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Roger Waters - La Repubblica.it
la domenica DI REPUBBLICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 NUMERO 535 Cult La copertina. La curiosità è morta, viva la curiosità Straparlando. Luigi Ontani: “I curatori distruggono l’arte” Mondovisioni. Una tintura per capelli a Sana’a Roger Waters Ho ancora un muro da abbattere Le ingiustizie, la musica, Obama, l’Italia e un film (che si intitola “The Wall”) ROGER WATERS NEL 2010 DURANTE IL “THE WALL” TOUR / ©ED/CE / CAMERA PRESS Intervista esclusiva al leader dei Pink Floyd L’attualità. L’arabo del futuro abita tra Homs e Parigi La storia. Duecento anni fa Waterloo, ecco come andò davvero Spettacoli. “Hai preso il Ritalin?”, scene da casa Cobain L’incontro. Francesco Pannofino: “Se Clooney impara l’italiano io sono fritto” Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 32 La copertina. Roger Waters Lo splendido settantaduenne è a Londra per presentare il suo film.E a “Repubblica” svela: “Appena finito il nuovo album farò un tour Mi piace ancora andare ai miei concerti” ENRICO FRANCESCHINI LONDRA «U N MURO DIVIDE ancora il mondo in ©ED/CE / CAMERA PRESS nord e sud, in ricchi e poveri, da una parte chi perseguita e dall’altra chi soffre», mi dice Roger Waters. E lui continua a cercare di tirarlo giù, un mattone alla volta. Prima con le canzoni, ora anche con il cinema. L’appuntamento con il leggendario leader dei Pink Floyd è a Londra, in una sala d’albergo quasi di fronte ai grandi magazzini Harrods. È qui che ha temporaneamente stabilito il quartier generale per il lancio promozionale del suo film, The Wall, appunto. Capelli grigi ma lunghi come ai vecchi tempi, jeans, maglietta nera, giacca blu, alto e dinoccolato, a settantadue anni Roger Waters ne dimostra almeno dieci di meno e ha ancora l’aria della rockstar — appena un po’ più rilassata. È come se il tempo, per la generazione sua, di Mick Jagger, di Paul Mc Cartney, di questi splendidi, incorreggibili settantenni, non dovesse passare mai. The Wall, dunque, film-concerto sullo strepitoso tour omonimo portato in giro per il mondo tra il 2010 e il 2013, road-movie sul suo passato di stella del rock e documentario pacifista, sarà in contemporanea sui grandi schermi di tutto il pianeta il prossimo 29 settembre, e in Italia, caso unico, per tre giorni anziché uno solo. Un grande avvenimento che includerà anche una conversazione fra Waters e Nick Mason, in cui il duo della band di The Dark Side of the Moon si riunisce per rispondere alle domande inviate loro dai fan. Mister Waters, che tipo di messaggio vuole lanciare con questo film? «Prima mi lasci dire l’unica cosa che so dire in italiano: Sono molto felice di essere qui. Ah, no, aspetti, ne so anche un’altra: Signore, guidi piano per favore, mia moglie aspetta un bambino. Molto utile quando un’autista ti porta da Fiesole a Firenze, con tutte quelle curve. Dunque, dove eravamo?». Al suo The Wall che esce nei cinema di mezzo mondo. «Ah sì. Penso che la gente sarà colpita e sorpresa, anche quelli che hanno visto dal vivo il concerto, perché il film offre molto di più. Per me è stato il modo di riflettere sull’apparente indifferenza della nostra civiltà verso coloro che soffrono, verso i diseredati, le vittime delle guerre, le persone private della libertà, censurate, sfruttate, verso tutti coloro che sono tenuti ai margini della società». È un caso che soltanto in Italia il film sarà proiettato per tre giorni, o invece riflette i suoi sentimenti per il nostro Paese, per la terra in cui ha perso la vita suo padre? «La verità? Non lo sapevo, ma ora che me lo dice mi fa piacere, come mi fa sempre piacere parlare dell’Italia. Ho pranzato di recente con un nuovo amico, Harry Shindler, un veterano inglese della Seconda guerra mondiale che vive da tanti anni nelle Marche, e che mi ha aiutato a scoprire il luogo in cui fu ucciso mio padre (un soldato britannico che perse la vita combattendo in Italia nel 1944, quando Waters aveva pochi mesi di vita: una storia raccontata in anteprima proprio da Repubblica nel 2013, ndr). Prima ancora avevo partecipato alla cerimonia di inaugurazione di un monumento alla memoria di mio padre ad Aprilia, la cittadina in cui perse la vita durante la battaglia per la liberazione di Roma. È stato un momento profondamente commovente per me. Da non molto ho letto Napoli ‘44, il libro di memorie di un ufficiale inglese durante l’avanzata da Salerno fino alla capitale. Quel libro descrive benissimo l’umanità degli italiani, i sentimenti del vostro popolo. Quando sono a casa mia e ho un po’ di ospiti attorno al tavolo, alzo sempre un bicchiere e dico, in italiano: La famiglia! E poi aggiungo rivolto ai familiari e agli amici: questo è quello che deve voler dire essere italiani. Io vi ringrazio Per fortuna ai tempi dei Pink Floyd non c’era X Factor Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica © MICHAEL OCHS/CORBIS DOMENICA 7 GIUGNO 2015 ADESSO È TUTTA ROBA TIPO TALENT, PRENDONO UN RAGAZZINO E LO SCARAVENTANO IN UN CIRCUITO INFERNALE SENZA DARGLI IL TEMPO PER MATURARE. IN QUESTO MODO È DEL TUTTO NATURALE CHE NON NASCANO PIÙ GRANDI ROCK BAND BLAIR NON L’HO MAI SOPPORTATO. OBAMA MI PIACE. MA ANCHE LUI COZZA CONTRO UN MURO. SI È RESO CONTO DI NON POTER FAR MOLTO. FORSE ANCHE PER QUESTO OGGI MI SENTO PIÙ GARANTITO DALLA DEMOCRAZIA EUROPEA CHE DA QUELLA AMERICANA LA BAND Il pifferaio magico che trasformò le sue ossessioni in un’opera rock GINO CASTALDO I PINK FLOYD (SENZA SYD BARRETT). DALL’ALTO, NEL 1970: DAVID GILMOUR, NICK MASON, ROGER WATERS E RICK WRIGHT; NEL 1967 (WATERS È IL PRIMO A SINISTRA); NEL 1973 (ILTERZO A DESTRA) IL FILM, LA MOSTRA E LA LEZIONE IN CONTEMPORANEA MONDIALE IL 29 SETTEMBRE 2015, E, SOLO PER L’ITALIA ANCHE IL 30 SETTEMBRE E IL PRIMO OTTOBRE, VERRÀ PROIETTATO NELLE SALE IL FILM “ROGER WATERS - THE WALL”. LE PREVENDITE ONLINE SARANNO APERTE DAL 19 GIUGNO. INOLTRE DA IERI AL MUSEO PAN DI NAPOLI E NEI PROSSIMI GIORNI A POMPEI SONO IN MOSTRA TRENTA SCATTI INEDITI REALIZZATI DURANTE IL MITICO CONCERTO “PINK FLOYD AT POMPEI”. INFINE, SU REPUBBLICA.IT, LA “LEZIONE DI ROCK” TENUTA DA ERNESTO ASSANTE E GINO CASTALDO NEI GIORNI SCORSI ALLA “REPUBBLICA DELLE IDEE” A GENOVA E DEDICATA AI PINK FLOYD PENSARE CHE LA STORIA DI THE WALL, la più colossale e ambiziosa delle opere rock, nacque da uno sputo che Roger Waters indirizzò a un fan troppo esuberante. Quello che allora era l’incontrastato leader dei Pink Floyd lo visse come uno shock: cosa poteva averlo spinto a un gesto così riprovevole? La risposta, nel tempo, sarebbe stata appunto The Wall, il simbolo di tutti i muri, quelli della mente, quelli che ci isolano dai nostri simili, quelli della repressione scolastica, quelli della geopolitica che dividono popoli e nazioni, la magistrale messa in scena che Waters in questi anni ha ripreso, senza gli ex compagni d’avventura, e portato in giro per il mondo in un allestimento ancora più faraonico e gigantesco di quello originale del 1980. Quell’episodio ci dice molto della personalità di Waters, il suo temperamento ideologico, il disprezzo per un certo tipo di divismo superficiale e invasivo, la sofferenza per un mondo che invece di guarire esaspera le diseguaglianze. Anche la sua leadership all’interno della band la visse con un certo tormento, anche perché cresciuta all’ombra del mito di Syd Barrett, il primo genio visionario che aveva letteralmente inventato la visione dei Pink Floyd e poi si era perso nei suoi labirinti psichedelici. La sognò come un incubo e la rappresentò addirittura in una canzone, Cymbaline, anche se a cantarla era David Gilmour, che sarebbe diventato, dopo un feroce procedimento legale, il terzo dei leader dei Pink Floyd. Eppure non c’è dubbio che tra conflitti, litigi, machiavelliche progettazioni, il ruolo di Waters sia stato determinante. Fu lui a spingere la band a voler raggiungere le più alte vette dell’ambizione, ad affrontare, per quello che era possibile fare in un disco, i grandi temi dell’esistenza: il tempo, il denaro, la nascita, la pazzia, la morte, come fece in The Dark Side of the Moon, poi la tragedia psicologica di Barrett raccontata in Shine On You Crazy Diamond, il più struggente omaggio a quell’incrocio perverso tra creatività e follia che è al centro di molte delle pagine più emozionanti della storia dell’arte. Fu lui, infine, quando le tensioni all’interno dei Pink Floyd erano arrivate al massimo e livello, a spingere per un altro e definitivo progetto, The