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Test di comprensione verbale

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Test di comprensione verbale
TESTO I
DISCOTECHE:
DIVERTIMENTO E SICUREZZA
L'età è, purtroppo, la variabile "dipendente" che non ci consente di conoscere a fondo il
mondo delle discoteche.
Per noi ultra quarantenni, la tecno, il rap, l'underground sono termini da decifrare. A noi le
'cubiste' possono fare ricordare solo correnti pittoriche moderne, per noi l'ecstasy si realizza in un
momento di serenità dopo una giornata intrisa di lavoro e di problemi. Per noi l'alcool vuoi dire
ancora un buon novello, Sangiovese o Chianti che sia, a tavola, come diluente su fumanti tagliatelle.
Per questo, per tutto questo, non capiamo quel mondo. I giovani, molti giovani, vi sono immersi
invece quasi totalmente con tutti i conseguenti problemi per loro e per le loro famiglie.
Quel genitore che vede un figlio partire verso le 23 per una discoteca, senza provare apprensione,
alzi una mano!
Ma perché tanto vivace questa rnigrazione verso gli stabilimenti notturni del divertimento? La
risposta è proprio nel concetto di divertimento. E’ fin troppo evidente quanto sia attraente per un
giovane la musica, specie se sparata con cannonate di decibel che, per un over 40 - non abituato,
possono provocare crisi delirium tremens.
Tuttavia è impensabile che il fenomeno discoteche sia solo attivato dalla pur forte attrazione
fatale della musica. In realtà il diciottenne, il ventenne, sentono forte la voglia di aggregazione, di
compagnia, di stare con le masse, anche solo per non far niente.
La discoteca, quindi è ritrovo, incontro, massimo momento di socializzazione (fosse pure solo
gestuale nella babele musicale), per una gran parte di ragazzi che non trova oggi valide alternative
aggregative. Questo è un fatto. Poi è evidente che la complicità della notte, la voglia di
trasgressione fanno il resto.
Ma di chi è la responsabilità se oggi per i giovani non esistono in pratica, se si esclude lo sport
(ma solo in forma aggregante di tipo spesso violento), altre diverse potenti calamite aggregative?
E’ facile rispondere con la solita hit parade delle responsabilità: la famiglia, la scuola, la società
ecc. La ricerca della responsabilità, almeno nell'irnmediato, è inutile.
Qggi la realtà è questa e con questa si devono fare i conti.
E’ fin troppo evidente che gli interessi economici sottostanti il circuito discoteche sono enormi,
ma non si può affermare che siano solo i gestori i difensori di questo modello. Al loro fianco,
agguerriti, ci sono. anche molti giovani che a centinaia di migliaia sottoscrivono l'appello contro la
proposta di legge che limita l'orario delle discoteche e la vendita di alcolici. Che in centinaia in una
notte di gennaio di fronte a un fruttuoso blitz della Guardia di Finanza, in una maxi-discoteca del
torinese, fra le più grandi d'Europa, occupano un piazzale e si scatenano con le autoradio delle loro
macchine, a tutto volume, incuranti dei fatto che nella stessa discoteca siano stati trovati droga e
migliaia di biglietti col falso timbro SIAE.
I giovani difendono con le unghie il loro diritto al divertimento, a questo tipo di divertimento che
noi abbiamo contribuito a costruirgli.
E nostro dovere cercare di modificare questo modello, questa concezione esasperata del
divertimento, ma i tempi saranno lunghi e il risultato incerto.
Oggi dobbiamo assolutamente attivare presidi adeguati, di sicurezza, per una gioventù che troppo
spesso brucia le sue delusioni nell'alcool e nella droga, subendo rischi incredibili sulle strade, nel
rientro verso la vita normale in albe sempre più grigie. Non possiamo però non rilevare che il
sangue sulle strade si versa sette giorni alla settimana e non solo il sabato sera.
Quest'aspetto troppo Spesso viene dimenticato.
Ben vengano il riordino degli orari delle discoteche, limitazioni nel consumo degli alcoolici, e
repressioni severe nell’uso personale di sostanze stupefacenti, consumo che però, è bene ricordarlo,
oggi è ammesso da una legge dello stato.
Attenzione però, non è affatto scontato che una chiusura anticipata e una sorta di proibizionismo
nel consumo di alcoolici risolvano tutti i problemi.
La moda dei far tardi non si annulla certo per decreto , potrebbero svilupparsi, sulla scia delle
nuove limitazioni di legge, nuovi e pericolosi modelli organizzativi del divertimento come le 'after
hour" e i 'rave party", quelle feste private semi clandestine nelle quali lo 'sballo" potrebbe ancor più
dilagare, praticamente senza controlli.
'Tuttavia il toccasana rimane la formazione di una nuova e diversa cultura che può partire da
oggi, ma riguarderà forse il domani, con un nuovo modello educativo. Oggi, da subito, si possono
attivare costanti, continui, severi presidi per la sicurezza della nostra gioventù, all'interno delle
discoteche e all'esterno, sulle strade. Ma non con blitz eclatanti e inusuali, bensì con controlli
metodici e ordinari.
Si dovrà cominciare a pensare finalmente che quella della sicurezza dei giovani nelle discoteche
e nelle strade è un'emergenza e corme tale deve essere affrontata. Diversamente la partita sarà
persa.
I giovani hanno il diritto di divertirsi secondo i loro modelli che noi abbiamo sicuramente
contribuito a costruire, noi i responsabili della sicurezza, i politici, la società, abbiamo il dovere di
garantire in ogni modo l'ordinato svolgersi delle cose,'il loro ritorno a casa, sani! In attesa di modelli
migliori.
QUESITI RELATIVI AL TESTO I
T011. Il fascino delle discoteche dipende prevalentemente
A.
B.
C.
D.
E.
dalla trasgressione
dalla noia della vita quotidiana
dalla possibilità di socializzazione
dall'assenza dei genitori
dai loro orari
T012. La disco-music piace perché
A.
B.
C.
D.
E.
non è musica classica
è di moda
è importata dall'America
è ritmata ad alto volume
si capiscono bene le parole
T013. La chiusura anticipata delle discoteche non basta perché
A.
B.
C.
D.
E.
i giovani cercherebbero nuovi e più pericolosi ritrovi
le discoteche aprirebbero prima
la musica sarebbe più assordante
i giovani protesterebbero
le strade sarebbero più affollate
T014. Gli incidenti stradali
A.
B.
C.
D.
E.
T015.
A.
B.
C.
D.
E.
avvengono solo il sabato notte avvengono quando il guidatore è mancino
avvengono solo il sabato notte
avvengono in misura maggiore il sabato notte
non avvengono mai di sabato
avvengono perché le macchine non sono sicure
La sicurezza dei giovani nelle discoteche e fuori è
un problema inesistente
un problema che ciascuno risolve per suo conto
solo un problema di ordine pubblico
solo un problema economico
un problema educativo e di costume
TESTO II
LE CONSEGUENZE DELLA PESTE
Enorme, fu la mortalità causata della peste nera. Moltissime città europee ne
uscirono decimate. (quando però cerchiamo di tradurre questo incontrovertibile dato
di fatto in termini numerici e di stabilire con cifre esatte il numero dei morti provocato
dall'epidemia, iniziano difficoltà insormontabili. Molte sono infatti le cronache che ci
danno dei dati numerici o delle percentuali, ma si ha l'impressione che esse siano
esagerate e, mancando in quel tempo ogni tipo di registrazione anagrafica, siano frutto
soltanto di impressioni e di stime in eccesso. La cosa si spiega facilmente.
L'eccezionale violenza del flagello impressionò moltissimo i contemporanei, alcuni dei
quali arrivarono a paragonare la peste allo stesso, diluvio universale. Un cronista
irlandese, il francescano Clyn arriva a scrivere: "lo scrivo qui, aspettando la morte, in
mezzo ai morti."
Nella generale alta mortalità, due fenomeni vanno sottolineati. La peste nera fu una
tipica epidemia “proletaria”; vogliamo dire con ciò che essa colpì molto di più
l'elemento meno abbiente, e quindi più denutrito, dei ricchi. I ricchi infatti cercavano di
sfuggire al flagello rifugiandosi nelle isolate abitazioni di campagna dove attendevano,
restando senza alcun contatto con l’esterno, che il morbo terminasse.
Altra considerazione da fare è che le più alte percentuali di morti si ebbero tra i
conviventi in comunità, soprattutto frati e monache che conducevano vita
comunitaria. Limitandoci ad alcuni dati ricorderemo che nel convento fiorentino dei
Camaldolesi morirono 21 monaci su 28; nel convento domenicano di S. Maria Novella
morirono 80 frati, mentre nel convento domenicano di Bologna i morti furono oltre
110. Alcuni piccoli monasteri e conventi furono poi totalmente svuotati, così che per
gli uffici sacri si stabilì, nell'agosto del 348, che potessero esercitarli anche i laici, dato
che era quasi impossibile trovare dei monaci o dei frati. Minore fu indubbiamente la
moria tra i preti, i quali vengono anzi accusati da molti cronisti di vile e colpevole
trascuratezza del loro ministero in tempo di peste. Posti nella scelta di chiudere la
maggior parte dei conventi e dei monasteri o di sostituire comunque gli antichi
effettivi, molti ordini religiosi scelsero questa seconda strada, a tutto discapito delle
qualità intellettuali e soprattutto morali dei nuovi ordinati. Nella seconda metà dei
trecento si hanno pertanto molti frati immorali e tanto ignoranti da non saper neppure
leggere e scrivere, come ci conferma il capitolo generale dei Domenicani del 1376.
Per valutare esattamente le conseguenze più profonde della peste nera sia nel
campo dell'agricoltura, sia in quello più sfuggente delle arti e della sensibilità
collettiva, è opportuno tener presente che il disastro demografico dei 1348 non solo
s'inseriva in una congiuntura già in crisi da alcuni decenni, ma che la peste fece la sua
riapparizione nei luoghi già colpiti in cicli distanti tra di loro in media 10-12 anni, e
così si ebbe, ad esempio, la peste ancora nel 1360-1363; 1371-1374; 1381-1384 e
1399.
Se la peste nera avesse colpito una popolazione sana e ben nutrita, per la nota
legge del recupero biologico che si attua dopo ogni calamità epidemica, non sarebbe
forse occorso neppure un ventennio per colmare i vuoti demografici provocati
dall'epidemia. Invece il ripresentarsi della calamità compromise in modo definitivo il
recupero demografico ed accorsero interi decenni, e spesso due o tre secoli, perché le
città ricuperassero il numero degli abitanti che avevano alla vigilia della peste nera.
Alla diminuzione degli uomini, delle braccia da lavoro, fece riscontro, com'è
naturale, quello delle terre coltivate. La peste nera bloccò di colpo e definitivamente
quella lenta migrazione agricola che i tedeschi stavano portando avanti da secoli
verso i paesi slavi situati ad est; ma ovunque furono abbandonate le terre di più
recente bonifica e colonizzazione. Arretrarono ovunque soprattutto i terreni coltivati
a cereali e riprese ovunque ad espandersi la boscaglia, la foresta, l'incolto. Altre
conseguenze della peste nera sono le trasformazioni di terreni già coltivati a cereali in
prateria adatta ai pascoli, l'estendersi notevole della grossa proprietà, l'abbandono
quasi costante dell'insediamento sparso e il rafforzamento dei borghi più importanti,
il crollo dei prezzi dei cereali, data la diminuita richiesta da parte dei consumatori, e
infine un forte rialzo dei salari agricoli, dato lo scarseggiare della mano d'opera
contadina, falcidiata dalle carestie e dalla peste.
La peste ebbe notevoli riflessi anche sulle città. Non si fonderanno più città
nuove, non si amplieranno più le cinte murarie, non si il riuscirà anzi neppure a
riempire completamente la superficie urbana incorporata nelle ultime cerchie di mura,
progettate ed eseguite tra la fine del '200 e gli inizi del '300, in tempo di ottimismo
demografico. Firenze, Perugia, Bologna e decine di altre città non usciranno dal
cerchio delle mura trecentesche che alla fine dell'ottocento.
La frenesia di vivere che colpì i sopravvissuti al flagello, oltretutto arricchiti dalle
eredità dei morti, rimise in auge i generi di lusso, e questo segnò il declino della lana
e l'ascesa della seta. Aumentarono poi sensibilmente i salari degli operai inaugurando
un intenso, se pur breve, periodo d'oro dei salariato urbano. La classe dirigente,
fosse essa composta in prevalenza da nobili redditieri o da borghesi commercianti e
artigiani, dopo un primo momento di sconcerto, decise di intervenire con l'aggressivo
supporto della legge per porre un limite alla crescita dei salari e per far riprendere a
tutti il lavoro nelle città, dato che 'di presente - come nota con una certa acredine il
borghese Matteo Villani - ristata la mortalità... il popolo minuto, huomini e femmine,
per la soperchia abbondanza che si trova delle cose, non volevano lavorare agli usati
mestieri".
