppa e inabile al lavoro.
Cortese padre Placido: era direttore del “Messaggero di Sant’Antonio” dei frati conventuali di
Padova. Ha diretto una rete di collaboratrici e collaboratori per l’espatrio di ebrei e prigionieri militari di
varie nazionalità; ha collaborato con il gruppo Fra-Ma. Con l’inganno fu fatto uscire dal convento e
condotto nella sede delle SS tedesche a Trieste, dove morì per le torture subite, senza confessare i nomi
dei suoi collaboratori. Per la gran carità distribuita è chiamato il “partigiano di Dio”. E’ in corso la causa
di beatificazione.
Fortin don Giovanni: parroco di Terranegra in Padova. Aiutò 12 prigionieri inglesi. Arrestato dalla
milizia fascista di Venezia, fu deportato nel campo di sterminio di Dachau. Ritornò a Terranegra il 24
giugno 1945. Costruì in memoria il tempio dove è tumulata la salma dell’Internato Ignoto.
Gobbin Mario: abita ad Altichiero in Padova. Aveva 15 anni e lavorava nel negozio di ricordi della
Basilica del Santo. Spesso su preciso incarico di Padre Placido Cortese faceva da guida e accompagnava
dei ricercati alla stazione di S. Sofia e quella ferroviaria; acquistava i biglietti e li sistemava nei vagoni
meno affollati.
Franceschini Prof. Ezio: Docente dell’Università di Padova. Istituì l’organizzazione con Concetto
Marchesi, Egidio Meneghetti, padre Placido Cortese e con don Mario Zanin cappellano del Bassanello
in Padova il gruppo Fra-Ma (Franceschini-Marchesi), con lo scopo preciso di trasferire perseguitati
politici ed ebrei nel territorio elvetico.
Marchesi Prof. Concetto: Rettore dell’Università di Padova. Fu molto attivo nel gruppo Fra-Ma nel
nascondere e trasferire ebrei. Ricercato fu costretto ad espatriare in Svizzera.
125
Martini Teresa: universitaria di Padova. Su incarico di Padre Placido Cortese accompagnò molti ebrei
e prigionieri militari da Padova verso la Svizzera. Arrestata, fu deportata nel campo di sterminio a
Mauthausen; abita a Padova nella zona della Guizza.
Martini Liliana: universitaria di Padova. Su segnalazione di Padre Placido Cortese accompagnò verso
la Svizzera molti ebrei e prigionieri militari. Arrestata fu condotta assieme alla sorella Teresa, nel campo
di sterminio di Mauthausen; fu portata dentro la camera a gas e si salvò per un probabile guasto
all’impianto della distribuzione del gas venefico. Abita a Zanè (Vicenza).
Martini Lidia: universitaria di Padova e collaboratrice di Padre Placido Cortese.
Accompagnò verso la Svizzera, ebrei e prigionieri militari. Arrestata fu deportata nel campo di
concentramento e di smistamento di Bolzano; doveva essere trasferita nel campo di sterminio di
Mauthausen; dove già si trovavano internate altre due sorelle. Dopo la Liberazione fece il viaggio di
ritorno a Padova assieme al prof. Egidio Meneghetti ideologo e animatore della Resistenza Veneta.
Abita nella zona della Castagnara a Meianiga di Cadoneghe (Padova).
Nomito Cesare: abitava ad Altichiero in Padova. Lavorava presso la tipografia del Messaggero di S.
Antonio. Spesso non ritornava a casa la sera; su incarico di Padre Placido Cortese, accompagnò in treno
ebrei o prigionieri inglesi, verso la Svizzera; inoltre aveva un quaderno con segnati i nomi dei prigionieri
inglesi nascosti nelle famiglie del circondario e portava loro del cibo.
Tessarolo don Gerolamo: parroco del Torresino di Padova. Aprì le porte dei locali attigui alla chiesa
ai prigionieri inglesi. Vestiti e rifocillati, erano indirizzati verso la Svizzera o verso la Jugoslavia. La notte
del 20 ottobre 1944 nascose cinque detenute politiche che erano state fatte evadere dalle prigioni dei
Paolotti dai partigiani con a capo Timante Ranzato di Terraglione di Vigodarzere; vi rimasero sino all’8
gennaio 1945. Il 7 gennaio don Gerolamo Tessarolo fu arrestato per l’aiuto dato ai prigionieri inglesi e
agli ebrei.
Zambon Milena: lavorava a Padova presso la Banca d’Italia ed era ospite della famiglia delle sorelle
Martini in via Galileo Galilei nei pressi della Basilica del Santo; anche lei si prestò per numerosi viaggi
per la salvezza degli ebrei e dei prigionieri militari. Fu deportata a Mauthausen. Era suora di clausura; è
tornata alla casa del Padre il 15 gennaio 2006.
Zanin don Mario: era da sei anni cappellano della parrocchia del Bassanello in Padova. Collaborò con
Padre Cortese, con i monaci di S. Giustina e con altri per trasferire i prigionieri inglesi; riuscì a trovare
un migliaio di abiti civili per i prigionieri. Nella casa dei suoi genitori vi erano sei prigionieri inglesi che
personalmente accompagnò in Svizzera. I viaggi si ripeterono più volte. La Curia di Padova, nella
persona del Cancelliere Mons. Zanchin, gli ordinò di partire immediatamente perché era il primo di una
lista compilata dalla milizia per la fucilazione. Riparò in Svizzera dove fece frequenti rientri clandestini
prendendo contatti con i partigiani della Lombardia, tanto che era chiamato il “missionario tra i
partigiani”. Collaborò attivamente con il prof. Concetto Marchesi e con il prof. Ezio Franceschini del
gruppo Fra.Ma.
_________
(1) L’elenco non è completo perché altri operatori e accompagnatrici rimasero anonimi
126
DAI GIORNALI
Lunedì 24 febbraio 1941.
Martedì 5 agosto 1941.
“I coniugi Antonio Lorenzato e Adelaide Boschello di anni 60, abitanti a Tavo di Vigodarzere, possono essere orgogliosi della loro
forte e numerosa famiglia: dei tredici figli viventi, su quattordici nati, che allietano la loro unione, ben nove servono la Patria in armi.
Soltanto il più anziano di essi, Gino della classe 1906, è stato ora esonerato perché padre di quattro figli. Ecco i baldi fratelli (da
sinistra) Gino, Angelo, Cesare, Marco, Romildo, Ignazio, Bruno, Luigi e Agostino” Da “Il Gazzettino” del 26 marzo 1943.
127
“Sei dei sette fratelli Peron, figli di Giovanni, da Vigodarzere, si stringono oggi in un solo blocco, per combattere e
vendicare la morte gloriosa di uno di loro. Qui sono ancora uniti tutti: Giovanni, del 1907; Silvestro, del 1909; Abramo,
del 1910; Giuseppe, “presente alla Bandiera”, del 1913; Angelo, del 1916; Clemente, del 1920; Umberto, del 1923”.
Da “Il Veneto” 23 maggio 1943.
“Luigi Sottovia ed Elisa Griggio dimoranti a Vigodarzere, hanno l’onore di avere cinque figli alle armi. Ecco i baldi giovanotti:
Severino artigliere, classe 1912; Pietro, artigliere, classe 1915; Rizzieri, guastatore, classe 1917; Emilio, aviere, classe 1918; Aldo,
Regia Aeronautica Militare, classe 1921. Da “Il Gazzettino” 28 maggio 1943.
Da “II Gazzettino” di venerdi 18 luglio del 1943.
“II censimento del bestiame al 20 luglio.
Il Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste ha disposto il censimento del bestiame bovino, bufalino,
ovino, caprino, equino e suino esistente nei singoli comuni del Regno al 20 luglio. . . Coloro che non
forniscono le notizie richieste, ovvero le fornisca scientificamente errate od incomplete, saranno
passibili di gravissime sanzioni...”.
Da “II Gazzettino di Padova” del 16 luglio del1943.
“Sono orgoglioso che mio figlio abbia dato la vita per la Patria.
II padre del giovane fascista Michele Paugia, appartenente alla Legione padovana della Milizia
Artiglieria Contraerea, caduto eroicamente, ha fatto pervenire in questi giomi al Comandante della
Legione una lettera vibrante di amore patrio. Fra l’altro egli si è così espresso: "Vi ringrazio del
ricordo che i Comandanti conservano sempre di lui. Vi assicuro ancora una volta che, nonostante il
mio dolore, sono orgoglioso che mio figlio abbia dato la vita per la Patria”.
Da “II Gazzettino” dii domenica 21 luglio del1943.
“46 milioni di italiani 46 milioni di combattenti.
... Oggi, che il nemico si affaccia ai termini sacri della Patria, i 46 milioni di italiani - meno trascurabili
scorie - sono, 46 milioni di combattenti, che credono nella vittoria perché credono nella forza eterna
della Patria. B. Mussolini”.
128
DOPO L’ARRESTO DI MUSSOLINI
Dal “II Gazzettino di Padova” di martedi 27 luglio del 1943.
“Viva l’Italia!
Manifestazioni popolari di giubilo in tutta la citta.
Appena ricevuta la notizia dell’avvento al potere del Maresciallo Badoglio, la popolazione è stata
percorsa da un fremito di un incontenibile entusiasmo.
L’animazione prolungatasi per tutta la notte si è intensificata alle prime luci del giorno, con una
poderosa fiorita di tricolori. Bandiere esposte a tutti i poggioli, drappi, festoni, coccarde, nastrini: si
vedeva che ciascuno voleva manifestare in qualche modo il segno della sua viva partecipazione
all’avvenimento.
Ben presto dietro alle bandiere portate trionfalmente nelle vie dietro ai cartelli con scritte di
circostanza, sotto i grandi ritratti del Sovrano e del Capo del Governo Militare, si sono formati per
spontaneo accordo cortei di popolo acclamante all’ Italia, al Re, al Maresciallo Badoglio, alle Forze
Armate...”.
Da “II Gazzettino di Padova”, di lunedi 13 settembre del 1943.
“Comunicazioni ai cittadini della Provincia di Padova.
1) Per la Provincia di Padova è stata formato un Comando che si trova presso l’ex- Comando Italiano
della Zona Militare in Prato della Valle. II Comando Tedesco garantisce la sicurezza del popolo.
2) Per ordine di questo Comando tutta la popolazione deve rispettare gli ordini del Comando
Tedesco. Coloro che trasgrediscono i suddetti ordini verranno irrevocabilmente puniti.
3) I lavoratori devono continuare il proprio lavoro.
4) Le armi e le munizioni di qualsiasi specie (escluse quelle da caccia e da taglio regolarmente
denunciate) debbono essere consegnate entro le ore 20, di venerdi 17 corrente ai Comandi di
stazione dei Carabinieri Reali competenti per giurisdizione... Coloro che trascorsi i suddetti
termini, fossero trovati in possesso di armi e di munizioni verranno fucilati.
5) Dalle ore 23 alle ore 6 del mattino è proibito a chiunque di circocolare. Per circolare in dette ore
bisogna essere muniti di un lasciapassare rilasciato dal Comando Militare Tedesco. Qualora
accadessero disordini e perturbamenti dell’ordine pubblico, il coprifuoco verrà anticipato alle ore
20.
7) La circolazione degli autoveicoli è regolata dalle norme in vigore. Pertanto quelli già muniti di
regolare permesso possono continuare a circolare”.
Sempre da “Il Gazzettino” di lunedi 4 ottobre del 1943.
“ORDINANZA del Comando Superiore Sud tedesco.
II Comando superiore Sud ha emanato la seguente ordinanza in data 2.10.43 contro l'ascolto di
emissioni radiofoniche nemiche e la propalazione di notizie di fonte nemica della Germania. Per il
mantenimento della calma e dell'ordine, ordino quanto segue:
1) chi ascolta emissioni radiofoniche di altre stazioni che non quelle germaniche, fasciste e dei paesi
occupati dalle truppe germaniche, e chi procura la possibilità di quanto sopra, viene punito con la
reclusione, in casi più leggeri con la prigione e la multa o una di queste punizioni.
2) Chi rende di pubblica ragione nei giornali periodici e foglietti volanti notizie di natura atte a
danneggiare la dignità della Germania e a provocare disordini nella popolazione, oppure notizie la
cui pubblicazione è proibita da parte delle competenti autorità germaniche, viene punito con la
reclusione, prigione e multa. La multa può anche essere applicata contemporaneamente alla
prigione. Viene punito in eguale misura chi col propalare le parole del governo traditore di Badoglio
provoca disordini e chi in qualsiasi modo esprime e propala affermazioni atte a danneggiare la
dignità della Germania o provocare disordini nella popolazione. La punizione viene anche applicata
se la notizia propalata viene espressamente designata come fonte incerta e quale semplice "sentito
dire”.
129
3) La presente ordinanza entra in vigore colla sua pubblicazione. II comandante superiore Sud
Federmaresciallo KESSELRING”.
Dal “II Gazzettino” di sabato 16 ottobre del 1943.
“Un decreto del Prefetto per il conferimento del bestiame
La sezione provinciale dell’Alimentazione comunica che il Prefetto della provincia di Padova con un
suo decreto n. 200157 del 14 ottobre corrente, stabilisce:
1) Per la necessità dell’approvvigionamento delle Forze Armate e della popolazione civile, il locale
ufficio provinciale dell’Ente Economico della Zootecnia è autorizzata a precettare fino alla
percentuale del 35 per cento del peso vivo, il bestiame bovino nella consistenza risultante presso i
singoli detentori alla mezzanotte del 20 luglio 1943, in conto dei conferimenti che i detentori
medesimi dovranno effettuare per il periodo 01.01.43 - 31.10 1944, oltre beninteso, la precettazione
a saldo dei conferimenti dovuti in base al Decreto ministeriale 29-10-1943.
2) I detentori del bestiame di cui all'art. 1 sono tenuti ad effettuare il conferimento del bestiame
precettato in conto dell'annata 1943-44, sotto pena, in caso di inadempienza, di subire il
prelevamento coattivo alla stalla, di cui alla circolare telegrafica 152 del 21-4- 42, del Ministero
dell’Agricoltura e delle Foreste. Oltre le penalità di cui al R.D.L. 29-4-43 n. 245”.
Da “II Gazzettino” di giovedì 11 novembre del 1943.
“Requisizione biciclette dalle fabbriche e dai negozi che trattano la vendita.
Con il presente comunicato si rende noto che nelle provincie di Padova, Treviso, Venezia e Rovigo
s’intendono requisite per 1'Esercito Tedesco tutte le biciclette nuove e seminuove di proprietà di
fabbriche di biciclette e di negozi che ne trattano la vendita tanto all'ingrosso quanto al dettaglio,
nonché tutti gli accessori e pezzi di ricambio, ...” (seguono disposizioni in merito).
Dal “II Gazzettino” di giovedi 18 novembre del 1943.
“Autorizzazione per telefonate interrurbane
La Prefettura comunica:
Si avverte che, le domande per ottenere le autorizzazioni telefoniche interurbane devono essere rivolte
alla Prefettura in doppio esemplare: italiano e tedesco. Le domande in solo italiano non saranno prese
in considerazione”.
“Gli arruolamenti nell’organizzazione germanica della Todt
L'Unione Provinciale Fascista dei Lavoratori dell’industria comunica:
Sono aperti ai lavoratori di tutte le categorie, gli arruolamenti nella organizzazione Todt, per lavoro da
eseguirsi in Italia, nelle migliori condizioni di trattamento morale ed economico” (Seguono condizioni e
salario).
Da “II Gazzettino” di venerdi 4 febbraio del 1944.
“II turpe mercato dei traditori
Sei navi cariche di bimbi italiani sono arrivate nella rada di Aden. I piccini in cattive condizioni di salute
Nessun impianto sanitario a bordo. Atene, 3 febbraio.
La Corrispondenza Turca informa che sei navi trasportanti i bimbi italiani diretti in Russia sono entrate
nella rada di Aden. Le condizioni di salute dei bimbi sono assai cattive. La situazione a bordo è talmente
grave che si dubita che si possa proseguire il viaggio attraverso la Persia. Le navi battenti bandiera
britannica sono sprovviste di qualsiasi impianto sanitario, in dispregio delle norme internazionali che
prescrivono l’igiene più severa a bordo dei piroscafi in navigazione” (Quanto sopra è un falso storico
n.d.a).
Da “II Gazzettino di Padova” di giovedi 2 marzo 1944.
“ 100.000 lire di premio
a chi fornisce utili informazioni sui perturbatori della vita cittadina. La Questura comunica:
in conseguenza del ripetersi di atti inconsulti a fondo terroristico ad opera di irrcsponsabili prezzolati
che turbano la tranquilla e operosa vita cittadina, si dispone la corresponsione di un premio di lire
130
100.000, che verrà pagato con discrezione a favore di chiunque fornisca utili e concrete informazioni
per il rintraccio dei colpevoli e del loro arresto. Le informazioni di cui sopra, per aver diritto al
premio, possono anche essere recate personalmente al comando germanico della Piazza”.
Da “II Gazzettino” del 1 maggio 1944.
“Tassa di circolazione sui veicoli a trazione animale.
Col 15 corr. p. v. tutti i veicoli a trazione animale per circolare sulle strade pubbliche devono essere
muniti dell’apposito "buono" conprovante il pagamento della tassa per l’anno in corso, che deve
effettuarsi presso le esattorie dei Comuni della Provincia. Sono esenti dalla tassa di circolazione i carri
agricoli che circolano nel fondo, ovvero percorrono le strade pubbliche per recarsi, per la via piu
breve, ad altro fondo della stessa azienda agricola ...
Le tariffe sono le seguenti: carri a due ruote del peso lordo fino a 10 quintali lire 25, oltre i 10 quintali
sino a quintali 30 lire 50, oltre i quintali 50 lire 100. Vetture a due posti compreso quello del conducente
lire 25, a piu di due posti, compreso quello del conducente, lire 50.
Ai conducenti ed ai proprietari dei veicoli a trazione animale che dopo il 15 maggio circolino sulle
strade senza essere in possesso del "buono" prescritto e applicata oltre alla tassa normale, una
sopratassa pari alla tassa non pagata”.
Parecchi agricoltori dei paesi del comune di Vigodarzere avevano il biroccio, che serviva anche per il
trasporto degli ammalati all’ospedale.
Avviso apparso sul "II Gazzettino di Padova” rnartedi 4 luglio del 1944.
“Centro reclutamento volontari Legione SS Italiane.
Padova, Piazza Cavour 10
La rovina dei focolari distrutti a mille a mille, sono monumento ed insegnamento!
Monumento di ferocia ed insegnamento di barbaria! Lo spirito si ritrae atterrito innanzi al quadro di
desolazione morale e materiale, frutto di un tradimento ignobile, consumato a danno di questa terra,
per cui gli avi tanto lottarono e soffrirono per la sua unità e grandezza! La coscienza dei generosi
insorge e domanda un’arma per combattere. Solo l’alleata Germania può darti le armi migliori e l’ausilio
potente delle sue armate invincibili.
Arruolati e combatti al suo fianco per la salvezza della tua terra e della tua casa”.
Lunedì 19 giugno 1944
Da “II Gazzettino di Padova” del 28 ottobre del 1944.
131
“II sacco della Gaetana.
La Gaetana (1) si e recata ieri a grandi passi e monologando a voce alta e indignata presso la Questura
per denunciare il furto di un sacco. Mentre era assente per una insostituibile necessita, un ladro le aveva
rubato il sacco che aveva lasciato sulla strada. Dopo aver pregato il brigadiere che riceveva la denuncia
di scrivere in dialetto, perche l’italiano lo si capisce poco, raccontava la strabiliante vicenda (strabiliante
perche era toccata proprio a lei) asserendo di avere subito un danno di lire mille.
- Mille lire? - fa il brigadiere.
- Sicuro, perche era pieno di scannarei (2).
Anche se conteneva l’utile residue delle pannocchie di mais, la cifra sembra un po’ forte. Ma quella
rincara asserendo che aveva dovuto andarli a prendere a Saccolongo sotto la pioggia e che
un
viaggio simile non lo avrebbe fatto per tutto l’oro del mondo. Finita la denuncia, il brigadiere chiede:
- Sapete scrivere?
- Si - risponde la Gaetana, la quale afferra la penna e fa una bella croce in calce al foglio e poi si
allontana giurando che se avra’ tra le mani il ladro… Guai al mondo”.
_________
(1) La Gaetana era per corpulenza un peso massimo; si spostava sempre in bicicletta e al manubrio attaccava
delle sporte, che contenevano tutto il suo avere. Viveva di quello che prendeva dalle bancarelle in citta e per il
pranzo si recava alla caserma militare in via S. Benedetto a Padova. Alla notte si recava a dormire all’ospizio
pubblico. Era una macchietta; morì verso il 1960.
(2) Tutoli: asse spugnoso della pannocchia del granoturco, sul quale sono inseritii i semi di mais.
Giovedì 8 marzo 1945
132
BOMBARDAMENTI
SU PADOVA -VIGODARZERE
E LA STORIA DEI SUOI ABITANTI
Aereo bombardiere B. 24 Consolidatel in azione sopra il ponte ferroviario Vigodarzere – Padova
(Da Pubblic Record Office - Londra Archivio di Sergio Nave).
133
LE INCURSIONI AEREE SU PADOVA
La prima colpisce il quartiere dell’Arcella. “Dopo le ore 12.00 del 16 dicembre 1943 le sirene
diedero più volte il segnale d’allarme; la gente ritenne che si trattasse del solito falso allarme. Alle ore
13.05, con il cielo limpidissimo, avvenne il primo bombardamento su Padova; l’obiettivo era la stazione
ferroviaria, ma i bombardieri che volavano alti, sganciarono oltre 200 tonnellate di bombe su una
vastissima zona del centro nord della città; una di quelle bombe esplose dietro la mia abitazione”(1).
Prima del bombardamento, gli aerei caccia di scorta ai bombardieri, furono attaccati da molti caccia
tedeschi. Il duello aereo avvenne sopra Piove di Sacco. Tre caccia tedeschi Messerschmitt precipitarono al
suolo e anche un caccia americano P38 Lightning dalle due fusoliere si piantò nel fiume Bacchiglione nei
pressi di Codevigo (2). Le autorità religiose e della resistenza protestarono presso il Comando angloamericano. In seguito, spesso, gli aerei bombardieri furono sostituiti con caccia-bombardieri, che
sganciavano le bombe in picchiata, colpendo l'obiettivo con maggiore precisione.
(1)Testimonianza di Orfeo Mores, Padova 15. 02. 2000).
(2) Dalla cronistoria della parrocchia di Codevigo.
Tre testimonianze scritte sul primo bombardamento aereo su Padova
“… il primo bombardamento portò la morte a 125 parrocchiani e seppellì tra le rovine intere
famiglie. Distrusse 300 case danneggiandone fortemente altre 150 e lasciando così in completa miseria,
oltre che nel dolore, tante e tante famiglie che perdettero ogni cosa. Cominciò allora lo sfollamento, per
cui la parrocchia fu ridotta a meno di metà”.
(Padova, 30 luglio 1946. Il parroco di S. Antonino dell’Arcella padre Ludovico Bressan).
“Il primo bombardamento aereo fu il più terribile di tutti: era il 16 dicembre 1943. Circa 400
bombe furono sganciate sull'Arcella, 295 sulle abitazioni e quasi cento allo scoperto. Tolse la vita a 120
parrocchiani e ne ferì 155; distrusse vie intere lasciando tante famiglie nella più squallida miseria. Non
risparmiò il Cimitero, colpendolo con sette bombe che demolirono tombe, cappelle e sterrarono le
salme dei defunti. Il Santuario attorniato da tante bombe, fu salvo per miracolo, restarono infrante tutte
le belle vetrate e divelti i telai, rovinati in parte i soffitti e scoperchiati i tetti …. “.
(Dal libro: “S. Antonio e la sua Arcella” di Padre Ruggero Lotto. Ed. Santuario dell’Arcella, Padova 1970).
“Il primo bombardamento ebbe luogo il 16 dicembre 1943. Fu una sorpresa per tutti e grande
fu il numero delle vittime. I parrocchiani morti furono una quarantina, ma i morti nel territorio della
parrocchia furono qualche centinaio. ….”
(Padova, 25 ottobre 1946. Don Giulio Bovo parroco della SS. Trinità zona adiacente all’Arcella).
Vittime anche due cittadini di Saletto di Vigodarzere
Due cittadini che abitavano a Saletto di Vigodarzere, Carlo Bisarello di anni 41 e Tullio Picello,
mentre transitavano nella zona dell'Arcella, morirono vittime del bombardamento.
Cartolina dell’Arcella,
quartiere di Padova, eseguita
nel 1935 dalla Regia
Aeronautica Militare.
134
Da “Il Gazzettino di Padova” di martedì 11 gennaio 1944:
“Severe pene per l’inosservanza all'oscuramento.
Il Capo della provincia, considerato che i replicati appelli ad osservare strettamente le norme per
l'oscuramento non hanno conseguito l'effetto totalitario voluto e necessario, considerato, inoltre, che
l'inadempienza delle norme suddette, anche se limitate ai casi singoli, costituisce un gravissimo pericolo
per la cittadinanza di fronte all'offesa aerea, ordina agli agenti di provvedere contro i trasgressori alle
norme per l’oscuramento come segue: per ogni finestra o porta comunque illuminata o lucernario, che
lasci trapelare la luce verso l’alto, verrà applicata una multa di lire 100; per ogni bicicletta con fanale
avente la schermatura non di prescrizione lire 100; per ogni automobile, motociclo e triciclo, con fari
aventi la schermatura non di prescrizione lire 500”.
La prima incursione aerea notturna su Padova
“L’8 febbraio 1944, vi fu la prima incursione notturna durata tre ore …
Qui basti ricordare la tragedia del rifugio in via Raggio di Sole, un bastione cinquecentesco adattato a
ricovero antiaereo in grado di offrire una certa sicurezza. Una bomba, infilata esattamente nel
dispositivo per il ricambio dell’aria, provocò la morte di circa 400 persone…
La mattina dell’11 marzo un raggelante attacco alla ferrovia e alle fabbriche di via Trieste fu esteso allo
scalo di Campo di Marte e al vicino aeroporto, da 111 Fortezze volanti B. 17, con un carico di 313
tonnellate di esplosivo. Numerose bombe caddero sulla direttrice Via Savonarola – riviera S. Benedetto
– riviera Paleocapa dove si affacciavano: una caserma di fanteria (attuale Collegio Universitario N.
Mazza), il Ventesimo Rgt. Artiglieria (ex monastero di S. Benedetto), il Quinto contraerei (ex monastero
di S. Agostino) e poco discosta, la Sussistenza.
Fu il giorno in cui andò perduto il capolavoro del Mantegna agli Eremitani e semidistrutta la
monumentale chiesa di S. Benedetto…
Bruciò il tetto della “Scoletta” del
Carmine, che si trova a pochi passi dalla
cupola della chiesa, bruciata a sua volta
da una bomba nella prima guerra
mondiale. Altre bombe caddero in
piazza dei Signori e sul frontone della
Cattedrale con grave pregiudizio per il
Battistero e il suo prezioso ciclo di
affreschi di Giusto Menabuoi…”
(Capitolo di Sergio Nave dal libro: “Padova
nel 1943” Ed. Il Poligrafo 1996).
Padova: cartolina del 1944.
La chiesa di S. Benedetto prima
e dopo il bombardamento
dell’11 marzo 1944.
135
Sabato 14 maggio 1944 alle ore 12.00 precise, cinque bombe del peso di 12 quintali ciascuna
colpirono la chiesa e il convento di padre Leopoldo.
Le macerie della chiesa, subito dopo il bombardamento.
(Foto dell’archivio dei frati Cappuccini di Padova).
La furia devastatrice si fermò e la cella confessionale di S. Lepoldo Mandic rimase intatta,
come lui stesso aveva predetto. (Foto dell’archivio dei frati Cappuccini di Padova).
136
La città di Padova subì una dozzina di bombardamenti che causarono la morte di circa 2.000
cittadini. Le cronache dei giornali di quei disastrosi bombardamenti non riportano il numero dei morti e
neppure quello dei feriti.
La preghiera del buon italiano
“Oh Santa Vergine, che tutto vedi,/ fa che i muri restino in piedi e se le case dovessero crollare,/ fammi
la grazia di tutto salvare. Tu sei buona, o Madonnina,/ tutte le notti dormiamo in cantina. O mio
Gesù,/ qui in Italia non si dorme più. Se S. Giuseppe è tra i richiamati,/ saranno pure gli Angeli
mobilitati, se l’asino è a Roma e il bue a Berlino,/ chi può riscaldare Gesù Bambino?
Per l’insalata ci vuole l’olio,/ per vincere la guerra ci vuole Badoglio. Il Papa sempre sospira e prega,/
Mussolini se ne frega. O Padre eterno, fallo morire!/ Gesù che tutto vedi, o buon Gesù, porta il Duce
con Te lassù,/ pure Hitler in compagnia…
“Ave Maria, Gratia Plena,/ fa che non suoni la sirena, che non vengano più gli aeroplani,/ fammi
dormire fino a domani. Se una bomba cade quaggiù,/ o Madonnina, pensaci Tu.
Fammi stà grazia e così sia.
Venerdì 8 ottobre 1944”
Questa preghiera è stata scritta da un anonimo e trovata in un rifugio antiaereo di Padova. E’ stata
pubblicata nel libro; “Il diario di don Luigi Rondin”.
(Edito dall’Istituto Veneto per la Storia della Resistenza, dell’Università di Padova.)
Dove decollavano gli aerei anglo-americani?
Su alcuni piani di volo sono segnati i punti d’incontro per la formazione delle squadriglie aeree; esse
si formavano nella zona tra Foggia, Amendola o Isole Tremiti, ecc. Gli aerei decollavano tutti da
aeroporti dell’Italia meridionale, volavano alla velocità di 400 km. orari e impiegavano circa due ore per
raggiungere il Veneto.
(Tratto dal libro: “L’offensiva aerea alleata” di Sergio Nave. Padova 1993).
Gli sfollati dalla città di Padova, notizie dalle cronistorie parrocchiali.
A Tavo: “La popolazione in massa cercò rifugio nelle vicine campagne e anche nella parrocchia di
Tavo trovarono ricovero 62 famiglie con 330 componenti. Ogni angolo di casa, per quanto ristretto,
venne occupato. “L’immane guerra si fece sentire paurosamente anche nella pacifica città di Padova,
con ripetuti bombardamenti aerei. Dal 16 dicembre 1943 al 24 marzo 1944 ben sei volte venne fatta
segno alla furia devastatrice. Per il rifugio, la parrocchia era preferita perché lontana da qualsiasi
obiettivo; durante tutto l’anno entro i suoi confini non cadde neppure una bomba. Vi fu una certa
apprensione per il continuo sorvolo di aerei, ma nessun danno e nessuna vittima”.
(Ottobre 1944, don Giocchino Donazzan, parroco di Tavo. Tratto dalla cronistoria parrocchiale).
A Saletto: “Gli sfollati, dapprima pochi, aumentarono sempre di più, specialmente dopo le incursioni
di Pontevigodarzere, fino ad arrivare a circa 200. Per questo la popolazione ha dimostrato grande carità
e si è sacrificata per poterli alloggiare e soccorrere in tutti i loro minimi bisogni. Si fondò la S. Vincenzo
femminile con elementi del luogo e sfollati. Molto si fece, così da poter asserire che nessuno ebbe a
soffrire nè la fame né il freddo. All’invito del Vescovo di formare il segretariato della carità risposero
unanimi tutti, dando il loro contributo in denaro ed in generi alimentari, specialmente frumento”.
(Don Antonio Moletta, parroco di Saletto. Tratto dalla relazione inviata al Vescovo nel 1946).
A Vigodarzere: “Gli sfollati furono 985; furono indirizzati e aiutati a trovare alloggio.
I poveri furono aiutati con offerte in generi alimentari e denaro, per gli altri si provvide affinché
potessero trovare a prezzo di legge gli alimenti; i piccoli dei poveri, sia del paese sia degli sfollati,
furono accolti gratuitamente all’asilo e fu passata loro la refezione ...”
(Don Giulio Rettore arciprete di Vigodarzere. Tratto dalla relazione inviata al Vescovo nel 1946).
137
Cartolina del 1946 del centro di Tavo.
(Per gentile concessione della Comunità di Tavo).
Foto del 1946: il centro di Saletto, (collezione dell’ architetto Domenico Silvestri).
138
Interno della chiesa di Vigodarzere durante la guerra.
(Collezione fotografica di Antonio Griggio).
“PIPPO”, L’AEREO RICOGNITORE NOTTURNO
I caccia bombardieri anglo-americani, che dall’inizio del 1944 facevano la ricognizione aerea
notturna sui nostri paesi, erano chiamati in tutta l’Italia centrale e settentrionale con il nome di “Pippo”.
Diminutivo di un nome di persona o di Pippo dalle gambe lunghe, del famoso personaggio della Walt
Disney ?
L’Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare di Roma, da me interpellato in merito mi rispose il 31. 07.
2002: … Presso questo Ufficio non risulta alcuna documentazione che chiarisca i motivi
dell’attribuzione del nome “Pippo” ai ricognitori anglo-americani. Firmato: Col. AAran Antonio Sasso”.
139
Caccia bombardiere inglese Mosquito chiamato da tutti: “Pippo”. Era dotato di mitragliatrice e sotto le ali portava due
grosse bomb ed era monoposto.
Nella foto:“Pippo” caccia - bombardiere “P-38 Lightning”, fabbricato U.S.A; aveva due fusoliere, una mitragliatrice e
trasportava numerose bombe sia esplosive e sia incendiarie; faceva da scorta alle squadriglie di bombardieri, ma è stato
visto di notte bombardare nella zona di Terraglione e di giorno ha partecipato a qualche bombardamento sul ponte di
Vigodarzere-Padova; anche questo velivolo era pilotato da un solo aviere.
“Pippo” e il Santo di Padova
Dal Gazzettino di domenica 18 marzo 1945:
“Delitti dei “Liberatori”- La Basilica del Santo danneggiata da una bomba.
L’altra sera, dopo le ore 21.00 un aereo nemico sganciava una bomba che andava a cadere nel
giardinetto della Basilica del Santo, dalla parte di via Cesarotti. L’ordigno esplodeva con grande fracasso
a pochi metri dal muro perimetrale del celebre tempio, fratturando il muretto e la robusta cancellata in
ferro. Tutti i vetri della Basilica sono andati in minutissimi pezzi, per fortuna le vetrate artistiche erano
state preventivamente rimosse ad opera della Veneranda Arca del Santo.
Nella chiesa la statua di bronzo di S. Francesco, pregevole opera del Mistruzzi, è stata danneggiata e
altri danni si devono lamentare nell’interno del santuario”.
140
Prima testimonianza:
“Padova, Pontificia Basilica del Santo, 28. 12. 2003.
Rileggendo le cronache del convento del Santo, ripenso all’episodio di guerra avvenuto il 16 marzo
1945. Ricordo perfettamente quella sera (allora ero novizio al Santo e avevo 17 anni, sono nato nel
1928) mi trovavo assieme agli altri miei compagni di noviziato (in numero di sedici per l’esattezza), nella
sala di ricreazione del dopo cena con il P. Francesco Varotto, nostro Padre maestro, ed erano circa le
ore 21,00. Improvvisamente abbiamo sentito il noto rumore del solito aereo “Pippo”, come era
chiamato e subito abbiamo udito lo scoppio di una bomba. Ci siamo portati di corsa in fondo al
corridoio e dalla grande trifora che dà sulla cappella delle reliquie (chiostro del Paradiso) abbiamo visto
una grande buca provocata dalla bomba e parte della cancellata divelta. Il giorno successivo abbiamo
potuto visitare la Basilica, l’interno appariva in una luce molto chiara: quasi tutte le vetrate erano state
infrante, la statua di S. Francesco, nella omonima cappella, fu abbattuta al suolo e mutilata.
La vita della Basilica tuttavia riprese regolarmente le proprie funzioni . Ricordo tra l’altro che, alle dieci
in punto, si è celebrata l’abituale santa Messa cantata all’Arca del Santo accompagnata, come ogni
giorno, dal coro dei novizi diretti dal P. Modesto Strappazzon.
P. Tito M. Magnani, Postulatore della Causa di canonizzazione del Servo di Dio P. Placido Cortese”
La seconda testimonianza è di Giuseppe Lion (classe 1925) Albignasego (Padova), resa il 31. 05.
2004. “Nel 1945, abitavo in via Rudena a Padova, frequentavo un corso serale presso l’Istituto P. F.
Calvi in via S. Chiara a Padova. Una sera, mentre rincasavo dalla scuola, improvvisamente “Pippo”
lanciò un razzo bengala che illuminò tutta la zona del Santo come fosse giorno. Nel suo secondo
passaggio “Pippo” sganciò una bomba che esplose fragorosamente. Lo scoppio della bomba mi indusse
a vedere i danni. Un uomo abitante nei pressi della Basilica mi disse di avere visto l’aereo “Pippo”
provenire da sud con traiettoria verso nord e sganciare una bomba che sfiorò la sommità della cappella
delle reliquie e che l’obiettivo probabile, secondo lui, era la Caserma Mussolini, posta nell’altro lato della
strada di via Cesarotti”.
L’edificio quadrangolare a sinistra della Basilica del Santo a Padova nel 1944 era la caserma della milizia fascista
intitolata a Benito Mussolini. (Foto del 1975).
141
La bomba esplosa presso la cancellata del lato nord della Basilica.del Santo; fu sganciata da “Pippo” il 16 marzo 1945
alle ore 21.00. (Archivio dei frati conventuali del Santo).
Le notti di Vigodarzere.
L’aereo ricognitore notturno era la preoccupazione di tutti. Rovinava i sonni già agitati dei circa
seimila abitanti e dei 1500-2000 sfollati, alloggiati nelle famiglie delle Comunità del territorio di
Vigodarzere. L’aereo sorvolava a bassa quota il nostro territorio quasi tutte le notti. Talora ripassava più
volte, preferibilmente prima della mezzanotte. Spiava e controllava ogni movimento dei mezzi di
trasporto e dove vedeva della luce, sganciava bombe oppure spezzoni incendiari. Spesso illuminava a
giorno lanciando razzi bengala. Le finestre delle case erano oscurate anche con dei pagliericci mobili.
Ricordo che dormivo con i genitori, in una stanza con il soffitto di grisoe (calcestruzzo e canne palustri).
In soffitta la numerosa colonia di topi “domestici” faceva baraonda per tutta la notte e quando
smetteva significava che “Pippo” stava per arrivare, i topi udivano prima di noi il rumore dei motori a
pistoni degli aerei ricognitori. Al passaggio di “Pippo” si tratteneva il respiro e si pregava mentalmente.
Non scherzare… con il fuoco.
Ricordo anche che, una notte del mese di novembre del 1944, due adolescenti di Vigodarzere
ammucchiarono degli stocchi di mais secchi sull’argine del fiume Brenta, nella località tra Vigodarzere e
Saletto, dove la strada passa vicino al fiume Brenta. All’arrivo di “Pippo” appiccarono il fuoco agli
stocchi di mais. L’aereo ricognitore, attirato dalla luce del fuoco, fece diverse picchiate mitragliando la
zona dell’argine. Tale imprudenza giovanile non ebbe, per fortuna, conseguenze per le persone e per le
abitazioni.
Gli abitanti della zona in un primo momento pensarono che i piloti dell’aereo fossero ubriachi, poi
il mistero fu svelato con il passaparola e si vietò ai giovani di scherzare con il fuoco.
“Pippo” vedeva come un rapace notturno.
Mi raccontarono che nel 1944, nello scalo merci della stazione ferroviaria di Vigodarzere, molti
bovini, razziati dai militari tedeschi nelle nostre province, erano in attesa di essere caricati nei vagoni
ferroviari per essere inviati in Germania; gli animali con il loro muggito richiamavano l’attenzione degli
142
abitanti della zona. Secondo alcune testimonianze, il compito di fare la guardia, di abbeverare e di
alimentare gli animali era stato dato a due soli prigionieri russi-ucraini facenti parte dell’esercito tedesco.
Alcuni cittadini, ma anche i partigiani, sia per fame, sia per sabotare l’esercito tedesco, prelevarono
nottetempo dai vagoni ferroviari dei bovini (1).
A Vigodarzere una notte, dentro un largo fosso situato tra l’attuale via Cà Zusto e via A. Manzoni,
una vedova, con quattro figli piccoli e l’affitto della casa da pagare, aveva organizzato la macellazione di
uno di quei bovini. Per diradare il buio usava un lume a petrolio. “Pippo” vide quella debole luce e
sganciò due bombe che caddero nei pressi del luogo della macellazione: una esplose a contatto del
suolo, l’altra il giorno successivo. A seguito delle esplosioni, molti vetri delle case della zona finirono in
frantumi. La vedova, dopo la sventura, dovette sospendere l’attività.
I bovini prelevati per sabotaggio e per fame erano macellati in mezzo ai campi o sotto qualche
baracca. Si calcola che i capi di bestiame prelevati in quel 1944 ammontassero ad alcune centinaia.
__________
(1) Stranamente “Il Gazzettino di Padova” del 21 aprile del 1944 riporta uno di quelli episodi: “Allo scalo
ferroviario di Vigodarzere sono stati rubati due capi bovini che secondo le dichiarazioni assunte sarebbero stati
gettati dal personale del treno e ricevuti in consegna previa intesa da tale Timante Ranzato che pagò diecimila
lire. Sono in corso accertamenti”.
Vigodarzere: “Pippo” uccise quattro uomini.
“Durante la notte del 21 febbraio 1945 (1), l’aereo ricognitore apparve improvvisamente nella zona
illuminata, nei pressi della stazione ferroviaria di Vigodarzere e lasciò cadere una grossa bomba.
Proprio in quel punto non trovarono scampo alla morte quattro giovani di Saletto: Vettori Bruno di
anni 26, Pasqualotto Danilo di anni 23, Parancola Guerrino di anni 48 e il figlio Gaetano di anni 18 .
Pasqualotto Romano, che era assieme agli amici deceduti, si salvò riparandosi dietro l’imboccatura di un
pozzo, in mezzo al cortile di una casa, vicino alla stazione ferroviaria.
La notizia della morte dei giovani paesani di Saletto provocò sgomento e dolore in tutto il contado.”
(Archivio personale del maestro Guerrino Spinello).
Bombe a Saletto.
“Un bombardamento da parte del famoso “Pippo” si ebbe negli ultimi giorni e precisamente il 26
aprile 1945, in località Maresana, il quale causò danni ad una colonna tedesca, lievi danni alle abitazioni
e nessun ferito fra la popolazione”.
(Tratto dalla relazione che il parroco di Saletto don Antonio Moletta che inviò al Vescovo di Padova nel 1946.
Archivio del Seminario Maggiore di Padova).
Bombe a Terraglione.
La testimonianza è resa da Secondo (Zeno) Tognon (classe 1928), resa il 17 luglio 2005.
“Nel pieno inverno del 1944, poco dopo la mezzanotte, stavo ritornando dal filò presso la famiglia
Pasqualin. La stradina era ghiacciata e mi trovavo a circa cinquanta metri dalla mia abitazione, quando
nel cielo, lievemente illuminato dalla luna, comparve “Pippo” con due fusoliere (1). Più tardi, fui
informato che uno spiraglio di luce nonostante l’oscuramento filtrava, dalla finestra della stalla dove una
cavalla stava partorendo. Sganciò cinque bombe e udito il loro sibilo mi gettai a terra. Una bomba si
piantò nel terreno ad una cinquantina di metri da me ed esplose provocando un cratere di sei metri di
profondità, con un diametro di dieci metri; le altre quattro bombe esplosero nel giro di 24 ore e
provocarono delle ferite leggere alle sorelle Fioranzato e lo sventramento delle porte e finestre
dell’abitazione dei Callegaro e della mia.
Mi ricordo che prima dell’esplosione, due giovani del posto si recarono a curiosare nei fori fatti nel
terreno dalle bombe inesplose, nel contempo udirono un sinistro sibilo che preannunciava l’esplosione:
riuscirono in tempo ad allontanarsi prima della deflagrazione”.
__________
(1) Aereo caccia bombardiere “P-38 Lightning” prodotto in U.S.A..
143
“Pippo” colpì ancora.
Testimonianza di Nevio Dario (classe 1926) del 18.07.2005:
“Erano le ore 22 di una notte del 1944. Il cielo era illuminato da una luna piena e il pilota di un
aereo caccia bombardiere pesante con una sola fusoliera, notò un debole spiraglio di luce di un lume a
petrolio che filtrava dalle finestre di una abitazione al termine dell’attuale via A. Manzoni a Vigodarzere,
immediatamente sganciò due bombe.
La prima bomba esplose provocando nel terreno un grande cratere, mentre la seconda bomba si infilò
nel terreno e scoppiò in ritardo. In questo caso, alcuni giovani si recarono a controllare il foro nel
terreno e furono fortunati perché quella bomba scoppiò dopo 48 ore, quando nei pressi non c’era
nessuno. La bomba era del tipo dirompente; all’esplosione provocò una nuvola di grosse schegge che
investirono una vasta zona senza causare danni, ma incutendo molta paura agli abitanti della zona.
Le bombe a farfalla.
I giornali riportano vari lanci su Padova, ma anche su Vigodarzere, di bombe a farfalla che erano
della grandezza di un barattolo di bibita con le alette laterali, per permettere un atterraggio morbido.
Potevano esplodere al contatto del suolo oppure erano programmate per scoppiare a tempo ritardato.
Inoltre nel terreno potevano trovarsi spolette di proiettili della contraerea o delle bombe d’aereo che
potevano esplodere maneggiandole.
Le bombe a farfalla furono lanciate vicino ai presidi militari tedeschi con l’intenzione di abbattere il
morale delle truppe tedesche. La propaganda della Repubblica Sociale Italiana per aumentare
l’avversione alle truppe anglo-americane, aggiunse, inventando, lanci presunti di matite e di penne
stilografiche esplosive e anche di caramelle avvelenate atte a ferire o a far morire nostri bambini.
Le matite esplosive e le caramelle avvelenate.
Da “Il Gazzettino di Padova” di giovedì 30 marzo 1944:
“Matite esplosive e caramelle avvelenate.
Il Comitato provinciale di Protezione Antiaerea comunica di avere avuto segnalazione di
rinvenimento, prevalentemente in località di periferia, di matite esplosive e caramelle velenose di
provenienza nemica. Si rinnovano gli avvertimenti dati in precedenza e si raccomanda di vigilare
specialmente i bambini, affinché siano evitate disgrazie. Eventuali rinvenimenti di tali oggetti dovranno
essere segnalati al Comitato provinciale di Protezione antiaerea oppure alla più vicina stazione di militi”.
L’Ufficio Storico dell’Aeronautica Militare Italiana da me interpellato sui presunti lanci di matite
esplosive, rispose in data 18 settembre 2002: “…si comunica che presso questo Ufficio non risulta
documentazione relativa. Firmato: Col. AAram Antonio Sasso”.