Wall, l’opera tra i cui molti significati si poteva leggere anche il muro che inesorabilmente stava spezzando l’unione dei quattro componenti della band. Di certo Roger Waters è uno che pensa in grande, che insegue con tenacia e determinazione le sue ossessioni e le mette in scena, convinto che le sue ossessioni possano essere condivise da un pubblico molto grande. E va detto che i fatti gli hanno dato ragione considerando la potenza ancora oggi intatta della leggenda che il gruppo inglese ha costruito. Grazie a lui i Pink Floyd hanno radicato nell’immaginario del popolo della musica la più singolare commistione tra intimità e grandiosità. Anzi, sono stati loro, e nessun altro come loro, a lasciarci credere che la più riservata delle pulsioni interiori potesse diventare una rappresentazione gigantesca, un’esaltante condivisione collettiva. Nei loro dischi più belli c’è sempre qualcosa di sublime e profondo, come se avessero catturato attraverso la liquida e sognante qualità dei loro suono, quella indeterminata zona che fa da raccordo tra la nostra razionalità e l’inconscio. Di tutto questo Waters rimane il tormentato pifferaio, l’araldo di una malinconia planetaria che canta il suo blues dedicato alla mancanza di empatia tra gli esseri umani. E questo, al fondo di tutto, rimane il tema dominante della sua vita. E © MICHAEL OCHS/CORBIS Le ha dato più soddisfazioni, per passare a un argomento più leggero, la vittoria dell’Arsenal nella Coppa d’Inghilterra? «Naturalmente sì, sono ancora un grande tifoso dell’Arsenal, anche se da quando abito a New York vedo le partite in tivù e non più allo stadio». Perché preferisce New York a Londra? «Perché New York ha quattro stagioni. Suona assurdo detto da un inglese, vero? Non sopportavo più il clima londinese». Posso chiederle, per concludere, da dove le è venuta l’ispirazione per scrivere canzoni che sono diventate la colonna sonora della nostra generazione? Penso a Wish You Were Here, a TheDark Side of the Moon? Lei è uno dei più grandi autori di rock del nostro tempo: da dove le arrivano la musica e le parole? «Potrei darle la risposta convenzionale, che è parzialmente vera: mi siedo al pianoforte, oppure prendo la chitarra, inizio a giocare con le note, tengo un taccuino a portata di mano, e poi quando trovo il verso giusto mi chiudo nel mio studio e ci lavoro sopra. Ma la risposta più vera è questa: quando una donna resta incinta, ma non ha ancora i sintomi, lo sa già? C’è qualcosa che le dice che dentro di lei c’è un bambino? Parole e musica arrivano nello stesso modo, misterioso, indecifrabile, magico. Davvero non saprei dire né come, né perché». E un’ultima cosa, semplice curiosità: se dovesse capitarle di passare davanti alla centrale di Battersea, quella che appariva sulla copertina del vostro album Animals e che adesso stanno trasformando in un grande complesso di appartamenti e shopping-center, cosa pensa che potrebbe provare? Quel luogo ha ancora un valore per lei? «Ce l’ha. Però le confesso che ci sono passato davanti proprio da poco, ero in treno, e non mi sono neanche ricordato di guardarla. Perché? Perché stavo leggendo un libro e il libro mi prendeva così tanto da farmi dimenticare tutto il resto. È un’altra fortuna che abbiamo ereditato dagli anni SessantaSettanta, l’epoca in cui si amavano i libri e non solo quello che passa internet». © MICHAEL OCHS/CORBIS per il dono che avete fatto al mondo». È caduto il muro di Berlino, da quando lei ha scritto The Wall. Ma quanti muri ancora dividono il mondo? «Tanti. Il muro tra il nord e il sud del pianeta. Tra i ricchi e i poveri. Tra chi perseguita e chi soffre. E anche tra chi ha le chiavi del progresso, dell’informazione, e chi è condannato a vivere nell’ignoranza, nel buio. Non so come o quando li abbatteremo, ma almeno proviamoci, anche solo con una canzone se necessario». La musica ha provato a lungo ad abbattere il muro della fame in Africa, nel Terzo Mondo, dal Live Aid al Live 8: ci è riuscita? Servono a qualcosa questi concerti di beneficenza, ad alcuni dei quali ha partecipato lei stesso? «Una volta ho detto che, come minimo, male non fanno. Oggi dico di più: se anche servissero solo a dare a Bob Geldof un palcoscenico da cui denunciare le ingiustizie commesse dall’Occidente, la dittatura del Mercato, la diseguaglianza fra chi ha tutto e chi niente, varrebbe la pena averli fatti. L’ho cantato anch’io in una canzone: ci sono montagne di burro, e troppi bambini che non hanno niente da mangiare». Qualche giorno fa un famoso promoter inglese ha detto che per i grandi concerti rock è iniziato il declino, per il semplice fatto che non ci sono più grandi rock band. È d’accordo? «Io ho avuto la fortuna di essere giovane negli anni Sessanta-Settanta, quando quattro ragazzi potevano formare una band e avere il tempo e le opportunità per crescere, sviluppare un proprio pubblico, migliorare la qualità musicale. Adesso è tutto come quei reality show tipo X Factor o America’s Got Talent. Non c’è più alcuna sostanza. Prendono un ragazzino e lo scaraventano nel circuito senza dargli né il tempo né le occasioni per maturare. In questo modo è naturale non nascano più grandi rock band». E lei? C’è ancora qualche grande concerto nel suo futuro? «Sono a metà di un nuovo album. Quando sarà pronto, fra un anno, un anno e mezzo, sì, mi piacerebbe portarlo in tour. Ai miei concerti mi diverto ancora». Lei è stato a lungo un sostenitore del partito laburista, un militante della sinistra. Ci crede ancora, nella sinistra britannica e europea? «Dopo la Thatcher e Reagan, la sinistra ha rinunciato a essere una vera sinistra. Personalmente trovavo Tony Blair insopportabile. Come se il socialismo, per vincere, dovesse diventare timido e moderato. E però le dirò una cosa: con tutti i suoi limiti, oggi preferisco il liberalismo occidentale alle sue presunte alternative. Almeno difende ancora i valori della Magna Charta, lo stato di diritto, i diritti umani. E comunque mi sento più garantito dalla democrazia europea che da quella americana». Obama non le piace? «Obama mi piace. È sicuramente un uomo molto intelligente e si è sinceramente battuto per migliorare le cose. Ma cozza contro un muro, anche lì, un altro, e si è reso conto di non poter far molto». 33 © RIPRODUZIONE RISERVATA © RIPRODUZIONE RISERVATA PASSANDO DAVANTI A BATTERSEA PARK NON MI SONO NEANCHE RICORDATO DI GUARDARLA. STAVO LEGGENDO UN LIBRO. UN’ALTRA EREDITÀ DEGLI ANNI SESSANTA: L’ERA IN CUI SI AMAVANO I LIBRI E NON SOLO QUELLO CHE ARRIVA DAL WEB SU RTV-LA EFFE DOMANI SU REPTV NEWS (ORE 19.45, CANALE 50 DEL DIGITALE E 139 DI SKY) VIDEOINTERVISTA A ROGER WATERS Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 34 L’attualità. Oriente-Occidente © 2015 RCS LIBRI S.P.A. (C) 2014 ALLARY ÉDITIONS Siriano e francese, Riad Sattouf racconta in un graphic novel di grande successo la vita tra due culture. “Sentirmi fuori posto mi ha fatto capire chi sono: un disegnatore” PARIGI. COME CLEMENTINE E ABDEL SI CONOBBERO ALL’UNIVERSITÀ FABIO GAMBARO TRIPOLI. COME E PERCHÉ IL PAPÀ DI RIAD DECICE DI ANDARE IN LIBIA CON LA FAMIGLIA L’arabo del futuro èun diavolo biondo PARIGI B RAVISSIMO, ACUTO, SPIAZZANTE. Considerato oggi uno dei protago- nisti del mondo internazionale del fumetto, Riad Sattouf, padre siriano e madre francese, ha trascorso i primi anni della sua vita in Medio Oriente. Li ha raccontati in un graphic novel di grandissimo successo, L’arabo del futuro, il cui primo volume arriva ora nelle librerie italiane mentre in Francia sta uscendo il secondo dei quattro previsti. Trentasette anni, parigino, fresco di premio al Festival d’Angoulême, Sattouf — che è anche il regista di due film molto divertenti, Les beaux gosses e Jacky au royaume des filles — è persona affabile e autoironica. Nei locali del suo editore parigino, tra caffè e caramelle alla menta, ci parla della genesi di questo libro molto personale, in cui ha raccontato la sua infanzia accanto a un padre ossessionato dal panarabismo e che lo ha educato nel culto di Gheddafi e di Hafiz al-Assad. «Era da parecchio tempo che pensavo di raccontare la mia esperienza in Libia e in Siria, paesi in cui non sono mai più tornato». Ma ha cominciato a farlo solo con lo scoppio della guerra civile in Siria. «Alcuni membri della mia famiglia vivevano ancora a Homs. Per salvarli, ho deciso di aiutarli a rifugiarsi a Parigi. Ma se farli uscire dalla Siria in guerra è stato facilissimo, farli entrare in Francia è stato infinitamente più difficile. La burocrazia ha fatto