La peste ebbe riflessi notevoli anche nel campo della religiosità, dell'arte e della
letteratura. La peste esasperò la sensibilità collettiva e rese drammaticamente
presente il tema della morte, della dissoluzione dei cadaveri. Da qui l'apparire di temi
iconografici sostanzialmente alieni dalla concezione cristiana e tradizionale della vita,
quali quello del trionfo della morte dalla quale si può fuggire soltanto attingendo alla
gloria (è il soggetto, per esempio, dei poemetto petrarchesco I trionft). In pittura si.
diffondono le danze macabre, specie di girotondi in cui dame e cavalieri riccamente
vestiti si tengono per mano con scheletri o corpi in dissoluzione. Il corpo divorato
dai vermi, con le orecchie vuote e le ossa che fuoriescono da brandelli di carte è poi
il tema preferito dalla scultura gotico tardo-trecentesca che domina ancora in Europa
ed anche nell'Italia padana. Nasce una nuova forma di misticismo che mette in primo
piano i rapporti diretti tra uomo e Dio senza l'intermediazione di una gerarchia
ecclesiastica che si ritiene in gran parte corrotta e forse causa della peste, intesa in
senso medioevale quale una punizione per i peccati degli uomini. Nascono nuove e
più insistenti critiche alla Chiesa ufficiale e si chiede con insistenza una riforma dei
costumi del clero e un ritorno al cristianesimo evangelico.
QUESITI RELATIVI Al TESTO II
T021.La peste è. paragonata al diluvio perché
A.
B.
C.
D.
E.
fu di estrema violenza e diffusione
si diffondeva coi traffici marittimi
colpiva i poveri
iniziava all'improvviso
risparmiava i più previdenti
T022. La qualità dei clero era scaduta perché
A.
B.
C.
D.
E.
si erano chiuse le scuole molti non credevano più
molti non ci credevano più
la peste colpiva di più gli intellettuali
si dovevano sostituire in fretta i morti
i costumi erano corrotti
T023. Per recupero biologico si intende
A.
B.
C.
D.
E.
il ritorno della popolazione nelle sue sedi
il recupero della mortalità dovuta alla peste
la ripresa della salute dopo la guarigione
l'aumento della disponibilità di cibo
l'aumento della produzione agricola
T024 I salari aumentarono perché
A.
B.
C.
D.
E.
la manodopera era scarsa
i padroni erano terrorizzati
i consumi erano calati
c'erano meno scambi oltremare
si erano organizzate le corporazioni
T025. La sensibilità collettiva cambiò perché
A.
B.
C.
D.
E.
la gente si divertiva di più
le famiglie erano disgregate
era subentrata l'ossessione della morte
c'erano molte agitazioni sociali
la vita era più difficile
TESTO III
ARTIGIANATO E ARTE A FIRENZE
L'affermazione dell'opera e della personalità dell'artigiano e dell'artista non
nascerà tanto da un'astratta e teorica loro rivalutazione, quanto dal
riconoscimento del concreto contributo che le arti meccaniche. proprio in virtù
del fattore tecnico produttivo, apportano alla vita pratica ed economica prima
che culturale della comunità. E questo si verifica in Italia nell'ambito del nuovo
ordinamento politico e sociale dei libero Comune, che accoglie e organizza le
risposte produttive e stimola e favorisce lo sviluppo delle tecniche. La società
comunale diviene anzi gelosa custode delle fonti della sua prosperità, tra le quali
le attività artistiche non tardano ad occupare i primi posti. Cellula vitale di
questa nuova organizzazione sarà infatti, a partire dalla fine del Duecento e per
tutto il Quattrocento, la bottega dei maestro d'arte. Sotto la direzione del
maestro, che è anche responsabile unico della sua gestione, la bottega riunisce
in sé la pratica delle varie attività artistiche collegate alla pittura o alla scultura.
Entrambe sono spesso esercitate di persona dallo stesso maestro (nasce
l'eclettismo tecnico), come nel caso dell'Orcagna che usa il vezzo di firmarsi
pittore nelle opere plastiche e scultore in quelle pittoriche, o dello stesso Giotto
che si occupa, oltre che di pittura, anche di scultura e architettura.
Insieme alle opere d'arte, la bottega produce anche lavori a livello artigianale;
e questo non solo per il fatto, che essa rappresenta ancora l'unica depositaria
delle tecniche produttive, anche dei beni di consumo, ma soprattutto perché tale
tipo di prodotti costituisce una cospicua, spesso preponderante parte dei cespiti
della bottega.
La produzione artistica e artigianale trecentesca documenta d'altronde
ampiamente tale molteplice attività della bottega sotto la direzione del maestro
cui spetta almeno l'ideazione, il disegno dei vari prodotti, all'esecuzione dei quali
provvedono poi in parte gli aiuti e gli allievi. Questi ultimi diverranno a loro
volta maestri solo dopo un lunghissimo apprendistato (dieci-dodici anni),
durante il quale non è loro consentito eseguire e vendere in proprio. Tali norme,
dettate probabilmente anche da motivi economici, divengono una garanzia della
serietà della preparazione professionale dell'artista, che acquista una padronanza
assoluta dei mezzi tecnici. In tal modo l'allievo, se ha talento diviene un artista
cui non difetta il mestiere, se non ne ha resta un ottimo artigiano. L'importanza
dell'organizzazione di bottega sta proprio nel fatto che in essa si raccolgono e
si sfruttano in perfetto sincronismo i risultati dell'esperienza sia dei mestiere che
dell'arte. Così mentre il primo si avvale della qualità del prodotto artistico (oltre
che del costante controllo del maestro), la seconda si giova della perizia tecnica
frutto del quotidiano esercizio nella produzione artigiana.
E’ nella bottega d'altronde che si opera la prima selezione sulla base del
talento, e che si concreta per la prima volta e si dimostra il valore individuale
dell'artista, per cui il prestigio personale, il 'nome" del maestro divengono la
maggiore garanzia della bontà del lavoro e insieme la giustificazione del suo
costo.
L'antica aspirazione al riscatto dell'attività artistica dalle arti meccaniche, sarà
raggiunta tuttavia soltanto nel pieno Rinascimento con l'affermazione del nuovo
concetto filosofico di arte. Ciò che viene ora a distinguere l'arte dal mestiere
non infatti più soltanto la sua assimilazione alla poesia, con l'implicito
riconoscimento della componente razionale e fantastica, ma il nuovo fondamento
scientifico. La qualità artistica non viene più valutata in ragione dell'aderenza ai
modelli stabiliti dalla tradizione, ma in rapporto alla validità dei risultati della
originale ricerca dell'artista nel campo della realtà e della fenomenologia
naturale. Gli obiettivi di tale ricerca saranno quelli dell'armonia proporzionale
e della definizione volumetrico-spaziale dei corpi; gli strumenti scientifici, lo
studio dell'anatomia, dell'ottica, dlella matematica e della geometria; la prima
pratica applicazione, la prospettiva lineare.
QUESITI RELATIVI AL TESTO III
T031.
A.
B.
C.
D.
E.
Il termine bottega significa
il luogo di acquisto dei materiali
l'abitazione dell'artista
il laboratorio del 'maestro e degli apprendisti
l'ufficio dei comune che regolava le Arti
il cantiere
T032. Eclettismo tecnico significa
A.
B.
C.
D.
E.
l'imitazione di diversi modelli antichi
l'imitazione dei maestro da parte dello scolaro
la mancanza di originalità
la presenza di tecniche diverse nella stessa opera
la capacità di praticare arti diverse
T033. Il comune proteggeva gli artisti perché
A.
B.
C.
D.
E.
l'artigianato favoriva la prosperità' della comunità
gli artisti davano lustro
poteva utilizzarli per opere pubbliche
gli artisti avevano bisogno di aiuti finanziari
proteggeva tutte le attività
T034 Il periodo di apprendistato era lungo perché
A.
B.
C.
D.
E.
il maestro non voleva concorrenza
gli apprendisti non erano pagati
garantiva la padronanza assoluta dei mezzi tecnici
garantiva la segretezza delle procedure di bottega
gli apprendisti servivano al maestro
T035 La separazione tra arte e mestiere avviene per
A.
B.
C.
D.
E.
il collegamento tra artè, filosofia e scienza
la comparsa di alcuni grandi geni
la crisi delle botteghe
la scadente qualità degli apprendisti
la crisi dell'economia comunale
TESTO IV
LA POTENZA MOTRICE DEL FUOCO (1824)
E’ stata spesso sollevata la questione se la potenza motrice1 del calore sia limitata, o
infinita. Si è così cercato a lungo, e si cerca ancora oggi, se non esista un agente
preferibile al vapore acqueo come mezzo per sviluppare la potenza motrice del fuoco;
se l'aria, per esempio, non presenti, a questo riguardo, grandi vantaggi.
La produzione di moto nelle macchine a vapore è sempre accompagnata, da una
circostanza sulla quale dobbiamo fissare l'attenzione: il ristabilimento di equilibrio nel
calore, cioè il suo passaggio da un corpo la cui temperatura è più o meno elevata a un
altro in cui essa è più bassa.
Cosa succede infatti in una macchina a vapore del tipo di quelle attualmente in
attività? Il calore, sviluppato nel focolare per effetto della combustione, attraversa le
pareti della caldaia, genera vapore e in qualche modo vi si incorpora. Così, facendosene
veicolo, il vapore trasferisce il calore prima nel cilindro, in cui compie una qualsivoglia
funzione, e di là nel condensatore, dove si liquefà per contatto con l'acqua fredda che vi
si trova. Dunque il risultato finale è che l'acqua fredda dei condensatore assorbe il calore
sviluppato nella combustione. Essa si scalda tramite il vapore, come se fosse stata posta
direttamente sul focolare.
La produzione della potenza motrice è dunque dovuta, nelle macchine a vapore, non
a un consumo reale di calore, ma al suo trasferimento (da un corpo più caldo a uno più
freddo, cioè al ristabilimento del suo equilibrio, equilibrio supposto rotto per una qualche
causa, un’azione chimica, quale la combustione, o di tutt'altra natura.
Segue da questo principio che, per generare la potenza motrice, non è sufficiente
produrre il calore: bisogna anche disporre di un corpo freddo, senza il quale il calore
sarebbe inutile. In effetti, se ci si trovasse in presenza solo di corpi caldi come i nostri
focolari, come si potrebbe operare la condensazione del vapore?
Ovunque esista una differenza di temperatura, ovunque si possa avere ristabilimento
dell'equilibrio dei calore, si può avere anche produzione di potenza motrice. Il vapore
acqueo è un mezzo per realizzare questa potenza, ma non è certo il solo: tutti i corpi
della natura possono essere impiegati a questo scopo.
E’ naturale porsi a questo punto una domanda al tempo stesso curiosa e importante:
la potenza motrice del calore è quantitativamente immutabile, o varia con l'agente di cui
si fa uso per realizzarla, con la sostanza scelta come tramite per l'azione del calore?
Abbiamo già posto in rilievo un fatto di per sé evidente, o che almeno diventa chiaro
non appena si riflette sulle variazioni di volume causate dal calore: ovunque esista una
differenza di temperatura si può avere produzione di potenza motrice. Inversamente,
ovunque si possa consumare questa potenza, è possibile generare una differenza di
temperatura, è possibile provocare una rottura di equilibrio nel calore. E’ da un dato di
esperienza che la temperatura dei fluidi gassosi si eleva attraverso la compressione e si
abbassa attraverso la rarefazione. Ecco quindi un mezzo certo per far variare la
temperatura dei corpi e rompere a piacere l'equilibrio del calore operando con una data
sostanza.
1
Ci serviamo qui dell'espressione "potenza motrice' per designare l'effetto utile che un motore è capace di produrre.
Come si sa, la misura di questo effetto, che è assimilabile al sollevamento di un peso a una certa altezza dal suolo, è data dal
prodotto del peso per l'altezza a cui si suppone innalzato.
Prova ne sia il vapore acqueo impiegato in maniera inversa rispetto a quella delle
macchine a vapore. Per convincersene, basta riflettere attentamente sul modo in cui si
sviluppa la potenza motrice mediante l’azione del calore sul vapore acqueo.
Immaginiamo di avere due corpi, A e B, mantenuti ciascuno a una temperatura costante,
e supponiamo che la temperatura di A sia più elevata dii quella di B: i due corpi, ai quali
si può somministrare o sottrarre calore senza far variare la loro temperatura,
espleteranno la funzione di due serbatoi di calore infinitamente estesi. Chiameremo il
primo "focolare" e il secondo "refrigerante".