Il documento sopra riportato conferma che le matite esplosive non furono mai costruite.
Guardie per la sorveglianza delle linee telefoniche, elettriche e ferroviarie (guardiafili).
Dal mese di febbraio del 1944 i podestà o di chi faceva le veci, dovevano fornire alle truppe
germaniche una lista di uomini, che gratutitamente dovevano sorvegliare di giorno e di notte le linee
elettriche e telefoniche. I partigiani locali concordavano con le guardie turniste, facendo in modo, di
non incontrarsi durante le azioni di sabotaggio.
A Vigodarzere le riunioni del Comitato Provinciale di Liberazione.
Testimonianza resa dall’avv. Marcello Olivi Padova il 15. 12. 2001:
“Le riunioni del Comitato di Liberazione a Padova non avvenivano in un posto fisso; ma ogni volta
si concordava il successivo dove e quando. Le varie riunioni sono state fatte a Padova presso il
convento di S. Francesco, il Collegio Antonianum, la canonica della parrocchia di S. Carlo e altre
canoniche. Almeno tre riunioni sono state fatte sempre nel pomeriggio nel piano terra della canonica di
Vigodarzere, dove c’erano le aule per l’insegnamento della dottrina cristiana. Era un luogo ritenuto
sicuro perché nel piano di mezzo si era installato il comando tedesco del Genio Militare. Da Padova, in
bicicletta, arrivavo a Pontevigodarzere e poi proseguivo lungo l’argine sinistro del fiume Brenta ed
entravo in canonica dal lato sud”.
144
La canonica di Vigodarzere, nell’agosto 1944, il piano di mezzo c’era il comando del presidio tedesco del Genio Pontieri
che era accasermato nell’edificio delle scuole elementari. Nel piano terra si tennero delle riunione del Comitato di
Liberazione di Padova. (Foto del 1940, collezione di Antonio Griggio).
LE AZIONI DELLE BRIGATE NERE, DELLA MILIZIA FASCISTA E DEI SOLDATI TEDESCHI
Il segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini, nel luglio del 1944, istituì la
formazione da lui diretta delle brigate nere, le quali, dovevano contrastare l’attività dei partigiani.
Il territorio comunale di Vigodarzere era sotto il controllo del presidio delle brigate nere con sede in
Campodarsego. Ciò era stato compreso dai giovani di Saletto che, ad ogni avvisaglia di rastrellamento,
guadavano il fiume Brenta riparando nel territorio di Limena.
Canzone delle brigate nere.
“Le donne non ci vogliono più bene / perché portiamo la camicia nera / hanno detto che siamo da
galera / hanno detto che siamo da catene. /
L’amore coi i fascisti non conviene / meglio un vigliacco che non ha bandiera / uno che serberà la pelle
intera / uno che non ha sangue nelle vene. /
Ce ne freghiamo! La Signora Morte / fa la civetta in mezzo alla battaglia / si fa baciare solo dai soldati.
/ Forza ragazzi, facciamole la corte / diamole un bacio sotto la mitraglia / lasciamo le altre donne agli
imboscati! /A noi !”
Rastrellamenti e perquisizioni tra Campodarsego e Saletto.
Prima testimonianza resa da Giorgio Demo (1929), Saletto di Vigodarzere il 23. 02. 2002. “Nel
mese di agosto del 1944 ci fu il primo rastrellamento eseguito nel territorio di Campodarsego e a nord
di Terraglione, dalle brigate nere del presidio di Campodarsego. Gli agenti passarono la zona a pettine,
entrarono nella mia casa (tra zii e cugini eravamo in 26) e trovarono una stanga de saeadi (salami appesi a
un asse orizzontale di legno fissato al soffitto) sospetta e, infatti, la macellazione del maiale non era stata
denunciata. Mio padre fu portato in prigione e accusato di contrabbando; si giustificò con la numerosa
famiglia e con il lavoro dei campi, fisicamente molto impegnativo. Mio padre fu rilasciato, mentre altri
della zona furono costretti a partire per Susegana (Treviso) e lavorare per i tedeschi.
145
Dopo una settimana, di sabato, alle ore 8.00 eseguirono un secondo rastrellamento, stavo lavorando
i campi nell’attuale via Brenta a nord di Terraglione. Gli agenti iniziarono un rastrellamento sempre a
pettine (un agente ogni 10 metri). Fui il primo ad essere preso. Avevo 16 anni, ma ero alto di statura.
Perquisirono anche la casa rurale della mia famiglia patriarcale e presero, tra uomini e ragazzi, altri
quindici persone. Il rastrellamento proseguì sotto la minaccia di armi automatiche. Ci fecero proseguire
in mezzo ai campi e, durante il tragitto, il numero di noi sequestrati aumentò sino a circa trentacinque
(1). Raggiungemmo la via Spinetti e ci fecero dirigere verso Saletto percorrendo l’attuale strada
provinciale. All’incrocio con la strada di via Terraglione c’era un’auto Balilla: sul tetto gli agenti avevano
piazzato una mitragliatrice e a bordo c’erano i comandanti del gruppo. Uno era G. M. da
Campodarsego e l’altro proveniva da Mestre, entrambi del distretto delle brigate nere di Campodarsego.
Urlando e bestemmiando ci accusavano di essere banditi partigiani e di avere bruciato le barche
traghetto di Limena-Saletto; ci minacciarono di fucilarci, ma poi ci fecero proseguire verso Saletto.
Arrivati all’altezza dove ora si trovano le serre della ditta Bertolin, iniziarono dei passaggi radenti di
aerei caccia bombardieri anglo-americani. Le brigate nere ci fecero stendere in mezzo alla strada bianca,
mentre loro si ripararono sull’argine. I piloti riconobbero noi civili non mitragliandoci e si
allontanarono definitivamente. Alle ore 11.00 sempre sotto la minaccia delle armi ci allinearono di
fronte alla sala del patronato di Saletto ripetendoci bestemmiando, che eravamo banditi e che per noi la
vita era al termine. Intervenne il parroco don Antonio Moletta che ci difese accoratamente,
controllando che la situazione non degenerasse.
Gli agenti tenevano in mano un foglio con una lista di nomi di persone sospette e iniziarono a
controllare i nostri documenti. Dovetti presentare la mia carta d’identità; aveva lo stemma sabaudo della
monarchia, la strapparono sghignazzando. Riuscii a farmi restituire il pezzo più grande. Gli uomini
sospettati e quelli senza documenti furono rinchiusi nella sala del teatro, io fui lasciato libero. Nel
ritornare a casa fui ancora perquisito, da agenti fascisti che dopo aver controllato quello che rimaneva
della mia carta d’identità mi rilasciarono. Venni a sapere che gli agenti poi perlustrarono i fienili della
zona e infilzarono il fieno con ferro appuntito. In un fienile trovarono quattro quintali di zucchero: lo
caricarono nella loro automobile e si allontanarono.
Nella serata gli uomini sequestrati e ammassati nella sala del cinema di Saletto, furono trasferiti a
Padova e rinchiusi in un locale in attesa di essere giudicati, ma
quella notte “Pippo”, l’aereo ricognitore caccia bombardiere,
sganciò una bomba in quella zona. Con lo spostamento d’aria la
porta del locale si aprì e tutti i reclusi fuggirono e ritornarono a
casa.
__________
(1) Tra i rastrellati vi era anche il giovane Valente Giocchino, che nel
dopo guerra fu il primo organizzatore e presidente della Cantina
Sociale di Campodarsego.
Giorgio Demo di Saletto di
Vigodarzere che, una mattina
del mese di agosto 1944, fu sequestrato
dalle brigate nere con altri
trentacinque uomini.
(Foto del 2002).
146
Seconda testimonianza, resa da Ferdinando Dori (1929), a Vigodarzere il 15. 05.2002.
“Con mio cognato, da Vigodarzere in bicicletta,
stavamo percorrendo la strada per raggiungere Tavo dove
eravamo sfollati. Al manubrio della mia bicicletta stava
appesa una borsa di paglia che conteneva una luganega
(salsiccia). Il maiale era stato da poco macellato in casa di
amici di mio padre Bonaventura Dori. Arrivati di fronte
alla chiesa di Saletto fummo colpiti nel vedere circa 35
sequestrati tra giovani e uomini posti a ridosso del muro
della chiesa, mentre alcuni agenti delle brigate nere
tenevano le armi puntate verso di loro. C’era un
camioncino dove troneggiava sul cassettone una grossa
mitragliatrice puntata verso il gruppo di sequestrati. Tra i
brigatisti più agitati riconobbi G. M., che abitava alla
Castagnara di Cadoneghe e gestiva una trattoria. Mi
domandò di aprire la borsa e mostrarne il contenuto; mi
chiese pure le salsicce, io volevo dargliele tutte, ma si
accontentò solo di una parte e ci lasciò andare perché, per
nostra fortuna, quel capo brigatista conosceva mio
padre”.
Ferdinando Dori (assieme al nipotino Marco) è
uno dei testimoni oculari della storia della
nostra comunità. (Foto del 2003).
Camioncino Fiat con mitraglia.
Le brigate nere all’osteria da “Stecca”.
La testimonianza è resa da Nevio Dario (classe1926), Terraglione di Vigodarzere il 10. 11. 2002.
“ Una sera del 1944 assieme ad un amico della mia stessa età ero all’osteria da Stecca (si trovava
nell’attuale via A. Manzoni nel luogo dove la strada si avvicina alla ferrovia); c’erano molti uomini
anziani. Verso le ore 23.00 entrarono 5 o 6 agenti delle brigate nere, comandati da un nostro
compaesano N. P. e tenendo le armi spianate ci intimarono: “Fuori i documenti e tenete le mani
alzate”. A noi due giovani sprovvisti di documenti, ci intimarono di presentarsi la mattina successiva
nell’ufficio presso la Casa del Fascio a Vigodarzere. Per precauzione al mio posto ci andò mio padre
Cesare, guardia delle linee telefoniche, il quale conosceva bene il comandante delle brigate nere che ci
impose a noi due giovani, non ancora diciottenni l’iscrizione alla Todt, cioè di lavorare per i tedeschi nel
Magazzino dell’Aeronautica di Vigodarzere e a riparare il ponte della linea ferroviaria”.
147
Bastonati all’osteria “Benetello”.
Testimonianza resa da Armando Pasqualotto (classe 1926), Saletto di Vigodarzere, il 10. 01. 2003.
“L’osteria Benetello era un luogo di ritrovo nell’attuale via G. Marconi a Saletto, ove negli ultimi
mesi del regime fascista si intensificarono i controlli delle brigate nere. Almeno sette otto volte le
brigate arrivarono per controllare e noi giovani fuggivamo. Pur tuttavia qualcuno fu preso, dileggiato e
bastonato”.
Scaramucce alla trattoria “Da Ventura”.
Testimonianza resa da Ferdinando Dori (classe 1929), Vigodarzere 20. 12. 2001.
“Nei primi mesi del 1944 diverse sere i fascisti locali si ritrovavano nella trattoria Da Ventura che era
ubicata nel centro di Vigodarzere; calzavano degli stivali chiodati e ballavano sopra i tavolini di noce
rovinandoli. In altre serate, invece, si presentavano degli attivisti comunisti del paese e cantavano
Bandiera Rossa. Nelle sere in cui i due gruppi si incontravano in trattoria volavano insulti e botte”.
Brigatisti neri e il vino merlot.
Testimonianza resa da Mario Frison (classe 1924), Vigodarzere il 21.12.2001.
“Nell’ottobre del 1944 due brigatisti neri in divisa e armati arrivarono in bicicletta nel cortile della
mia abitazione, ora via G. Pascoli. Sapevano che la mia famiglia aveva tenuto nascosto per 4 mesi
Pietro, un prigioniero sudafricano che si era allontanato dal campo di prigionia di Pontevigodarzere. La
mia famiglia teneva nascosto in casa il nostro parente Alberto Frison di Albignasego, ex marinaio, più
volte sollecitato a presentarsi nel nuovo esercito repubblicano.
Alberto fu sorpreso dai brigatisti nel cortile dell’abitazione, ma non si perse d’animo e si comportò
come fosse uno della famiglia: li invitò in cucina e, conversando, affettò del salame, poi offrì del pane
biscotto e versò da bere il nuovo vino merlot, varietà di vite che mio padre per primo a Vigodarzere
piantò nel 1933. In seguito i brigatisti controllarono l’abitazione, non trovarono niente di sospetto e si
allontanarono. In casa mia si riprese a respirare normalmente”.
Destinati alla Germania i tre trattori.
Le testimonianze rese dai fratelli Arrigo (1930) e Walter Schiavon (1936), Vigodarzere il 10. 10. 2001.
“Una mattina verso la metà di dicembre del 1944 arrivarono in bicicletta nel cortile della nostra
abitazione due agenti delle brigate nere, in divisa e armati.
Chiesero a nostro padre Natale e allo zio Giuseppe la consegna dei nostri tre trattori agricoli. La
risposta fu che i trattori erano senza carburante e si trovavano molto lontano. Gli agenti pretendevano
che fossero trainati da animali sino alla stazione ferroviaria di Vigodarzere (era evidente la loro
intenzione di inviarli in Germania). Il nostro genitore e lo zio tergiversarono evidenziando le difficoltà
per il trasporto dei trattori e i pericoli dei bombardamenti aerei. Il colloquio proseguì sulla nostra
famiglia che, con gli sfollati, arrivava complessivamente a 45 persone. Dopo un’ora e mezza gli agenti
si allontanarno, senza ottenere, per nostra fortuna, l’impegno della consegna dei trattori”.
La milizia fascista all’osteria “Da Zago”
Testimonianza resa da Gino Rombaldi (classe1938), Vigodarzere il 26. 01. 2003.
“Era una sera di luglio del 1944. Nell’attuale trattoria Al Municipio in via Cà Pisani a Vigodarzere i
miei genitori, Benvenuto Rombaldi e Carolina Scapochin, stavano sedendosi a tavola per cenare. In sala
c’erano circa 10 persone; improvvisamente arrivarono in bicicletta da Padova alcuni miliziani vestiti in
borghese per cercare attivisti socialisti che spesso frequentavano l’osteria per giocare a carte. Molti dei
presenti volarono dalle finestre e fuggirono lungo il vecchio alveo del fiume Brenta. I miliziani
all’indirizzo dei fuggitivi spararono alcuni colpi di fucile. Quelli che non fuggirono si presero delle
bastonate. I miliziani prima di allontanarsi lanciarono una bomba a mano, e rimase ferito Piero Bandeta
sfollato presso la famiglia di I. B. nell’attuale via Vittorio Veneto. Il sig. L. M., a causa dei postumi della
poliomielite, camminava con l’aiuto di una stampella; per questo fu rispettato”.
(Zena Marangon Bettin, classe1928, ricorda quanto sopra esposto).
148
Arrestati i partigiani del municipio.
Altra testimonianza resa da Gino Rombaldi (classe1938), Vigodarzere l’ 08. 02. 2003.
“I giovani del luogo o sfollati nei pressi di Villa Zusto, nell’attuale via Cà Pisani a Vigodarzere,
erano legati da una solida amicizia; stanchi della guerra e della dittatura e speravano nella ormai
prossima libertà. Una sera dei primi di gennaio 1945 tutti furono prelevati dalla milizia fascista di
Padova ed incarcerati nella caserma dei Carabinieri di Vigodarzere con l’accusa di essere partigiani. Il
giovane A. F. in una tasca teneva il foglietto con scritti tutti i nomi dei partigiani di Vigodarzere. In un
momento in cui i militi erano impegnati ad interrogare gli arrestati, il giovane masticò il foglio dei
nomi e lo ingoiò. Alcuni genitori di quei giovani informarono l’arciprete don Giulio Rettore il quale,
sapute le notizie, si recò a parlamentare con il tenente delle brigate nere N. P.: ottenne l’immediato
rilascio, impegnandosi a vigilare su quei giovani affinché non svolgessero attività partigiane”.
La reclusione di altri partigiani.
Dalle testimonianze risulta, ancora che, prima di Natale del 1944, sette partigiani di Vigodarzere,
dodici di Saletto e altri di Cadoneghe furono arrestati di notte nelle loro abitazioni dalla milizia
ferroviaria fascista di Padova. Il reato loro contestato era di sottrazione di scarpe, di alimenti e di
animali bovini dai vagoni ferroviari in sosta (fermi in attesa di proseguire per la Germania) nello scalo
della stazione ferroviaria di Vigodarzere. In realtà si trattava di azioni di sabotaggio nei confronti
dell’occupante esercito tedesco. Alla sottrazione di quello che contenevano i vagoni ferroviari
parteciparono anche altri cittadini. I partigiani rimasero reclusi per 60 giorni. Al termine i partigiani di
Vigodarzere e Saletto furono rilasciati per i ripetuti interventi dei parroci presso le autorità fasciste di
Padova.
La lampada mancante.
Testimonianza resa da Vito Martini (classe1920), Vigodarzere il 9. 08. 2004.
“Nel 1944 lavoravamo per i tedeschi della Todt nel Magazzino Aeronautico di Vigodarzere. Una
notte piovosa, rischiarata solo dalle lampade forniteci dai tedeschi, stavamo caricando, presso la ditta
Fiorazzo, dei tronchi d’albero su un carro ferroviario.
Ad un certo momento mio cugino U. M., stanco del lavoro, con una lampada ritornò a casa.
Terminato il lavoro, alla consegna delle lampade, i tedeschi si accorsero che ne mancava una.
All’appello mio cugino risultò assente. Andarono su tutte le furie. Noi lavoratori domandammo di
rintracciarlo e di recuperare la lampada. Il giorno successivo mio cugino fu accusato di abbandono del
posto di lavoro, di sottrazione della lampada a petrolio e fu rinchiuso in una stanzetta del magazzino di
legname della ditta “Fiorazzo”. Un nostro delegato andò a parlare con il comandate tedesco, per dirgli
che U. M. era minorenne e che era orfano di entrambi i genitori e suo padre era stato della milizia
ferroviaria. Si sentì rispondere: “Ho già deciso di internarlo in Germania”. La nostra ultima speranza era
l’assistente spirituale del Magazzino Aeronautico, l’arciprete di Vigodarzere don Giulio Rettore, il quale,
portato a conoscenza del fatto, si recò a parlamentare con il comandante tedesco ottenendo
immediatamente la sua libertà”.
L’arciprete di Vigodarzere e i Carabinieri.
Testimonianza resa da Antonietta Bellon Vettore (classe1925), Vigodarzere il 24. 09. 2002.
“I miei suoceri Giuseppe Vettore e Trevisan mi hanno più volte raccontato un episodio che li aveva
molto turbati. Abitavano nell’attuale via A. Boito a Vigodarzere, conducevano una piccola azienda
agricola e nella stalla avevano quattro mucche.
Vicino alla casa avevano costruito in muratura un forno a legna che serviva per cucinare il pane (molti
agricoltori di Vigodarzere in quel periodo si erano costruiti simili forni in muratura), avevano parecchi
“clienti” del luogo, tra cui il maresciallo dei Carabinieri di Vigodarzere; altri, invece, provenivano dai
paesi vicini e da Padova.
I clienti si prenotavano la panificazione e portavano la farina di frumento, il lievito di birra, il sale e
qualcuno anche le fascine di legna per scaldare il forno. Questa forma di panificazione non era in regola
con le norme igieniche e con le disposizioni dell’annonaria, i cui operatori erano alle dirette dipendenze
del podestà o del commissario prefettizio e avevano il compito di controllare la coltivazione dei cereali,
149
la raccolta e la macina degli stessi che doveva essere fatta obbligatoriamente presso il molino dei fratelli
Gomiero a Saletto di Vigodarzere. Dovevano anche controllare gli allevamenti (suini, bovini, equini,
ovini, avicoli) e la macellazione.
Mercoledì mattina del 23 febbraio del 1944, era il primo giorno di quaresima: in chiesa, oltre alla messa
c’era l’imposizione delle ceneri. Mio suocero era appena partito in bicicletta per partecipare alla messa
delle sei del mattino. Bussarono alla porta di casa; si presentarono il maresciallo dei Carabinieri di
Vigodarzere e quello di Padova (qualcuno aveva loro segnalato l’attività clandestina di mio suocero) e
perquisirono tutti gli ambienti dell’abitazione e gli annessi rustici: trovarono 22 sacchi di farina di
frumento con scritto il nome del proprietario, il peso e il giorno previsto per la panificazione. I
Carabinieri presero un campione per ogni sacco e scrissero un lungo verbale.
Mio suocero al ritorno dalla cerimonia religiosa fu subito informato dell’accaduto; preso dallo
sgomento e senza dire quello che pensava (c’era l’arresto immediato per i reati annonari), inforcò la
bicicletta e si recò in canonica per raccontare l’accaduto all’arciprete don Giulio Rettore, il quale gli
disse: “Ghe penso mi” (ci penso io). Mio suocero ritornò rinfrancato a casa e si mise a lavorare la pasta già
lievitata: doveva fare del pane biscotto da inviare a mio fratello Albino Bellon internato in Germania.
Durante la lavorazione, era agitato, tanto che esclamò: “Il pane biscotto che stiamo facendo,
comunque, lo porterò direttamente in Germania”.
I giorni passarono con trepidazione; dai verbali non ci fu nessuna conseguenza perché l’arciprete, non
si sa come, li fece strappare”.
(Nella ricerca del fatto e nella stesura del racconto hanno collaborato: Amedeo e Francesco Vettore).
Il disegno raffigura uno dei tanti forni in muratura che c’erano nel territorio
comunale di Vigodarzere.
I soldati tedeschi uccisero due cittadini di Saletto.
Avevano terminato il turno di guardiafili lungo la ferrovia, stavano transitando a piedi sulla strada di
fronte al Magazzino dell’Aeronautica Militare di Vigodarzere e furono uccisi dalla sentinella tedesca.
Il fatto è stato riportato dal “Gazzettino di Padova del 21 settembre 1944:
150
“Due persone uccise a Vigodarzere
Ieri notte alle ore 3.10 a Vigodarzere transitavano due individui che, all’intimazione di fermarsi da
parte di un soldato, si davano alla fuga. Il militare indirizzava loro quindi due scariche di mitra
uccidendoli. Essi sono stati identificati per Miozzo Eugenio e Verzotto Giovanni”.
“Sigla”: il sergente delle SS.
Testimonianze rese da Nevio Dario (1926), e da Umberto Gasparini (1926), Vigodarzere il 10. 11.
2002. “Fu durante il lavoro al Magazzino Aeronautico di Vigodarzere per conto della Todt che conobbi
Sigla, il sergente delle SS. Fra i soldati, era l’unico che portava nella divisa gli stemmi delle SS ed era il
supervisore dei lavori del ponte ferroviario. I soldati tedeschi del genio ferrovieri scattavano sull’attenti
al suo passaggio; i prigionieri russi, che portavano indumenti e cappotti tedeschi logori e lavoravano
con noi con badile e carriole, tremavano al vederlo. Un giorno ci portarono da mangiare una gavetta
con della carne immangiabile, un nostro compaesano fece il gesto di buttarla, Sigla si accorse: urlando e
imprecando lo mise con le spalle al muro e voleva fucilarlo!
Noi lavoratori ausiliari intervenimmo e lo supplicammo dicendogli: - A casa ha quattro figli, lascialo
vivere.
Il sergente si calmò e si riprese a lavorare”.
Sabotaggio partigiano.
Il testimone ha chiesto l’anonimato.
“I partigiani sotto le traversine dei binari del treno, tra la stazione ferroviaria di Vigodarzere e il
ponte ferroviario, avevano scavato nel terreno una buca che doveva far deragliare il camion con le ruote
di ferro che trainava il carro ferroviario con sopra la grande gru, la quale serviva a togliere, all’inizio
dell’alba, una parte del ponte di legno, trasportarlo e nasconderlo. Alla sera la parte nascosta del ponte,
era ricollocata al suo posto riattivando così il passaggio notturno dei treni militari.
Il camion passò, ma il vagone si inclinò bloccando la corsa del convoglio. Sul posto arrivarono i soldati
tedeschi del Genio Pontieri e anche Sigla il quale esclamò: -Questa è opera dei fuorilegge partigiani;
tutte le abitazioni di Vigodarzere devono essere bruciate!.
Gli operai ausiliari di Vigodarzere gli fecero notare che probabilmente la buca era stata causata
dall’esplosione ritardata di una bomba d’aereo e puntellarono la rotaia per fare passare il vagone.
Ancora una volta, grazie agli operai, il sergente si placò.
Lavoravo presso il Magazzino Aeronautico di Vigodarzere, ma anche presso il deposito di legnami
Fiorazzo, spesso ricevevo ordini, direttamente dal sergente Sigla; lo vidi che si lavava nel cortile del
Magazzino Aeronautico e mostrava con fierezza i tatuaggi nazisti che aveva nelle varie parti del corpo.
Qualche volta Sigla raggruppava noi operai e ci parlava con orgoglio della tecnica molto avanzata dei
tedeschi. Ci faceva notare che i tedeschi avevano portato nel cantiere il primo trapano a motore a
scoppio, battipali con motore diesel, la prima moto DKV con motore a due tempi, l’automobile
Volkswagen con il motore raffreddato ad aria e anche la prima motosega azionata con un motore a
scoppio.
Appena gli aerei bombardieri si allontanavano, lui andava a controllare i danni, nonostante il
pericolo dell’esplosione di bombe programmate a scoppiare in ritardo.
Una volta dopo l’esplosione dell’aereo anglo-americano si portò nei pressi dove si trovavano i resti
del pilota e gli rese gli onori militari mettendosi sugli attenti e dicendo: -Anche se nemici, sono degli
eroi. Un giorno stava parlando con noi, gruppo di cinque o sei operai ausiliari, commentando la tenace
resistenza delle truppe germaniche contro gli attacchi dell’esercito russo, poi estrasse dalla tasca della
giacca una piccola pistola mauser (quella di ordinanza la teneva sempre nella fondina della cintura dei
pantaloni), parlando animosamente e agitando la mano con cui impugnava la pistola, accidentalmente
partì un colpo. La pallottola si conficcò nella spalla del nostro concittadino Italo Marangon che abitava
di fronte alla trattoria Al Municipio. La pallottola non gli fu estratta perché non gli provocava
conseguenze. Zena Marangon Bettin (sorella di Italo) in data 18. 02. 2003 ha confermato il fatto. Un
giorno informammo Sigla che radio Londra aveva dato l’annuncio di una battaglia persa dai tedeschi e
lui rispose: “Hitler vincerà sicuramente la guerra usando le armi segrete”.
Noi italiani, ci apostrofava dicendo: “Voi siete una razza inferiore, meritate di essere tutti bruciati vivi”.
151
Sigla compilò la domanda per essere inviato volontario al fronte di guerra orientale. Prima di partire ci
salutò tutti chiamandoci per nome; noi gli avevamo istallato nel vagone una stufa con tanti cubetti di
legno”.
Altre azioni partigiane.
Un gruppo di partigiani comandati da Timante Ranzato (nome di battaglia “Gianni”) di Terraglione
di Vigodarzere e da Graziano Verzotto (nome di battaglia “Bartali”) di S. Giustina in Colle fecero
esplodere alcune mine sotto il ponte stradale sul fiume Brenta a Pontevigodarzere. Il ponte rimase
danneggiato e fu vietato il transito dei mezzi pesanti.
La documentazione:
“ … Ai primi di agosto partecipa, sempre a fianco del Comandante del VI btg “Gianni” (Timante
Ranzato) ad una operazione temeraria, come il minamento del ponte stradale sul Brenta a Vigodarzere,
sorvegliato da una pattuglia tedesca. L’Azione è stata complessa, durata più di mezzora e compiuta con
l’appoggio di una compagnia armata del posto”.
( Dal libro: “Resistenza e normalizzazione nell’Alta Padovana” di Egidio Ceccato pag. 72).
“Padova – Attività dei banditi e dei ribelli.
Il 28 corrente, alle ore 3.20, alcuni banditi collocavano ordigni ai margini delle arcate del ponte
stradale sito in località Ponte di Vigodarzere. Lo scoppio produceva il crollo della parte centrale del
ponte, per 4 metri di larghezza e 15 metri di lunghezza”.
(Tratto dal libro: “Riservato al Duce - Notiziari della guardia nazionale repubblicana di Padova e provincia”, pag.
57. A cura di Argentino Albori; ed. Promodis Italia 1996).
Particolare della foto aerea del 29 dicembre 1944. Si possono costatare i danni causati dall’esplosione delle mine poste dai
partigiani il 28 agosto 1944. Dopo qualche settimana dalla data della fotografia l’arcata danneggiata crollò a causa dello
scoppio di una bomba d’aereo (1).
(Ministero dei Beni e le Attività Culturali Aereofototeca dell’I.C.C.D. Permesso di pubblicazione n. 3013 V del 25/02/2004
rilasciato a Giulio Cesaro).
152
__________
(1) La ricostruzione del ponte stradale sul fiume Brenta a Pontevigodarzere iniziò nel mese di settembre del 1945,
fu terminato nei prime mesi dell’anno successivo. L’inaugurazione avvenne il 15 marzo 1946 (notizia pubblicata
nel giornale “Il Gazzettino” del 16 marzo del 1946).
NOTIZIE DAI GIORNALI:
Dal giornale quotidiano “Il Veneto” del 23 settembre 1944:
“Ucciso a rivoltellate all’Arcella.
Ieri mattina, poco prima delle ore 9, nei pressi del capitello all’Arcella due individui nascosti ai
margini della strada sparavano alcuni colpi di rivoltella all’indirizzo di Giovanni Peruzzo (1) di Antonio
di anni 49 di Vigodarzere. Colto da 5 proiettili, il povero Peruzzo veniva tosto raccolto dalla Croce
Verde trasportato all’ospedale, dove cessava di vivere quasi subito”.
Da “Il Gazzettino di Padova” del 25 novembre 1944:
Il Commissario Prefettizio di Vigodarzere.
La Prefettura comunica con provvedimento del Capo della Provincia il fascista Paccagnella Nazzareno,
(2) di Isidoro, è stato nominato commissario per la temporanea amministrazione del Comune di
Vigodarzere, in sostituzione del podestà dimissionario, signor Carlo Andriotti Romanin”.
__________
(1) Era stato uno dei fondatori del P.N.F. di Vigodarzere.
(2) Nazzareno Paccagnella, Commissario Prefettizio di Vigodarzere, fu ucciso nelle prigioni di Enego (VI ) il 3
maggio 1945.
Mosquito aereo inglese da ricognizione fotografica.
153
Strada per
Tavo
Strada per
Vigodarzere
Fotografia aerea di Saletto.
Fu scattata da un ricognitore anglo-americano il 28 agosto 1944 da oltre 9.000 metri di quota. Nella parte inferiore si
evidenzia il tortuoso fiume Brenta, da destra la strada principale via L. da Vinci (con la laterale via Stradona), nella
curva ad U la chiesa di Saletto (dritti la via Capitello), proseguendo la strada principale via G. Marconi (a destra via
Soriva). Da rilevare l’estensione delle spiagge nel letto del fiume.
(Ministero dei Beni e le Attività Culturali Aereofototeca dell’I.C.C.D. (Permesso di pubblicazione n. 3013 V del 25/02/2004
rilasciato a Giulio Cesaro).
154
Strada per
Tavo
Strada per
Saletto
Fotografia aerea di Limena – Saletto.
Fu eseguita da un ricognitore anglo-americano il 28 agosto 1944. Nella parte inferiore il centro di Limena, nel mezzo il
fiume Brenta, sbarrato da due dighe che regolano l’afflusso dell’acqua nell’emissario Brentella. Nella parte centrale della
foto: la strada principale via Villabozza e a sinistra la via Maresana.
(Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Aereofototeca dell’I.C.C.D. (Permesso di pubblicazione n. 3013 V del
25/02/2004 rilasciata a Giulio Cesaro).
155
Strada per
Arsego
Strada per
Saletto
Fotografia aerea di Tavo.
Fu scattata da un aereo ricognitore anglo-americano il 28 agosto 1944 da oltre 9.000 m. di quota. Nella parte destra
della foto si nota la strada via Villabozza con alla destra via Chiesa di Tavo. Nella parte centrale la doppia curva del
fiume Brenta con le caratteristiche spiaggie. Il fiume, nei periodi nei quali la portata d’acqua era normale, si guadava in
molti punti.
(Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Aereofototeca dell’I.C.C.D. - Permesso di pubblicazione n. 3013 V del 25 – 02 2004 rilasciato a Giulio Cesaro).
156
Strada per
Saletto-Tavo
Strada per
Padova
Fotografia aerea di Terraglione.
Fu scattata da un ricognitore anglo-americano il 31 agosto 1944.
A destra della fotografia in diagonale, il torrente Muson dei Sassi; accanto la Strada del Santo Padova –
Camposampiero; quasi al termine della stessa strada il ponte sul torrente Muson e l’inizio dell’attuale via Terraglione;
procedendo a sinistra si vede la chiesa di Terraglione; oltre l’ex passaggio a livello della ferrovia, quasi nascosta da una
nuvola, si nota a sinistra l’inizio dell’attuale via Cà Zusto; proseguendo, sempre su via Terraglione, a sinistra via Busiago
e a destra la via Perarello.
(Ministero per i Beni e le Attività Culturali - Aereofototeca dell’I.C.C.D. - Permesso di pubblicazione n. 3013 del 25 – 02 2004 rilasciato a Giulio Cesaro).
157
Guerra e carestia.
Gli alimenti scarseggiavano, i prezzi erano saliti alle stelle; nei negozi erano venduti esibendo una
tessera a punti. A seguito di ciò, si sviluppò il mercato nero di ogni genere di cibo.
Dal giornale quotidiano “Il Gazzettino” nella cronaca di Padova di venerdì 24 novembre 1944:
“Rubrica dell’alimentazione” (1).
La Sezione provinciale per l’Alimentazione comunica:
Il Superiore Ministero ha disposto che le razioni dello zucchero, a partire dal 1° novembre, siano
fissate come segue: bambini da 0 a tre anni grammi 500 mensili, ragazzi da 8 a 12 anni grammi 250
mensili; adulti oltre i 65 anni grammi 250 mensili.
La categoria dai 16 ai 65 anni non ha quindi diritto allo zucchero”.
Seguono le categorie degli ammalati escluse dal provvedimento.
__________
(1) Tale rubrica era pubblicata sul “Il Gazzettino”, quasi tutti i giorni.
Pozzo artesiano usato per attingere l’acqua dalla falda
acquifera sotterranea.
Tale pozzo, in estate, era usato anche come frigorifero per le
vivande prima poste in un cesto di vimini e poi calato sopra
il livello dell’acqua.
158
Le due Italie nell’ottobre del 1944.
La prima a nord della “Linea Gotica” , era la Repubblica Sociale italiana con a capo del governo
Benito Mussolini. La sede centrale del governo repubblicano era a Salò (Brescia), gli uffici ministeriali
erano sparsi in Lombardia e nel Veneto. Il territorio era occupato dalll’esercito di Hitler e dai soldati
italiani che avevano aderito alla Repubblica Sociale italiana che, militavano nella Decima Mas, nella
Milizia Fascista Repubblicana e nelle Brigate Nere.
A Padova c’era la sede del Ministero dell’Educazione Nazionale (il ministro era Carlo Alberto Biggini)
che occupava tutto il piano terra del Pensionato Universitario privato Antonianum, in via Donatello
vicino all’Orto Botanico; era gestito dai padri gesuiti. Nello stesso edificio nei piani superiori oltre agli
studenti, vi erano le sedi dei militanti clandestini dei gruppi partigiani e delle Brigate “Luigi
Pierobon”(Democrazia Cristiana) e “Damiano Chiesa” (Partito d’Azione). Dal mese di maggio del 1944
vi si era istallata la Missione Militare inglese n. 1 Special Force CMF e dal 15 aprile 1945 vi era pure la
sede del Comando Militare Regionale Partigiano. A trecento metri, nell’attuale sede del Circolo Ufficiali,
vi era il comando del presidio tedesco di Padova.
La seconda Italia era a sud della “Linea Gotica”. Il re Vittorio Emanuele III° era il Capo di Stato; il
Capo del governo era il maresciallo Pietro Badoglio. Tutto il territorio del Centro-Sud era stato liberato
dalle truppe anglo-americane, dai partigiani e dai soldati italiani del nuovo Esercito Italiano, chiamato
Corpo Italiano di Liberazione (CIL). Alla fine della guerra il nuovo Esercito Italiano era composto di
cinquantamila soldati..
Il fronte di guerra italiano chiamato“Linea Gotica”, (nel disegno è segnata a tratteggio) rimase stazionario dal novembre
1944, sino ai primi del mese di aprile 1945.
159
BOMBARDAMENTI E MITRAGLIAMENTI SU VIGODARZERE
La documentazione riportata è principalmente tratta dalle relazioni dei parroci dei paesi di Tavo,
Saletto e Vigodarzere e da molti testimoni oculari del tempo. La parrocchia di Terraglione, che era da
poco istituita, non ha documenti degli avvenimenti del periodo della guerra.
La linea ferroviaria Padova-Bassano era importante per i tedeschi, perché collegava la linea del fronte di
guerra italiano (dal novembre 1944 sino al 10 aprile 1945 chiamata Linea Gotica) con la Germania.
Importante, anche, perché i tedeschi avendo poco carburante per i mezzi motorizzati, puntavano molto
sul trasporto ferroviario. Il ponte ferroviario sul fiume Brenta, tra Vigodarzere e Padova, fu l’obbiettivo
di circa un centinaio di bombardamenti aerei.
Il primo bombardamento sul ponte ferroviario Vigodarzere - Padova.
“Fu improvviso ed inaspettato, il 31 agosto 1944 alle ore 10.25, compiuto da una squadriglia di
bombardieri. Furono sganciate parecchie bombe nei pressi del ponte di ferro sul Brenta, lungo la linea
ferroviaria. L’obiettivo, il ponte, non fu colpito; furono invece sinistrate 7 casette site nelle immediate
vicinanze e così sette famiglie per prime dovettero sloggiare e trovare rifugio altrove”.
(Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchiale di Vigodarzere).
Altro bombardamento danneggiato il ponte della ferrovia.
“Il 23 settembre 1944 alle ore 10.30 alcune squadriglie di apparecchi pesanti sganciarono una
trentina di bombe di grosso calibro sul ponte che rimase seriamente leso e la linea ferroviaria
fortemente danneggiata. Una scheggia purtroppo fa la prima vittima: Fasullo Genoveffa di 54 anni di
Padova, era sfollata presso la famiglia Masiero. Genoveffa mentre transitava lungo l’argine destro del
Muson, a distanza piuttosto rilevante dal ponte ferroviario, fu colpita alla testa da una scheggia,
fracassandogliela. Nel posto si recò immediatamente l’arciprete, ma dovette limitarsi a dare l’estrema
unzione”.
(Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchiale di Vigodarzere).
Mitragliata la stazione ferroviaria di Vigodarzere.
“Il 14 dicembre del 1944, alle ore 9.10 nella stazione sostava un treno corazzato difeso con
cannoncini e mitragliatrici antiaeree, zeppo di truppa militare tedesca diretta verso il fronte sud, cioè
Bologna. Chissà, per quali motivi, era arrivato tardi per transitare di notte sul ponte. Improvvisamente,
a bassa quota, come un fulmine, arrivarono i caccia bombardieri; successe il finimondo, con sgancio di
bombe, una dopo l’altra disordinatamente sparse nella zona. Simultaneamente entrarono in azione le
mitragliatrici e i cannoncini del treno. Gli aerei sembravano impazziti e cominciarono a volteggiare sulla
zona mitragliando il treno. Nel cielo sibilarono proiettili, mentre nella campagna adiacente i soldati si
dispersero come uno sciame d’insetti, altri soldati con fucili mitragliatori sparavano all’impazzata contro
gli aerei. Gli abitanti della zona, terrorizzati, si rifugiarono nei fossati o negli scavi anticarro. Sembrava
che tutto fosse passato, ma gli aerei ritornarono e ripresero a mitragliare il treno, finché colpirono la
motrice; si udì uno scoppio, si vide una fiammata, poi il silenzio.
Numerosi soldati tedeschi furono feriti e furono trasportati nelle case vicine per essere medicati.
L’inferno si quietò verso le ore 11.00 e ritornò il silenzio nella zona. Il treno corazzato danneggiato, fu
trainato verso nord. Con tanto pandemonio, il ponte ferroviario uscì indenne. Per noi abitanti della
zona aumentarono le preoccupazioni per il pericolo di altri bombardamenti.
(Documento dell’archivio personale di Federico Zoccarato).
Una bomba sotto le rotaie.
Testimonianza di Umberto Gasparini (1926) Vigodarzere il 20. 09. 2002.
“Lavoravo nel magazzino Aeronautico di Vigodarzere, occupato dai soldati tedeschi. Durante un
bombardamento e mitragliamento della stazione ferroviaria di Vigodarzere, una piccola bomba d’aereo
finì sotto le traversine delle rotaie: rimase inesplosa mentre un treno stava per passare. Un graduato
tedesco ordinò a quattro soldati tedeschi di spostarla. Si avvicinarono alla bomba. Uno colto dal panico,
si allontanò e si nascose dietro un muretto. Gli altri tre tentarono di sollevare la bomba che esplose,
sbriciolando i corpi dei soldati. Ad alcuni di noi fu ordinato di raccogliere i miseri resti umani, sparsi nel
160
raggio di circa cento metri, per evitare che i cani randagi se ne cibassero. Il soldato scampato alla morte,
sconvolto, si recò presso l’osteria Da Ventura, nel centro di Vigodarzere, ordinò un bicchiere di grappa
e raccontò l’accaduto”.
Sullo stesso episodio la testimonianza di Federico Zoccarato (classe 1923), Vigodarzere il 30.01.2003.
“Nell’esplosione della bomba, anche i portafogli dei soldati uccisi furono ridotti a brandelli. Alcuni
cittadini raccolsero i pezzi di banconote e li consegnarono alla Banca d’Italia ricevendo in cambio delle
banconote nuove”.
Ancora mitragliata la stazione ferroviaria di Vigodarzere.
Testimonianza di Ferdinando Dori (classe 1929), 11. 11. 2002.
“Il 16 dicembre 1944, aerei caccia bombardieri a più riprese, mitragliarono la stazione ferroviaria di
Vigodarzere e un treno carico di soldati tedeschi rimase fermo. Nella notte i soldati delle SS, scesi dal
treno, raggiunsero il centro di Vigodarzere ed entrarono nelle case pretendendo gli alimenti. La trattoria
Da Ventura era chiusa; era passata la mezzanotte, i tedeschi bussarono alla porta, con veemenza, perché,
affamati, volevano mangiare. Alle loro richieste risposi che non c’era più niente da mangiare e loro mi
puntarono la pistola sul petto ed entrarono nella sala bar in cerca di qualcosa di commestibile.
Insoddisfatti cominciarono a sparare sulle bottiglie che si trovavano allineate sopra gli scaffali. Tutto
intorno lungo le pareti, il vino cadeva a cascate. Al piano superiore della trattoria dormiva un
maresciallo tedesco, del presidio germanico di Vigodarzere, alloggiato da noi già da parecchi giorni il
quale, al rumore degli spari, scese e dando ordini perentori li mise sull’attenti e li fece allontanare”.
La trattoria “Da Ventura” era ubicata nel centro a Vigodarzere; è stata demolita nel 1968.
La fotografia del 1928 è di Ferdinando Dori.
Altro grave bombardamento
“Il 26 dicembre 1944 alle ore 15.15 ventiquattro apparecchi plurimotori da bombardamento
sganciarono una cinquantina di bombe: obiettivo il ponte ferroviario, che subì qualche danno. Furono
colpiti seriamente e con gravi danni il Magazzino Aeronautico, l’industria pulitura stracci di Benoni Fior
B.”. (Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria della parrocchia di Vigodarzere)
161
I numerosi bombardamenti aerei al ponte ferroviario (chiamato il ponte di ferro) lo danneggiarono sino
a renderlo intransitabile.
Il ponte in ferro della linea ferroviaria Vigodarzere-Padova sul fiume Brenta prima dei bombardamenti aerei. Era
importante perché i tedeschi, transitandolo, rifornivano il fronte di guerra a sud di Bologna.
(Collezione fotografica del maestro Albino Bellon).
La torre “Benoni” costruita nel 1928 (1),
ha superato indenne i numerosi
bombardamenti aerei e l’incuria del tempo.
E’ ubicata in via Carducci a Vigodarzere.
(Foto 2004).
__________
(1) Testimonianza del rag. Ruggero Benoni
Vigodarzere il 10. 01. 2004.
162
Lo stabilimento “Benoni” subì gravissimi danni dai bombardamenti aerei. Tra le macerie si evidenzia
la torre deposito dell’acqua rimasta intatta (Foto del 1945, archivio del rag. Ruggero Benoni).
“Soldati tedeschi a Tavo
Dal giorno 17 al 28 ottobre 1944 si fermarono in parrocchia due sezioni di soldati tedeschi,
provenienti dal fronte italiano. In parecchie famiglie i proprietari furono costretti cedere loro le proprie
camere e adattarsi alla meglio. La canonica diventò una vera caserma aperta di giorno e di notte. Vi
alloggiarono 28 tra soldati e ufficiali. Le persone e le cose furono però rispettate dovunque”
(Cronistoria parrocchiale di Tavo scritta da parroco Don Giocchino Donazzan).
Un soldato tedesco gioca con un bambino italiano.
163
Foto aerea notturna di Vigodarzere.
I nostri paesi erano quattro case sparse nella campagna, con al centro la chiesa.
Strada per
Terraglione
Strada per
Saletto
La Certosa
Fiume
Brenta
Foto aerea notturna di Vigodarzere.
Comprende la zona tra la Certosa di Vigodarzere e Pontevigodarzere. E’ stata scattata da un ricognitore angloamericano, da circa 8.000 metri di altezza, verso le ore 21,00 alla fine del mese dicembre 1944 o nei primi giorni di
gennaio del 1945. La zona coperta dalla neve, è stata illuminata a giorno con razzi “Bengala”. Da notare il vecchio letto
del fiume Brenta raddrizzato (1) nel 1861, il ponte ferroviario e quello stradale sono distrutti.
(Collezione fotografica dell’archivio di Sergio Nave e di Silvano Gasparini; da Department of the Air Force -Maxwel
U.S.A.).
__________
(1) Tratto: “Le piene dei fiumi veneti e i provvedimenti di difesa” di Luigi Miliani. Ed. Felice Le Monnier, 1939.
164
Propaganda della Repubblica Sociale Italiana
(Dal giornalino: “Il Corriere Aereo” del 03. 11. 1944. Archivio della Biblioteca Civica di Padova).
165
Le intense nevicate dell’inverno 1944-45.
