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Roger Waters - La Repubblica.it
la domenica
DI REPUBBLICA
DOMENICA 7 GIUGNO 2015 NUMERO 535
Cult
La copertina. La curiosità è morta, viva la curiosità
Straparlando. Luigi Ontani: “I curatori distruggono l’arte”
Mondovisioni. Una tintura per capelli a Sana’a
Roger Waters
Ho ancora
un muro
da
abbattere
Le ingiustizie, la musica,
Obama, l’Italia e un film
(che si intitola “The Wall”)
ROGER WATERS NEL 2010 DURANTE IL “THE WALL” TOUR / ©ED/CE / CAMERA PRESS
Intervista esclusiva
al leader dei Pink Floyd
L’attualità. L’arabo del futuro abita tra Homs e Parigi La storia. Duecento anni fa Waterloo, ecco come andò davvero Spettacoli.
“Hai preso il Ritalin?”, scene da casa Cobain L’incontro. Francesco Pannofino: “Se Clooney impara l’italiano io sono fritto”
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
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La copertina. Roger Waters
Lo splendido settantaduenne è a Londra
per presentare il suo film.E a “Repubblica” svela:
“Appena finito il nuovo album farò un tour
Mi piace ancora andare ai miei concerti”
ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA
«U
N MURO DIVIDE ancora il mondo in
©ED/CE / CAMERA PRESS
nord e sud, in ricchi e poveri, da
una parte chi perseguita e dall’altra chi soffre», mi dice Roger
Waters. E lui continua a cercare
di tirarlo giù, un mattone alla
volta. Prima con le canzoni, ora
anche con il cinema.
L’appuntamento con il leggendario leader dei Pink Floyd
è a Londra, in una sala d’albergo quasi di fronte ai grandi magazzini Harrods. È qui che ha temporaneamente stabilito il quartier generale
per il lancio promozionale del suo film, The Wall, appunto. Capelli grigi ma lunghi come ai vecchi tempi, jeans, maglietta nera, giacca blu, alto e dinoccolato, a
settantadue anni Roger Waters ne dimostra almeno dieci di meno e ha ancora
l’aria della rockstar — appena un po’ più rilassata. È come se il tempo, per la generazione sua, di Mick Jagger, di Paul Mc Cartney, di questi splendidi, incorreggibili settantenni, non dovesse passare mai. The Wall, dunque, film-concerto sullo strepitoso tour omonimo portato in giro per il mondo tra il 2010 e il 2013,
road-movie sul suo passato di stella del rock e documentario pacifista, sarà in
contemporanea sui grandi schermi di tutto il pianeta il prossimo 29 settembre,
e in Italia, caso unico, per tre giorni anziché uno solo. Un grande avvenimento
che includerà anche una conversazione fra Waters e Nick Mason, in cui il duo della band di The Dark Side of the Moon si riunisce per rispondere alle domande inviate loro dai fan.
Mister Waters, che tipo di messaggio vuole lanciare con questo film?
«Prima mi lasci dire l’unica cosa che so dire in italiano: Sono molto felice di essere qui. Ah, no, aspetti, ne so anche un’altra: Signore, guidi piano per favore,
mia moglie aspetta un bambino. Molto utile quando un’autista ti porta da Fiesole a Firenze, con tutte quelle curve. Dunque, dove eravamo?».
Al suo The Wall che esce nei cinema di mezzo mondo.
«Ah sì. Penso che la gente sarà colpita e sorpresa, anche quelli che hanno visto dal vivo il concerto, perché il film offre molto di più. Per me è stato il modo di
riflettere sull’apparente indifferenza della nostra civiltà verso coloro che soffrono, verso i diseredati, le vittime delle guerre, le persone private della libertà,
censurate, sfruttate, verso tutti coloro che sono tenuti ai margini della società».
È un caso che soltanto in Italia il film sarà proiettato per tre giorni, o invece
riflette i suoi sentimenti per il nostro Paese, per la terra in cui ha perso la vita suo padre?
«La verità? Non lo sapevo, ma ora che me lo dice mi fa piacere, come mi fa sempre piacere parlare dell’Italia. Ho pranzato
di recente con un nuovo amico, Harry Shindler, un veterano inglese della Seconda guerra mondiale che vive da tanti anni nelle Marche, e che mi ha aiutato a scoprire il luogo in
cui fu ucciso mio padre (un soldato britannico che perse la vita combattendo in Italia nel
1944, quando Waters aveva pochi mesi di vita: una storia raccontata in anteprima proprio da Repubblica nel 2013, ndr). Prima ancora avevo partecipato alla cerimonia di
inaugurazione di un monumento alla memoria di mio padre ad Aprilia, la cittadina in
cui perse la vita durante la battaglia per la liberazione di Roma. È stato un momento
profondamente commovente per me. Da
non molto ho letto Napoli ‘44, il libro di memorie di un ufficiale inglese durante l’avanzata da Salerno fino alla capitale. Quel libro descrive benissimo l’umanità degli
italiani, i sentimenti del vostro popolo. Quando sono a casa mia e ho un
po’ di ospiti attorno al tavolo, alzo sempre un bicchiere e dico,
in italiano: La famiglia! E poi
aggiungo rivolto ai familiari
e agli amici: questo è quello
che deve voler dire essere
italiani. Io vi ringrazio
Per fortuna
ai tempi
dei Pink Floyd
non c’era
X Factor
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
© MICHAEL OCHS/CORBIS
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
ADESSO È TUTTA
ROBA TIPO TALENT,
PRENDONO
UN RAGAZZINO
E LO SCARAVENTANO
IN UN CIRCUITO INFERNALE
SENZA DARGLI IL TEMPO
PER MATURARE. IN QUESTO
MODO È DEL TUTTO
NATURALE CHE
NON NASCANO PIÙ
GRANDI ROCK BAND
BLAIR NON L’HO MAI
SOPPORTATO. OBAMA
MI PIACE. MA ANCHE
LUI COZZA CONTRO
UN MURO. SI È RESO CONTO
DI NON POTER FAR MOLTO.
FORSE ANCHE PER QUESTO
OGGI MI SENTO
PIÙ GARANTITO
DALLA DEMOCRAZIA
EUROPEA CHE DA
QUELLA AMERICANA
LA BAND
Il pifferaio magico
che trasformò
le sue ossessioni
in un’opera rock
GINO CASTALDO
I PINK FLOYD (SENZA SYD BARRETT).
DALL’ALTO, NEL 1970: DAVID GILMOUR,
NICK MASON, ROGER WATERS E RICK
WRIGHT; NEL 1967 (WATERS È IL PRIMO
A SINISTRA); NEL 1973 (ILTERZO A DESTRA)
IL FILM, LA MOSTRA E LA LEZIONE
IN CONTEMPORANEA MONDIALE
IL 29 SETTEMBRE 2015, E, SOLO PER L’ITALIA
ANCHE IL 30 SETTEMBRE E IL PRIMO
OTTOBRE, VERRÀ PROIETTATO NELLE SALE
IL FILM “ROGER WATERS - THE WALL”.
LE PREVENDITE ONLINE SARANNO APERTE
DAL 19 GIUGNO. INOLTRE DA IERI
AL MUSEO PAN DI NAPOLI E NEI PROSSIMI
GIORNI A POMPEI SONO IN MOSTRA
TRENTA SCATTI INEDITI REALIZZATI
DURANTE IL MITICO CONCERTO
“PINK FLOYD AT POMPEI”. INFINE,
SU REPUBBLICA.IT, LA “LEZIONE DI ROCK”
TENUTA DA ERNESTO ASSANTE
E GINO CASTALDO NEI GIORNI SCORSI
ALLA “REPUBBLICA DELLE IDEE” A GENOVA
E DEDICATA AI PINK FLOYD
PENSARE CHE LA STORIA DI THE WALL, la più colossale e
ambiziosa delle opere rock, nacque da uno sputo che
Roger Waters indirizzò a un fan troppo esuberante.
Quello che allora era l’incontrastato leader dei Pink
Floyd lo visse come uno shock: cosa poteva averlo
spinto a un gesto così riprovevole? La risposta, nel tempo,
sarebbe stata appunto The Wall, il simbolo di tutti i muri, quelli
della mente, quelli che ci isolano dai nostri simili, quelli della
repressione scolastica, quelli della geopolitica che dividono
popoli e nazioni, la magistrale messa in scena che Waters in
questi anni ha ripreso, senza gli ex compagni d’avventura, e
portato in giro per il mondo in un allestimento ancora più
faraonico e gigantesco di quello originale del 1980.
Quell’episodio ci dice molto della personalità di Waters, il suo
temperamento ideologico, il disprezzo per un certo tipo di
divismo superficiale e invasivo, la sofferenza per un mondo che
invece di guarire esaspera le diseguaglianze. Anche la sua
leadership all’interno della band la visse con un certo tormento,
anche perché cresciuta all’ombra del mito di Syd Barrett, il
primo genio visionario che aveva letteralmente inventato la
visione dei Pink Floyd e poi si era perso nei suoi labirinti
psichedelici. La sognò come un incubo e la rappresentò
addirittura in una canzone, Cymbaline, anche se a cantarla era
David Gilmour, che sarebbe diventato, dopo un feroce
procedimento legale, il terzo dei leader dei Pink Floyd.
Eppure non c’è dubbio che tra conflitti, litigi, machiavelliche
progettazioni, il ruolo di Waters sia stato determinante. Fu lui a
spingere la band a voler raggiungere le più alte vette
dell’ambizione, ad affrontare, per quello che era possibile fare
in un disco, i grandi temi dell’esistenza: il tempo, il denaro, la
nascita, la pazzia, la morte, come fece in The Dark Side of the
Moon, poi la tragedia psicologica di Barrett raccontata in Shine
On You Crazy Diamond, il più struggente omaggio a
quell’incrocio perverso tra creatività e follia che è al centro di
molte delle pagine più emozionanti della storia dell’arte.