Se si vuole generare potenza motrice con il trasferimento di una certa quantità di
calore da A a B, si potrà procedere nella maniera seguente:
1) sottrarre calore ad A per formare il vapore, cioè far assolvere a questo corpo le funzioni
del focolare, o piuttosto dei metallo di cui è costituita la caldaia, nelle macchine
ordinarie; supporremo qui che il vapore venga generato alla stessa temperatura di A;
2) una volta raccolto il vapore in un recipiente di volume variabile, per esempio un cilindro
munito di pistone, aumentare il volume di questo e di conseguenza anche quello del
vapore; così rarefatto, esso si porterà spontaneamente a una temperatura più bassa,
come accade a tutti i fluidi elastici; ammettiamo che la rarefazione sia spinta fino al
punto in cui la temperatura corrispondo a quella di B; .
3)
condensare il vapore mettendolo a contatto con B ed esercitando allo stesso tempo su
di esso una pressione costante, finché non sia interamente liquefatto; B in questo caso
svolge il ruolo dell'acqua di iniezione nelle macchine ordinarie, con la sola differenza che
esso condensa il vapore senza mescolarvici e senza subire variazioni di temperatura.
Le operazioni appena descritte avrebbero potuto essere fatte in senso e ordine inverso.
Nulla impediva di formare il vapore con il calore e alla temperatura di B, di comprimerlo in
modo da fargli acquisire la temperatura di A, infine di condensarlo a contatto con
quest'ultimo, continuando la compressione fino a ottenere una completa liquefazione.
Con la nostra prima serie di operazioni, avevamo avuto contemporaneamente produzione
di potenza motrice e passaggio di calore da A a B; con la serie inversa, consumo di forza
motrice e ritorno di calore da B ad A. Ma se in entrambi i cui si è operato sulla stessa
quantità di vapore e non si è avuta perdita alcuna di potenza motrice e di calore, la quantità
di potenza motrice prodotta nel primo caso sarà uguale a quella che verrà consumata nel
secondo, e la quantità di calore passata nel primo caso da A a B sarà uguale a quella che nel
secondo passerà, in senso inverso, da B ad A. Si potrebbero allora ripetere indefinitamente
coppie di operazioni successive di questo genere senza ottenere, nel complesso, né
produzione di potenza motrice, né passaggio di calore da un corpo all’altro.
Ora, se esistessero mezzi per impiegare il calore in modo più vaiitaggioso, se cioè fosse
possibile, con un qualche metodo a disposizione, far produrre al calore una quantità di
potenza motrice superiore a quella da noi realizzata con la prima serie di operazioni,
basterebbe sottrarre una parte di questa potenza per far risalire, con il metodo appena
indicato, il calore dal corpo B (refrigerante) al corpo A (focolare), insomma per ristabilire
lo stato di cose iniziale e porsi in tal modo nella condizione di ripetere una operazione dei
tutto simile alla prima e via di seguito. Si otterrebbe così non soltanto il moto perpetuo, ma
una creazione indefinita di forza motrice senza consumo né di calore né di qualsivoglia altro
agente. Ora, una tale creazione è assolutamente contraria alle nostre attuali conoscenze e
a tutte le leggi della meccanica e della buona fisica; è una ipotesi inammissibile2.
Si deve dunque concludere che il massimo di potenza motrice risultantedall'impiego
del vapore è anche il massimo di potenza motrice realizzabile
con qualsivoglia mezzo.
2
Nella sua accezione generale e filosofica il termine 'moto perpetuo" deve comprendere non solo un moto
suscettibile di prolungarsi indefinitamente dopo aver ricevuto un primo impulso, ma l'azione di un apparecchio,
comunque costruito, capace, di creare potenza motrice in quantità illimitata, capace di trarre successivamente
dalla quiete tutti i corpi della natura che vi si trovino immersi e di annullare in essi il principio di inerzia, capace
infine di trovare in se stesso le forze necessarie per muovere l'universo intero, e prolungare e accelerare
incessantemente il suo moto. Sarebbe, questa, una vera e propria creazione di forza motrice che, se attuabile,
renderebbe inutile ogni tentativo di sfruttare le correnti d'acqua e d'aria e i combustibili; noi avremmo a
disposizione una sorgente inesauribile da cui attingere a volontà.
QUESITI RELATIVI AL TESTO IV
T041. Per potenza motrice si intende l'effetto utile di un motore come
A.
B.
C.
D.
E.
prodotto di un peso per l'altezza a cui è sollevato dal motore
velocità acquisita dalla forza motrice
prodotto della coppia per il numero di giri dell'albero motore
lavoro meccanico ottenuto nell'unità di tempo
spostamento delle forze resistenti al moto
T042 Per ottenere potenza motrice, dalla macchina a vapore condizione necessaria è
A.
B.
C.
D.
E.
il consumo reale di calore sottratto a un corpo caldo
lo sviluppo di calore per effetto della combustione nel focolare
il trasferimento di calore da un corpo più caldo ad uno più freddo
la generazione di vapore nella caldaia
l'espansione dei vapore contro un pistone mobile
T043 L'inversione della sequenza delle operazioni nella macchina a vapore proposta
produce
A.
B.
C.
D.
E.
compressione dei vapore nel cilindro e successiva espansione in caldaia
consumo di potenza motrice e ritorno di calore dal refrigerante al focolare
né potenza motrice né trasferimento dì calore
movimento dei vapore dal refrigerante al focolare
raffreddamento del refrigerante e riscaldamento del focolare
T044 Se esistessero mezzi più vantaggiosi del vapore per sfruttare il calore si avrebbe
A.
B.
C.
D.
E.
potenza motrice usando ripetutamente la medesima quantità di calore
un massimo per la potenza motrice ottenibile da una macchina
conversione di potenza motrice in calore
violazione della conservazione della potenza motrice
trasformazione del calore in potenza motrice meccanica
T045 Il moto perpetuo
A.
B.
C.
D.
E.
viola il principio di inerzia per i sistemi meccanici
è una ipotesi ammissibile ma contraria alle concezioni fisiche accettate.
è lo stato di moto inerziale dei corpi naturali
è l'effetto di un motore concepibile ma non realizzabile praticamente
è la creazione di potenza motrice in quantità illimitata
TESTO V
COPERNICO E L'ELIOCENTRISMO
La ricerca di una nuova cosmologia non fu mai così evidente come in Copernico, Egli non fu il
primo a rendersi conto dei problemi presenti nella pratica astronomica dell'epoca ma a differenza
degli astronomi del Medioevo, non partì più dal presupposto che la terra stesse ferma e avvertì la
necessità di trovare interpretazioni alternative del moto apparente dei corpi celesti. I suoi studi in
Italia, dove passò diversi anni, prima a Padova e poi a Bologna, lo portarono a cercare ispirazione
nel periodo anteriore ad Aristotele. Copernico descrive la sua ricerca nella prefazione al De
revolutionibus orbium caelestium (1543) e confessa di essere colpito dall'incoerenza con la quale
sfere omocentriche, excéntri ed epicicli venivano usati per descrivere il moto dei pianeti.. Egli era
convinto che alla base del cosmo vi fossero armonia e simmetria, e dispiaciuto per la confusione di
rappresentazioni geometriche.
In quanto umanista, Copernico si rivolse istintivamente alle fonti antiche. Scoprì cosi che
Eraclide, Ecfanto, Niceta, Filolao e Aristarco di Samo avevano affermato che la Terra si muoveva
“sebbene l'opinione potesse sembrare assurda?”. Copernico decise di sviluppare questa ipotesi e
tutto ciò che essa poteva significare. Se la Terra non è più il centro delle rivoluzioni celesti, il Sole
diventa il primo candidato a occupare quella posizione. Prima di avanzare un argomento
geometrico a sostegno di questa ipotesi, Copernico ne offre una giustificazione che è profondamente
radicata nella visione ermetica del mondo. “In mezzo a tutti sta il Sole. In effetti , chi, in questo
tempio bellissimo, potrebbe collocare questa lampada in un luogo diverso o migliore di quello da
cui possa illuminare tutto quanto insieme? Per questo, non a torto, alcuni lo chiamano lucerna del
mondo, altri mente, altri guida. Così, certamente, il Sole, come su un trono regale, governa la
famiglia degli astri che gli sta intorno”. Copernico giunge ad affermare che in questo modo
troviamo “una ammirevole simmetria del mondi”, che è il fine dell'astronomia.
In reltà, Copernico non riuscì mai a realizzare quel sistema armonioso che tanto desiderava
costruire. Passò anni a calcolare le orbite dei pianeti e avrebbe rimandato la pubblicazione del
suo manoscritto ben oltre il 1543, se il giovane Retico non lo avesse convinto a farlo pubblicare
a Norimberga. Le difficoltà incontrate da Copernico sono in gran parte dovute al fatto che le
orbite dei pianeti sono ellittiche e non circolari. Per ottenere un'approssimazione ragionevole
della traiettoria reale dei corpi celesti Copernico dovette ricorrere ai circoli convenzionali di
Tolomeo, cioè a circolo portante o deferente al quale potevano essere allacciati uno o due circoli
più piccoli chiamati epicicli, a cui il pianeta era a sua volta legato. Egli utilizzò anche gli
excentri, circoli in cui il centro non era il Sole ma qualche punto opportuno nello spazio. Il
moto dei pianeti non veniva spiegato usando sempre gli stessi elementi e, benché i risultati
fossero spesso più soddisfacenti di quelli raggiunti da Tolomeo, gli astronomi di professione non
riuscivano a trovare nell'opera di Copernico quell'unità organica che egli aveva promesso.
Il mondo di Copernico è finito, e delimitato da una sfera di stelle fisse immobili. I pianeti stessi
sono ancora avvolti in sfere cristalline: di qui il titolo, del capolavoro di Copernico, De
revolutionibus orbium caelestium. Copernico seguì le orme dei cosmologi Medioevali, i quali
ipotizzarono sovente che ciascuna sfera cristallina fosse abbastanza spessa da comprendere l'epiciclo
al quale era legato il singolo pianeta. Ma, ponendo la Terra tra i pianeti, Copernico distrusse la
suddivisione del cosmo in due livelli, che costituiva il contrassegno della cosmologia aristotelica..
Lo Stagirita aveva distinto nettamente tra mondo lunare e mondo sublunare: dalla Luna in poi c'era
un'unica materia celeste, l'etere, “che è eterno, non è soggetto ad alcuna crescita o diminuzione, non
ha età, è inalterabile ed impassibile”. Questa materia era essenzialmente diversa dagli elementi (terra,
acqua, aria e fuoco) presenti nel mondo sublunare, ovvero quello, terreno. Le leggi del moto non
erano le stesse nei due mondi: i corpi celesti erano dotati di moto circolare, che Aristotele
supponeva essere inerziale, ovvero uniforme ed ininterrotto, mentre il moto naturale degli elementi
del mondo sublunare era rettilineo, dal centro della terra verso l'esterno nel caso dell'aria e del fuoco
e dall'esterno verso il centro per quanto riguardava la terra e l'acqua. In questa prospettiva la fisica
terrestre era irrilevante per la. comprensione del moto dei corpi celesti. Fu proprio questa
concezione che Copernico mise in questione allorché attribuì alla Terra la terza orbita intorno al
Sole dopo Mercurio e Venere. Se la Terra era un pianeta, le leggi celesti erano valide sulla Terra
oppure quelle terrestri erano valide nei cieli. Copernico non giunse a elaborare le implicazioni di
questo spostamento della Terra, ma poiché i corpi gravi continuavano a cadere sulla Terra, non
aveva più alcun senso definire la gravità - come aveva fatto Aristotele - come movimento verso il
centro del mondo. Poiché la rotazione diurna della Terra intorno al proprio asse e la rivoluzione
annuale intorno al Sole erano ormai considerate naturali, il moto circolare cessò di essere
appannaggio della materia celeste. La distinzione tra materia celeste e materia terrestre cessò di
costituire la base della spiegazione, per diventare una semplice descrizione della posizione relativa
dei corpi nello spazio. Un universo armonioso richiedeva un'unica fisica.
QUESITI RELATIVI AL TESTO V
T051. Cosa spinse Copernico ad abbandonare il geocentrismo?
A.
B.
C.
D.
E.
La lettura della fisica di Aristotele
L'osservazione dei moti dei corpi celesti
Il contrasto tra la spiegazione geocentrica e le affermazioni dei libri sacri
La constatazione che tale teoria non garantiva una spiegazione armonica dell'Universo
La lettura delle opere di Tolomeo
T052. Perché il sistema copernicano non è perfetto?
A.
B.
C.
D.