Le condizioni meteorologiche rendevano più penosa la vita degli sfollati dalla città di Padova;
-questi circa 1500/2000- avevano trovato un rifugio nelle abitazioni, nelle barchesse, nei fienili e nei
granai delle famiglie del territorio comunale a Vigodarzere.
Penosa era anche la vita di circa 200 lavoratori della Todt abitanti a Vigodarzere e a Cadoneghe,
perché dovevano lavorare di notte per la costruzione del ponte ferroviario Vigodarzere-Padova sul
fiume Brenta. Fra questi, c’erano pure dei soldati russi fatti prigionieri dai tedeschi che alloggiavano
nella Casa del Fascio di Vigodarzere.
Due giovanissimi prigionieri russi
Testimonianza resa da Federico Zoccarato (classe 1923), Vigodarzere il 20 . 02. 2003.
“Alle ore 7.00, nevicava intensamente (1) e il suolo era già coperto di circa 30 centimetri di neve.
Soffiava un forte e gelido vento. Un tenente del genio ferroviario tedesco suonò il campanello della mia
abitazione (attuale via G. Verdi), mi chiese di entrare assieme a due giovanissimi prigionieri russi, anche
loro impegnati nella costruzione notturna del nuovo ponte ferroviario in legno Vigodarzere-Padova.
I due russi erano reduci da una notte siberiana di lavoro, avevano gli indumenti bagnati fradici ed
correvano il pericolo di congelamento. Li conoscevo perché anch’io lavoravo, costretto, per i tedeschi
nell’organizzazione della Todt.
Il tenente tedesco mi chiese per loro una temporanea ospitalità. Entrarono in cucina dove c’era la stufa
economica accesa, poi notarono che la mia stanza da letto aveva un focolare e mi domandarono di
accendere il fuoco e si coricarono nel mio letto.
Rimasero sino alla sera per dormire ed asciugare i loro vestiti.
Nella notte seguente i due prigionieri, per riconoscenza, trascinarono un grosso tronco di un albero
(adatto per essere tagliato in pezzi, da bruciare nella stufa economica) davanti all’ingresso della mia
abitazione”.
__________
(1) Il “Gazzettino di Padova del di martedì 9 gennaio 1945 riporta la seguente notizia:
“Un’altra nevicata Ieri, verso le ore 12.00 dopo una mattinata grigia e chiara, il cielo si è nuovamente
rannuvolato e ha cominciato a nevicare, con crescente intensità. A sera inoltrata, nevicava ancora fitto e la città si
è nuovamente ricoperta di uno spesso strato di neve”.
Si salvarono le persone, distrutta l’abitazione.
“10 gennaio 1945. La terra è coperta di neve abbondante; il cielo è sereno e 8 apparecchi fanno la
loro comparsa alle ore 11. 00. Le bombe sono disseminate qua e là in zona Conchelle Mattina (ora via
A. Manzoni). La casa Gottardo crolla completamente e le famiglie Gottardo e Nalesso, fittavolo,
rimangono sotto le macerie. L’incrociarsi provvidenziale delle travi fece sì che le 8 persone non
subissero lesioni gravi, grazie anche al pronto soccorrere della gente”.
(Arciprete di Vigodarzere, don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchiale di Vigodarzere).
Testimonianza di Giannino Gottardo (classe 1937), Vigodarzere il 13. 03. 2003.
“Mia madre Virginia Fincato non fu coinvolta nel crollo dell’abitazione; si era recata presso la
famiglia di Roberto Fincato per praticare un’iniezione. Gli uomini del paese, subito accorsi in massa,
fulmineamente iniziarono a spostare le macerie ed estrassero le persone con leggere ferite. Anche mia
madre partecipò a rimuovere le macerie e urlava il suo dolore. Dopo quattro ore anch’io fui tirato
fuori, con solo delle graffiature, come le altre sette persone”.
166
Foto del 1945. Le macerie della casa Gottardo, tutte le otto persone furono estratte vive e con solo delle lievi ferite.
(Collezione di Giannino Gottardo).
La casa Gottardo ricostruita nel 1946 è ubicata nell’attuale via A. Manzoni, al n. civico 196 a Vigodarzere. Foto
aerea del 1978. (Collezione di Giannino Gottardo).
167
LA COSTRUZIONE DEL NUOVO PONTE FERROVIARIO IN LEGNO DI LARICE
“Nel gennaio 1945, dopo che il ponte ferroviario in ferro fu reso inservibile dai molti
bombardamenti aerei, il genio militare tedesco del presidio di Vigodarzere, con l’aiuto di circa 200
operai lavoratori ausiliari (Todt) di Vigodarzere, di Cadoneghe e di altri paesi limitrofi, diede inizio alla
costruzione del nuovo ponte ferroviario. Il lavoro inizialmente si svolgeva sia con turni diurni e
notturni poi, per non essere sorpresi da attacchi aerei, si lavorò solo di notte. La costruzione fu molto
lenta; noi uomini eravamo male equipaggiati, il terreno era coperto dalla neve, i nostri cappotti erano
sempre ricoperti di brina.
Lavoravamo sempre sotto il controllo dei soldati tedeschi armati i quali davano ordini perentori e
minacciosi. Il ponte per non esporlo all’azione dei bombardamenti fu abbassato. Il dislivello tra le rotaie
e l’acqua era solo di tre metri. Da entrambi gli argini, con badili e carriole asportammo il terreno. Il
ponte poggiava su dei gruppi di pali di legno piantati nel letto del fiume e le sue estremità posavano
sulle banchine inferiori dell’argine”
(Archivio di Federico Zoccarato)
Le testimonianze sono di Federico Zoccarato (classe 1923), Vigodarzere e di Bruno Lucadello (classe
1924), Meianiga di Cadoneghe 23 gennaio 2004.
“Con un battipalo manuale (un’alta capriata con sopra una carrucola) tirando la corda si sollevava
un pistone di metallo al punto massimo e si lasciava cadere dentro un cilindro-guida, i pali di legno
erano piantati sprofondandoli nel letto del fiume. Sopra l’estremità dei pali erano fissate le capriate
costruite con travi di legno. Delle putrelle di ferro furono poste sopra le capriate e su queste venivano
bloccate le traversine e le rotaie. Il tutto era tenuto da bulloni metallici e tiranti in ferro. La preparazione
delle punte dei pali, il montaggio delle capriate, le putrelle con le traversine e le rotaie erano lavorate e
montate preventivamente nel deposito legnami “Fiorazzo”, che si trovava ad ovest della stazione
ferroviaria di Vigodarzere. Le parti inbullonate, per mezzo di una grande gru, venivano issate sopra un
vagone ferroviario, trasportate e calato nella posizione prestabilita sul costruendo ponte. La costruzione
fu eseguita nelle gelide notti del mese di gennaio del 1945”.
La parte nord del ponte era asportabile.
“Ogni giorno alle prime luci dell’alba, dai soldati tedeschi, con una gru dotata di un grande braccio
meccanico, piazzata sopra un carro ferroviario trainato di un camion con le ruote di ferro, veniva
sollevata la parte mobile a nord del ponte ferroviario e nascosto nel deposito di legname della ditta
“Fiorazzo”. Alla sera era riportata e ricollocata affinché i treni durante la notte potessero transitare sul
ponte. Dalle ricognizioni aeree diurne il ponte ferroviario risultava mutilato e quindi intransitabile”.
Il trucco durò poco.
“Dai resoconti delle foto-interpretazioni e dai dati riassuntivi dei piloti dei ricognitori aerei angloamericani si legge: “Una campata di circa 50 piedi (15 metri), è stata individuata dai ricognitori come
rimossa nel periodo tra le due rilevazioni aerofotografiche aeree del 31 gennaio e del 6 febbraio 1945. Il
ponte è indicato fra quelli capaci di attività notturna” (1).
(Dal libro: “L’offensiva aerea alleata” di Sergio Nave. Padova 1993)
__________
(1) Dalle testimonianze oculari, risulta, che i soldati del Genio Pontieri, anche nei mesi di febbraio e marzo del
1945, continuarono a rimuovere la parte mobile del ponte.
Ricordi dei bombardamenti sul ponte ferroviario.
Ricordo molto bene i bombardamenti aerei su Vigodarzere. Dalla zona della mia abitazione,
sufficientemente lontana dagli obiettivi militari, ho assistito a molti bombardamenti. La formazione dei
caccia bombardieri, carichi di bombe, si annunciava con un intenso rumore cupo. Appena comparivano
nel cielo, i cannoni dell’antiaerea iniziavano a sparare. I caccia bombardieri iniziavano spesso la
picchiata sopra la Certosa con i motori al massimo di giri; le mitraglie e i cannoni delle postazioni
antiaeree iniziavano a sparare nel tentativo di abbatterli. Gli aerei passavano tra il campanile di
Vigodarzere e quello della vecchia chiesa di Altichiero sopra il fiume Brenta e a quel punto sganciavano
168
le bombe che scendevano con un tracciato obliquo per centrare ed esplodere sul ponte della ferrovia.
Per manovre errate dei piloti, contrastati dall’intenso fuoco contraereo e per i sistemi di puntamento
non perfezionati, spesso le bombe finivano lontano, colpendo le abitazioni. All’esplosione delle bombe
le case e i fabbricati di Vigodarzere vibravano per lo spostamento dell’aria, come fosse un terremoto, e i
vetri delle finestre, se erano chiuse, andavano in frantumi. Il ponte ferroviario di legno rimase
funzionante sino al 1949, anno in cui fu inaugurato l’attuale ponte ferroviario di cemento armato.
Disegno tecnico del ponte ferroviario di “legno”, sul fiume Brenta della linea Vigodarzere –
Padova.
Fu costruito nel gennaio 1945 dai soldati del Genio Militare tedesco (che erano accasermati nell’edificio delle scuole
elementari di Vigodarzere) e da centinaia di lavoratori ausiliari (Todt) di Vigodarzere, Cadoneghe e paesi limitrofi. Il
nuovo ponte ferroviario, i cui portanti erano delle travi in legno imbullonate, permettevano una rapida sostituzione delle
parti danneggiate del ponte dallo scoppio delle bombe.
L’elaborato tecnico è del pittore Giuseppe Siccardi, noto a livello europeo, che vive e lavora a Vigodarzere (Padova). La
consulenza storica è di Federico Zoccarato.
169
Quello che rimane dei capannoni della ditta Fiorazzo, situati in via Roma a Vigodarzere, di fronte all’ingresso del
Magazzino dell’Aeronautica Militare a Vigodarzere; nel mese di gennaio 1945, si costruì le parti di legno del ponte
ferroviario Vigodarzere- Padova. (Foto del 15 luglio del 2005).
L’azione della contraerea.
Le postazioni della contraerea con mitraglie erano l’una ad Altichiero, l’altra ad ovest della
stazione ferroviaria di Vigodarzere; mentre le postazioni contraeree dotate di cannoni l’una nei pressi
del centro di Torre, l’altra in via Stradona a Saletto in un edificio in muratura di due casermette
quest’ultime erano dotate anche di due mitragliatrici e di un telemetro. Le mitraglie avevano un’azione
di tiro di 700 metri e potevano colpire solo i caccia bombardieri in picchiata.
La postazione contraerea di Limena, ubicata in via Praimbole, era dotata di cannoni.
Terminato il bombardamento, per diversi minuti si udiva il sibilo sinistro delle schegge dei proiettili
sparati dalla contraerea che esplodevano all’altezza del volo degli aerei. Inoltre, a seguito di quelle
esplosioni, il cielo rimaneva punteggiato di nuvolette nere.
Postazione antiaerea dotata di mitragliatrice; era ubicata ad ovest della stazione ferroviaria di Vigodarzere. A manovrare
le mitragliatrici erano degli ex soldati della prima guerra mondiale, abitanti a Vigodarzere, richiamati al servizio
militare. Gli abitanti di Vigodarzere li chiamavano: “Quei dea fionda”.
(Foto del 1944, collezione di Ferdinando Dori).
170
Abbattuti due aerei caccia-bombardieri.
“Il 31 gennaio 1945 alle ore 12.25 e alle ore 14.00, due formazioni aeree a più riprese lanciarono
parecchie bombe. Due aerei caccia-bombardieri furono abbattuti dalla contraerea, il primo alle 12.30 (il
pilota dall’esplosione fu smembrato), il secondo alle ore 14.15 (il pilota rimase decapitato dall’impatto
con il suolo). Il ponte ferroviario subì danni e reso inservibile”.
(Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchiale).
Il sottoscritto vide esplodere il primo aereo a circa 100 metri dal suolo. Data l’ora e poiché gli alberi
erano senza foglie, moltissimi abitanti del paese di Vigodarzere furono testimoni oculari. Mia madre
vide esplodere l’aereo dal balcone del primo piano della casa (attuale via Vittorio Veneto) e urlando
disse: “Ea mama de quel pilota, ea mugiere e so fioi i lo speterà, ma lu el ze morto lontan dal so Paese !” (La mamma,
la moglie e i figli di quel pilota lo aspetteranno, ma lui è morto lontano dal suo Paese).
I poveri resti del pilota erano sparsi nella zona a nord del fiume Brenta, ad ovest della ferrovia.
Il recupero dei resti delle salme dei piloti.
Testimonianza resa da Zeno Vettore (1926), Vigodarzere il 02. 12. 2001.
“Terminato il bombardamento, stavo lavorando vicino al ponte ferroviario. Vidi don Giulio Rettore
da solo tenere in spalla un sacco, perlustrare la zona e raccogliere i miseri resti del pilota. Fui poi
informato che don Giulio si recò presso il deposito di legnami da Fiorazzo, si fece consegnare delle
tavole di legno e le portò al falegname Antonio Pilli, per la costruzione di una piccola bara. In seguito
don Giulio la seppellì nel cimitero di Vigodarzere.”
La popolazione rimase impressionata.
La morte del pilota per l’esplosione dell’aereo provocò cordoglio nella maggioranza della
popolazione di Vigodarzere. Calzavara Angela Vettore, che lavorava in un negozio di macelleria a
Vigodarzere, manifestò ad altre persone espressioni di dolore per la morte del pilota. Era presente un
attivista della Repubblica di Salò che severamente minacciò di inviarla nelle prigioni di S. Maria
Maggiore a Venezia. Il titolare del negozio intervenne energicamente e fece sospendere ogni
discussione. Il secondo aereo colpito si piantò nel terreno ad ovest della ferrovia e a sud del fiume
Brenta, nel territorio di Altichiero in Padova. Il corpo decapitato del pilota, fu sbalzato a circa una
decina di metri dall’aereo. Un testimone sfollato in via Cà Panosso a Altichiero, seguì l’accaduto e con
testimonianza del 10 dicembre 2001 rilasciò la seguente dichiarazione: “La gente di Pontevigodarzere
ebbe il massimo rispetto del cadavere del pilota. Aiutato da alcuni abitanti di via G. Zanon, il giorno
dopo, don Antonio Finco trasportò i resti del pilota nel cimitero di Torre”. Don Giulio Rettore,
arciprete di Vigodarzere, pure, si recò a benedire la salma di quel pilota.
Documentazione.
La missione partigiana di Padova in data 17/18 febbraio 1945, n. 99 R. 125, ricevette dal Comando
dell’Aviazione Alleata anglo-americana un telegramma che chiedeva notizie di un tenente pilota caduto
a Vigodarzere. Il testo del telegramma “….tenente Lindsay pilotando aeroplano americano P. 47 colpito
cadeva vicino a Vigodarzere X sheet 50 x at 45.27.28. I sheet 003515 ovest Roma chiede
informazione…”
(Notizia rilevata dal libro: “Le missioni militari alleate e la Resistenza nel Veneto” a cura di Chiara Saonara.
Istituto Veneto per la Storia della Resistenza. Annuali 1988 – 1989).
I due piloti dove riposano?
Nel cimitero inglese di Chiesanuova-Padova, dove ci sono le tombe di 518 soldati del
Commonwealth caduti nel Veneto, nella guerra 1940-45, si trova una tomba con una lapide con la
scritta: pilota Noel Lindsay (è l’unica tomba il cui cognome è Lindsay). Il signor Bruno Tiso, che nel
1946 era il responsabile del nuovo cimitero, quando le salme furono raggruppate e seppellite,
nell’intervista del 20. 05. 2002 disse: “Due salme provenivano dai cimiteri della zona di
Pontevigodarzere”. Specificò anche che: “Le salme dei soldati inglesi di religione musulmana furono
trasportate e sepolte in un apposito cimitero a loro riservato nella zona dell’Emilia-Romagna”.
171
Il cimitero inglese di Chiesanuova in
Padova dove è sepolto il pilota Noel
Lindsay della Royal Air Force
Volunteer, con altri 517 soldati
anglo-americani morti nel territorio
del Veneto dal 1943 al 1946 (Foto
2003).
Soldato bersagliere americano
sacrificato per la nostra libertà..
Viva per miracolo.
Testimonianza di Maria Salvadego Pirazzo (classe 1923), Vigodarzere il 25. 11. 2004.
“Nella prima parte del mese di gennaio del 1945 ero al terzo mese di gravidanza. Durante uno dei
tanti bombardamenti aerei mi allontanai dall’abitazione (nell’attuale via Cà Pisani a Vigodarzere) per
cercare rifugio in uno dei profondi fossi. Il terreno era ghiacciato e ricoperto da 30 cm di neve e,
entrando nel fosso, scivolai di brutto finendo distesa sul fondo. Il giorno successivo iniziarono dei
sintomi di insofferenza. La notte mio marito si recò dalla levatrice, la quale costatò l’urgenza di
ricoverarmi all’ospedale.
Per il trasporto degli ammalati si usava il biroccio trainato da un cavallo e guidato dal proprietario
(nel mio caso volontariamente si prestava uno dei vicini della famiglia Elardo); essendo la strada
ghiacciata il cavallo non si poteva reggere in piedi.
Mio marito si recò da don Giulio Rettore l’arciprete di Vigodarzere che chiese un mezzo motorizzato al
comandante del presidio tedesco locale. Avendo ricevuto un diniego si fece consegnare un permesso di
transito (c’era il coprifuoco con il divieto assoluto di circolazione dalle ore 19.00 sino alle ore 7.00 del
mattino).
Alle prime luci dell’alba mi sdraiarono su di un materasso e mi caricarono sul camioncino di
proprietà di Battaglia (che aveva un deposito di alimentari sotto il palco del teatro parrocchiale). Per
raggiungere l’ospedale di Padova si doveva transitare per Ponte di Brenta perché il ponte di
Pontevigodarzere era stato distrutto dai bombardamenti. A Ponte di Brenta, in corrispondenza del
ponte stradale, fummo fermati da una pattuglia tedesca che ci chiese i documenti e il lasciapassare
tedesco: verificarono il mio stato di salute e mi lasciarono proseguire per Padova.
Il prof. Rivoltella mi operò bloccando l’emorragia; la degenza all’ospedale si protrasse per otto giorni,
durante i quali, Padova subì bombardamenti aerei e tutte le notti “Pippo”, l’aereo ricognitore angloamericano, passava e ripassava, creando panico. Il personale dell’ospedale manteneva la calma e si
prodigava al massimo per ridurre i disagi dei ricoverati. Ricordo che l’impianto di riscaldamento non ha
mai funzionato e gli stanzoni erano gelidi. Al congedo, il primario esclamò: “Porti una candela al Santo
perché lei è stata miracolata!”.
Io aggiungo anche che se sono viva, lo devo a don Giulio Rettore, che organizzando il mio trasporto
all’ospedale ha concorso a salvarmi la vita”.
172
STORIE DI BOMBARDAMENTI
Le “farfalle” vicino al deposito di esplosivi nei pressi della Certosa.
“Alle ore 10.15, del 03 marzo 1945, otto squadriglie composte ciascuna, da otto caccia bombardieri
ciascuna, lanciano 32 grosse bombe causando danni alla ferrovia e alla strada comunale, che rimase
interrotta; una ventina di bombe farfalla lanciate nei pressi della Certosa, provocando panico tra la
popolazione, poiché in quei paraggi vi sono forti depositi di esplosivi ”.
(Arciprete don Giulio Rettore – Cronistoria della parrocchia di Vigodarzere).
Bombardata la scuola di Vigodarzere: 18 morti e 20 feriti gravi.
“L’11 marzo 1945, alle ore 20.20 e alle ore 21.50 grave azione di bombardamento e spezzonamento
(lancio di bombe incendiarie) nel centro della parrocchia. Furono lasciate cadere 15 bombe di grosso
calibro, tre bidoni di bombe a farfalla e un migliaio di spezzoni incendiari disseminati per una lunghezza
d’un chilometro. L’obiettivo evidente dell’attacco era il nostro edificio scolastico, che dall’agosto 1944
ospitò un presidio germanico del genio pontieri. Il detto edificio è stato colpito in un’ala che è crollata
completamente., causando la morte di 18 tedeschi, mentre una ventina furono gravemente feriti.
A pochi metri dall’asilo cadde una grossa bomba provocando danni non gravi all’edificio, ma
spezzoni incendiari provocarono altri danni rilevanti su sette case di abitazione, la più provata quella di
Marini Giuseppe (attuale edificio in via Roma 272 a Vigodarzere) che in buona parte bruciò. Bombe a
farfalla sono lanciate, in lungo e in largo; mettono in seria preoccupazione tutti. Notte d’inferno senza
un momento di tranquillità”
(Arciprete don Giulio Rettore - Cronistoria della parrocchia di Vigodarzere).
Il testimone ha chiesto l’anonimato, settembre 2002.
“Lavoravo al tornio su di un camion posizionato a fianco delle scuole elementari di Vigodarzere che
erano intitolate ad “Arnaldo Mussolini”. La sera prima del bombardamento c'era un gran movimento e
parecchia animazione: nel seminterrato stavano preparando una gran festa. Notai entrare nell’edificio
delle scuole anche alcune donne collaborazioniste dei tedeschi.
Al mattino successivo ripresi a lavorare; seppi che i tedeschi feriti per lo scoppio della bomba erano
stati portati all’ospedale che essi gestivano ad Abano
Terme”.
Testimonianza resa da Teresa Pascon Bernardello (classe
1917), Vigodarzere febbraio 2002.
“Abitavo di fronte alle scuole elementari di Vigodarzere
nell’attuale Piazza Bachelet. Per fortuna da alcuni giorni
eravamo sfollati a Terraglione.
La mattina dopo la notte del bombardamento, assieme a
mio marito Valentino, andammo a controllare la situazione
della nostra abitazione.
Una bomba incendiaria aveva forato il tetto e si era
adagiata inesplosa dentro la nostra stanza da letto.
Avvisammo gli artificieri, che la trasportarono in un campo
e la fecero brillare. Altre abitazioni erano state danneggiate
dalle esplosioni delle bombe incendiarie, tra cui quella di
Battiston Giuseppe e Marini Giuseppe. La bomba che colpì
le scuole elementari causò gravi danni: tutto l’angolo nordovest dell’edificio era crollato e una grande buca era stata
causata dall’esplosione. I soldati tedeschi lasciarono
l’edificio perché inagibile e si trasferirono presso la Casa del
Fascio di Vigodarzere”.
Il campanile di Vigodarzere nel 1944 fu
trasformato in rifugio antiaereo. - Cartolina
del 1939 di Antonio Griggio.
173
Una scuola tedesca di spionaggio a Vigodarzere?
Nel libro “La Resistenza dei cattolici nel padovano” è pubblicato un telegramma spedito dal
Comando anglo-americano ai partigiani di Padova che chiedeva informazioni. Il testo dice: “… anche
ubicazione esatta della scuola tedesca spionaggio at Vigodarzere”. Ciò induce a pensare che si trovasse
nell’edificio scolastico, o in alternativa, poteva essere situato presso il Comando tedesco del Magazzino
Aeronautico di Vigodarzere.
Una cassa di bombe a farfalla.
Testimonianza di Umberto Gasparini (classe 1926), Vigodarzere il 25.09. 2002.
“Durante il bombardamento notturno del centro di Vigodarzere dell’11 marzo 1945, una delle casse
di bombe a farfalla lanciate dai caccia bombardieri non si aprì e cadde integra al lato sud di via Roma
all’altezza dell’ingresso principale del cimitero. La mattina successiva un maggiore tedesco prima
osservò attentamente poi, con il moschetto mauser, sparò alla cassa. Le bombe a farfalla esplosero: il
graduato rimase ferito gravemente dalle schegge e fu ricoverato in ospedale”.
Foto aerea del centro di Vigodarzere del 1983.
A destra della fotografia, l’edificio delle scuole elementari di Vigodarzere, dove nell’agosto del 1944, era accasermato un
folto gruppo di soldati tedeschi del Genio Pontieri. La sera dell’11 marzo 1945, mentre gli ufficiali e la truppa, stavano
nello scantinato per una festa, una grossa bomba d’aereo esplose e provocò la morte di 18 soldati tedeschi e ne ferì
gravemente una ventina. L’edificio fu demolito nel marzo del 1991. Da notare: la conifera al centro del cortile è testimone
vivente della storia del paese.
174
Natale 2002. La conifera piantata nel 1932, che si nota nel centro del piazzale delle scuole elementari (vedere la foto
della pagina precedente), ora Piazza Bachelet, è testimone vivente della nostra storia. Dall’esame eseguito il 20. 01. 2004
dal curatore dell’Orto Botanico Dr. Giancarlo Cassina, la pianta si chiama Cedro Deodara, o Cedro dell’Himalaya.
Albero del Paese
Quanto potresti raccontare
dalle tue fronde alte, maestose !
Piantato nel centro del paese,
quasi un secolo fa.
Testimonianza viva di chi sa.
Hai vissuto una storia
una vita, una memoria,
giorni tristi di guerra e di miseria,
quando nella tua ombra riparavano i soldati
Combattenti nemici e dal paese odiati;
ferito male
da una bomba micidiale
nel tronco robusto fiero
restavi, comunque vivo
sentendoti come un soldato vero.
Se tu potessi parlare,
quanto potresti raccontare !
Piantato nel giardino di una scuola,
crescendo negli anni sei rimasto “la memoria”;
son passati gli anni,
quei bimbi che giocavano nel cortile,
ora vecchi, ogni giorno passando,
ti salutano
con emozione forte in gola.
Nel giardino di tanto tempo fa
sei maestoso, alto, fiero
e ancora più bello
a dominare la piazza,
Inquieto giardino di un’alba lontana.
Eleonora Zanoni-gennaio 2003.
175
La falciatura del frumento
Nei mesi di giugno e luglio 1944, con tanta trepidazione si lavorò per raccogliere le piante erbacee
di frumento, che gli agricoltori manualmente falciavano, legavano in fasci e facevano le croséte
(insieme di fasci di frumento disposti a croce).
Si aspettava che completasse la maturazione e quindi lo si trasportava nel cortile della casa agricola per
la trebbiatura.
Falciatura manuale
del frumento.
(Arch. fot. A.T.P. Padova).
Trasporto dee fagie (dei fasci) di frumento verso il cortile per effettuare la trebbiatura.
176
All’operazione della trebbiatura assistevano i controllori dell’annonaria che esigevano una parte del
frumento che doveva essere consegnata all’ammasso statale.
Nel paese di Vigodarzere operavano 7 trattori (6 erano di fabbricazione estera) e sei trebbiatrici. La
trebbiatura del frumento nel 1944 si protrasse nel tempo, anche per la scarsità di carburante.
Da destra il trattore “Titan” e la trebbiatrice. A Vigodarzere molti ricordano il “Titan” della famiglia Sandreto, che
abitava nei pressi della Certosa di Vigodarzere.
Il tipografo sfuggito alla “Banda Carità” trovò rifugio nella canonica di Saletto.
“Le attività delle tipografie clandestine erano, molto importanti per l’informazione alternativa dei
militanti antifascisti. Un’importante tipografia clandestina a Padova era quella di Giovanni Zanocco
nella quale erano stampate molte pubblicazioni clandestine (1). Questi fu scoperto e arrestato dalla
Banda Carità e rinchiuso nelle tristemente famose prigioni di via S. Francesco. Con uno stratagemma
riuscì a fuggire e, rubata una bicicletta, raggiunse Tremignon.
Il giorno seguente raggiunse la casa di Mario Piva a Limena attraversando il ponte sul Brentella, che era
controllato dalle brigate nere, mischiato tra gli operai che uscivano dallo stabilimento Garolla. Dopo
essere rimasto qualche giorno nascosto in casa Piva, su interessamento dell’arciprete Barausse, trovò
rifugio presso il parroco di Saletto don Antonio Moletta che, assieme al cappellano don Beniamino
Guzzo, furono un punto di riferimento per molti antifascisti. Attraversò di nascosto il fiume Brenta a
guado, si presentò in parrocchia a Saletto facendosi riconoscere attraverso la metà di un biglietto da una
lira che Piva aveva strappato consegnandone in precedenza una parte a don Moletta.
177
Lo Zanocco riprese poi la sua attività di tipografo a Villafranca e la stampa clandestina veniva
trasportata nella casa di Mario Piva e quindi inviata a Padova nascosta nella macchina del comandante
del presidio tedesco del quale Giuseppe De Rossi era autista”.
(Tratto dalla pubblicazione: “25 aprile 1945 - 25 aprile 1995 di Renato Martinello”. Comune di Limena Biblioteca Comunale. Marzo 1995).
Mappa e carta d’identità
Il 5 dicembre 2001 ebbi un colloquio con Mons. Antonio Moletta e mi confermò quanto sopra
esposto e aggiungendo: “Lo Zanocco durante la permanenza nella canonica di Saletto disegnò una
mappa particolareggiata della casa di detenzione e di tortura di Villa Giusti, situata in via S. Francesco a
Padova, per favorire un piano di evasione dei detenuti politici da quella prigione. Quei disegni li
consegnai personalmente a don Giuseppe Mistrello amministratore del seminario maggiore di Padova”.
In seguito l’avv. Marcello Olivi testimoniò il 12 dicembre 2001: “Un pomeriggio in bicicletta
raggiunsi la canonica di Saletto. Con una vecchia macchina fotografica scattai delle foto-tessera a
Giovanni Zanocco, le consegnai all’“ufficio falsi” del Pensionato Universitario Antonianum; fecero una
carta d’identità, su un modello di un comune dell’Appennino, vicino alla linea Gotica, in tal modo gli
agenti fascisti e tedeschi non riuscivano a controllarla. Dopo alcuni giorni, sempre in bicicletta, ritornai
alla canonica di Saletto e consegnai a Zanocco la nuova carta d’identità”.
__________
(1) La tipografia clandestina si trovava sotto la cripta della chiesa di S. Prosdocimo a Padova.
Neve e freddo
Da fine dicembre del 1944 sino a metà febbraio 1945 vi furono intense nevicate che ricoprirono
tutto il territorio, sembrava che anche le condizioni meteorologiche congiurassero contro la
popolazione che già tanto soffriva per la guerra, la fame e i bombardamenti aerei.
I cittadini di Padova subito dopo il bombardamento dell’Arcella del 16 dicembre 1943, erano sfollati
anche nel territorio comunale di Vigodarzere trovando precarie sistemazioni nei fienili, barchesse,
granai, stalle e, i più fortunati, nelle abitazioni.
Con l’intensificarsi dei bombardamenti su Vigodarzere, una fascia di abitanti di via Roma e del
centro di Vigodarzere, dovettero sfollare nelle zone limitrofe.
Inverno del 1944/45. La bottiglia di terracotta, tappata con on scanareo (tutolo di mais), usata da Giulio Cesaro nel
1945. Riempita d’acqua calda e sistemata fra le gelide lenzuola, irradiava calore.
178
Nella foto: macinino per ridurre
i semi di orzo in polvere e la
cògoma (bricco) per fare la
bevanda sostitutiva del caffè.
PASQUA DEL 1945 SOTTO LE BOMBE
Colpito il ponte ferroviario.
“23 marzo 1945. Alle ore 16.00 diciotto apparecchi lanciano bombe sul ponte ferroviario, che è
colpito in pieno. Da una quindicina di giorni gli allarmi si susseguono dal mattino, per tutta la giornata
e durante la notte. L’incrociarsi di apparecchi non lascia un momento di tranquillità”.
(Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchiale di Vigodarzere).
Evitata la costruzione di un ponte – passerella carrabile a Vigodarzere.
Testimonianza resa da Gianni Ranzato (classe 1937), Vigodarzere il 21. 03. 2003.
“Agli inizi di marzo del 1945, frequentavo la dottrina cristiana nelle aule sotto la canonica della
parrocchia di Vigodarzere. In un momento di intervallo la suora catechista sospirando ci invitò a
pregare: l’arciprete era molto preoccupato in quanto il comandante del genio militare tedesco, lo stesso
che teneva occupato in parte il primo piano della canonica, aveva deciso di iniziare i lavori per la
costruzione di un ponte–passerella carrabile sul fiume Brenta a sud della chiesa di Vigodarzere. I nostri
genitori ci avevano sempre imposto di non recarci sugli argini del fiume Brenta in quanto la presenza
dei soldati tedeschi poteva comportare dei rischi.
Terminata la lezione, ci recammo nel luogo indicato dalla nostra insegnante di religione.
Costatammo che nella parte interna dell’argine vi era una certa quantità di mattoni, travi, pali appuntiti e
tavole di legno. Noi alunni pensavamo di trovare uno di quei nuovi ponti costruiti dai soldati tedeschi
che, avrebbe dato l’opportunità di recarci per la prima volta a esplorare il paese di Altichiero; abbiamo
visto solo del materiale da costruzione”.
Nella relazione inviata al vescovo di Padova nel 1946, si evidenziava che, per ben due volte, don
Giulio Rettore ottenne dal comandante tedesco la sospensione della costruzione del ponte carrabile, per
evitare i bombardamenti aerei e il passaggio di truppe tedesche negli ultimi giorni della guerra.
Pasqua indimenticabile.
“Il primo di aprile, domenica di Pasqua, i caccia bombardieri anglo-americani sganciarono bombe
dirompenti su una vasta zona. Fu colpita e distrutta la passerella pedonale sita a Pontevigodarzere e una
bomba dirompente cadde nella proprietà dello scrivente che lesionò la casa e distrusse il vigneto”.
(Archivio personale di Federico Zoccarato).
179
La Pasqua nel 1945
Le campane coprono le sirene
e viole, frammenti di cielo,
con cuore di foglie tra i ceppi.
Un alito di vento d’arcangeli
pettina il prato con arpeggi
nel rosso trifoglio salivato,
con perline di rugiada che bruciano.
E’ Pasqua del Signore !
Dal seme sparso spunta il fiore
per catturare l’aria silvestre
nella Foresta Nera dilaniata
da lampi di scoppi mortali.
L’ape nella sindone dei fiori,
incurante di spine e di spari,
cerca il polline tra i petali
e il pino ronza e trema nel vento.
E’ la Pasqua del Signore !
Oggi non si muore ed è speranza:
i pazzi aerei nell’azzurro
sono stanchi di falciare
Oggi laviamo le mani
sporche di terra per le tombe
di tre compagni sepolti nel santo venerdì
nel meriggio piovoso e senza campane.
Signore, abbiamo gli occhi in lacrime
ed è uno straccio il nostro cuore:
siamo con Te morti sulla croce,
più giovani e senza resurrezione.
Alberto Marzolla
L’Autore della poesia partecipò
alla campagna di Russia e fu
coinvolto nella tragica ritirata nell’inverno
del 1942-43. Dopo l’8 settembre 1943
fu internato nel campo di sterminio di Dachau.
Lirica sofferta e vissuta,
il finale è senza speranza; da comprendere
nel contesto della sua dolorosa esperienza.
Nella parte della fotografia si nota una vasta zona resa lunare dalle esplosioni delle bombe; il ponte ferroviario e quello
stradale in parte sono distrutti. Foto aerea del 7 aprile 1945.
(Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, permesso di pubblicazione n. 3013 V del 25/02/2004,
rilasciato a Giulio Cesaro).
180
Altri bombardamenti.
“L’11 aprile 1945 alle ore 12.40 ci fu un’incursione aerea durata un’ora. Gli apparecchi da
bombardamento si susseguono a distanza di pochi minuti, nove squadriglie, lanciano una ottantina di
bombe, buona parte inesplose; sono a scoppio ritardato in modo da costituire un pericolo costante. Lo
scopo evidente è di impedire il lavoro per la ricostruzione del ponte; non mancano nuovi danni alle case
già ricostruite in via Roma”.
(Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchia di Vigodarzere).
Pontevigodarzere rasa al suolo dal bombardamento
“Il 12 aprile 1945 era una giornata splendida di sole, quando verso mezzogiorno, ad ondate
successive, i bombardieri anglo-americani di alta quota sganciarono sulla zona di Pontevigodarzere
tonnellate di bombe, molte a scoppio ritardato, provocando terrore, distruzione e morte. Quarantotto
furono i morti di Pontevigodarzere. Indenni restarono solo la chiesa (era stata inaugurata il 21 aprile
1925), alcune case e la scuola materna (attuale edificio vicino al tunnel dell’autostrada), il resto era un
cumulo di macerie”.
(Tratto dall’archivio personale di Federico Zoccarato).
Testimonianza di C. R. del 02. 11. 2002.
“Ero sfollato nelle scuole elementari in via Cà Panosso, ad Altichiero, e da quella zona osservai
l’arrivo da ovest delle squadriglie dei bombardieri che volavano molto alti. Nell’avvicinarsi all’obiettivo
furono investiti dal fuoco intenso dei cannoni dell’antiaerea e i piloti, disorientati, sbagliarono
l’obiettivo; poche bombe caddero nei pressi del ponte ferroviario, alcune colpirono la zona delle
officine “Breda” e altre caddero sull’abitato di Meianiga e Mortise. L’abitato di Pontevigodarzere fu
praticamente distrutto. Fu un dramma anche per i soccorritori, in quanto molte bombe erano a scoppio
ritardato”.
Il cappellano di Pontevigodarzere ha scritto:
“…E’ impossibile poter fissare le date dei bombardamenti e mitragliamenti su
Pontevigodarzere. Dal 31 agosto 1944 al 12 aprile 1945 ci furono circa un centinaio di incursioni con 52
vittime. Solo nel bombardamento del 12 aprile 1945 le vittime furono 48”.
Pontevigodarzere, 24 ottobre 1946 don Pietro Zaramella.
(Archivio del Prof. Pierantonio Gios).
I funerali delle vittime del bombardamento di Pontevigodarzere
“Nell’inverno 1944-45 il freddo intenso e la neve caduta abbondantemente rendevano più grave
la situazione. La nostra chiesa era esposta a tutte le intemperie e presentava un aspetto desolante. Perciò
i funerali delle 48 vittime del bombardamento del 12 aprile 1945 si svolsero a Torre”.
(Dal libro: “La chiesa di S. Giovanni Battista in Pontevigodarzere, 25 settembre 1994”).
181
L’Asilo Infantile di Pontevigodarzere dopo la guerra.
Internamento e bombardamenti.
“All’angoscia per tanti giovani ancora assenti, condotti in prigionia o nei campi di concentramento,
dei quali, purtroppo, ancora poco o nulla si sa, alla continua trepidazione per altri costretti a vivere alla
macchia perché ricercati per il servizio militare o perché al lavoro a servizio dei soldati tedeschi aguzzini
ed invasori. Al persistente timore per la minaccia di rastrellamenti e rappresaglie, che andarono
caratterizzando questo triste periodo dall’8 settembre 1943 al maggio 1945, con un crescendo
spaventoso si aggiunse una serie ininterrotta di bombardamenti che intensificandosi per numero e per
portata, man mano che il fronte di guerra si avvicinava, portò la popolazione, specie negli ultimi mesi, a
vivere una vita spasmodica, randagia; molti furono costretti ad abbandonare la loro casa e a rifugiarsi
altrove perché distrutta o danneggiata o perché in zona pericolosa. Sicuri non si era in alcun posto,
specie negli ultimi mesi della guerra, quando i bombardamenti si fecero più frequenti senza alcuna
discrezione, di giorno e di notte.
Il campanile fu trasformato in un rifugio e dava abbastanza affidamento di sicurezza, ben trecento
persone (a rotazione -n.d.a.) e più vi trovarono posto, dato che sotto la volta del pianterreno fu
costruito un piano bene riparato anche dai rigori della stagione invernale che sembravano congiurare
assieme agli uomini a rendere più triste, più angustiante la vita. Molti nell’ultimo periodo si poterono
sistemare anche per passare la notte con i loro piccoli…”
(Arciprete don Giulio Rettore. Cronistoria parrocchiale di Vigodarzere).
182
IL DEPOSITO DI ESPOSIVI VICINO ALLA CERTOSA
Testimonianza resa dal maestro Guerrino Spinello (classe 1922), Saletto di Vigodarzere il 20. 12. 2000.
“Nell’agosto del 1944 un presidio tedesco occupò l’edificio delle scuole elementari di Vigodarzere. Sul
letto della vecchia sede del fiume Brenta il presidio scaricò una certa quantità di esplosivi e, dopo
qualche settimana, obbligarono alcuni agricoltori di Vigodarzere e di Saletto a trasportarlo con carri
agricoli, trainati da bovini, nei pressi della Certosa di Vigodarzere.
Contemporaneamente i soldati germanici con dei camion portarono nella stesso, luogo un’ingente
quantità di tritolo e di proiettili (1)”.
Testimonianza resa da Gianni Cattelan (classe 1937), Vigodarzere il 10. 11. 2000.
“Nel 1944 abitavo dentro l’edificio della Certosa. In quattro punti dell’argine sinistro del fiume
Brenta, all’inizio dell’ansa del fiume, i soldati tedeschi, fecero togliere il terreno dagli argini
sostituendolo con i blocchi di tritolo, il tutto poi fu ricoperto con della terra e con un telo mimetico.
Tale lavoro fu fatto dai lavoratori della Todt di Vigodarzere e di Cadoneghe.
Nei pressi della Certosa dove la strada dall’argine, scende al livello della campagna, all’ombra dei grandi
platani, allora esistenti, fecero scavare quattro grandi buche a forma di “U” subito riempite dalle casse
contenenti proiettili, miccie e detonatori. Tutta la zona era protetta da un largo e profondo fosso
coperto con dei reticolati. In una stanza dell’edificio della Certosa erano alloggiati 6 o 8 soldati tedeschi
(2) preposti al controllo degli esplosivi. Con quei soldati tedeschi spesso ho giocato e ricordo che erano
terrorizzati dai bombardamenti. Infatti, appena udivano il rumore degli aerei, si nascondevano nei
corridoi della Certosa. Una volta si nascosero tuffandosi in un grande mucchio di foglie di platano”.
Il pericolo di quel deposito metteva paura: tutti si interrogavano sui danni che avrebbe provocato una
eventuale esplosione causata dai bombardamenti aerei o innescata dai soldati tedeschi durante la ritirata.
Annotava don Giulio Rettore nella cronistoria parrocchiale: “Il 3 marzo 1945 alle ore 10.45, otto
squadriglie di apparecchi caccia bombardieri sganciarono 32 grosse bombe con danni alla ferrovia e
vicino alla Certosa gettarono circa 20 bombe a farfalla che provocarono un grande panico tra la
popolazione, poiché in quei paraggi vi erano forti depositi di esplosivi”.
Il trasloco degli esplosivi.
La testimonianza è resa da Alberto Lollo di Vigodarzere (classe 1929), Vigodarzere il 20. 05. 2001.
“Abitavo in una casa rurale molto vicino alla Certosa. Tutti i giorni, nel tardo pomeriggio, uno dei
soldati tedeschi di guardia al deposito di munizioni veniva a prendere il latte delle nostre mucche e
spesso aspettava che mio padre Ernesto terminasse di mungere. Talvolta i soldati si recavano anche in
altre famiglie (2) di agricoltori per acquistare qualche altro alimento. Alberto continuò: Mancava qualche
settimana alla Liberazione, quel deposito di esplosivi incuteva ancora molta paura: un’eventuale
esplosione avrebbe causato ingenti danni in una vastissima zona. Una mattina vidi un gruppo di
partigiani entrare nella Certosa ed uscire con i soldati tedeschi disarmati.
Durante gli ultimi mesi della guerra nella Certosa erano alloggiate le famiglie dei mezzadri: Cattelan
Primo, Antonio, Giuseppe, e Angelo per complessive 20 persone. Le famiglie sfollate erano: Rampazzo
Albano, Bisanzon Emma, Bedin Giuseppe, Sabbadin e Marcato Albano; per complessive 25 persone.
Nella Certosa abitava il castaldo Perin Attilio vicentino (il conte Alessandro Passi e la moglie Maria De
Zigno abitavano a Venezia)”.
Testimonianza resa da Mario Frison (classe 1924), Vigodarzere il 30. 07. 2001.
“Poco prima di mezzogiorno vidi alcuni partigiani accompagnare quei soldati preposti al controllo
degli esplosivi, disarmati, e transitare per l’attuale via G. Pascoli. Probabilmente a Saletto, furono
rilasciati. Il deposito degli esplosivi, ormai senza le guardie tedesche, fu svuotato da diversi agricoltori
(3) per ridurre il rischio delle esplosioni. Avvisati dai partigiani essi si organizzarono per trasportare e
dividere il gran quantitativo di esplosivi. Con carri agricoli trainati da bovini (adornarono le corna dei
bovini con dei nastri tricolori) e da cavalli, gli esplosivi furono prelevati dall’argine del fiume Brenta e
trasportati parte vicino all’attuale via S. Antonio, parte nei pressi di via Tito Livio e una terza parte fu
183
gettata nell’acqua del fiume Brenta. Il trasloco durò per due mattinate. Fortunatamente i soldati
tedeschi, ancora presenti in pochi nella Casa del Fascio a Vigodarzere, non intervennero”.
L’iniziativa fu vista dalla popolazione come un anticipo della Liberazione, tanto che qualche famiglia,
dove transitarono i carri, esposero la bandiera tricolore formata da un vestito di colore verde, da un
secondo bianco e da un terzo rosso.
Testimonianza di Gino Sottovia (classe 1919), del 14 agosto 2005. “Terminata la guerra, il tritolo fu
portato con carri agricoli dentro il Magazzino Aeronautico a Vigodarzere. Fui invitato a collaborare
gratuitamente al trasporto dei blocchi di tritolo. All’arrivo furono gettati nel mucchio in fiamme. Il
tritolo bruciando produceva una nuvola di gas maleodorante. Ricordo, che al termine delle due giornate
di lavoro, mi regalarono un pane con del salame”.
__________
(1) Qualcuno si portò a casa dei proiettili, senza la spoletta, per trasformali in incudini o crogioli per fondere
l’alluminio.
(2) L’Autore ricorda nitidamente quei soldati del deposito della Certosa transitare in gruppo nell’attuale via
Certosa a Vigodarzere. I soldati videro che nel recinto, vicino alla mia abitazione, si allevavano una decina di
galline e un gallo; tre soldati tedeschi armati si staccarono dal gruppo e diedero la caccia al gallo catturandolo e,
sogghignando, gli allungarono il collo. Mia madre seguì la scena inveendo a bassa voce, mentre mio padre
(reduce della 1^ Guerra Mondiale) sorrise considerando che avrebbero potuto comportarsi anche in modo
peggiore.