Fu lui, infine, quando le tensioni all’interno dei Pink Floyd erano
arrivate al massimo e livello, a spingere per un altro e definitivo
progetto, The Wall, l’opera tra i cui molti significati si poteva
leggere anche il muro che inesorabilmente stava spezzando
l’unione dei quattro componenti della band. Di certo Roger
Waters è uno che pensa in grande, che insegue con tenacia e
determinazione le sue ossessioni e le mette in scena, convinto
che le sue ossessioni possano essere condivise da un pubblico
molto grande. E va detto che i fatti gli hanno dato ragione
considerando la potenza ancora oggi intatta della leggenda che
il gruppo inglese ha costruito. Grazie a lui i Pink Floyd hanno
radicato nell’immaginario del popolo della musica la più
singolare commistione tra intimità e grandiosità. Anzi, sono
stati loro, e nessun altro come loro, a lasciarci credere che la più
riservata delle pulsioni interiori potesse diventare una
rappresentazione gigantesca, un’esaltante condivisione
collettiva. Nei loro dischi più belli c’è sempre qualcosa di
sublime e profondo, come se avessero catturato attraverso la
liquida e sognante qualità dei loro suono, quella indeterminata
zona che fa da raccordo tra la nostra razionalità e l’inconscio. Di
tutto questo Waters rimane il tormentato pifferaio, l’araldo di
una malinconia planetaria che canta il suo blues dedicato alla
mancanza di empatia tra gli esseri umani. E questo, al fondo di
tutto, rimane il tema dominante della sua vita.
E
© MICHAEL OCHS/CORBIS
Le ha dato più soddisfazioni, per passare
a un argomento più leggero, la vittoria
dell’Arsenal nella Coppa d’Inghilterra?
«Naturalmente sì, sono ancora un grande
tifoso dell’Arsenal, anche se da quando abito a New York vedo le partite in tivù e non più
allo stadio».
Perché preferisce
New York a Londra?
«Perché New York ha
quattro stagioni. Suona
assurdo detto da un inglese, vero? Non sopportavo più il clima londinese».
Posso chiederle, per
concludere, da dove
le è venuta l’ispirazione per scrivere
canzoni che sono diventate la colonna sonora della nostra generazione? Penso a
Wish You Were Here,
a TheDark Side of the
Moon? Lei è uno dei
più grandi autori di
rock del nostro tempo: da dove le arrivano la musica e le parole?
«Potrei darle la risposta convenzionale, che è
parzialmente vera: mi
siedo al pianoforte, oppure prendo la chitarra,
inizio a giocare con le note, tengo un taccuino a
portata di mano, e poi
quando trovo il verso
giusto mi chiudo nel mio
studio e ci lavoro sopra.
Ma la risposta più vera è
questa: quando una
donna resta incinta, ma
non ha ancora i sintomi,
lo sa già? C’è qualcosa
che le dice che dentro di
lei c’è un bambino? Parole e musica arrivano
nello stesso modo, misterioso, indecifrabile,
magico. Davvero non
saprei dire né come, né perché».
E un’ultima cosa, semplice curiosità: se
dovesse capitarle di passare davanti alla
centrale di Battersea, quella che appariva sulla copertina del vostro album Animals e che adesso stanno trasformando in
un grande complesso di appartamenti e
shopping-center, cosa pensa che potrebbe provare? Quel luogo ha ancora un valore per lei?
«Ce l’ha. Però le confesso che ci sono passato davanti proprio da poco, ero in treno, e
non mi sono neanche ricordato di guardarla.
Perché? Perché stavo leggendo un libro e il
libro mi prendeva così tanto da farmi dimenticare tutto il resto. È un’altra fortuna
che abbiamo ereditato dagli anni SessantaSettanta, l’epoca in cui si amavano i libri e
non solo quello che passa internet».
© MICHAEL OCHS/CORBIS
per il dono che avete fatto al mondo».
È caduto il muro di Berlino, da quando lei
ha scritto The Wall. Ma quanti muri ancora dividono il mondo?
«Tanti. Il muro tra il nord e il sud del pianeta. Tra i ricchi e i poveri. Tra chi perseguita e chi soffre. E anche tra chi ha le chiavi del
progresso, dell’informazione, e chi è condannato a vivere nell’ignoranza, nel buio.
Non so come o quando li abbatteremo, ma almeno proviamoci, anche solo con una canzone se necessario».
La musica ha provato a lungo ad abbattere il muro della fame in Africa, nel Terzo
Mondo, dal Live Aid al Live 8: ci è riuscita?
Servono a qualcosa questi concerti di beneficenza, ad alcuni dei quali ha partecipato lei stesso?
«Una volta ho detto che, come minimo,
male non fanno. Oggi dico di più: se anche
servissero solo a dare a Bob Geldof un palcoscenico da cui denunciare le ingiustizie commesse dall’Occidente, la dittatura del Mercato, la diseguaglianza fra chi ha tutto e chi
niente, varrebbe la pena averli fatti. L’ho
cantato anch’io in una canzone: ci sono montagne di burro, e troppi bambini che non
hanno niente da mangiare».
Qualche giorno fa un famoso promoter inglese ha detto che per i grandi concerti
rock è iniziato il declino, per il semplice
fatto che non ci sono più grandi rock band.
È d’accordo?
«Io ho avuto la fortuna di essere giovane
negli anni Sessanta-Settanta, quando quattro ragazzi potevano formare una band e
avere il tempo e le opportunità per crescere,
sviluppare un proprio pubblico, migliorare
la qualità musicale. Adesso è tutto come quei
reality show tipo X Factor o America’s Got
Talent. Non c’è più alcuna sostanza. Prendono un ragazzino e lo scaraventano nel circuito senza dargli né il tempo né le occasioni per
maturare. In questo modo è naturale non nascano più grandi rock band».
E lei? C’è ancora qualche grande concerto
nel suo futuro?
«Sono a metà di un nuovo album. Quando
sarà pronto, fra un anno, un anno e mezzo,
sì, mi piacerebbe portarlo in tour. Ai miei
concerti mi diverto ancora».
Lei è stato a lungo un sostenitore del partito laburista, un militante della sinistra.
Ci crede ancora, nella sinistra britannica
e europea?
«Dopo la Thatcher e Reagan, la sinistra ha
rinunciato a essere una vera sinistra. Personalmente trovavo Tony Blair insopportabile. Come se il socialismo, per vincere, dovesse diventare timido e moderato. E però le
dirò una cosa: con tutti i suoi limiti, oggi preferisco il liberalismo occidentale alle sue presunte alternative. Almeno difende ancora i
valori della Magna Charta, lo stato di diritto,
i diritti umani. E comunque mi sento più garantito dalla democrazia europea che da
quella americana».
Obama non le piace?
«Obama mi piace. È sicuramente un uomo
molto intelligente e si è sinceramente battuto per migliorare le cose. Ma cozza contro
un muro, anche lì, un altro, e si è reso conto
di non poter far molto».
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© RIPRODUZIONE RISERVATA
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PASSANDO DAVANTI
A BATTERSEA PARK
NON MI SONO
NEANCHE RICORDATO
DI GUARDARLA. STAVO
LEGGENDO UN LIBRO.
UN’ALTRA EREDITÀ
DEGLI ANNI SESSANTA:
L’ERA IN CUI SI AMAVANO
I LIBRI E NON SOLO
QUELLO CHE
ARRIVA DAL WEB
SU RTV-LA EFFE
DOMANI
SU REPTV NEWS
(ORE 19.45,
CANALE 50
DEL DIGITALE
E 139 DI SKY)
VIDEOINTERVISTA
A ROGER WATERS
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
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L’attualità. Oriente-Occidente
© 2015 RCS LIBRI S.P.A. (C) 2014 ALLARY ÉDITIONS
Siriano e francese, Riad Sattouf racconta
in un graphic novel di grande successo
la vita tra due culture. “Sentirmi fuori posto
mi ha fatto capire chi sono: un disegnatore”
PARIGI. COME CLEMENTINE E ABDEL SI CONOBBERO ALL’UNIVERSITÀ
FABIO GAMBARO
TRIPOLI. COME E PERCHÉ IL PAPÀ DI RIAD DECICE DI ANDARE IN LIBIA CON LA FAMIGLIA
L’arabo
del futuro
èun diavolo
biondo
PARIGI
B
RAVISSIMO, ACUTO, SPIAZZANTE. Considerato oggi uno dei protago-
nisti del mondo internazionale del fumetto, Riad Sattouf, padre
siriano e madre francese, ha trascorso i primi anni della sua vita
in Medio Oriente. Li ha raccontati in un graphic novel di grandissimo successo, L’arabo del futuro, il cui primo volume arriva
ora nelle librerie italiane mentre in Francia sta uscendo il secondo dei quattro previsti. Trentasette anni, parigino, fresco di
premio al Festival d’Angoulême, Sattouf — che è anche il regista di due film molto divertenti, Les beaux gosses e Jacky au
royaume des filles — è persona affabile e autoironica. Nei locali
del suo editore parigino, tra caffè e caramelle alla menta, ci parla della genesi di questo libro molto personale, in cui ha raccontato la sua infanzia accanto a un padre ossessionato dal panarabismo e che lo ha
educato nel culto di Gheddafi e di Hafiz al-Assad. «Era da parecchio
tempo che pensavo di raccontare la mia esperienza in Libia e in Siria, paesi in cui non sono mai più tornato». Ma ha cominciato a farlo solo con lo scoppio della guerra civile in Siria. «Alcuni membri
della mia famiglia vivevano ancora a Homs. Per salvarli, ho deciso
di aiutarli a rifugiarsi a Parigi. Ma se farli uscire dalla Siria in guerra è stato facilissimo, farli entrare in Francia è stato infinitamente più difficile. La burocrazia ha fatto di tutto per non accoglierli. Negli uffici della prefettura ho scoperto che il paesedei-diritti-dell’uomo non è un paese accogliente per chi ha bisogno di aiuto. Così ho deciso di
raccontare tutto, ma per farlo avevo bisogno di partire dall’inizio, dalla mia famiglia francosiriana e dalla mia infanzia in Medio Oriente».
