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DISPENSA DI DIRITTO PENALE Parte I
Corso di preparazione per l’esame forense www.overlex.com DOCENTE Avv. Luigi Viola 1 DISPENSA DI DIRITTO PENALE Parte I TRACCE E SOLUZIONI CON GIURISPRUDENZA ALLEGATA 2 INDICE CONCORSO APPARENTE DI NORME (INCENDIO E CROLLO DI COSTRUZIONI)……………………………………...pg. 13 CONCORSO ANOMALO (RISSA ED OMICIDIO)……………………………………………………..………..pg. 14 CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO (RESPONSABILITA’ DEI SINDACI)………………………………………………..pg. 16 FALSO GROSSOLANO……………………………………………………………….pg. 17 REATO ABERRANTE E TENTATIVO……………………………………………...pg. 18 ABERRATIO E TENTATO OMICIDIO……………………………………………..pg. 19 GETTO DI COSE PERICOLOSE……………………………………………………..pg. 21 DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE………………………………………pg. 23 Cass. 5436/2005: lancio dei sassi dal cavalcavia. Cass., sez. unite, 3571/1996: dolo eventuale. FAVOREGGIAMENTO DEL FAMILIARE………………………………………….pg. 32 Cass. 29769/2006: favoreggiamento del familiare. Cass. 27614 /2006: falso evitabile. Cass. 35165/2005: fotocopia falsa di un documento. DIFFAMAZIONE E DIRITTO DI CRITICA…………………………………………...pg. 36 Cass. 19509/2006: diffamazione e diritto di critica. Cass. 9246/2006: notizia falsa ed inapplicabilità della scriminante. Corte Cost. 317/2006: dichiarazioni extra moenia del parlamentare. Cass. 30 agosto 2006: immunità dei parlamentari. 3 Cass. 25875/2006: diffamazione via web. TRUFFA E MILLANTATO CREDITO……………………………………………….pg. 59 Cass. 30150/2006: truffa e millantato credito. Cass. 30729/2006: rapporti tra 316 ter e 640 bis. Cass. 10231/2006: rapporti tra 316 ter e 640 bis. Cass. 15271/2005: truffa e falsità ideologica in atti privati. RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ E VIOLENZA SESSUALE………………………...pg. 76 Cass. 22049/2006: violenza sessuale e jeans. Cass. 6329/2006: violenza sessuale ed attenuante della minore gravità del fatto. Cass. 34120/2006: violenza sessuale con minore e consenso della vittima. Cass. 19808/2006: violenza sessuale e bacio sul collo. Cass. 16287 /2006: violenza sessuale e separazione. Cass. 549/2006: violenza sessuale e tentato bacio sulla bocca. Cass. 876/2005: pacca sul sedere e violenza sessuale. NESSO CAUSALE E FATTORI INTERRUTTIVI…………………………………pg. 91 Cass.20192/2006: accertamento in concreto del nesso causale. Cass. 12894/2006: nesso causale e responsabilità medica. Cass. 12275/2005: responsabilità dell'equipe. ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA……………………………………………….pg. 105 Cass. 33577/2006: lesioni sportive causate da un'entrata in scivolata. Cass. 1947372005: lesioni sportive e gomitata all'addome. Cass. 1951/2000: lesioni sportive e rispetto delle regle del gioco. SCRIMINANTE DI CUI ALL’ART. 384 C.P. ………………………………………pg. 121 4 INDEBITO UTILIZZO DEL BANCOMAT……………………………………..….pg. 122 Cass.. 31.1.2001: indebito utilizzo di bancomat. Cass. 4359/2007: configurabilità del tentativo. Cass. 7629/2006: rapporto di consunzione tra norme. OMISSIONE DI ATTI D'UFFICIO………………………………………………..…pg. 140 Cass. 44734/2003 omissione di atti d'ufficio e denuncia di violenza sessuale. TENTATIVO E REATO IMPOSSIBILE……………………………………….……pg. 143 FURTO D'USO E FORZA MAGGIORE…………………………………………….pg. 144 DOLO ALTERNATIVO E TENTATIVO……………………………………………pg. 145 Cass., sez. unite, 3571/1996: sulle varie tipologie di dolo. OMISSIONE DI REFERTO……………………………………………………………pg. 148 RIFIUTO DI OBBEDIENZA…………………………………………………………..pg. 149 RIDUZIONE IN SCHIAVITU’………………………………………………………..pg. 150 Cass. 3368/2005 riduzione in schiavitù. SUCCESSIONE LEGGI PENALI…………………………………………………….pg. 154 CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO …………………………….pg. 155 Cass. 137/2007: discarica abusiva e proprietà del suolo. CONCORSO DI REATI E CONCORSO APPARENTE DI NORME ..…………..pg. 157 5 TRASFUSIONI DI SANGUE E TESTIMONI DI GEOVA…………………….