(3) Gli agricoltori di Vigodarzere che volontariamente fecero il trasporto dell’esplosivo furono: Bruno Bettin,
Angelo Cattelan e figli, Arturo Camporese, Stefano Cavinato, Fortunato Chinellato, Mario Frison, Raffaele
Gottardo, Ernesto Lollo, Alberto Lissandron, Giuseppe Lissandron, Lino e fratelli Moretto, Francesco e
Radames Pasquetto, Salvino Pasquetto, Severino Ranzato, Pietro Ranzato, Gino Vettore, Zeno Vettore,
Ferruccio Vieno e altri.
Veduta aerea della Certosa di Vigodarzere. Gli esplosivi furono sepolti nella zona cerchiata..
(Foto eseguita da Ezio Cavinato, nell’agosto del 2004. Aviosuperfice Area 51-Lissaro di Mestrino).
184
Il traghetto Saletto- Limena e il nuovo ponte di chiatte.
Il traghetto sul fiume Brenta collegava le due sponde tra Saletto e Limena ed era costituito da due
barche affiancate con sopra un pavimento di tavole. Lo spostamento del mezzo si otteneva tirando una
fune a braccia. Il traghetto trasportava persone, carri agricoli, ecc. ed era a pagamento.
Le barche del traghetto nell’agosto del 1944 furono bruciate e sostituite con una sola barca.
“…lunghe colonne di soldati con carriaggi di ogni genere e cannoni passano per Tavo, perché al
traghetto di Limena fu costruito un ponte di barche per tale passaggio, essendo stati demoliti dai caccia
bombardieri i ponti di Pontevigodarzere e di Curtarolo...”
(Parroco don Gioacchino Donazzan. Cronistoria parrocchiale di Tavo).
Testimonianza resa da Romana Tiso (classe 1930), Saletto di Vigodarzere il 20. 10. 2002.
“Dopo il 20 del mese di aprile 1945 i soldati tedeschi costruirono un ponte di chiatte (1)
(barche di metallo con il fondo piatto) nella zona dove prima c'era un traghetto da tutti chiamato
porto di Limena. Il ponte si trovava a monte dell’attuale diga-briglia sul fiume Brenta tra Saletto e Limena,
ed era costituito da 12 chiatte appaiate, bene ancorate con sopra un tavolato che permetteva il
passaggio anche di mezzi militari pesanti.
Transitarono per quel ponte le prime truppe tedesche in ritirata e altre che andavano al fronte. Il ponte
dopo pochi giorni dalla costruzione fu mitragliato da un caccia bombardiere e reso inservibile”.
La testimonianza è resa da Leonilde De Rossi di Vigodarzere (classe 1934), il 20. 01.2004.
“Nel 1944 - 45 abitavo in via G. Marconi a Limena; la mia famiglia gestiva il traghetto alternandosi
settimanalmente con la famiglia Tiso di Saletto di Vigodarzere.
Con due chiatte, recuperate dopo il mitragliamento, si riprese il servizio di traghettamento. Ricordo
quando i tedeschi cercarono di fare salire una corriera piena di alimenti e di sigarette; per una errata
manovra, la corriera scivolò nell’acqua affondando (2). Nei giorni successivi alcuni giovani della zona si
tuffarono in quelle gelide acque per recuperare i pacchetti di sigarette. Mio padre mi raccontò che negli
ultimi giorni della guerra traghettò parecchi carri da trasporto tedeschi trainati da cavalli carichi di
cadaveri di soldati tedeschi”.
__________
(1) Alcune di quelle chiatte furono recuperate e dopo la guerra alcuni cittadini di Vigodarzere le usarono per lo
scavo e il trasporto della sabbia dal fiume Brenta.
(2) Le testimonianze di Sergio Nave di Padova e di Artemio Parancola di Saletto di Vigodarzere riferiscono che
videro la corriera sommersa nell’acqua che era zeppa di giovani militari austriaci annegati.
Senza notizie dal fronte di guerra
Nelle ultime settimane della guerra fu interrotta totalmente l’erogazione della corrente elettrica: gli
apparecchi radio dei nostri paesi rimasero muti. L’avvicinarsi dell’esercito anglo-americano si intuiva
dall’intensificarsi dei passaggi degli aerei militari.
Lumi a gas di acetilene
da carburo di calcio
e a petrolio.
185
Il lavoro dei campi, proseguì anche negli ultimi giorni della guerra,
sfidando il pericolo di razzie dei bovini e dei cavalli da parte dei soldati tedeschi.
Vigodarzere, giovedì 26 aprile 1945: la guerra dal campanile.
Secondo precise testimonianze, il pomeriggio di giovedì 26 aprile 1945, tre partigiani furtivamente
salirono sul campanile di Vigodarzere (1) (la porta era sempre aperta perché il campanile fungeva da
rifugio antiaereo) e si attestarono come vedetta nella cella campanaria. Sulla strada principale
transitarono delle camionette zeppe di soldati tedeschi, i partigiani dal campanile spararono: tre soldati
tedeschi rimasero uccisi. Senza fermarsi il resto dei soldati proseguì e fu fermato dai partigiani nei pressi
della Casa del Fascio di Vigodarzere I soldati si arresero, i partigiani per evitare rappresaglie,
trasportarono rapidamente le tre salme dentro la Casa del fascio di Vigodarzere, qui furono lavate dal
sangue e sistemate per la sepoltura dal giovanissimo Gilmo M. e da altri.
L’imprudenza di sparare dal campanile, sacro simbolo, senza la possibilità materiale di fuggire, aveva
addolorato i presenti; l’arciprete consigliò ai testimoni il massimo riserbo.
Il maggiore tedesco
La notte dello stesso giorno un maggiore tedesco da Altichiero guadò il Brenta e raggiunse l’ex Casa
del Fascio di Vigodarzere in precedenza abbandonata dai soldati tedeschi e occupata dai partigiani. Il
maggiore era armato e teneva in mano una carta stradale, bussò alla porta, probabilmente cercava
informazioni. Secondo i testimoni (hanno chiesto l’anonimato) il maggiore, molto alto di statura, fu
fatto entrare e gli intimarono di gettare le armi; al suo diniego seguì una sparatoria e rimase ucciso. Il
corpo fu frettolosamente nascosto sotto il fascinaro (2) nel cortile a nord dell’edificio e in seguito
traslocato nel cimitero di Vigodarzere. Per il resto della notte, dall’altra parte del fiume, i soldati
tedeschi continuarono a chiamare il maggiore, a voce alta, ma non ricevendo risposta, non guadarono il
fiume.
__________
(1) I partigiani spararono anche dal campanile di Altichiero. Nel campanile di Limena: “Un soldato polacco, uno
austriaco e uno tedesco disarmati furono nascosti nel campanile di Limena e vi rimasero consegnandosi agli
inglesi” (Dal libro:.”Storie di uomini nella Storia di Limena 1866-1970” di Renato Martinello).
(2) Catasta di fascine, che erano formate da rami corti.
Altri pericoli degli ultimi giorni della guerra
Testimonianza di Elardo Lucillo (classe1935) Vigodarzere il 10.10. 2004.
“Mio padre Roberto Elardo (classe1905) gestiva con i fratelli un modesto commercio di vini; tutti
lavoravano i campi attorno alla nostra abitazione. Il 25 aprile 1945 entrarono nella mia abitazione due
partigiani e pretesero la consegna di un vitello. Il giorno successivo gli stessi ritornarono e si
allontanarono solo dopo avere ricevuto una mucca. Dopo qualche ora, sempre gli stessi, bussarono alla
porta dell’ingresso della mia casa e pretendevano il cavallo che serviva a noi per tirare il carretto per la
consegna del vino. Al nostro diniego, mio padre fu condotto nell’ex Casa del Fascio, in precedenza
186
abbandonata dai soldati tedeschi, come l’attigua caserma del presidio dei carabinieri di Vigodarzere.
Dopo un sommario interrogatorio, mio padre fu incarcerato nell’attigua caserma. Mia madre appena
avuta la notizia si recò presso la sede dei partigiani e richiese l’immediata liberazione di mio padre, ma
avendo ricevuto una risposta negativa corse dall’arciprete don Giulio Rettore pregandolo di intervenire.
L’arciprete si recò nella sede dei partigiani e disse: “Fra pochi giorni arriveranno le truppe alleate
anglo-americane… Non fate violenza ai cittadini… so tutto di voi.
Mio padre Roberto fu subito rilasciato”.
Testimonianza di R. G., del 20. 10. 2003 .
“Gigi Bazzea, dopo il 25 aprile 1945, fu incarcerato perché nella sua osteria aveva giocato a carte
con dei fascisti. La “Mora Bazzea” sorella di Gigi, conosciuta da tutti come donna coraggiosa e
intraprendente, portata a conoscenza della reclusione del fratello, si recò presso il comando partigiano e
in modo perentorio disse loro: “Liberatelo subito o con queste mie dita vi estraggo gli occhi”. Anche
Gigi fu immediatamente liberato”.
In questo edificio ubicato
in via Roma a Vigodarzere,
nel periodo della guerra
era adibito a caserma dei Carabinieri.
Al lato est dello stesso in un
capannone c’era la Casa del Fascio
di Vigodarzere (Foto 2004).
Saletto-Limena, venerdì 27 aprile 1945: quello che rimaneva di due divisioni corazzate
tedesche.
Testimonianza resa da Carlo Turato (classe 1930) di Limena il 11. 10. 2002.
“Nel 1945 abitavo nell’attuale casa rurale in via Fornace, lungo la strada Limena-Ponterotto, che
costeggia il fiume Brentella. Già verso la metà del mese di aprile 1945 transitavano spesso autocolonne
di militari tedeschi. Il 21 aprile del 1945 mio fratello Luigino, di anni 22, mentre si trovava sotto il
portico accanto alla stalla, fu ucciso da una raffica sparata dai tedeschi alla ricerca di cavalli da traino da
requisire. Il passaggio delle truppe tedesche con i mezzi di trasporto continuò intenso tutta la notte tra
sabato 28 aprile e la domenica: transitarono camion e rimorchiati con cannoni e mitraglie. I carri
agricoli erano trainati da cavalli e da mucche; molte erano le colonne di soldati a piedi. Alle ore 9.30 di
domenica iniziò un intensissimo mitragliamento da parte degli aerei caccia bombardieri angloamericani. Molti camion e altri automezzi furono distrutti dal fuoco aereo. I militari gettarono diverse
munizioni nella Brentella e poi di corsa si allontanarono per poi guadare il fiume Brenta nel punto dove
adesso c’è il ponte stradale Limena-Saletto.
A mezzogiorno terminato il mitragliamento, mi recai a controllare i mezzi militari lungo la Brentella tra
Ponterotto e Limena; la colonna abbandonata era lunga quattro chilometri. Molti camion erano
bruciati. Sugli argini del fiume Brenta notai tanti cavalli uccisi dal mitragliamento aereo”.
187
Padova, venerdì 27 aprile 1943. Nella Sala dei Vescovi, del convento del Santo i fascisti di Padova
firmarono la resa (Foto 2004).
Vigodarzere, venerdì 27 aprile 1945. Quella lunga colonna, di soldati tedeschi disarmati.
Testimonianze di Ugo Elardo (classe 1931), di Franco Elardo (classe 1938) e di Lucillo Elardo (classe
1935), Vigodarzere il 11. 02. 2002.
“Cesare Pilli, nostro zio, della classe 1901, lavorò con noi suoi nipoti subito dopo la guerra e spesso
ci raccontò le vicende della sua vita. Nel dicembre del 1922 il direttorio fascista di Vigodarzere lo
incaricò sottocomandante delle squadre d’azione fasciste (1) . Nel 1923, per divergenze con il partito
fascista locale e per evitare il servizio militare, lo zio riparò in Francia assieme al concittadino Carlo
Pulliero. In una città francese gestì un negozio di barbiere. Dopo l’invasione della Francia nel 1940, da
parte delle truppe tedesche, ritornò a Vigodarzere e aprì un negozio di barbiere a Pontevigodarzere. Fu
arrestato dalla milizia fascista e inviato come detenuto politico nel campo di sterminio di Mauthausen.
Là fu molto apprezzato dagli ufficiali tedeschi del campo per i servizi di barbiere e per le barzellette che
raccontava in lingua tedesca ma anche in francese. Riuscì a sopravvivere in quel luogo di morte per
circa quattro anni. Alla fine di settembre del 1943, incontrò nello stesso campo il concittadino Guerrino
Peron e lo assistette portandogli alimenti e conforto”.
Da internato a Mauthausen a capo partigiano.
“Nel mese di marzo 1945 lo zio Cesare (2) e Guerrino evasero e a piedi arrivarono a Vigodarzere il
25 aprile (3), cioè alcuni giorni prima del passaggio delle ultime truppe tedesche nel nostro paese.
Lo zio ci raccontò, ancora, un rilevante episodio: nel pomeriggio di venerdì 27 aprile, si trovava
assieme con altri quattro partigiani; erano nascosti fra le ceppaie di robinia nei pressi della stazione
ferroviaria di Vigodarzere perché prevedevano il passaggio di soldati tedeschi. Arrivarono, infatti,
diversi pullmini con lo stemma della Croce Rossa, zeppi di soldati tedeschi del Genio Ferrovieri.
Le sbarre del passaggio a livello furono abbassate e il convoglio si dovette fermare. Lo zio, parlando
in perfetto tedesco, offrì al comandante un lasciapassare per tutti, previa la consegna di tutte le armi. I
soldati scesero dai loro mezzi e consegnarono le armi; nello stesso tempo gli altri quattro partigiani
affiancarono lo zio Cesare (3) e presero in consegna circa 200 soldati.
Il comandante tedesco si avvicinò a nostro zio e dandogli una manata sulla spalla esclamò: “Bravo!
Senza sparare un solo colpo ci hai fatto tutti prigionieri. Tu sei un grande capo partigiano”.
188
Aiutato dai quattro partigiani, i prigionieri furono incolonnati per essere trasferiti a Saletto dove
avrebbero installato un campo di prigionia”.
Testimonianza resa da Carlo Ranzato di Vigodarzere (classe1927), il 20. 01. 2000.
“Mi trovavo di fronte al capitello della Sacra Famiglia in via Roma a Vigodarzere, dove transitò una
lunga colonna di soldati disarmati che indossavano la divisa nera del Genio Militare Ferrovieri.
All’inizio della colonna Cesare Pilli, con la pistola in pugno; il viso era raggiante di gioia e camminava
con passi lunghi, voltandosi spesso per controllare i prigionieri. Altri quattro partigiani armati di fucile
erano distribuiti lungo la colonna che procedeva verso Saletto”.
Testimonianza resa da Lucillo Elardo (classe 1935), Vigodarzere il 21. 11. 2001.
“Quel venerdì pomeriggio 27 aprile, i prigionieri chiesero a Cesare Pilli, dell’acqua per dissetarsi.
Furono condotti nell’ampio cortile della mia abitazione; nell’attuale via Cà Pisani, e attinsero l’acqua dal
pozzo poi, sempre in colonna, ripresero il cammino in direzione di Saletto”.
Testimonianza resa da Radames Pasquetto (classe 1930), Vigodarzere il 15. 01. 2001.
“Con mio padre Francesco eravamo sul ciglio della strada di via Vittorio Veneto a Vigodarzere.
Stava giungendo una colonna di prigionieri tedeschi. Li precedeva il partigiano Cesare Pilli aveva un
passo sicuro, il braccio destro teso, con la mano impugnava a modo di sfida una pistola e aveva uno
sguardo deciso. Mio padre (che aveva partecipato alla guerra di trincea nell’Altipiano di Asiago,
sfuggendo miracolosamente alla morte) consigliò Cesare di usare molta prudenza e gli chiese: “Ma
dove hai intenzione di condurre tutti questi prigionieri?” Rispose: “Facciamo un campo di prigionia nei
pressi dell’azienda agricola Mason in via Busiago a Saletto”. Soggiunse mio padre: “Se da Saletto
dovesse sopraggiungere qualche camion tedesco fanno una strage”. Cesare rispose: “La situazione è
sotto controllo, qui comando io”.
I prigionieri, stavano camminando, da Saletto arrivarono dei soldati tedeschi motorizzati e armati di
mitraglia. Infernali raffiche furono sparate le prime verso l’alto, e tutti ripararono nei larghi fossi laterali,
le seconde furono indirizzate ad altezza d’uomo”.
Testimonianza resa da Brunone Vettore (classe 1930), Vigodarzere il 21. 11. 2001.
“Da Saletto, sopraggiunsero due camionette blindate delle SS con installate due mitragliatrici; queste
spararono un gran numero di raffiche. Mio padre Gino Vettore si trovava nel cortile accanto al forno in
muratura e fece appena in tempo a ripararsi che una mitragliata spazzò il cortile. I tedeschi prima si
sparsero nei campi adiacenti e poi si aggregarono attorno alle camionette tedesche. Alcuni di questi
passarono nel cortile della mia abitazione, tenendo la testa fra le mani e dicevano: -Per noi tedeschi è
finita! Tutti caput. I soldati tedeschi disarmati si incamminarono verso Saletto, dove furono presi dai
partigiani locali. Grande fu la paura degli abitanti della zona per il pericolo di rappresaglie”.
__________
(1) Notizia rilevata dal quotidiano “Il Veneto” del 22-23 dicembre 1922.
(2) Dal foglio matricolare di Guerrino Peron.
(3) Cesare Pilli morì ad Este (PD) nel novembre del 1981.
Una sera di paura
Testimonianza di Gino Panizzolo (classe 1938), del 26 dicembre 2005.
“Abitavo nell’attuale via Stradona a Saletto. La luce del giorno stava per terminare e giocavo nel
cortile di casa. Ad un certo momento, da est, vidi arrivare un folto gruppo di soldati tedeschi disarmati
e prigionieri dei partigiani; di corsa andai ad avvisare i miei genitori e gli sfollati che vi erano presso la
mia abitazione (dr. Giuseppe Burlini (1), l’ing. Girolamo Scalco (2), e Giocondo Maniero). I prigionieri
erano accompagnati dai partigiani locali G. Giacomelli, Cicci Vettore, Titti Campanaro e il Rosso”Mason.
Mio padre era molto preoccupato e chiese a Giacomelli il motivo di quella massiccia presenza di
soldati nel cortile dell’abitazione. La risposta fu: “In qualche luogo dovevamo pure accompagnarli”.
Ricordo che i prigionieri erano stanchi ed affamati, si sdraiarono per terra e si tolsero i calzari: i
loro piedi erano gonfi, piagati e sanguinanti. Il Burlini, che era farmacista, si mise a curare quei piedi,
189
mentre mia madre Clara Fimeri con Emilia Gottardo, Giuseppina Pilli e Marianna De Marchi diedero
loro da mangiare polenta e frittata.
Mio padre, sempre di più agitato, disse al Giacomelli: “Se il presidio delle SS di Tavo viene a
sapere della presenza dei soldati prigionieri nella nostra abitazione, brucerà le nostre case e ci
uccideranno tutti”. La risposta fu: “Non vi faranno niente” (3). Ad un certo punto il Giacomelli chiese
di andare a casa per prendere del sale per la polenta. Non fece più ritorno. Anche gli altri partigiani si
allontanarono così che i soldati tedeschi, non vedendo più alcuno, appena si fece buio si
allontanarono”.
__________
(1) Gestiva la farmacia di Pontevigodarzere.
(2) Progettista edile (diresse la costruzione dell’albergo “Lo Storione”).
Le vittime di quello scontro
Mio padre Vincenzo Cesaro non mi permise di osservare la colonna tedesca in transito. Provenienti
da Saletto, i soldati tedeschi delle SS, dalle camionette mitragliarono all’indirizzo della colonna. Alcuni
partigiani avevano preso posizione sotto il portico della mia abitazione e spararono con dei fucili
contro le camionette tedesche. Mio padre (reduce della guerra, 1915/1918), gridò ai partigiani: “Se le
forze tedesche avanzano bruciano tutte le case della zona”. Ricordo, davanti all’abitazione della famiglia
Guzzo (ora Torresin-Pegoraro) un soldato tedesco nel risalire il fosso fu colpito da una pallottola che
gli trapassò il torace. Terminata la sparatoria mia madre si recò sul posto e vide il soldato tedesco
disteso sotto un filare di viti corbinee, con una chiazza di sangue sulla sua divisa nera del Genio Militare
Ferroviario. Il soldato fu caricato in un carretto e trasportato nel cimitero di Vigodarzere dove venne
messo in una cassa di legno, già costruita dal falegname Antonio Pilli, e sepolto nella prima fila (a
destra entrando dal cancello centrale) assieme ad altri di tedeschi morti nel territorio. I tedeschi là
sepolti vi rimasero sino al 1960 (spesso mani pietose deponevano dei fiori su quelle tombe), in altre
parole, sino alla riesumazione delle salme che, furono trasportate nei loro paesi d’origine.
Ricordo pure, che durante lo scontro a fuoco, il partigiano Cicci fu colpito da una pallottola che gli
trapasso un polmone; fu caricato su una carriola e portato sotto il portico tra la casa e la stalla della
famiglia Guzzo.
Il trasporto di “Cicci il partigiano”.
Testimonianza di Mario Marangon (classe 1936), di Vigodarzere il 10. 06. 2001.
“Cicci”, con un’automobile, fu portato nella mia casa perché la sua famiglia era da noi sfollata a
causa dei bombardamenti aerei. Mio padre Albano e la sorella di Cicci, Agnese, caricarono il ferito su un
carrettino che aveva le ruote di una bicicletta. Guadarono il fiume Brenta vicino alla chiesa di
Vigodarzere e mio padre, constatata la presenza di numerosi gruppi di soldati tedeschi, lasciò la sola
Agnese a tirare il carrettino con il ferito sino all’ospedale di Padova. Durante il tragitto alcuni tedeschi
chiesero il perché di quel ferito e Agnese raccontò indicando con la mano il cielo disse: -E’ stato l’aereo
ricognitore “Pippo”. “Cicci”, che non aveva ancora 18 anni, come risulta dai documenti sanitari,
rimase ricoverato presso l’Istituto di Patologia Speciale Chirurgica dell’Università di Padova dal 27
aprile 1945 sino al 10 maggio dello stesso anno, cioè fino al raggiungimento della guarigione”.
190
SALETTO: QUEL TRAGICO POMERIGGIO DI SABATO 28 APRILE 1945
Ricordo, dalle testimonianze raccolte, che in quella giornata i caccia bombardieri mitragliarono a più
riprese la strada Ponterotto-Limena, la zona della Maresana di Saletto e la strada Saletto, Tavo e Arsego.
Verso le ore 17.00 (secondo più testimoni oculari) transitarono in bicicletta per Saletto alcuni
giovanissimi partigiani che portavano in testa un cappello di paglia con nastro rosso e, a tracolla,
avevano un fucile, modello 1891, a canna corta. Si appostarono, dopo la salita della strada, sull’argine
golenale e spararono alcuni colpi all’indirizzo dei soldati tedeschi delle SS che, in quel momento, a
piedi transitavano nella zona della Maresana.
I soldati delle SS risposero con i loro fucili mitragliatori. I giovani partigiani fuggirono e gettarono i
cappelli di paglia nei pressi dell’abitazione di Guido Munaron e abbandonando i fucili in via Capitello
vicino all’abitazione del cappellano di Saletto. I soldati tedeschi fecero un rastrellamento nella zona
nord-ovest di Saletto (1). I soldati tedeschi intimarono a Munaron di uscire di casa e, mentre Guido
stava per uscire fece un gesto (chiese alla moglie di portagli il cappotto) che fu male interpretato: con
una raffica di mitra i tedeschi lo uccisero. Munaron era padre di famiglia ed era appena ritornato da
Padova dove svolgeva il lavoro di magazziniere; non si era mai interessato della situazione politica. In
via Capitello spararono contro l’abitazione di don Beniamino Guzzo. I soldati sfondarono la porta
d’ingresso (la porta d’ingresso e le imposte delle finestre erano chiuse), perquisirono l’abitazione e non
trovando niente di sospetto si allontanarono senza soccorrere il sacerdote ferito mortalmente (2) (3) (4)
(5): una pallottola gli aveva perforato l’addome.
__________
(1) Attuali vie Maresana, A. da Bassano, Villabozza, L. da Vinci, Soriva, S. Pietro, Capitello e S. Antonio.
(2) Nel periodo 1940-45 i sacerdoti italiani uccisi dai soldati tedeschi furono n. 158, quelli uccisi dai nazifascisti o
presunti tali n. 33. I sacerdoti italiani uccisi dai partigiani comunisti o presunti tali, negli anni 1940-1946, furono
n. 108 (Dal libro: “Una guerra e due resistenze” di Mino Martelli. Ed. Paoline 1976).
(3) Don Beniamino Guzzo aveva nascosto il partigiano Eugenio Ballan che era stato liberato dalle prigioni di
Camposampiero con un abile colpo di mano dei partigiani locali (Tratto dal libro: “ S. Giustina in Colle - Gli anni
della seconda guerra mondiale di Enzo Ramazzina, Ed. Bertato gennaio 2002”).
(4) Don Beniamino Guzzo era figlio di Natale e di Maria Fincato, nato ad Enego (VI) il 9 novembre 1888, ucciso
a Saletto di Vigodarzere il 28 aprile 1945 a causa delle ferite da arma da fuoco.
(5) “La testimonianza del sangue
Sacerdoti della Diocesi di Padova uccisi o incarcerati in seguito a fatti riguardanti la Resistenza.
Uccisi :
Don Luigi Bovo di Bertipaglia,
Don Fausto Callegari di Galliera Veneta.
Don Fortunato Carlassare (Pedescala),
Padre Placido Cortese F.M.C. del Convento del Santo di Padova,
Don Felice Gallo di Cervarese,
Don Giuseppe Giacomelli di S. Giustina in Colle,
Don Beniamino Guzzo di Saletto di Vigodarzere,
Don Giuseppe Lago - Medaglia d'oro - di S. Giustina in Colle,
Don Antonio Rigoni di Lastebasse (VI) m. a Mauthausen, 15 apr. 1944,
Don Pietro Rizzo (Cittadella).
Imprigionati :
Mons. A. Zanoni - Rettore del Collegio Vescovile di Tiene,
Don G. Apolloni - Insegnante nel Collegio Barbarigo di Padova,
Don G. Beltrame - Cooperatore di S. Tomaso di Padova,
Don P. Bertin - Parroco di Busiago di Camposamartino (Padova),
Don L. Berto - Parroco di Cantarana,
Don E. Bertollo - Parroco di S. Carlo di Padova,
Don F. Bertoncello - Cooperatore di Cittadella,
Don A. Borin - Cappellano Suore Elisabettine di Este,
Don A. Camazzola - Parroco di Codiverno,
191
Don F. Caron - Parroco di Cismon del Grappa,
Don P. Costa - Assistente Dioc. Az. Catt. Giovanile di Padova,
Padre P. Cortese, F. M. C. Convento del Santo di Padova,
Don M. Dal Checco - Cooperatore di S. Giustina in Colle,
Don G. Dalle Fratte - Arciprete di Lozzo Atesino,
Don G. Foffani - Insegnante nel Seminario di Padova,
Don G. Formentin - Arciprete di Megliadino S. Fidenzio,
Don G. Fortin - Parroco di Terranegra (a Dachau),
Don A. Gardin - Cooperatore di Arquà Tetrarca,
Don G. Magagna - Cooperatore di Conselve,
Padre A. Marincic - O.S.B. di S. Giustina,
Don F. Mascotto - Parroco di Semonzo del Grappa,
Don M. Merlo - Parroco di Villanova,
Don M. Mortin - Cooperatore di Tiene,
Don A. Pegoraro - Cooperatore di Caltana,
Don A. Pesavento - Cooperatore di Monselice,
Don A. Rancan - Cooperatore di Cittadella,
Don A. Rigoni - Parroco di Lastebasse (a Mauthausen),
Don G. Rizzolo - Cooperatore di Bastia di Rovolon,
Don N. Rossi - Cappellano Sanatorio di Enego,
Don G. Romio - Parroco di Guia di S. Giacomo,
Padre A. Sala - Gesuita del Pensionato Universitario,
Don O. Segato - Parroco di Castelnuovo,
Don V. Spada - Parroco di Pove,
Don G. Tessarolo -Parroco del Torresino di Padova,
Don A. Varotto - Parroco di S. Prosdocimo di Padova,
Don S. Venturin - Cooperatore di Camposampiero,
Don U. Zanettin - Cooperatore di Valstagna,
Don G. Bovo - Internato in Germania,
Don L. Baron - Internato in Germania,
Don L. Bordin - Internato in Germania,
Don G. Carraro - Internato in Germania,
Don O. Pezzin - Internato in Germania,
Fra' S. Berton - Convento del Santo di Padova.
Feriti :
Mons. F. Dalla Zuanna senior - 27 aprile 1945 (Padova)
Plenipotenziario del Comitato di Liberazione Nazionale
Veneto,
Don A. Pegoraro - rastrellamento sul Grappa,
Don A. Tedesco - 29 aprile 1945 di S. Anna Morosina.
Tratto dal libro: “ La Resistenza dei cattolici nel padovano, di
G. E. Fantelli. Tipografia A. Bolzanella 20 aprile 1965).
Giovani partigiani di Asiago.
(Archivio fot. Pierantonio Gios).
192
Il rastrellamento e l’azione del parroco Don Antonio Moletta.
Testimonianza resa da Armando Pasqualotto (1926), Saletto di Vigodarzere il 17. 04. 2002.
“Nel 1945 abitavo nell’attuale via Capitello e avevo 19 anni. L’ultimo sabato della guerra alle ore
18.00 stavo cenando con i miei fratelli e genitori. La tavola era preparata; c’erano uova sode e radicchio
novello. Nel cortile entrarono quattro soldati delle SS, erano armati di fucile mitragliatore, a tracolla
avevano nastri di proiettili, e ai fianchi tenevano agganciati grappoli di bombe a mano.
Ci sequestrarono, tutti compresi, i cugini presenti nello stesso caseggiato. Con i fucili puntati ci
fecero percorrere la strada verso la chiesa. Da nord si udirono delle fucilate dei partigiani. A seguito
degli spari i soldati tedeschi ci allinearono lungo una siepe mentre loro ripararono nel fosso.
Ritornato il silenzio, ci condussero di fronte alla sala parrocchiale e ci allinearono di fronte al muro
perimetrale ad ovest della chiesa di Saletto.
Là trovammo altri cittadini, forse eravamo oltre sessanta. La situazione era tragica. Si era diffusa la
notizia che in quel rastrellamento i soldati delle SS avevano ucciso, in via G. Marconi angolo con via
Soriva, l’operaio Guido Munaron e in via Capitello il cappellano don Beniamino Guzzo”.
La vita del parroco in cambio degli ostaggi.
“Si temeva una strage: una ventina di soldati delle SS aveva il fucile mitragliatore puntato verso di
noi sequestrati. Il parroco di Saletto accorse e si presentò al soldato di grado superiore offrendo la sua
vita in cambio degli ostaggi. I tedeschi erano molto agitati e parlavano solo la lingua tedesca e, forse,
non vollero capire la proposta del parroco. Vista l’impossibilità di dialogare il parroco, con uno
stratagemma, fece entrare in chiesa per poi farlo uscire dal lato opposto (da ovest a est) uno degli
ostaggi perché chiamasse Ilda Herchet moglie di Guido Giacomelli (di origine austriaca) affinché
intervenisse per fare da interprete. Hilda prontamente arrivò nel piazzale, accompagnata da un capitano
tedesco ospite presso la sua abitazione. Fece arrivare nel sagrato anche la signora Bertato, che pure lei
parlava la lingua tedesca. Le trattative iniziarono alle ore 18.30 e terminarono alle ore 19.00. Fu
concordato l’immediato rilascio degli ostaggi (anziani e ragazzi), mentre i 28 ostaggi rimasti furono
costretti a costruire, con carriola e badili, dei raccordi sugli argini del Brenta e aiutare, anche, i soldati
feriti a salire in una piccola barca di legno tirata, da entrambi i lati del fiume, da una corda. La zona del
passaggio era quella dove nel 1956 si sarebbe costruito l’attuale ponte stradale in cemento armato che
collega Limena con Saletto. Il letto del fiume era costituito da un’ampia spiaggia e da 15 metri di
larghezza dove scorreva l’acqua. I soldati nudi con i vestiti sopra gli zaini guadarono il fiume nella zona
detta Maresana di Saletto. I carri agricoli furono fatti passare in quel luogo. Noi ostaggi, abbiamo
sempre lavorato con il badile e la carriola ed eravamo sempre sotto la minaccia dei fucili tedeschi e
dovevamo prontamente ubbidire ai comandi che ci impartivano. Alle ore 23.30 si udì l’urlo delle sirene
e le campane di Padova che suonando a festa annunciavano l’arrivo dei liberatori. Un soldato ci disse: “Siete fortunati stanno arrivando i vostri alleati”.
Fummo testimoni di numerose scene di panico tra i soldati tedeschi. Tutta la notte l’aereo
ricognitore anglo-americano “Pippo” sorvolò la zona volando a bassa quota, ma non fece azioni
offensive.
Alle prime luci dell’alba di domenica 29 il cielo era completamente sereno; quattro aerei cacciabombardieri volarono continuamente sopra la zona; temevamo una loro azione di mitragliamento ma,
probabilmente, avevano individuato la nostra presenza di ostaggi civili. Alle ore 6,30 il comandante
inviò due soldati con una motocarrozzetta, munita di mitraglia, in perlustrazione a Saletto. I due soldati
non tornarono; furono inviati altri due soldati ma pure questi non tornarono. Poco dopo il
comandante salì su un’altra motocarrozzetta e rivolto al maresciallo disse: “Vado anch’io in
perlustrazione, se non ritorno questi civili ammazzali tutti”. L’ansia cresceva e ormai si temeva il
peggio. Nel frattempo, dopo l’incrocio di via Terraglione con via Villabozza, una di quelle
motocarrozzette, raggiunta da una fucilata, rotolò giù dall’argine dove i partigiani terminarono l’azione
uccidendo il soldato perché non voleva arrendersi. Nascosero subito la motocarrozzetta e la salma con
della paglia per evitare che i soldati tedeschi reagissero con una rappresaglia alla popolazione. Alle ore
9.00 il maresciallo radunò tutti quelli dell’argine della parte di Saletto e ordinò: “Civili tutti a casa”. Ci
incamminammo aspettandoci una raffica di mitraglia alla schiena; appena fuori tiro ci sentimmo come
dei vivi miracolati.
193
Arrivammo in centro a Saletto, il parroco don Antonio Moletta ci aspettava e chiese informazioni
anche degli altri: rispondemmo che erano liberi e che stavano ritornando seguendo l’argine del fiume
dalla parte di Limena.
Dalle ore 9.30 gli aerei caccia-bombardieri mitragliarono intensamente la strada che da Ponterotto
collega con Limena.
Nel pomeriggio, alle ore 17. 30 circa, si udirono le esplosioni di vari colpi di cannone sparate dai soldati
inglesi appostati vicino alla villa Paccherotti nella zona del Tavello di Limena. Fu colpito il centro di
Tavo dove c’era un presidio tedesco.
La notte di quella domenica, con i miei fratelli, andai a riposare presso dei parenti in via Zanella, perché
la mia abitazione in via Capitello era ancora occupata da soldati tedeschi”.
Armando Pasqualotto accanto allo stesso muro ovest della
chiesa di Saletto dove era stato posto per essere fucilato dai soldati tedeschi
delle SS, con altri 60 cittadini di Saletto. (Foto del 2002).
Mons. Antonio Moletta
parroco di Saletto dal luglio 1939 sino
alla fine del 1945. Il 25 aprile 2004 è
stato nominato cittadino onorario di
Vigodarzere per l’altruismo e il coraggio
per l’intervento del 28 aprile 1945 a
Saletto dove scongiurò una strage ad
opera dei soldati tedeschi delle SS.
Mons. Moletta, nato a Pove (VI) nel 1909,
è ancora molto attivo
nella missione sacerdotale. (Foto 1945,
collezione del. maestro Guerrino Spinello).
194
Mitragliati i cavalli nel cortile
La testimonianza è di Giacomo Renato Facco (classe 1934), di Saletto di Vigodarzere, il 20. 07.2002.
“Abitavo nel gruppo di circa 20 persone delle diverse famiglie Facco; quel gruppo di case era
nell’attuale via Maresana a Saletto di Vigodarzere. Nell’ultimo periodo della guerra per la via Maresana
transitavano parecchie colonne militari e per prudenza i miei genitori mi portarono dai nonni in una
zona ritenuta più sicura.
I miei genitori molte volte mi raccontarono quello che accadde negli ultimi giorni della guerra; mi
riferirono che dentro la barchessa avevano scavato una profonda fossa sotterrando i vestiti e gli
alimenti affinché i tedeschi non li trovassero. Nei giorni che precedettero il passaggio delle truppe
anglo-americane i soldati tedeschi entrarono nelle nostre abitazioni, prendendosi i nostri vestiti
(guadando il Brenta, le loro divise si erano impregnate di acqua e volevano sostituirle con abiti asciutti)
e tutto quello che trovavano di commestibile.
Sabato 28 aprile, durante la giornata, per tre volte i soldati delle SS allinearono al muro tutto le
persone abitanti in quel gruppo di case, per cercare alimenti. Entrarono pure nella stanza dei miei
genitori e fortuna volle che non trovarono una pistola che mio padre aveva nascosto sopra l’armadio
della stanza da letto. Entrarono poi nella cantina, un soldato sparò contro le botti perforandone una: il
vino usciva a getto. Mio padre con un caìcio (piccolo legnetto aguzzo) riuscì a tappare il foro della botte,
salvando parte del vino. Si allontanarono portando con loro tre mucche le quali, due giorni dopo,
furono recuperate ad Arsego.
Domenica mattina, ultimo giorno della guerra, la zona fu intensamente mitragliata dagli aerei caccia
anglo-americani. Precipitosamente i soldati tedeschi a piedi abbandonarono la zona, lasciando nel
nostro cortile 6 cavalli, tutti furono ammazzati da una raffica di mitragliatrice aerea, anche questa volta
fummo miracolati perché nessuna persona rimase colpita e anche le abitazioni restarono indenni”.
Domenica mattina, 29 aprile 1945,
mentre i soldati tedeschi con carri
agricoli trainati da cavalli, guadarono
il fiume Brenta in località Maresana
a Saletto di Vigodarzere, gli aerei
caccia anglo-americani mitragliarono
intensamente la zona senza causare
morti e feriti tra i residenti.
I soldati tedeschi fuggirono
abbandonando i cavalli,
diversi dei quali, furono uccisi dal
mitragliamento aereo, anche alcuni
soldati tedeschi rimasero uccisi.
(Foto puramente indicativa).
Tavo, sabato 28 aprile 1945: un miracolo di S. Giuseppe e della solidarietà.
Testimonianza resa da Giuseppe Carraro (classe1920), di Padova il 28. 01. 2003.
“Nel 1945 abitavo a Padova, nella Strada del Giglio al numero civico n. 270. Sabato 28 aprile ero
partito da Padova in bicicletta, mi stavo recando dai miei familiari che erano sfollati a S. Maria di Non.
Stavo percorrendo la strada in via Villabozza all’altezza della chiesa di Tavo, di fronte al capitello di S.
Giuseppe al centro della strada e pedalavo normalmente. Un soldato tedesco mi intimò di fermarmi,
quando avevo già appoggiato un piede sulla strada bianca, lo stesso soldato mi indirizzò una raffica di
fucile mitragliatore, due proiettili mi colpirono; uno al fianco destro e l’altro all’inguine. Rotolai nella
ghiaia della strada e mi trovai alla base del capitello di S. Giuseppe. Quattro soldati tedeschi mi
sollevarono e a braccia mi portarono dentro la chiesa di Tavo, ponendomi davanti all’altare maggiore
sopra tre sedie. Il mio sangue colava e bagnava il pavimento; mi consegnarono uno straccio per
tamponare l’emorragia. Dopo qualche ora il parroco don Gioacchino Donazzan ebbe il permesso dai
195
tedeschi di uscire dalla canonica, venne in chiesa e mi diede una benedizione. Gli domandai di avvisare i
miei parenti sfollati a S. Maria di Non”.
Il trasporto all’ospedale in carriola, in calesse e in Topolino.
“Alle ore 19.00 arrivò mia sorella venuta a piedi spingendo una carriola, che fu il suo lasciapassare
nei confronti dei tanti gruppi di tedeschi incontrati durante il tragitto. Mi caricò sulla carriola e mi
trasportò dai miei familiari a S. Maria di Non.
All’alba di domenica 29 aprile, mia sorella Giuseppina e il cugino Dante Baccarin, mi stesero sopra
una tavola e mi caricarono sopra un biroccio (calesse leggero e molleggiato), trainato da un cavallo, per
condurmi all’ospedale di Padova. A Tavo fummo fermati dai soldati tedeschi, un ufficiale medico mi
controllò le ferite, mi alzo le palpebre e esprimendosi con un incerto italiano sentenziò: -“Non arriverà
vivo all’ospedale- e mi consegnarono un lasciapassare per proseguire. Raggiungemmo la casa
dell’agricoltore Giovanni Marangon nei pressi della chiesa di Vigodarzere dove lasciammo in custodia il
calesse con il cavallo. I miei soccorritori sollevarono la tavola con me disteso sopra, e guadarono il
fiume Brenta portandomi dentro la chiesa di Altichiero. Alcuni amici che abitavano nella Strada del
Giglio a Padova, mi caricarono di traverso su un’auto Topolino a due porte e iniziò il percorso verso
l’ospedale di Padova. Da una porta uscivano le mie gambe dall’altra la testa; durante questo tragitto,
persi la conoscenza. Mi consegnarono al pronto soccorso e giudicandomi morto, mi adagiarono in uno
stanzone pieno zeppo di cadaveri. Mio fratello Antonio venne a cercarmi, controllò il mio respiro e
costatato che ero vivo chiamò un infermiere e mi portarono in sala operatoria, mi curarono bloccando
l’emorragia. Come risulta dai documenti, rimasi ricoverato all’ospedale dal 29 aprile sino al 20 dicembre
1945”.
Ogni anno un fascio di garofani a S. Giuseppe.
Il 19 marzo 1946, festa di S. Giuseppe, la comunità di Tavo, per ricordare l’accaduto, organizzò una
grande festa celebrando una Messa solenne, per ringraziare il mio Santo protettore, deponendovi un
mazzo di garofani rosa ai piedi della sua statua. Da allora ogni anno, alla vigilia della sua festa ho
deposto un mazzo di garofani rosa ai piedi
della statua di S. Giuseppe nella chiesa di
Tavo”.
(Su segnalazione di Antonio Broetto)
Giuseppe Carraro con il parroco
Don Pietro Cappellari e gli amici
dopo avere deposto un mazzo di
garofani ai piedi della statua di
S. Giuseppe nella chiesa di Tavo.
(Nella prima fila da destra:
Ivone Miozzo, Orfeo Zandarin,
Mario Nicoletti e Severino Zandarin.
In seconda fila da sinistra:
Antonio Zin, Antonio Corazzina,
Cesare Piccolo, don Pietro Cappellari,
Giuseppe Carraro, Tiziano Nalon e
Roberto Martin.
(Foto del 15. 08. 2005).
196
Il “miracolato”
Giuseppe Carraro
nella sua abitazione.
(Foto 2003).
Il capitello di
S. Giuseppe a Tavo.
Vigodarzere: domenica 29 aprile 1945. L’ultimo giorno della guerra.
Ricordo dalle testimonianze di mia madre Oliva Pedron Cesaro e di altre persone, che alle 5.00 del
mattino il campanaro Sante Pilli, tirando a corda la campana, suonò l’Ave Maria poi aiutato dai figli
Ernesto e Erminio, suonarono con le tre campane tre motivi di otto minuti ciascuno intervallati da una
pausa. Alle 5.45 fecero suonare una campana che annunciava l’inizio della celebrazione della S. Messa
delle ore 6.00.
All’ultimo suono della campana, mia madre Oliva Pedron Cesaro con altre donne, Domenico Vettore e
altri uomini della zona, s’incamminarono sulla strada principale per raggiungere la chiesa, dovendo
stare attenti dove poggiare i piedi perché la strada sterrata era piena di grossi ciottoli e con profonde
buche. Parlavano sottovoce dei fatti gravi del giorno precedente, del passaggio delle truppe tedesche del
ferimento di Cicci il partigiano e degli ultimi furti avvenuti nelle varie abitazioni; tutti speravano sul
termine imminente della guerra.
A Vigodarzere nulla si sapeva del tragico rastrellamento a Saletto fatto dai soldati nazisti nel pomeriggio
precedente, né si sapeva degli ostaggi che stavano ancora aiutando i soldati tedeschi a guadare il fiume
Brenta in località Maresana a Saletto; qualcuno asseriva di avere udito, alle ore 23.30, le campane di
Padova suonare a festa assieme alle sirene. Il cielo era completamente sereno, mentre a levante si
notavano le prime luci del giorno.
Nei pressi della chiesa il gruppo guardò l’ora che segnavano le lancette del nuovo orologio del
campanile e notarono qualcosa di diverso: quella mattina l’orologio a loro sembrava che somigliasse
stranamente ad un occhio di una civetta. Arrivarono all’inizio della celebrazione della S. Messa e,
nonostante il pericolo di incontrare dei soldati tedeschi e i tragici eventi dei giorni precedenti, i fedeli
abituali della prima messa domenicale erano quasi tutti presenti (1). L’arciprete don Giulio Rettore
iniziò la celebrazione con voce possente: In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Introibo ad altare
Dei. Ad Deum qui laetificat juventutem meam … Al termine della S. Messa si recitarono tre Ave Maria per la
conversione della Russia dal comunismo, seguite dalla supplica alla Madonna per il dono della pace.
All’uscita dalla chiesa si presentava un sole abbagliante e un cielo completamente sereno. Per l’abitato di
Vigodarzere, durante la giornata, passarono alcuni gruppi di soldati. Nella serata sul sagrato c’erano i
campanari e molte altri uomini che si interrogavano se la guerra fosse terminata. Alle ore 23.30 decisero
di annunciare alla parrocchia e a tutti, insomma, che la guerra da noi era proprio terminata e suonarono
a festa, tirando le corde delle quattro campane (la fatica dei campanari e dei volontari veniva annaffiata
dal vino loro offerto).
197
__________
(1) A Saletto il parroco don Antonio Moletta celebrò la santa Messa ma data la grave situazione erano presenti
solo il campanaro e due donne. A Tavo il parroco don Gioacchino Donazzan celebrò la S. Messa in una stanza
della canonica, dove aveva trasportato anche il Santissimo perché anche la chiesa era stata requisita dalle truppe
tedesche. Erano presenti due donne, due uomini e un chierichetto.