Quali sono stati i modelli a cui si è ispirato?
«Naturalmente ho letto i fondamentali, Art Spiegelman, Marjane Satrapi, David B.,
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la Repubblica
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IL LIBRO
IL GRAPHIC NOVEL DI RIAD SATTOUF, “L’ARABO
DEL FUTURO. UNA GIOVINEZZA IN MEDIO ORIENTE
1978-1984”, (RIZZOLI LIZARD, 160 PAGINE, 16 EURO,
TRADUZIONE DI ELISABETTA TRAMACERE,
VOLUME PRIMO) È IN LIBRERIA DA GIOVEDÌ
ED È DISPONIBILE ANCHE IN EBOOK A 9,99 EURO.
IN FRANCIA, DOVE STA PER USCIRE IL SECONDO VOLUME,
HA VENDUTO DUECENTOMILA COPIE ED È STATO
PREMIATO AL FESTIVAL DEL FUMETTO DI ANGOULÊME
TER MAALEH. IN SIRIA RIAD GIOCA A SOLDATINI CON I CUGINETTI. LUI FA “L’EBREO”
Hergé, ma a influenzarmi di più è stato JeanChristophe Menu. Da lui ho imparato soprattutto la necessità dell’ironia e dell’autoironia. Certo, non è facile fare dell’ironia su
personaggi come Assad o Gheddafi. Però è
vero che nei dittatori arabi c’è spesso una
componente machista a renderli grotteschi.
Pensi a Gheddafi, con quei suoi vestiti ridicoli e la guardia del corpo tutta femminile».
Cosa pensa di quanto sta accadendo in Libia e in Siria?
«Come tutti, sono sconvolto di fronte all’orrore. Ma il fatto di aver vissuto molti anni fa in quei paesi non mi conferisce alcun sapere supplementare utile all’analisi politica.
La Libia e la Siria che ho conosciuto appartengono a un’altra epoca. Erano dittature
senza libertà, ma in Europa nessuno sembrava farci caso. In nome della realpolitik,
tutti chiudevano gli occhi di fronte al non rispetto dei diritti dell’uomo».
Vivere tra due culture, due lingue, due
mondi è stato difficile?
«Avevo l’impressione di essere sempre
fuori posto. In Francia ero un arabo, in Siria
un diavolo biondo (da piccolo ero biondissimo). Insomma, non riuscivo mai a sentirmi
parte della comunità in cui vivevo, venivo
sempre respinto più o meno apertamente.
Sentirmi diverso è stata la condizione di tut-
ta la mia giovinezza. Ho imparato così a non
preoccuparmi delle origini e a rifiutare ogni
nazionalismo. Oggi non mi sento né francese né siriano, sono solo un autore di fumetti.
La mia identità nasce nel disegno. Vivo bene
con le mie due origini, anche se so bene che
nella società francese la presenza degli stranieri e dell’Islam diventa ogni giorno più problematica. La Francia sta perdendo la sua superbia, e i francesi fanno fatica ad accettar-
ALCUNI NOSTRI PARENTI ABITANO
ANCORA A HOMS. PER SALVARLI,
APPENA SCOPPIATA LA GUERRA, HO
CERCATO DI FARLI VENIRE A PARIGI
USCIRE È STATO FACILISSIMO, FARLI
ENTRARE NELLA PATRIA DEI DIRITTI
DELL’UOMO MOLTO MENO
lo. Così scaricano le colpe sull’immigrazione
e dunque sui musulmani».
È possibile leggere L’arabo del futuro come un libro sulla fine degli ideali?
«Forse sì. L’arabo del futuro sognato da
mio padre — il nuovo cittadino arabo colto e
indipendente — è un ideale che non si è realizzato. Forse è per questo che diffido di tutti gli ideali di salvezza e cambiamento, motivo per cui non sono mai stato tentato dalla
PARIGI. IN AEROPORTO NUOVI PICCOLI SHOCK CULTURALI ATTENDONO IL GIOVANE RIAD
militanza politica. Dopo aver vissuto in Siria,
mi sento vaccinato contro qualsiasi tentazione idealistica».
Essere senza ideali non significa però disinteressarsi della società in cui si vive...
«Naturalmente no. Considero fondamentale la battaglia per l’uguaglianza tra uomini e donne, soprattutto nel mondo arabo. Le
società egualitarie sono più ricche e libere,
mentre le società che discriminano le donne
restano arretrate. Ma attenzione, non credo
che questo sia un problema specifico della
religione islamica, piuttosto il risultato di
una tradizione patriarcale molto più antica
dell’Islam. Quindi anche nel mondo islamico la situazione alla fine evolverà, come sta
già accadendo in Tunisia e anche in Turchia,
sebbene non manchino le forze conservatrici. Anche in Francia la parità tra uomini e
donne è una conquista recente, frutto di un
lungo processo».
Quindi è ottimista sul divenire del mondo
arabo?
«Sono convinto che il mondo arabo evolverà verso più democrazia, più libertà e più
eguaglianza. Aldilà delle violenze e delle involuzioni oggi sotto i nostri occhi, il processo
mi sembra inevitabile. Se vogliono sopravvivere, le società arabe dovranno muoversi
in questa direzione».
Lei ha collaborato per diversi anni a Charlie Hebdo.
«Pubblicavo una striscia settimanale intitolata La vita segreta dei giovani, l’avevo interrotta sei mesi prima della tragedia. Non
andavo mai alle riunioni di redazione e adesso me ne pento perché non potrò più incontrare quelle persone straordinarie. Davanti
all’orrore di quella violenza sono rimasto
senza parole. Lo sono tuttora. Mi sento incapace di una qualunque analisi politica. Sono
ancora troppo sconvolto».
Si è molto discusso sugli eventuali limiti
della satira. Lei cosa ne pensa?
«Posso solo dire che in Francia esiste la libertà d’espressione, che quindi va esercitata e difesa. Mentre il reato di blasfemia è stato abolito molti anni fa. Per me valgono le
leggi, e le leggi vanno rispettate anche quando non ci piacciono. Poi, naturalmente, in
una democrazia le leggi possono essere cambiate con il voto della maggioranza. Tuttavia, mi sembra che spesso si alimentino falsi
problemi per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni cruciali. Oggi si agita il dibattito sui presunti eccessi di
Charlie Hebdo e nel frattempo non ci preoccupa il cinismo della realpolitik che fa affari
con le dittature».
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
LA DOMENICA
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La storia. A la guerre
STEFANO MALATESTA
C
OME NAPOLEONE È STATO il soggetto su
cui si è più scritto dopo Gesù Cristo, così la battaglia di Waterloo è stata la
più studiata di tutte le battaglie, antiche e moderne. Tutti questi contributi, francamente in eccesso, non
hanno aiutato a far chiarezza ma
semmai a rendere le modalità dello
scontro più oscure.
Le tesi su come andò veramente sul
campo di Waterloo sono innumerevoli e tutte in contrasto tra loro. C’è la
versione trash per i giornali popolari: Napoleone era in cattive condizioni perché sofferente di emorroidi, una tesi buona per Il Vernacoliere di Livorno ma ovviamente non per una ricostruzione storica.
La maggior parte degli autori è comunque convinta che Napoleone
non fosse più lui, fisicamente e intellettualmente. Aveva messo su
pancia, i capelli — seppure pettinati alla Bonaparte — non gli coprivano più il cranio ed erano ridotti a un ricciolino sulla fronte. Ma questo non prova che il Generale avesse perso le sue doti di tattico e di
sto alle centoquarantacinque tonnellate di bagaglio indispensabili
al suo ménage; il principe di Soubise, il comandante della spedizione franco-austriaca contro Federico II, travolto da una famosa carica della cavalleria prussiana guidata da von Seydlitz, si trovava meglio a Versailles a ciaccolare ininterrottamente con la Pompadour,
la sua protettrice, che sul campo di battaglia. O che dire del duca di
Richelieu, che era celebre per la forte scia di profumo che lasciava
ovunque andasse.
Comunque. Un’altra versione sostiene che la pioggia caduta in
maniera anomala nella settimana prima di Waterloo avrebbe impedito all’artiglieria di avanzare nel terreno diventato una palude
fangosa e di appoggiare la famosa carica della cavalleria pesante guidata dal maresciallo Ney. Napoleone era stato un eccellente ufficiale di artiglieria e aveva dato prova, durante l’assedio di Tolone, della sua capacità straordinaria di maneggiare cannoni che si trascinava sempre con sé a costo di durissime fatiche. Tutti i suoi piani di
battaglia erano studiati in funzione delle armi pesanti. La chiave delle sue vittorie stava nel far convergere l’artiglieria in un punto preciso. Trattava gli eserciti nemici come una cittadella, da abbattere
in breccia. Sfondare i quadrati, polverizzare i reggimenti, rompere
le linee, tritare e disperdere le masse: tutto questo era a carico del
cannone.
Come andò
davvero
a Waterloo
stratega, le stesse che gli avevano fatto vincere fino ad allora qualcosa come settanta battaglie.