di tutto per non accoglierli. Negli uffici della prefettura ho scoperto che il paesedei-diritti-dell’uomo non è un paese accogliente per chi ha bisogno di aiuto. Così ho deciso di raccontare tutto, ma per farlo avevo bisogno di partire dall’inizio, dalla mia famiglia francosiriana e dalla mia infanzia in Medio Oriente». Quali sono stati i modelli a cui si è ispirato? «Naturalmente ho letto i fondamentali, Art Spiegelman, Marjane Satrapi, David B., Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica DOMENICA 7 GIUGNO 2015 35 IL LIBRO IL GRAPHIC NOVEL DI RIAD SATTOUF, “L’ARABO DEL FUTURO. UNA GIOVINEZZA IN MEDIO ORIENTE 1978-1984”, (RIZZOLI LIZARD, 160 PAGINE, 16 EURO, TRADUZIONE DI ELISABETTA TRAMACERE, VOLUME PRIMO) È IN LIBRERIA DA GIOVEDÌ ED È DISPONIBILE ANCHE IN EBOOK A 9,99 EURO. IN FRANCIA, DOVE STA PER USCIRE IL SECONDO VOLUME, HA VENDUTO DUECENTOMILA COPIE ED È STATO PREMIATO AL FESTIVAL DEL FUMETTO DI ANGOULÊME TER MAALEH. IN SIRIA RIAD GIOCA A SOLDATINI CON I CUGINETTI. LUI FA “L’EBREO” Hergé, ma a influenzarmi di più è stato JeanChristophe Menu. Da lui ho imparato soprattutto la necessità dell’ironia e dell’autoironia. Certo, non è facile fare dell’ironia su personaggi come Assad o Gheddafi. Però è vero che nei dittatori arabi c’è spesso una componente machista a renderli grotteschi. Pensi a Gheddafi, con quei suoi vestiti ridicoli e la guardia del corpo tutta femminile». Cosa pensa di quanto sta accadendo in Libia e in Siria? «Come tutti, sono sconvolto di fronte all’orrore. Ma il fatto di aver vissuto molti anni fa in quei paesi non mi conferisce alcun sapere supplementare utile all’analisi politica. La Libia e la Siria che ho conosciuto appartengono a un’altra epoca. Erano dittature senza libertà, ma in Europa nessuno sembrava farci caso. In nome della realpolitik, tutti chiudevano gli occhi di fronte al non rispetto dei diritti dell’uomo». Vivere tra due culture, due lingue, due mondi è stato difficile? «Avevo l’impressione di essere sempre fuori posto. In Francia ero un arabo, in Siria un diavolo biondo (da piccolo ero biondissimo). Insomma, non riuscivo mai a sentirmi parte della comunità in cui vivevo, venivo sempre respinto più o meno apertamente. Sentirmi diverso è stata la condizione di tut- ta la mia giovinezza. Ho imparato così a non preoccuparmi delle origini e a rifiutare ogni nazionalismo. Oggi non mi sento né francese né siriano, sono solo un autore di fumetti. La mia identità nasce nel disegno. Vivo bene con le mie due origini, anche se so bene che nella società francese la presenza degli stranieri e dell’Islam diventa ogni giorno più problematica. La Francia sta perdendo la sua superbia, e i francesi fanno fatica ad accettar- ALCUNI NOSTRI PARENTI ABITANO ANCORA A HOMS. PER SALVARLI, APPENA SCOPPIATA LA GUERRA, HO CERCATO DI FARLI VENIRE A PARIGI USCIRE È STATO FACILISSIMO, FARLI ENTRARE NELLA PATRIA DEI DIRITTI DELL’UOMO MOLTO MENO lo. Così scaricano le colpe sull’immigrazione e dunque sui musulmani». È possibile leggere L’arabo del futuro come un libro sulla fine degli ideali? «Forse sì. L’arabo del futuro sognato da mio padre — il nuovo cittadino arabo colto e indipendente — è un ideale che non si è realizzato. Forse è per questo che diffido di tutti gli ideali di salvezza e cambiamento, motivo per cui non sono mai stato tentato dalla PARIGI. IN AEROPORTO NUOVI PICCOLI SHOCK CULTURALI ATTENDONO IL GIOVANE RIAD militanza politica. Dopo aver vissuto in Siria, mi sento vaccinato contro qualsiasi tentazione idealistica». Essere senza ideali non significa però disinteressarsi della società in cui si vive... «Naturalmente no. Considero fondamentale la battaglia per l’uguaglianza tra uomini e donne, soprattutto nel mondo arabo. Le società egualitarie sono più ricche e libere, mentre le società che discriminano le donne restano arretrate. Ma attenzione, non credo che questo sia un problema specifico della religione islamica, piuttosto il risultato di una tradizione patriarcale molto più antica dell’Islam. Quindi anche nel mondo islamico la situazione alla fine evolverà, come sta già accadendo in Tunisia e anche in Turchia, sebbene non manchino le forze conservatrici. Anche in Francia la parità tra uomini e donne è una conquista recente, frutto di un lungo processo». Quindi è ottimista sul divenire del mondo arabo? «Sono convinto che il mondo arabo evolverà verso più democrazia, più libertà e più eguaglianza. Aldilà delle violenze e delle involuzioni oggi sotto i nostri occhi, il processo mi sembra inevitabile. Se vogliono sopravvivere, le società arabe dovranno muoversi in questa direzione». Lei ha collaborato per diversi anni a Charlie Hebdo. «Pubblicavo una striscia settimanale intitolata La vita segreta dei giovani, l’avevo interrotta sei mesi prima della tragedia. Non andavo mai alle riunioni di redazione e adesso me ne pento perché non potrò più incontrare quelle persone straordinarie. Davanti all’orrore di quella violenza sono rimasto senza parole. Lo sono tuttora. Mi sento incapace di una qualunque analisi politica. Sono ancora troppo sconvolto». Si è molto discusso sugli eventuali limiti della satira. Lei cosa ne pensa? «Posso solo dire che in Francia esiste la libertà d’espressione, che quindi va esercitata e difesa. Mentre il reato di blasfemia è stato abolito molti anni fa. Per me valgono le leggi, e le leggi vanno rispettate anche quando non ci piacciono. Poi, naturalmente, in una democrazia le leggi possono essere cambiate con il voto della maggioranza. Tuttavia, mi sembra che spesso si alimentino falsi problemi per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle questioni cruciali. Oggi si agita il dibattito sui presunti eccessi di Charlie Hebdo e nel frattempo non ci preoccupa il cinismo della realpolitik che fa affari con le dittature». © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 36 La storia. A la guerre STEFANO MALATESTA C OME NAPOLEONE È STATO il soggetto su cui si è più scritto dopo Gesù Cristo, così la battaglia di Waterloo è stata la più studiata di tutte le battaglie, antiche e moderne. Tutti questi contributi, francamente in eccesso, non hanno aiutato a far chiarezza ma semmai a rendere le modalità dello scontro più oscure. Le tesi su come andò veramente sul campo di Waterloo sono innumerevoli e tutte in contrasto tra loro. C’è la versione trash per i giornali popolari: Napoleone era in cattive condizioni perché sofferente di emorroidi, una tesi buona per Il Vernacoliere di Livorno ma ovviamente non per una ricostruzione storica. La maggior parte degli autori è comunque convinta che Napoleone non fosse più lui, fisicamente e intellettualmente. Aveva messo su pancia, i capelli — seppure pettinati alla Bonaparte — non gli coprivano più il cranio ed erano ridotti a un ricciolino sulla fronte. Ma questo non prova che il Generale avesse perso le sue doti di tattico e di sto alle centoquarantacinque tonnellate di bagaglio indispensabili al suo ménage; il principe di Soubise, il comandante della spedizione franco-austriaca contro Federico II, travolto da una famosa carica della cavalleria prussiana guidata da von Seydlitz, si trovava meglio a Versailles a ciaccolare ininterrottamente con la Pompadour, la sua protettrice, che sul campo di battaglia. O che dire del duca di Richelieu, che era celebre per la forte scia di profumo che lasciava ovunque andasse. Comunque. Un’altra versione sostiene che la pioggia caduta in maniera anomala nella settimana prima di Waterloo avrebbe impedito all’artiglieria di avanzare nel terreno diventato una palude fangosa e di appoggiare la famosa carica della cavalleria pesante guidata dal maresciallo Ney. Napoleone era stato un eccellente ufficiale di artiglieria e aveva dato prova, durante l’assedio di Tolone, della sua capacità straordinaria di maneggiare cannoni che si trascinava sempre con sé a costo di durissime fatiche. Tutti i suoi piani di battaglia erano studiati in funzione delle armi pesanti. La chiave delle sue vittorie stava nel far convergere l’artiglieria in un punto preciso. Trattava gli eserciti nemici come una cittadella, da abbattere in breccia. Sfondare i quadrati, polverizzare i reggimenti, rompere le linee, tritare e disperdere le masse: tutto questo era a carico del cannone. Come andò davvero a Waterloo stratega, le stesse che gli avevano fatto vincere fino ad allora qualcosa come settanta battaglie. La marcia che lo portò a Waterloo era riuscita perfettamente ed è stata una delle più veloci, se non la più veloce, mai compiuta dai