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La MAMMA CATTIVA - Shop GuaraldiLAB

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La MAMMA CATTIVA - Shop GuaraldiLAB
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S F I N G E
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D O P O
P R O P H E T I C A / T R E N T ’ A N N I
Guaraldi
Daniela Nobili,
dalla Prefazione alla nuova edizione, 2004
ISBN 88-8049-205-5
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La prima parte di questo libro venne pubblicata nei lontani anni ’70,
quando ancora il fenomeno dell’aggressività dei genitori nei confronti
dei figli era ampiamente scotomizzato e passato sotto silenzio, non
soltanto dal pensiero comune, ma anche dai testi scientifici e specialistici,
persino da quelli psicoanalitici. […]
Gli anni che sono trascorsi dal 1975 hanno portato senz’altro ad una
riduzione della censura, come testimonia il largo spazio che la cronaca
nera dedica ormai purtroppo a questi fatti, e di conseguenza anche
ad un ridimensionamento di stereotipi e tabù sulla madre buona, ma
il grande clamore, lo scandalo, la condanna assoluta o la negazione,
quando si verificano episodi del genere, dimostrano che non è avvenuta
anche una riduzione della distanza difensiva, un reale riconoscimento
di differenze quantitative più che qualitative fra madri “sufficientemente
buone” e madri “cattive”, attraverso una autentica presa di coscienza
di fantasie ed impulsi comuni ad entrambe, con l’unica differenza di
un maggiore o minore autocontrollo.
Ed è una solitudine dolorosa ed immensa quella in cui rischia di venire
abbandonata una madre parassitata da idee ed impulsi aggressivi
nei confronti di un figlio nella sua ricerca, spesso già timorosa e
sfiduciata, di qualcuno che abbia il coraggio di prestarle orecchio.
[…] I potenziali interlocutori tendono a schivare il discorso e a
minimizzarlo, sfuggendo in una rassicurazione di maniera che costringe
la madre ad una ulteriore repressione delle proprie emozioni, con
aumento del rischio di un agire impulsivo. […] E più tardi magari la
generale negazione si esprimerà con la classica frase: “… Ma non
aveva mai mostrato nessun segno che potesse far supporre…”.
Una riedizione a distanza di tanto tempo di questo libro, arricchito
fra l’altro dalla parte psicologica e clinica che non era stato possibile
pubblicare allora, anche per ovvi motivi di discrezione, può essere
quindi ancora utile per consentire di avvicinarci alla comprensione
anche di una madre assassina senza scivolare, da una parte, nella
negazione di una simile eventualità, dall’altra, nella radicale condanna
del “mostro fra di noi”.
Fenomenologia, antropologia
e clinica del figlicidio
Guaraldi
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Guaraldi Prophetica
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Cura redazionale: Samuela Salucci
Prima edizione: © 1975 by Guaraldi S.p.A., Rimini / Firenze
Nuova edizione ampliata: © 2004 Guaraldi s.r.l.
Sede legale: piazza Ferrari 22, Palazzo Fabbri
47900 Rimini
Redazione: via Cattaneo 14 (Rimini) 0541/56430
www.guaraldi.it
E-mail: [email protected]
ISBN 88-8049-205-5
GLAUCO CARLONI
DANIELA NOBILI
LA MAMMA CATTIVA
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Fenomenologia, antropologia
e clinica del figlicidio
Guaraldi
– Ahimè! Chi mi scamperà
dalle mani di mia madre, o fratello?
– Non so, fratello mio! Siamo perduti!
(Euripide, Medea)
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Quel che dicono i tragici di Procne
e di Medea la bieca, io lo credo.
