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Capitolo II Il contraente “debole”
Capitolo II Il contraente “debole” Sommario: Premessa – 1. Il consumatore. Breve rassegna della più recente giurisprudenza – 1.1. Il giudizio di vessatorietà delle clausole – 1.2. La “class action” – 1.3. Il Codice del Turismo – 2. L’imprenditore “debole” – 2.1. L’invalidità nei contratti d’impresa – 3. I contratti d’investimento e la più recente giurisprudenza – 3.1. (segue) Il credito al consumo – 4. L’esercizio della professione forense in forma societaria Premessa Si è già accennato nelle pagine che precedono come l’irrompere della normativa speciale e la rinnovata concezione del modo di produzione della ricchezza capitalistico abbia comportato uno stravolgimento delle regole codicistiche sul modo di intendere il contratto: non più, quindi, due soggetti, dotati del medesimo potere e della medesima forza negoziale, ma due parti, una delle quali dotata, fisiologicamente, verrebbe da dire, di una potere contrattuale minore, che si trova a dovere aderire ad un regolamento pattizio praticamente predisposto in maniera unilaterale. Un chiaro e fulgido esempio del contraente debole è quello dell’ormai tipizzato “consumatore”, ma bisogna rilevare come la tutela predisposta a favore della parte debole del contratto non sia solo quella consumeristica, rinvenendosi all’interno della legislazione molteplici normative di “protezione”: a titolo esemplificativo, si pensi al Tub, al Tuf, alla legislazione lavoristica e delle locazioni. Non solo. Continuare a parlare del consumatore ovvero continuare ad intendere quale unica parte debole del contratto la singola persona fisica pare ormai anacronistico, dal momento che il legislatore ha fatto proprie le istanze di tutela anche delle imprese che, nella 20 tutela del consumatore e terzo contratto contrattazione, sono dotate di un minore potere, come, ad esempio, è accaduto con la disciplina della subfornitura, della lotta ai ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, per non parlare del fatto che discipline quali quella contenuta nel Tub e nel Tuf rivolgono un generico riferimento al “contraente” senza ulteriormente specificare se tale, ai fini dell’applicazione della peculiare disciplina protettiva ivi prevista, possa essere considerato il solo consumatore ovvero, anche, l’impresa. Per queste ragioni e, senza comunque entrare nel merito delle considerazioni che si svolgeranno nel prosieguo, questo capitolo contiene una sia pur beve descrizione delle normative “di protezione” e dei tratti problematici di esse e ciò sulla base di una “summa divisio” fra la categoria del consumatore e dell’impresa debole. 1. Il consumatore. Breve rassegna della più recente giurisprudenza Prima dell’entrata in vigore del Codice del consumo, una nozione generale di consumatore era contenuta nell’art. 1469-bis, co. 2, c.c., il quale statuiva che “il consumatore è la persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”; ad essa si affiancavano altre definizioni sostanzialmente omogenee, delimitanti l’ambito soggettivo di applicazione di normative consumeristiche settoriali, di derivazione comunitaria (si pensi a titolo esemplificativo agli artt. 1519-bis e ss., c.c., introdotti dal d. lgs. n. 24/2002; art. 1 d. lgs. n. 185/1999; art. 2 d. lgs. n. 50/1992) e tale nozione viene oggi riproposta dall’art. 3 del Codice del consumo (D. lgs. 206/2005). Con riferimento all’espressione “scopi estranei alla professione”, di cui al predetto art. 3, co. 1, lett. a), deve osservarsi che, secondo un orientamento dottrinale minoritario, il legislatore avrebbe inteso fare riferimento alle finalità soggettive perseguite, al momento della stipulazione del contratto, dalla parte interessata al bene (o al servizio). All’opposto, dottrina e giurisprudenza prevalenti, in modo condivisibile, valorizzano il dato oggettivo dell’operazione negoziale, incentrando l’indagine sulle caratteristiche del bene oggetto del contratto e sulla destinazione funzionale dello stesso al soddisfacimento di bisogni privati (personali o familiari) ovvero di esigenze professionali. Soprattutto essenziale si appalesa il dato esteriore dell’uni- Capitolo II – Il contraente “debole” 21 vocità e della concludenza delle condotte tenute dalla parte. Orientamento, questo, che ha ricevuto l’avallo della Corte di Giustizia CE (sent. 20/1/2005, C-464/2001) A questo punto, però, si pone un ulteriore quesito, e cioè se il predetto “legame funzionale” tra contratto e attività professionale sussista solo quando il primo sia un atto tipico della professione, o se, viceversa, è sufficiente che il contratto stipulato sia inerente alla professione. Si registra in proposito un recente orientamento della giurisprudenza di legittimità. In particolare, la Suprema