E.
usa strumenti matematici inadeguati
sbagliava nel calcolo delle fasi lunari
per nessun o di questo motivi
non aveva capito che anche il Sole si muove
sosteneva che. le orbite planetarie sono circolari
T053. La scelta del Sole come centro del sistema fu dovuta
A.
B.
C.
D.
E.
a precisi calcoli matematici
all'influenza delle teorie ermetiche
all'influenza delle teorie umaniste
al fatto che il Sole è fonte della luce
all'influsso delle cosmologie medioevali
T054. L'universo secondo Copernico è
A.
B.
C.
D.
E.
infinito perché prodotto dall'infinita potenza divina
infinito perché lo spazio non ha limiti
finito sotto certi aspetti e infinito sotto altri, aspetti
-finito perché il numero dei pianeti è finito
finito perché esiste la sfera delle stelle fisse
T055. La cosmologia copernicana è unitaria perché
A.
B.
C.
D.
E.
segue la cosmologia platonica
ammette il- cielo delle stelle fisse
ammette le macchie solari
sopprime il dualismo tra moti sulla terra e moti dei corpi celesti
vuole una spiegazione armonica
TESTO VI
LA MEMORIA
Le immagini non sono immagazzinate come copie in facsimile di oggetti, o eventi, o parole,
o frasi; il cervello non incasella foto polaroid di persone, cose, paesaggi; non archivia nastri registrati
di musiche e discorsi, né fìlmati di episodi della nostra vita; non serba al proprio interno fogli
promemoria e lucidi. In breve, sembra proprio che non vi siano immagini depositate in permanenza
di alcunché, neppure miniaturizzate: né microfiche né microfilm né copie stampate. Nel corso della
propria esistenza, ciascuno di noi acquisisce una marea di conoscenze, cosicché qualsiasi tipo di
archiviazione porrebbe problemi di capacità; se il cervello fosse assimilabile a una biblioteca presto
verrebbe a trovarsi in difetto di scaffali. Inoltre, l'axchiviazione di copie presenta di solito non facili
problemi di efficienza dell'accesso, quando occorre ritrovarle. Per un esperienza diretta tutti
sappiamo che quando vogliamo richiamare un dato oggetto, o volto, o scena, non otteniamo la
riproduzione identica, ma piuttosto un'interpretazione, una versione ricostruita di fresco
dell'originale. Inoltre, le versioni del medesimo originale si modificano con il passare degli anni e
il mutare dell'esperienza, e nessuna è compatibile con una rigida rappresentazione in copia; la
memoria è essenzialmente ricostruttiva.
E però negare che nel cervello possano esistere figure permanenti di alcunché contrasta con la
sensazione, comune a tutti, che in effetti noi possiamo evocare nell'occhio - o nell'orecchio - della
mente, approssimazioni di immagini delle quali abbiamo fatto esperienza. Nè ciò è contraddetto
dalla circostanza che tali approssimazioni non sono precise, o sono meno vivide delle immagini che
intendono riprodurre.
Si può pensare di dare risposta a questo problema osservando che le immagini mentali sono
costruzioni momentanee, tentativi di riprodurre configurazioni di cui si è fatta esperienza, tali che
la probabilità di una riproduzione precisa è bassa, ma quella di una riproduzione sostanziale può
essere più o meno alta, a seconda delle circostanze in cui esse furono apprese e vengono richiamate.
La permanenza di queste immagini evocate nella coscienza è in genere transitoria; spesso, poi sono
imprecise o incomplete, anche se possono sembrare buone copie. Io credo che le immagini evocate
esplicite scaturiscano dalla attivazione sincrona, passeggera, di schemi di eccitazione neurale per lo
più nelle medesime cortecce sensitive di ordine inferiore nelle quali si sono manifestati in precedenza
gli schemi di eccitazione neurale corrispondenti a rappresentazioni percettive. L'attivazione dà come
risultato una rappresentazione topograficamente organizzata.
A favore di questa ipotesi depongono svariate considerazioni, e qualche prova. Nella condizione nota
come acromatopsia un danno localizzato alle cortecce visive di ordine inferiore provoca la perdita non solo
della percezione ma anche della raffigurazione mentale del colore: chi ne è colpito non è più in grado di
immaginarsi il colore nella mente, e se gli si chiede di pensare ad una banana, tale paziente sarà bensì in
grado di raffigurarne la forma ma non il colore, e la vedrà in varie sfumature di grigio. Se la “conoscenza
del colore” fosse depositata in un sistema diverso e' separato da quello su cui poggia la “percezione del
colore”,i pazienti affetti da acromatopsia potrebbero immaginare il colore anche se non possono percepirlo
in un oggetto esterno; ma non è così.
In qual modo si formano le rappresentazioni topograficamente organizzate necessarie per fare esperienza
di immagini evocate? Io credo che esse vengano costruite sul momento, per impulso di schemi neurali
disposizionali acquisiti che si trovano in altri punti del cervello. Uso il ternine “disposizionale” poiché ciò
che essi fanno, alla lettera, è ordinare altri schemi neurali intorno, suscitare attività neurale altrove, in circuiti
che fanno parte dello stesso sistema e con i quali vi è una forte interconnessione neuronica. Le
rappresentazioni disposizionali esistono come schemi potenziali di attività neuronica in piccoli insiemi di
neuroni che io chiamo “zone di convergenza”; consistono, cioé, di un insieme di disposizioni che eccitano
neuroni entro l'insieme. Le disposizioni correlate con le immagini evocabili sono state acquisite attraverso
l'apprendimento, e perciò si può dire che esse costituiscono una memoria.
Quel che le rappresentazioni disposizionali tengono immagazzinato nella loro minuscola comune di
sinapsi non è “una figura”, di per sé, ma un mezzo per ricostituire una figura. Il fatto di avere una
rappresentazione disposizionale del volto di zia Margherita non significa che la rappresentazione contenga
quel volto, ma piuttosto gli schemi di scarica che innescano la ricostruzione istantanea di una
rappresentazione approssimativa del volto di zia Margherita nelle cortecce visive di ordine inferiore.
Le svariate rappresentazioni disposizionali che dovrebbero, più o meno in sincronia, mettersi in eccitazione
perché il volto di zia Margherita compaia negli spazi della mente sono localizzate in diverse cortecce di
associazione visive e di ordine superiore.
Non vi è un'unica formula nascosta, per questa ricostruzione: zia Margherita come persona completa non
esiste in un unico, singolo sito cerebrale, ma è distribuita in tutto il cervello, sotto forma di numerose
rappresentazioni disposizionali, per questo o quell'aspetto. E quando voi evocate ricordi di cose relative a
zia Margherita, e lei affìora in varie cortecce di ordine inferiore (visive, uditive, ecc.), in rappresentazione
topografica, ancora è presente solo in vedute separate durante la finestra temporale nella quale ricostruite
qualche significato della persona di lei.
Supponiamo che tra cinquant'anni un esperimento immaginario vi consentisse di piombare dentro le
rappresentazioni disposizionali visive che qualcuno ha di zia Margherita; sono convinto che, non vedreste
alcunché che somigliasse al volto di zia Maxgheríta, perché le rappresentazioni disposizionali non sono
topograficamente organizzate. Ma se provaste ad ispezionare gli schemi di attività presenti nelle cortecce
visive di ordine inferiore di quel qualcuno entro un decimo di secondo dall'istante in cui le zone di
convergenza per il volto di zia Margherita hanno scaricato all'indietro, allora sì, probabilmente, riuscireste
a vedere schemi di attività che hanno qualche relazione con la geografia di quel volto. Vi sarebbe coerenza
tra ciò che voi sapete del suo volto e lo schema di attività che trovereste nei circuiti delle cortecce visive di
ordine inferiore di qualcuno che pure la conosceva e che stava pensando a lei.
QUESITI RELATIVI AL TESTO VI
T061.
A.
B.
C.
D.
E.
La memoria è un processo ricostruttivo perché
rielabora e interpreta l'immagine.
è costretta a selezionare i ricordi
le immagini originali sono sbiadite
si riferisce ad eventi passati
fonde insieme ricordi diversi
T062. Cosa si intende per schema disposizionale
A.
B.
C.
D.
E.
una disposizione specifica delle immagini
un particolare schema attitudinale
uno schema neurale acquisito che permette il ricordo..
il quadro dello stato somatopsichico del soggetto
la struttura dei ricordi.
T063. Cosa si intende per acromatopsia
A.
B.
C.
D.
E.
l'incapacità di immaginare i colori
un'autopsia eseguita senza sali di cromo
una forma acuta di daltonismo
l'incapacità di percepire i colori
una disfunzione del nervo ottico
T064. L'ipotesi della coerenza afferma che
A. le cellule cerebrali devono comunicare tra loro
B. bisogna riprodurre la situazione percettiva iniziale
C. deve esserci una analogia tra immagine e schemi di attività cerebrale comuni a diversi
soggetti
D. per ricordare è importante capire
E. i ricordi coerenti si rievocano meglio
T065. L'immagine nel cervello esiste come
A.
B.
C.
D.
E.
riproduzione fedele degli oggetti
interpretazione emotiva dei vissuti
variazione nello stato eccitativo di una singola cellula
modificazione biochimica del sistema lìmbico
schemi di eccitazione neuronale
TESTO VII
LA TEORIA DEI SISTEMI
La scienza moderna è caratterizzata da una specializzazione sempre crescente, che è resa
necessaria, all'interno di ciascun settore, dall'enorme quantità di dati e dalla complessità delle
tecniche e delle strutture teoriche. In tal modo la scienza si scinde in innumerevoli discipline che
generano continuamente delle nuove sotto-discipline. In conseguenza di questo fatto, il fisico, il
biologo, lo psicologo e lo studioso di scienze sociali sono per così dire incapsulati nei loro universi
privati e risulta difficile uno scambio di parole da un bozzolo all'altro.
A questo si oppone, tuttavia, un altro aspetto interessante della questione. Esaminando
l'evoluzione della scienza moderna incontriamo un fenomeno sorprendente. Problemi e concezioni
simili si sono infatti sviluppati, del tutto indipendentemente, in campi completamente diversi.
Lo scopo della fisica classica era quello di finalmente risolvere i fenomeni naturali in un gioco
di unità elementari governate da “cieche” leggi naturali. Scopo che si esprimeva attraverso l’ideale
di uno spirito laplaciano il quale potesse predire, in base alla posizione e alla quantità di moto delle
particelle, lo stato dell'universo in un qualsiasi istante. Questa concezione meccanicista non subì
alcuna modificazione, anzi, si rafforzò, quando le leggi deterministiche furono sostituite, in fisica,
da leggi statistiche. Conformemente alla derivazione del secondo principio della termodinamica
dovuta a Boltzmann, gli eventi fisici sono diretti verso stati di massima probabilità, e le leggi fisiche
pertanto, sono essenzialmente delle “leggi del disordine”, il risultato di eventi disordinati, statistici.
Tuttavia, in contrasto con una tale concezione meccanicista, in diversi settori della fisica moderna
hanno fatto la loro apparizione dei problemi concernenti la totalità, l'interazione dinamica e
l'organizzazione. Nell'ambito della relazione di Heisenberg e della meccanica dei quanti è diventato
impossibile risolvere i fenomeni in eventi locali; problemi di ordine e di organizzazione compaiono
sia che si tratti della struttura degli atomi e della architettura delle proteine, sia che si tratti di
fenomeni di interazione in termodinamica. In modo analogo, la biologia, secondo la concezione
meccanicista, vedeva il proprio fine nella risoluzione dei fenomeni vitali in entità atomiche e processi
parziali. L'organismo vivente era risolto in cellule, le sue attività in processi fisiologici e, in ultima
istanza, fisico-chimici, il comportamento in riflessi condizionati e non condizionati, il substrato
dell'ereditarietà in geni, e così via. Al contrario, la concezione organicista è basilare per la biologia
moderna. Non è solamente necessario studiare le parti ed i processi in stato di isolamento, ma anche
risolvere i problemi decisivi che si trovano nell'organizzazione e nell'ordine che unificano quelle parti
e quei processi, che risultano dall'interazione dinamica delle parti, e che rendono il comportamento
delle parti ben diverso, quando è studiato entro il complesso, da quando è studiato in stato di
isolamento. Inoltre, tendenze analoghe sono comparse in psicologia. Mentre la psicologia classica
dell'associazione tentava di risolvere i fenomeni mentali in unità elementari - come se si trattasse
di atomi psicologici - del tipo sensazioni elementari e simili, la psicologia della gestalt dimostrava
l'esistenza e il primato di complessità psicologiche che non sono il risultato di una somma di unità
elementari e che vengono governate da leggi dinamiche. Infine, nell'ambito delle scienze sociali, il
concetto di società, intesa come somma di individui considerati alla stregua di atomi sociali, e cioè
il modello dell'Uomo Economico, veniva sostituito dalla tendenza a prendere in esame le società,
le economie e le nazioni come se si trattasse di totalità sopraordinate rispetto alle loro arti. Il che,
se implica i grandi problemi dell'econidmia pianificata e della deificazione della nazione e dello stato,
riflette pure dei nuovi modi di pensare.