soldati francesi. La rapidità degli spostamenti delle sue truppe era sempre stata la base delle sue vittorie: Napoleone non è stato l’inventore della guerra totale, è stato semplicemente il primo esecutore e quello che l’ha sfruttata al meglio delle sue possibilità, talmente gli era congeniale. Una cultura della guerra ereditata dai classici greci, che combattevano totalmente e in modo spietato facendo pochi prigionieri. Una volta, prima del periodo moderno, le battaglie facevano parte della vita quotidiana, come il raffreddore o le tasse. Ogni comunità ne combatteva un’altra e si aspettava di essere combattuta. Gli scontri avvenivano secondo rituali prestabiliti. Spesso i comandanti non erano dei veri comandanti, ma dei dandy in trasferta militare: il duca di Cumberland si lasciava dietro dei cannoni per far po- Un racconto accuratissimo della battaglia venne scritto ventidue anni più tardi da Victor Hugo nella parte seconda del primo libro de Les Miserables. Per orientarsi lo scrittore era andato sul posto, visitando tutti i luoghi ormai entrati nel mito come le colline di Saint Jean e il castello di Hougoumont. E proprio da Hougoumont parte il suo grande affresco del feroce scontro: “...A fianco della cappella un’ala del castello, il solo avanzo che rimanga del maniero di Hougoumont, si staglia distrutta, si potrebbe dire sventrata. Il castello servì da torrione, la cappella da fortezza. Vi si fece uno sterminio. (...). La spirale delle scale, screpolate dal pianterreno al soffitto, appare come l’interno di una conchiglia spezzata. Tutto il resto somiglia a una mascella sdentata. Vi sono due vecchi alberi: uno è morto, l’altro è ferito al piede, e rinverdisce in aprile. Dopo il 1815 si è messo a germogliare...”. Secondo Hugo, il piano di battaglia dell’imperatore, per riconoscimento unanime, era un capolavoro: i francesi dovevano andare verso il centro della linea alleata il più rapidamente possibile, sfondarla, tagliarla in due, spingere le truppe britanniche su Alle e quelle prussiane su Tengres, superare le colline di Saint Jean, dove era attestato Wellington, gettarlo in mare, gettare nel Reno Blucker e arrivare a Bruxelles. Alle quattro del pomeriggio, la situazione dell’armata inglese si era fatta preoccupante. Wellington non aveva più Hougoumont, conquistato dalla fanteria francese, come copertura Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica DOMENICA 7 GIUGNO 2015 difensiva. Un suo subalterno gli chiese: «My lord, che cosa dobbiamo fare?» e Wellington seccato dalla domanda rispose urlando a piena gola come non aveva mai fatto «Dobbiamo resistere!». Se Napoleone fosse riuscito a portare anche solo una parte dei suoi duecento cannoni, in modo da mettere sotto tiro le colline di Saint Jean, allora la carica della cavalleria sarebbe stata molto facilitata. Ma ogni battaglia ha una sua sorte e quella di Waterloo è stata molto differente da Austerlitz, dove all’inizio Napoleone era costretto a muoversi alla cieca per la nebbia che invadeva tutto il campo di battaglia. Poi la nebbia venne sgomberata dal sole e allora l’imperatore, avendo davanti a sé una chiara prospettiva di vallate e di colline, poté manovrare a suo piacimento, e le truppe francesi si mossero con l’eleganza di una parata. A Waterloo, dove aveva piovuto per tutta la settimana precedente, il terreno non fece in tempo ad asciugarsi e il tentativo di trascinare i cannoni più avanti finì nel fango. A quella stessa ora, dicevamo, nel campo francese tutti sembravano tranquilli e certi della vittoria, o almeno così volevano far vedere. Napoleone era di ottimo umore, aveva scherzato con la truppa e con i marescialli. Durante la colazione, alle otto, erano stati invitati parecchi generali. Mangiando, avevano raccontato che alla vigilia Wellington era stato visto a Bruxelles, al ballo della duchessa di Somerset. E Soult, rozzo soldato con la faccia da arcivescovo, aveva con gli altri, formando una carne sola in quel baratro. Si dice che duemila cavalli e millecinquecento uomini furono sepolti in quell’orrido luogo”. I superstiti continuarono la loro carica, raggiunta la collina di Saint Jean sempre al galoppo “ventre a terra, briglie sciolte, sciabole tra i denti, pistole in pugno, attaccarono i quadrati delle giubbe rosse. Non fu più una mischia, fu una furia, un vertiginoso impeto di anime e di corazze, un uragano di spade scintillanti. In un istante, i millequattrocento dragoni e guardie si ridussero a ottocento. Ci furono dodici assalti, Ney ebbe quattro cavalli uccisi sotto di lui. La metà dei corazzieri rimase sul poggio. Questa lotta durò due ore. La carica era fallita”. La catastrofe raccontata in maniera splendida da Hugo è all’altezza della sua fama romanzesca, ma è una balla colossale. Non finirono in nessun burrone i cavalieri francesi, semplicemente furono respinti dai quadrati delle giubbe rosse, che sembravano dei porcospini che sputavano fuoco, con tutte le baionette innescate dai soldati inginocchiati nella prima fila e i fucilieri in piedi che sparavano a colpo sicuro. Le cariche non furono dodici ma cinque e sul campo di battaglia. E su tutti dominava la figura di Wellington, che Napoleone non considerava un grande generale: in mattinata aveva detto che gli avrebbe dato la lezione che si meritava. Ma ora la lezione la stava prendendo lui. Verso sera quando le sorti della battaglia era- Duecento anni fa, il 18 giugno 1815, nella campagna belga andava in scena la più studiata e raccontata delle battaglie, costata la vita a cinquantamila uomini e l’esilio a Napoleone Appassionato del genere, uno scrittore ha rievocato per noi quella giornata. Facendo le pulci a un certo suo collega Non senza averne ricordato almeno un merito I SOLDATINI PER IL NATALE DI CINQUANT’ANNI FA “LINUS” FECE UN REGALO AI PROPRI LETTORI: UNA GRANDE MAPPA DELLA BATTAGLIA DI WATERLOO DISEGNATA, INSIEME A OLTRE CENTO SOLDATINI DI CARTA, DA GUIDO CREPAX. ALCUNI DI QUEI MITICI SOLDATI, PER GENTILE CONCESSIONE DI ANTONIO CREPAX, ILLUSTRANO OGGI QUESTE PAGINE: NELLA FASCIA IN ALTO (IN BLU) L’ESERCITO FRANCESE CON ALLA TESTA NAPOLEONE BONAPARTE. IN QUELLA IN BASSO (IN ROSSO) GLI INGLESI GUIDATI DAL DUCA DI WELLINGTON no ormai segnate, Napoleone fece un ultimo gesto, accompagnando l’estremo attacco della guardia imperiale per qualche centinaia di metri. La Garde scomparve nelle alture per qualche decina di minuti e nel campo francese qualcuno ancora sperava nel miracolo. Invece si sentì un urlo mai udito prima in tutte le battaglie napoleoniche: «La garde recule!». Quando venne la notte solo un quadrato francese resisteva. A ogni carica gli uomini del quadrato diminuivano, ma quelli che rimanevano continuavano a combattere, riuscivano sempre a rispondere con la mitraglia. Tutta l’armata inglese aveva circondato il quadrato. Un generale, secondo alcuni Colville, secondo altri Maitland, gridò loro: «Prodi francesi, arrendetevi!». Cambronne rispose con una parola sola, diventata la più celebre di tutta la storia militare francese. Hugo sostiene che questa parola era censurata e che fu lui il primo a scriverla in originale. La parola era: «Merde!». © RIPRODUZIONE RISERVATA © GUIDO CREPAX E ARCHIVIO CREPAX commentato: «È oggi che si balla sul serio». Il primo pomeriggio, passò in rassegna la cavalleria: erano tremilacinquecento uomini, rappresentavano un fronte di un quarto di lega. Erano ventisei squadroni, appoggiati da centosei gendarmi scelti, millecentonovantasette cacciatori e lancieri della Guardia, portavano l’elmo senza criniera e la corazza in ferro battuto, le pistole di arcione nelle custodie e la lunga sciabola a spada. Durante la rivista, la banda suonò: Veillons au salut de l’Empire. Gli ussari avevano i dolmans e gli stivali rossi a mille pieghe, i soldati della Garde portavano i loro colbacs a fiamma, o sable taches fluttuanti. All’estrema sinistra c’erano i corazzieri di Kellermann e all’estrema destra i corazzieri di Milaud. Napoleone guardava al binocolo i movimenti dei quadrati delle giubbe rosse. Quando si accorse che gli inglesi stavano indietreggiando, si sentì più sicuro e diede il via alla più grande carica di cavalleria mai registrata nelle storie militari. Hugo racconta che “prima di salire per l’ultima erta, la cavalleria si trovò davanti un burrone più che una fossa, inaspettato e profondo, aperto a picco. I cavalli si impennarono, si gettavano indietro, cadevano sulla groppa agitando le quattro zampe in aria, pestando e rovesciando i cavalieri. Non c’era più modo di