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(Giovenale, Satira VI)
Indice
p. 9
PARTE PRIMA
p. 13
Introduzione
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Prefazione alla nuova edizione
p. 15
IL FENOMENO DEL FIGLICIDIO
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1. Il figlicidio nella storia del diritto
2. I figlicidi famosi
3. Il figlicidio nella realtà odierna
4. Nosografia del figlicidio
5. L’omicidio altruistico
6. Condotte con significato figlicida:
6.1 Maltrattamenti fisici
6.2 Seduzioni incestuose
6.3 Sevizie psichiche
p. 21
p. 23
p. 33
p. 45
p. 51
p. 57
p. 61
p. 62
p. 67
p. 73
IL GENITORE DIVORANTE. OSSERVAZIONI ANTROPOLOGICHE
SUL FIGLICIDIO
p. 77
1. Il cannibalismo dei genitori
2. Alcuni miti dei primitivi
3. Riti di iniziazione e castrazione
p. 79
p. 87
p. 91
IL FIGLICIDIO NELLA STORIA DEL PENSIERO
MAGICO-RELIGIOSO
p. 99
IL FIGLICIDIO NELLA FIABA
p. 109
Indice
IL FIGLICIDIO NEL MITO GRECO
1. La «rea progenie» dei figlicidi
2. I genitori di Edipo
3. La scellerata Medea
4. Il sacrificio d’Ifigenia
p. 121
p. 125
p. 141
p. 149
p. 159
LA LEGGENDA DEL PELLICANO. IL FIGLICIDIO
p. 165
PARTE SECONDA
p. 185
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NEL TEATRO MODERNO
LA DISTRUTTIVITÀ MATERNA
p. 187
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1. L’odio per la madre e l’odio della madre
p. 191
2. Espressioni della distruttività materna
p. 197
3. Biancaneve e la regina cattiva: il rapporto conflittuale
con la figlia femmina
p. 203
MADRI CATTIVE E CATTIVE MADRI. CASI CLINICI
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1. La madre soffocatrice
2. La madre psicotica
3. La madre che non vuole partorire
4. La madre apprensiva
5. La madre matrigna
p. 209
p. 213
p. 219
p. 225
p. 233
p. 243
UN TENTATIVO DI CLASSIFICAZIONE PSICOPATOLOGICA
p. 251
Appendice
Analisi di una inveterata censura. Il Conte Ugolino
p. 261
Bibliografia
p. 277
Prefazione alla nuova edizione
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La prima parte di questo libro venne pubblicata nei lontani anni ’70
(la prima edizione risale infatti al 1975), quando ancora il fenomeno dell’aggressività dei genitori nei confronti dei figli era ampiamente scotomizzato e passato sotto silenzio, non soltanto dal pensiero comune, ma anche dai testi scientifici e specialistici, persino da
quelli psicoanalitici. Erano allora infatti dominanti in psicoanalisi le
teorie kleiniane che, se avevano efficacemente contribuito ad illuminare le angosce fondamentali della psiche infantile, potevano
però indurre anche gli psicoanalisti ad interpretare con troppa facilità le comunicazioni dei pazienti sugli aspetti oscuri del comportamento dei genitori, soltanto come proiezioni della aggressività
infantile e a sottovalutarne gli aspetti di realtà.
Giornali e mezzi di informazione non riportavano ancora, se
non con marginali trafiletti, la puntuale e triste sequenza di episodi di abusi incestuosi, maltrattamenti e sevizie da parte di genitori o, ancor più drasticamente, di veri e propri figlicidi. Tali fenomeni apparivano, e ancor oggi appaiono, così inaccettabili e
contro natura, che si tendeva a censurarli e rimuoverli, a considerarli come casi del tutto eccezionali perpetrati soltanto da gravi psicotici o da dementi.
Si preferiva, insomma credere ai rassicuranti stereotipi di genitori fondamentalmente o solo amorevoli, che si prendono cura
dei propri figli, li educano e li crescono proteggendoli dai pericoli,
identificati per lo più nel mondo esterno: i pericoli della strada,
dell’estraneo, del “bruto”… Un bruto che si è poi rivelato essere
spesso un comodo e semplicistico capro espiatorio dei nostri peggiori e più orrificanti fantasmi!