Questo parallelismo tra principi conoscitivi generali appartenenti a campi diversi è ancor più
notevole se si considera il fatto che questi sviluppi si sono verificati in piena indipendenza reciproca,
e senza che si avesse, nella maggior parte dei casi, alcuna conoscenza sui lavori e sulle ricerche
sviluppantesi in altri campi.
Esiste un altro importante aspetto della scienza moderna. Sino ad un'epoca recente, la scienza
esatta, e cioè il corpus delle leggi naturali, era pressochè identica alla fisica teorica. Ben pochi
tentativi di stabilire leggi esatte in campi non prettamente fisici hanno ottenuto un qualche
riconoscimento. Tuttavia, l'influenza esercitata e il progresso verificatosi nelle scienze biologiche,
comportamentistiche e sociali rendono ora necessaria una espansione dei nostri schemi concettuali
per poter elaborare dei sistemi di leggi in campi ove l'applicazione della fisica non è sufficiente o
possibile.
Gli organismi viventi sono essenzialmente dei sistemi aperti, vale a dire dei sistemi che scambiano
materia con l'ambiente circostante. La fisica convenzionale e la chimica-fisica trattano di sistemi
chiusi, e solo negli ultimi anni la teoria è stata estesa sino a includere i processi irreversibili, i sistemi
aperti e gli stati di non equilibrio. Se vogliamo però applicare il modello di sistema aperto, per
esempio, al fenomeno di sviluppo degli animali, giungiamo automaticamente ad una
generalizzazione della teoria che si riferisce ad unità biologiche e non fisiche. In altre parole, stiamo
trattando con dei sistemi generalizzati. E lo stesso è vero per i settori della cibernetica e della teoria
dell'informazione, che hanno attirato su di sè, negli ultimi anni, un così grande interesse.
Esistono insomma dei modelli, dei principi e delle leggi che si applicano a sistemi generalizzati
o a loro sottoclassi, indipendentemente dal loro genere particolare, dalla natura degli elementi che
li compongono e dalle relazioni o "forze", che si hanno tra essi. Risulta pertanto lecito il richiedere
una teoria non tanto per dei sistemi di tipo più o meno speciale, ma dei principi universali che sono
validi per i “sistemi” in generale.
Il significato di questa disciplina può essere circoscritto come segue. La fisica verte su
sistemi aventi livelli diversi di generalità. Essa si estende da sistemi piuttosto speciali, come quelli
che vengono applicati dagli ingegneri nella costruzione di un ponte o di una macchina, alle leggi
speciali delle discipline fisiche, come la meccanica o l'ottica, sino a leggi di grande generalità, come
i principi della termodinamica, che si applicano a sistemi di natura intrinsecamente diversa,
meccanica, termica, chimica od altro. Niente prescrive che ci si debba fermare ai sistemi che
tradizionalmente sono trattati in fisica. Possiamo invece richiedere dei principi che siano applicabili
ai sistemi in generale, indipendentemente dal fatto che questi ultimi siano di natura fisica, biologica
o sociologica. Se proponiamo questa questione e se definiamo in modo conveniente il concetto
stesso di sistema, troviamo che esistono modelli, principi e leggi che si applicano ai sistemi
generalizzati indipendentemente dal loro genere, dai loro elementi particolari e dalle “forze”
implicate.
Una conseguenza dell'esistenza di proprietà generali dei sistemi consiste nella comparsa di similarità
strutturali, o isomorfismi, in campi differenti. Si hanno delle corrispondenze tra i principi che
governano il comportamento di entità che sono, intrinsecamente, molto diverse tra loro. Questa
corrispondenza è dovuta al fatto che le entità in questione possono essere considerate, sotto certi
punti di vista, come “sistemi”, e cioè come complessi costituiti da elementi in interazione. Il fatto
che i campi citati, come pure molti altri, abbiano a che fare con “sistemi”, conduce ad una
corrispondenza rispetto ai principi generali, e persino nei confronti di leggi particolari se si ha
corrispondenza nelle condizioni relative ai fenomeni presi in esame.
QUESITI RELATIVI AL TESTO VII
T071. Per concezione meccanicistica si intende
A.
B.
C.
D.
E.
la teoria dell'uomo-macchina di Lamettrie
la negazione del creazionismo
la spiegazione 'materialista dei fenomeni naturali
la spiegazioni della natura come insieme di unità elementari rette da leggi
l'affermazione che nessun moto è reversibile
T072. Un sistema si chiama chiuso quando
A.
B.
C.
D.
E.
non riceve apporti da sistemi esterni
non si evolve nel tempo
possiede un centro organizzatore
si autoregola
è composto da fenomeni del tutto esauriti
T073. Le leggi naturali sono leggi del disordine perché
A.
B.
C.
D.
E.
in natura tutto è finalizzato
non si possono fare previsioni accettabili
non si possono riprodurre esattamente i fenomeni naturali
l'essenza delle cose non è spiegabile
esprimono delle probabilità statistiche
T074. La concezione associazionista della psicologia
A.
B.
C.
D.
E.
risolve i fenomeni psichici in complessi di fenomeni somatici
spiega la psiche come associazione di fenomeni elementari
sostiene che la psiche individuale dipende dal gruppo
sostiene lo stretto rapporto tra soma e psiche
studia le dinamiche di gruppo
T075. Di cosa si occupa la teoria generale dei sistemi?
A.
B.
C.
D.
E.
di tutti i fenomeni cibernetici
delle leggi che sono comuni a sistemi diversi
di ciò che distingue un sistema da un altro
delle leggi che permettono l'organizzazione della materia
di insiemistica
TESTO VIII
DEPRIVAZIONE RELATIVA E DISAGIO SOCIALE
Una volta, parlando con un minatore, gli domandai quando fu la prima volta che nel suo distretto
venne avvertita in modo più acuto la carenza di alloggi; rispose, “Quando ne fummo informati”,
intendendo che “fino a molto di recente gli standard di vita erano così bassi che si accettava quasi
ogni grado di sovraffollamento”. [Orwell 1962]
Questo brano tratto dal brillante saggio di Orwell sulla condizione della classe lavoratrice inglese
negli anni trenta, The Road to Wigan Pier, sottolinea un aspetto importante delle origini dello
scontento. La deprivazione, come implica l'autore, non è una condizione assoluta ma è sempre
relativa a qualche norma che stabilisce ciò che viene ritenuto accettabile. Questa è l’idea che è alla
base di diverse spiegazioni dei disagi sociali, conosciute complessivamente come teoria della
deprivazione relativa.
La proposizione fondamentale della teoria della deprivazione relativa è che gli individui diventano
scontenti e ribelli quando percepiscono l'esistenza di una discrepanza tra lo standard di vita di cui
godono e quello di cui credono di dover godere. Secondo alcuni studiosi, proprio il divario tra le
attese della persona X e ciò che essa esperimenta in modo diretto costituisce l'essenza di questo tipo
di deprivazione.
Ciò tuttavia non vale solo per i singoli individui; altri studiosi hanno fatto notare che esiste un
altro tipo di deprivazione, una deprivazione che deriva dalla percezione da parte degli individui della
fortune del loro gruppo. La principale è quella di Runciman, il quale suggerisce che nei movimenti
collettivi il fattore più importante è la sensazione che l'ingroup sia deprivato in rapporto a qualche
standard desiderato. Runciman definisce questo fenomeno “deprivazione fraternalistica”'
(fraternalistic deprivation) per distinguerla dall'altra forma, la “deprivazione egoistica” (egoistic
deprivation). Una delle domande di Runciman richiedeva agli intervistati di nominare i tipi di
individui che a loro avviso “stavano visibilmente meglio” di loro. Questa domanda era seguita da
un'altra nella quale dovevano esprimere la loro approvazione o disapprovazione per questo stato
di cose. La maggior parte delle risposte alla prima domanda fece riferimento ad altri individui che
erano simili in qualche modo all'intervistato, cioè individui simili o altri gruppi di lavoratori in
occupazioni simili. Tuttavia, un numero notevole dei colletti bianchi più ricchi nominarono in realtà
i lavoratori manuali meno ben pagati come coloro che stavano meglio, e in risposta alla seconda
domanda furono questi intervistati che con più probabilità di tutti mostrarono disapprovazione.
Questo risultato fu importante perché dimostrò che i membri di un gruppo “superiore” potrebbero
sperimentare la deprivazione relativa. Fino ad allora, la maggior parte delle ricerche sulla
deprivazione relativa si erano concentrate su gruppi subordinati più chiaramente deprivati.
La teoria della deprivazione relativa ha avuto un certo successo nel permetterci di comprendere
quando e dove sorgerà lo scontento sociale, specialmente se posta a confronto con la precedente
teoria della frustazione-aggressività. Il suo successo è dovuto a tre revisioni importanti effettuate
su tale approccio tradizionale.
La prima, per la quale il merito va a Berkowitz, concerne l'enfasi posta sull'esperienza soggettiva
della deprivazione anziché sul dato oggettivo. Come suggerisce Berkowitz, gli individui diventano
frustrati e scontenti quando pensano di essere deprivati, non necessariamente quando sono deprivati.
(Le due condizioni, naturalmente, possono spesso essere concomitanti.)
In secondo luogo, nel formulare il concetto di deprivazione relativa come discrepanza tra ciò
che “e'” e ciò che “dovrebbe essere?”, viene introdotta una nuova variabile cruciale, quella della
legittimità percepita. In altre parole, il concetto di deprivazione relativa contiene al suo interno
degli elementi di giustizia sociale. Da dove provengono tali idee? Sono innanzitutto costruite
socialmente. Le percezioni da parte degli individui di ciò che è giusto o appropriato derivano
principalmente da norme e valori che si sviluppano dalle dinamiche delle relazioni intragruppo e
intergruppi. Questo permette allora di superare una delle obiezioni avanzate alla teoria della
frustrazione-aggressività: la non plausibilità del fatto che interi gruppi di individui sperimentino
contemporaneamente degli stati di attivazione simili. Se ciò che motiva lo scontento non è uno stato
di frustrazione sperimentato individualmente, ma un senso di ingiustizia socialmente condiviso,
allora l'uniformità del comportamento all'interno dei movimenti di protesta diventa più facile da
comprendere.
La terza differenza cruciale riguarda il riconoscimento che anche i gruppi dominanti possono
essere scontenti! La teoria della frustrazione-aggressività concentrava la sua attenzione sulla
situazione dei gruppi subordinati ed oppressi. Ma se la deprivazione viene ridefinita come un
fenomeno relativo, ne deriva che se un gruppo di status più elevato vede la sua posizione superiore
in pericolo allora anch'esso sarà incline ad agire per ristabilire lo status quo. Gli avvenimenti recenti
verificatisi in Sudafrica, dove abbiamo visto il partito Nazionalista bianco al governo adottare misure
ancora più dure e repressive contro la maggioranza negra, sono un'efficace illustrazione di questo
fenomeno.
La teoria della deprivazione relativa presenta allora diversi vantaggi rispetto ad altre spiegazioni
dello scontento sociale. Essa tuttavia, presenta una difficoltà cui è necessario fare riferimento.
Come abbiamo visto i confronti sociali sono una causa importante di deprivazione relativa poiché
forniscono spesso i mezzi con i quali gli individui valutano la posizione del loro gruppo e il
progresso nella società. Ma naturalmente l'eventualità che l'esito di un confronto conduca ad un
sentimento di deprivazione o all'opposto alla gratificazione - dipende interamente dal gruppo che
scegliamo per il confronto. Gli individui tendono ad usare “altri simili” per scopi di confronto.
Tuttavia, non è così facile conciliare questa ipotesi con i casi più estremi di disagio sociale e di
ribellione dove è presumibile che i membri del gruppo subordinato stiano in realtà facendo confronti
tra loro e un gruppo dominante abbastanza differente.
QUESITI RELATIVI AL TESTO VIII
T081. La mancanza del fattore legittimità.
A.
B.
C.
D.
E.
trasforma la deprivazione relativa in deprivazione reale
estende la deprivazione relativa a tutti i cittadini
rende la deprivazione relativa transitoria
impedisce che vengano ar inati i comportamenti'devianti
rende più profondo il senso di deprivazione
T082. La deprivazione relativa si differenzia da quella reale per
A.
B.
C.
D.