…..pg. 158 Cass. 4211/2007: trasfuzioni e stato di necessità. Tribunale di Roma, ordinanza 15 – 16 dicembre 2006: divieto di accanimento terapeutico. RESPONSABILITA’ MEDICA E DELEGA ALLO SPECIALIZZANDO………..pg. 170 Cass. 22579/2007: scioglimento anticipato dell'equipe chirurgica. Cass. 33619/2006: affidamento e responsabilità d'equipe. ABUSIVO ESERCIZIO DELL'ATTIVITA’ MEDICA……………………………..pg. 181 Cass. 39087/2001: abusivo esercizio della professione ed uso di apparecchiature diagnostiche. LESIONI E VIOLENZA SESSUALE…………………………………………………pg. 184 Cass. 6775/2005: violenza sessuale di gruppo. ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA……………………………………………….pg. 196 Cass. 19473/2005: violazione delle regole del gioco. Cass. 38428/2006: sulla posizione di garanzia dell'amministratore di una società. OMICIDIO PRETERINTENZIONALE……………………………………….……..pg. 205 Cass. 13673/2006: preterintenzione e dolo del fatto minore. Cass. 19611/2006: preterintenzione e dolo misto a colpa. CONCORSO DI PERSONE E RESPONSABILITÀ DA LINK…………………….pg. 219 Cass. 33945/2066: responsabilità da link. ART. 116 C.P. E OMICIDIO PRETERINTENZIONALE…………………………..pg. 223 ABERRATIO E DIVERSO OGGETTO MATERIALE DEL REATO…………….pg. 224 6 GESTORE E OMICIDIO COLPOSO DA OMISSIONE……………………………..pg. 224 Cass. 11960/2007: responsabilità del gestore. Cass. 4177/2007: causalità omissiva. Cass. 25233/2005: accertamento della causalità omissiva. Cass. 12246/2007: infortunio sul lavoro e responsabilità per colpa. DIRETTORI DI LAVORI, DIPENDENTI E RESPONSABILITÀ…………………..pg. 259 Cass. 8407/2007: reati edilizi e soggetti esecutori dei lavori. DELEGA DI FUNZIONI ED APPALTO……………………………………………….pg. 264 Cass. 41943/2007: delega di funzioni e responsabilità del datore di lavoro. Cass. 12275/2005: responsabilità del medico nella fase post-operatoria ASSOCIAZIONE CON FINALITÀ DI TERRORISMO………………………………pg. 271 Cass.1072/2007: sulle azioni suicide dei c.d. kamikaze contro obiettivi militari. FRODE IN ASSICURAZIONE E LIMITI………………………………………………pg. 289 Cass. 12210/2007 CONCORSO ANOMALO EX ART. 116 C.P……………………………………………pg. 292 Cass. 10528/2003: concorso anomalo e prevedibilità dell'evento. COOPERAZIONE COLPOSA IN ILLECITO CONTRAVVENZIONALE…………..pg. 297 Cass. 9739/2005: cooperazione colposa e personale paramedico. SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO…………………………………...pg. 305 Cass. 33748/2005: concorso esterno e reato di associazione mafiosa. LA NUOVA LEGITTIMA DIFESA……………………………………………………...pg. 332 Cass. 32282/2006: MINACCIA……………………………………………………………….……………….pg. 337 Cass. 35763/2006: augurare sventura e reato di minaccia. 7 CONCORSO APPARENTE DI NORME……………………………………………..pg. 339 Cass. 10231/2006: indebita percezione di erogazioni e truffa ai danni dello Stato. Cass. 7916/2007: frode fiscale e truffa. Cass. 7629/2006: crollo di costruzioni ed incendio. Cass. 47164/2005 ricettazione e vendita di supporti informatici e audiovisivi LEGITTIMA DIFESA E LIMITI………………………………………………….…pg. 369 OMICIDIO PRETERINTENZIONALE ABERRANTE………………………..….pg. 370 8 IMMUNITÀ PARLAMENTARE……………………………………………….pg. 371 Corte Cost. 166/2007: dichiarazioni extra moenia del parlamentare. Corte Cost. 151/2007: manifestazione del pensiero e dichiarazioni del parlamentare. TENTATA TRUFFA……………………………………………………………pg. 382 ESTORSIONE E MINACCIA………………………………………………….pg. 383 Cass. 11.02.2002: estorsione e trattamenti retributivi deteriori . Cass. 11946/2007: estorsione ed insolvenza fraudolenta. CONCORSO TRA ART. 186 CDS ED ART. 187 CDS………………………..pg. 388 Cass. 14803/2006: giuda sotto effetto di stupefacenti. Cass. 19056/2007: spaccio e sostanze non tabellate. FALSO IDEOLOGICO………………………………………………………….pg. 392 Cass., SEZ. UNITE, 15983/2007: cartellini marcatempo e nozione di atto pubblico. Cass. 22694/2005: falso ideologico e cartella clinica. RESPONSABILITA’ DELLO PSICHIATRA………………………………….pg. 401 App. Bologna, 4 aprile 2007: responsabilità dello psichiatra e TSO. FAVOREGGIAMENTO E SPACCIO DI STUPEFACENTI…………………..pg. 411 