indietreggiare perché la colonna era diventata un proiettile e la forza acquistata per schiacciare gli inglesi, schiacciò invece i francesi. Nel burrone inesorabilmente, cavalieri e cavalli ruzzolarono dentro, triturandosi gli uni 37 Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 38 Spettacoli. American Idol È stato l’ultimo maledetto del rock’n’roll: giovane, bello, ribelle. E suicida Ora, dopo il docu-film, un libro racconta il leader dei Nirvana attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto molto da vicino: tra Ritalin, eroina e Mtv ecco il più spietatamente intimo dei suoi ritratti D DON COBAIN IL PAPÀ A BAMBINO ERA SEMPRE su di giri, andava a cento all’ora. Immagino fosse l’effetto del Ritalin, anche se non ricordo esattamente cosa prendesse all’epoca. Recitava in continuazione. È per questo che era sempre incazzato. Non riusciva a controllarsi. Non era capace di esprimersi. Abbiamo cercato di fare del nostro meglio, ma lui aveva un talento straordinario e quella vena di follia tipica di molti geni. Era più avanti degli altri e seguiva la sua strada. Le persone con molto talento di solito hanno problemi. Quando cominciò a fumare marijuana e assumere altre sostanze, io probabilmente non me ne accorsi, oppure fu Jennifer che non me lo disse. Non ci pensavo nemmeno, non l’avevo mai visto alterato. Sapevo che si stava mettendo nei guai, non era dove avrebbe dovuto essere, non faceva quello che avrebbe dovuto fare, ma non immaginavo che ci fosse di mezzo la droga. Non ho mai capito il suo gesto. Aveva il mondo in pugno e ha rinunciato a tutto. WENDY O’CONNOR LA MAMMA Un giorno sono salita in camera sua per portargli i vestiti lavati e stirati e ho sentito qualcosa scricchiolare sotto il tappeto. Ho vissuto gli anni della rivoluzione hippie, non sono una stupida. L’ho sollevato e ho scoperto che aveva tagliato un’asse del pavimento per nasconderci sotto la pipa e la marijuana. Gettai tutto nell’immondizia e non dissi nulla. Anche lui non disse nulla, ma per una settimana si comportò in modo molto strano con me. Un giorno mi chiamò in ufficio per chiedermi: «Come si fa a sapere quando gli spaghetti sono cotti?» e io gli avevo risposto: «Lanciane uno contro il muro, se resta attaccato è pronto». Quando rientrai, dal soffitto pendeva un’intera confezione di spaghetti! All’inizio rimasi allibita e fui lì lì per arrabbiarmi, poi scoppiai a ridere, pensando a quant’era divertente. Li lasciammo dov’erano, avrebbero dato un tocco personale alla cucina. Dedicava ore e ore alla scrittura, oltre che a dipingere e a disegnare. Sapevo quando suonava perché lo sentivo dal piano di sotto. Guardava spesso Mtv per vedere le novità. Gli piacevano molto i videoclip. Gli davano nuovi spunti. Una volta mi disse: «Un giorno sarò anch’io su Mtv”». Non lo presi sul serio. Non sapevo che avesse provato l’eroina. Quando scoprii che aveva cominciato a farsi ad Aber- deen, rimasi molto sorpresa. Penso l’abbia provata per i suoi problemi di stomaco. Era intollerante al lattosio e mangiava gelati a tutto spiano. Credo l’abbia usata per combattere i dolori. All’epoca era una delle droghe più facilmente reperibili e lui ha voluto provarla. E l’effetto è stato euforico, non si era mai sentito così bene in vita sua. Una domenica mattina, io sono in bagno. Lui bussa piano alla porta e dice: «Mamma?». «Sì?», rispondo io. «Ho un nastro». Apro la porta e me lo trovo davanti con quel nastro in mano. «Che cos’è?», gli chiedo. «È il master del mio nuovo album», fa lui. «Posso metterlo su?». «Sì, e sparalo forte». Ascolto sempre la musica a volume molto alto. Così continuo a truccarmi e poi a un tratto esclamo: «Porca troia!». Mi precipito fuori dal bagno e mi siedo sul bordo del divano con un sorriso compiaciuto come quello di un gatto che ha appena mangiato il canarino. «Oh, mio Dio! Oh, mio Dio!» urlo, fissandolo negli occhi e picchiettando con un dito sulla sua spalla. «Lo sai cos’hai fatto?», e lui risponde: «Lo dici soltanto perché sei mia madre». Io per poco non scoppio a piangere. Non per la gioia, ma per la paura. «Questo disco cambierà tutto nella musica», dico. «Faresti meglio ad allacciare la cintura, non sei pronto per quello che succederà». Nel 1991 ricevetti una telefonata da Kurt. Era appena rientrato da Londra. «Ehi, mamma, sono Kurt». Diceva sempre così. Era divertente. «Devo dirti una cosa». «Cosa?». «Sto per sposarmi!», urla lui. «La conosco?», gli chiedo. «No», risponde lui. «Che tipo è?», domando. «Pazza», risponde Kurt. «Davvero? Più pazza di me?». «Oh, sì», dice lui. Poi mi parla un po’ di lei e ho subito l’impressione che quella ragazza mi passerà sopra come un rullo compressore. Courtney mi telefonava in piena notte: «Kurt è andato in overdose». E poi: «Adesso sta bene». Era orribile. E sapendo che aspettava un figlio, mi si spezzava il cuore. Ogni settimana stava peggio. A volte veniva a casa mia. Per nascondersi, forse. Stava davvero male. Aveva la pelle coperta di piaghe, era dimagrito e faceva ciondolare la testa. Ero sicura che sapesse che l’avevo capito, ma per la prima volta decisi di affrontare direttamente l’argomento. Salii in camera sua, mi sedetti sul bordo del letto e gli chiesi se l’eroina era diventata una dipendenza. Lui scoppiò in lacrime. Si vergognava. Quando ho visto l’ultima cosa che ha fatto nel 1993, mi si è spezzato il cuore. Era a Seattle, avevano suonato lì perché era troppo conciato per spostarsi. Non riesco a credere che l’abbiano lasciato continuare in quello stato. È la cosa più orribile che abbia mai visto, era fuori di sé, dovevano farlo scendere dal palco. Ho dovuto spegnere il televisore. Non riuscivo a guardarlo. E poi, quattro mesi dopo, è morto. È questa l’industria della musica. JENNY COBAIN LA MATRIGNA Kurt cambiò negli anni dell’adolescenza. Diceva che a scuola lo picchiavano e se la prendevano con lui perché era piccolo, eppure io e i suoi amici non ci accorgevamo di nulla. Infatti venne fuori che si inventava tutto e che in realtà il bullo era lui. Scoprire queste dinamiche mi fece aprire gli occhi. Quando venne a vivere da noi, Kurt picchiava mio figlio, lo prendeva a calci nell’inguine, ma lui non diceva mai niente. Quando lo scoprii, ero fuori di me per la rabbia. Era tutto coperto di ematomi. Mi chiesi cosa c’era in lui che non andava. Era molto sensibile alle critiche. Si sentiva come se gli altri ce l’avessero con lui e si teneva quasi sempre tutto dentro. Non si arrabbiava mai sul serio, non l’ho mai visto esplodere. Assorbiva tutto, ci rimuginava sopra e a volte ne riparlava a distanza di tempo. La sua sensibilità lo faceva soffrire molto. Kurt stava talmente male che sfogava il suo dolore sulla madre, il padre, i fratelli e le sorelle. Era convinto di non valere nulla perché si sentiva respinto dagli altri. E quando ti senti rifiutato dalla tua famiglia, la vita non deve essere per niente facile. Spedirlo da un centro di riabilitazione all’altro non era servito a niente e lui non voleva smettere. Penso fosse arrivato al punto in cui sapeva che non avrebbe mai smesso. E così, un giorno ha deciso di farla finita. KIM COBAIN LA SORELLA La mente di Kurt era sempre in movimento. I suoi pensieri non si fermavano mai. Rimuginava incessantemente. Per qualche ragione Kurt si vergognava di molte cose. Se qualcuno lo zittiva o lo ridicolizzava, ci rimaneva malissimo. Si faceva le canne, usciva con gli amici e non dava mai una mano in casa. Stava sempre per conto suo. Voleva una vita normale, una vita felice, con mamma, papà e i ragazzi. Ma al tempo stesso la rifiutava e lottava contro quello che voleva veramente. Trovava belle le cose più disgustose. Era talmente attento ai dettagli, così infatuato dal corpo umano e dal suo funzionamento, che probabilmente sarebbe stato un ottimo chirurgo, se avesse avuto quella passione. Ma penso che sarebbe stato una sorta di dottor Frankenstein, più che un vero medico. Avrebbe voluto trapiantare la testa di un asino sul primo che passava. Qual è il confine tra genio e follia? Penso che lui stesse proprio su quel confine. E questo gli procurava un senso di alienazione che lo faceva sprofondare nella depressione. Non credo soffrisse di qualche disturbo mentale specifico. Pen- Famiglia Cobain sava che tutti sarebbero stati meglio senza di lui. Che Courtney si sarebbe disintossicata e Frances avrebbe avuto la sua fantastica madre tutta per sé. Era convinto di essere lui il problema, ma il problema erano le droghe, che controllavano tutto. COURTNEY LOVE LA MOGLIE Insieme