Rapite Stella e Dorina .
Testimonianza di Mario Vieno (classe 1931), Vigodarzere 10.10.2005.
Non potrò mai dimenticare la mattina dell’ultima domenica di guerra mentre guardavo, nell’attuale via
Vittorio Veneto, il passaggio di una colonna di soldati tedeschi armati; non avevo paura perché ero in
compagnia di Amedeo Gottardo reduce della 1^ Guerra Mondiale.
Al passaggio dell’ultima colonna di soldati tedeschi notammo due ufficiali a cavallo con la pistola, uno
cavalcava la puledra Stella (1)”col mantello baio, l’altro, invece, cavalcava Dorina (2) col mantello grigiobianco. I due cavalieri erano seguiti da circa un centinaio di soldati armati, ma fradici e stanchi perché
avevano appena guadato il fiume Brenta tra Limena e Saletto e da alcuni carri agricoli tedeschi con le
sponde a ‘V’.
Vedendo la sua cavalla Amedeo chiamò Stella ad alta voce. All’udire il grido la cavalla si fermò ed
emise un nitrito come per salutare il suo vecchio padrone che l’aveva aiutata a nascere e a vivere; il
soldato scudisciò la puledra costringendola a procedere.
La colonna proseguì transitando per via Cà Zusto e, secondo informazioni pervenuteci più tardi, fu
bloccata a Castelfranco Veneto dai partigiani.
__________
(1) La cavalla Stella era stata requisita dai soldati tedeschi nella
stessa mattinata dalla stalla di Amedeo Gottardo.
(2) Dorina dal mantello grigio chiaro era stata requisita dai soldati
tedeschi presso un’azienda agricola di Saletto ed era di proprietà
del cav. Pietro Lincetto che abitava a Padova. Nelle scuderia della
Certosa teneva a pensione da anni una decina di cavalli da corsa.
Per evitare la requisizione nazista li aveva nascosti a Saletto.
Nonostante tutte le ricerche effettuate la cavalla non fu più
ritrovata.
Nella foto: l’inserzione pubblicata
nel giornale “Il Corriere Padovano”
del 20 maggio 1945.
198
Tra Vigodarzere e Saletto
Testimonianza di Egidio Miozzo (classe 1924) del 24 aprile 2003.
Nel periodo dei fatti che stò per raccontare abitavo nell’attuale Barchessa della Villa
Zusto (attuale sede degli uffici dell’anagrafe del municipio di Vigodarzere). Nella
mattinata di domenica 29 aprile 1945 un gruppo di partigiani di Cadoneghe in pulmino,
presero posizione sotto il porticato della barchessa installando una mitragliatrice.
Da Vigodarzere soppraggiunse una camionetta con tre soldati tedeschi e uno di loro era
dritto in piedi, sventagliando continuamente raffiche di mitragliatrice. I partigiani lo
colpirono a morte e si accasciò dentro la camionetta. L’automezzo a velocità molto
sostenuta si diresse verso Saletto e in via Vittorio Veneto alcuni partigiani, appostati nel
fosso a sinistra della strada, bersagliarono con fucilate la camionetta. Un secondo
tedesco rimase colpito mortalmente e contemporaneamente la camionetta si rovesciò
dentro il fosso a sinistra della strada. Il terzo soldato riusci a dileguarsi per i campi
raggiungendo i suoi commilitoni del presidio di Tavo.
Grande fu la paura degli abitanti del vicinato, i quali presero le necessarie precauzioni
per evitare rappresaglie e in tutta fretta trasportarono le salme in una stalla
nascondendole dentro una mangiatoia. Con un paio di buoi rimisero in strada la
camionetta nascondendola nel vigneto.
Dopo alcuni anni, il soldato sfuggito alla sparatoria dei partigiani inviò una lettera a
don Giulio Rettore (allora arciprete di Vigodarzere) con la quale informava che gli
anziani genitori dei due soldati avevano altri figli deceduti in Russia e imploravano la
restituzione delle salme dei loro figli pregando l’arciprete di individuarle nel cimitero di
Vigodarzere. Ciò fu possibile perché don Giulio prima della sepoltura dei soldati aveva
rilevato dalla piastrina dei militari il numero della matricola e la posizione delle tombe.
Don Giulio mi fece leggere la lettera firmata dai genitori dei soldati. La traslazione
delle salme fu fatta per realizzare il desiderio dei genitori dei soldati.
.
199
TAVO: DOMENICA 29 APRILE E LUNEDI 30 DEL 1945.
I soldati delle SS non uccisero perché era domenica.
Testimonianza di Roberto Martin (classe 1926), Tavo di Vigodarzere il 19.03.2003.
“Abitavo nell’attuale via Palladio a Tavo di Vigodarzere. La mattina di domenica, ultimo giorno
della guerra, entrarono nel cortile della mia abitazione quattro o cinque partigiani di Campodarsego,
armati di moschetto di vecchio tipo e chiesero la colazione ai miei genitori, Dosolina Rocco e Giuseppe
Martin. Mia madre si mise a preparare qualcosa da mangiare e contemporaneamente i vicini di casa ci
avvisarono che stava arrivando una pattuglia di soldati tedeschi delle SS. I partigiani si allontanarono
rapidamente, io fuggii uscendo da una finestra e riparai nel vicino palazzo della famiglia Miozzo dove
incontrai per la prima volta la ragazza che divenne mia moglie.
I soldati tedeschi si accorsero che i partigiani erano appena fuggiti e furiosi interpellarono mia madre la
quale rispose di non conoscerli. I tedeschi entrarono in cucina e pretesero di fare una abbondante
colazione, quella preparata per i partigiani; poi fecero uscire da casa i miei genitori e la zia, li misero al
muro per fucilarli, ma il comandante ebbe un’esitazione e disse: “Oggi è domenica, basta con lo
spargimento di sangue” e si allontanarono”.
Una granata esplose nel cortile.
“Nel tardo pomeriggio mia zia Irene stava raccogliendo l’insalata nell’orto vicino all’abitazione,
mentre mio padre ed io eravamo sull’uscio di casa; una granata, sparata da un carro armato angloamericano dalla zona del Tavello di Limena, esplose nel cortile.
Mia zia per le schegge riportò gravi ferite al ventre; un’altra
scheggia mi tagliò di netto il dito mignolo della mano destra e
un’altra provocò a mio padre una profonda ferita ad una gamba.
Per evitare di morire dissanguati si doveva raggiungere al più
presto un ospedale. Furono avvisati i partigiani di
Campodarsego che arrivarono con un piccolo autobus con lo
stemma della Croce Rossa, ci caricarono e percorrendo il ponte
sul fiume Brenta (l’unico ponte rimasto transitabile) a Ponte di
Brenta, ci condussero all’ospedale di Padova, per fortuna i
gruppi di tedeschi incontrati non ci fermarono. Mia zia, la ferita
più grave, rimase in ospedale per 40 giorni”.
(Il fatto è riportato anche nella cronistoria parrocchiale di Tavo).
Roberto Martin
nel cortile della sua casa, dove il
29 aprile 1945, fu ferito da una
granata sparata da un carro armato
anglo-americano dalla zona del
Tavello a Limena vicino alla Villa
Paccherotti.
(Foto 2005).
Domenica 29 e lunedì 30 aprile 1945: la Liberazione.
Relazione di don Giocchino Donazzan nella cronistoria di Tavo.
“Lo stato d’assedio continuava. Alle ore 6.30 altri contingenti di truppa in ritirata continuavano ad
arrivare, si sdraiavano dovunque. La canonica e tutte le case sulla strada diventarono tante caserme in
piena efficienza. I fedeli non potevano muoversi da casa e il parroco celebrò una sola messa alle ore 7.
Erano presenti una donna, due uomini e un chierichetto...
Alle ore 9.00 a più riprese passarono colonne di soldati tedeschi che furono mitragliate dagli aerei: per
noi necessitava tenersi al riparo. La sfilata continuò tutto il giorno. I soldati e gli ufficiali erano dei veri
barbari e rapinando a mano armata si impossessavano di quanto loro faceva comodo. In chiesa furono
rovinati il baldacchino, i vasi di fiori e altri vasi dei confratelli. Dalle famiglie furono asportati animali
bovini, cavalli, carri agricoli e biciclette. Una parte di quel bottino fu poi rintracciato in quanto gli
200
invasori in fuga lo abbandonarono. Nel viale dalla chiesa sino all’argine, nei porticati, sotto gli alberi e
dovunque c’erano fitte colonne di automezzi in sosta.
Alle ore 17.00 una squadriglia di caccia anglo-americani a bassissima quota iniziò un violento
mitragliamento. Un soldato tedesco fu ferito e venne portato in canonica e medicato. Seguì subito lo
scoppio delle granate sparate dai carri armati anglo-americani appostati oltre il Brenta, presso l’argine
vicino al bosco del Sig. Trieste ora Villa Paccherotti, di proprietà De Benedetti (n.d.a.). Con tiro preciso
falciavano uomini e macchine che si avventuravano a passare sull’argine, alla svolta del Brenta a Tavo…
Ad un ordine improvviso tutte le macchine e i soldati tedeschi partirono abbandonando parecchio
materiale.
Il parroco e altre 10 persone si rifugiarono nel campanile. Le granate caddero di continuo. Alle ore
17.30 una granata colpì la chiesa a sei metri d’altezza, al pilastro fra l’altare della Madonna e la porta
laterale. Il proiettile forò il muro, causando una lesione di due metri quadrati, infrangendo la vetrata
della finestra adiacente. Alle 17.40 un’altra granata scoppiò più vicino a noi.
Fu colpito il campanile sotto la cornice maggiore. Un polverone penetrò sotto il campanile, le
schegge delle granate, le pietre e lo spostamento d’aria infransero le vetrate della chiesa; per un buon
tratto furono rotte e spostate le tegole della chiesa e della sacrestia. Le grondaie furono forate in molte
parti. Altri proiettili esplosero vicino di continuo, fino alle ore 19.30… Lunedì 30 aprile: alle ore 9.00 le
campane suonarono a festa. Alle ore 16.00 arrivò la polizia inglese, accolta festosamente dalla
popolazione. Il tricolore sventolò dall'alto del campanile e dalle case. La guerra era finita”.
Domenica 29 aprile 1945 i carri armati anglo-americani nei pressi della Villa Paccherotti nel Tavello di Limena,
cannoneggiarono il presidio delle SS tedesche che era installato nel centro di Tavo.
201
Limena lunedì 30 aprile 1945. Un carro armato anglo-americano transita di fronte alla barchessa ora municipio di
Limena. (Archivio fot. Renato Martinello) .
A causa della guerra
Nel nostro territorio comunale, i soldati, i partigiani, i fascisti e i civili morti a causa della guerra
sono 91, come testimoniano le lapidi accanto alla chiesetta dedicata ai Caduti di tutte le guerre nella
Villa Zusto.
1° maggio 1945: il corteo
dei partigiani di Vigodarzere.
202
La cappella
partigiani
tedeschi (1)
I partigiani
del cimitero di Vigodarzere dove sono tumulati i
della parrocchia di Vigodarzere uccisi dai soldati
negli ultimi giorni della guerra.
sono:
Piotto
Malosso
Maiolo
Ranzato
27.04.1945
(Medaglia
Cosma
Aldinesco n. 19.04.1910 - m. 29.04.1945.
Ernesto n. 01.05 1905 - m. 01.05.1945.
Italo n. 27.07.1916 - m. 29.04.1945.
Timante (Gianni) n. 13.07.1914 - m.
d’Argento al Valore Militare). (1)
Guerrino n. 18.01.1917 - m. 29.04.1945.
Carabiniere Cesaro Antonio n. 08.08.1908 29.04.1945.
m.
(1)
Timante Ranzato fu ferito a morte a Pieve
di Cutarolo da piombo sconosciuto (Cronistoria parrocchiale di Pieve di Curtarlo).
Soldati italiani prigionieri nel mondo
“I prigionieri italiani furono internati da tutti i paesi che parteciparono alla seconda guerra
mondiale.
130.000 furono presi dagli anglo-americani all’inizio del 1941 nell’Africa orientale;
40.000 “
“
“
alla fine dello stesso anno in Africa orientale;
100.000 tra il novembre del 1942 e la tarda primavera del 1943 nella seconda campagna d’Africa;
50.000 presumibilmente catturati dai sovietici sul fronte orientale tra il giugno 1941 e il febbraio 1943.
Dopo l’8 settembre 1943 i nazisti disarmarono oltre un milione di soldati italiani presenti in Italia,
Francia meridionale e nei Balcani, di cui oltre 800.000 furono trasferiti nei campi di prigionia situati
nel territorio del Terzo Reich. Nelle settimane che seguirono la cattura circa 180.000 prigionieri italiani
accettarono di restare fedeli all’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista, di questi circa 80.000
furono incorporati nell’esercito tedesco come combattenti o ausiliari; 20.000 si arruolarono nella
Waffen SS; 60.000 ausiliari nell’aviazione germanica e infine circa 15.000 passarono dai campi di
prigionia tedeschi al nuovo esercito fascista repubblicano di Mussolini (R.S.I). I soldati italiani
prigionieri in Germania erano spesso sollecitati in cambio del loro ritorno in Italia, a combattere con
l’esercito di Mussolini.
Oltre 600.000 prigionieri italiani rifiutarono di collaborare con il Terzo Reich e con i loro alleati
della Repubblica Sociale Italiana e furono costretti al lavoro coatto in condizioni di schiavitù. I
prigionieri italiani nel territorio germanico deceduti per fame, per malattie o per altre cause furono oltre
40.000 (1)” .
Ai soldati italiani fatti prigionieri dagli anglo-americani era imposto di compilare un modulo e fra le altre
cose chiedevano se fossero fascisti (2). Come potevano rispondere? Avevano giurato fedeltà a Mussolini
quando erano Balilla, lo avevano ripetuto da Avanguardisti e durante il premilitare. La cultura fascista
durata per molti anni aveva condizionato pesantemente le loro menti. Solo dopo l’otto settembre 1943
203
si iniziò a cambiare idee e si formò il nuovo Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.) che, alla fine della
guerra, era composto da 50 mila soldati che operarono accanto agli anglo-americani.
__________
(1)Tratto dal “Dizionario del fascismo” Enaudi editore 2005 e dalle testimonianze di alcuni ex deportati.
(2) Informazione ricevuta dallo storico Prof. Giuliano Lenci.
Lentamente ritornarono a casa.
Testimonianza di Bruno Giuseppe Pegoraro (classe 1951),
Vigodarzere il 20. 10. 2004.
“Mio padre Lino Giovanni nato a Vigodarzere nel
1922, fu chiamato alle armi come artigliere, fatto
prigioniero dagli anglo-americani in Tunisia nel 1943 e
internato nel campo di Florence, Arizona (U.S.A.). In
quel periodo di prigionia fu impegnato a raccogliere il
cotone; complessivamente ebbe un buon trattamento.
Ritornò a casa nel 1946 e più volte espresse il desiderio di
ritornare negli Stati Uniti d’America perché, già a quel
tempo, l’agricoltura americana era meccanizzata; infatti
per raccogliere il frumento usavano la mietitrebbia mentre
da noi ancora si usava la falce e si arava il terreno facendo
tirare l’aratro dai bovini”.
La sacca, con la quale,
Lino Giovanni Pegoraro
ritornò a casa nel 1946.
(Foto del 2004).
Lo Stato del Vaticano, neutrale, intervenne
nelle ricerche dei prigionieri di guerra, come
attesta anche il documento riprodotto.
La comunicazione del Vaticano inviata nel 1943
ai genitori del prigioniero di guerra.
Lino Giovanni Pegoraro abitante nell’attuale via
Vittorio Veneto a Vigodarzere.
204
Il primo tavolo da tennis.
Testimonianza di Ivano Pasquetto (classe 1933), Vigodarzere il 10.11. 2004.
“Nel 1946 frequentavo il patronato della parrocchia di Vigodarzere ed ebbi l’occasione di
apprezzare il nuovo gioco del tennis da tavolo (ping-pong), fatto conoscere dal nostro concittadino
Giovannino Martini chiamato Arrigo (classe 1917), che abitava nell’attuale via Giotto a Vigodarzere,
gioco da lui imparato durante la prigionia (dal 1942 sino al 1946) negli Stati Uniti d’America. Al suo
ritorno aiutò a costruire il tavolo da tennis e a dirigere le prime partite in patronato, facendo conoscere
le regole del nuovo gioco”.
Reduci anche da 12 anni di guerra.
Ricordo che alcuni soldati di Vigodarzere (classi 1910 e 1912), dopo aver fatto il servizio militare di
leva, dovettero combattere in Etiopia. Tornarono a casa e rimasero a disposizione per la guerra in
Spagna. In seguito, furono inviati a combattere in Albania, Grecia, Jugoslavia; furono fatti prigionieri
dai tedeschi e internati in Germania. Ritornarono a casa dopo la fine della guerra. Questi soldati furono
lontani dalle loro case anche per 12 anni e per tutta la vita portarono il peso delle brutalità di cui furono
testimoni.
__________
Documentazionedal mensile l’Alpino del mese di giugno 2005 si legge:
“Il 60° della fine della secoda guerra mondiale è stato celebrato dalla Sede Nazionale in modo inconsueto. Il
presidente Corrado Perona e una trentina di alpini e familiari sono andatia rendere omaggio ai 252 soldati italiani
che riposano nel cimitero di guerra di Zonderwater, Sud Africa, a 120 chilometri da Johannesburg. In quell’area
gli inglesi avevano concentrato i prigionieri supertiti delle battaglie dell’Amba Alagi, di Keren e di El -amein. Lì,
più che con filo spinato, erano le immense distese dell’altopiano a 1700 metri sul livello del mare, a sconsigliare la
fuga.
Nel luglio del 1943 se ne contavano 78 mila, c’informa Emilio Coccia, presidente dell’associazione che curò
in modo impeccabile il cimitero e costudisce con passione le memorie del piccolo museo”.
La delegazione posa una corona di alloro sul monumento del cimitero militare di Zonderwater (Sud Africa).
205
Il cimitero militare di Zondewater (Sud Africa) dove riposano 252 Caduti italiani
In quel campo di prigionia furono internati 78 mila prigionieri italiani.
(Foto del 25 aprile 2005).
Giornata del ringraziamento.
In tutte le parrocchie fecero una giornata di ringraziamento per la fine della guerra.
A Saletto nella prima domenica di ottobre 1945 si fece una grande processione penitenziale e di
ringraziamento che percorse anche i confini della parrocchia. La processione fu presieduta dal parroco
Don Antonio Moletta.
A Tavo: “La domenica 21 novembre 1945 si svolse la giornata del ringraziamento per il ritorno dei
nostri soldati dalla guerra e l’incolumità del nostro paese specie durante gli ultimi giorni della guerra,
che nonostante la permanenza e il passaggio delle truppe tedesche nessun parrocchiano venne ucciso.
Durante le due messe furono fatte 900 comunioni, la festa si concluse con una solenne processione e i
150 reduci di guerra del paese di Tavo portarono a turno le statue della Madonna e quella di
S. Giuseppe. Ancora in segno di ringraziamento nel 1947 furono acquistate le quattro campane che con
l’impalcatura e il castello, costarono lire 2.675.682. I padrini delle campane furono per la prima
Giovanni Giacometti e Giuseppe Carraro di Padova, per la seconda Zin Angela, per la terza Zin
Giuseppe e Caterino, e per la quarta Broetto Rina e Badin Wally. Sempre con l’aiuto e la sensibilità della
popolazione alle nuove esigenze nel 1950 si costruì la casa della dottrina cristiana e il 24 aprile 1960
venne inaugurato l’edificio e l’inizio della scuola materna”.
(Tratto dalla cronistoria parrocchiale di Tavo. Scritta dal parroco don Giocchino Donazzan)
La processione condotta dal parroco don Antonio Moletta la domenica 7 ottobre 1945,
festa della Beata Vergine del Rosario.
206
(Foto del 1945, collezione del maestro Guerrino Spinello).
ALTRE TESTIMONIANZE DA PADOVA
Il Pensionato Universitario Antonianum.
Il Pensionato Universitario Antonianum diretto dai padri Gesuiti, era strettamente legato alla
Resistenza dell’Università patavina nella lotta di Liberazione, l’edificio è ubicato in via Donatello a
Padova vicino all’Orto Botanico e alla Basilica del Santo.
“Guerra e Resistenza.
Il 10 giugno 1940 l'Italia entrava in guerra a fianco della Germania. Si ripeterono le scene del 1915.
Anche gli studenti dell'Antonianum, che avevano partecipato alle dimostrazioni a favore della guerra
organizzate dai fascisti, incominciarono a partire per i diversi fronti. Partivano con entusiasmo e
spensieratezza. Partì anche il rettore, padre Messori, destinato come cappellano militare prima alla base
sommergibilistica del basso Tirreno, poi a quella dell'Atlantico. Scriveva che aveva ottenuto il
permesso di celebrare la Messa nelle profondità marine.
Per tutto il 1941 e il 1942 la vita alla Scuola di Religione continuò in modo quasi regolare, nonostante le
ristrettezze economiche e le preoccupazioni per i giovani al fronte. Nel maggio del 1941 si celebrò il
quarto centenario della fondazione della Compagnia di Gesù, con solenne liturgia in duomo e
conferenza commemorativa nella Sala dei Giganti. La tenne il padre Magni, che nel frattempo era
diventato Assistente d'Italia. Nel 1942 moriva il padre Ledòchowski e il padre Magni gli succedeva
come Vicario Generale. Non vedrà la fine della guerra neppure lui: morirà nel 1944. Pochi mesi dopo
morì il padre Garagnani e, nel 1945, a 82 anni, il padre Leonardi.
In quegli stessi anni all'Antonianum continuava l'attività sportiva: l'atletica leggera con Luise, il
basket con Volpi, il tennis e il canottaggio. Fino al luglio del 1943 non s'interruppero i campeggi estivi.
Ma già con l'inverno del 1942/43 la situazione bellica appariva gravemente compromessa per l'Asse.
Sui vari fronti l'Antonianum pagava di nuovo il tributo di sangue dei suoi studenti. Poi incominciarono
i grandi bombardamenti sulle città italiane e Padova non fu risparmiata. I Padri dell'Antonianum fecero
voto che se i bombardamenti avessero risparmiato gli edifici e la vita dei giovani a loro affidati, per
dieci anni, avrebbero celebrato una Messa di ringraziamento ogni primo venerdì del mese. Furono
esauditi. Una grossa bomba veramente cadde una notte nel recinto della Scuola di Religione, ma
affondò nel terreno soffice dell'Alicorno senza esplodere e fu disinnescata dal genio civile.
Gli alunni più giovani erano sfollati con le famiglie nelle campagne. Gli altri furono arruolati
nell'esercito o nelle squadre di lavoro obbligatorio. I giovani della Scuola di Religione furono mobilitati
a soccorrere i sinistrati del rione della Stazione, il più colpito dai bombardamenti. Mentre i Padri, al
segnale d'allarme, correvano all'ospedale e alle carceri ad assistere feriti e detenuti.
Dopo il 25 luglio e l'armistizio dell'8 settembre, la liberazione di Mussolini e la costituzione della
Repubblica di Salò, incominciò in grande il fenomeno dell'imboscamento, le retate di giovani, le fughe
in montagna e l'organizzazione delle bande partigiane. Era la guerra civile, pericolosa, crudele, continua,
che non risparmiava nessuno.
Il padre Mason, nuovo direttore della Scuola di Religione dal 1941, girava in bicicletta per il
Padovano a trovare i suoi ragazzi, ultimo filo di collegamento e di speranza per una istituzione già
fiorente e che sembrava distrutta dalla guerra. Nell'autunno del 1944 giungeva all'Antonianum anche il
fratel Giuseppe Fiocchi, che batterà tutti i record per la fedeltà alla Scuola di Religione. Vi si trova
tuttora e rappresenta, con la sua sola presenza e i ricordi, una sintesi viva di cinquant'anni di storia
dell'opera”.
L’azione di propaganda.
“Proprio allora l'Antonianum, con i pochi giovani superstiti e un certo numero di clandestini, che lo
frequentavano a vario titolo, diventò uno dei principali centri cittadini della resistenza e della
cospirazione antifascista. Era ritornato padre Messori, che si assunse la responsabilità di tutta
l'operazione, sostenuto dagli altri Padri, ma specialmente dal padre Achille Colombo, il sorridente, il
mite padre Colombo, il suo alter ego presso gli studenti, così bonario e indifeso.
Come osserva G.E. Fantelli,3 l'Antonianum si prestava agli incontri cospirativi. Essendo Collegio
Universitario poteva giustificare la presenza di tante persone del mondo universitario e indire riunioni
che potevano passare per incontri culturali. Del resto il Comitato di Liberazione Nazionale della
Regione Veneta nel primo periodo variava di continuo la sede delle sue riunioni. A quelle
207
dell'Antonianum parteciparono a più riprese i professori Meneghetti, Zancan, Cestari, Osella-Dorè,
Bastai, Arsian, Beretta, Cacciavillani, Morin, Zwirner, Bobbio, Bettiol, Carraro, Ambrosetti,
Franceschini; i dottori A. e G. Pezzolo, gli ingegneri Pighin, Carli, Chilesotti. Accanto ai docenti c'erano
molti studenti. Ricordiamo soltanto Busolin, De Bosio, Del Pietro, Dogo, Fiorot, Gaietti, Gerardis,
Girardini, Graziato, Groppo, Meo, Nardini, Olivi, Peretti, Pierobon, Ranzato, Salani, Salvi, Simioni,
Todesco, Valvassori, Vicentini.
L'accordo tra le diverse tendenze non fu senza problemi. La maggior parte dei convenuti
all'Antonianum apparteneva all'area dei vecchi Popolari (Merlin, Sabbadin, Saggin...), ma numerosi
erano anche i comunisti e i socialisti, come Meneghetti stesso. Tra i cattolici in alcuni prevaleva la
diffidenza, altri, pur fermi nei principi, accettavano la collaborazione per la lotta comune. Poi si sarebbe
visto. Il padre Messori non interferiva, ma consigliava prudenza.
Il primo periodo fu un periodo prevalentemente di propaganda politica antifascista. Si organizzavano dimostrazioni, sabotaggi, volantinaggi. Un primo volantino in quattrocento copie fu
ciclostilato dal fratel Mapelli, segretario del padre Provinciale Bianchini. La matrice fu gettata nella
canaletta della riviera del Businello. Le copie furono distribuite da Francesco Simioni e Luigi Pierobon futuro eroe e medaglia d'oro alla memoria della Resistenza - nella buca da lettere di molte case del
centro.
Tra il settembre e l'ottobre del '43 incominciò a uscire, ciclostilato, il foglio cospirativo "Appello». Uno
dei giovani più impetuosi era l'ingegner Otello Pighin, assistente all'Istituto Macchine. Arrestato una
prima volta nella primavera del '44, riuscì a fuggire e a nascondersi all'Antonianum. Ripreso in una
clinica del Torresino, venne fucilato.
Ai primi di novembre i ministeri della Repubblica Sociale lasciavano Roma e si trasferivano al nord.
Il Ministero dell'Educazione, diretto dal ministro Biggini, un autentico gentiluomo, chiese quaranta
stanze dell'Antonianum per collocarvi i suoi uffici. Il padre Messori riuscì a ridurle a venti: tutto il
primo piano. Pensava tra sé che, in fondo, non tutto il male veniva per nuocere: quella presenza poteva
servire da copertura contro le incursioni della polizia fascista. Tra i direttori generali del ministero c'era
anche il padre di Aldo Moro: una figura integerrima, religiosissima. Lo vedevano sempre con un libro in
mano intento a leggere, anche spostandosi da un corridoio all'altro. Ma tra il riconoscimento della sua
onestà personale e il volerne fare un antesignano della Resistenza partigiana, ci corre parecchio. Capitò
otto anni dopo, quando un giornalista si presentò al padre Messori a chiedergli di testimoniare circa i
meriti partigiani del Moro. Non possiamo dire che il Messori quella volta si sia comportato con la
cortesia dell'ospite perfetto. Egli cercò, a fatica, di fare del suo meglio”.
La Banda Carità.
“A Padova, sulla scia dei Ministeri, era stata risucchiata anche la famigerata Banda Carità, che dopo
aver terrorizzato Firenze e dintorni, cercava nuovi campi per l'esercizio della sua crudeltà, a servizio dei
tedeschi; i quali preferivano generalmente non sporcarsi le mani dove bastavano gli italiani. Mario
Carità, già confidente della questura, dopo 1'8 settembre si era offerto ai tedeschi come ufficiale di
collegamento. Dopo qualche settimana era stato sostituito in quel compito da un ex prete, il tenente
Giovanni Castaldelli. Carità, promosso maggiore, aveva assunto il comando del costituendo Reparto
Servizi Speciali, dipendente dalla XCII legione. A Padova la Banda Carità aveva preso alloggio nel
Palazzo Giusti.
Il padre Messori vide presto quanto fosse stata giusta la sua intuizione circa l'utilità di avere in casa i
fascisti. Il 6 novembre 1943, durante la prolusione per l'anno accademico, studenti e professori
reagirono alle provocazioni di un gruppo di universitari in divisa fascista. Il 9 avvenne una perquisizione
armata dei fascisti all'Antonianum. Il padre Messori ebbe cura di guidarli nei locali occupati dai
funzionari del Ministero. Non capirono subito di che si trattava. Uno trovò perfino un discorso su
Mussolini e ci volle un po' per fargli intendere che era a favore del Duce. Ma alla fine la verità venne a
galla: all'Antonianum c'erano «i loro». Se n'andarono scusandosi.
Da quel giorno le perquisizioni si ripeterono periodicamente. I clandestini - come Pighin - gli
studenti renitenti o cospiratori, avevano imparato a neutralizzarle. Il portinaio aveva l'ordine di dare un
segno particolare quando compariva un fascista o un tedesco. Immediatamente tutti si precipitavano
alla porta del retrocucina e se la squagliavano per i campi. Li chiamavano «la brigata lepre». Col tempo
208
incominciò anche tutto un sistema di soffiate preventive. Ma c'era anche chi soffiava nelle orecchie dei
fascisti.
La notte dell'8 dicembre gli universitari dell'Antonianum lanciarono il «Manifesto Marchesi», lancio
ripetuto il 9 in aula di anatomia. Comparvero sui muri anche le prime scritte: «Viva l'Università libera!».
Col nuovo anno uscirono i giornali «Fratelli d'Italia», «Libertà», manifesti e opuscoli dottrinali e di
propaganda. Con colori e materiali preparati all'Antonianum fu organizzata l'azione all'Università del 7
febbraio 1944. Comparvero scritte in diverse aule del Bò: «Qui sono passati gli studenti liberi
dell'Università di Padova», «Per una libera Università», «Rivolta», «Ricordiamo Matteotti», «Ricordiamo
don Minzoni». Fu lanciato anche il «Manifesto Meneghetti» e fu messa una bomba nella redazione del
giornale universitario fascista «II Bò». Parteciparono a quell'azione Corrado Lubian, capo del gruppo
che operava al Bò, e Toni Ranzato, capo del gruppo del «Liviano». Organizzatori il dottor Francesco
Simioni, don Apolloni, l'ingegner Pighin, col dottor Billanovich e i giovani di Azione Cattolica Primo
Masiero e Lion Bruno. Fece brillare la bomba il bidello Volpato. Tuttavia non tutto filò perfettamente.
Terminato il lavoro al Bò, Ranzato, Simioni e un altro, verso le 22 del 6 febbraio, si recarono al «Liviano» per tappezzare anche quelle pareti con scritte antifasciste. Si nascosero in attesa che i bidelli se ne
andassero, il Simioni nel lavabo del piano rialzato. Ma un bidello filo-fascista, Renato, sentì un rumore
e tentò di entrare. Poi lo attese al varco. Lo riconobbe? Sicuramente, ma non ricordava il nome. Disse
che era un neolaureato di Franceschini. Franceschini, interrogato, parlò di uno studente slavo, ormai
partito. In seguito il bidello, minacciato di rappresaglie, negò il riconoscimento. Ma il Simioni dovette
prendere il largo. «Consegnai la radio trasmittente al padre poi,4 presi la bicicletta e passando per strade
poco frequentate (Praglia, Zovon, Orgiano, Sossano) arrivai alla sera a Lonigo nel noviziato.5 Rimasi
dieci giorni in solitudine e preghiera e poi ritornai a Padova, passato il pericolo, e ripresi il mio posto di
cospiratore».6 Tuttavia molti altri indizi portavano all'Antonianum. La mattina dell'8 febbraio i fascisti
circondarono il Pensionato e arrestarono trentacinque studenti. Li deferirono alla sede della
Federazione Fascista, dietro il Teatro Ruzante. Il padre Messori vi si precipitò, ma fu accolto male,
minacciato. Non si scoraggiò e attese testardo, fidando nella Provvidenza, mentre già gli studenti
venivano caricati su un camion. Ed ecco che la porta si apre ed esce il Federale in compagnia del
sindaco di Venezia, un dottore in chimica della Sonia Viscosa, che era stato studente all'Antonianum.
Riconobbe il padre Messori, si salutarono come vecchi amici. Il Federale, informato chi fosse il padre
Messori, non potè non ascoltarlo e due ore dopo rilasciò i giovani.
Per tutti i mesi di marzo e aprile fu un continuo andare e venire di gente dal Pensionato. Non solo
vi trovarono ospitalità i cospiratori, i comandi militari provinciale e regionale, ma gruppi politici, ebrei
perseguitati, le spie filtrate dal Sud attraverso la linea del fronte. Si organizzarono le «staffette» e le
«corriere», che tennero i collegamenti con altre città, nascondendo i messaggi in scatole di fiammiferi,
tubetti di medicinali. Ma il padre Messori guardava lontano”.
Le conferenze di sociologia di padre Messori.
“Bisognava anche preparare il dopoguerra, diffondendo le idee su cui costruire l'ordine nuovo. Pio
XII proclamava periodicamente, con discorsi da tutti attesi, i grandi principi che dovevano reggere la
società all'indomani della pace. Bisognava diffondere, spiegare quei principi con un lavoro sistematico.
Nel febbraio del 1944 il Padre iniziò un corso di conferenze di sociologia cristiana agli universitari
interni. Fu pregato dall'ufficio diocesano di Azione Cattolica di ripetere il corso per i sacerdoti e i
religiosi della città dal 17 aprile al 4 maggio, con tre lezioni la settimana. Vi partecipò quasi sempre
monsignor Agostini, il quale volle che il corso raggiungesse anche gli altri sacerdoti della diocesi, gli
uomini cattolici e i laici più impegnati. Il 22 maggio il padre Messori, presente il Vescovo, apriva il
corso a Este, al mattino per il clero, nel pomeriggio per i laici. Intanto un gruppo di sacerdoti si
preparava a diffondere il messaggio sociale cristiano in altri centri della diocesi tra giugno e luglio.
Infine veniva creato un Centro di Studi Sociali per sacerdoti e vedeva la luce il Catechismo sociale del
giovanissimo don Guido Beltrame”.
Sede della missione militare inglese e delle brigate partigiane.
“Nel maggio del 1944 incominciò la fase della vera e propria organizzazione militare. Si installò
all’Antonianum una missione, alle dipendenze del comando inglese, N. 1 Special Force C.M.F., la quale
condurrà una sua difficile opera d'informazione e organizzazione. Qualche tempo dopo vi pose la
propria sede anche il comando del SIM regionale, diretto dallo pseudo ragionier Marta (colonnello
Valenti) e il Comando Militare Provinciale delle brigate dei partigiani D.C. «Pierobon», «Negri»,
209
«Chiesa». Queste tre brigate, guidate in un primo tempo da Lanfranco Zancan, quando questi passò al
comando regionale, furono affidate al giovanissimo Francesco Simioni. Egli, essendo delegato
diocesano degli studenti di Azione Cattolica, conosceva molti parroci e, attraverso i parroci, gli era
facile reclutare i giovani, che metteva a disposizione del Ranzato. Pensava anche a procurare le armi,
organizzando i campi di lancio. Quando giungevano i messaggi criptografici degli inglesi - «è cessata la
pioggia»; «il vento è spento»; «De Gasperi va in bicicletta» - partivano di notte, sempre con le silenziose
e fide biciclette, a fari spenti. Arrivati sul campo, rovesciavano le biciclette, innestavano la dinamo e,
facendo girare i pedali, mandavano i segnali luminosi. Dopo poco udivano il ronzio di un monomotore
e vedevano cadere masse scure dal cielo, che si affrettavano a ricuperare. Collaboravano con Francesco
Simioni il fratello minore e la madre, rimasta da poco vedova, la quale teneva le carte militari, pronta a
bruciarle al minimo segno di pericolo. La sera stendeva l'antenna della radio tra due terrazze, nel vano
tentativo di captare un collegamento con Milano. Dopo la fuga dei due figli nel gennaio del 1945, la
signora Simioni fu arrestata e interrogata per venti giorni e venti notti a Palazzo Giusti, senza che
riuscissero a strapparle una sola informazione.
Scrive il Simioni a Zancan: «Non vorrei sopravvalutarmi, ma credo che il Signore si servisse anche di
me per far pregare i ragazzi della «Negri»; ricordi che Zanocco stampò e io diffusi la «preghiera del
ribelle» di Teresio Olivelli. La brigata «Negri» passò attraverso quella terribile guerra partigiana senza
compiere il minimo atto di violenza e di crudeltà. Ricordo che nel settembre o nell'ottobre del '44
pigliammo quel disgraziato che rivelò alle Brigate Nere di Dolo l'ubicazione precisa di un nostro campo
di lancio (mi sembra il 255 bianco). Ci riunimmo in quattro ufficiali per giudicarlo e lo condannammo a
morte; ci sembrava di poterlo giudicare legalmente con l'autorità che veniva dal governo italiano del
sud. Tu ricorderai che lo graziammo dopo che un sacerdote lo aveva confessato e preparato alla morte.
Sentivamo che la vita è un dono di Dio e non avremmo mai avuto il coraggio di sopprimerla, anche se
quel povero ragazzo aveva riconosciuto la sua colpevolezza ed il suo tradimento».7
Francesco Simioni non partecipò alla vittoria finale. La nostalgia di quei dieci giorni di noviziato a
Lonigo gli era rimasta in fondo all'anima. Partì in gennaio, convinto che ormai era quella la strada per la
quale Dio lo chiamava, e si fece gesuita”.
Alcune azioni partigiane.
“Nell'agosto del 1944 si formò all'Antonianum il «Gruppo signorine», con il compito di portare
assistenza ai detenuti dei tedeschi e dei fascisti. In settembre ci si illudeva che l'avanzata degli Alleati
fosse ormai prossima. Perciò gli universitari crearono squadre di collegamento e accumularono armi ed
esplosivi. Il 22 settembre i fascisti irruppero all'Istituto di Farmacologia e attuarono molti arresti. Il
professor Meneghetti, sfuggito per miracolo, trovò ospitalità all'Antonianum. Fu qui che attese alla
versione delle famose Le avventure di Pinocchio, stampate in pochi giorni da alcuni stampatori murati per
precauzione in alcune stanze sotterranee della canonica di San Prosdocimo. All'Antonianum trovarono
scampo anche diversi patrioti sfuggiti ai sanguinosi rastrellamenti del Grappa. Tra questi un giovane
ferito a San Giorgio in Bosco, di cui giunse il messaggio a Padre Messori. Egli ricorse a don Orso, il
leggendario cappellano delle Brigate Nere, che gli trovò una «ballila» dei brigatisti. Partirono, padre
Messori vestito da gesuita, don Orso al volante, fino a una casa colonica di San Giorgio, dove
trovarono i contadini terrorizzati e muti. Ci volle del bello e del buono per convincerli che non avevano
nulla da temere. Finalmente indicarono il granaio, dove giaceva il ferito. Il padre Messori lo vestì da
novizio e lo caricarono sul sedile posteriore. A Curtarolo, sul ponte del Brenta, s'imbatterono nei
fascisti, che riconobbero don Orso: «Orso, Orso, si fermi. Fuori i documenti». Don Orso mise appena
la testa fuori del finestrino: «Stupidi, non vedete che sono il vostro cappellano? Non vedete la targa?» e
schiacciò sull'acceleratore. Il giovane fu medicato da un chirurgo il prof. Oselladore all'Antonianum,
rivestito e, attraverso il padre Cenere, spedito a Bergamo e, da Bergamo, in Svizzera.
In ottobre l'Antonianum diventa la sede dell’Ufficio documenti e timbri, dove si compilano carte
d'identità false, lasciapassare, fogli di congedo... Documenti segreti sono nascosti dappertutto. Il 4
novembre trova rifugio all'Antonianum anche il professor Zancan. Vi rimarrà fino al 10 gennaio 1945,
vestito da porcaro, nella casetta rustica in fondo al parco. Da qui continua a organizzare e a comandare
le brigate partigiane, con rischiosi incontri serali in una vecchia ghiacciaia sotto la montagnola. Vi
partecipano il professor Meneghetti, vestito da pittore, e diversi universitari.
In dicembre la Banda Carità sembra avere identificato nell'Antonianum il centro della cospirazione
antifascista e inizia una serie di perquisizioni guidate dai suoi ufficiali, talora dal Carità in persona.
Minuziosissima fu la prima, del 7 dicembre. Il padre Messori non ebbe il tempo di nascondere nulla.
Teneva nello studio, oltre alla radio trasmittente, lunghi elenchi di partigiani e i milioni arrivati dalla
Svizzera tramite Cacciavillani. Li mandavano il conte Cini e altri ricchi fuorusciti perché venissero
210
distribuiti ai vari reparti. Il padre Messori guidò docilmente i fascisti per tutto l'Antonianum, dovunque
vollero entrare. Giunti davanti al suo studio, giocò d'azzardo:
«Qui sto io. Vogliamo fare una visita?» «Non occorre, non occorre», rispose pronto l'ufficiale. Il Padre
respirò: gli era andata bene ancora una volta.
Dopo il ferimento di Pighin e l'arresto dei principali componenti il Comitato di Liberazione Regionale,
la Banda Carità compì una nuova perquisizione nella notte tra il 7 e l'8 gennaio 1945. Questa volta il
padre Messori fu preavvertito -«Vengono per prenderla» - e passò la notte dalle suore Canossiane di via
Rudena, lasciando l'Antonianum nelle mani di padre Colombo. Arrivarono. Solita fuga della «brigata
lepre». Andarono a colpo sicuro: alla stanza 35, dove credevano di trovare il giovane Girardi. Ma
Girardi era partito il giorno prima. Ci dormiva Belloni che, al segnale convenuto, fuggì dalla finestra. I
fascisti trovarono la finestra aperta, il letto sfatto... Intervenne un giovane studente gesuita a dare una
spiegazione: «Sapete, non sempre i camerieri riescono a fare tutti i letti». Parevano persuasi. Ma
nell'andarsene uno di loro mise la mano tra le lenzuola e sentì caldo. Lo studente gesuita fu arrestato
immediatamente e portato a Palazzo Giusti. Vi rimase dieci giorni e si comportò con molto coraggio e
dignità con i fascisti. Riuscì a far coraggio anche agli altri detenuti. Lo liberò, al solito, il padre Messori,
questa volta ricorrendo a due signore altolocate, di fama equivoca, amiche del Carità e di un certo
Trentatrè. Forse lusingate dall'importanza che il Padre attribuiva loro, interposero i loro buoni uffici se possiamo dire così - e lo studente gesuita ritornò a casa. Anzi, quell'episodio offrì nuove occasioni
per intensificare l'opera di assistenza ai detenuti di Palazzo Giusti: un compito quanto mai rischioso.
In quegli stessi giorni avvenne anche la fuga di Lanfranco Zancan. Lo avvisò del pericolo che gli
sovrastava il padre Messori stesso la notte del 9 gennaio: «Tuo fratello Giorgio, Ponti e Meneghetti
sono sotto tortura - disse con due occhi di bragia - c'è di più. Tuo fratello Giorgio, che tanto ti
assomiglia nella taglia e nel modo di camminare, ha dovuto passare e ripassare di fronte alle SS di
Palazzo Giusti. C'è l'ordine di spararti a vista». Lo Zancan decise di lasciare immediatamente Padova in
bicicletta, di portarsi a Milano, per mettersi agli ordini del generale Cadorna. Prima però chiese di
incontrarsi con Marcelle Olivi, il giovane volontario della libertà dai «due occhi di galantuomo», sceso
dal Cansiglio per prendere il suo posto, e con i familiari. L'incontro indimenticabile avvenne nella casa
dei Filippetto, vecchi amici di famiglia, a due passi dall'Antonianum.8
L'8 febbraio 1945, anniversario della prima dimostrazione antifascista al Bò, gli universitari
dell'Antonianum distribuirono il secondo «Manifesto Meneghetti». Nei giorni seguenti lanciarono il
famoso foglietto a stampa: «Padovani! In via San Francesco 55A funziona la camera di tortura. Viva il
Duce! Viva il fascismo!» In quegli stessi giorni, nella stanza numero 7 al primo piano dell'Antonianum,
funzionava in pieno il Comando di Zona Militare, con tutti i servizi di controspionaggio, informazioni,
lancio”.
Eroe del silenzio.
“Il 24 marzo avvenne la cattura e l'uccisione di Corrado Lubian. Veniva da fuori città in bicicletta e
aveva l'appuntamento davanti al Museo. Ci fu una soffiata e trovò i fascisti. Tentò la fuga, ma fu ferito e
il sangue servì da traccia per gli inseguitori. Riuscì a raggiungere l'Antonianum ed entrò nella stanza di
padre Poi che, intuita la situazione, lo fece inginocchiare, fingendo di confessare un giovane qualsiasi.
Fu inutile: il sangue lo denunciava. Lo portarono sui gradini dell'entrata e gli ingiunsero di parlare. «Ho
giurato di non tradire» rispose. Lo colpirono alla nuca e lo abbandonarono in coma, per molte ore”.
L’insurrezione armata a Padova.
“Con l'aprile del 1945 incomincia la terza fase della lotta partigiana in Padova: quella della soluzione
finale. Per tutto il mese s'intensificarono i preparativi per l'insurrezione armata. Uomini e armi
affluirono con maggiore intensità all'Antonianum, nonostante l'aumentato controllo della polizia
fascista. Il 15 aprile il Comando Regionale Militare pose il suo quartiere generale all'Antonianum, nella
stanza numero 20, che dava sul parco. Lo comandava il generale Galli col nome di battaglia di Pizzoni.
Furono studiati i piani di occupazione della città e si stabilirono i coordinamenti tra i diversi gruppi di
patrioti della città e della periferia. Incaricato di questi contatti era il professor Franceschini, che
rischiava la vita di continuo. Il 20 aprile il personale del Ministero dell'Educazione9 fascista lasciava
definitivamente l'Antonianum. Lo sfacelo dell'esercito tedesco era nell'aria, ma i tedeschi ancora reagivano con crudeltà a ogni provocazione”.