La marcia che lo portò a Waterloo era riuscita perfettamente ed è
stata una delle più veloci, se non la più veloce, mai compiuta dai soldati francesi. La rapidità degli spostamenti delle sue truppe era sempre stata la base delle sue vittorie: Napoleone non è stato l’inventore della guerra totale, è stato semplicemente il primo esecutore e
quello che l’ha sfruttata al meglio delle sue possibilità, talmente gli
era congeniale. Una cultura della guerra ereditata dai classici greci,
che combattevano totalmente e in modo spietato facendo pochi prigionieri. Una volta, prima del periodo moderno, le battaglie facevano parte della vita quotidiana, come il raffreddore o le tasse. Ogni comunità ne combatteva un’altra e si aspettava di essere combattuta.
Gli scontri avvenivano secondo rituali prestabiliti. Spesso i comandanti non erano dei veri comandanti, ma dei dandy in trasferta militare: il duca di Cumberland si lasciava dietro dei cannoni per far po-
Un racconto accuratissimo della battaglia venne scritto ventidue
anni più tardi da Victor Hugo nella parte seconda del primo libro de
Les Miserables. Per orientarsi lo scrittore era andato sul posto, visitando tutti i luoghi ormai entrati nel mito come le colline di Saint
Jean e il castello di Hougoumont. E proprio da Hougoumont parte il
suo grande affresco del feroce scontro: “...A fianco della cappella
un’ala del castello, il solo avanzo che rimanga del maniero di Hougoumont, si staglia distrutta, si potrebbe dire sventrata. Il castello
servì da torrione, la cappella da fortezza. Vi si fece uno sterminio. (...).
La spirale delle scale, screpolate dal pianterreno al soffitto, appare
come l’interno di una conchiglia spezzata. Tutto il resto somiglia a
una mascella sdentata. Vi sono due vecchi alberi: uno è morto, l’altro è ferito al piede, e rinverdisce in aprile. Dopo il 1815 si è messo a
germogliare...”.
Secondo Hugo, il piano di battaglia dell’imperatore, per riconoscimento unanime, era un capolavoro: i francesi dovevano andare
verso il centro della linea alleata il più rapidamente possibile, sfondarla, tagliarla in due, spingere le truppe britanniche su Alle e quelle prussiane su Tengres, superare le colline di Saint Jean, dove era
attestato Wellington, gettarlo in mare, gettare nel Reno Blucker e
arrivare a Bruxelles. Alle quattro del pomeriggio, la situazione dell’armata inglese si era fatta preoccupante. Wellington non aveva più
Hougoumont, conquistato dalla fanteria francese, come copertura
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
difensiva. Un suo subalterno gli chiese: «My lord, che cosa dobbiamo
fare?» e Wellington seccato dalla domanda rispose urlando a piena
gola come non aveva mai fatto «Dobbiamo resistere!». Se Napoleone fosse riuscito a portare anche solo una parte dei suoi duecento cannoni, in modo da mettere sotto tiro le colline di Saint Jean, allora la
carica della cavalleria sarebbe stata molto facilitata. Ma ogni battaglia ha una sua sorte e quella di Waterloo è stata molto differente da
Austerlitz, dove all’inizio Napoleone era costretto a muoversi alla
cieca per la nebbia che invadeva tutto il campo di battaglia. Poi la
nebbia venne sgomberata dal sole e allora l’imperatore, avendo davanti a sé una chiara prospettiva di vallate e di colline, poté manovrare a suo piacimento, e le truppe francesi si mossero con l’eleganza di una parata. A Waterloo, dove aveva piovuto per tutta la settimana precedente, il terreno non fece in tempo ad asciugarsi e il tentativo di trascinare i cannoni più avanti finì nel fango.
A quella stessa ora, dicevamo, nel campo francese tutti sembravano tranquilli e certi della vittoria, o almeno così volevano far vedere. Napoleone era di ottimo umore, aveva scherzato con la truppa
e con i marescialli. Durante la colazione, alle otto, erano stati invitati parecchi generali. Mangiando, avevano raccontato che alla vigilia
Wellington era stato visto a Bruxelles, al ballo della duchessa di Somerset. E Soult, rozzo soldato con la faccia da arcivescovo, aveva
con gli altri, formando una carne sola in quel baratro. Si dice che duemila cavalli e millecinquecento uomini furono sepolti in quell’orrido
luogo”. I superstiti continuarono la loro carica, raggiunta la collina
di Saint Jean sempre al galoppo “ventre a terra, briglie sciolte, sciabole tra i denti, pistole in pugno, attaccarono i quadrati delle giubbe
rosse. Non fu più una mischia, fu una furia, un vertiginoso impeto di
anime e di corazze, un uragano di spade scintillanti. In un istante, i
millequattrocento dragoni e guardie si ridussero a ottocento. Ci furono dodici assalti, Ney ebbe quattro cavalli uccisi sotto di lui. La
metà dei corazzieri rimase sul poggio. Questa lotta durò due ore. La
carica era fallita”.
La catastrofe raccontata in maniera splendida da Hugo è all’altezza della sua fama romanzesca, ma è una balla colossale. Non finirono in nessun burrone i cavalieri francesi, semplicemente furono
respinti dai quadrati delle giubbe rosse, che sembravano dei porcospini che sputavano fuoco, con tutte le baionette innescate dai soldati inginocchiati nella prima fila e i fucilieri in piedi che sparavano
a colpo sicuro. Le cariche non furono dodici ma cinque e sul campo di
battaglia. E su tutti dominava la figura di Wellington, che Napoleone non considerava un grande generale: in mattinata aveva detto
che gli avrebbe dato la lezione che si meritava. Ma ora la lezione la
stava prendendo lui. Verso sera quando le sorti della battaglia era-
Duecento anni fa, il 18 giugno 1815, nella campagna belga
andava in scena la più studiata e raccontata delle battaglie,
costata la vita a cinquantamila uomini e l’esilio a Napoleone
Appassionato del genere, uno scrittore ha rievocato per noi
quella giornata. Facendo le pulci a un certo suo collega
Non senza averne ricordato almeno un merito
I SOLDATINI
PER IL NATALE
DI CINQUANT’ANNI
FA “LINUS” FECE
UN REGALO
AI PROPRI LETTORI:
UNA GRANDE
MAPPA
DELLA BATTAGLIA
DI WATERLOO
DISEGNATA,
INSIEME A OLTRE
CENTO SOLDATINI
DI CARTA,
DA GUIDO CREPAX.
ALCUNI
DI QUEI MITICI
SOLDATI,
PER GENTILE
CONCESSIONE
DI ANTONIO
CREPAX,
ILLUSTRANO
OGGI QUESTE
PAGINE:
NELLA
FASCIA
IN ALTO
(IN BLU)
L’ESERCITO
FRANCESE
CON ALLA TESTA
NAPOLEONE
BONAPARTE.
IN QUELLA
IN BASSO
(IN ROSSO)
GLI INGLESI
GUIDATI
DAL DUCA
DI WELLINGTON
no ormai segnate, Napoleone fece un ultimo gesto, accompagnando l’estremo attacco della guardia imperiale per qualche centinaia
di metri. La Garde scomparve nelle alture per qualche decina di minuti e nel campo francese qualcuno ancora sperava nel miracolo. Invece si sentì un urlo mai udito prima in tutte le battaglie napoleoniche: «La garde recule!».
Quando venne la notte solo un quadrato francese resisteva. A ogni
carica gli uomini del quadrato diminuivano, ma quelli che rimanevano continuavano a combattere, riuscivano sempre a rispondere
con la mitraglia. Tutta l’armata inglese aveva circondato il quadrato. Un generale, secondo alcuni Colville, secondo altri Maitland,
gridò loro: «Prodi francesi, arrendetevi!». Cambronne rispose con
una parola sola, diventata la più celebre di tutta la storia militare
francese. Hugo sostiene che questa parola era censurata e che fu lui
il primo a scriverla in originale. La parola era: «Merde!».
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© GUIDO CREPAX E ARCHIVIO CREPAX
commentato: «È oggi che si balla sul serio». Il primo pomeriggio, passò in rassegna la cavalleria: erano tremilacinquecento uomini, rappresentavano un fronte di un quarto di lega. Erano ventisei squadroni, appoggiati da centosei gendarmi scelti, millecentonovantasette cacciatori e lancieri della Guardia, portavano l’elmo senza criniera e la corazza in ferro battuto, le pistole di arcione nelle custodie
e la lunga sciabola a spada. Durante la rivista, la banda suonò: Veillons au salut de l’Empire. Gli ussari avevano i dolmans e gli stivali
rossi a mille pieghe, i soldati della Garde portavano i loro colbacs a
fiamma, o sable taches fluttuanti. All’estrema sinistra c’erano i corazzieri di Kellermann e all’estrema destra i corazzieri di Milaud.
Napoleone guardava al binocolo i movimenti dei quadrati delle
giubbe rosse. Quando si accorse che gli inglesi stavano indietreggiando, si sentì più sicuro e diede il via alla più grande carica di cavalleria mai registrata nelle storie militari.
Hugo racconta che “prima di salire per l’ultima erta, la cavalleria
si trovò davanti un burrone più che una fossa, inaspettato e profondo, aperto a picco. I cavalli si impennarono, si gettavano indietro, cadevano sulla groppa agitando le quattro zampe in aria, pestando e
rovesciando i cavalieri. Non c’era più modo di indietreggiare perché
la colonna era diventata un proiettile e la forza acquistata per schiacciare gli inglesi, schiacciò invece i francesi. Nel burrone inesorabilmente, cavalieri e cavalli ruzzolarono dentro, triturandosi gli uni
37
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
38
Spettacoli. American Idol
È stato l’ultimo maledetto del rock’n’roll: giovane, bello, ribelle. E suicida
Ora, dopo il docu-film, un libro racconta il leader dei Nirvana
attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto molto da vicino:
tra Ritalin, eroina e Mtv ecco il più spietatamente intimo dei suoi ritratti
D
DON COBAIN
IL PAPÀ
A BAMBINO ERA SEMPRE su
di giri, andava a cento
all’ora. Immagino fosse
l’effetto del Ritalin, anche se non ricordo esattamente cosa prendesse all’epoca. Recitava in
continuazione. È per
questo che era sempre
incazzato. Non riusciva
a controllarsi. Non era capace di esprimersi. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio, ma lui aveva un talento straordinario e quella vena di follia
tipica di molti geni. Era più avanti degli altri e seguiva la sua strada. Le persone con molto talento
di solito hanno problemi. Quando cominciò a fumare marijuana e assumere altre sostanze, io probabilmente non me ne accorsi, oppure fu Jennifer
che non me lo disse. Non ci pensavo nemmeno, non
l’avevo mai visto alterato. Sapevo che si stava mettendo nei guai, non era dove avrebbe dovuto essere, non faceva quello che avrebbe dovuto fare, ma
non immaginavo che ci fosse di mezzo la droga.