eravamo perfetti. Due splendide anime in sincronia totale. Ci amavamo alla follia, ognuno di noi poteva finire le frasi dell’altro, quando Kurt parlava, sembrava che dalla sua bocca uscisse polvere di fata, era un’anima bella. Oh, Dio, sì. Volevamo avere un figlio e avevo concepito Frances a dicembre. Ma il problema non era la gravidanza, era viverla accanto a un drogato, per di più drogata anch’io, sapendo che una volta nato il bambino avrei festeggiato sparandomi una bella dose in vena. La nostra vita era questa. Non so se oggi saremmo ancora sposati, perché non so se saremmo riusciti a liberarci dall’eroina. So che io ce l’avrei fatta. Il momento in cui l’ho visto più felice nel suo ruolo di rockstar — poco prima della morte, con guardia del corpo e limousine, attorniato da altre band, strisce di coca e modelle — fu all’Hollywood Rock Festival di Rio. Se l’era spassata alla grande a Rio. Se l’era spassata perché si sentiva una rockstar. Ho cercato di convincerlo a fare sesso a tre. Ma lui non voleva, diceva che era troppo monogamo. Gli avevo proposto: «Facciamolo in tre. Lei è una modella. Perché non vuoi? Sei una rockstar, non puoi tirarti indietro. E poi io non sono nemmeno lesbica». Ma non c’era stato niente da fare. Non l’ho mai tradito, ma una volta, a Londra, ci è mancato poco. Avrei potuto farlo e lui prese sessantasette Rohypnol e finì in coma perché avevo pensato di tradirlo. Una reazione totalmente psicotica. Era molto innamorato di sua figlia e credeva veramente che suicidandosi le avrebbe reso la vita più facile. L’ultima riga della lettera che ha lasciato prima del suicidio dice: «Andrà meglio senza di me». È stato un gioco al massacro. Un massacro durato vent’anni. Un incubo. © RIPRODUZIONE RISERVATA ALBUM DA SINISTRA: UNA SCIMMIA GIOCATTOLO MODIFICATA DAL PICCOLO KURT. UN FILMINO DI CASA COBAIN: KURT SI ESIBISCE CON UNA CHITARRA GIOCATTOLO. LA CASSETTA INTITOLATA “MONTAGE OF HECK” DOVE LA FUTURA ROCKSTAR AVEVA REGISTRATO CANZONI, SPOT E VARIA UMANITÀ E DA CUI BRETT MORGEN HA TRATTO MATERIALE PER IL FILM E IL LIBRO Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica DOMENICA 7 GIUGNO 2015 IL LIBRO E IL FILM IN LIBRERIA IN QUESTI GIORNI “MONTAGE OF HECK” (RIZZOLI, 160 PAGINE, 28 EURO) DI BRETT MORGEN, REGISTA DEL DOCUMENTARIO IN USCITA IN DVD L’11 GIUGNO. NELLA FOTO QUI SOTTO, IN SENSO ORARIO: WENDY O’CONNOR (MAMMA DI KURT), DON COBAIN (IL PAPÀ), KURT E LA SORELLA MINORE KIM 39 Il dolore di riascoltare quella musica LUCA VALTORTA A DISTANZA DI VENTUNO ANNI anni dalla sua morte, ascoltare la voce di Kurt Cobain provoca ancora dolore. C’è sempre stato qualcosa di magico in quelle parole “With the lights out, it’s less dangerous/ Here we are now, entertain us” con cui il singolo Smells Like Teen Spirit esplose come un fuoco d’artificio alle più diverse latitudini segnando l’entrata del rock alternativo nel mainstream. Era il settembre del 1991. L’album Nevermind segnava l’evoluzione dei valori del punk che si reincarnava con il nome di “grunge”. Era la “Generazione X” raccontata da Douglas Coupland, una cultura minoritaria e anticonformista, che conquistava il mercato di massa: l’ultima volta in cui qualcuno sognò che il rock potesse cambiare il mondo. Le parole di Smells Like Teen Spirit non avevano un significato logico, non erano un appello contro il sistema, eppure per il modo in cui le cantava Kurt Cobain, colpivano allo stomaco. Erano rabbia, forza, speranza, vita. E lo sono ancora. Succede ogni volta che metti sullo stereo quella canzone. Ma adesso sono anche tristezza, sconfitta e morte. Il potere magico di quel “profumo di spirito adolescente” del titolo, dopo la morte di Kurt risuona sinistro: troppa gioia, troppa rabbia che stridono con il rumore dello sparo che il cinque aprile del 1994 mise fine alla vita di un ragazzo (About a boy, diceva una sua canzone) bello come un angelo («ma lui non lo sapeva», diceva la moglie Courtney Love). Smells Like Teen Spirit era la “perfetta canzone pop” che univa due amori dissonanti: la melodia e il punk rock, i Beatles e i Black Flag, i Boston e i Pixies. Una delle canzoni più belle della storia in uno dei dischi più belli della storia. La voce di Cobain, cristallina il momento prima, potente quello dopo: “siamo qui/ intratteneteci” minacciava, sovvertendo le regole della logica e dello show business: i Nirvana non erano lì per intrattenere il pubblico, ma il contrario. Vedere questo film, leggere questo libro è come riaprire una ferita mai rimarginata: Kurt bambino, Kurt felice, Kurt che ride con in mano una chitarra giocattolo, Kurt davanti a folle sterminate, Kurt strafatto, Kurt che bacia Courtney con tenerezza, che gioca con la sua bimba Frances Bean, Kurt perso, Kurt che dice «il punk rock è libertà», Kurt che ride nel sole. Lights out. E adesso intratteneteci. © RIPRODUZIONE RISERVATA AMORE E MORTE BACIO TRA KURT E COURTNEY. PAPÀ COBAIN CON LA FIGLIA FRANCES BEAN (IL NOME VIENE DALL’ATTRICE RIBELLE DI SEATTLE FRANCES FARMER). UN FOGLIO CON SCRITTO “MI ODIO E VOGLIO MORIRE” Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 40 Sapori. Italiani 10 DA OGGI A MARTEDÌ SI RITROVANO A VICO EQUENSE I MIGLIORI CHEF DEL NOSTRO PAESE ABBIAMO CHIESTO A DIECI DI LORO DI PRESENTARCI I PIATTI CHE RIPROPORRANNO IN QUESTI GIORNI DAL MAIALINO AL CAFFÈ AI RAVIOLI DI POLENTA E LUMACHE. CON UNA SPRUZZATA DI PENISOLA ricette stellate Andrea Berton CAPESANTE E CAVOLFIORE Elegante commistione di orto e mare, a partire dai molluschi immersi un secondo nel caffè espresso a 60°, asciugati e appoggiati in un piatto con spicchi di piccoli cavolfiori rosolati, portati a cottura con poca acqua e una maionese di pesce, ottenuta lavorando a filo d’olio un fumetto ridotto ANDREA BERTON BERTON MILANO Massimo Bottura A PROPOSITO DI PARMIGIANO Per il cuoco numero due del mondo, cinque bocconi “didattici” che declinano il formaggio secondo stagionature, consistenze e temperature diverse, dal demi-soufflé alla salsa. Nel piatto, anche una galletta croccante, una spuma e perfino un’aria fatta col Parmigiano MASSIMO BOTTURA OSTERIA FRANCESCANA MODENA Il libro Chicco Cerea FABRIZIO DONATI Si intitola “Gravner. Coltivare il vino” il libro scritto da Stefano Caffarri per le edizioni Cucchiaio D’Argento, dedicato al viticoltore friulano Joško Gravner, uno dei più amati dai cuochi per la qualità dei suoi vini, senza chimica e vinificati in anfora con lunghe macerazioni CHICCO CEREA DA VITTORIO BRUSAPORTO (BG) FAGOTTINI DI MAIALE Piatto povero e goloso: orecchie bollite, private della cartilagine, farcite con cappelle di funghi e formaggio (formai de mut), richiuse a mo’ di fagottini, avvolte nella retina di maiale. Si rosolano infarinate, prima di sfumarle col Marsala, unendo burro e fondo di vitello. Con purè di patate I magnifici 10 Metti una sera a cena Bottura, Cerea e gli altri Nino Di Costanzo L’appuntamento Nel prossimo fine settimana, le Officine Farneto di Roma ospiteranno “Sugo - condimenti per la casa”, passerella di marchi indipendenti, designer internazionali e artigiani di talento sul tema casa&cucina, con un occhio alle produzioni sostenibili e riciclate NINO DI COSTANZO IN ATTESA DI UN NUOVO RISTORANTE SPAGHETTONE AI CINQUE POMODORI Magia della semplicità nella pasta Gerardo di Nola rifinita in padella con ciliegini crudi passati e pomodori ramati passati dopo cottura breve con aglio e olio. A fuoco spento, San Marzano sbucciati a dadini, pomodori del piennolo, datterini appassiti in forno, extravergine e basilico Riccardo Monco La degustazione Dedicato al food design, tra paesaggi del cibo e quelli dell’anima, “Mens-a. Stili Conviviali” chiude stasera il suo weekend bolognese per spostarsi domani a Ferrara con una sostanziosa appendice di incontri, degustazioni e laboratori sensoriali RICCARDO MONCO ENOTECA PINCHIORRI FIRENZE RAVIOLINI DI POLENTA E LUMACHE Una pasta ripiena diversa, dove la farcitura è costituita da una polenta bianca, mantecata e frullata con extravergine, burro, Parmigiano e sale. A parte, lumache spurgate, cotte con vino bianco e aglio per due ore, poi spadellate. Nel piatto, briciole di pane al prezzemolo saltate Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica DOMENICA 7 GIUGNO 2015 Niente gare né classifiche questa è la nostra festa = 1 STELLA MICHELIN Giancarlo Perbellini GIANCARLO PERBELLINI CASA PERBELLINI VERONA RAVIOLI AL LATTE COI RICCI Terra&mare declinati a partire da una sfoglia tirata molto sottile, farcita di latte cagliato con l’acido citrico. Ravioli cotti e