Corte (Cass. 8/6/2007, n. 13377), ha precisato che la persona fisica svolgente attività imprenditoriale o professionale può essere considerata alla stregua di semplice “consumatore” soltanto allorché concluda un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’esercizio di dette attività. Deve, invece, essere considerata “professionista” la persona fisica che utilizzi il contratto “nel quadro” della sua attività professionale o imprenditoriale. Perché ricorra la figura del “professionista” non è, pertanto, necessario che il contratto sia posto in essere nell’esercizio dell’attività imprenditoriale o professionale, essendo sufficiente che il soggetto agisca per uno scopo connesso a quest’ultima. Dottrina e giurisprudenza si sono, inoltre, interrogate circa l’applicabilità della disciplina consumeristica alla persona fisica che, stipulando un contratto concernente beni strumentali alla propria attività imprenditoriale futura, al momento dell’acquisto non rivesta ancora la qualifica di imprenditore. Secondo un primo orientamento, i c.d. contratti in vista della professione sarebbero qualificabili quali atti di consumo, in quanto il legislatore, perché ricorra la figura del professionista, richiederebbe espressamente l’attualità dello svolgimento della professione. L’assunto sembrerebbe avvalorato dal dato testuale, ed in particolare dall’utilizzo del participio passato “svolta” all’interno dell’art. 3 (e prima di esso dell’art. 1469-bis, c.c.). Inoltre, sembrerebbe, comunque, incompatibile con la ratio di protezione della normativa in esame, esigere una diligenza qualificata ex art. 1176, co. 2, c.c., da parte del professionista in fieri. Vi è, invece, un’altra impostazione che perviene a conclusioni opposte. In particolare, si afferma che il dato teleologico prevarrebbe su quello cronologico, dovendosi ritenere integrato il requisito della 22 tutela del consumatore e terzo contratto destinazione funzionale all’esercizio della professione, ogniqualvolta sia concluso un contratto connotato da una “proiezione” professionale. Rappresentativa di tale orientamento è una pronuncia, non molto risalente, della Cassazione (Cass. 10/6/2004, n. 15475) la quale conclude che “…ciò che rileva ai fini dell’assunzione della veste di consumatore è l’estraneità o meno dello scopo avuto di mira rispetto all’attività professionale dell’agente nel momento in cui questi ha concluso il contratto; ne consegue che deve escludersi che possa qualificarsi come consumatore la persona che, in vista di intraprendere un’attività imprenditoriale, cioè per uno scopo professionale acquista gli strumenti indispensabili per l’esercizio di tale attività”. A sostegno della riconducibilità dei c.d. contratti in vista della professione nell’ambito dei contratti del professionista, si invoca, in definitiva, il principio di tutela dell’affidamento incolpevole, che impone di considerare professionista colui che all’esterno appare come tale. Il dibattito attorno alla nozione di consumatore ha, poi, assunto toni particolarmente vivaci con riguardo alla specifica questione della disciplina applicabile ai c.d. contratti misti, ovverosia ai contratti stipulati da un soggetto per soddisfare esigenze, al contempo, di carattere personale e professionale. Si pensi a titolo esemplificativo all’avvocato che acquisti un computer per utilizzarlo per la redazione degli atti giudiziari, nonché per permettere al figlio di navigare su internet ovvero ad un agente di commercio che acquisti un’autovettura sia per raggiungere i propri clienti sia per spostarsi con la famiglia nel fine settimana. Sul punto si sono formati vari orientamenti. Innanzitutto, vi è chi ritiene che colui che stipuli un contratto connotato da una destinazione mista debba essere considerato consumatore, in quanto la lettera della norma non richiedendo expressis verbis che gli scopi estranei all’attività professionale siano perseguiti in modo esclusivo, sembrerebbe includere tra gli atti di consumo, quelli aventi finalità promiscue. All’opposto, secondo un altro e più rigoroso indirizzo, proprio ponendo l’accento sul concetto di “estraneità” alla professione, cui testualmente si riferisce l’art. 3, 1º comma, lett. a) la qualifica di consumatore andrebbe esclusa ove il bene non sia destinato esclusivamente alle esigenze personali e familiari. I fautori di tale orientamento valorizzano, poi, la ratio sottesa alla disciplina consu- Capitolo II – Il contraente “debole” 23 meristica, consistente nel tutelare i soggetti che agendo al di fuori dell’attività professionale, sono sprovvisti della preparazione necessaria per ponderare gli eventuali rischi derivanti dalla stipulazione contrattuale. Dunque, tale esigenza di protezione non sussisterebbe ogniqualvolta il contratto abbia una destinazione, anche solo in