Non ho mai capito il suo gesto. Aveva il mondo
in pugno e ha rinunciato a tutto.
WENDY O’CONNOR
LA MAMMA
Un giorno sono salita in camera sua per portargli i vestiti lavati e stirati e ho sentito qualcosa
scricchiolare sotto il tappeto. Ho vissuto gli anni
della rivoluzione hippie, non sono una stupida.
L’ho sollevato e ho scoperto che aveva tagliato
un’asse del pavimento per nasconderci sotto la pipa e la marijuana. Gettai tutto nell’immondizia e
non dissi nulla. Anche lui non disse nulla, ma per
una settimana si comportò in modo molto strano
con me. Un giorno mi chiamò in ufficio per chiedermi: «Come si fa a sapere quando gli spaghetti
sono cotti?» e io gli avevo risposto: «Lanciane uno
contro il muro, se resta attaccato è pronto». Quando rientrai, dal soffitto pendeva un’intera confezione di spaghetti! All’inizio rimasi allibita e fui lì
lì per arrabbiarmi, poi scoppiai a ridere, pensando
a quant’era divertente. Li lasciammo dov’erano,
avrebbero dato un tocco personale alla cucina.
Dedicava ore e ore alla scrittura, oltre che a dipingere e a disegnare. Sapevo quando suonava
perché lo sentivo dal piano di sotto. Guardava spesso Mtv per vedere le novità. Gli piacevano molto i
videoclip. Gli davano nuovi spunti. Una volta mi
disse: «Un giorno sarò anch’io su Mtv”». Non lo presi sul serio.
Non sapevo che avesse provato l’eroina. Quando scoprii che aveva cominciato a farsi ad Aber-
deen, rimasi molto sorpresa. Penso l’abbia provata per i suoi problemi di stomaco. Era intollerante
al lattosio e mangiava gelati a tutto spiano. Credo
l’abbia usata per combattere i dolori. All’epoca era
una delle droghe più facilmente reperibili e lui ha
voluto provarla. E l’effetto è stato euforico, non si
era mai sentito così bene in vita sua.
Una domenica mattina, io sono in bagno. Lui
bussa piano alla porta e dice: «Mamma?». «Sì?», rispondo io. «Ho un nastro». Apro la porta e me lo trovo davanti con quel nastro in mano. «Che cos’è?»,
gli chiedo. «È il master del mio nuovo album», fa
lui. «Posso metterlo su?». «Sì, e sparalo forte».
Ascolto sempre la musica a volume molto alto. Così continuo a truccarmi e poi a un tratto esclamo:
«Porca troia!». Mi precipito fuori dal bagno e mi siedo sul bordo del divano con un sorriso compiaciuto come quello di un gatto che ha appena mangiato il canarino. «Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!» urlo, fissandolo negli occhi e picchiettando con un dito sulla sua spalla. «Lo sai cos’hai fatto?», e lui risponde:
«Lo dici soltanto perché sei mia madre». Io per poco non scoppio a piangere. Non per la gioia, ma per
la paura. «Questo disco cambierà tutto nella musica», dico. «Faresti meglio ad allacciare la cintura,
non sei pronto per quello che succederà».
Nel 1991 ricevetti una telefonata da Kurt. Era
appena rientrato da Londra. «Ehi, mamma, sono
Kurt». Diceva sempre così. Era divertente. «Devo
dirti una cosa». «Cosa?». «Sto per sposarmi!», urla
lui. «La conosco?», gli chiedo. «No», risponde lui.
«Che tipo è?», domando. «Pazza», risponde Kurt.
«Davvero? Più pazza di me?». «Oh, sì», dice lui. Poi
mi parla un po’ di lei e ho subito l’impressione che
quella ragazza mi passerà sopra come un rullo
compressore.
Courtney mi telefonava in piena notte: «Kurt è
andato in overdose». E poi: «Adesso sta bene». Era
orribile. E sapendo che aspettava un figlio, mi si
spezzava il cuore. Ogni settimana stava peggio. A
volte veniva a casa mia. Per nascondersi, forse. Stava davvero male. Aveva la pelle coperta di piaghe,
era dimagrito e faceva ciondolare la testa. Ero sicura che sapesse che l’avevo capito, ma per la prima volta decisi di affrontare direttamente l’argomento. Salii in camera sua, mi sedetti sul bordo del
letto e gli chiesi se l’eroina era diventata una dipendenza. Lui scoppiò in lacrime. Si vergognava.
Quando ho visto l’ultima cosa che ha fatto nel
1993, mi si è spezzato il cuore. Era a Seattle, avevano suonato lì perché era troppo conciato per spostarsi. Non riesco a credere che l’abbiano lasciato
continuare in quello stato. È la cosa più orribile che
abbia mai visto, era fuori di sé, dovevano farlo
scendere dal palco. Ho dovuto spegnere il televisore. Non riuscivo a guardarlo. E poi, quattro mesi
dopo, è morto. È questa l’industria della musica.
JENNY COBAIN
LA MATRIGNA
Kurt cambiò negli anni dell’adolescenza. Diceva che a scuola lo picchiavano e se la prendevano
con lui perché era piccolo, eppure io e i suoi amici
non ci accorgevamo di nulla. Infatti venne fuori
che si inventava tutto e che in realtà il bullo era lui.
Scoprire queste dinamiche mi fece aprire gli occhi.
Quando venne a vivere da noi, Kurt picchiava mio
figlio, lo prendeva a calci nell’inguine, ma lui non
diceva mai niente. Quando lo scoprii, ero fuori di
me per la rabbia. Era tutto coperto di ematomi. Mi
chiesi cosa c’era in lui che non andava.
Era molto sensibile alle critiche. Si sentiva come
se gli altri ce l’avessero con lui e si teneva quasi
sempre tutto dentro. Non si arrabbiava mai sul serio, non l’ho mai visto esplodere. Assorbiva tutto,
ci rimuginava sopra e a volte ne riparlava a distanza di tempo. La sua sensibilità lo faceva soffrire molto.
Kurt stava talmente male che sfogava il suo dolore sulla madre, il padre, i fratelli e le sorelle. Era
convinto di non valere nulla perché si sentiva respinto dagli altri. E quando ti senti rifiutato dalla
tua famiglia, la vita non deve essere per niente facile. Spedirlo da un centro di riabilitazione all’altro
non era servito a niente e lui non voleva smettere.
Penso fosse arrivato al punto in cui sapeva che non
avrebbe mai smesso. E così, un giorno ha deciso di
farla finita.
KIM COBAIN
LA SORELLA
La mente di Kurt era sempre in movimento. I
suoi pensieri non si fermavano mai. Rimuginava
incessantemente. Per qualche ragione Kurt si vergognava di molte cose. Se qualcuno lo zittiva o lo
ridicolizzava, ci rimaneva malissimo.
Si faceva le canne, usciva con gli amici e non dava mai una mano in casa. Stava sempre per conto
suo. Voleva una vita normale, una vita felice, con
mamma, papà e i ragazzi. Ma al tempo stesso la rifiutava e lottava contro quello che voleva veramente.
Trovava belle le cose più disgustose. Era talmente attento ai dettagli, così infatuato dal corpo
umano e dal suo funzionamento, che probabilmente sarebbe stato un ottimo chirurgo, se avesse avuto quella passione. Ma penso che sarebbe
stato una sorta di dottor Frankenstein, più che un
vero medico. Avrebbe voluto trapiantare la testa
di un asino sul primo che passava.
Qual è il confine tra genio e follia? Penso che lui
stesse proprio su quel confine. E questo gli procurava un senso di alienazione che lo faceva
sprofondare nella depressione. Non credo soffrisse di qualche disturbo mentale specifico. Pen-
Famiglia
Cobain
sava che tutti sarebbero stati meglio senza di lui.
Che Courtney si sarebbe disintossicata e Frances
avrebbe avuto la sua fantastica madre tutta per
sé. Era convinto di essere lui il problema, ma il problema erano le droghe, che controllavano tutto.
COURTNEY LOVE
LA MOGLIE
Insieme eravamo perfetti. Due splendide anime in sincronia totale. Ci amavamo alla follia,
ognuno di noi poteva finire le frasi dell’altro, quando Kurt parlava, sembrava che dalla sua bocca
uscisse polvere di fata, era un’anima bella.
Oh, Dio, sì. Volevamo avere un figlio e avevo concepito Frances a dicembre. Ma il problema non era
la gravidanza, era viverla accanto a un drogato,
per di più drogata anch’io, sapendo che una volta
nato il bambino avrei festeggiato sparandomi una
bella dose in vena. La nostra vita era questa. Non
so se oggi saremmo ancora sposati, perché non so
se saremmo riusciti a liberarci dall’eroina. So che
io ce l’avrei fatta.