Ci sembrò allora importante contribuire, con uno scritto dai
toni anche un poco provocatori e polemici, a scuotere queste comode e fallaci sicurezze dimostrando che i maggiori pericoli per i
bambini, come aveva del resto già sostenuto nel 1932 Ferenczi, il
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La mamma cattiva
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più geniale allievo di Freud, vengono dall’interno della casa, da
quel groviglio incandescente di emozioni e conflitti, tanto intensi
quanto spesso mal controllati, da cui è costituito il rapporto fra genitori e figli. E poiché soprattutto la figura della madre era alonata
e protetta da uno specifico tabù che la voleva totalmente buona ed
amorevole, disposta al sacrificio di sé stessa per i propri piccoli, come il pellicano di una leggenda altrettanto inesatta e menzognera,
mentre venivano trascurati i segni che potevano dimostrare l’esistenza, accanto all’amore, di una aggressività altrettanto intensa, decidemmo di appuntare la nostra indagine soprattutto sui comportamenti materni.
Proprio in quegli anni, fra l’altro, un fattore occasionale aveva
contribuito ad alimentare il nostro interesse per l’argomento: erano state ricoverate nell’ospedale psichiatrico, dove gli autori lavoravano a quel tempo, due madri che avevano ucciso il proprio
figlio e che erano in attesa di giudizio. La prima era una donna intelligente, dotata di una certa cultura, con una struttura di personalità depressivo-melanconica e comportamenti simbiotico-parassitari, dapprima nei confronti del marito, da cui non sopportava alcuna separazione, e successivamente nei confronti del figlio,
che, per la sua assoluta dipendenza, era diventato l’oggetto di
aggrappamento ideale e insostituibile. E infatti lo aveva ucciso
quando il distacco da lui era diventato improrogabile per una
madre considerata ufficialmente “buona”: al primo giorno di
scuola! L’altra era invece una giovane schizofrenica, immatura, ingenua e un po’ stolida, dall’affettività superficiale e incoerente.
La nostra curiosità venne stimolata non soltanto dall’avere avuto la possibilità di studiare queste due pazienti, per quanto possibile
(i tempi di ricovero in ospedale psichiatrico in casi del genere erano
solitamente abbastanza brevi, dopodiché le pazienti, se condannate, venivano trasferite in Ospedale Psichiatrico Giudiziario), ma
soprattutto dall’avere notato le differenti reazioni controtransferali che provocavano nelle altre degenti e nello staff curante. Mentre la seconda era riguardata come una paziente fra le tante, trattata con umana simpatia e il figlicidio era quasi dimenticato, forse
proprio perché le sue gravi ed evidenti condizioni psicopatologiche
consentivano più facilmente di accettarlo e nello stesso tempo di allontanarlo da sé, l’altra, già taciturna e chiusa per carattere, era
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Prefazione alla nuova edizione
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circondata da un’atmosfera ostile e pesante, sulla quale inutilmente
avevano cercato di influire con le nostre spiegazioni psicologiche.
Forse non appariva abbastanza malata, almeno ad una osservazione
superficiale, per perdonarle l’atto criminale e soprattutto nel suo
comportamento precedente erano molti, troppi, gli elementi che,
pur portati all’esasperazione, consentivano a molte madri di riconoscersi pericolosamente in lei, almeno in parte. Ma proprio questa
maggiore prossimità aumentava la distanza difensiva sentita come
necessaria, che doveva servire a sottolineare una differenziazione radicale: “Tu non sei come noi! Tu sei diversa!”.
Dall’osservazione delle difese che si animano di fronte a queste
condotte nacque l’idea di questo libro: si voleva tentare di combattere lo stereotipo della madre “buona” e nello stesso tempo ridurre
la distanza difensiva ed accusatoria nei confronti delle “cattive”
madri contribuendo ad una conoscenza più approfondita dell’aggressività verso i propri figli, sempre ed inevitabilmente presente in
un rapporto tanto più intenso e continuativo di qualsiasi altro. Solo
considerando questa aggressività come naturale ed inevitabile, anziché come un sentimento contro natura, si può sperare, tra l’altro,
di evitarne la repressione eccessiva e la rimozione, che sempre si accompagnano al rischio di improvvise esplosioni distruttive per un
possibile ritorno del rimosso.