211
Padova venerdì 27 aprile: la resa dei fascisti.
“Finalmente il 26 aprile, venerdì, il professor Franceschini consegnò al padre Messori un messaggio
dentro un flacone di formitrol: l'insurrezione era prossima: si trattava di ore. Messori, don Francesco
Dalla Zuanna senior e il parroco del Torresino don Tessarolo si recarono dal vescovo Agostini per
avvertirlo. Egli li pregò di fare un ultimo tentativo di accordo presso l'alto commissario Pizzirani, il più
moderato dei gerarchi fascisti. Il padre Messori gli prospettò l'alternativa: o un inutile spargimento di
sangue, o la resa. Il Pizzirani parve convincersi, ma, dopo essersi consultato col prefetto Menna, che
aveva origliato alla porta, fece marcia indietro. Non poteva decidere se prima non arrivava una telefonata sollecitata da Milano. In realtà mandò a dire all'Agostini d'impedire l'insurrezione o i tremila
tedeschi e le Brigate Nere avrebbero compiuto una carneficina. Il Vescovo si allarmò e cercò di
convincere i capi partigiani a desistere.10 Intanto i rappresentanti dei vari partiti politici si riunivano
all'Antonianum.
Quella fu una notte d'angoscia. Il 27, sabato, Pizzirani fu informato che le campagne dell'alto
padovano erano insorte, gli Alleati iniziavano l'attraversamento dell'Adige a Badia Polesine. Allora
sollecitò un incontro nel convento attiguo al Santo per trattare la resa delle forze fasciste di tutta la
regione. I prigionieri di Palazzo Giusti sarebbero stati scarcerati non dal maggiore Carità, che era
fuggito, ma del tenente Castaldelli, il quale chiese come contropartita un salvacondotto per sé e per i
suoi uomini. In cambio della propria incolumità i fascisti consegnarono ai partigiani un carro armato
tedesco, che si rivelò efficacissimo con la sua sola presenza per scoraggiare gli ultimi nuclei di
resistenza. Alle ore 20 le trattative erano terminate.11
Seguì un'altra notte febbrile, in cui dall'Antonianum partirono le squadre di patrioti a rastrellare
materiale e uomini dalle caserme fasciste. Nel cortiletto della cucina furono ammucchiati ben dieci
quintali di tritolo”.
Padova sabato 28 aprile: la resa del presidio militare tedesco.
“Intanto, la mattina del 27 aprile, anche il colonnello Von Armin, capo di Stato Maggiore della 26°
Divisione Corazzata, si era fatto vivo per telefono, chiedendo le condizioni di resa. Su proposta del
dottor Saggin il CLNRV mandò monsignor Dalla Zuanna a prendere contatto col Colonnello alla
Platzkommandantur. Ma nel tragitto il sacerdote fu ferito e portato all'ospedale. Non vedendo arrivare
nessuno, Von Armin stesso, con tre ufficiali superiori, si recò all'Antonianum di notte, ma non si
raggiunse alcun accordo. Il 28 mattina fu catturato il generale Von Alten, comandante della piazza di
Ferrara, col suo Stato Maggiore, mentre era di passaggio per il centro della città. Catturato fu pure il
generale Von Schering. I due consideravano ormai inutile qualsiasi resistenza. Si facevano coraggio
tracannando cognac e gridavano: «Noi stare con italiani, non con americani». Il padre Messori assegnò
loro una stanza ciascuno.
Ma poco prima delle 9 di quel 28 aprile ecco che le forze armate tedesche della Platzkommandantur,
forti ancora di uomini e armi, sferrano un attacco improvviso, con nutrito fuoco di mitragliere pesanti,
da Pra' de la Valle in direzione dell'Antonianum. Il fuoco dura circa un'ora. Racconta il padre Messori:
«Alle 8,30 l'atrio dell'Antonianum era pieno di eroi che volevano arruolarsi nei partigiani. Alle 9 meno
10, quando cominciò la sparatoria, l'atrio si vuotò d'incanto in meno di un minuto. Per poco non
scappava anche il Pizzoni. Qualcuno rispose al fuoco con l'unica mitragliatrice, che dopo duecento
colpi s'inceppò». I tedeschi ferirono un anziano e fu il fratel Mauro Sala a esporsi per ricuperarlo e curarlo. Ma quello fu l'ultimo colpo di coda dei tedeschi. Alle 10 tutto ritornava tranquillo. Von Armin si
lasciò convincere a ritornare all'Antonianum a trattare la resa. Le condizioni accettate dai tedeschi
furono: 1) Disarmo completo delle truppe tedesche stanziate a Padova; 2) Vietato il passaggio di truppe
tedesche per la piazza di Padova; 3) Limiti della piazza e transito eccezionalmente permesso lungo le
strade Bassanello -Pontecorvo - Facciolati - Palesa - Terranegra -Camin; 4) Nessuna distruzione di
impianti, strade, ponti, ecc.”.
Eroe o traditore?
“Durante le trattative giunse un tenente delle SS che, dopo un alterco con Von Armin, lo tacciò di
tradimento e se ne andò. Il Colonnello, un distintissimo viennese, capì allora la sorte che lo attendeva,
ma non per questo si ritirò dal compiere quello che riteneva fosse il suo dovere di uomo, prima che di
soldato. Firmò la resa alle 12.20 e accettò di portarla personalmente allo Stato Maggiore. Disse solo: «So
che mi fucileranno». Il che avvenne esattamente dopo un processo sommario, a Tencarola, dove
incontrò i tedeschi.
212
Però i tedeschi stettero ai patti e iniziarono l'attraversamento di Padova secondo il tragitto fissato.
Solo alle 19 ci fu una sparatoria presso Pontecorvo: cinque persone, affacciatesi alle finestre della
Clinica Ostetrica a curiosare, furono uccise.
Dall'Antonianum erano partite le staffette portaordini alle brigate Nord e Nord-Ovest del Veneto.
Fu in questa missione che caddero i giovanissimi Giovanni Vicentini e Beppino Smania.
La ritirata tedesca continuò il 29 aprile. Alle 9.16 dalla periferia incominciarono a sparare colpi di
cannone mirando all'Antonianum e aggiustando progressivamente il tiro. Ma gli Alleati erano ormai alle
calcagna. A mezzanotte del 29 entrano in Padova le prime truppe americane ed esplode la festa
popolare.
__________
(1) A. De Gasperi, Lettere sul Concordato, Morcelliana, Broscia, 1970, pp. 63 s.
(2) Renato Moro, La formazione della classe dirigente cattolica, (1929-1937), II Mulino, Bologna, 1979, p. 70, nota 19.
(3) G.E. Fantelli, La resistenza dei cattolici nel Padovano, Federazione Italiana Volontan della Libertà, 1965, p. 47.
(4) Nipote di padre Giulio.
(5) II noviziato dei gesuiti.
(6) G.E. Fantelli, op. cit., pp. 224.
(7) G.E. Fantelli, op. cit., pp. 224 s. Il reo aveva ammesso: «Sono uno sporco traditore. Merito la morte».
(8) Pierantonio Gios, Un Vescovo tra Nazifascisti e Partigiani. Monsignor Carlo Agostini vescovo di Padova (25 luglio 1943-2
maggio 1945), Istituto per la Storia Ecclesiastica Padovana, Padova, 1986, p. 131.
(9) II Ministero fascista dell'Educazione corrisponde all'attuale Ministero dell'Istruzione.
(10) Pierantonio Gios, op. cit., p. 155.
(11) Questo episodio ce lo raccontò il fratel Mauro Sala. Il Campo Tre Pini e tutta la scuola di Religione in quei
giorni brulicavano di partigiani, di prigionieri, di feriti, di depositi. In mezzo a tutta quella confusione giunse un
carro armato, che si collocò al centro, con la sua sentinella tedesca armata di tutto punto e fedele al dovere di
custodirlo. I partigiani lo circondarono celiando per un po’, poi gli fecero capire di deporre la pistola-macchine e
di mettersi con gli altri. Tra questi c’era un tedesco gravemente ferito. Il fratel Sala, che era infermiere, si avvicinò
per curarlo. Ma ecco arriva un partigianone con il mitra puntato e gli ordina: Si tolga, questo lo guarisco io”. Il
fratello prese tempo: “Io prima faccio il mio dovere: lo curo. Poi tu farai quello che vuoi”. L’altro si mise in
disparte, in attesa. Il tedesco sbiancò in viso e tremava. Allora il fratel Sala si rivolse di nuovo al partigiano: “Non
vedi che è febbricitante? Faresti meglio a portagli un po’ d’acqua da bere”. Lui esitò, torvo, poi si allontanò.
Ritornò dopo un poco con una ciotola di vino. Il tedesco non si fidava. Allora il fratel Sala bevve per primo e ne
dette al malato. Ora finalmente il partigiano parlò: i tedeschi gli avevano ucciso due nipotini e aveva giurato di
uccidere venti tedeschi. Ma non era possibile uccidere un ferito dopo averlo aiutato a sopravvivere. Se ne andò.
Il sogno compiuto.
Il comandante inglese del Special Force -C.M.F., in data 24 settembre 1945, rilasciò un attestato di
benemeranza al padre Messori, che aveva «indefessamente prestato la sua intelligente, coraggiosa,
validissima opera alla causa della libertà».
Anche i rifugiati gli donarono una pergamena dettata in elegante latino dal professor Ettore
Bolisani. Era sottoscritta dai professori Alberto Trabucchi, Antonio Maria Bettanini, Carlo Esposto,
Aldo Checchini, Norberto Bobbio, Rolando Quadri, Gaetano Bompiani, Luigi Carraro, Giuseppe
Bettiol, Ascanio Pagello, Lionello Rossi, Achille Roncato, Gaetano Pietra, Giuseppe Gola, Antonio
Rostagni, Francesco Repaci, Michele Arslan, Lanfranco Zancan.
Il Comitato Triveneto dell'A.N.P.I. fece collocare, nell'atrio dell'Antonianum una lapide dettata dal
professor Meneghetti:
“In questo Istituto
dedicato alla severità e alla nobiltà degli studi
trovarono
durante i venti mesi della cospirazione
213
asilo e assistenza fraterna
perseguitati politici e volontari della lotta
per la libertà della Patria
________
Sede del Comitato Regionale
del Corpo Volontari della Libertà
nei giorni della gloriosa insurrezione del Veneto
qui si conclusero
le epiche giornate del riscatto
__________
Nell'annuale della Liberazione
avvenimenti e date ricordino
le generazioni studiose
__________
Padova
8 settembre 1943 25/29 aprile 1945.
A cura del Comitato Triveneto dell'A.N.P.I.».
Accanto a questa lapide ne venne collocata un'altra il 12 giugno 1960, con incisi i nomi di tutti i
caduti delle due guerre. Se la prima guerra mondiale aveva richiesto il sacrificio di 23 giovani vite
dell'Antonianum, la seconda ne volle 56, tra i quali tre medaglie d'oro: Antonio Cantele, Ivo Scapolo
dell'XI Alpini e Vittorino Zanibon del VII Alpini battaglione Feltre. Altri furono vittime della barbarie
nazi-fascista. Le madri di Cantele e di Scapolo fecero da madrine allo scoprimento della lapide.
I nomi di quegli stessi figli indimenticabili erano già stati collocati anni prima, incisi su lamina
d'argento, all'altare di San Giuseppe. Davanti vi splendeva perenne una lampada.
La vita continuava. L'Italia, sia pure faticosamente, si riprendeva. Gli universitari rifluivano di
nuovo numerosi all'Antonianum. Ai vecchi problemi se ne aggiungevano dei nuovi, che bisognava
ugualmente affrontare.
(Integralmente tratto dal libro: L’Antonianum di Padova di P. Alessandro Scuranti S.J.. Tip. Bolzanella , Padova
30 settembre 1987, Stampato a cura della Presidenza del Pensionato Antonianum).
Padre Carlo Messori Roncaglia.
214
Attestato rilasciato dalle
autorità militare anglo-americane
a Padre Carlo Messori Roncaglia.
215
L’Istituto Antonianum a Padova. (Foto 2004).
La stanza dell’Antonianum dove i tedeschi, del presidio di Padova,
firmarono la resa. (Foto del 2004).
216
Il carro armato tedesco sottratto ai fascistii dai partigiani è stato condotto, come trofeo, in via 8 febbraio 1948,
di fronte all’ingresso dell’Università a Padova. (Foto maggio 1945).
LA TRATTORIA DORIO: UNA TRADIZIONE DAL 1865.
Testimonianza scritta da Giovanna Dorio (classe 1940), Vigodarzere il 21.11.2003.
“Nella trattoria di mio padre ma ancora prima di mio nonno e di altri congiunti, felici di tramandare
nel tempo ciò che costituiva la tradizione irrinunciabile di famiglia avviata nel lontano 1865, c’era un
autentico appassionato amore per la buona cucina che rese famoso, nel tempo, il nostro pur modesto
locale per le specialità apprezzate da una soddisfatta clientela sempre affezionata; dunque via col risotto
di quaglie e tagliatelle casareccie condite da un ragù superbo. Ancora: selvaggina marinata nel vino
cosparsa di erbe odorose e spezie aromatiche, cotta con maestria e sublimata da un salmì inimitabile.
Poi la guerra, la carestia di alimenti, la posizione della trattoria vicino alla stazione ferroviaria di
Vigodarzere e i bombardamenti aerei hanno impresso nella mia memoria episodi indelebili della mia
infanzia”.
Fughe notturne e un rifugio bellico particolare.
“Ricordo i miei sonni interrotti dal sinistro ululato delle sirene, qualcuno che mi scuoteva
nervosamente avvolgendomi in una coperta e nottetempo, assieme ad altri familiari, mi portava altrove.
Altre sortite notturne: accovacciati su un carretto trainato dal nostro cavallo Rondeo, inebetiti dal terrore
a cercare salvezza non si sapeva dove e come, con l’onnipresente “Pippo,” che spadroneggiava nel
cielo annunciandosi con il brontolio monotono del suo aereo spia uà, uà, uà ... Non ho dimenticato il
senso d’angoscia, il freddo, il buio della notte squarciato da lampi accecanti che incendiavano il cielo e
poi i sibili, i boati tremendi delle bombe che sconquassavano e distruggevano e chissà, purtroppo,
quanti venivano uccisi .
Come non ricordare le notti agitate, ed insonni trascorse seduta sull’impiantito del campanile di
Vigodarzere, trasformato per l’occasione in rifugio antiaereo?
C’era gente dappertutto: anziani che pregavano, adulti che sospiravano, bambini che frignavano,
mamme che li coccolavano per cercare di farli addormentare; e come se non bastasse anche le pulci
217
concorrevano a tormentare la gente già provata nel morale. C’erano persone sistemate sopra di noi
persino su una specie di ballatoio fatto approntare dall’arciprete don Giulio Rettore”.
Giù dalla scarpata.
“Un giorno mio padre, dopo che la sirena si era annunciata, mi sistemò sulla canna della bicicletta e,
pedalando come un forsennato, raggiunse l’attuale via Cà Zusto. A causa dello spostamento d’aria
causato dallo scoppio di una bomba, fummo scaraventati con inaudita violenza, bici compresa, in un
profondo fossato situato ai margini della strada stessa. Ci ritrovammo un po’ malconci, ma anche per
quella volta la pelle fu salva”.
Bombardamenti.
“Nell’autunno del 1944 si intensificarono gli attacchi dei caccia bombardieri; gli obiettivi: il ponte
ferroviario, il Magazzino dell’Aeronautica e la stazione ferroviaria di Vigodarzere.
Don Giulio annota nella cronistoria della parrocchia: “16 novembre 1944, ore 15.00: nove apparecchi
pesanti sganciano una trentina di bombe, di grosso calibro, sul Magazzino Aeronautico … con esso
sono colpite seriamente altre case di via Roma di Pilli Elisa, di Mimo Natale e dei fratelli Dorio”.
Un mese dopo, continua la relazione scritta don Giulio Rettore “la popolazione di via Roma, al
completo, abbandona le case e si sistema presso altre famiglie”.
Sfollati.
“Anche i componenti della mia famiglia, una trentina tra piccoli e adulti, trovò ospitalità a Saletto in
tre punti diversi: chi da Coea, chi da Strassa e una decina, tra cui la sottoscritta, presso la boarìa (stalla) del
signor Nevio Mason in via Busiago. Il signor Mason era legato da una forte amicizia con mio padre e
acconsentì anche di ricoverare un paio di bovini e due cavalli. Ci fu pure concesso l’uso del granaio
dove appendemmo dei salami e fu anche il nostro deposito per qualche sacco di grano.
Nell’ambiente della stalla dei cavalli (che furono trasferiti nella stalla dei bovini) fu sistemato un
letto matrimoniale e qualche altro giaciglio di fortuna, la culla della cugina Maria fu messa presso la
greppia dei cavalli. Fu collocata una stufa per cucinare, quel tanto che bastava alla sopravvivenza, per
condividere gli alimenti con gli altri parenti sfollati nelle vicinanze.
Non c’era da lamentarsi: quella stalla ci riconduceva con grande realismo al presepe, e fu lì che
trascorremmo il Natale del 1944”.
Bombe dirompenti.
“Annota don Giulio nella cronistoria: “25-26 febbraio 1945, grosse bombe furono lanciate in più
luoghi; la trattoria Dorio fu completamente distrutta”.
In verità le bombe che colpirono lateralmente la trattoria furono due, collassando l’edificio che si
accartocciò su se stesso sprofondando in un vasto cratere.
Permane lucido e costante, nella mia mente il ricordo di quel gelido mattino di fine febbraio del 1945,
quando i miei occhi di bambina frugarono indugiando tra le macerie ancora fumanti convinti di veder
comparire da un momento all’altro il mio cavallino a dondolo di legno e di cartapesta dal portamento
fiero e slanciato, il più amato compagno dei miei sogni. Accanto a me due familiari tristi e sconsolati,
intenti ad osservare le rovine di ciò che prima di allora costituiva il segno tangibile di un legittimo
orgoglio, premiato dopo anni intessuti di fatiche, sacrifici e instancabile operosità.
Testimone di tanto sfacelo una palma polverosa e solitaria, scampata. chissà come a contemplare la
scena, quasi a meditare sulla cecità e stupidità della guerra”.
La visita delle SS (1) (2)
“Il mattino della domenica 29 aprile del 1945 stavo giocando con una cuginetta all’esterno della
fattoria, allorché mi accorsi che dal fondo della stradicciola sterrata, un gruppetto di soldati tedeschi,
quattro o forse cinque, stava avvicinandosi. Intuito il pericolo, rientrai immediatamente per avvertire i
famigliari gridando: “I tedeschi, xe qua i tedeschi” !
Il bovaro dell’azienda, sapendo che i soldati in ritirata razziavano quanto più potevano, aveva
provveduto qualche ora prima a prelevare il cavallo Rondeo dalla stalla; nascondendolo dietro i pagliai. I
218
militari entrarono strafottenti e senza convenevoli; al collo portavano una strana collana ricadente sul
petto, bardata di proiettili luccicanti incastonati in bell’ordine come fossero gemme.
Ci fecero addossare con le braccia alzate alla parete che fronteggiava le greppie, quindi si misero a
controllare ed ispezionare gli ambienti, esprimendosi con un linguaggio dai toni duri e aspri a noi
sconosciuti. Giunti nel granaio situato sopra la stalla, adocchiarono le stanghe da cui pendevano
soppresse e salami e caricarono la refurtiva nel calesse dello zio Amedeo. La zia Antonia gesticolando
scongiurava i soldati a non privarci di tutti gli alimenti e piangendo indicava noi bambini. Un soldato
reagì con rabbia estrasse la pistola e la puntò al petto della zia minacciandola con frasi incomprensibili,
mente la cugina Elvira si interpose a calmare il militare. Durante il saccheggio nel granaio avvenne
qualcosa che ci ha stupiti; con mossa fulminea, sviando l’attenzione dei commilitoni che seguivano con
zelo l’operazione, il soldato che arraffava e buttava giù i salami, ne sottrasse alcuni per noi lanciandoli in
un angolo del deposito. Poco prima lo stesso giovanotto per lenire i morsi della fame si era
accontentato di una fetta di polenta nella nostra cucina. Infine, i soldati, prelevarono la cavallina Stella,
salirono sul calesse e velocemente si allontanarono”.
L’arsenale del partigiano.
“In seguito fui informata dal bovaro G.V. stesso, militante partigiano, che nella sua cameretta
ubicata a qualche metro dal nostro alloggio, sotto l’asse che sosteneva il pagliericcio aveva nascosto un
discreto arsenale: qualche fucile, alcune mitraglie e affini; ecco perché l’uomo, all’arrivo dei tedeschi,
aveva un motivo in più per defilarsi, scavalcando precipitosamente la soglia della finestra per sparire nei
campi. Mi sono chiesta tante volte se i soldati avessero scoperto la … santabarbara, si sarebbero limitati a
sequestrare le armi o ci avrebbero uccisi?”
Il ritorno.
“Il pomeriggio di domenica 29 aprile, ultimo giorno di guerra nei nostri paesi, assieme a tutti i
famigliari, lasciai il rifugio della casa rurale del signor Mason e al seguito del cavallo Rondeo
percorremmo alcuni tratti dell’alveo della Piovetta in secca e con molta accortezza ed altrettanta
circospezione facemmo ritorno a casa. Casa? Quale casa! Non esisteva più; e quella dei parenti sulla riva
del fiume Brenta era seriamente compromessa e resa insicura dalle bombe sganciate a profusione nelle
molte incursioni aeree con l’obiettivo del ponte della ferrovia. Ancora una volta ci separammo e
andammo ad abitare chi da Toto e altri da Amabile Zin alias Màbie Miassa”.
La ricostruzione.
“I componenti della mia famiglia si occuparono immediatamente della ricostruzione della abitazione
e della trattoria, recuperando i mattoni tratti dalle macerie. Le donne dall’alba al tramonto scalsinavano ee
piere (toglievano i residui di calce dai mattoni), sotto la direzione di un caro amico di famiglia Nossente
Cero (Innocente Pirazzo) muratore di professione che per la situazione di emergenza si era trasformato
anche in geometra e responsabile dei lavori. Il capomastro, Nossente Cero, ci intimava: imperiosamente
scuotendo, nervosamente la fune, della carrucola e ci ordinava: Malta, piere, tocchi!”. Ma quando
udivamo il tintinnio della campanella della stazione ferroviaria seguita dal martellare cadenzato delle
sbarre del passaggio a livello, che annunciava il passaggio di un treno tradotta militare, quelli per noi
erano segnali prodigiosi, un appuntamento con la Provvidenza. I soldati inglesi, infatti, dal convoglio
lanciavano scatolette di carne, di tonno, gallette, cioccolato e Nossente Cero doveva attendere”.
La tragedia della guerra.
“Come tutte le guerre, anche questa, si accompagnò ad eventi crudeli a vicende dolorose, tragiche e
orrende, da generare cuori imbarbariti dal risentimento, dall’odio, dallo spirito di rivalsa e di vendetta.
Anche amici di antica data furono trasformati in implacabili delatori. Ciò bastava a disperare e a credere
che la bontà non era più iscritta nel cuore degli uomini”.
La bontà è sempre operante.
“Invece, quella domenica di cui si parlava sopra , ultimo giorno di guerra, ha dimostrato a me e alla
mia famiglia che la bontà resiste alle miserie di cui siamo capaci e si fa strada anche nei più terribili
219
frangenti. Lo ha testimoniato quel soldato delle SS: era affamato, braccato, sconfitto, ma non per
questo meno pericoloso per la consapevolezza della sua vulnerabilità e disperazione, tuttavia non esitò a
compiere quel gesto umanissimo che pare strappato da una pagina del Vangelo”.
__________
(1) Gli affamati militari delle SS, negli ultimi tre giorni della guerra, entrarono in molte abitazioni di Saletto, Tavo,
Terraglione e Vigodarzere dove gli abitanti furono messi al muro, razziarono alimenti, indumenti, bovini e carri
agricoli (N.d.a.) .
(2) Anche le truppe napoleoniche che occuparono il nostro territorio requisirono. Si legge nel libro:
“SAGGI STORICI CAMPOSAMPIERO” di don Luigi Rostirola:
La requisizione delle argenterie delle chiese della nostra podestaria fu effettuata dal Municipalista Antonio
Gennari nel maggio e giugno del 1797.
Esibisco l'elenco parziale della argenteria requisita:
Mejaniga
Loreggia
Codiverno S.
Eufemia
Campodarsego
Vigodarzere (dieci lampade)
Camposampiero
S. Michele delle Badesse
Marsango
Fratte
Tavo una lampada.
S. Giustina
S. Marco di C.S. Pietro
Reschìgliano
S. Giorgio delle Pertiche
Pionca
once
once
once
once
once
once
once
once
once
once
330
491
232
116
176
432
1160
416
332
84
once
once
once
once
once
266
448
66
298
270
La boaria della famiglia Mason in via Busiago a Saletto.
(Foto del 2003 della collezione di Giovanna Dorio).
220
Da sinistra: la trattoria Dorio ridotta in un cumolo di macerie. A destra: la pianta di palma
rimasta incolume dal bombardamento (Foto del 1945, della collezione di Giovanna Dorio).
La trattoria Dorio prima del bombardamento.
221
DALL’ ALTRA PARTE DELLA LINEA GOTICA
Un partigiano valoroso.
Testimonianza resa da Pasquale Carraro (classe1924), (1) Vigodarzere il 28. 07. 2002.
“L’otto settembre 1943 ero in una caserma di Bologna a servizio del Regio Esercito Italiano del 6°
reggimento del Genio Militare. Rimasti senza ordini, a piedi ritornai a casa; allora abitavo nella zona
dell’Arcella di Padova. Dopo alcune settimane la Guardia Nazionale Repubblicana ( ex milizia fascista)
mi cercò a casa. Non trovandomi convocarono mia madre nel distretto militare di Padova e fu reclusa
finché mi presentai; fui inviato a Badia Polesine, nell’edificio delle scuole elementari, e lì dovetti
scegliere: o l’internamento in un campo di prigionia in Germania oppure di lavorare per loro nel Genio
Pontieri in Toscana a Montevarchi (AR). Giunto in Toscana mi incaricarono, assieme ad altri tre, di
trasportare il vettovagliamento ai vari gruppi di operai della Todt che lavoravano nei diversi cantieri
della zona. Eravamo alloggiati in una fattoria agricola gestita a mezzadria (2). La famiglia del mezzadro
era composta dal capofamiglia Angiolino Butti, dalla moglie Gina Bagnolesi e dai figli. Si trasportava
solo di notte, senza lumi, per evitare i bombardamenti di “Pippo”, l’aereo ricognitore anglo-americano.
Appena buio ci recavamo al magazzino dei tedeschi, ci consegnavano gli alimenti e con un carretto
tirato da due cavalli iniziavamo il giro di consegne nei vari cantieri.
Una sera, vicino al camposanto di S. Giovanni Valdarno, incontrammo dei partigiani che operavano
in quella zona, il comandante era un medico di Udine e si chiamava Virdis. Ci proposero di prelevare
dal magazzino tedesco alcune casse di munizioni. Nelle sere seguenti, nel magazzino rischiarato da un
lumino ad olio, finché il soldato tedesco pesava gli alimenti, uno di noi prelevava delle casse di
munizioni e le nascose nel carretto; ci andò bene, per alcune sere, poi si accorsero degli ammanchi.
All’alba la signora Gina ci avvisò che soldati tedeschi avevano circondato l’azienda agricola. Riuscii a
passare nel fienile e infilarmi tra il muro e il fieno. La famiglia Butti e altre persone furono messe al
muro perché non collaboravano con i tedeschi.
Perquisirono tutta l’azienda agricola e catturarono i miei tre compagni, vennero anche nel fienile e
piantarono la forca nel fieno, dove ero nascosto, senza colpirmi. I miei tre compagni furono subito
allineati al muro della casa rurale e fucilati.
I soldati tedeschi presidiarono per tre giorni la fattoria. La signora Gina, qualche volta, con una
cesta mi portava degli alimenti e una bottiglia di acqua. Per il contatto del fieno e per lo stress tutta la
pelle del mio corpo era diventata rosso sangue per una grave alterazione dermatologica.
Tolto l’assedio, la signora Gina mi fornì degli abiti civili e mi accompagnò all’ospedale dove mi
spalmarono una pasta medicinale gialla.
Durante la degenza fui contattato dai partigiani e appena guarito andai con loro nelle colline toscane e
mi arruolai nel nuovo Corpo Italiano di Liberazione. Risalii l’Italia accanto alle truppe anglo-americane
di Liberazione e il 25 aprile 1945 combattei negli argini del fiume Po.
Dal termine della guerra sino a tutto l’anno 1946 feci parte della polizia militare alleata, operando nel
Trentino con compiti di ordine pubblico. Nel 1947 ritornai a casa all’Arcella di Padova ed iniziai a
lavorare nelle officine “Breda” di Meianiga di Cadoneghe (Padova). Abito a Vigodarzere dal 1952.
L’amicizia fra la mia famiglia e quella della famiglia Butti (che mi ha salvato la vita) è ancora molto
forte”.
__________
(1) Pasquale Carraro è stato consigliere comunale di Vigodarzere per 38 anni consecutivi (dal 1954 sino al 1992),
per 10 anni segretario dell’Associazione dei Donatori di sangue e per oltre 20 anni è stato presidente dell’Anpi e
dell’Associazione Combattenti e Reduci di Vigodarzere.
(2) Tipo di contratto agricolo: il mezzadro lavorava coltivando l’azienda e divideva a metà le spese e i ricavi col
proprietario (questo tipo di contratto è stato abrogato dalla legge De Marzi – Cipolla nel 1971).
L’epopea dei soldati del nuovo Esercito Italiano.
222
“Subito dopo il passaggio delle truppe anglo-americane, moltissimi partigiani si aggregarono alle
truppe di liberazione. Inizialmente furono circa 5.000 e a gennaio del 1945 il nuovo esercito italiano era
salito a 50.000 unità, e si erano formati i Gruppi
di combattimento Mantova, Legnago, Cremona,
Folgore e il Friuli sotto il comando del generale
americano Alexander. Da tutto ciò era sorto il
nuovo Esercito italiano di Liberazione che, iniziò
la sua formazione accanto alle truppe alleate
anglo-americane e si chiamò C.I.L. (Corpo
Italiano di Liberazione). Del gruppo Friuli una
delle azioni più rilevanti, durante l’offensiva di
primavera, fu l’apertura di una breccia nel
munitissimo sistema difensivo tedesco con la
costituzione di una testa di ponte oltre il fiume
Serio, tra Riolo dei Bagni e Cuffiano. In stretta
collaborazione con il Gruppo Folgore, avanzante
alla sua sinistra, il Gruppo Friuli affrontò con
intrepido slancio dei suoi fanti gli aspri
combattimenti di Grizzano, Casalecchio dei
Conti, Palazzo Coccopane e poi avanzò sino a
Bologna, dove entrò il 21 aprile, accolto
entusiasticamente dalla popolazione insieme al
Gruppo Legnano chi vi giungeva per altra
direzione”
(Tratto dal libro: “ L’Esercito Italiano” Ed. dello Stato
Maggiore, Ufficio Storico. Roma 1982).
Attestato rilasciato a Pasquale Carraro dal Comando anglo- americano.
Il fraterno incontro avvenuto a S. Giovanni Valdarno (Firenze) fra i coniugi Butti, che salvarono dalla fucilazione
Pasquale Carraro e i coniugi Carraro.
Da sinistra: Angiolino Butti, la moglie Gina Bagnolesi, Pasquale Carraro con la moglie Emma Bassani.
(Coll. fot. di Pasquale Carraro del 1975).
Mangiavo con un tesserino regalatomi da un soldato delle SS.
223
Documento:
“Giovanni Fiorenzato, matricola 65697, residente a Vigodarzere (Padova), classe 1915, soldato artigliere. E’ preso
in simpatia da un soldato delle SS. Dopo aver rischiato di morire per sabotaggio, sarà trasferito nel Lager di Mittelbau Dora nella zona di Nordhausen dove, all’interno delle colline, stavano progettando le armi segrete. Nel 1967 il Comando
del Distretto Militare di Padova gli ha concesso la Croce al merito di guerra per l’internamento subito in Germania.
Eravamo a Savona. In seguito all’8 settembre 1943, rimasti senza ordini da parte dei nostri
comandanti, il tenente Filiputi da Campobasso ed io decidemmo di tornare a casa seguendo solo
sentieri di montagna. Indossati abiti civili regalatici dal nostro comandante e gettate via le armi, ebbe
inizio il nostro viaggio di ritorno. Da Savona sino a Sampierdarena andò tutto liscio. Lungo un sentiero
due tedeschi col il fucile puntato ci fermarono chiedendoci se eravamo soldati italiani. “No, siamo
civili”, rispondemmo. “Papiere” (documenti), replicarono. Fingendo di mostrare loro i documenti,
riuscimmo con una mossa veloce a prendere la canna dei loro fucili e a dare una botta in testa ai due.
Caddero a terra sanguinanti. E noi fuggimmo.
Arrivati a Genova ci dissero che il treno per Milano era in partenza e che si poteva viaggiare senza
rischi. Proseguendo il viaggio, giunti Verona il treno si fermò e sentimmo parlare in tedesco:“Achtung !
Achtung ! Kommt. Bleiben bier” (Attenzione! Attenzione! Fermi qui). Fummo portati nella sala d’attesa
per il controllo dei documenti. Il mio amico ed io riuscimmo a nasconderci in una casetta lungo la
ferrovia. Rimanemmo a Verona cinque giorni. Alla fine i tedeschi ci presero. Era chiaro che stavamo
per essere portati in Germania. Il capotreno ci disse: “Sentite, sino al confine italiano io cercherò di
andare molto piano, se volete tentare di scappare saltando giù dal treno in corsa, fatelo”,
Il treno, avrà avuto circa una trentina di vagoni, eravamo stipati in 50 per carro. Tuttavia, nel corso del
viaggio da Verona a Udine, nessuno osò scappare perché il treno era sorvegliato da entrambe la parti.
Solo un vagone di militari riuscì a dileguarsi a Udine perché avevano ricevuto non so come un piede di
porco con il quale avevano divelto il fondo del vagone ed erano riusciti a scappare da sotto. Il viaggio
durò cinque giorni e cinque notti. Arrivammo a Fella an Main in un campo di smistamento dove
c’erano sicuramente più di 100.000 mila prigionieri di ogni nazionalità. Ricordo bene che in questo
campo poco dopo arrivarono Benito Mussolini e Adolf Hitler. Mussolini ci disse: “ Se vi arruolate
subito con la Repubblica Sociale Italiana (RSI) e combattete assieme ai tedeschi avrete subito quindici
giorni di licenza. Al termine della quale dovete presentarvi altrimenti saranno portati via i parenti o le
vostre mogli o i genitori”.
Nessuno però accettò una proposta simile.
In questo campo ci si svegliava alle quattro del mattino per mettersi in coda e ricevere un etto di
pane verso le undici-dodici del giorno. Da qui fummo di nuovo spostati in un altro campo quello di
Gibbel in Prussia. Qui siamo rimasti quattro mesi. Dopo essere scesi dal treno si camminò ancora per
40 chilometri. Arrivati a Gibbel ci chiesero quale mestiere eravamo capaci a fare. Un mio compagno,
Ottavio Nalesso, mi disse: “Io sono calzolaio, dì che fai anche tu questo mestiere così stiamo assieme”.
“Ma se non ho mai visto una scarpa”, dissi. “Non importa”. E così feci il calzolaio. Fummo destinati in
una fabbrica dove si preparavano scarpe per i militari. La fame aumentava. Potevamo scegliere un etto
di pane al giorno oppure sette patate. Le mie scarpe si erano consumate da tempo. Una volta, al termine
del lavoro, nascosi due suole sotto la divisa da prigioniero. Un siciliano però mi aveva visto e lo andò
subito a riferire al capo. Mentre stavo per uscire dalla fabbrica, la voce del comandante SS disse:
“Ghiovanni Kommt hier. Was hast Du? „ (Giovanni vieni qui: Che cos’hai sotto?. “Zwei Gummi!” (due
gomme). “Meine schube sind Kaputt, sind fertig !” (Le mie scarpe sono rotte ... ). Immediatamente fece
partire una sberla violenta che mi scaraventò a terra. Ricordo bene la scena perché questo comandante
aveva una mano ferita e purtuttavia la sberla era stata forte. Mi vennero dati sette giorni di prigione. Mi
misero da solo in una baracca senza acqua e senza cibo. Fortunatamente altri prigionieri francesi,
olandesi e qualche donna vedendomi in quelle condizioni riuscirono a passarmi qualche cosa da
mangiare e resero più accettabile la prigionia.
Un giorno, in presenza di un interprete che era di Asiago, fu chiesto a tutti se qualcuno era capace
di fare l’autista. Io risposi di sì. Il giorno dopo mi portarono nei pressi di una montagna vicino a
Nordhausen. Solo più tardi venni a sapere che il posto era chiamato Mittelbau-Dora. Suonarono un
campanello e poco dopo una guardia aprì l’entrata che conduceva all’interno di una lunga galleria
224
scavata all’interno della montagna. Era la fabbrica dove si diceva che i tedeschi stessero costruendo i
missili segreti V1 e V2. Mi fecero salire su una locomotiva che seguiva il percorso dei binari. La prima
volta feci il giro in compagnia di un polacco; quest’ultimo avrebbe dovuto insegnarmi dove andare e
cosa fare. Portavo venticinque carrelli al giorno di materiale che serviva per la lavorazione di queste
armi segrete. Si era costretti a lavorare in situazioni penose, non si usciva mai dalla galleria, si dormiva e
si mangiava in mezzo al freddo, al ghiaccio della montagna e all’umidità.
Per fortuna non durò molto. La zona dove io lavoravo venne bombardata e così non fu più
possibile continuare poiché tutto era distrutto. Mi presentai al comandante delle SS, il quale, non so per
quale motivo, mi prese in simpatia. Mi procurò un permesso speciale (Ausweis) con il quale potevo
andare a mangiare in una trattoria vicina, e un passaporto provvisorio (Vorlaufiger Fremdpass n.
218/45-08005). Questo mi fu di grande aiuto per non patire la fame.
In questo campo c’erano anche i forni crematori ma io me ne accorsi solo pochi giorni dopo la
liberazione da parte degli americani. Ricordo una scena agghiacciante, da inferno. Nei pressi di un
ingresso avevo notato le bandiere della Croce Rossa; mi avvicinai, vidi un treno a tre piani gremito di
persone: erano tutti moribondi, alcuni già morti altri invece cercavano di mangiare la carne del proprio
compagno vicino. Fu un episodio di cannibalismo che non dimenticherò mai. Erano tutti destinati ai
forni crematori. Il rientro in Italia fu ricco di imprevisti. Dopo l’arrivo degli americani, mi procurai una
carta geografica della Germania. Utilizzando quel po’ di tedesco che sapevo, fra un camion e l’altro
raggiunsi Norimberga, dove con un treno feci tappa a Bolzano. Qui alcuni religiosi mi affidarono la
responsabilità di guidare un pullman a patto però che arrivassi fino a Padova in piazza Mazzini. Lo
guidai fino a Bassano. Un altro compagno che viaggiava con me si offerse di darmi il cambio,
purtroppo a S. Giorgio in Bosco (Padova) a causa dello scoppio di una ruota il pullman andò a
schiantarsi addosso ad un albero. L’autista e altre persone persero così la vita a due passi da casa. Io
rimasi un po’ ferito ma non in modo grave. Tornai a casa il 16 giugno 1945. Avevo fatto di tutto per
rientrare per il 13 perché volevo ringraziare Sant’Antonio di essere sopravvissuto alla guerra e alla
prigionia”.
(Dal libro: “Umanità nei lager nazisti” di Luigi Francesco Ruffato e Patrizio Zanella. Ed. Messaggero Padova,
gennaio 2004).
Una nuova testimonianza, resa da Giovanni Fiorenzato (classe 1915), Terraglione di Vigodarzere, del 20
ottobre del 2004.
“Ricordo quei 30 chilometri di gallerie sotto le montagne dove i tedeschi costruivano i missili V1 e
V2, che furono lanciati per distruggere la Gran Bretagna, e con orrore il campo di sterminio di
Mittelbau-Dora (situato a pochi chilometri dal noto campo di sterminio Buchenwald).
Ancora oggi al solo pensare a quell’esperienza mi si blocca la gola e piango, anche se ho perdonato e
ringrazio S. Antonio che mi ha sempre assistito durante la prigionia.
Nell’agosto del 1995, mi trovavo in vacanza, alloggiato presso l’Hotel Maier a Bibione (Venezia) e
proprio là, dopo 50 anni, ho incontrato il comandante delle SS, quello che mi aveva protetto durante la
prigionia; al riconoscimento ci abbracciammo fu un incontro gioioso ma anche un riaprire le ferite
morali e fisiche delle pene sofferte in quel periodo della guerra”.
Mentre sto scrivendo Giovanni Fiorenzato di anni 89, da diverse settimane assiste la moglie
ricoverata all’ospedale di Padova. Egli si reca tutte le mattine e anche nel pomeriggio, sempre guidando
la sua auto, ad aiutare la moglie a mangiare e camminare. Giovanni nella vita è sempre stato molto
attivo, al ritorno dalla prigionia ha formato la sua famiglia che è stata allietata da cinque figli e da tanti
nipoti. Dal 1970 al 1975 è stato consigliere comunale di Vigodarzere.
225
Giovanni Fiorenzato, reduce dai campi di sterminio tedeschi.,
accanto alla sua auto ( Foto del 27.10. 2004).
Lasciapassare provvisorio grazie al quale Giovanni Fiorenzato poteva
muoversi dal Lager di Mittelbau -Dora al luogo di lavoro.
Na fameia de massarioti (Una famiglia di agricoltori benestanti).
Testimonianza resa da Luigia Pegoraro Gottardo (classe1929), Limena il 18. 09. 2000.
“Nel 1943 abitavo nella casa paterna nell’attuale via Vittorio Veneto a Vigodarzere.
La mia era, una famiglia patriarcale e tra genitori, zii e cugini eravamo in 21. Nella casa rurale al piano
terra c’era il grande portico, la cucina, la stalla e le scale per accedere al piano superiore, dove vi erano le
stanze da letto e il grande granaio. Nell’ampio cortile c’era il seexe (parte del cortile ricoperto di mattoni
e calcestruzzo atto a seccare le sementi al sole) ed era attorniato dalla barchessa. Il piano terra era
adibito a ricovero degli attrezzi (carri agricoli, aratro, falciatrice…). Inoltre vi era il telaio per fare il
tessuto di canapa per le lenzuola. Al piano superiore c’era il fienile. Attorno al cortile si trovavano
diverse paiarine (pagliai) e la fornea in muratura per scaldare l’acqua e fare la lisciva (cenere di legna
immersa dentro la caliera di rame in cui si faceva bollire con l’acqua e il risultato era un detersivo
biologico). Nel cortile addossato al ricovero attrezzi c’era il forno in muratura per cuocere il pane”.
Il pane biscotto fatto in casa
“Il frumento era macinato in casa, con un piccolo molino a mano (non si poteva portarlo al molino
dei fratelli Gomiero a Saletto perché c’era un rigido controllo dell’annonaria).
Dalla macina si otteneva una farina, con la crusca e si toglieva la crusca, con il crivèlo (setaccio). La farina
era impastata con acqua, sale e lievito di birra; il tutto si lasciava lievitare per 12 ore. Si aggiungeva
all’impasto il latte, un po’ di acqua con farina; quindi con la gramola (impastatrice a mano) la pasta
veniva lavorata e si dava la forma dei pani. All’interno del forno si bruciava della legna, la pietra
refrattaria e i muri accumulavano calore, quel tanto che permetteva la cottura del pane, poi si toglievano
le brace e la cenere, si puliva bene l’interno del forno con uno straccio umido e si introducevano i pani.
Dopo due ore di cottura si toglieva dal forno il pane “fresco”da mangiare in giornata, mentre il
rimanente restava dentro il forno per altre 22 ore e si otteneva il pane biscotto a lunga conservazione”.
226
L’internamento di mio fratello Carabiniere nei lager nazisti.
“Silla Pegoraro, mio fratello, l’8 settembre 1943 era a Roma come Carabiniere Reale scelto, fu
sequestrato dai soldati tedeschi, caricato in un vagone ferroviario, adatto al trasporto dei bovini, con
destinazione un campo di smistamento a Villach in Austria (annessa dalla Germania nazista). Dopo fu
portato in un campo di lavoro forzato, a 70 chilometri da Villach, dove vi era una fonderia nella quale
mio fratello lavorò sino alla fine della guerra. All’inizio della prigionia scriveva a nostra madre Alba
Marangon: “Muoio di fame e vedo i miei compagni sacerdoti, generali e semplici soldati morire di
stenti!” e implorava: “Mandatemi del pane biscotto”. Mia madre ogni settimana confezionava 3 pacchi
contenenti viveri e soprattutto del pane biscotto e li portavo in bicicletta alle poste centrali di Padova.
Ma dalla prigionia Silla scriveva: “I pacchi non arrivano”. Alcuni giorni prima del Natale 1943 gli
furono consegnati tutti i venti pacchi che avevamo spedito e così sfamò anche i compagni di prigionia e
passarono il Natale con uno spiraglio di gioia e di speranza. In seguito i pacchi arrivarono regolarmente
e si rivelarono la mano lunga della Provvidenza. Ai primi di maggio del 1945 l’Austria fu liberata con il
passaggio delle truppe anglo-americane. Silla, finalmente libero, intraprese il viaggio di ritorno e dopo
5 giorni di cammino arrivò a Treviso. Salito su un camion militare arrivò sino in Piazza Garibaldi a
Padova e con il tram n. 2 scese al capolinea di Pontevigodarzere di fronte alla chiesa. Lo stavo
aspettando però non lo riconobbi e per questo motivo mio fratello completò il viaggio a piedi sino a
casa in via Vittorio Veneto a Vigodarzere. Giunto nel seexe, si tolse la divisa (era la stessa che portava
dall’otto settembre del 1943) e la gettò sul pavimento era zeppa di pidocchi tanto da fare dire: “La
divisa si muove da sola”. Mio padre Roberto la prese con il tridente e la bruciò. La prima notte, a causa
dei pidocchi, mio fratello dormì nella stalla assieme ai grossi bovini e con numerose rondini, ritornate
dall’Africa, che covavano nei nidi costruiti sulle travi del soffitto della stalla.
Foto della carta di riconoscimento tedesca di Silla Pegoraro. (Per la cortese concessione di Rosetta Pegoraro).
227
L’abitazione rurale della famiglia Pegoraro era composta da 21 persone; coltivavano n. 42 campi padovani (mq. 3262,5
ciascuno) di proprietà; allevavano n. 6 vacche (carne, latte e lavoro), n. 12 buoi (per trainare l’aratro), delle cavalle, suini
e animali da cortile. (Foto 2000).