E.
l'intervento di fattori congiunturali
motivi puramente economici
l'assenza di motivi reali
l'intervento della coscienza di essere deprivati
i diversi parametri di misura adottati
T083. La deprivazione relativa egoistica
A.
B.
C.
D.
E.
riguarda i gruppi sociali chiusi
è la causa di una condotta priva di sensibilità sociale
è tipica delle fasi di crisi sociale
riguarda il disagio del singolo individuo
è l'effetto di una totale carenza di altruismo
T084. Quale difficoltà limita la predittività della teoria?
A.
B.
C.
D.
E.
La scarsità dei riscontri empirici
La scarsa scientificità dei parametri di valutazione adottati
La variabilità dei termini di confronto
L'imprevedibilità degli sviluppi socio-economici
L'imprevedibilità delle reazioni individuali
T085. Anche un gruppo superiore può essere affetto da deprivazione relativa perché
A.
B.
C.
D.
E.
si forma delle aspettative esagerate
prevede una minaccia al proprio status
sopravvaluta la situazione degli altri gruppi
non si è guadagnato una sufficiente legittimazione
si trova in una situazione di instabilità
TESTO IX
Tutti sono concordi nel ritenere che il futuro che abbiamo davanti a noi sarà pieno di
computer più sofisticati e complessi che controlleranno ogni cosa che ci circonda, dalle telefonate
intercontinentali ai semafori stradali, dai voli transoceanici al forno della cucina di casa.
Tutti sono oggi concordi nel ritenere che questo controllo sarà effettuato nel nostro interesse
e non da un opprimente Grande Fratello.
Alcuni cominciano però a porsi il problema se tali sistemi computerizzati avranno l'affidabilità
necessaria a rendere accettabili sul piano sociopolitico le conseguenze di eventuali
malfunzionamenti, specialmente se tali malfunzionamenti dovessero causare delle perdite di vite
umane.
Esiste inoltre il problema delle conseguenze che si potrebbero avere a causa dell'uso di modelli
matematici di simulazione del comportamento umano rozzi, primitivi o comunque errati.
Le prime avvisaglie di problemi dovuti alla complessità di computer responsabili di operazioni
delicate ci sono già state.
La messa fuori servizio per molte ore del sistema di chiamate telefoniche a lunga distanza della
AT&T avvenuto quest'anno è senza dubbio un esempio di quello che potrà succedere quando
vivremo in un mondo regolato da sistemi di computer molto più complessi di quelli attuali. Altri
esempi sono stati la caduta di due aerei civili e la morte di quattro pazienti sottoposti a dosi
sbagliate di radiazioni.
In tutti questi casi la causa fu dovuta ad un software che non funzionava come ci si aspettava.
Ciò che preoccupa maggiormente gli esperti è che l'operatore umano otterrà sempre
maggiori informazioni non in modo diretto, attraverso cioè i suoi sensi, ma in modo mediato dal
sistema di computer esperti i quali gli sottoporranno le informazioni ritenute più interessanti che
tuttavia, in alcuni casi specifici, potrebbero non essere quelle necessarie ad assumere la giusta
decisione.
I piloti di aerei già oggi prendono molte delle decisioni più importanti sulla base di
informazioni ottenute da strumenti, radar e radiofari, spesso predigerite dal sistema dì computer che
li assiste nel loro lavoro. L'eccezionale velocità dei sistemi di computer, misurabili in nanosecondi,
che sono miliardesimi di secondo, richiederà software sempre più affidabili, sempre più sicuri,
sempre più a prova di errore. E quindi sempre più pericolosi.
A prova di errore significa inevitabilmente fare riferimento ad un modello che permette di
costruire un supervisore che interviene a correggere, o meglio ad impedire, l'esecuzione di ordini
dell'operatore umano ritenuti errati. E' evidente la pericolosità di un uso generalizzato di sistemi
a prova di errore non studiati a fondo, specialmente tutte le volte che si tratta di mettere
eventualmente in pericolo delle vite umane.
La gestione di un sistema elettronico per fare acquisti o dei conti correnti di una banca
permette, per la sua stessa natura, la correzione di eventuali errori commessi dal sistema di
computer e di valutare la convenienza di avere dieci correzioni con il sistema computerizzato contro
le mille del sistema non computerizzato.
Il problema si pone in un modo completamente diverso se si tratta di vite umane. Anche se
l'analisi costi/benefici è decisamente favorevole, dieci morti causate da un sistema computerizzato
possono essere. molto più importanti, socialmente o politicamente, di mille morti causate da
eventi naturali.
E' anche evidente la tentazione degli scienziati che elaborano modelli, di sviluppare
preferibilmente quelli che piacciono di più al “Principe” che è sempre più ben disposto verso coloro
le cui teorie sostengono la sua politica che verso chi sostiene teorie i cui risultati sono conflittuali
con quello che lui si prefigge.
Come spesso accade, il futuro è quindi pieno di promesse ma anche di incognite. L'uso di
modelli è la via più sicura, la più pulita ma è inevitabile che gli operatori umani si abitueranno a
considerare le risposte dei modelli non come il risultato della soluzione di un sistema di equazioni
che cercano di descrivere il mondo reale ma come lo stesso mondo reale.
Il risultato di questo atteggiamento non potrà che ridurre la possibilità di decisioni assunte
sulla base di quello che viene comunemente chiamato buon senso.
Mi sembra inevitabile che coloro che sviluppano le varie applicazioni software spendano più
tempo a studiare ed a riflettere sull'operatore umano che dovrà lavorare con esse. Questo è senza
dubbio alcuno molto difficile da ottenere: basti pensare come poco siano ancora considerate le
esigenze di chi lavora in una segreteria da coloro che sviluppano i software per il trattamento testi.
Una parte del problema potrà essere risolta, secondo alcuni, obbligando coloro che sviluppano
software a studiare sociologia, psicologia e filosofia ed a lavorare direttamente nel settore dove
verrà impiegata l'applicazione che stanno sviluppando.
Non mi sembra però che questa sia la via maestra, considerata la notevole capacità di coloro
che sanno, nei confronti di coloro che non sanno, di complicare le cose e di renderle incomprensibili
solo per fare vedere a tutti quanto sono bravi.
La soluzione del problema sta probabilmente nella diffusione capillare che i computer stanno
avendo e nei progressi fatti nel settore della generazione di programmi. Questo farà si che molti
avranno una conoscenza più o meno approfondita dei problemi che stanno a monte dello sviluppo
di nuove applicazioni software mentre verranno resi disponibili sistemi di controllo della qualità del
software sempre più accurati e precisi.
Si dovrà arrivare ad una situazione simile a quella che si ha quando ci si fa un vestito su
misura da un bravo sarto, che lo prova almeno due o tre volte, ed il vestito è sempre il risultato di
una stretta collaborazione tra il sarto e colui che lo dovrà indossare.
Finora coloro che hanno sviluppato applicazioni software si sono comportati come un sarto
che, di fronte al cliente che gli fa notare che il vestito gli sta stretto, risponde che deve dimagrire.
Solo attraverso una strettissima collaborazione tra gli utenti e coloro che sviluppano
applicazioni software sarà possibile rendere disponibili quei sistemi computerizzati ottimali ed
affidabili di cui il nostro mondo ha un estremo, bisogno.
QUESITI RELATIVI AL TESTO IX
T091.
A.
B.
C.
D.
E.
T092.
A.
B.
C.
D.
E.
T093.
A.
B.
C.
D.
E.
T094.
A.
B.
C.
D.
E.
Il brano ha un carattere
Futuribile
Aneddotico
Scientifico
Previsionale
Apologetico
Il computer consente:
La simulazione del comportamento
L'analisi del comportamento
La falsificazione del comportamento
La ricostruzione del comportamento
La integrazione del comportamento
Le applicazioni software sono:
Risposte a un'esigenza sociale
Espressioni di una tecnologia
Risultato di un compromesso
Frutto di un'interazione
Indice di un progresso
L’elaborazione di modelli è:
Pericolosa
Superflua
Necessaria
Ininfluente
Facilitatoria
TESTO X
Al pari delle altre scienze, la fisica cerca di scoprire, ordinare e interpretare una certa
categoria di fenomeni osservabili. Essa riposa quindi essenzialmente sull'osservazione di certi fatti
constatabili nel mondo materiale mediante i nostri sensi. Ma essa non ha potuto evolversi da scienza
qualitativa a scienza quantitativa esatta se non appoggiandosi costantemente sulla misura, ossia
cercando di caratterizzare gli aspetti della realtà mediante numeri, di cui essa constata il valore in
certi istanti e di cui segue le progressive variazioni nel tempo. Non potendo rappresentare
globalmente a ogni istante lo stato infinitamente complesso del nostro mondo fisico, di cui, del
resto, ogni osservatore non percepisce in ogni momento che un'infima parte di fenomeni, la fisica
ha cercato di scoprire nel flusso ininterrotto di essi certi elementi, suscettibili sia di essere separati
dagli altri mediante un'astrazione teorica, sia di essere caratterizzati da valori numerici esatti. Questi
elementi sono le grandezze fisiche osservabili, e il fine della scienza fisica è appunto in primo luogo
di determinare le relazioni esistenti tra i loro valori e le loro variazioni, poi d'interpretare queste
variazioni e mostrarne la portata, coordinandole all'interno di quelle vaste costruzioni dello spirito
che si chiamano teorie.
Non bisogna credere che le varie grandezze considerate dal fisico si presentino
spontaneamente e si impongano alla sua attenzione solo osservando la realtà. Ciò può accadere
soltanto con le misure di lunghezza, di superficie e di volume e. forse, con certe grandezze che
implicano la nozione di sostanza supposta indistruttibile. Già nella definizione esatta della grandezza
“intervallo di tempo” noi urtiamo contro grandi difficoltà, insuperabili senza certe convinzioni in cui
interviene in modo essenziale l'attività costruttiva del nostro spirito. A maggior ragione ciò si
verifica quando le grandezze fisiche si presentano sotto una forma velata, dove è necessario, per
trarne la definizione esatta, compiere uno sforzo di astrazione o appoggiarsi su nozioni già acquisite.
Cosi, la storia della scienza ci mostra tutto il tempo e tutte le discussioni che. accorsero per giungere
a distinguere nettamente la quantità di moto dall'energia, la massa inerte dal peso, la quantità di
calore della temperatura.
Nel linguaggio ordinario si conservano le tracce delle confusioni che durarono a lungo in questo
campo e ancora oggi noi diciamo correntemente che un corpo è più caldo di un altro, laddove
dovremmo dire che la sua temperatura è più elevata.
Scienziati filosofi, come Pierre Duhem ed Edouard Le Roy, hanno insistito da tempo sul fatto
che tutte le definizioni della fisica - quelle di grandezze in particolare - riposano su convenzioni o
ipotesi e implicano un'adesione spesso implicita a teorie generalmente ammesse. La misura di ogni
grandezza si effettua mediante una misura di lunghezza d’angolo, e solo indirettamente mediante
concezioni teoriche si può risalire dalle constatazioni geometriche così effettuate alla grandezza
medesima. Benché in questa materia non sia opportuno spingere lo spirito critico sino al paradosso,
è certo che la natura non, ci offre spontaneamente le grandezze il cui studio e misura debbono
servire di base alle speculazioni fisiche; queste grandezze, noi dobbiamo estrarle dalla realtà con uno
sforzo di astrazione in cui intervengono tutte le nostre conoscenze teoriche e gli schemi del nostro
pensiero. Una descrizione del mondo fisico fatta da un essere che avesse una struttura mentale o
gli organi sensori profondamente diversi dai nostri, sarebbe senza dubbio straordinariamente diversa
da quella che noi riusciamo a dare. Si è detto che l'arte è “l'uomo aggiunto alla natura”; la stessa
definizione è valida anche per la scienza.
Non tutte le grandezze. di cui si serve il fisico nei suoi ragionamenti possono essere osservate
e misurate. Alcune servono solo come strumenti necessari al calcolo, ma si trascurano nelle
verifiche sperimentali. Ponendosi da un punto di vista puramente fenomenologico, si è cercato di
espellere dalle teorie fisiche tutte le grandezze non misurabili: la dottrina energetica e, più
recentemente, la meccanica quantistica di Heisenberg sono esempi notevoli di tentativi del genere.
Ma questi tentativi non sono mai completamente riusciti e nelle teorie intervengono sempre certe
grandezze non misurabili: così in meccanica ondulatoria la famosa funzione d'onda. Nondimeno le
grandezze misurabili hanno una importanza maggiore, perché solo per esse la teoria può ricevere
l'indispensabile controllo sperimentale delle sue conseguenze.