Gli anni che sono trascorsi dal 1975 hanno portato senz’altro
ad una riduzione della censura, come testimonia il largo spazio
che la cronaca nera dedica ormai purtroppo a questi fatti, e di
conseguenza anche ad un ridimensionamento di stereotipi e tabù
sulla madre buona, ma il grande clamore, lo scandalo, la condanna assoluta o la negazione, quando si verificano episodi del genere, dimostrano che non è avvenuta anche una riduzione della
distanza difensiva, un reale riconoscimento di differenze quantitative più che qualitative fra madri “sufficientemente buone” e
madri “cattive”, attraverso una autentica presa di coscienza di
fantasie ed impulsi comuni ad entrambe, con l’unica differenza di
un maggiore o minore autocontrollo.
Ed è una solitudine dolorosa ed immensa quella in cui rischia di
venire abbandonata una madre parassitata da idee ed impulsi aggressivi nei confronti di un figlio nella sua ricerca, spesso già timorosa e sfiduciata, di qualcuno che abbia il coraggio di prestarle
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La mamma cattiva
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orecchio. Mentre pensare e parlare sono gli unici modi per cercare
di evitare di agire, non trova nessuno disposto ad ascoltare veramente, seriamente un discorso troppo contrastante con le nostre
idealizzazioni. I potenziali interlocutori tendono a schivare il discorso e a minimizzarlo, sfuggendo in una rassicurazione di maniera che costringe la madre ad una ulteriore repressione delle proprie
emozioni, con aumento del rischio di un agire impulsivo. Non ne
può più parlare con nessuno, né col marito, né coi parenti né con
gli amici. Spesso, neppure con i medici.
E più tardi magari la generale negazione si esprimerà con la
classica frase: “… Ma non aveva mai mostrato nessun segno che
potesse far supporre…”.
Una riedizione a distanza di tanto tempo di questo libro, arricchito fra l’altro dalla parte psicologica e clinica che non era stato
possibile pubblicare allora, anche per ovvi motivi di discrezione,
può essere quindi ancora utile per consentire di avvicinarci alla
comprensione anche di una madre assassina senza scivolare, da
una parte, nella negazione di una simile eventualità, dall’altra, nella
radicale condanna del “mostro fra di noi”.
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Daniela Nobili, Aprile 2004
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PARTE PRIMA
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Introduzione
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Dalla più remota preistoria il conflitto fra le diverse generazioni
è un evento drammatico che si ripete con puntuale periodicità.
Sempre la generazione più giovane pretende con impazienza un
mutamento radicale di abitudini, mode, privilegi, potere e istituzioni, che la generazione più anziana difende con ostinazione
ma senza speranza. Nell’ambito di questo vasto conflitto, che
presenta differenze quantitative nei diversi momenti storici e
nelle varie situazioni geografiche ma resta qualitativamente lo
stesso, i sentimenti familiari offrono corrispettivi fenomeni molecolari. Dove trovano la loro radice le sfacciate rivolte adolescenziali e la grettezza autoritaria parentale, quasi sempre, sia le
prime che la seconda, lontane da un’obiettiva valutazione della
realtà, se non nei legami affettivi intercorrenti, intensissimi, fra i
bambini e i loro genitori? Infatti ribellioni e repressioni ancor più
violente si verificano proprio nei primi anni di vita, e si chiamano
capricci ed interventi educativi solo perché le differenze di statura e di potenza consentono di chiamarli così. Vero è che fin
dalla più tenera infanzia all’osservatore attento e spregiudicato
capita di cogliere gl’indizi di tempeste emozionali, anche quando
la superficie degli atteggiamenti e delle condotte mostra solo
delle impercettibili increspature. Ufficialmente la dedizione amorosa dei genitori è imparziale e sconfinata, e la reverenza amorosa dei figli per lo più, se non sempre, naturale e proporzionata;
ma in realtà si deve essere disposti a dubitare dell’assoluta naturalezza di tali sentimenti. Tanti sono gli esempi che depongono
per il contrario che quella dedizione e questa reverenza. quando
vadano oltre i limiti del legame simbiotico che unisce la madre al
neonato, sembrano piuttosto il risultato di una conquista molto
lenta e non irreversibile.