Il momento in cui l’ho visto più felice nel suo
ruolo di rockstar — poco prima della morte, con
guardia del corpo e limousine, attorniato da altre band, strisce di coca e modelle — fu all’Hollywood Rock Festival di Rio. Se l’era spassata alla grande a Rio. Se l’era spassata perché si sentiva una rockstar. Ho cercato di convincerlo a fare sesso a tre. Ma lui non voleva, diceva che era
troppo monogamo. Gli avevo proposto: «Facciamolo in tre. Lei è una modella. Perché non
vuoi? Sei una rockstar, non puoi tirarti indietro. E poi io non sono nemmeno lesbica». Ma
non c’era stato niente da fare. Non l’ho mai
tradito, ma una volta, a Londra, ci è mancato poco. Avrei potuto farlo e lui prese sessantasette Rohypnol e finì
in coma perché avevo pensato di tradirlo. Una reazione
totalmente psicotica.
Era molto innamorato
di sua figlia e credeva veramente che suicidandosi le avrebbe reso la
vita più facile. L’ultima riga della lettera
che ha lasciato prima
del suicidio dice:
«Andrà meglio senza di me». È stato
un gioco al massacro. Un massacro durato
vent’anni.
Un incubo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALBUM
DA SINISTRA: UNA SCIMMIA
GIOCATTOLO MODIFICATA
DAL PICCOLO KURT. UN FILMINO
DI CASA COBAIN: KURT SI ESIBISCE
CON UNA CHITARRA GIOCATTOLO.
LA CASSETTA INTITOLATA
“MONTAGE OF HECK”
DOVE LA FUTURA ROCKSTAR
AVEVA REGISTRATO CANZONI,
SPOT E VARIA UMANITÀ
E DA CUI BRETT MORGEN
HA TRATTO MATERIALE
PER IL FILM E IL LIBRO
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
IL LIBRO E IL FILM
IN LIBRERIA IN QUESTI GIORNI “MONTAGE
OF HECK” (RIZZOLI, 160 PAGINE, 28 EURO)
DI BRETT MORGEN, REGISTA
DEL DOCUMENTARIO IN USCITA IN DVD
L’11 GIUGNO. NELLA FOTO QUI SOTTO,
IN SENSO ORARIO: WENDY O’CONNOR
(MAMMA DI KURT), DON COBAIN (IL PAPÀ),
KURT E LA SORELLA MINORE KIM
39
Il dolore
di riascoltare
quella
musica
LUCA VALTORTA
A
DISTANZA DI VENTUNO ANNI
anni dalla sua morte,
ascoltare la voce di Kurt
Cobain provoca ancora
dolore. C’è sempre stato
qualcosa di magico in quelle parole “With
the lights out, it’s less dangerous/ Here
we are now, entertain us” con cui il
singolo Smells Like Teen Spirit esplose
come un fuoco d’artificio alle più diverse
latitudini segnando l’entrata del rock
alternativo nel mainstream. Era il
settembre del 1991. L’album Nevermind
segnava l’evoluzione dei valori del punk
che si reincarnava con il nome di
“grunge”. Era la “Generazione X”
raccontata da Douglas Coupland, una
cultura minoritaria e anticonformista,
che conquistava il mercato di massa:
l’ultima volta in cui qualcuno sognò che il
rock potesse cambiare il mondo. Le
parole di Smells Like Teen Spirit non
avevano un significato logico, non erano
un appello contro il sistema, eppure per il
modo in cui le cantava Kurt Cobain,
colpivano allo stomaco. Erano rabbia,
forza, speranza, vita. E lo sono ancora.
Succede ogni volta che metti sullo stereo
quella canzone. Ma adesso sono anche
tristezza, sconfitta e morte. Il potere
magico di quel “profumo di spirito
adolescente” del titolo, dopo la morte di
Kurt risuona sinistro: troppa gioia,
troppa rabbia che stridono con il rumore
dello sparo che il cinque aprile del 1994
mise fine alla vita di un ragazzo (About a
boy, diceva una sua canzone) bello come
un angelo («ma lui non lo sapeva», diceva
la moglie Courtney Love). Smells Like
Teen Spirit era la “perfetta canzone pop”
che univa due amori dissonanti: la
melodia e il punk rock, i Beatles e i Black
Flag, i Boston e i Pixies. Una delle canzoni
più belle della storia in uno dei dischi più
belli della storia. La voce di Cobain,
cristallina il momento prima, potente
quello dopo: “siamo qui/ intratteneteci”
minacciava, sovvertendo le regole della
logica e dello show business: i Nirvana
non erano lì per intrattenere il pubblico,
ma il contrario. Vedere questo film,
leggere questo libro è come riaprire una
ferita mai rimarginata: Kurt bambino,
Kurt felice, Kurt che ride con in mano
una chitarra giocattolo, Kurt davanti a
folle sterminate, Kurt strafatto, Kurt che
bacia Courtney con tenerezza, che gioca
con la sua bimba Frances Bean, Kurt
perso, Kurt che dice «il punk rock è
libertà», Kurt che ride nel sole. Lights
out. E adesso intratteneteci.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
AMORE E MORTE
BACIO TRA KURT E COURTNEY. PAPÀ
COBAIN CON LA FIGLIA FRANCES BEAN
(IL NOME VIENE DALL’ATTRICE RIBELLE
DI SEATTLE FRANCES FARMER). UN FOGLIO
CON SCRITTO “MI ODIO E VOGLIO MORIRE”
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
40
Sapori. Italiani
10
DA OGGI A MARTEDÌ
SI RITROVANO
A VICO EQUENSE
I MIGLIORI CHEF
DEL NOSTRO PAESE
ABBIAMO CHIESTO
A DIECI DI LORO
DI PRESENTARCI
I PIATTI CHE
RIPROPORRANNO
IN QUESTI GIORNI
DAL MAIALINO
AL CAFFÈ AI RAVIOLI
DI POLENTA
E LUMACHE. CON
UNA SPRUZZATA
DI PENISOLA
ricette
stellate
Andrea Berton
CAPESANTE E CAVOLFIORE
Elegante commistione
di orto e mare, a partire
dai molluschi immersi
un secondo nel caffè
espresso a 60°, asciugati
e appoggiati in un piatto
con spicchi di piccoli
cavolfiori rosolati, portati
a cottura con poca acqua
e una maionese di pesce,
ottenuta lavorando a filo
d’olio un fumetto ridotto
ANDREA BERTON
BERTON
MILANO
Massimo Bottura
A PROPOSITO
DI PARMIGIANO
Per il cuoco numero due
del mondo, cinque bocconi
“didattici” che declinano
il formaggio secondo
stagionature, consistenze
e temperature diverse,
dal demi-soufflé
alla salsa. Nel piatto,
anche una galletta croccante,
una spuma e perfino un’aria
fatta col Parmigiano
MASSIMO BOTTURA
OSTERIA FRANCESCANA
MODENA
Il libro
Chicco Cerea
FABRIZIO DONATI
Si intitola “Gravner. Coltivare
il vino” il libro scritto da Stefano
Caffarri per le edizioni Cucchiaio
D’Argento, dedicato al viticoltore
friulano Joško Gravner,
uno dei più amati dai cuochi
per la qualità dei suoi vini, senza
chimica e vinificati in anfora
con lunghe macerazioni
CHICCO CEREA
DA VITTORIO
BRUSAPORTO (BG)
FAGOTTINI DI MAIALE
Piatto povero e goloso:
orecchie bollite, private
della cartilagine, farcite
con cappelle di funghi
e formaggio (formai
de mut), richiuse
a mo’ di fagottini, avvolte
nella retina di maiale.
Si rosolano infarinate, prima
di sfumarle col Marsala,
unendo burro e fondo
di vitello. Con purè di patate
I magnifici 10
Metti una sera
a cena Bottura,
Cerea e gli altri
Nino Di Costanzo
L’appuntamento
Nel prossimo fine settimana,
le Officine Farneto di Roma
ospiteranno “Sugo - condimenti
per la casa”, passerella
di marchi indipendenti, designer
internazionali e artigiani
di talento sul tema casa&cucina,
con un occhio alle produzioni
sostenibili e riciclate
NINO DI COSTANZO
IN ATTESA
DI UN NUOVO RISTORANTE
SPAGHETTONE AI CINQUE
POMODORI
Magia della semplicità
nella pasta Gerardo
di Nola rifinita in padella
con ciliegini crudi passati
e pomodori ramati passati
dopo cottura breve con aglio
e olio. A fuoco spento, San
Marzano sbucciati a dadini,
pomodori del piennolo,
datterini appassiti in forno,
extravergine e basilico
Riccardo Monco
La degustazione
Dedicato al food design,
tra paesaggi del cibo
e quelli dell’anima, “Mens-a.
Stili Conviviali” chiude stasera
il suo weekend bolognese
per spostarsi domani a Ferrara
con una sostanziosa appendice
di incontri, degustazioni
e laboratori sensoriali
RICCARDO MONCO
ENOTECA PINCHIORRI
FIRENZE
RAVIOLINI DI POLENTA
E LUMACHE
Una pasta ripiena diversa,
dove la farcitura è costituita
da una polenta bianca,
mantecata e frullata
con extravergine, burro,
Parmigiano e sale. A parte,
lumache spurgate, cotte
con vino bianco e aglio
per due ore, poi spadellate.
Nel piatto, briciole di pane
al prezzemolo saltate
Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
Niente gare
né classifiche
questa è
la nostra festa
= 1 STELLA MICHELIN
Giancarlo Perbellini
GIANCARLO PERBELLINI
CASA PERBELLINI
VERONA
RAVIOLI AL LATTE COI RICCI
Terra&mare declinati
a partire da una sfoglia tirata
molto sottile, farcita di latte
cagliato con l’acido citrico.