Nella foto: la fornella in muratura, con la caliera di rame, dove si preparava la lisciva
(detersivo biologico e naturale) facendo cuocere la cenere di legna nell’acqua.
228
Don Giulio Rettore (1) tra clero, salmi, olio e fascismo.
“Don Giulio Rettore dopo un mese dall’ordinazione sacerdotale, il 18 luglio 1926, fu nominato
cappellano di Arquà Petrarca (Padova). Il parroco di quel paese era spaventato da alcuni facironosi
politici locali e non si arrischiava più di parlare in chiesa.
Don Giulio nella prima messa solenne si presentò e, prima di incensare il Vangelo, pose sulla balaustra
una doppietta da caccia sillabando queste parole: -Non crediate che ci sia un secondo prete qui che
abbia paura”.
Lassù, sui dolci pendii delle colline care al Petrarca , nessuno più si azzardò di aprire bocca. L’undici
settembre 1931, don Giulio Rettore fu nominato cappellano, a Piove di Sacco. La zona era famosa per i
preti del chinino, qui i parroci si buscarono la malaria e per rimanerci ingerivano massicce dosi di
solfato di chinino. “L’abate di Piove di Sacco don Pio Stievano diede subito a don Giulio Rettore
l’incarico di seguire i difficili rapporti tra i sacerdoti di quel vicariato, la popolazione e i dirigenti fascisti
della zona”.
Rapporti roventi tra clero e fascisti.
“A Piove di Sacco alcuni preti erano già stati oliati. Uno di questi fu don Luigi Pimpinato, costretto
a bere l’olio per motori da due suoi ex allievi delle classi ginnasiali della scuola di Corte Milone. A
Codevigo don Gelindo Rizzolo, continuamente minacciato, dovette trasferirsi. don Alessandro
Vedrasco, durante la permanenza a Conche, ricevette ripetutamente insulti dagli squadristi di Codevigo.
L’arciprete di Arzegrande, don Giuseppe Segala, patì le pene dell’inferno a causa delle infamanti
accuse, sul suo conto, messe in giro da quelli del fascio. L’abate di Piove di Sacco mons. Pio Stievano
una notte riuscì a sfuggire, con uno stratagemma, da una squadra di malintenzionati fascisti che
volevano rapirlo”.
L’olio minerale e il salmo 108/109.
“Don Luigi Corradin era nato per fare divertire. Madre natura gli aveva regalato un’intelligenza
eccezionale, aggiungendovi una buona dose di equilibrio; nel 1921 gli venne affidata la curazia di
Conche di Codevigo, del vicariato di Piove di Sacco: un mucchietto di case sparse sulla gronda della
laguna di Chioggia. Il piccolo paese è una frazione del comune di Piove di Sacco (Padova), un borgo
che in quei tempi metteva paura perché le autorità civili non solo erano iscritte al Partito Fascista, ma
usavano l’olio da motori e il manganello contro chi la pensava diversamente. Oppositore esplicito era il
curato Corradin e, con lui, i fabbricieri della comunità. Qui accadde il primo clamoroso episodio che
mise in luce il suo temperamento allegro e forte. Una sera un camion si fermò davanti alla porta della
canonica; quattro facce spiritate scesero e lo chiamarono. “Che cosa volete?” domandò il curato.
“Salga!” gli intimarono gli ignobili figuri. Don Luigi Corradin s’arrampicò sul camion e scoprì che
c’erano altre persone ad attenderlo, erano attivisti fascisti a lui conosciute, compreso il suo medico,
gente del fascio della prima ora; in camion, percorse un lungo tratto di strada sino alla vecchia trattoria
“Al Gambero”. Qui lo fecero scendere e, dopo averlo spinto dentro una sala illuminata da una lampada
ad acetilene, lo costrinsero a bere un grande bicchiere di olio da motori. Il Corradin, trangugiò il tutto
senza battere ciglio, poi a piedi ritornò in canonica. Fortunatamente lungo la strada lo stomaco si liberò
dall’intruglio. Don Luigi -era sempre lui a raccontare -chiamò la zia: “Venite in chiesa e accendete sei
candele e poi, ripetete Amen ad ogni versetto”. La buona donna eseguì a puntino le prescrizioni del
nipote il quale andò all’altare, aprì il tabernacolo e recitò adagio, in latino, il famoso salmo 108/109:
Dio della mia lode, non rimanere muto,
poiché bocca di empietà e di menzogna
hanno spalancato contro di me,
con lingua di falsità hanno parlato contro di me.
Amen.
Mi hanno ripagato male per bene,
odio in cambio di amore.
Amen.
Ma tu, Signore Dio, agisci con me
per amore del tuo nome;
liberami, secondo la tua misericordiosa bontà.
Amen
Sono diventato per loro un obbrobrio:
al vedermi scuotono il capo.
Soccorrimi, Signore mio Dio,
salvami secondo la tua misericordia;
così sapranno che qui c’è la tua mano, Signore, che tu
hai fatto questo. Amen.
229
Conseguenza o coincidenza? Nel giro di poche settimane se ne andarono all’altro mondo i capi
dell’odiosa bravata all’infuori del medico che il giorno dopo il fattaccio era andato a chiedergli scusa.
Don Giulio Rettore appena giunto a Piove di Sacco iniziò a proteggere i più esposti dalle angherie
dei fascisti. Il parroco di Tognana don Pietro Lazzaro, del vicariato di Piove di Sacco, in una predica
affermò che preferiva fare il curato di campagna, perché si respirava aria libera”. L’allusione era chiara.
Il segretario politico di Piove di Sacco inviò una minacciosa lettera a don Lazzaro, che la girò a don
Giulio Rettore il quale si recò immediatamente dal segretario politico e gli disse: “ I casi sono due: o la
smetti di scrivere queste sciocchezze o domenica in Duomo alla messa solenne ti chiamo per nome e
cognome”.
(Dai libri: La Leggenda di un Patriarca e L’Archibugio del cappellano di mons. Alfredo Contran (2) e dalla sua
testimonianza del 20.11.2000).
I fascisti ammansiti.
Mi referirono che, a seguito dei numerosi interventi di don Giulio Rettore, i fascisti nel piovese
mitigarono il loro comportamento nei confronti del clero e della popolazione, però, per ritorsione,
incaricarono don Giulio di insegnare la religione ai partecipanti al premilitare di Piove di Sacco.
Alla nomina di don Giulio Rettore a parroco di Vigodarzere (nel 1940) i cittadini di Piove di Sacco,
riconoscenti, gli regalarono un’auto “Balilla” a due porte.
Don Giulio e i tedeschi.
Ricordo, inoltre, che nel 1965 domandai all’arciprete come erano i suoi rapporti con il comando
tedesco che aveva in canonica. Mi rispose che “ il comandante si lamentava per le tante richieste che gli
sottoponeva tutti i giorni”; e gli replicò: “Tutti i giorni anche un comandante tedesco ha l’obbligo di
fare del bene”. Don Giulio Rettore nella relazione inviata al vescovo di Padova al termine della guerra
scrisse: “I sacerdoti, durante il conflitto, rimasero sempre al loro posto anche nei momenti più difficili.
Si prestarono in ogni modo per confortare, aiutare, soccorrere in ogni campo e contingenza; con
prudenza ed avvedutezza si prestarono a salvare i prigionieri di guerra e i ricercati politici”. Ancora
“per ben due volte, ottenne dal comandante tedesco che fossero interrotti i lavori della costruzione di
una passerella (intendeva una passerella carrabile -n.d.a.-) sul fiume Brenta all’altezza della chiesa per
evitare così i bombardamenti aerei e il passaggio delle truppe tedesche in ritirata”. Inoltre “per i
partigiani incarcerati, ottenne la liberazione di sei di loro, per altri quindici fece modificare i verbali di
accuse mitigandoli nella portata e nei fatti. Impedì inoltre che altri ventiquattro partigiani fossero presi”.
(Dalla copia carbone della relazione che l’arciprete don Giulio Rettore inviò al Vescovo di Padova nel 1946; è
conservata nell’archivio parrocchiale di Vigodarzere).
Don Giulio Rettore (3) non ha mai parlato delle sue azioni a difesa dei cittadini, nel lungo periodo
come arciprete di Vigodarzere, però alcune persone, in relazione alle sue azioni, mi dissero: “Solo Dio
sa cosa ha fatto l’arciprete per la popolazione di Vigodarzere”.
Don Giulio prete fascista?
Nel corso degli ultimi decenni, parlando con i cittadini di Vigodarzere, nessuno accusò don Giulio
Rettore di essere stato un prete comunista, altri affermarono, invece, che sia stato un prete fascista. Un
giorno, dopo queste affermazioni chiesi delle prove ad una persona che affermava il fascismo di don
Giulio. Questa con molto imbarazzo, mi rispose in modo evasivo: “Ho fatto una perizia calligrafica
della scrittura di don Giulio da cui risulta che era fascista”.
__________
(1) Don Giulio Rettore è nato a S. Michele delle Badesse il 22 aprile 1901. Nel 1922, già seminarista, fece il
servizio militare come infermiere assistente chirurgo. Il 18 giugno 1926 fu consacrato sacerdote nella chiesa degli
Eremitani a Padova dal vescovo Elia Dalla Costa. Il 7 Agosto fu inviato come cappellano ad Arquà Petrarca e
l’11 settembre 1931 a Piove di Sacco. Il 2 agosto 1940, arrivò a Vigodarzere, come Vicario Economo e il 13
ottobre dello stesso anno fece il solenne ingresso come arciprete. Vi rimase sino alla morte avvenuta il 25
novembre 1970.
(2) A Piove di Sacco l’abate Pio Stievano e il cappellano don Giulio Rettore, curarono la vocazione sacerdotale
del giovane Alfredo Contran.
(3) Alla memoria di don Giulio Rettore è stata intitolata una via a Vigodarzere.
230
Un prete con la pistola (il testimone ha chiesto l’anonimato).
Molte sono le testimonianze che fanno emergere le minacce e le intimidazioni di cui fu oggetto
l’arciprete don Giulio Rettore. Una per tutte: qualcuno (1) additandogli un considerevole platano che
sorgeva in località Certosa, gli promise di appenderlo come ad una forca a guerra conclusa. Il sacerdote
confidò che nel periodo della guerra e negli anni successivi aveva una pistola a difesa personale (che gli
verrà sottratta nel 1950 a seguito di una incursione ladresca in canonica).
Esiste un piccolo, ma gustoso, aneddoto relativo a quell’arma che fu raccontato anni or sono dalla
signora Tosca Zorzato: “Invitammo nell’immediato dopo guerra l’arciprete don Giulio a casa nostra a
trascorrere una serata con comuni amici. Dopo cena ci trasferimmo per il caffè nel salotto, facendo
oggetto dei nostri discorsi le tristi vicende della guerra. Ciascuno parlava a turno e, giunti all’arciprete,
egli raccontò tra l’altro, che di sera si recava a recitare il Rosario in Contrà Bragni (ora parrocchia di S.
Bonaventura) tenendo nella tasca sinistra della tonaca la corona e nella destra la pistola, al che lo
apostrafai dicendo: “Signor arciprete, non mi dirà che avrebbe sparato?
Don Giulio le rispose: - Ciò mi no’ ndavo in volta a copare nessun, ma se qualcheduno sercava de farme ea pee, ghe
ricordava na volta per tutte che ea me vita jera sacra quanto ea sua (Non andavo in giro per amazzare, ma se
qualcuno cercava di uccidermi gli avrei ricordato, una volta per tutte che, la mia vita era sacra quanto la
sua)”.
Convinceva i fascisti ma anche il Comandante tedesco.
Testimonianze di Giulio Olivi (classe 1929) Camposampiero e di don Vittorio Olivi (classe 1923),
S. Michele delle Badesse, 05. 10. 2005, entrambi nipoti di don Giulio Rettore.
“Nostro fratello Rino come partigiano partecipò alla liberazione dal carcere di Camposampiero del
capo partigiano Ugo Ballan. A seguito di quest’azione le brigate nere arrestarono nostro fratello Rino e
lo reclusero nella Casa del Fascio “Bonservizi” nell’attuale via Giordano Bruno a Padova in attesa di
giudizio. Dopo tre giorni don Giulio Rettore accompagnato dal Comandante tedesco del presidio
tedesco di Vigodarzere, si presentò al “Bonservizi” e ottenne il trasferimento del detenuto presso la
canonica di Vigodarzere; Rino evitò il campo di prigionia e rimase dimenticato dalla repressione nazifascista”.
Ricorda anche Giulio Olivi: “ Ero studente e spesso mi recavo nella canonica di Vigodarzere dove i
tedeschi occupavano come ufficio la prima stanza a sinistra dell’ingresso del piano superiore; il
comandante tedesco lo ricordo alto di statura, magro e sempre molto prepotente.
Nostro zio possedeva un carisma che, unito alla prudenza riusciva a convincere i tedeschi ma anche i
fascisti locali”.
_________
A sinistra: Giulio Olivi, nell’altra don Vittorio Olivi.
(Foto del 12. 12. 2005).
(1) Trattasi della stessa persona che, dopo la morte di don Giulio, propose la costruzione di un monumento
a memoria dell’arciprete.
231
Seduti da sinistra: Giulio Olivi, Rina Rettore, suor Valentina Rettore, Marco Rettore, Dino Rettore, Maria Canovese
Rettore, Ferdinando Leone Rettore, Lucia Elvira Rettore e Giovanni Olivi.
In piedi da sinistra: una bambina, don Giulio Rettore, don Vittorio Olivi, Rina Rettore, Albano Rettore.
(Foto dell’ottobre 1940 della collezione di Antonio Griggio).
Seduti da sinistra: Albano Rettore, Ferdinando Leone Rettore, don Giulio Rettore, suor Maria Valentina Rettore,
Elisa Rettore, Lucia Elvira Rettore e Rina Rettore. In piedi da sinistra: il secondo è Rino Olivi, Rosi Rettore, Giovanni
Zanon, Amneris Talliero Olivi e don Vittorio Olivi. (Foto del 1968 della collezione di Antonio Griggio).
232
Foto di una passerella carrabile di legno, come quella che, i soldati del Genio Pontieri di Vigodarzere,
avevano iniziato a costruire sul fiume Brenta all’altezza della chiesa di Vigodarzere. La costruzione della passerella fu
interrotta, per ben due volte, per l’energico intervento di don Giulio Rettore presso il comandante del presidio tedesco del
Genio Pontieri che frequentava la canonica. (La fotografia è stata fornita dal Centro Studi Ettore Luccini di Padova).
Alluvionati polesani a Vigodarzere
Il fiume Po era gonfio, un’enorme massa d’acqua stava passando, il mare non riceveva, la gente
polesana, guardandolo rabbrividiva. Alle ore 19 del 14 novembre 1951 rompeva gli argini a Paviola, tra
il Canaro e Occhiello, allagando tutto il territorio compreso tra il Po e l’Adige, per una superficie di
ettari 109.881. Le ore e i giorni successivi furono drammatici: 88 morti, 170.283 gli alluvionati che
dovettero sfollare. Annegarono nelle acque limacciose: 6.000 bovini, 8.500 suini, 1.000 ovini, 600 equini
e 400.000 capi di pollame (1).
La notte di sabato 17 novembre 1951, trasportati dai camion, arrivarono nel sagrato della chiesa di
Vigodarzere circa 145 sfollati polesani, tra donne, bambini e anziani.
L’arciprete don Giulio Rettore diresse l’assistenza contattando circa 35 famiglie della parrocchia, che
poi ospitarono gli sfollati per 2-4 mesi.
Nell’ultimo piano della canonica, nei primi giorni trovarono ricovero circa 30 alluvionati, che si
ridussero a 10 nelle settimane successive.
Gigi Bazzea, che aveva il negozio di macelleria di fronte alla chiesa, offrì la carne per gli alluvionati
presenti in canonica. Mentre il Comune di Vigodarzere, nel primo periodo, fece cucinare numerosi pasti
per loro dalla trattoria Dorio.
Il comitato parrocchiale raccolse indumenti, viveri e organizzò una raccolta di fieno che fu poi
consegnato ai piccoli allevatori che tenevano i bovini sopra gli argini dell’Adige.
Erano passati appena sei anni dal termine della guerra; le abitazioni erano vecchie, non c’era
l’acquedotto, le latrine erano lontane dalle abitazioni.. Gli unici ambienti riscaldati erano le stalle e le
cucine. E’ stata una grande testimonianza di solidarietà e di condivisione cristiana.
Gli alluvionati, passata l’emergenza ritornarono nei loro paesi, alcuni inviarono delle cartoline alle
famiglie ospitanti, ma nessuno ritornò a Vigodarzere.
__________
(1) Da l libro: “Cronache dell’alluvione” Biblioteca Civica Padova.
233
La Certosa di Vigodarzere.
“La Certosa, costruita tra il 1532 e il 1560, ospitò i monaci certosini fino al 1768, anno della
soppressione da parte della Repubblica dì Venezia. Nel 1770 venne acquistata dalla famiglia Maruzzi e
successivamente, ne! 1778, dal Barone Marco De Zigno, che già possedeva terreni nella zona e che
decise di farne una filanda. Per alcuni decenni all'interno de La Certosa vennero prodotti cordami di
seta, come testimoniano le planimetrie dell'epoca e gli studi per lo scorrimento delle acque, necessarie
ad azionari i macchinari.
Marco De Zigno sposò Mary Maguire, discendente di una importante famiglia irlandese: a lei si deve la
trasformazione in villa della parte centrale del complesso, ultimata verso la metà dell’800 quando,
cessata l'attività dello filanda, la Certosa venne adibita a dimora estiva e centro della circostante azienda
agricola. Furono portati a termine lavori importanti: demolizioni di alcune parti (come l'ex refettorio),
l'ampliamento di altre zone (ad esempio l’ex cella maggiore del priore), le decorazioni e gli arredi di
sapore neogotico. E ancora la trasformazione del chiostro grande - ossia l'ex chiostro di clausura - in
giardino romantico "con ingresso per le carrozze", del quale sopravvivono tutt'oggì due monumentali
magnolie, la creazione di un approdo sul Brenta e la sistemazione di parte della campagna circostante il
monastero a parco, abbellito da viali e statue e popolato da animali, come lepri e daini.
Achille De Zigno, figlio di Marca e di Mary Maguire, in uno scritto riportato in apertura dal libro
degli ospiti, ricorda che all'epoca dei genitori passarono dalla Certosa numerosi importanti personaggi
dell'epoca; da Lord Byron a Lord Freemantle, da Ippolito Pindemonte alla Contessa Isabella Teotochi
Albrizzi (amica personale di Mary e animatrice a Venezia del salotto del Foscolo), dalla Principessa
d'Assia, a Lord Elgin (colui che portò in Inghilterra i marmi del Partenone), al Generale Lamarmora,
per citare solo i principali.
Durante le due guerre e fino agli anni Sessanta la Certosa ospitò anche numerose famiglie di sfollati
ma andò incontro ad un progressivo degrado, seppur protetta dall'ansa naturale del fiume Brenta e
dall’aziensa agricola, che ha permesso di preservare il territorio ad essa circostante.
Oggi è proprietà dei Conti Passi, discendenti De Zigno, che hanno recentemente risistemato i corpi
centrali del fabbricato, la chiesa e i tetti, e promuovono l'impegnativa operazione di recupero dì un
monumento così importante”.
I discendenti della Famiglia Passi. La Certosa, aprile 2006.
La Certosa di Vigodarzere, maggio 2005.
234
L’INIZIO DELLA MECCANIZZAZIONE AGRICOLA A VIGODARZERE
La separazione dei chicchi di frumento dalla pianta avveniva nel cortile dell’azienda mediante
battitura manuale con l’uso del batauro (formato da due bastoni uniti fra loro con un cordino). Nel 1919
il nostro concittadino Edoardo Ranzato, chiamato Napoeòn, organista della chiesa di Vigodarzere,
acquistò la prima trebbiatrice assieme ad una locomobile (caldaia a vapore funzionante a legna o
carbone) che, mediante un cinghione, azionava la trebbiatrice. L’uso della locomobile fu visto con
preoccupazione in quanto costituiva un grosso rischio di incendio della paglia e gli annessi rustici.
L’aratura del terreno sino all’introduzione dei trattori era effettuata con aratri di metallo che erano
tirati da bovini e cavalli, condotti da persone.
I primi due trattori, dei nostri paesi furono acquistati dai fratelli Natale e Giuseppe Schiavon nel
1924; erano Ford di fabbricazione americana. In quella circostanza acquistarono anche una trebbiatrice
di marca Hofer HSLS di fabbricazione ungherese. Il contratto d’acquisto fu stipulato alla quinta edizione
della Fiera Internazionale di Padova che per la seconda volta si svolse nella nuova sede in via Nicolò
Tommaseo.
Nel 1926 anche i fratelli Cesare e Giovanni Dario si dotarono di un trattore Ford e di una
trebbiatrice Hofer.
Nel 1930 Giuseppe Rettore e Giulio Rettore acquistarono una trebbiatrice e un trattore Mogol
(chiamato Titan) (1), che serviva solo per azionare e trasportare la trebbiatrice (non poteva arare il
terreno).
Ancora i fratelli Natale e Giuseppe Schiavon nel 1932 acquistarono il loro terzo trattore di marca
Internazionale di produzione americana e una trebbiatrice di marca Orsi costruita a Tortona (Al).
Nel 1935 Albano Cavinato di Tavo acquistò un trattore Fiat 28 c.v. e da Garolla a Limena una
trebbiatrice.
Nel 1939 Italo Marzotto di Saletto acquistò un trattore Ford.
Tutti i trattori avevano le ruote di metallo e il motore a quattro tempi era alimentato con carburante a
petrolio. L’aratro era attaccato al trattore sostenuto da un telaio regolabile. Per arare il terreno erano
necessarie due persone: il guidatore del trattore ed un altro a piedi, molto robusto, che con le braccia
manovrava l’aratro regolando la profondità dell’aratura. Nel periodo della guerra del 1940/45 i trattori
nel territorio comunale di Vigodarzere erano 7 di cui uno solo di fabbricazione italiana.
(Alle ricerche sopra descritte hanno collaborato Arrigo Schiavon (1930), Walter Schiavon (1936), Giuseppe
Cavinato (1935) di Tavo, Paolo Rafido di Bertipaglia di Maserà e il prof. Luigi Sartori docente dell’Università di
Studi di Padova, Agripolis-Legnaro).
__________
(1) I trattori Mogol e Titan erano stati acquistati dal Regio Esercito Italiano nel 1913 e servirono per il traino
dell’artiglieria pesante durante la guerra 1914-1918; poi furono venduti al Consorzio Agrario di Piacenza e quindi
passati alla meccanizzazione agricola dei privati.
235
Dall’epoca degli antichi egizi il seme del frumento era separato dalla pianta mediante battitura con un semplice attrezzo
formato da due bastoni, le cui estremità erano legate con un cordino. In dialetto veneto quest’attrezzo si chiama bataùro.
Il lavoro di battitura avveniva nella parte del cortile pavimentato (sèexe).
Aratura del terreno mediante la forza di traino dei bovini e del
conducente dell’aratro.
“T’amo, o poi bove; e mite un sentimento/Di vigore e di pace al cor m’infondi,/O che solenne come un
monumento/Tu guardi i campi liberi e fecondi, …” (Giusuè Carducci).
236
Nella foto: la trebbiatura del frumento. Il locomobile era simile a quello acquistato
da Edoardo Ranzato di Vigodarzere nel 1919.
Foto di Edoardo Ranzato che nel 1919 acquistò il primo locomobile e
la prima trebbiatrice del territorio comunale di Vigodarzere.
237
Nella foto: il primo trattore di Vigodarzere (nascosto dalle persone) fu acquistato dai fratelli Natale e Giuseppe Schiavon
nel 1924. Era un trattore Ford di produzione U.S.A. del 1923.
Al posto di guida è Francesco Marangon, appoggiato alla ruota posteriore è Natale Schiavon, con il piede appoggiato
sulla ruota anteriore è Giuseppe Schiavon.
Trattore Ford del 1923. Al volante il collezionista geom. Angelo Marangon. ( foto 2005).
238
Nella foto: il trattore Mogol chiamato Titan (di proprietà di Paolo Rafido), con uno simile, la famiglia “Sandreto”, che
abitava vicino alla Certosa di Vigodarzere, ha azionato la trebbiatrice,
dal 1930 sino al 1960. (Foto del 2004).
Trebbiatura nel cortile di Albano Cavinato a Tavo
(Foto del 1939, per gentile concessione della comunità di Tavo).
Staro: misura per cereali.
239
Taglio dell’erba.
Per l’alimentazione dei nostri paesani durante la guerra erano privilegiati gli allevamenti di bovini e
di animali da cortile. Per fare ciò nelle aziende rurali si curava la semina di piante erbacee: erba medica,
trifoglio e loietto. L’erba perenne degli argini dei fiumi e quella dei bordi delle strade comunali era
regolarmente falciata e trasformata in fieno. Da notare che la falciatura dell’erba, ai bordi delle strade
comunali era aggiudicata ai cittadini di Vigodarzere mediante un’asta pubblica.
Falciatura dell’erba.
Murales di Cibiana (BL),
opera di Renato Varese.
Casa rurale abitata durante la guerra dalla famiglia Francato; era ubicata nell’attuale via Vittorio Veneto a
Vigodarzere che fu demolita nel 1984. Nel piano terra, da sinistra c’era la cucina, il portico-ingresso e una stanza da
letto; nella parte posteriore, la stalla. Nel primo piano: il granaio e le stanze da letto.
(Dipinto di Loretta Vettore, eseguito nella primavera del 1983).
240
Vita tormentata anche per gli animali domestici.
Negli anni 1940-45 e successivi anche gli animali domestici allevati nelle nostre case rurali soffrivano
di tante malattie e di carenze alimentari.
Molte mucche erano affette da varie malattie infettive; tra le più diffuse la tubercolosi (la cosiddetta
TBC) e la brucellosi, entrambe zoonosi (trasmissibili all’uomo). Per limitare il contagio era necessario
fare bollire il latte bovino e ovino usato per l’alimentazione
umana. La tubercolosi distruggeva i polmoni delle mucche
riducendo la produzione di latte e la loro resistenza al lavoro dei
campi. La brucellosi provocava l’aborto delle bovine e
nell’uomo la “febbre maltese”. Inoltre i bovini periodicamente
erano colpiti dall’afta epizootica, malattia epidemica con gravi
conseguenze per la debilitazione fisica degli animali. Tali
malattie si propagavano anche negli allevamenti ovini e suini.
Le infestazioni di mosche, vettori di malattie, specie in
autunno, invadevano le stalle coprendo il soffitto e i muri. La
presenza massiccia di questi insetti innervosiva sia il bestiame
che gli addetti ai lavori per la mungitura manuale, alimentazione
e pulizia della stalla.
Gli animali da cortile erano affetti da varie malattie infettive:
colera aviario, difterite, vaiolo, verminosi intestinale e delle vie
respiratorie e infestazioni di pidocchi e acari. Allora non vi
erano a disposizione né vaccini per la prevenzione delle malattie
né medicine per la terapia e nemmeno insetticidi efficaci.
S. Antonio Abate (1), chiamato S. Antonio del maialino
l’eremita del Sinai patrono degli animali domestici.
__________
(1) Nel territorio di Teolo (Padova) sulle pendici di un colle, vi è una chiesetta immersa in un bosco dove si
venera S. Antonio Abate patrono degli animali domestici. Il luogo è anche meta di tante coppie di innamorati;
si raggiunge a piedi partendo dal Passo Fiorine, che si trova lungo la strada Teolo-Monte della Madonna.
La dorifora della patata fu trasportata in Italia dall’esercito tedesco.
“E’ un insetto dell’ordine dei coleotteri crisomelidi, che ha avuto vita grama nel Nord America,
nelle aride pianure ai piedi delle Montagne Rocciose, finché, nella seconda metà dell’Ottocento,
arrivarono i pionieri in cerca dell’oro e vi piantarono le patate: così il famelico parassita si trovò a
disposizione una lauta pastura. La prima notevole invasione fu segnalata
nel 1862 e nel giro di qualche anno l’insetto, dalla straordinaria capacità
riproduttiva, si diffuse in tutto il continente americano. Parecchi
decenni dopo attraversò l’Atlantico (verosimilmente su un legno
mercantile); nel 1922 venne segnalato in Francia e poi nel resto
d’Europa. In Italia fu portato dai soldati tedeschi nel 1943 ed ora è
dappertutto. La dorifora è il parassita più dannoso della patata. Sia
l’adulto che le larve possono spogliare in breve tutta la pianta, lasciando
solamente monconi di fusto e i rami più consistenti. L’adulto è lungo
10-12 mm. Di color giallo con dieci linee nere longitudinali sul dorso; le
larve sono rossastre, con punti neri sul corpo. Le femmine depositano
le uova, di color giallo o rosso – aranciato, ai primi di maggio, in
gruppi, sulle parti inferiori delle foglie più basse. Giunte a maturità, le
larve scendono sul terreno da dove, in piena estate, compaiono gli
adulti; una nuova ondata esce a fine estate. Ogni femmina può deporre
fino a mille uova all’anno. Se non trova patate, attacca altre piante
erbacee”.
( Tratto da Famiglia Cristiana n. 43-2001, pag 173).
Nella foto sopra: una dorifora adulta,
nell’altra delle larve.
241
La vorace dorifora a Vigodarzere.
Nel 1944 la dorifora delle patate fece la sua comparsa anche a Vigodarzere; insetto ancora
completamente sconosciuto, divorò le foglie delle patate distruggendo le coltivazioni nella nostra zona
privando, in tal modo la popolazione, di un principale alimento.
NE’ VINTI NE’ VINCITORI
Dipinto di Eugenio Auletta
Quando un giorno tornerò,
sé tornerò,
pianterò dei fiori nel mio giardino
in memoria di quelli che al mio fianco hanno donato la
vita
in nome della libertà.
parlerò a chiunque incrocerà il mio cammino
della crudeltà della guerra,
racconterò di quegli eroi che morirono illusi di aver
combattuto
nel nome della libertà...
…parlerò a chiunque voglia ascoltare
di qualunque razza, opinione, credo, o bandiera
appartenga,
che questo mondo, alla fine di ogni ingiustificata
guerra...
…Quando un giorno tornerò,
Se tornerò,
scalfirò su una roccia dei nomi,
la memoria di quelli che contro di me hanno donato la
vita
in nome della libertà
…non avrà, “né vinti e né vincitori”.
...Quando un giorno tornerò,
se tornerò,
Eugenio Auletta , 1995
242
243
I dati sopra riportati sono tratti dalla rivista “La Lampada” del mese di dicembre 2005. Edito a cura del Tempio
Nazionale dell’Internato Ignoto -Terranegra di Padova. I dati sono puramente indicativi.
Ogni anno il 25 aprile si ricorda la Liberazione in quel giorno fu scritto e approvato il seguente
proclama:
“In nome del POPOLO ITALIANO IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE PER L’ALTA ITALIA,
Delegato dal Governo Italiano, per assicurare la continuazione della guerra di Liberazione a fianco degli
Alleati, per garantire e difendere contro chiunque la libertà, la giustizia e la sicurezza pubblica
ASSUME TUTTI I POTERI CIVILI E MILITARI
Tali poteri sono esercitati attraverso i Comitati di Liberazione Nazionale Regionali e Provinciali.
Seguono 9 articoli.
Milano, 25 aprile 1945”.
244
IN MEMORIA DELLE GUERRE, DOMENICA
9
NOVEMBRE
1975.
Nel centro di Vigodarzere, è stato inaugurato un
monumento ai Caduti.
Alla cerimonia hanno preso parte autorità civili,
religiose e militari e molti cittadini. Una significativa
presenza è stata voluta al taglio del nastro dell’opera:
quella della signora Elisa Marangon Griggio, vedova
e madre di due figli caduti (1) nell’ultima guerra.
Nella foto da destra: il cav. Francesco Ortolani sindaco di
Vigodarzere, la sig.ra Elisa Marangon Griggio e Pasquale
Carraro presidente dell’Associazione Combattenti e Reduci e
dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia -Collezione
di Gino Griggio.
__________
(1) Sono Gastone Griggio della classe 1917, fu colpito da
una granata nel fronte libico-egiziano il 7 maggio 1941, e
Mario Griggio della classe 1919 morto in un campo di
prigionia in Germania nel maggio del 1944.
La comunità di Tavo e il sindaco di Vigodarzere, maestro Cesare Fassina, salutano il parroco don Gioacchino
Donazzan (1), che ha lasciato la parrocchia dopo 40 anni di guida pastorale, compreso tutto il periodo bellico. Grazie
alla sua presenza non ci furono morti perché riuscì a controllare il presidio tedesco accasermato dall’11 marzo 1945 nel
centro di Tavo dove, negli ultimi giorni della guerra, si aggiunsero anche 200 soldati tedeschi delle SS.
(Foto del 1966 dell’archivio della comunità di Tavo).
_______
(1) Alla memoria del parroco Giocchino Donazzan è stata intitolata una via di Tavo.
245
Maggio 1946:
Inaugurazione del capitello
in via Maresana a Saletto.
Fu costruito dalle famiglie
Facco, Nicoletti e Cavinato,
per ringraziare la Madonna per la
protezione ricevuta, specialmente
negli ultimi giorni della guerra.
(Collezione fotografica del maestro Guerrino Spinello).
Il Sindaco di Vigodarzere Roberto Zanovello e il Presidente dell’Anpi Pasquale Carraro depongono una corona di alloro
presso il capitello in via Maresana a Saletto, nella ricorrenza del 25 aprile 2001.
(Collezione fotografica di Pasquale Carraro).
246
Foto del 25 aprile 1996: festa della Liberazione, dopo la celebrazione della S. Messa nella chiesetta presso la Villa
Zusto, don Franco Tescari, arciprete di Vigodarzere e Carraro Pasquale presidente dell’Ass. Combattenti e Reduci, si
intrattengono con i presenti. ( Collezione di Pasquale Carraro).
Vigodarzere, 25 aprile 2002. Popolazione, autorità civili e militari hanno assistito alla celebrazione della Cerimonia.
La S. Messa a suffragio dei Caduti di tutte le guerre e per chiedere a Dio il dono della Pace è stata officiata da don
Daniele Marangon vicario parrocchiale di Vigodarzere.
247
Il sindaco di Vigodarzere Roberto Zanovello ha consegnato le chiavi della città e la cittadinanza onoraria di Vigodarzere
alla signora Sylva Sabbadini (1) superstite dei campi di sterminio tedesco di Auschwitz. Da destra: il Presidente della
Comunità ebraica di Padova Dr. David Romanin Jacur, la signora Sylva Sabbadin, il sindaco di Vigodarzere e
l’assessore provinciale all’agricoltura Luciano Salvò. (Foto del 17 luglio 2003).
__________
(1) La famiglia ebrea di Sylva Sabbadini dal mese di agosto 1943 sino all’arresto avvenuto il 24 dicembre dello
stesso anno, fu ospitata dalla famiglia di Antonio Bano a Terraglione di Vigodarzere. Gli ebrei della comunità
della città di Padova erano circa 490 dei quali 49 furono portati nel campi di sterminio tedeschi. Al termine della
guerra ritornarono in tre; Sylva è l’unica testimone vivente.
248
DOMENICA 25 APRILE 2004
Fotocronaca della celebrazione del 59° anniversario della Liberazione.
Dopo l’alza bandiera presso il monumento ai
Caduti di Vigodarzere sono state deposte le corone
di alloro nella cappellina del cimitero del capoluogo
dove riposano sei partigiani. Monsignor Antonio
Moletta (parroco di Saletto durante l’ultima guerra) e
don Daniele Marangon, vicario della parrocchia di
Vigodarzere, hanno concelebrato la S. Messa in
suffragio dei Caduti e delle vittime delle guerre.
La concelebrazione della S. Messa nella chiesa arcipretale.
Da sinistra: il diacono Giorgio Zanella, Mons. Antonio Moletta e don
Daniele Marangon.
Monsignor Antonio Moletta
mentre tiene la calorosa omelia.
Le autorità civili di Vigodarzere. Da sinistra: in
prima fila il sindaco di Vigodarzere Roberto
Zanovello l’assessore all’ambiente Cristiano
Schiavon, il presidente del Consiglio Comunale
Prof. Gianni Cavinato, il consigliere Luca
Griggio e l’assessore allo sport Antonio Canton.
In seconda fila l’assessore ai lavori pubblici Ivano
Ranzato.
249
Le autorità militari e civili di Vigodarzere.
Da sinistra, in prima fila: il colonnello degli Alpini Eleuterio Ponziani, il Maresciallo Capo della Stazione dei
Carabinieri di Vigodarzere Leonardo Mirto, il tenente colonnello Comandante del deposito centrale sistemi missilistici
dell’Aeronautica militare di Vigodarzere Aldo Palmitesta, il segretario del Gruppo Simpatizzanti Combattenti e Reduci
di Vigodarzere Luciano Marangon.
In seconda fila, l’assessore alla viabilità Fabio Giacometti.
Nella sala consigliare “La Brenta” lo storico Prof. Giuliano Lenci ha riepilogato gli avvenimenti dall’8 settembre del
1943 sino alla Liberazione di Vigodarzere avvenuta domenica 29 aprile 1945.
Da sinistra: il Prof. Gianni Cavinato Presidente del consiglio comunale di Vigodarzere, il sindaco Roberto Zanovello, il
Prof. Giuliano Lenci e il signor Luciano Marangon in rappresentanza di Pasquale Carraro presidente dell’Associazione
Combattenti e Reduci di Vigodarzere.
250
Il conferimento della cittadinanza onoraria a Mons. Antonio Moletta, per essersi prodigato eroicamente
quel sabato 28 aprile del 1945; in quella circostanza circa sessanta cittadini di Saletto già messi al muro per essere
fucilati dai soldati tedeschi delle SS, grazie al suo intervento, ebbero salva la vita. (Vedere a pag. 180).
Foto della targa consegnata a Mons. Antonio Moletta.
251
LUNEDI 25 APRILE 2005
La premiazione delle famiglie che nascosero i prigionieri militari e i soldati italiani sbandati.
La cerimonia è iniziata con l’alzabandiera ai monumenti dei Caduti e la deposizione delle corone di
alloro ai cippi dove negli ultimi giorni della guerra sono stati uccisi due cittadini di Saletto e sette
partigiani abitanti nel territorio della parrocchia di Vigodarzere (allora comprendeva una fascia dellla
zona dell’attuale parrocchia di S. Bonaventura).
Don Luigi Bonetto, nuovo parroco di Vigodarzere, ha celebrato la S. Messa a suffragio dei Caduti di
tutte le guerre e con la comunità ha implorato il dono della pace.
Nella Sala Consiliare Luciano Marangon, presidente dei Combattenti Reduci e Simpatizzanti e il
sindaco di Vigodarzere Roberto Zanovello hanno illustrato il significato del 60° anniversario della
Liberazione del nostro paese dal nazi-fascismo. In particolare é stato ricordato Pasquale Carraro,
partigiano e appartenente al Corpo Italiano di Liberazione (C.I.L.) e per 38 anni consecutivi fu eletto
consigliere comunale di Vigodarzere.
Per la prima volta sono state ricordate le 26 famiglie del nostro territorio comunale che, sfidando le
leggi naziste impostaci dall’esercito invasore tedesco, hanno nascosto 36 prigionieri anglo-americani e
10 soldati italiani sbandati.
(All’unamimità il Consiglio Comunale di Vigodarzere ha voluto onorare il ricordo di Pasquale Carraro
consegnando ai figli Silvano e Roberto una targa alla memoria. In precedenza all’unanimità il Consiglio
Comunale aveva approvato la consegna di un attestato di riconoscimento alle 26 famiglie che nascosero
i prigionieri anglo-americani e i soldati italiani sbandati).
FOTOCRONACA DELLA CERIMONIA DEL 25 APRILE 2005
(Servizio fotografico di Fernando Salmaso, Aldo Vettore e Cristiano Cesaro)
La deposizione di una corona
al monumento dei Caduti di Saletto
Il parroco di Vigodarzere
don Luigi Bonetto celebra
la S. Messa attorniato dai
labari e dalle bandiere delle
Associazione dei Reduci e
del Volontariato del territorio
comunale di Vigodarzere.
252
Il Sindaco Roberto Zanovello
mentre tiene il discorso ufficiale.
Il Presidente dell’Associazione
Combattenti, Reduci e Simpatizzanti,
Luciano Marangon,
consegna la targa di riconoscimento
alla memoria di Pasquale Carraro
ai figli Silvano e Roberto.
L’assessore Fabio Giacometti
consegna a Laurina Cavraro Noventa,
l’attestato di riconoscenza per
Gisella Simonato e Nevio Noventa
per avere nascosto nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano Henry Robertze.
Il consigliere Luca Griggio
consegna a Amelia De Marchi
l’attestato di riconoscenza per
Domenico De Marchi e Emilia Veggiani
che nascosero nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano
Pietro Cartens.
L’assessore Fabio Giacometti
consegna a Pasqualina Adelia De Marchi
l’attestato di riconoscimento per
Domenico Callegaro e Antonia Pasqualon
che nascosero nella propria abitazione
i prigionieri sudafricani Tommaso e Santi;
per i quali Pasqualina Adelia De Marchi
fu imprigionata.
253
L’assessore Antonio Canton
consegna a Gianni Ranzato
l’attestato di riconoscimento per
Timante Ranzato e Felicita Vieno
che nascosero nella propria abitazione
i prigionieri sudafricani Auxi, Ronny
e Denis aiutando numerosi altri
prigionieri a trasferirsi altrove.
Il consigliere Massimo Penello
consegna a Bruno Dorio
l’attestato di riconoscimento
per Luigi Dorio e Rosa Vettore
che nascosero nella propria
abitazione i prigionieri sudafricani
Angelo e Cristoforo.
Il consigliere Massimo Costa
consegna a Marco Pasqualotto
l’attestato di riconoscimento per
Armando Pasqualotto che nascose
nella propria abitazione
i prigionieri sudafricani
Giovanni e Giorgio.
Il consigliere Francesco Vezzaro
consegna a Mario Frison
l’attestato di riconoscimento
per Rosa Griggio Frison
che nascose
nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano
Petrus Johannes Janse Van Rensburg.
Il consigliere Francesco Vezzaro
consegna ad Ugo Salviato
l’attestato di riconoscimento per
Luigi Salviato e Angela Berro
che nascosero nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano
Petrus Joannes Van Rensburg.
254
Il consigliere Massimo Costa
consegna a Manuela Rettore
l’attestato di riconoscimento
per Raimondo Rettore e Settima Coletto
che nascosero nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano Giorgio.
Il consigliere Massimo Costa
consegna a Maria Rettore Oliviero
l’attestato di riconoscimento a
Giacinto Oliviero e Maria Michelon
che nascosero nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano
G.F. matricola n. 72521.
L’assessore Antonio Canton
consegna a Maria Lina Rombaldi
l’attestato di riconoscimento per
Alessandro Rombaldi e Ester Pirazzo
che nascosero nella propria abitazione
i prigionieri sudafricani Giovanni,
Osvaldo e Pier.
Il sindaco Roberto Zanovello
consegna a Mario Gottardo
l’attestato di riconoscimento per
Amedeo Gottardo ed Erminia Prisco
che nascosero nella propria abitazione
il prigioniero sudafricano Richard Smith
e per il quale Mario Gottardo fu internato
in Germania..
Il consigliere Massimo Penello
consegna a Renzo Pieretti
l’attestato di riconoscimento per
Gregorio Pieretti e Seconda Prisco
che nascosero nella propria abitazione
il prigioniero inglese Alfredo e il
sudafricano Giovanni Suares.
Renzo Pieretti trasferì numerosi prigionieri
sino a Mestre.
255
L’assessore Luigi Sottovia
consegna a Ennio Berto
l’attestato di riconoscimento per
Valentino Berto che nascose
nella propria abitazione il prigioniero
sudafricano Giorgio.
L’assessore Luigi Sottovia
consegna a Giorgio Marangon
l’attestato di riconoscimento per
Antonio Marangon e Rosina Schiavon e
per Carlo Marangon e Maria Schiavon
che nascosero nella propria abitazione
tre prigionieri sudafricani e il soldato
italiano sbandato Bruno Coliandro.
L’assessore Luigi Sottovia
consegna a Luigia Pegoraro Gottardo
l’attestato di riconoscimento per
Alberto Pegoraro e Alba Marangon
che nascosero nella propria
abitazione il soldato italiano sbandato
Antonio Polignano.
Il sindaco Roberto Zanovello
consegna a Dante Cavinato
l’attestato di riconoscimento per
Ambrogio Cavinato e Settima Coletto
che nascosero nella propria abitazione
il soldato italiano sbandato Luigi Musio
e il pilota U.S.A. Paolo Jackson.
L’ assessore Antonio Canton
consegna a Antonio Ranzato
l’attestato di riconoscenza per
Raimondo Ranzato e Emma Miozzo
che nascosero nella propria abitazione
il soldato italiano sbandato
Domenico Laterza.
256
L’assessore Fabio Giacometti
consegna a Fidenzio Ranzato
l’attesato di riconoscenza per
Giulio Ranzato e Angela Marangon
che nascosero nela propria abitazione
il soldato italiano sbandato che si faceva
chiamare “Pastore”.
L’assessore Ivano Ranzato
consegna a Antonia Ranzato
l’attestato di riconoscimento a
Pasquale Ranzato e Anna Bernardello,
per avere protetto nella propria
abitazione il soldato italiano sbandato
Erminio Frigerio.
Altri attestati di riconoscimento sono stati consegnati a Olindo Olivo Ranzato e Brunetta Bonetto per
avere nascosto nella propria abitazione il soldato italiano sbandato Vito; a Oreste Ranzato e Gemma
Dalan per aver nascosto nella propria abitazione il soldato italiano sbandato Nicola; a Sante Tognon e
Nalesso Valentina per aver nascosto un prigioniero sudafricano nella barchessa accanto alla propria
abitazione e a Noè Nicoletti e Regina Pasqua Tognon per aver nascosto nella propria abitazione i
prigionieri Giovanni (sudafricano) Antony (inglese) e i soldati italiani sbandati Renzo e Francesco.
257
ANTOLOGIA FOTOGRAFICA
L’antica famiglia Ranzato che abitava nell’attuale via A. Manzoni a Vigodarzere .
Da sinistra: Flavia Ranzato, Pietro Ranzato, Bernardello Anna, Alfredo Ranzato, Severino Ranzato, Pasquale
Ranzato e Innocenza Ranzato.(Foto del 1910; coll. di Gianni Ranzato).
Cartolina di Tavo del 1912; a sinistra la Villa Veneta Farini del 1611, a destra il campanile romanico.