La scoperta freudiana dell’ambivalenza1 dei sentimenti o, se si
vuole, la riscoperta freudiana di quell’ambivalenza che i grandi
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La mamma cattiva
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poeti avevano già mostrato di conoscere, spiega a sufficienza il
divario che corre fra le aspirazioni degli uomini e la realtà del loro
comportamento. E alla luce di questa fondamentale ambivalenza
dei sentimenti noi dobbiamo indagare con occhio impietoso anche
in quelli fra i sentimenti che siamo usi a considerare più venerabili, non dimenticando che molte istituzioni umane sono state create per superare il predetto conflitto fra le generazioni, quando
non, più semplicemente, per occultarlo.
Da gran tempo filosofi, pedagoghi e psicologi cercano di trovare la risposta ad un quesito forse insolubile: se sia l’eredità biologica a fare che l’uomo sia quello che è, o non piuttosto il condizionamento sociale, oppure le personali vicissitudini infantili. Gli
orientamenti che prevalgono oggidì sono sostanzialmente due:
quello che si propone di riformare la psicologia infantile attraverso un mutamento sociale che modifichi l’ambiente e gli atteggiamenti dei genitori, e quello che tende ad avvalorare gli accidenti
dei primi anni di vita e rivalutare, sia pure in secondo piano, la dotazione congenita di disposizione all’ansia e di aggressività, l’una e
gli altri in gran parte indipendenti dal comportamento dei genitori. Nel primo caso, in una certa misura, si può pretendere d’imputare alla società dei genitori ogni distorsione nello sviluppo dei
figli, nel secondo, di riconoscere invece come prevalentemente
intrapsichiche le vicende che plasmano la personalità del bambino.
Un certo estremismo in quest’ultima concezione porterebbe a ridurre notevolmente il peso degli errori e delle colpe dei genitori,
errori e colpe che al più costituirebbero delle pericolose conferme
delle fantasie ambivalenti o persecutorie del bambino. Poiché
però l’adulto altri non è, come è ovvio, che un bambino cresciuto,
porterà seco, sia pure attenuata, l’inclinazione infantile a sviluppare
anche odio per i propri oggetti d’amore e a proiettare sugli altri,
quindi anche sui figli, la propria aggressività. Il quesito resta perciò
nuovamente irrisolto e nel conflitto fra le generazioni non si sa chi
sia l’aggredito e chi l’aggressore.
Da questa situazione di stallo non ci può smuovere che la clinica: l’osservazione della condotta umana e l’analisi dei sentimenti che la governano. L’opera di Melanie Klein ha approfondito la conoscenza della fantasia del bambino, permettendo d’identificare nella psiche infantile fantasmi, invidie e rabbie mag-
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Introduzione
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giori di quelli che già vi avevano trovato i suoi predecessori. Il
compito che ci proponiamo con il presente lavoro è di contribuire con alcune osservazioni cliniche e con molte deduzioni di diversa fonte alla conoscenza dei mostri e dei rancori che albergano
nella parte più infantile della psiche adulta e, in particolare, dell’aggressività e delle gelosie riconoscibili nelle condotte di tante
madri verso la propria prole. Sappiamo così facendo di offendere
il più radicato dei pregiudizi dianzi citati: quello che vuole prepotente e irresistibile, o meglio istintivo, l’amore dei genitori e
specialmente quello materno, non tollerando eccezioni se non in
casi patologici di assoluta irresponsabilità per un processo psicotico d’inspiegabile natura. Ma la realtà è davanti agli occhi di tutti. Anche se non esistono statistiche sicure, si sa dalla stampa che
i casi noti di vessazioni di ogni genere nei confronti dei bambini
da parte di persone preposte alla loro cura sono numerosissimi e
ancor più numerosi si devono presumere i casi ignoti; che le violenze dei genitori hanno in queste vicende sadiche un posto di
primo piano; e che, se ci si limita a calcolare le uccisioni di bambini, i delitti commessi dai genitori sono di gran lunga più frequenti di quelli perpetrati da estranei.