Ravioli cotti e nappati
con poco burro,
poi appoggiati nel piatto
su una dadolata di porri
brasati. Sopra, polpa
di ricci di mare freschissimi
e un ciuffo di tartufo nero
grattugiato
Valeria Piccini
VALERIA PICCINI
DA CAINO
MONTEMERANO (GR)
MAIALINO DI CINTA SENESE
CON VERDURE
Elegante e terragna la carne
in doppia cottura (a bassa
temperatura, poi rosolando
la cotenna in extravergine),
servita con una salsa a base
di cipollotti, piselli, fave,
carciofi e basilico.
A côté, spicchi di carciofo
spadellati, cipollotti stufati
con aceto, insalatina
di fiori di fave e glicine
LICIA GRANELLO
Niko Romito
QUI LA FESTA. DAVANTI A UN MARE CHE IN QUESTE GIORNATE di quasi estate met-
te in fila le isole di fronte come fossero paperelle. In un tripudio di giacche bianche e grembiuli, pentoloni e sac-à-poche, cassette di pesce, frutta, verdura. Se esistesse un Guinness dei primati per la quantità di stelle Michelin lavoranti insieme, Festavico vincerebbe a mani basse: da oggi a martedì, il borgo di Vico Equense, arroccato in collina ma provvisto
di dependance in riva al mare, accoglie e fa cucinare in strada la crème
de la crème della gastronomia italiana, ventaglio di tre stelle e talenti
ragazzi, imprenditrici culinarie e gelatieri fulminati sulla via del latte di
pascolo, attempati sommelier e bartender di ultima generazione. Centinaia tra chef, commis e apprendisti pronti a lavorare gomito a gomito.
Imprecando e correndo, sudando e faticando, ma anche molto sorridendo. Niente di tutto questo sarebbe possibile senza Gennaro Esposito, il vero erede di
Alfonso Iaccarino, lo storico chef pluristellato che ha trasformato la penisola sorrentina — e
il ristorante “Don Alfonso” — in tappa obbligata per i gourmet di tutto il mondo, e il promontorio di Punta Campanella — tra i golfi di Napoli e Salerno — in un paradiso di agricoltura buona, pulita e giusta. Esposito, che ha mutuato da Iaccarino un talento indiscutibile e
la capacità visionaria di promuovere il proprio territorio, ha avuto un’intuizione geniale e
l’ha trasformata in appuntamento irrinunciabile. Lontani per una volta dalle belle e gelide
vasche di vetro che sono le nuove cucine stellate, i cuochi vengono letteralmente messi in
piazza, a contatto con la gente. Certo, ognuno di loro arriva adeguatamente provvisto dei
magici sacchettini sottovuotati, dove vengono conservate al meglio le basi delle
ricette. Ma finitura e offerta dei piatti (di cui trovate qui accanto qualche
esempio), avvengono lì, a distanza di braccio: al posto di starchef e divi
dei gastro-reality, solo bravi, bravissimi cuochi pronti a raccontare e raccontarsi.
Questo virtuoso esempio di democratizzazione dell’alta
cucina — i biglietti per le degustazioni sono assolutamente accessibili — è diverso da tutti gli altri anche grazie alla presenza degli artigiani del cuore. Il gioco delle mani amiche, come l’ha battezzato Esposito, prevede
che dalla passerella di questa sera nei centoventi
negozi di Vico Equense trasformati in altrettanti
atelier del gusto, alla cena itinerante di Marina
Aequa martedì, contadini e allevatori, casari e
panificatori, maestri cioccolatieri e raccoglitori di erbe selvatiche siano co-protagonisti di
tutti gli appuntamenti della festa. Perché se
c’è un futuro disegnato per la nostra cucina
migliore, passa inesorabilmente dal rapporto con gli artigiani. Così, l’unica difficoltà
per Chicco Cerea e Riccardo Monco, Mauro
Uliassi e Pino Cuttaia è stato scegliere uno
solo tra i fornitori dei rispettivi ristoranti da
portare con sé. Piccoli eroi del nostro tempo, restii a lasciare le loro aziende iper-familiari, capaci di lavorare venti ore al giorno per fare la mozzarella più buona del mondo e cocciuti nel produrre poco — il giusto,
rispondono — preservando la qualità massima. Una scelta che comporta notti insonni e guadagni risicati. Ma si sa, la passione è
passione, anche e soprattutto nel cibo.
È
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NIKO ROMITO
REALE
CASTEL DI SANGRO (AQ)
AGNELLO, AGLIO
E POMPELMO
Per dare profumo
senza appesantire, spicchi
sbucciati, privati dell’anima,
sbianchiti tre volte in acqua
e una nel latte, prima
di frullarli. A parte, cottura
nel latte del carré e breve
affumicatura. Nel piatto,
germogli un poco conditi
sopra la carne, l’aglio
e una gelatina di pompelmo
Davide Scabin
DAVIDE SCABIN
COMBAL.ZERO
RIVOLI (TO)
MAIALINO AL CAFFÈ
Abbinamento insolito
per il cosciotto cotto a bassa
temperatura, sporzionato
in cubi e arrostito
dalla parte della cotenna
sotto la salamandra (grill).
Per napparlo mentre
si colora, viene usata
una glassa ottenuta
tostando i chicchi macinati
in padella con poco burro
e il fondo di cottura
Mauro Uliassi
MAURO ULIASSI
ULIASSI CUCINA DI MARE
SENIGALLIA (AN)
41
MOZZARELLA
PIAN DEL MEDICO
Il trionfo del Mediterraneo:
su un velo di stracciatella
si appoggiano cubetti
di mozzarella, pois
di basilico e salsa
di peperone, cubetti
di pomodoro confit, acciughe
e anguilla affumicata. Per
decorare, filetti di peperone
e capperi fritti, pistacchi,
briciole di pane nero
GENNARO ESPOSITO
R
ICORDO BENISSIMO LA PRIMA
volta della festa, anzi la
numero zero, perché
nessuno di noi pensava ci
sarebbero state altre
edizioni oltre a quell’appuntamento un
po’ casuale e un po’ pazzerello messo in
piedi all’ultimo momento per far stare
insieme noi cuochi.
Tutto iniziò dodici anni fa. Avevamo
ospitato un evento, di quelli che
chiamano a raccolta chef di tutta Italia.
Per molti di loro la costiera sorrentina era
solo una cartolina o poco di più. Per me,
che a Vico sono nato e vivo da sempre, si
trattava di un’occasione irripetibile.
Quando mai cuochi friulani e altoatesini,
sardi e marchigiani, tutti insieme o
anche da soli sarebbero venuti una
seconda volta nelle nostre campagne?
Conoscevo già la risposta e non mi
rassegnavo all’idea di chiudere
l’appuntamento istituzionale senza
lasciare loro un ricordo vero, intriso della
voglia di tornare a trovarci. Per questo mi
inventai una festa. Trovai una bella
terrazza sul mare di Massa Lubrense, un
posto magico, incantato, e insieme ai
miei ragazzi misi in piedi un bel teatrino:
banchi di ostriche, zeppoline, vini super,
molto del meglio che ci regala la
Campania Felix. Avevo pensato alle
macchine, a far coincidere gli orari,
perfino alla musica, con una piccola
band-tributo dei Blues Brothers che
avrebbe fatto ballare anche i tavoli.
L’unica cosa che non avevo messo in
preventivo era il temporale. Cinque
minuti dopo che la gente aveva
cominciato ad arrivare, venne giù il
diluvio. Niente di tremendo, un
bell’acquazzone di inizio estate. Ma quei
minuti furono eterni: tutto rovinato,
occasione sprecata, altro che far tornare i
miei colleghi in costiera...
Eppure, la voglia di stare insieme era così
grande, che finita di cadere l’ultima
goccia d’acqua tirammo fuori tutto
quanto avevamo precipitosamente
accatastato e coperto, ostriche e
strumenti musicali compresi.
Mangiammo e ballammo e ridemmo fino
a non poterne più. E furono in tanti,
tantissimi a dirci: una festa così bisogna
farla tutti gli anni! Li abbiamo
accontentati. Anno dopo anno, abbiamo
allargato i confini del paese, cercando di
coinvolgere la gente del nostro territorio
e di farla interagire con gli ospiti,
utilizzando quel fantastico mezzo che è il
cibo, la sua condivisione. La festa è
diventata una scatola da riempire di
contenuti. Nel 2014, ha richiamato quasi
diecimila persone. I cuochi, super stellati
e giovani speranze, fanno a gara per
partecipare, nessuno prende un
compenso, la maggior parte viene a
proprie spese. Cucinano uno accanto
all’altro, si aiutano, niente competizioni,
niente classifica, solo la voglia di stare
insieme, di offrire del buon cibo a chi
partecipa. E alla fine, naturalmente, si
balla.
L’autore è lo chef
della “Torre del Saracino”
di Vico Equense, due stelle Michelin
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Repubblica Nazionale 2015-06-07
la Repubblica
LA DOMENICA
DOMENICA 7 GIUGNO 2015
42
L’incontro. The voice
CLOONEY NON L’HO
MAI INCONTRATO,
MA UNA VOLTA
MI TELEFONÒ.
DISSE: THANK YOU
VERY MUCH,
BRAVO, BELLA
VOCE! GLI RISPOSI:
GEORGE,
MA CHE FAI,
IMPARI L’ITALIANO?
SCUSA EH,
MA SE TU TI METTI
A IMPARARE
L’ITALIANO
IO RESTO
SENZA LAVORO
Prima si è fatto conoscere grazie al doppiaggio. “Per il Tom Hanks di
Forrest Gump al provino mi dissero: non vai bene ma ti prendiamo
lo stesso, sei quello che si è avvicinato di più”. Poi in tv è diventato
anche un volto, quello di René Ferretti (“Boris”), e una stazza, quella di Nero Wolfe. E se ha appena inciso un disco (“Oh, una delle mie
canzoni è piaciuta a De Gregori”) l’anno scorso al cinema è stato Salvo, l’operaio di “Patria”: “In quel
di nulla, scappai. Solo dopo un po’ sono tornato indietro e ho visto i morti, il sanMi ricordo le facce, i bossoli per terra e l’odore del piombo. Qualche tempo
dopo ci scrissi una canzone, Sequestro di Stato». Accompagna i titoli di coda di
film c’è pure la strage di via Fani. gue...