Qui sorge la questione di sapere se è possibile distinguere, fra le grandezze osservabili, quelle
propriamente misurabili da quelle soltanto “definibili”.Molti autori fanno infatti questa distinzione:
le grandezze propriamente misurabili sarebbero quelle tra cui è possibile, stabilire relazioni di
uguaglianza, disuguaglianza e somma; le grandezze semplicemente definibili sarebbero quelle per
cui ciò non ha senso. Le prime corrisponderebbero a fattori di capacità, e potrebbero rappresentarsi
sia coll'addizione di elementi indipendenti (lunghezze, superfici, volumi), sia con la variazione della
quantità d'una sostanza indistruttibile (massa, quantità d'elettricità ecc.); le seconde invece
corrisponderebbero a fattori d'intensità e non potrebbero in alcun modo rappresentarsi con una
somma di elementi o con la variazione d'una quantità di sostanza: il potenziale elettrico e la
temperatura ne sarebbero esempi tipici.
QUESITI RELATIVI AL TESTO X
T101. Il brano ha un carattere:
A.
B.
C.
D.
E.
Letterario
Artistico
Critico
Filosofico
Scientifico
T102. Le grandezze definibili sono:
A.
B.
C.
D.
E.
Misurabili
osservabili
Astrazioni
Elaborazioni
Immaginazioni
T103. La fisica è:
A.
B.
C.
D.
E.
Una scienza impregnata di filosofia
Una scienza sui generis
Una scienza qualitativa
Una scienza quantitativa
Una filosofia empirica
T104. Le convenzioni:
A.
B.
C.
D.
E.
Prescindono dalla scientificità
Integrano la scientificità
Sono presenti in fisica
Esulano dalla fisica
Vincolano la fisica
TESTO XI
Cronologicamente, l'arco creativo mozartiano si inscrive nell'età dell'Illuminismo. Non solo.
Per molti aspetti, la cultura e l'arte del nostro musicista partecipano profondamente dello spirito dei
Lumi, si radicano e si innervano sul binomio delle idee-forza della seconda metà del Settecento:
Ragione e Natura.
Certamente, quando Mozart, intorno al 1776 - i suoi vent'anni - raggiunge la piena maturità
culturale e artistica, e le sue opere attingono a una totale autonomia creativa, i grandi capiscuola
francesi dei Lumi hanno da tempo chiuso la loro stagione più alta. Opere come il Dizionario
filosofico e il Trattato della tolleranza di Voltaire, il Contratto sociale e l'Emilio di Rousseau, gli
stessi scritti centrali della creatività di Diderot, appartengono ad una generazione precedente. Nel
1778, con la scomparsa di Voltaire e di Rousseau - i due grandi nemici muoiono nello stesso anno!
- sembra ormai essersi chiuso il tempo più glorioso dei Lumi. Possiamo quindi collocare la maturità
dell'opera mozartiana in un'epoca di matura e quasi declinante Aufklarung, una sorta di splendido
e umbratile autunno dei Lumi, un'età, splenglerianamente, più di Civilisation che di Kultur, ma in cui
germinano i primi segni e scorrono le prime linfe di un'età nuova, che va verso l'aurora della
Romantik.
Questo calmo autunno - un interstizio tra le battaglie roventi per i Lumi degli anni Cinquanta
e Sessanta e le battaglie della Rivoluzione degli anni Novanta - si articola in una tensione tra sereno
appagamento e rinnovate inquietudini
Il primo nasce dalle battaglie storiche già vinte: una sostanziale libertà nella circolazione delle
idee, la strategia dell'attenzione da parte dell'aristocrazia nei confronti delle nuove idee, le riforme
civili ottenute da alcuni principi illuminati. All'interno dello stesso ceto ecclesiastico si va
costituendo una nouvelle vague di abati innovatosi, di scienziati e di teologi-filosofi seguaci
dell'empirismo lockiano e impegnati in un'ardente battaglia non solo contro la vecchia Scolastica e questo è ovvio ma anche contro la derivazione, da Descartes, di una nuova metafisica. Intanto i
re-filosofi (Federico II e Federico Guglielmo II in Prussia, Giuseppe II in Austria, Caterina II in
Russia) dichiarano di voler perseguire la pubblica felicità e avviano le prime riforme, che graffiano
ma non lesionano l'ancien régime feudale-aristocatico.
Più complesse - e talvolta ignare delle loro stesse cause - le rinnovate inquietudini.
Serpeggiano perplessità sulla raison illuministica come codice universale di comportamento; si
esplorano, talvolta alla ricerca di un'analisi sempre più approfondita delle sorgenti del piacere e del
dolore, nuove aree della percezione e della coscienza. I gruppi più radicali politicamente, da parte
loro, si interrogano chiedendosi se non occorra dare una spallata più forte e più drastica all'Ancien
Régime.
La Nature,e magari “les passions de l’âme” sembrano quasi fare aggio, come valore, sulla
Raison; di quest'ultima si scorgono i limiti, ma non se ne nega mai la fondamentale funzione
equilibratrice.
In Germania, la prima ondata rinnovatrice, modesta e moderata era stata quella della cultura
pietistica, per molti aspetti estranea ai Lumi. La generazione decisiva era stata invece quella dei
Lessing e dei Wieland, che avevano rinnovato la cultura del Nord e del Centro, il primo con il suo
teatro dichiaratamente borghese e antifeudale, il secondo, più moderatamente ma forse ancor più
incisivamente sul grande pubblico, con un sapiente eclettismo che faceva tesoro di tutte le fonti
possibili. Wieland toccava con mano leggera tutti i generi letterari, dal romanzo al poema, dalla
novella al pamphlet ideologico, apparentemente ossequioso alla tradizione classicheggiante di
stampo francese, in realtà rinnovandola senza parere secondo le esigenze della Raison e secondo le
modalità di una ironia dissacrante.
In tutto questo fervore di una Aufklarung sottoposta a una grande tensione che la porterà ad
autodistruggersi, per generare il Werther e il Prometheus goethiani, il ruolo culturale dell'Austria
è periferico, ma ricettivo. Vienna non produce una cultura veramente nuova, attiva però la
circolazione nel territorio dei nuovi spettacoli, delle nuove forme teatrali ed espressive, delle nuove
idee. Nessun creatore originale è austriaco, ma la capitale funziona come un buon canale di
trasmissione della creatività italiana, francese e tedesca. Italiane, francesi e tedesche erano state,
difatti, le matrici culturali e creative della rigenerazione della tragedia per musica e del ballet ad
opera di Durazzo, Angiolini, Calzabigi, Noverre e Gluck, l'evento a raggio europeo di gran lunga
più importante
prodotto nella Vienna degli anni Sessanta. In seguito, soprattutto grazie a Giuseppe II e alla sua
politica culturale, si rappresentano i drammi del teatro moderno, da Shakespeare a Lessing, si
leggono i testi dei nuovi Lumi di Francia, d'Italia e di Germania.
In questo mondo, in questa cultura vive e opera Mozart. Certamente, la sua esperienza di
“viandante cosmopolita” gli rende più facile sottrarsi al provincialismo austriaco. Influenze culturali
come quelle recepite nei viaggi dell'adolescenza, e le esperienze accumulate a Mannheim, monaco
e Parigi, prima del 1781, e poi a Dresda, Lipsia e Berlino negli ultimi anni, lo segnano
profondamente. Forse, almeno a nostro avviso, la centralità culturale, la sua esperienza decisiva è
quella verificatasi a Mannheim nel 1778, dove Wolfang avrà occasione di vivere all'interno di una
società di liberi artisti mediatori del carattere internazionale della nuova cultura. Mannheim, sotto
l’egida del principe elettore Karl Theodor, era un centro apertissimo alla cultura illuministica, un
crocevia di incontri, un filtro tra cultura francese e cultura tedesca, soprattutto attraverso Wieland.
Da Mannheim in poi, Mozart fa propria quella civiltà dello spettacolo, della produzione e della
fruizione artistica che sarà poi uno dei canali culturali per lui più decisivi. Il teatro di prosa, le
accademie, il melodramma, l'opera buffa, il Singspiel, il melologo, sono i luoghi di una formazione
non solo professionale, ma anche culturale e umana.
La nostra prospettiva critica fondata sull'idea di una specializzazione -settoriale e specifica ci
impedisce talvolta di cogliere la fruttuosa poliedricità della figura professionale del teatrante
settecentesco, intendendo con questo termine non solo il musicista, ma il traduttore, il librettista,
l'impresario, l'esecutore-interprete.
QUESITI RELATIVI AL TESTO XI
T111. Il brano ha un carattere:
A.
B.
C.
D.
E.
Emblematico
Aneddotico
Storico
Critico
Apologetico
T112. La tragedia per musica:
A.
B.
C.
D.
E.
41.
La metafisica:
A.
B.
C.
D.
E.
2.
Nasce
Evolve
Si trasforma
Si rigenera
Si specifica
E' contestata
E' rinnovata
E' trasformata
E' sostenuta
Nessuna delle precedenti affermazioni è desumibile dal testo
L’Austria è culturalmente:
A.
B.
C.
D.
E.
Propositiva
Ricettiva
Elaborativa.
Replicativa
Innovativa
Emblematico: attinente a una figura allegorica, a un simbolo
Allegoria: figura retorica per mezzo della quale l’autore esprime e il lettore ravvisa un
significato riposto, diverso da quello letterale
Aneddoto: particolare curioso, inedito, raccolto a fine moralistico o ricreativo più che
storiografico, in margine a un personaggio o a un evento famoso
Apologetico: che ha per fine la difesa e l’esaltazione di una fede, specialmente religiosa
TESTO XII
I matematici del XX secolo svolgono un'attività intellettuale altamente sofisticata, difficile da
definire; ma gran parte di ciò che oggi va sotto il nome di matematica è il risultato di uno sviluppo
di pensiero che originariamente era accentrato attorno ai concetti di numero, grandezza e forma.
Le vecchie definizioni della matematica come quella di “scienza del numero e della grandezza” non
sono più valide; tuttavia esse indicano le origini delle varie branche della matematica. Le nozioni
originarie collegate ai concetti di. numero, grandezza e forma si possono far risalire alle epoche più
antiche in cui visse l'uomo e vaghi accenni a nozioni matematiche si possono vedere adombrati in
forme di vita che forse hanno anticipato il genere umano di parecchi milioni di anni. Darwin in
Descent of man (L'origine della specie) (1871) notò che certi animali superiori posseggono capacità
come la memoria e l'immaginazione, e oggi è ancor più evidente che le capacità di distinguere il
numero, la dimensione, l'ordine e la forma - rudimenti di un istinto matematico- non sono proprietà
esclusiva del genere umano. Esperimenti effettuati con corvi, per esempio, hanno mostrato che
almeno certi uccelli sono in grado di distinguere insiemi contenenti fino a quattro fino a quattro
elementi. In numerose forme inferiori di vita è chiaramente presente una consapevolezza delle
differenze esistenti in strutture che si trovano nel loro ambiente, e ciò è affine all'interesse del
matematico per la forma e la relazione.
Un tempo si pensava che la matematica avesse direttamente a che fare con il mondo della
nostra esperienza
sensibile; fu solo nel XIX secolo che la matematica pura si liberò dalle limitazioni imposte dalla
osservazione della natura. E' chiaro che originariamente la matematica nacque come un aspetto
della vita quotidiana dell'uomo; e se è valido il principio biologico della "sopravvivenza del più
adatto", la durata del genere umano probabilmente non è del tutto priva di rapporto con lo sviluppo
di concetti matematici nell'uomo. In un primo tempo le nozioni primitive di numero, grandezza e
forma facevano, forse, riferimento più a contrasti che non a somiglianze: la differenza tra un solo
lupo e molti lupi, la disuguaglianza di dimensioni tra un pesciolino e una balena, la dissomiglianza
tra la rotondità della Luna e la rettilinearità di un piano. Gradualmente deve essere emersa, dal
disorientamento di esperienze caotiche, la consapevolezza che esistono somiglianze: e da questa
consapevolezza di somiglianze di numero e di forma trassero origine tanto la scienza della natura
quanto la matematica. Le differenze stesse sembrano rinviare a somiglianze: infatti, il contrasto tra
un solo lupo e molti lupi, tra una pecora e un gregge, tra un albero e una foresta suggerisce che un
lupo, una pecora e un albero hanno qualcosa in comune: !-a loro unicità. Nella stessa maniera si
sarebbe osservato che certi altri gruppi, come le coppie, possono essere messi in corrispondenza
biunivoca. Le mani possono essere appaiate con i piedi, con gli occhi, con le orecchie o con le
narici. Questo riconoscimento di una proprietà astratta che certi gruppi hanno in comune, e che
chiamiamo numero, rappresenta un grande passo verso la matematica moderna. E' inverosimile che
tale riconoscimento
sia stato dovuto alla scoperta di un singolo individuo o di una singola tribù: si trattò più
probabilmente di una consapevolezza graduale che si è forse sviluppata a uno stadio altrettanto
primitivo dello sviluppo culturale dell'uomo quanto lo fu l'uso del fuoco, forse circa 300.000 anni
fa. Che lo sviluppo del concetto di numero sia stato un processo lungo e graduale, è indicato dal
fatto che alcune lingue, come il greco, hanno conservato nella loro grammatica una distinzione
tripartita tra uno, due e più di due, mentre la maggior parte delle lingue moderne fanno soltanto una
distinzione di "numero" bipartita tra il singolare e il plurale. Evidentemente i nostri più antichi
antenati in un primo tempo contavano soltanto fino a due, indicando con “molti” qualsiasi insieme
superiore. Ancor oggi molti popoli primitivi continuano a contare gli oggetti disponendoli in gruppi
di due.