È insomma il fenomeno del figlicidio che risalta da queste, sia
pur grossolane valutazioni, come gravissimo e relativamente occultato. È questo appunto il fenomeno che intendiamo studiare,
secondo diverse angolazioni, ma mantenendoci entro limiti precisi: considerando cioè soprattutto il figlicidio da parte della madre, vale a dire il più radicale rovesciamento del comportamento
cosiddetto materno, e lasciando sullo sfondo o toccando solo di
passaggio il figlicidio attuato da altri parenti o l’infanticidio che
con il figlicidio viene generalmente confuso.
Questa precisazione risulta quanto mai opportuna dopo che,
fra la pubblicazione di alcuni nostri articoli sul figlicidio e il presente volume, è stato tradotto un libro di Rascovsky sullo stesso
argomento. La primogenitura dell’autore è fuori discussione, come pure la sua appassionata dedizione al riconoscimento ed alla
prevenzione del figlicidio. Però al di là delle inevitabili coincidenze, alcune caratteristiche della sua ricerca devono far considerare il nostro lavoro piuttosto come complementare. Innanzi
tutto. infatti, pur partendo dalle stesse premesse e pur valutando
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il fenomeno nella sua interezza, Rascovsky, perfino nelle sue osservazioni sul figlicidio nella religione e nella letteratura – Sofocle,
Dostoevskij, Jacobs –, s’è occupato prevalentemente del padre figlicida. In secondo luogo, nonostante il suo kleinismo e le sue dichiarate convinzioni sull’istinto di morte, la vita fantasmatica infantile e la naturale aggressività del bambino, egli finisce per generare nel lettore, forse al di là delle sue intenzioni, l’impressione
che tale aggressività abbia la sua motivazione più autentica proprio nelle condotte ostili dei genitori, anziché trovare in esse, come noi crediamo, una pericolosa conferma delle fantasie persecutorie: si tratta di un punto di vista considerato criticamente
anche dall’ottimo introduttore dell’opera di Rascovsky, Pietro
Bria. Manca, infine, alle importanti riflessioni dell’autore quel
corredo clinico che noi ci proponiamo di fornire nella seconda
parte del nostro contributo.
A proposito della confusione di cui si diceva fra figlicidio e
infanticidio, dobbiamo ricordare che figlicidio è parola insolita,
quando non addirittura sconosciuta, anche se, ad esempio, il
Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia cita il termine «figlicidio» o «filiicidio», definendolo come l’«assassinio di uno o più figli da parte di uno o entrambi i genitori
(dal latino filius, figlio, e cidium-cidere, uccidere)». Si tratta però
veramente di un’eccezione: la maggior parte dei dizionari e delle enciclopedie non riporta infatti questo vocabolo, e se vogliamo ottenere qualche informazione approssimativa al riguardo
dobbiamo cercarla sotto il titolo di «infanticidio». E ciò, nonostante esistano differenze fondamentali fra i due termini, dal
momento che «infanticidio» si riferisce all’uccisione generica
di bambini senza allusione alcuna all’intervento parentale, mentre «figlicidio» si riferisce all’uccisione specifica dei figli da parte dei genitori.
Attraverso la delimitazione del figlicidio dobbiamo così prendere atto di un fenomeno ad esso connesso e che incontreremo
ancora molte volte nel corso della nostra indagine: intendiamo
parlare della censura, della censura già operante nell’occultamento linguistico del figlicidio, nella imprecisione giuridica a
questo riguardo, la censura vigile e sollecita che ci rende ciechi di
fronte alle prove e agli indizi che andremo elencando.