nappati con poco burro, poi appoggiati nel piatto su una dadolata di porri brasati. Sopra, polpa di ricci di mare freschissimi e un ciuffo di tartufo nero grattugiato Valeria Piccini VALERIA PICCINI DA CAINO MONTEMERANO (GR) MAIALINO DI CINTA SENESE CON VERDURE Elegante e terragna la carne in doppia cottura (a bassa temperatura, poi rosolando la cotenna in extravergine), servita con una salsa a base di cipollotti, piselli, fave, carciofi e basilico. A côté, spicchi di carciofo spadellati, cipollotti stufati con aceto, insalatina di fiori di fave e glicine LICIA GRANELLO Niko Romito QUI LA FESTA. DAVANTI A UN MARE CHE IN QUESTE GIORNATE di quasi estate met- te in fila le isole di fronte come fossero paperelle. In un tripudio di giacche bianche e grembiuli, pentoloni e sac-à-poche, cassette di pesce, frutta, verdura. Se esistesse un Guinness dei primati per la quantità di stelle Michelin lavoranti insieme, Festavico vincerebbe a mani basse: da oggi a martedì, il borgo di Vico Equense, arroccato in collina ma provvisto di dependance in riva al mare, accoglie e fa cucinare in strada la crème de la crème della gastronomia italiana, ventaglio di tre stelle e talenti ragazzi, imprenditrici culinarie e gelatieri fulminati sulla via del latte di pascolo, attempati sommelier e bartender di ultima generazione. Centinaia tra chef, commis e apprendisti pronti a lavorare gomito a gomito. Imprecando e correndo, sudando e faticando, ma anche molto sorridendo. Niente di tutto questo sarebbe possibile senza Gennaro Esposito, il vero erede di Alfonso Iaccarino, lo storico chef pluristellato che ha trasformato la penisola sorrentina — e il ristorante “Don Alfonso” — in tappa obbligata per i gourmet di tutto il mondo, e il promontorio di Punta Campanella — tra i golfi di Napoli e Salerno — in un paradiso di agricoltura buona, pulita e giusta. Esposito, che ha mutuato da Iaccarino un talento indiscutibile e la capacità visionaria di promuovere il proprio territorio, ha avuto un’intuizione geniale e l’ha trasformata in appuntamento irrinunciabile. Lontani per una volta dalle belle e gelide vasche di vetro che sono le nuove cucine stellate, i cuochi vengono letteralmente messi in piazza, a contatto con la gente. Certo, ognuno di loro arriva adeguatamente provvisto dei magici sacchettini sottovuotati, dove vengono conservate al meglio le basi delle ricette. Ma finitura e offerta dei piatti (di cui trovate qui accanto qualche esempio), avvengono lì, a distanza di braccio: al posto di starchef e divi dei gastro-reality, solo bravi, bravissimi cuochi pronti a raccontare e raccontarsi. Questo virtuoso esempio di democratizzazione dell’alta cucina — i biglietti per le degustazioni sono assolutamente accessibili — è diverso da tutti gli altri anche grazie alla presenza degli artigiani del cuore. Il gioco delle mani amiche, come l’ha battezzato Esposito, prevede che dalla passerella di questa sera nei centoventi negozi di Vico Equense trasformati in altrettanti atelier del gusto, alla cena itinerante di Marina Aequa martedì, contadini e allevatori, casari e panificatori, maestri cioccolatieri e raccoglitori di erbe selvatiche siano co-protagonisti di tutti gli appuntamenti della festa. Perché se c’è un futuro disegnato per la nostra cucina migliore, passa inesorabilmente dal rapporto con gli artigiani. Così, l’unica difficoltà per Chicco Cerea e Riccardo Monco, Mauro Uliassi e Pino Cuttaia è stato scegliere uno solo tra i fornitori dei rispettivi ristoranti da portare con sé. Piccoli eroi del nostro tempo, restii a lasciare le loro aziende iper-familiari, capaci di lavorare venti ore al giorno per fare la mozzarella più buona del mondo e cocciuti nel produrre poco — il giusto, rispondono — preservando la qualità massima. Una scelta che comporta notti insonni e guadagni risicati. Ma si sa, la passione è passione, anche e soprattutto nel cibo. È © RIPRODUZIONE RISERVATA NIKO ROMITO REALE CASTEL DI SANGRO (AQ) AGNELLO, AGLIO E POMPELMO Per dare profumo senza appesantire, spicchi sbucciati, privati dell’anima, sbianchiti tre volte in acqua e una nel latte, prima di frullarli. A parte, cottura nel latte del carré e breve affumicatura. Nel piatto, germogli un poco conditi sopra la carne, l’aglio e una gelatina di pompelmo Davide Scabin DAVIDE SCABIN COMBAL.ZERO RIVOLI (TO) MAIALINO AL CAFFÈ Abbinamento insolito per il cosciotto cotto a bassa temperatura, sporzionato in cubi e arrostito dalla parte della cotenna sotto la salamandra (grill). Per napparlo mentre si colora, viene usata una glassa ottenuta tostando i chicchi macinati in padella con poco burro e il fondo di cottura Mauro Uliassi MAURO ULIASSI ULIASSI CUCINA DI MARE SENIGALLIA (AN) 41 MOZZARELLA PIAN DEL MEDICO Il trionfo del Mediterraneo: su un velo di stracciatella si appoggiano cubetti di mozzarella, pois di basilico e salsa di peperone, cubetti di pomodoro confit, acciughe e anguilla affumicata. Per decorare, filetti di peperone e capperi fritti, pistacchi, briciole di pane nero GENNARO ESPOSITO R ICORDO BENISSIMO LA PRIMA volta della festa, anzi la numero zero, perché nessuno di noi pensava ci sarebbero state altre edizioni oltre a quell’appuntamento un po’ casuale e un po’ pazzerello messo in piedi all’ultimo momento per far stare insieme noi cuochi. Tutto iniziò dodici anni fa. Avevamo ospitato un evento, di quelli che chiamano a raccolta chef di tutta Italia. Per molti di loro la costiera sorrentina era solo una cartolina o poco di più. Per me, che a Vico sono nato e vivo da sempre, si trattava di un’occasione irripetibile. Quando mai cuochi friulani e altoatesini, sardi e marchigiani, tutti insieme o anche da soli sarebbero venuti una seconda volta nelle nostre campagne? Conoscevo già la risposta e non mi rassegnavo all’idea di chiudere l’appuntamento istituzionale senza lasciare loro un ricordo vero, intriso della voglia di tornare a trovarci. Per questo mi inventai una festa. Trovai una bella terrazza sul mare di Massa Lubrense, un posto magico, incantato, e insieme ai miei ragazzi misi in piedi un bel teatrino: banchi di ostriche, zeppoline, vini super, molto del meglio che ci regala la Campania Felix. Avevo pensato alle macchine, a far coincidere gli orari, perfino alla musica, con una piccola band-tributo dei Blues Brothers che avrebbe fatto ballare anche i tavoli. L’unica cosa che non avevo messo in preventivo era il temporale. Cinque minuti dopo che la gente aveva cominciato ad arrivare, venne giù il diluvio. Niente di tremendo, un bell’acquazzone di inizio estate. Ma quei minuti furono eterni: tutto rovinato, occasione sprecata, altro che far tornare i miei colleghi in costiera... Eppure, la voglia di stare insieme era così grande, che finita di cadere l’ultima goccia d’acqua tirammo fuori tutto quanto avevamo precipitosamente accatastato e coperto, ostriche e strumenti musicali compresi. Mangiammo e ballammo e ridemmo fino a non poterne più. E furono in tanti, tantissimi a dirci: una festa così bisogna farla tutti gli anni! Li abbiamo accontentati. Anno dopo anno, abbiamo allargato i confini del paese, cercando di coinvolgere la gente del nostro territorio e di farla interagire con gli ospiti, utilizzando quel fantastico mezzo che è il cibo, la sua condivisione. La festa è diventata una scatola da riempire di contenuti. Nel 2014, ha richiamato quasi diecimila persone. I cuochi, super stellati e giovani speranze, fanno a gara per partecipare, nessuno prende un compenso, la maggior parte viene a proprie spese. Cucinano uno accanto all’altro, si aiutano, niente competizioni, niente classifica, solo la voglia di stare insieme, di offrire del buon cibo a chi partecipa. E alla fine, naturalmente, si balla. L’autore è lo chef della “Torre del Saracino” di Vico Equense, due stelle Michelin © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-06-07 la Repubblica LA DOMENICA DOMENICA 7 GIUGNO 2015 42 L’incontro. The voice CLOONEY NON L’HO MAI INCONTRATO, MA UNA VOLTA MI TELEFONÒ. DISSE: THANK YOU VERY MUCH, BRAVO, BELLA VOCE! GLI RISPOSI: GEORGE, MA CHE FAI, IMPARI L’ITALIANO? SCUSA EH, MA SE TU TI METTI A IMPARARE L’ITALIANO IO RESTO SENZA LAVORO Prima si è fatto conoscere grazie al doppiaggio. “Per il Tom Hanks di Forrest Gump al provino mi dissero: non vai bene ma ti prendiamo lo stesso, sei quello che si è avvicinato di più”. Poi in tv è diventato anche un volto, quello di René Ferretti (“Boris”), e una stazza, quella di Nero Wolfe. E se ha appena inciso un disco (“Oh, una delle mie canzoni è piaciuta a De