La consapevolezza del numero diventò alla fine sufficientemente estesa e viva da far nascere
il bisogno di esprimere tale proprietà in qualche modo. Dapprima presumibilmente si utilizzò
soltanto un linguaggio di segni. Le dita di una mano poterono facilmente venire usate per indicare
un insieme di due o tre o quattro o cinque oggetti, mentre il numero uno in un primo momento non
venne generalmente riconosciuto come vero “numero”. Usando le dita di entrambe le mani si
poterono rappresentare gruppi di oggetti contenenti fino a dieci elementi; combinando le dita delle
mani con quelle dei piedi si potè giungere fino a venti. Quando le dita si dimostrarono insufficienti,
si poterono usare mucchi di pietre per rappresentare una
sia stato dovuto alla scoperta di un singolo individuo o di una singola tribù: si trattò più
probabilmente di una consapevolezza graduale che si è forse sviluppata a uno stadio altrettanto
primitivo dello sviluppo culturale dell'uomo quanto lo fu l'uso del fuoco, forse circa 300.000 anni
fa. Che lo sviluppo del concetto di numero sia stato un processo lungo e graduale, è indicato dal
fatto che alcune lingue, come il greco, hanno conservato nella loro grammatica una distinzione
tripartita tra uno, due e più di due, mentre la maggior parte delle lingue moderne fanno soltanto una
distinzione di “numero” bipartita tra il singolare e il plurale. Evidentemente i nostri più antichi
antenati in un primo tempo contavano soltanto fino a due, indicando con “molti” qualsiasi insieme
superiore. Ancor oggi molti popoli primitivi continuano a contare gli oggetti disponendoli in gruppi
di due.
La consapevolezza del numero diventò alla fine sufficientemente estesa e viva da far nascere
il bisogno di esprimere tale proprietà in qualche modo. Dapprima presumibilmente si utilizzò
soltanto un linguaggio di segni. Le dita di una mano poterono facilmente venire usate per indicare
un insieme di due o tre o quattro o cinque oggetti, mentre il numero uno in un primo momento non
venne generalmente riconosciuto come vero “numero”. Usando le dita di entrambe le mani si
poterono rappresentare gruppi di oggetti contenenti fino a dieci elementi; combinando le dita delle
mani con quelle dei piedi si potè giungere fino a venti. Quando le dita si dimostrarono insufficienti,
si poterono usare mucchi di pietre per rappresentare una
corrispondenza con gli elementi di un altro insieme. Spesso l'uomo primitivo, usando tale schema
di rappresenta zione, ammucchiava le pietre in gruppi di cinque, giacché l'osservazione delle mani
e dei piedi gli aveva reso familiari i multipli di cinque. Come notò Aristotele, l'uso, oggi diffuso, del
sistema decimale non fu altro che il risultato del fatto anatomico accidentale che la maggior parte
di noi è nata con dieci dita dei piedi e dieci dita delle mani. Dal punto di vista matematico è un
peccato che l'uomo di Cro-magnon e i suoi discendenti non avessero quattro o sei dita per ogni
mano.
Sebbene sembri che, storicamente, il contare con le dita, o la pratica di contare per cinque e
per dieci sia venuto più tardi del calcolare per due e per tre, i sistemi quinario e decimale quasi
sempre rimpiazzarono gli schemi binario e ternario. Uno studio di parecchie centinaia di tribù di
indiani d'America, per esempio, mostrò che quasi un terzo usava una base decimale e che circa un
altro terzo aveva adottato un sistema quinario o quinario-decimale; meno di un terzo aveva un
sistema binario, e quelli che facevano uso di un sistema ternario costituivano meno dell'1% del
gruppo. Il sistema vigesimale, con base venti, si riscontrava in circa il 10% delle tribù.
Mucchi di pietre erano mezzi effimeri per la conservazione di informazioni; perciò l'uomo
preistorico, talvolta, registrava i numeri incidendo intaccature su un bastone o su un pezzo di osso.
Scarso è il numero di registrazioni del genere pervenute fino, a noi. In Cecoslovacchia, però, è stato
trovato un osso di lupo che presenta, profondamente incise. cinquantacinque intaccature. Queste
sono disposte in due serie: venticinque nella prima e trenta nella seconda; all'interno di ciascuna serie
le intaccature sono distribuite in gruppi di cinque. Tali scoperte archeologiche forniscono una prova
del fatto che l'idea di numero è molto più antica di progressi tecnologici quali l'uso di metalli o la
costruzione di veicoli a ruote. Tale idea precede la nascita della civiltà e della scrittura, nel senso
usuale del termine: ci sono infatti pervenuti resti archeologia dotati di significato numerico, come
l'osso testè descritto, che appartengono a un periodo risalente a circa 30.000 anni fa. Ulteriori
testimonianze concernenti i più antichi concetti dell'uomo intorno al numero si possono riscontrare
nella lingua inglese odierna. A quanto pare, le parole eleven e twelve significavano originariamente
“l'uno in più” e “due in più”; ciò indica che il prevalere del concetto decimale risale a un'epoca molto
antica. Tuttavia è stata avanzata l'ipotesi che forse la parola indo-europea che sta a indicare otto
sia derivata da una forma duale usata per indicare quattro, e che la parola latina novem, che significa
nove, vada forse collegata con novus (nuovo), nel senso che era l'inizio di una nuova serie. Parole
del genere possono forse venire interpretate come indicanti la persistenza per un certo periodo di
una scala quaternaria o ottonaria, così come la parola francese quatre-vingt usata tutt'oggi sembra
essere il residuo di un sistema vigesimale.
QUESITI RELATIVI AL TESTO XII
T121. Il brano ha un carattere:
A.
B.
C.
D.
E.
Letterario
Filosofico
Scientifico
Storico
Didascalico
T122. La matematica ha origine:
A.
B.
C.
D.
E.
Nell'esperienza concreta
Nella speculazione filosofica
Nell'ispirazione religiosa
Nella soluzione di problemi
Nella elaborazione teorica
T123. Il numero fu inizialmente espresso:
A.
B.
C.
D.
E.
Impiegando pietre
Incidendo legni
Mediante rappresentazioni
Mediante simboli
Mediante segni
T124. Il numero è:
A.
B.
C.
D.
E.
Un concetto simbolico
Un indice semantico
Una proprietà astratta
Una proprietà derivata
Una proprietà empirica
Didascalico: di componimento letterario che si proponga fini informativi e divulgativi
(Devoto-Oli)
TESTO XIII
Ci sono più di 1000 asteroidi con un diametro superiore ad un chilometro le cui orbite
incrociano quella della Terra. In media tre di questi asteroidi urtano contro la superficie del nostro
pianeta ogni milione di anni. Corpi celesti di dimensioni inferiori sono assai più numerosi e cadono
sulla Terra molto più frequentemente.
Le tracce di tali impatti sono molto evidenti sulle superfici della Luna, di Marte e di Mercurio,
ma anche sulla Terra non mancano i segni di numerose cadute. Uno di questi crateri, probabilmente
il più studiato, è quello di Ries in Germania cha ha un diametro di 26 km ed una profondità di 800
metri. Esso fu prodotto circa 15 milioni di anni fa dall'impatto di un asteroide di diametro superiore
ad un km. Gli studi effettuati hanno messo in luce che tale impatto provocò tremende manifestazioni
distruttive, dovute all'energia cinetica del corpo caduto, che hanno dato luogo ad enormi pressioni
unite ad altissime temperature nonché a numerosissimi frammenti “sparati” tutto intorno come
proiettili ad altissima velocità. E' solo di pochi anni fa la scoperta di un violentissimo impatto
avvenuto 65 milioni di anni orsono, durante il periodo Cretaceo, di un asteroide di circa 10 km di
diametro.
Gli asteroidi di tali dimensioni non sono molto diffusi nello spazio che ci circonda e gli esperti
calcolano che in media sulla Terra ne cada uno ogni 40 milioni di anni.
L'evidenza scientifica di un tale avvenimento è stata sostenuta da molti mediante la
constatazione che esiste una forte anomalia nella concentrazione di iridio, un metallo che costituisce
spesso questi asteroidi, in un sottile strato di rocce sedimentarie formatesi alla fine del Cretaceo.
Sono state trovate tali anomalie sia in rocce sedimentarie marine sia in 'quelle non marine e in molte
località sparse in tutto il pianeta.
Oltre alle anomalie della concentrazione di iridio, altre tracce di tale evento sono state trovate
dai paleontologi. Gli effetti variano moltissimo a seconda che si analizzino depositi terrestri o
marini. I più colpiti risultano gli organismi planctonici con conchiglia calcarea che vivevano negli
strati vicino alla superficie degli oceani tropicali. molto meno colpiti risultano gli organismi con
conchiglia di silice.
Alcuni scienziati hanno ipotizzato che un forte aumento dell'acidità della superficie degli
oceani fu determinato da una grande quantità di ossidi di azoto prodotti alle elevatissime
temperature causate dall'impatto e quindi ricaduti come acidi nitrico e nitroso nel corso di
precipitazioni di pioggia fortemente acida.
Mentre sulla Terra l'effetto della caduta di tali piogge acide veniva attenuata dalla grande
capacità di neutralizzazione del suolo, negli oceani esso colpiva solo le acque superficiali che
divenivano fortemente acide. Non tutti gli scienziati sono d'accordo sulla dimostrazione scientifica
che un tale impatto sia effettivamente avvenuto alla fine del Cretaceo, 65 milioni di anni fa ed oggi
siano in effetti solo gli inizi delle scoperte che probabilmente avverranno nel settore
dell'interpretazione dei fenomeni legati all'impatto di grandi asteroidi con il nostro pianeta.
Quello che è il caso di sottolineare. in un mondo dove tutti sembrano ritenere il nostro pianeta
modificato solo dall'azione perversa dell'uomo, è che la Terra è stata testimone di moltissime
estinzioni di specie di animali e di piante. Alcune sono avvenute molto lentamente a causa di
mutamenti climatici e dell'alterazione delle nicchie ecologiche che hanno favorito lo sviluppo di
nuovi e più forti competitori.
In altri casi una larga frazione delle varie forme viventi si è rapidamente estinta come sembra
sia accaduto 65 milioni di anni fa, durante il Cretaceo, a causa delle conseguenze dell’impatto di
grossi corpi celesti caduti sulla Terra.
La frequenza di tali eventi è piuttosto elevata come dimostrano i vari crateri esistenti ancora
sulla superficie terrestre. Tra le cause di preoccupazione, e sono moltissime, sul futuro dell'umanità
sul pianeta Terra deve essere inclusa anche quella di venire impallinati dallo spazio. Esistono oggi
i mezzi per effettuare interventi protettivi. E' però necessario cominciare a lavorare per creare
adeguate strutture operative in grado di eseguire tali interventi qualora si dovesse decidere di farli.
Non è infatti pensatile che si possano gestire, al contrario di quello che avviene nei film di
fantascienza, tali momenti di crisi planetaria 'dal podio di assemblee internazionali.
QUESITI RELATIVI AL TESTO XIII
T131. Il brano ha un carattere:
A.
B.
C.
D.
E.
Fantascientifico
Letterario
Storico
Politico
Informativo
T132. L’iridio si ritrova:
A.
B.
C.
D.
E.
In tutti gli asteroidi
Nella maggior parte degli asteroidi
In tutti gli asteroidi di certe dimensioni
Nella maggior parte degli asteroidi di certe dimensioni
Negli asteroidi caduti sulla terra
T133. Gli asteroidi hanno dimensioni:
A.
B.
C.
D.
E.
Generalmente inferiori a 1 Km
Generalmente intorno a 1 Km
Generalmente superiori a 1 Km
Molto variabili
Imprecisabili
T134. La terra si è modificata:
A.
B.
C.
D.
E.
Per opera dell'uomo
Per l'alterazione delle nicchie ecologiche
Per i mutamenti climatici
Per A, B, C
Per nessuna delle cause sopra indicate
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