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Introduzione
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Per cominciare, il figlicidio che suscita il nostro raccapriccio è,
si sa, pratica non infrequente fra i primitivi, anche se ovviamente
meno frequente dell’infanticidio; sia per controllare l’incremento
della popolazione in ragione delle limitate risorse, che per attenuare le conseguenze delle carestie, gli aborigeni australiani solevano per esempio uccidere un figlio ogni due e l’uso s’intrecciava
con pratiche cannibalesche. Questo figlicidio abituale è, presso
certe popolazioni, istituzionalizzato. Troviamo in fondo l’eco di tale istituzione nel figlicidio religioso che, quando veniva praticato
dalle tribù vicine, tanto orrore suscitava negli ebrei del Vecchio
Testamento, o nel figlicidio mitico che, come nella Grecia eroica,
consente di disegnare tutta una genealogia di figlicidi. E troviamo
altresì i resti di quelle feroci costumanze nel figlicidio fiabesco che
dei miti e dei riti più primitivi rappresenta una degradazione,
oggi adatta a soddisfare aspettative e interessi dei più piccini.
Si deve porre attenzione, per continuare, al fatto che il progredire dell’umanità ha imposto un’attenuazione del figlicidio,
sia attraverso una serie di maltrattamenti ritualizzati e di prove
cruente, ma generalmente non letali, a cui in molte società vengono sottoposti i ragazzi, sia mediante l’adozione di severe regole
pedagogiche o di non giustificate misure repressive. Nel primo caso, di cui la circoncisione, praticata con larghezza da popolazioni
ad alto grado di sviluppo, costituisce l’esempio più diffuso, si
può parlare di figlicidio simbolico; nel secondo caso, ricordando
la durissima educazione spartana e la spesso disumana disciplina
romana, si potrà considerare la razionalizzazione sociale delle inclinazioni figlicide, insomma il figlicidio legale. Ognuno ha presenti gli esempi scolastici di Giunio Bruto che «per mostrare come le leggi devono essere osservate» assiste impassibile al supplizio cui ha condannato i propri figli, rei di cospirazione contro lo
stato; del console Manlio Torquato che, dopo aver reso al figlio gli
onori dovuti al vincitore, lo condanna a morte per aver trasgredito i suoi ordini accettando e vincendo il duello con un nemico.
Per finire, occorrerà censire le testimonianze degli impulsi e
delle inclinazioni figlicide nella nostra attuale civiltà, della quale
siamo disposti a vantare il più alto raggiungimento delle misure
protettive verso la prole indifesa, abbandonata o minacciata. Incontreremo allora, anche a prescindere dai figlicidi dolosi dianzi
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La mamma cattiva
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menzionati, gli esempi più numerosi di figlicidi preterintenzionali per abuso dei mezzi di correzione, come quello in cui incorse il
civilissimo signore di Sabbioneta Ercole Gonzaga, i figlicidi colposi per carenza di cure protettive, i figlicidi per fatalità che trovano nel non insolito accompagnamento di fantasie figlicide un ridimensionamento del ruolo assegnato al destino. E, accanto alle
fantasie figlicide, da un lato le coscienti intenzioni figlicide talora
sviluppate in progetti non attuati e, dall’altro, le tendenze inconsce rivelate dalle fantasticherie e dai sogni a contenuto figlicida.
Una paziente della nostra casistica, a differenza delle altre sopraffatte dal corto circuito di un’improvvisa pulsione figlicida, ci
ha offerto nel tempo un ricco campionario di fantasie, di simbolismi e di «acting-out» distruttivi. Essa ci ha così fornito una serie
di spiegazioni e di possibilità interpretative del fenomeno che
negli altri casi restava stretto nella morsa della colpa e dell’impossibile espiazione.
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Note:
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Per la verità è a Bleuler che si deve l’introduzione del termine «ambivalenza»
nel linguaggio psichiatrico, ma è pur vero che solo con Freud esso acquista il significato di parola-chiave per la comprensione della psicologia del profondo.
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IL FENOMENO DEL FIGLICIDIO
Fly UP