258
Tavo in una cartolina del 1912; Il campanile romanico fu demolito il 30 aprile 1936. (Arch. parrocchiale di Tavo).
Cartolina di Vigodarzere del 1912. (Arch. di Federico Zoccarato).
259
La banda musicale di Vigodarzere, nel 1934, davanti alla Villa Zusto.
Il ponte stradale sul fiume Brenta Vigodarzere-Padova con sostegni di legno, fu demolito nel 1938 e sostituito con un
ponte di cemento armato nel 1939. Il nuovo ponte nella notte del 27-28 agosto 1944 fu danneggiato da alcune mine poste
dai partigiani; poi fu colpito da bombardamenti aerei anglo-americani e distrutto nel mese di dicembre 1944. Dopo la
guerra, nel mese di settembre 1945 si iniziò la costruzione di un nuovo ponte in cemento armato, che fu inaugurato il 17
aprile 1946. Nel 1978-79 il ponte fu ristrutturato e allargato.
.
260
Cartolina di Saletto del 1946 con note soprascritte. (Arch. parrocchiale di Saletto).
Gli agenti della pubblica sicurezza italiani che sostituirono la polizia militare inglese
nel 1947 sfilano in Prato della Valle a Padova.
261
Foto degli alunni della 4^ elementare di Vigodarzere, anno scolastico 1948/49.
1° maggio 1958, il corteo nuziale del doppio matrimonio di Aurelio Giacomini e Natalina Fincato, Ottorino Schiavo e
Emilietta Giacomini. Nello sfondo la casa Barcarolo a Vigodarzere.
(Arch. fot. di Alberto Fincato).
262
L’inaugurazione del ponte della “LIBERTA’ ” Saletto- Limena, avvenuta il 5 maggio 1956. Da destra: il maestro
Guerrino Spinello, di spalle Zeno Gomiero sindaco di Vigodarzere e Mario Piva sindaco di Limena (con il capo chino).
Da sinistra: don Barausse parroco di Limena, dietro al parroco il sen. Stanislao Ceschi, in centro il Sottosegretario ai
Lavori Pubblici sen. Caron, l’avv. Cesare Crescente sindaco di Padova e mons. Gianesini in rappresentanza del
Vescovo. (Foto di Renato Martinello).
Il ponte stradale che collega Saletto di Vigodarzere a Limena duranre l’alluvione
del 6 novembre 1966. (Foto Renato Martinello).
263
Lo stesso ponte stradale della pagina precedente il 10 gennaio 2006.
Il ponte ferroviario Vigodarzere-Padova durante l’alluvione del 6 novembre 1966.
264
Lo stesso ponte ferroviario, della pagina precedente, il 10 gennaio 2006.
Club “3P”(1) di Vigodarzere nel 1962. In prima fila da destra: Domenico Zorzi, Aurelio Griggio, Nevio Dario,
Angelo Marangon, Walter Schiavon, Adriano Dario, Guido Pegoraro, Angelo Marangon, Bruno Schiavon, Cesare
Pegoraro, Arrigo Schiavon, Giulio Cesaro e Zeno Vettore. In seconda fila da sinistra: Giovanni Ranzato, Sergio
Zanella, Nevio Ranzato, Alfredo Lissandron, Alfredo Frison, Fortunato Ranzato, Umberto Bettio e Silverio Vettore.
__________
(1) Gruppo di agricoltori con il motto: “provare, produrre e progredire”.
265
Villa Veneta Zusto, sede comunale, edificio del 1556, la foto è del 1972.
Lato ovest della Villa Zusto, la foto è del 1972) (1).
(1)Testimonianza di Luigina Bianchetto Ranzato, (classe 1920), del 5 marzo 2006: “Sono stata la prima bidella delle scuole
medie, dal 1964 al 1972 nel piano superiore della Villa Zusto studiarono circa 75 alunni della scuola media, divisi in tre classi”.
La testimonianza del rag. Guido Rossi (classe 1938), del 15. 03. 2006: “Ho abitato nlla sede municipale con la mia famiglia (mio
padre era segretario comunale) sino al 1964, dopo l’ambiente fu adibito ad aule per gli alunni delle scuole medie di Vigodarzere”.
266
Lato ovest delle scuderie della Villa Zusto nel 1972.
Il dott. Sergio Busana, ha svolto l’appassionata missione di medico di tante famiglie di Vigodarzere dal 1952 al 1991.
Accanto la sua prima moto Gilera del 1952. (Collezione fot. dottoressa Roberta Busana).
267
Ponte di pietra ad arco romano sul Muson dei Sassi alla Castagnara di Cadoneghe, non si conosce la data della
costruzione. Durante la guerra la rampa sud fu colpita da una bomba,ma il ponte rimase illeso. Tale ponte ha sopportato
senza danni anche il passaggio di centinaia di migliaia di camion dal termine della guerra sino ad oggi.
Vigodarzere, maggio 2005 (1).
268
Saletto, maggio 2005.
Terraglione, maggio 2005.
269
Tavo, maggio 2005.
(1) Le foto aeree del 5 maggio 2006 sono di Giulio Cesaro.
Chiostro della Certosa.
270
VICUS AGGERIS (1)
Faro per arrivare alla mèta
altissimo il campanile
si mostra in lontananza
e l’odore di casa
affretta il passo.
Dopo un fiato di sosta
ombreggiata da maestosi ippocastani
Cà Zusto sente l’umore degli abitanti
tra fascicoli comunali
e nella piazza del centro
colora il mercato settimanale
l’insieme ciarliero di gente.
Ma cuore di storia è la Certosa
mistica di bellezza
con le sue rughe e crepe del tempo
incastonata nel suo scrigno di verde,
si lascia stringere dal fiume Brenta
che ha lasciato notti insonni
con le sue piene e alluvioni.
Nel sagrato della chiesa
da allora veglia premurosa
la Madonna delle acque.
Solo lontane memorie
le vecchie osterie annerite
che si animavano nel vociare
dal gioco di carte e gare di bocce
condite da un buon rosso
e uova sode tenute in tasca.
Al vecchio mulino a cinghie
si portavano granaglie
e le magre ricompense per i raccolti
erano le chiacchere giornaliere.
Saletto , Tavo e Terraglione
ti fanno corona:
un passato di stalle e filò
di contadini
adesso neppure eco nei pochi
alveoli rurali rimasti.
Ieri villaggio sull’argine,
oggi cittadina.
In passato odoravi di campi e polenta
e nella via centrale
solo zoccolìo di cavalli e rare bici.
Oggi smog di caotico traffico, di cemento
rendono pesante l’aria
col rimpianto dell’odore di fieno,
polvere di trebbiatura
e voli di rondini
a macchiare il cielo.
Vigodarzere 1960.
Vigodarzere 1933, Madonna delle acque.
Saletto, Villa Gomiero del 1544. A desra il molino per
macinare i cereali.
(Gazzetto Olga Bernardello - Vigodarzere 2006).
(1) Villaggio sull’Argine.
271
CRONOLOGIA
1914
Ottobre Novembre
1915
23 maggio
L’Italia dichiara guerra contro l’Austria-Ungheria.
1917
24 ottobre
6 novembre
7 novembre
Disfatta di Caporetto.
Divieto del suono delle campane
Rivoluzione bolscevica in Russia.
1918
3 novembre
L’Austria firma l’armistizio.
1919
Mussolini, interventista, è espulso dal Partito Socialista Italiano.
23 marzo
15 aprile
12 settembre
7 novembre
A Padova mons. Giacomo Gianesini e l’avv. Cesare Crescente fondano il
Partito Popolare Italiano.
Nel corso dell’anno Edoardo Ranzato di Vigodarzere acquista la prima
locomobile e la prima trebbiatrice del territorio comunale di Vigodarzere.
Mussolini fonda a Milano i Fasci di combattimento.
Fascisti e nazionalisti devastano la sede milanese dell’Avanti.
Gabriele D’Annunzio occupa la città di Fiume.
I fascisti si trasformano in Partito Nazionale Fascista.
1920
30 agosto
Inizia l’occupazione delle fabbriche.
1921
Al congresso del P.S.I. a Livorno nasce il Partito Comunista d’Italia.
Alla trattoria Dorio, 30 squadristi fascisti di Piove di Sacco, bastonano degli
operai di Altichiero.
1922
22-28 ottobre Colonne fasciste marciano su Roma senza incontrare resistenza.
10 ottobre
Il re incarica Mussolini di formare il nuovo governo.
21 dicembre Fondazione della sezione del Partito Nazionale Fascista di Vigodarzere.
1923
14 agosto
1924
6 aprile
10 aprile
10 giugno
13 giugno
1925
3 gennaio
1926
3 aprile
Uccisione di don Minzoni parroco di Argenta.
La maggioranza degli elettori di Vigodarzere vota fascista.
In Italia il listone fascista ottiene il 64.9 % dei voti.
Mussolini è proclamato cittadino onorario di Vigodarzere.
Rapimento e uccisione di Giacomo Matteotti.
I fratelli Natale e Giuseppe Schiavon di Vigodarzere acquistarono, per primi
nel territorio comunale, due trattori e una trebbiatrice.
Mussolini, capo del governo fascista, sopprime le libertà civili e dà inizio alla
dittatura.
Il sindacato fascista diventa organo dello Stato. Soppressi il diritto di sciopero e di
272
Luglio
Novembre
1927
1928
31 gennaio
1929
11 febbraio
10 novembre
1932
serrata.
Nasce l’Opera Nazionale Balilla.
Abolizione della libertà di stampa, di associazione sindacale e politica.
Istituito il Tribunale speciale per la Difesa dello Stato.
Il cav. Battista Benoni inaugura a Vigodarzere la fabbrica per la lavorazione degli
stracci, che occupa 500 operai.
I centri di Vigodarzere, Saletto e Tavo sono allacciati alla corrente elettrica. Arriva il
collegamento con il telegrafo.
E’ applicata la tassa sul celibato.
Referendun sulle leggi fasciste
Nel corso dell’anno è diffusa la Campagna del Grano.
Firmati i Patti Lateranensi.
E’ inaugurato il nuovo municipio di Vigodarzere, attuale Villa Zusto.
Inaugurazione del nuovo edificio scolastico elementare di Vigodarzere.
1933
30 gennaio
Hitler, capo del nazismo tedesco, sale al potere in Germania.
1934
14 giugno
Mussolini e Hitler si incontrano a Villa Pisani (Strà-Venezia).
1935
3 -11 0ttobre L’Etiopia è aggredita dal Regio Esercito Italiano.
La Società delle Nazioni decreta le sanzioni economiche contro l’Italia.
Inizia l’attività la prima farmacia di Vigodarzere.
18 dicembre Giornata dell’ oro alla patria.
1936
5- 9 maggio
LuglioNovembre
1938
12 marzo
Luglionovembre
1939
7 aprile
22 maggio
1° settembre
2 settembre
17 settembr e
1° ottobre
Occupazione italiana di Addis Abeba.
Proclamazione del nuovo Impero Italiano.
Ribellione dei reparti dell’esercito spagnolo contro la Repubblica.
Germania e Italia inviano aiuti miltari al generale Franco.
Soppressione delle fabbricerie della Diocesi di Padova.
Invasione tedesca dell’Austria e annessione alla Germania.
Promulgazione delle leggi italiane contro gli ebrei.
Aggressione militare italiana all’Albania e annessione all’Italia.
Firma del patto di alleanza militare e politica tra Germania e Italia.
Hitler scatena la seconda guerra mondiale con l’aggressione alla Polonia.
Gran Bretagna e Francia rispondono all’aggressione tedesca dichiarando guerra alla
Germania.
La Polonia è invasa anche dalle truppe russe.
Spartizione della Polonia tra Gemania e l’Unione Sovietica.
273
1940
3 gennaio
9 aprile
10 maggio
31 maggio
10 giugno
18 giugno
20 giugno
24 giugno
26 giugno
14 ottobre
28 ottobre
8 dicembre
1941
19 gennaio
22 gennaio
8 febbraio
25 febbraio
20 aprile
Aprile
8 aprile
6 aprile
10 aprile
10 aprile
18 aprile
20 aprile
3 maggio
Viene istituita l’I.G.E. (Imposta Generale sull’Entrata) che colpisce tutte le cessioni di
Beni e servizi. Costituirà per lo stato, per oltre 30 anni (quindi ben oltre la fine del
fascimo) la fonte maggiore di gettito fiscale.
L’esercito tedesco invade la Norvegia e la Danimarca. Il governo tedesco informa quello
Italiano solo dopo l’avvio dell’invasione, quindi senza rispettare gli impegni presi con
La firma del patto d’acciaio.
L’esercito tedesco invade Belgio, Olanda, Lussemburgo e dilaga in Francia aggirando le
difese francesi (linea Maginot). Il governo italiano fu informato ad operazioni avviate.
Il governo francese invita Mussolini ad astenersi dall’intervenire in guerra arrivando
persino a dichiarare la propria disponibilità a negoziati su punti controversi.
Mussolini dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna e si schiera con la
Germania nazista.
Hitler e Mussolini si incontrano a Monaco per discutere sulla richiesta di armistizio.
Mussolini avanza richieste considerate eccessive persino da Hitler che decide di
mettere da parte il governo italiano nelle trattative di resa del governo francese.
Nonostante la richiesta francese di armistizio, inizia sulle Alpi l’offensiva dello
esercito italiano contro la Francia.
Hanno termine le operazioni militari contro la Francia senza aver conseguito alcun
risultato di rilievo. L’unica località conquistata è Mentone, subito oltre il confine
ligure.
Mussolini mette a disposizione di Hitler un corpo di spedizione per invadere la
Gran Bretagna. Hitler respinge l’offerta.
Mussolini comunica agli alti vertici militari la decisione di attaccare la Grecia.
Finora, l’esercito italiano non ha fatto vedere quello di cui è capace.
Il governo italiano dichiara guerra alla Grecia.
L’esercito greco parte all’offensiva e conquista un terzo dell’Albania (colonia
italiana). Mussolini è costretto a chiedere che l’esercito tedesco venga in soccorso.
Gli inglesi lanciano l’offensiva in Africa settentrionale. Nel corso del mese gli
inglesi fanno prigionieri più di 120.000 soldati italiani. E’ la disfatta.
Mussolini, è in difficoltà su tutti i fronti in cui sono impegnati gli italiani e
sollecita l’appoggio delle truppe tedesche.
Le truppe inglesi conquistano Tobruk .
Genova è bombardata dal mare da una squadra navale inglese. La marina e
l’aviazione dello stato italiano non intervengono.
Le truppe inglesi conquistarono Bengasi in Libia.
A seguito del decisivo intervento dell’esercito tedesco, lo stato greco capitola e
l
chiede l’armistizio.
I tedeschi, sotto la guida del generale Rommel, riconquistano la Cirenaica.
Le truppe inglesi conquistano Massau (Eritrea) e catturano ciò che resta della flotta
italiana nel Mar Rosso.
L’esercito tedesco, appoggiato da forze militari dello stato italiano, bulgaro, e
ungherese, invade la Jugoslavia.
Le truppe inglesi e i combattenti abissini entrano in Addis Abeba (Etiopia).
Lo stato italiano decide di costituire la Croazia come stato satellite.
La Jugoslavia, costretta alla resa, firma l’armistizio.
A seguito del decisivo intervento dell’esercito tedesco, lo stato ellenico capitola e
chiede l’armistizio che viene firmato a Salonicco il giorno seguente.
Lo stato italiano si annette la Slovenia.
274
19 maggio
22 giugno
26 giugno
7 dicembre
11 dicembre
1942
2 marzo.
Dicembre
1943
5-10 marzo
13 maggio
9 luglio
19 luglio
24-25 luglio
28 luglio
3 settembre
8 settembre
9 settembre
10 settembre
12 settembre
12 settembre
16 dicembre
Ottobredicembre
1° ottobre
Ad Amba Alagi (Africa Orientale) le forze inglesi impongono la resa a quelle italiane.
Hitler da inizio alla guerra sul fronte orientale, con l’aggressione all’Unione
Sovietica. Mussolini informato da Hitler solo il giorno prima nonostante l’attacco sia
stato previsto già da alcuni mesi.
Mussolini decide di inviare in Russia un Corpo di spedizione composto di 62.000
uomini.
Lo stato giapponese attacca la base navale americana di Pearl Harbour.
Lo stato italiano dichiara guerra agli Stati Uniti secondo gli impegni previsti dal
Patto con la Germania e il Giappone.
Accordo italo-tedesco per l’invio di lavoratori italiani in Germania.
Inizio della ritirata italiana in Russia.
Scioperi degli operai a Torino e a Milano.
La guerra in Africa termina con la resa in Tunisia delle forze tedesche e italiane.
L’esercito anglo-americano sbarca in Sicilia.
Roma viene bombardata. Si contano oltre 1.500 morti.
Il Consiglio Nazionale Fascista mette in minoranza Mussolini che è destituito.
Il re nomina Capo del governo il Maresciallo Pietro Badoglio, un militare
totalmente coinvolto nel fascismo e diretto responsabile delle operazioni in varie
guerre di aggressione (Etiopia e Grecia). Mussolini è arrestato per ordine del re.
L’ex fascista Pietro Badoglio emana un decreto per lo scioglimento del Partito
Nazionale fascista.
Dopo ritardi ed esitazioni da parte italiana, a Cassibile (Siracusa) è firmato l’armistizio
con gli anglo-americani. L’esercito italiano si impegna a cessare le ostilità e a porre
fine alla collaborazione con l’esercito tedesco.
Il capo del governo Pietro Badoglio non vuole annunciare l’avvenuta stipulazione
dell’armistizio per paura di ritorsioni da parte dell’esercito tedesco. Ambiguità e
doppio gioco continuano a imperare all’interno dello stato italiano. Nel pomeriggio
(ore 16.30) Radio New York diffonde la notizia. Alle 19.45 Badoglio trova il
coraggio di annunciare alla radio l’avvenuta firma dell’armistizio, dando solo vaghe
indicazioni.
Il re, Badoglio e gli alti funzionari dello stato abbandonano Roma e si dirigono a
Brindisi per porsi sotto la protezione degli anglo-americani. E’ la fine di ogni senso
del dovere, la bancarotta morale dello stato è totale (corona, esercito e burocrati);
oltre seicentomila militari italiani sono internati nei lager nazisti e costretti
al lavoro coatto.
Padova è occupata dall’esercito tedesco.
Circa 10.000 soldati italiani dalle caserme di Padova sono deportati in Germania.
Mussolini, diventa capo della Repubblica Sociale Italiana, vassalla del Reich.
L’Autocentro di Pontevigodarzere e il Magazzino Aeronautico di Vigodarzere
sono occupati dai soldati tedeschi.
Primo bombardamento aereo su Padova.
Degli ottantamila prigionieri inglesi presenti nel territorio italiano, circa
cinquantamila sono nascosti da famiglie di agricoltori.
A Vigodarzere e nelle frazioni trovarono nascondiglio 36 prigionieri
inglesi e 10 soldati italiani sbandati.
Sono istituite la regione dell’Alpenvorland (comprendente le provincie di Trento,
Bolzano e Belluno) e dell’Adriatisches Kùsterland (comprendente le provincie di
Udine,Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana). Entrambe queste regioni vengono
annesse alla Germania nazista.
275
13 ottobre
1944
11 gennaio
18 febbraio
14 marzo.
4 giugno
6 giugno
12 giugno
20 luglio
Agosto
31 agosto
Ottobre
Dicembre
1945
Gennaio
Aprile
Il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania.
Ciano e altri gerarchi fascisti condannati a morte dal tribunale militare della Repubblica
Sociale sono fucilati a Verona.
La Repubblica Sociale Italiana introduce la pena di morte per i renitenti alla leva.
L’Unione Sovietica è il primo degli stati a riconoscere il governo dell’ex- fascista Pietro
Badoglio.
Gli anglo-americani liberano la città di Roma.
Inizio dello sbarco di un milione di soldati anglo-americani in Normandia (Francia).
Londra è colpita dalle bombe volanti tedesche V1.
Diventa operante il patto tra Hitler e Mussolini, in forza del quale i prigionieri
italiani vengono consegnati alla mercé della Germania.
Un numeroso presidio di soldati tedeschi del Genio Pontieri occupa l’edificio della
scuola elementare di Vigodarzere.
Primo bombardamento aereo del ponte della ferrovia Vigodarzere-Padova.
Un grande deposito di esplosivi è posto nei pressi dell’ex convento della Certosa di
Vigodarzere.
Il ponte di ferro della ferrovia Vigodarzere-Padova è distrutto dai bombardamenti
aerei.
29 aprile
30 aprile
8 maggio
Costruito un nuovo ponte di legno nella ferrovia Vigodarzere-Padova.
Le truppe anglo-americane sfondano la Linea Gotica.
Inizio della liberazione della Valle Padana.
Il Comitato di Liberazione Alta Italia proclama l’insurrezione armata.
Le truppe anglo-americane e i soldati italiani del nuovo esercito italiano (C.I.L.)
attraversano il fiume Po.
A Padova i fascisti firmano la resa.
Il comandante del presidio tedesco di Padova firma la resa.
Mussolini è fucilato a Giullino di Mezzegra (Como).
Sessanta ostaggi a Saletto di Vigodarzere rischiano la fucilazione.
Il sangue di partigiani, di soldati tedeschi e di cittadini inermi bagna il suolo di
Vigodarzere.
Le ultime cannonate anglo-americane colpiscono il presidio tedesco di Tavo.
Hitler suicida nella Berlino occupata dall’Armata Rossa dell’Unione Sovietica.
Sconfitta e resa della Germania. Fine della guerra in Europa.
1946
2 giugno
Gli italiani scelgono la Repubblica.
1948
1 gennaio
Entra in vigore la nuova Costituzione Italiana.
25 aprile
25 aprile
27 aprile
28 aprile
276
L’autore ringrazia:
- i testimoni che hanno raccontato la loro storia;
- don G. Franco Tescari (m. 25.10.2003) e don Luigi Bonetto arcipreti di Vigodarzere;
- don Pietro Cappellari, parroco di Tavo;
- Monsignor Antonio Moletta già parroco di Saletto;
- i cittadini che hanno fornito fotografie, documenti e consigli;
- il personale:
della Biblioteca Civica di Padova,
dell’ Istituto Veneto per la Storia della Resistenza dell’Università di Padova,
dell’ Archivio di Stato di Padova,
dell’ Archivio e della Biblioteca della Pontificia Basilica del Santo,
dell’archivio dei Missionari della Consolata Roma,
del Seminario Maggiore di Padova,
della Biblioteca Centro Studi Ettore Luccini,
della Biblioteca Comunale di Vigodarzere,
della Biblioteca Comunale di Limena,
dell’Ufficio anagrafe del Comune di Vigodarzere,
dell’Ufficio di segreteria del Comune di Vigodarzere,
dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Aeronautica di Roma,
dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano di Roma,
del Comandante dell’Aeronautica Militare Deposito Centrale Vigodarzere.
Per l’assistenza digitale un vivo grazie ai tecnici digitali Carlo Grigolon, Bruno Pegoraro (1950),
Egidio Facchin e a mio figlio Daniele.
Per la consulenza: un vivo grazie ai proff. Pierantonio Gios, Giuliano Lenci, Domenico Lobascio, la
dott.ssa Chiara Saonara e, in particolare, al dr. Mario Latino, al Dr. Gabriele Bejor..
Per l’incoraggiamento ricevuto, un ringraziamento al signor Danilo Don, Eugenio Auletta e al
Comitato Spontaneo per la salvaguardia del territorio di Vigodarzere.
Un singolare ringraziamento per la collaborazione alla Biblioteca Comunale di Vigodarzere.
Un ricordo particolare ai testimoni andati avanti:
n.
1930
1926
1936
1925
1926
1924
1924
1926
1931
1920
1916
1926
Desiderio Dorio
Vettore Zeno
Don Franco Tescari
Nevio Noventa
Armando Pasqualotto
Liseo Pulliero
Pasquale Carraro
Mario Gottardo
Romana Tiso
Giuseppe Carraro
Guerrino Ranzato
Gasparini Umberto
277
m.
26. 11. 2002
04. 09. 2002
25. 10. 2003
19. 12. 2003
23. 07. 2004
13. 12. 2004
15. 02. 2005
30. 10. 2005
19. 12. 2005
10. 01. 2006
26. 02. 2006
04. 12. 2007
INDICE DEI NOMI DI PERSONA
Absalon Roger 4, 50, 51
Albertin Maria Rosa Marisa IX
Agostini Idelino 32
Aguggiaro Francesco 11
Albanese (ispettore federale) 14
Albertini Enrico (agronomo) 11, 12, 16
Albori Argentino 139
Andriotti Romanin Carlo 40, 140
Annigoni Pietro 88
Antony (prigioniero inglese) 98, 242
Apolloni Giovanni 98, 99, 112
Artero Domenico 49, 51, 57, 75, 112
Auletta Eugenio 227, 262
Auxi, Ronny e Denis (prigionieri sudafricani)
67, 239
Badoglio Pietro 27, 28, 49, 57, 92, 116, 124, 146,
260, 261
Bagnolesi Gina 207
Bano Aldo 67
Bano Antonio 67, 233
Bano Giuseppe 67
Bardella Cesare 69
Bassani (fratelli) 53
Bassani Emma 208
Bassani Vieno Ines 53
Beccegato Guerrino 20
Bejor Gabriele 262
Bellon Albino 25, 137, 149
Bellon Vettore Antonietta 136
Belloni 196
Benedetti Moscardin Vera 41
Benetti Anselmo 32
Benetti Ivo 75
Benoni 75
Benoni (fabbrica) 18, 72, 148, 150
Benoni (torre) 149
Benoni Battista 18, 19, 20, 258
Benoni Ruggero 19, 20, 149, 150
Bernardello Anna 242, 243
Berro Angela 239
Berto Ennio 241
Berto Pegoraro Teresa 59, 88
Berto Valentino (detto Faiva Boaro) 88,
241
Bettio Umberto 250
Bianchetto Ranzato Luigina 251
Bidoli Lorenzo 51
Bisarello Carlo 121
Bolzonella (tipografia) 10, 179, 199
Bolzonella Carlo 103
Bonetto Brunetta 95, 242
Bonetto Luigi 237, 262
Borgato Delfina 106, 112
Borgato Maria 107, 112
Borsato 13
Boscolo Armando 51
Bovo Giulio 121, 179
Bovo Luigi 178
Bragagnolo Gaetano (medico condotto) 20
Bressan Ludovico 121
Briosi Cristina 19
Broetto Antonio 41, 75
Broetto Rina 191
Busana Roberta 252
Busana Sergio 252
Butti Angiolino 207
Callegaro (famiglia) 130
Callegaro Bruno 65, 66
Callegaro Dario Maria 67
Callegaro Domenico 64, 238
Callegaro Manganello Marcella 65, 66
Callegaro Marcello 66
Calzavara Vettore Angela 158
Camporese Arturo 171
Camporese Sante (Santo Bogetta) 25
Canovese Rettore Maria 217
Canton Antonio 234, 239-241
Cappellari Pietro 4, 183, 262
278
Carducci Giosuè 221
Carità (banda) 112, 164, 194, 196, 197
Carlassare Fortunato 178
Carraro (prof.) 193
Carraro Giuseppe 183, 184, 191, 262
Carraro Giuseppe (don) 179
Carraro Luigi 199
Carraro Pasquale 207, 208, 230-232, 235, 237,
238, 262
Carraro Roberto 238
Carraro Silvano 238
Cartens Pietro 60-62, 238
Casale A. 6
Casarotto Giorgio 13
Casarotto Girolamo 15
Cassina Giancarlo 162
Castaldelli Giovanni 194
Cavinato Albano 220, 224
Cavinato Ambrogio 92, 241
Cavinato Dante 92, 94, 241
Cavinato Eleonora 98-99
Cavinato Ezio 171
Cavinato Gianni 93, 234, 235
Cavinato Giuseppe 220
Cavinato Stefano 171
Cavraro Noventa Laurina 238
Cecchinato G. (agricoltore) 6
Cerato Paccagnella Maria 25
Cesaro Antonio 188
Cesaro Cristiano 237, IX
Cesaro Daniele IX
Cesaro Ermenegildo 21
Cesaro Giulio 3, 4, 25, 139, 141, 142, 143,
144, 163, 167, 250, 266
Cesaro Vincenzo 25, 177
Ceschi Stanislao 248
Ciotta Grazia 14
Cipriani Angelo 51
Cittadella Vigodarzere (conte) 6
Colbachini (ditta) 42
Coletto Settima 241
Coliandro Bruno 89, 241
Colomba (nonna, zia) 66, 77
Contran Alfredo 6, 215
Corazzina Antonio 183
Corazzina Nicolò 103
Cortese Placido 51, 103-107, 109, 110, 112, 113,
128, 178, 179
Cosma Guerrino 188
Costa Massimo 239, 240
Crescente Cesare 6, 248, 257
Dalan Gemma 95, 242
Dalla Vecchia Vinicio 10, 22
Dario Cesare 134, 220
Dario Giovanni 220
Dario Nevio 67, 131, 134, 138, 250
De Benedetti (famiglia) 186
De Besi A. 6
De Franceschi Matteo 33
De Grazia Victoria 6
De Marchi Amelia 60, 62, 64, 238
De Marchi Franca 94
De Marchi Giovanni 61, 62
De Marchi Loretta 64
De Marchi Marianna 177
De Marchi Pasqualina Adelia 64, 238
De Marchi Silvia 62
De Marchi, Domenico 60, 65, 238
De Rossi Giuseppe 165
De Rossi Leonilde 172
De Santi Gina 41, 42
Della Vigna Buono 11
Demo Giorgio 132, 133
Dimeck Ilario 33
Don Danilo 262
Don Domenico 32
Don Ferdinando 157
Donà Giovanni 11
Donazzan Gioacchino 14, 74, 124, 150, 172, 182,
185, 186, 191, 230
Dori Bonaventura 12, 134
Dori Ferdinando 35, 134, 135, 148, 157
Dorio (famiglia) 70, 72
Dorio (fratelli) 203
279
Dorio (osteria) 11
Dorio (trattoria) 202, 203, 206, 218, 257
Dorio Bruno (Mario) 70, 71, 73, 239
Dorio Desiderio 70, 262
Dorio Giovanna 202, 205, 206
Dorio L. (ferroviere) 6
Dorio Luigi 239
Duse Vittorio 49
Elardo Gianfranco 36
Elena (regina) 29
Fantelli Giorgio Erminio 6, 10, 50, 179, 193, 198
Fasolo Gino 11
Fassina Cesare 230
Favero Eugenio 35
Favero Giovanni 35
Fincato Alberto 247
Fincato Maria 178
Fincato Roberto 153
Fincato Virginia 153
Finco Antonio 158
Finco Maria 11
Fioranzato (sorelle) 130
Fiorenzato Giovanni 209-211
Fiumani Eneo 37
Fortin Giovanni 103, 112
Francato (famiglia) 225
Franceschini Ezio 51, 112, 113, 193, 194, 197
Frigerio Erminio 100, 101, 242
Frison (fratelli) 71, 74
Frison Alberto 135
Frison Alfredo 250
Frison Carmelo 71
Frison Guerrino 71
Frison Mario 35, 74, 135, 170, 171, 239
Frison Virginio 70
Gaetana (la) 119
Gallo Felice 178
Gallo Giovanni 11
Gamba Arturo 11
Gaspari Roberto 38
Gasparini Silvano 151
Gasparini Umberto 78, 138, 147, 161
280
Gazzetto Bernardello Olga 256
Giacomelli (podestà) 13, 14
Giacomelli Albano 11
Giacomelli Bruno 12, 15
Giacomelli Francesco 12, 13, 71
Giacomelli Giorgio 176, 177
Giacomelli Giuseppe 178
Giacomelli Guido 180
Giacomelli Jole 12
Giacometti Fabio 235, 238, 242
Giacometti Giovanni 191
Giacon Luigi 75
Gianesini Giacomo 6, 248, 257
Gios Pierantonio 4, 50, 51, 79, 103, 168,
179, 198, 262
Giovanni (prigioniero inglese) 98
Gobbin Mario 103-105, 112
Gomiero (famiglia) 153, 154
Gomiero (fratelli) 72, 137, 211
Gomiero Guido 15
Gomiero Zeno 248
Gottardo (fratelli) 79, 82, 83
Gottardo Amedeo 185, 240
Gottardo Emilia 177
Gottardo Federico 80
Gottardo Giannino 153, 154
Gottardo Mario 78, 79, 84, 240, 262
Gottardo Raffaele 171
Gottardo Settimo 78
Grassi Pietro 48
Griggio Antonio 126, 132, 160, 217
Griggio Aurelio 250
Griggio Frison Rosa 74, 239
Griggio Gastone 230
Griggio Gino 230
Griggio Giovanni (detto Rei) 71
Griggio Guerrino 71
Griggio Luca 234, 238
Griggio Mario 230
Griggio Nazzareno 34- 35
Gualtieri Elio 13, 14
Gualtieri Gualtiero 14
Guzzo (famiglia) 177
Guzzo Beniamino 65, 69, 71, 99, 164, 178, 180
Henderik Andries 75
Hitler Adolf 27, 37, 49, 54, 78, 86, 90, 91,
124, 138, 146, 209, 258-261
Jackson Paul 95
Laterza Domenico 241
Latino Mario 262
Lenci Giuliano 5, 79, 189, 235, 262
Lincetto Ferdinando 11, 12, 15
Lincetto Pietro 185
Lion Bruno 194
Lion Giuseppe 128
Lissandron Alfredo 250
Lobascio Domenico 262
Lorenzato fratelli 114
Lorenzato Mario 11, 13
Lorenzo (soldato italiano sbandato) 242
Lotto Ruggero 121
Luzzatto Sergio 6
Magnani Tito M. 128
Maiolo Italo 188
Malosso Ernesto 188
Mandic Leopoldo 123
Manganello Alberto 32
Marangon Alba 90, 212, 241
Marangon Albano 43
Marangon Angela 95, 242
Marangon Angelo 223, 250
Marangon Antonio 241
Marangon Augusto 71
Marangon Bettin Zena 75, 135, 138
Marangon Carlo 89, 241
Marangon Daniele 232, 234
Marangon Francesco 223
Marangon Giorgio 241
Marangon Giovanni 183
Marangon Griggio Elisa 230
Marangon Italo 138
Marangon Luciano 67, 235, 237, 238
Marangon Mario 89, 177
Marangon Zoccarato Emma 89
Marchesi Concetto 51, 52, 112, 113, 194
Maria Josè 29
Martin Roberto 183, 186
Martinello Renato 165, 173, 187, 248
Martini (sorelle) 106, 110
Martini Giovanni 35
Martini Giovannino (detto Arrigo) 35, 190
Martini Lidia 35, 109, 110, 113
Martini Liliana 107, 108, 110, 113
Martini Sabbadin Lidia 109
Martini Teresa 106, 107, 110, 113
Martini Vito 35, 136
Marzetto Libero 51
Marzolla Alberto 167
Mason Nevio 203
Matteotti Giacomo 9, 194, 257
Mazzarelli Francesco 19
Mencarelli Alighiero 20
Meneghetti (pittore) 71
Messori Roncaglia Carlo 192-200
Michelon Maria 76, 240
Michieli Antonio 38, 51,
Milani Lorenzo 28
Miliani Luigi 151
Miozzo (famiglia) 186
Miozzo Emma 95, 241
Miozzo Eugenio 138
Miozzo Gino 42
Miozzo Giuseppe 41
Miozzo Ivone 183
Mirto Leonardo 235
Moletta Antonio 58, 59, 65, 99, 124, 130, 133, 164,
165, 180, 181, 185, 191, 192, 234, 236, 262
Morisi Celso 11
Moscon Nevio 12
Munaron Guido 69, 99, 178
Murena Maria 94
Musiu Luigi 94
Mussolini Benito 6, 9, 10, 16, 18, 22, 27, 28, 30,
34, 35, 36, 37, 38, 40, 42, 49, 52, 54, 61, 78, 90, 92,
95, 115, 116, 124, 128, 146, 160, 189, 193, 194, 209,
257, 258, 259, 269, 261
281
Nalesso (famiglia) 153
Nalesso Antonio 69
Nalesso Ottavio 209
Nalesso Valentina 69, 242
Nalon Tiziano 183
Nave Sergio 120, 122, 124, 151, 155, 172
Nicola (sbandato) 242
Nicoletti (famiglia) 97, 98, 231
Nicoletti Fosca 97, 99
Nicoletti Mario 183
Nicoletti Noè 242
Nomito Cesare 105, 113
Noventa (famiglia) 58, 97, 98
Noventa Nevio 57, 59, 60, 62, 64, 76, 88, 238,
262
Noventa Rina 59, 60
Olivi Giovanni 217
Olivi Giulio 216, 217
Olivi Marcello 3, 76, 77, 131, 165, 193, 196
Olivi Rino 217
Olivi Vittorio 216, 217
Oliviero Giacinto 240
Paccagnella Nazzareno 14, 22, 140
Palmitesta Aldo 18, 235
Parancola Artemio 59, 172
Parancola Guerrino 130
Pascon Bernardello Teresa 160
Pasqualin (famiglia) 130
Pasqualon Antonia 65, 238
Pasqualotto Armando 35, 73, 135, 180, 181, 239,
262
Pasqualotto Danilo 130
Pasqualotto Marco 239
Pasqualotto Romano 130
Pasqualucci Alberto 40
Pasquetto Francesco 171
Pasquetto Ivano 22, 43, 190
Pasquetto Radames 22, 171, 176
Pasquetto Salvino 171
Paugia Michele 115
Pavolini Alessandro 132
Pedron Cesaro Oliva 30, 38, 184
282
Pegoraro (famiglia) 90, 91, 100, 213
Pegoraro Alberto 179, 241
Pegoraro Bruno Giuseppe 91, 189
Pegoraro Cesare 250
Pegoraro Giuseppe 90
Pegoraro Gottardo Luigia 79, 90, 91, 211
Pegoraro Guido 250
Pegoraro Lino Giovanni 189, 190
Pegoraro Luigina 82
Pegoraro Rosetta 212
Pegoraro Silla 212
Penello Massimo 239, 240
Peron (fratelli) 115
Peron Giovanni 115
Peron Guerrino 175-176
Peron Rosetta 212
Perona Corrado 190
Peruffo Cesare 48
Peruzzo Giovanni 11, 12, 15, 22, 72, 140
Petrin (avvocato) 10
Pezziol G.B. 9
Piccolo Cesare 183
Pieretti Gregorio 87, 240
Pieretti Renzo 85-87, 240
Pilli Adriano 76
Pilli Antonio 158, 177
Pilli Cesare 11, 175, 176
Pilli Elisa 203
Pilli Giuseppina 177
Pilli Sante 184
Pindemonte Ippolito 219
Pinton - Zorzato (osteria) 31
Pinton detto Cagnetta 71
Piotto Aldinesco 188
Pirazzo Ester 61, 77, 240
Pirazzo Innocente 204
Pirazzo Salvadego Maria 159
Piva Mario 164, 165, 248
Plisch Alfredo 85, 86
Polignano Antonio 90, 91, 241
Polledri Anna Maria 26
Ponziani Eleutereio 235
Prisco Dino 85
Prisco Erminia 240
Prisco Seconda 85, 240
Pulliero Carlo 175
Pulliero Liseo 48, 262
Rafido Paolo 220, 224
Ragazzo Severino 12
Ranzato (famiglia) 100, 193, 243
Ranzato (professore) 243
Ranzato Alfredo 101, 243
Ranzato Antonia 100, 101, 242
Ranzato Antonio 95, 96, 241
Ranzato Carlo 35, 176
Ranzato Edoardo (detto Barbetta Napoeon) 31,
220, 222, 257
Ranzato Fidenzio 69, 95, 96, 242
Ranzato Flavia 243
Ranzato Fortunato 250
Ranzato Gabriele 101
Ranzato Gianni 67, 68, 166, 239, 243
Ranzato Giovanni 250
Ranzato Giulio 95, 242
Ranzato Guerrino 43, 44, 46, 262
Ranzato Innocenza 243
Ranzato Ivano 101, 234, 242
Ranzato Nevio 250
Ranzato Olivo 242
Ranzato Oreste 95, 242
Ranzato Pasquale 242, 243
Ranzato Pietro 171, 243
Ranzato Raimondo 95, 241
Ranzato Severino 171, 243
Ranzato Timante (detto Gianni) 64, 67, 68, 85,
113, 130 139, 188, 239
Ranzato Toni 194, 195
Ratzinger Joseph 27
Rensburg Petrus Johannes Janse van 74, 75,
239
Renzo (soldato italiano sbandato) 98, 242
Rettore (suor) Valentina 217
Rettore Albano 217
Rettore Dino 217
283
Rettore Elisa 217
Rettore Ferdinando Leone 217
Rettore Giulio 42, 43, 50, 70, 77, 89, 100, 124,
136, 137, 147, 148, 153, 158, 159, 160, 166, 168-170,
174, 184, 203, 214, 215, 218, 220
Rettore Giuseppe 220
Rettore Leone 217
Rettore Lucia Elvira 217
Rettore Manuela 240
Rettore Marco 217
Rettore Maria Valentina 217
Rettore Oliviero Maria 240
Rettore Raimondo 75, 240
Rettore Rina 217
Rettore Rosi 217
Rizzato Girolamo 14, 20
Roberti R. 6
Robertze (famiglia) 59
Robertze Graziella Helena Antonietta 5860
Robertze Henry (detto Robi) 57, 238
Romani Armando 51, 109
Romanin Andriotti 40, 140
Romanin David 233
Rombaldi Alessandro 240
Rombaldi Benvenuto 135
Rombaldi Gino 76, 78, 135, 136
Rombaldi Lina Maria 77, 78, 240
Rombaldi Romeo 78
Rombaldi Romeo 78
Rossi Paolo 61, 70
Rostirola Luigi 205
Ruffato Luigi Francesco 210
Sabbadin Gavino 6, 32
Sabbadin Sylva 233
Sabbadin Valerio 82
Salmaso Fernando 237
Salviato Luigi 74, 239
Salviato Teresina 75
Salviato Ugo 74, 239
Salvò Luciano 233
Sandreto (famiglia) 164
Saonara Chiara 93, 97, 158, 262
Sardena Angela 26, 37
Saretta Giuseppe 71
Saretta Luigi 13
Sartori Luigi 220
Sasso Aaram Antonio 126
Savoia (casa) 29
Scapolo Maria 26
Schiavo Adriano 99
Schiavo Pasquale 100
Schiavo Silvano 99
Schiavon Arrigo 78, 220
Schiavon Giuseppe 220, 223, 257
Schiavon Maria 89
Schiavon Natale 223
Schiavon Rosina 89, 241
Schiavon Sebastiano 6
Schiavon Cristiano 234
Schiavon Walter 135, 220, 250
Sgaravatti (famiglia) 14
Siccardi Giuseppe 266
Silvestri Domenico 125
Simionato Noventa Gisella 60
Smith Richard 78-80, 82-84, 240
Sottovia (fratelli) 115
Sottovia Gino 171
Sottovia Luigi 241
Spinello Guerrino 130, 170, 181, 192, 231, 248
Strapazzon Modesto 128
Sturzo Luigi 9
Suares Giovanni (prigioniero sudafricano)
73, 77, 85, 86, 239, 240, 242
Talliero Olivi Amneris 217
Tescari Franco 103, 232, 262
Tessarolo Girolamo 51, 113, 179, 197
Tiso Romana 262
Tognon Aurelio 98
Tognon Giuseppe 69
Tognon Luigi 85
Tognon Pino
Tognon Regina Pasqua
Tognon Sante 242
Tognon Secondo (detto Zeno) 130
Tommaso e Santi (prigionieri inglesi) 64 - 66,
238
Tono Pietro 6
Torresin Pegoraro (famiglia) 177
Turato Carlo 174
Turri (fiduciaria del Fascio) 13
Turri (segretario comunale) 12
Umberto di Savoia 29
Valente Gioacchino 133
Varese Renato 225
Veggiani Emilia 238
Verzotto Giovanni 138
Vettore Aldo 237
Vettore Amedeo 76
Vettore Angela 158
Vettore Brunone 176
Vettore Cicci 176
Vettore Dionisia 26
Vettore Domenico 184
Vettore Dorio Rosa 70, 72
Vettore Ettore 22
Vettore Francesco 137
Vettore Gino 72, 171, 176
Vettore Giuseppe 136
Vettore Loretta 225
Vettore Rosa 239
Vettore Silverio 250
Vettore Zeno 22, 158, 171, 250
Vezzaro Francesco 239
Vicentini Giovanni 198
Vieno Felicita 67, 239
Vieno Ferruccio 171
Vieno Mario 185
Visentin Giuseppe 11
Vito (soldato italiano sbandato) 242
Vittore Andrea 11
Vittorio Emanuele III 28, 49, 146
Zambon Milena 106, 107, 113
Zanarotti Alessandro 22
Zanarotti Bruno 13
Zancan Lanfranco 106, 193, 195, 196, 199
284
Zandarin Orfeo 183
Zandarin Severino 183
Zanella Giorgio 234
Zanella Patrizio 10, 22, 210
Zanella Sergio 250
Zanellato Gastaldello Maria 33
Zanettin Ubaldo 38, 179
Zanin Mario 51, 112, 113
Zanocco Giovanni 164, 165
Zanon Giovanni 217
Zanoni Eleonora 162
Zanovello A. 6
Lollo alberto 170
Zanovello Roberto 231, 233-237, 240, 241
Zaramella Pietro 51, 168
Zin Antonio 183
Zoccarato Federico 14, 24, 25, 43, 55, 147, 148,
153, 155, 156, 166, 168, 244
Zoletto Giambattista 20
Zoletto Silvia 14
Zorzato Gabriele 31
Zorzato Rizzieri 12, 13
Zorzato Tosca 216
Zorzi Domenico 250
285
La presente ricerca storica è consultabile presso la Biblioteca dell’Istituto per la Storia della Resistenza
dell’Università di Padova (Palazzo del Bo’), la Biblioteca Civica di Padova, la Biblioteca del Seminario
Maggiore di Padova, le Biblioteche Comunali di Vigodarzere e di Limena.
- Per non dimenticare –
Vigodarzere (Padova) – 25 aprile 2006 –
Nel 61° anniversario della Liberazione
A cura di Giulio Cesaro (classe 1937)
Fax 049 887 71 140 www.giuliocesaro.it
Copyright 2006 by Giulio Cesaro
Qualsiasi riproduzione, anche parziale, deve essere espressamente autorizzata.
(Per amore della storia, si prega di conservare questo testo ed eventualmente donarlo ad una biblioteca).
Finito di stampare nel mese di Giugno 2006
dalle Grafiche Gemma su incarico diretto
dell’autore Giulio Cesaro.
Nella 4^ di copertina:
Il titolo: I germogli della solidarietà.
Opera del pittore Giuseppe Siccardi di Vigodarzere.
Tecnica: tempera e vernici.
286
287
Fly UP