parte, professionale. La questione dei contratti misti è stata funditus scrutinata da una pronuncia abbastanza recente della Corte di Giustizia CE (sent. 20.1.2005, C-464/2001) la quale ha avallato l’orientamento più rigido. Con riferimento, poi, alla nozione di “professionista”, deve rilevarsi che essa a mente della lettera b) del citato art. 3 coincide con «la persona fisica o giuridica che agisce nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale, ovvero un intermediario». Proprio in questo modo sembra essersi superata quella distinzione tutta interna al codice civile fra professionista e imprenditore trovando disciplina, il primo agli artt. 2229 ss. c.c. e il secondo, invece, agli artt. 2082 ss. c.c. 1.1. Il giudizio di vessatorietà delle clausole In ordine al significato di “clausola vessatoria”, così come emergeva dal precedente art. 1469 bis, comma 1, c.c., nonchè così come è ora disciplinato dal nuovo art. 33, comma 1, c. cons., si sono registrate alcune recenti ed interessanti pronunce, su cui è opportuno in questa sede soffermare l’attenzione. Al fine di comprendere a pieno gli ultimi arresti giurisprudenziali, giova ricordare che l’art. 33 Cod. cons. stabilisce che una clausola è abusiva quando, malgrado buona fede del professionista, comporta un significativo squilibrio di diritti ed obblighi a carico del consumatore. Quanto all’inciso “malgrado buona fede”, abbandonata ormai la tesi della buona fede in senso soggettivo, è ormai pacifico che, stando anche ad un’interpretazione letterale della norma, si tratti di buona fede oggettiva: una clausola produttiva di un significativo squilibrio è, per ciò solo, vessatoria, restando del tutto irrilevante lo stato psicologico in cui il professionista versa in ordine alla conoscenza dell’abusività stessa della clausola. Nella Relazione illustrativa al Codice del Consumo, peraltro, è stato chiarito che tale nozione oggettiva offre un maggior livello di tutela al consumatore, 24 tutela del consumatore e terzo contratto perché non si richiede l’accertamento ulteriore della violazione delle regole lealtà e correttezza. Infatti, in base a tale impostazione, una clausola produttiva di un significativo squilibrio si considera in ogni caso vessatoria, dunque anche se il professionista non era in grado di comprenderne la vessatorietà e non intendeva usarla ai danni del consumatore. Come noto, poi, accanto alla suddetta definizione generale di clausole vessatorie, il legislatore ha compilato due elenchi, al fine di agevolare l’accertamento in sede giudiziale: ossia, la c.d. lista grigia (clausole presuntivamente vessatorie fino a prova contraria, che va fornita dal professionista), di carattere non tassativo, e la c.d. lista nera (clausole senz’altro vessatorie, senza che sia ammessa prova contraria e anche se vi è stata trattativa). Sui criteri di accertamento della vessatorietà, si consideri altresì l’art. 34, commi 1 e 2, c. cons. (in cui è confluito il precedente art. 1469 ter, commi 1 e 2, c.c.) ed in particolare il comma 2, che valorizza l’importanza della trasparenza, che, se manca, attrae nel giudizio di vessatorietà anche le clausole che determinano l’oggetto o il corrispettivo. Da ultimo, la Cassazione è intervenuta in materia con la sentenza n. 6481 (Cass. 17/3/2010, n. 6481). La decisione si segnala in quanto va oltre una interpretazione meramente formalistica del testo contrattuale ed arriva ad individuare il carattere vessatorio di due clausole in esso contenute. Nel fare ciò, la sentenza in esame ribadisce e valorizza l’importanza del principio secondo cui il carattere abusivo delle clausole predisposte dal professionista deve essere valutato alla luce di un doppio criterio di giudizio. Ossia, da un lato, tenendo sempre conto della regola generale contenuta nel 1° comma dell’art. 1469 bis, per cui vanno ritenute vessatorie le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; dall’altro lato, tenendo altresì in considerazione la presunzione di vessatorietà di cui alle fattispecie tipizzate nel 3° comma della citata norma. È proprio attraverso il combinato disposto di tali due parametri di vessatorietà – uno generale, l’altro specifico e attinente a ipotesi tipizzate dal legislatore - che è possibile pervenire ad un effettivo e completo giudizio sulla eventuale natura abusiva delle clausole contrattuali. In tal modo, la Corte, evitando un’interpretazione astratta e formalistica dei diritti e degli obblighi nascenti dal rapporto con- Capitolo II – Il contraente “debole” 25 trattuale, compie appunto una valutazione sostanziale e concreta dei contrapposti interessi delle parti ed attribuisce rilievo a squilibri che, alla luce della specifica situazione in esame, sono apparsi come significativi e particolarmente gravosi per il consumatore. Pur non