Gregori”) l’anno scorso al cinema è stato Salvo, l’operaio di “Patria”: “In quel di nulla, scappai. Solo dopo un po’ sono tornato indietro e ho visto i morti, il sanMi ricordo le facce, i bossoli per terra e l’odore del piombo. Qualche tempo dopo ci scrissi una canzone, Sequestro di Stato». Accompagna i titoli di coda di film c’è pure la strage di via Fani. gue... Patria. Le canzoni ha cominciato a scriverle tra il 2006 e il 2007. «Iniziai la prima sedi Boris, ogni giorno arrivavo sul set alle otto del mattino, ma poteva capitaAbitavo lì. Quella mattina ero rerieche girassi solo alle tre del pomeriggio. Allora ho avuto l’idea di portarmi la chitarra e quasi tutte le mie canzoni le ho scritte lì. Ogni tanto le facevo sentire amici, durante le pause. Una in particolare, Ciak, venne apprezzata nientesceso per andare a comprare il agli meno che da Francesco De Gregori. Gli scrissi una mail per ringraziarlo, mi rispose: “Sì era proprio bella”. Mi sono sentito incoraggiato. Da allora, le ho tenuin un cassetto, fino all’estate scorsa. Alfredo Saitto, produttore veteragiornale. Ho ancora il ricordo del- teno,tutte ascoltò Ciak durante le prove di un evento che si sarebbe dovuto tenere a Roma e che io avrei dovuto presentare. Mi chiese di sentire anche gli altri miei pezzi. Ed è nato il disco». l’odore della polvere da sparo” Padre carabiniere, pugliese di Cisternino, e mamma sarta, di Locorotondo. Francesco Pannofino SILVANA MAZZOCCHI ROMA I L RUOLO PIÙ RECENTE, QUELLO DI SALVO, operaio siciliano trapiantato a Torino, rozzo ma giusto, lo interpreta in Patria, film di Felice Farina ispirato al libro di Enrico Deaglio. È invece il padre di uno dei componenti della band musicale, Le frise ignoranti, nella commedia omonima di Antonello De Leo e Pietro Loprieno. Lui è un talento eclettico, doppiatore di attori mito del calibro di George Clooney e Denzel Washington, indimenticabile voce metallica e strusciante del Tom Hanks di Forrest Gump, animatore di cartoni animati e telefilm americani. Attore ironico e versatile di cinema, teatro, radio e audiolibri, mattatore di spot pubblicitari e protagonista di fiction amatissime, dal disincantato René Ferretti nelle serie Boris, film compreso, a Nero Wolfe, l’investigatore maniacale e misogino inventato da Rex Stout. Infine, perfino cantautore con un disco che uscirà il prossimo autunno. «Sedici canzoni scritte da me quasi per caso… Titolo provvisorio: AAA. Vendesi emozioni...». Francesco Pannofino, cinquantasei anni, pugliese d’origine, nato in Liguria e romano d’adozione, è come te l’aspetti, spiritoso e sarcastico, curioso e disponibile, soddisfatto del suo lavoro e ottimista quanto basta. «Il disco? Speriamo bene, comunque non mi monto la testa. Il doppiaggio è la mia stabilità, anche se il teatro e il cinema sono più solenni e ci si mette la faccia». E, se gli chiedi che cosa vorrebbe ancora fare, azzarda che gli piacerebbe provare con la regia, «ma non ho ancora la storia giusta e ho bisogno della squadra». E un romanzo? «Me lo avevano chiesto ben due editori; ne avevo scelto uno, ma alla fine ho rinunciato». Arriva all’appuntamento puntuale, reduce da una riunione dedicata ai trailer del nuovo film di George Clooney, Tomorrowland. «Lui non l’ho mai incontrato, una volta però mi ha telefonato. Mi fa: “Thank you very much, bravo, bella voce”. E io: “Che fai, im- DA GRANDE AVREI VOLUTO DIVENTARE CALCIATORE OPPURE GIORNALISTA SPORTIVO. O ATTORE A SCUOLA FACEVAMO LE IMITAZIONI. CI CHIAMAVANO “GLI ESIBIZIONISTI” ERO SEMPRE IO QUELLO CHE FACEVA RIDERE DI PIÙ pari l’italiano?”. Lui: “Poco, pochino”. ”Non farlo troppo bene, sennò io che faccio?”». Gigioneggia, beve un caffè, segue sigaretta. Inizia con Patria: «Sono appassionato di storia italiana, quella recente, e poi il libro di Deaglio si apre con la strage di via Fani. Io ero lì quella mattina del 16 marzo 1978. Abitavo a pochi metri, ed ero appena uscito di casa per andare a prendere il tram; andavo all’università, frequentavo matematica, avevo lezione di algebra. Mi fermai all’edicola e comprai Il Messaggero; la Juventus aveva passato il turno di Coppa dei Campioni e, quando sentii gli spari, stavo guardando la foto di Zoff. Mi girai, non vi- «Da grande avrei voluto fare il calciatore, oppure il giornalista sportivo. O l’attore. A scuola ci esibivamo spesso, eravamo in due o tre, “gli esibizionisti”, e facevamo le imitazioni; io ero sempre quello che faceva ridere di più. All’università non ci ho mai creduto, l’avrei voluta lasciare da subito, ma mio padre mi stava addosso: “O lavori o studi”». L’occasione arriva a vent’anni: sostituire la segretaria tuttofare della Società attori italiani, andata in maternità. «Ero al bar con altri ragazzi. Arrivò un signore e chiese se ci fosse qualcuno disponibile. “Io, io!”, mi buttai. Ci rimasi un anno e mezzo; fu un bel periodo, in quella sede passavano un po‘ tutti, Volonté, Montesano… Io mi occupavo del ciclostile, nel frattempo però frequentavo le moviole dove si preparavano le scene per il doppiaggio. E imparai tante cose, per esempio come si fa un piano di lavoro. Mi proposero di diventare assistente al doppiaggio. Il direttore era Aldo Massasso, vide subito che ero un ragazzetto sveglio. Il momento era favorevole, stavano nascendo le tv private e il lavoro aumentava a dismisura». Diventa la voce di decine di personaggi, fiction, serie, cartoni animati. «Un giorno mi chiama Tonino Pavan, leader del Sindacato attori, e mi suggerisce di presentarmi a Trieste al Teatro Stabile, dove si stava mettendo in scena L’affare Danton. “Ci sono trentacinque personaggi e una decina sono giovani. Vai a farti vedere”. Stavo facendo il servizio militare, andai al provino in divisa, ricordo ancora le facce. Però mi presero». Per Pannofino doppiatore fu Forrest Gump la pietra miliare. «Avevo già parecchia esperienza, avevo partecipato perfino a un film straordinario come Gli Intoccabili, ma la mia voce non era quella di Hanks… Il direttore era Mario De Angelis e la produzione americana gli aveva affiancato una supervisor, in quel periodo era la normalità e tutto dipendeva da loro. Dovevo inventarmi qualcosa, Tom Hanks parlava con l’accento dell’Alabama, un inglese strascinato, brasilianizzato. Feci il provino, uno due, tre volte, alla fine il verdetto: “Non vai bene ma ti prendiamo, sei quello che si è avvicinato di più”». Anche in teatro è uno spettacolo a portargli fortuna. Esercizi di stile di Queneau, per vent’anni (anche se non continuativi) in palcoscenico, dal 1989 al 2009. «In Esercizi di stile, la storia ripetuta dà modo all’attore d’interpretare ven- ARRIVAVO SUL SET OGNI GIORNO VERSO LE OTTO, E FINO ALLE TRE NON SI GIRAVA LE CANZONI LE HO SCRITTE LÌ, E DURANTE LE PAUSE LE FACEVO SENTIRE AGLI AMICI LA COSA È NATA COSÌ ti personaggi diversi in altrettanti minuti. Fu dopo avermi visto lì che mi proposero Boris, tante serie e un film. Ho molto amato il mio personaggio, René Ferretti, e spero di tornare ancora a interpretarlo». Da Boris a Nero Wolfe, una trasformazione totale: «Sono ingrassato venti chili per quella parte, ma adesso che sono tornato ai miei novanta, sto pensando di ricominciare a giocare a calciotto, la mia passione». Si è divertito con il doppio ruolo in Ogni maledetto Natale. «Era la stessa banda di Boris, una garanzia per me. Fino all’ultimo momento non sapevamo che avremmo girato in entrambi gli episodi, soluzione che si è invece rivelata una trovata. Ma io, con gli autori di Boris, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo, vado a occhi chiusi, adoro il loro umorismo intelligente e paradossale». Dice di essere una persona positiva, forse un po’ umorale, ma equilibrata, concreta. «Con la mia ex moglie, Emanuela (Rossi, doppiatrice e attrice anche lei, ndr), ci separammo quando nostro figlio, Andrea, che ora ha diciassette anni, era ancora molto piccolo. Siamo rimasti a lungo divisi, poi ci siamo rimessi insieme, ma non ha funzionato e ora siamo di nuovo single. Abbiamo ottimi rapporti, ci vogliamo bene. Ecco, Emanuela è anche nel cast di I suoceri albanesi di Gianni Clementi, per la regia di Claudio Beccaccini, l’ultimo spettacolo teatrale che porteremo in giro per l’Italia l’anno prossimo». Siamo ai saluti e, all’elenco del prossimo futuro, si aggiunge ancora un corto in uscita Djinn tonic, ovvero Il genio della lampada di Aladino. È di un gruppo di cineasti di Modena, lo stesso che fece Tellurica dopo il terremoto. «Io sono il genio…», scherza. © RIPRODUZIONE RISERVATA Repubblica Nazionale 2015-06-07