Patria.
Le canzoni ha cominciato a scriverle tra il 2006 e il 2007. «Iniziai la prima sedi Boris, ogni giorno arrivavo sul set alle otto del mattino, ma poteva capitaAbitavo lì. Quella mattina ero rerieche
girassi solo alle tre del pomeriggio. Allora ho avuto l’idea di portarmi la
chitarra e quasi tutte le mie canzoni le ho scritte lì. Ogni tanto le facevo sentire
amici, durante le pause. Una in particolare, Ciak, venne apprezzata nientesceso per andare a comprare il agli
meno che da Francesco De Gregori. Gli scrissi una mail per ringraziarlo, mi rispose: “Sì era proprio bella”. Mi sono sentito incoraggiato. Da allora, le ho tenuin un cassetto, fino all’estate scorsa. Alfredo Saitto, produttore veteragiornale. Ho ancora il ricordo del- teno,tutte
ascoltò Ciak durante le prove di un evento che si sarebbe dovuto tenere a Roma e che io avrei dovuto presentare. Mi chiese di sentire anche gli altri miei pezzi. Ed è nato il disco».
l’odore della polvere da sparo”
Padre carabiniere, pugliese di Cisternino, e mamma sarta, di Locorotondo.
Francesco
Pannofino
SILVANA MAZZOCCHI
ROMA
I
L RUOLO PIÙ RECENTE, QUELLO DI SALVO, operaio siciliano trapiantato a Torino,
rozzo ma giusto, lo interpreta in Patria, film di Felice Farina ispirato al libro
di Enrico Deaglio. È invece il padre di uno dei componenti della band musicale, Le frise ignoranti, nella commedia omonima di Antonello De Leo e Pietro Loprieno. Lui è un talento eclettico, doppiatore di attori mito del calibro
di George Clooney e Denzel Washington, indimenticabile voce metallica e strusciante del Tom Hanks di Forrest Gump, animatore di cartoni animati e telefilm
americani. Attore ironico e versatile di cinema, teatro, radio e audiolibri, mattatore di spot pubblicitari e protagonista di fiction amatissime, dal disincantato René Ferretti nelle serie Boris, film compreso, a Nero Wolfe, l’investigatore
maniacale e misogino inventato da Rex Stout. Infine, perfino cantautore con un
disco che uscirà il prossimo autunno. «Sedici canzoni scritte da me quasi per caso… Titolo provvisorio: AAA. Vendesi emozioni...».
Francesco Pannofino, cinquantasei anni, pugliese d’origine, nato in Liguria
e romano d’adozione, è come te l’aspetti, spiritoso e sarcastico, curioso e disponibile, soddisfatto del suo lavoro e ottimista quanto basta. «Il disco? Speriamo bene, comunque non mi monto la testa. Il doppiaggio è la mia stabilità, anche se il teatro e il cinema sono più solenni e ci si mette la faccia». E,
se gli chiedi che cosa vorrebbe ancora fare, azzarda che gli piacerebbe provare con la regia, «ma non ho ancora la storia giusta e ho bisogno della squadra». E un romanzo? «Me lo avevano chiesto ben due editori; ne avevo scelto
uno, ma alla fine ho rinunciato».
Arriva all’appuntamento puntuale, reduce da una riunione dedicata ai trailer del nuovo film di George Clooney, Tomorrowland.
«Lui non l’ho mai incontrato, una volta però mi ha telefonato. Mi
fa: “Thank you very much, bravo, bella voce”. E io: “Che fai, im-
DA GRANDE AVREI VOLUTO DIVENTARE CALCIATORE
OPPURE GIORNALISTA SPORTIVO. O ATTORE
A SCUOLA FACEVAMO LE IMITAZIONI.
CI CHIAMAVANO “GLI ESIBIZIONISTI”
ERO SEMPRE IO QUELLO CHE FACEVA RIDERE DI PIÙ
pari l’italiano?”. Lui: “Poco, pochino”. ”Non farlo troppo bene,
sennò io che faccio?”». Gigioneggia, beve un caffè, segue sigaretta. Inizia con Patria: «Sono appassionato di storia italiana, quella recente, e poi il libro di Deaglio si apre con la strage
di via Fani. Io ero lì quella mattina del 16 marzo 1978. Abitavo
a pochi metri, ed ero appena uscito di casa per andare a prendere il tram; andavo all’università, frequentavo matematica,
avevo lezione di algebra. Mi fermai all’edicola e comprai Il Messaggero; la Juventus aveva passato il turno di Coppa dei Campioni
e, quando sentii gli spari, stavo guardando la foto di Zoff. Mi girai, non vi-
«Da grande avrei voluto fare il calciatore, oppure il giornalista sportivo. O l’attore. A scuola ci esibivamo spesso, eravamo in due o tre, “gli esibizionisti”, e facevamo le imitazioni; io ero sempre quello che faceva ridere di più. All’università non ci ho mai creduto, l’avrei voluta lasciare da subito, ma mio padre mi stava addosso: “O lavori o studi”». L’occasione arriva a vent’anni: sostituire la segretaria tuttofare della Società attori italiani, andata in maternità. «Ero al bar
con altri ragazzi. Arrivò un signore e chiese se ci fosse qualcuno disponibile. “Io,
io!”, mi buttai. Ci rimasi un anno e mezzo; fu un bel periodo, in quella sede passavano un po‘ tutti, Volonté, Montesano… Io mi occupavo del ciclostile, nel frattempo però frequentavo le moviole dove si preparavano le scene per il doppiaggio. E imparai tante cose, per esempio come si fa un piano di lavoro. Mi proposero di diventare assistente al doppiaggio. Il direttore era Aldo Massasso, vide subito che ero un ragazzetto sveglio. Il momento era favorevole, stavano nascendo le tv private e il lavoro aumentava a dismisura».
Diventa la voce di decine di personaggi, fiction, serie, cartoni animati. «Un
giorno mi chiama Tonino Pavan, leader del Sindacato attori, e mi suggerisce di
presentarmi a Trieste al Teatro Stabile, dove si stava mettendo in scena L’affare Danton. “Ci sono trentacinque personaggi e una decina sono giovani. Vai a
farti vedere”. Stavo facendo il servizio militare, andai al provino in divisa, ricordo ancora le facce. Però mi presero».
Per Pannofino doppiatore fu Forrest Gump la pietra miliare. «Avevo già parecchia esperienza, avevo partecipato perfino a un film straordinario come Gli
Intoccabili, ma la mia voce non era quella di Hanks… Il direttore era Mario De
Angelis e la produzione americana gli aveva affiancato una supervisor, in quel
periodo era la normalità e tutto dipendeva da loro. Dovevo inventarmi qualcosa, Tom Hanks parlava con l’accento dell’Alabama, un inglese strascinato, brasilianizzato. Feci il provino, uno due, tre volte, alla fine il verdetto: “Non vai bene ma ti prendiamo, sei quello che si è avvicinato di più”».
Anche in teatro è uno spettacolo a portargli fortuna. Esercizi di stile di Queneau, per vent’anni (anche se non continuativi) in palcoscenico, dal 1989 al
2009. «In Esercizi di stile, la storia ripetuta dà modo all’attore d’interpretare ven-
ARRIVAVO SUL SET OGNI GIORNO VERSO
LE OTTO, E FINO ALLE TRE NON SI GIRAVA
LE CANZONI LE HO SCRITTE LÌ, E DURANTE
LE PAUSE LE FACEVO SENTIRE AGLI AMICI
LA COSA È NATA COSÌ
ti personaggi diversi in altrettanti minuti. Fu dopo avermi visto lì che mi
proposero Boris, tante serie e un film. Ho molto amato il mio personaggio, René Ferretti, e spero di tornare ancora a interpretarlo». Da Boris a
Nero Wolfe, una trasformazione totale: «Sono ingrassato venti chili per
quella parte, ma adesso che sono tornato ai miei novanta, sto pensando di ricominciare a giocare a calciotto, la mia passione». Si è divertito
con il doppio ruolo in Ogni maledetto Natale. «Era la stessa banda di Boris, una garanzia per me. Fino all’ultimo momento non sapevamo
che avremmo girato in entrambi gli episodi, soluzione che
si è invece rivelata una trovata. Ma io, con gli autori di Boris, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, vado a occhi chiusi, adoro il loro umorismo intelligente e paradossale».
Dice di essere una persona positiva, forse un po’
umorale, ma equilibrata, concreta. «Con la mia ex moglie, Emanuela (Rossi, doppiatrice e attrice anche
lei, ndr), ci separammo quando nostro figlio, Andrea, che ora ha diciassette anni, era ancora molto
piccolo. Siamo rimasti a lungo divisi, poi ci siamo rimessi insieme, ma non ha funzionato e ora siamo
di nuovo single. Abbiamo ottimi rapporti, ci vogliamo bene. Ecco, Emanuela è anche nel cast di I
suoceri albanesi di Gianni Clementi, per la regia
di Claudio Beccaccini, l’ultimo spettacolo teatrale che porteremo in giro per l’Italia l’anno prossimo».
Siamo ai saluti e, all’elenco del prossimo futuro,
si aggiunge ancora un corto in uscita Djinn tonic, ovvero Il genio della lampada di Aladino. È di un gruppo
di cineasti di Modena, lo stesso che fece Tellurica dopo il
terremoto. «Io sono il genio…», scherza.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale 2015-06-07
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