riscontrandosi precedenti della Cassazione, va segnalato che non sono mancate sentenze di merito che hanno affrontato la questione della vessatorietà della clausola in materia di recesso. Tra queste, si segnala, ai fini che qui rilevano, la decisione secondo cui “la clausola del contratto di assicurazione che, al verificarsi di un sinistro, consenta ad entrambe le parti di poter liberamente recedere, ancorché non ricada nell’ambito di applicazione dell’art. 1469 bis, comma 3, n. 7, attesa la reciprocità del diritto di recesso, è da ritenersi comunque vessatoria in quanto, essendo volta a favorire sostanzialmente il solo interesse dell’assicuratore, è idonea a porre in essere un significativo squilibrio ai danni del consumatore” (Trib. Napoli, 14/6/2003). Sempre nell’ottica della necessità che il giudizio risulti da una valutazione complessiva di diritti e obblighi di entrambe le parti, ai fini dell’accertamento del significativo squilibrio, si segnalano altre pronunce di merito in materia di vessatorietà della clausola che prevede, sia per il consumatore che per il professionista, la facoltà di recesso. In particolare, è stato affermato che la previsione della facoltà bilaterale di recesso non rappresenta un idoneo correttivo dello squilibrio, ogniqualvolta il riconoscimento di un medesimo diritto a favore di entrambe le parti può ugualmente determinare un significativo squilibrio a carico del consumatore, soprattutto laddove tale diritto corrisponda ad un interesse facente capo esclusivamente al professionista e, al contrario, insignificante dal punto di vista del consumatore (Trib. Roma, 5/10/2000; Roma, 21/1/2000; ma, in senso contrario, App. Roma 24/9/2002). Su questo specifico profilo, è interessante richiamare una recente sentenza, che, seppur nella differente fattispecie del contratto di conto corrente, ha affermato l’analogo principio secondo cui: “è abusiva la clausola che permette alla banca di modificare unilateralmente le condizioni del contratto di conto corrente, in mancanza di giustificato motivo. Tale clausola, infatti, non può considerarsi riproduttiva dell’art. 118, d.lgs. n. 385/93 e, di conseguenza, non soggetta al sindacato di abusività ex art. 1469-ter c.c. (ora art. 34 Cod. cons.). Per escludere la vessatorietà della clausola che riserva alla banca la facoltà di modificare le condizioni 26 tutela del consumatore e terzo contratto economiche applicate ai rapporti regolati in conto corrente è insufficiente che l’esercizio di dette facoltà, per il caso delle variazioni in senso sfavorevole al correntista, sia espressamente subordinato al solo rispetto delle prescrizioni del t.u.b.; ed è invece necessario - ex art. 1469 bis comma 5 c.c. - che la modifica unilaterale delle condizioni contrattuali, nei rapporti fra banca e consumatori, sia espressamente condizionata alla ricorrenza di un giustificato motivo” (Cass., 21/05/2008, n. 13051). 1.2. La “class action” La class action è ormai entrata a pieno titolo fra gli strumenti di tutela offerti dal diritto interno, sebbene le sue origini siano radicate nell’ordinamento statunitense e solo nel 2008 sia comparsa all’interno del nostro panorama normativo. L’“azione collettiva risarcitoria” nasce con la Finanziaria 2008 (l. 24 dicembre 2007, n. 244) con la quale si è introdotto nel Codice del Consumo un titolo II, nella parte V, riguardante l’ “Accesso alla giustizia”. Il rimedio, nella sua originaria formulazione, si presentava affatto diverso rispetto alla sua attuale formulazione, sicchè pare opportuna una sia pur sintetica ricostruzione della prima disciplina in discorso. In particolare, l’oggetto dell’azione risiedeva nell’ “accertamento del diritto al risarcimento del danno e alla restituzione delle somme spettanti ai singoli consumatori” derivanti da responsabilità contrattuale ex art. 1342 c.c., da responsabilità aquiliana, da pratiche commerciali scorrette ovvero, ancora, da comportamenti anticoncorrenziali, mentre l’interesse tutelato era riconducibile a quello di una pluralità di soggetti di cui le associazioni dei consumatori si facevano portatori: a queste ultime era, infatti, riservata la legittimazione ad agire. Chiara era, poi, la presa di posizione nei confronti del sistema dell’ opt in, piuttosto che di quello dell’ opt out di tradizione anglosassone: ciò significa che il singolo appartenente alla classe avrebbe dovuto espressamente aderire all’azione, non essendo, invece, previsto che egli fosse automaticamente incluso nell’azione in assenza di determinazione di segno contrario. Infine, per quanto riguarda la fase di liquidazione del danno, era prevista la determinazione dei relativi criteri da parte del giudice, ovvero, in alternativa, una proposta da parte dell’impresa che, se non accettata apriva le porte ad una camera di conciliazione.