Cass., sez. unite, 21832/2007 DATORE DI LAVORO E POSIZIONE DI GARANZIA……………………….pg. 417 Cass. 21587/2007: infortunio sul lavoro e concorso di colpa del lavoratore Cass, 10109/2007: vigilanza sul rispetto delle regole antinfortunistiche Cass. 38428/2007: responsabile della sicurezza e posizione di fatto Cass. 21471/2006: sicurezza sul lavoro e concorso di responsabilità FALSO IDEOLOGICO ED INVESTIGATORE INFEDELE…………………..pg. 440 Cass., sez. Unite, 32009/2006 : falso ideologico e verbale infedele Cass. 17441/2007: circoncisione e truffa 9 Cass., sez. unite, 16568/2007: indebita percezioni di erogazioni pubbliche e truffa aggravata DOLO EVENTUALE E TENTATIVO…………………………………………..pg. 454 Cass. 16666/2007: tentativo e dolo eventuale Cass. 5849/2006: tentativo e dolo eventuale 2 INSOLVENZA FRAUDOLENTA E TRUFFA…………………………………....pg. 458 Cass. 16629/2007: sulla dissimulazione dello stato di insolvenza Cass. 26289/2007: viacard e truffa Cass. 17441/2007: circoncisione e truffa Cass. 16568/2007: indebita percezione e truffa ABUSI D’UFFICIO E DOLO INTENZIONALE………………………………….pg. 469 Cass. 9 novembre 2006: abuso d’ufficio e dolo intenzionale Corte Cost. 251/2006: abuso d’ufficio ed interesse pubblico RESPONSABILITÀ MEDICA DA EQUIPE……………………………………….pg. 476 Cass. 22579/2005: colpa professionale e responsabilità d’equipe Cass. 1025/2007: obblighi di informazione del medico Cass. 33619/2006: responsabilità d’equipe CANE CHE MORDE IL PASSANTE E RESPONSABILITA’ DEL CUSTODE…………………………………………...pg. 492 Cass. 25474/2007: cani mansueti e precauzioni ERRORE SULL’ETÀ DEL MINORE NEI CASI DI ABUSO…………………….pg. 495 Corte Cost. 322/2007: rapporti sessuale con minori e conoscenza dell’età DOLO COLPITO A MEZZA VIA DA ERRORE…………………………………...pg. 504 Cass. 12466/2007: nuova legittima difesa CONCORSO APPARENTE DI NORME TRA TRUFFA AGGRAVATA ED INDEBITA PERCEZIONE DI CONTRIBUTI DA PARTE DELLO STATO…………………pg. 509 Cass. 30528/2007: differenze tra 316 ter e 640 bis c.p. Cass., sez. unite, 16568/2007 : rapporto di sussidiarietà tra 316 ter e 640 bis c.p. Cass. 30150/2006: 10 millantato credito e truffa Cass. 7629/2006: rapporto di consunzione ABERRATIO ICTUS ED SMS INVIATO ERRONEAMENTE……………………..pg. 509 Cass. 36225 /2007: mms pornografico ed aberratio Cass. 15990/2006: aberratio ictus e delicti ART. 48 C.P. E CONCORSO FORMALE DI REATI………………………………...pg. 533 Cass. 35488/2007: art. 48 c.p. e concorso formale di reati DICHIARAZIONE EXTRA MOENIA DEL PARLAMENTARE……………………pg. 543 Corte Cost. 342/2007: immunità parlamentare extra moenia Corte Cost. 274/2007: atti tipici della funzione parlamentare Corte Cost. 152/2007: immunità parlamentare e nesso funzionale Corte Cost. 166/2007: dichiarazione del parlamentare e contesto politico VIOLENZA SESSUALE IN FAMIGLIA……………………………………………….pg. 564 Cass. 22850/2007: reati sessuali e maltrattamenti in famiglia Cass. 1090/2007: maltrattamenti in famiglia e riduzione in schiavitù VIOLENZA SESSUALE…………………………………………………………………pg. 570 Cass. 33761/2007: violenza sessuale e condizione di inferiorità psichica Cass. 25112/2007: violenza sessuale e bacio Cass. 19718/2007: toccatina al seno Cass. 22840/2007: toccatina repentina e fugace Cass. 12425/2007. atti sessuali e zona esogena CONCORSO ESTERNO ED ASSOCIAZIONE TERRORISTICA………………….pg. 580 Cass. 24994/2006: attentato terroristico ed ideazione Cass. 1072/2007: atto terroristico Cass. . 21648/2007: concorso esterno in associazione mafiosa 11 ESTORSIONE…………………………………………………………………….pg. 606 Cass. 39366/2007: minaccia ed obbligazione naturale Cass. 35484/2007: estorsione ed amicizia DIFFAMAZIONE E SCRIMINANTE………………………………………….pg. 612 Cass. 42067/2007: diritto di cronaca e limiti Cass. 21876/2007: cronaca giudiziaria e limiti ELUSIONE PROVVEDIMENTO GIUDIZIARIO……………………………..pg. 617 Cass. 36692/2007: elusione del provvedimento giudiziario DISTURBO DEL RIPOSO DELLE PERSONE…………………………………pg. 612 Cass. 40502/2007: disturbo delle persone Cass. 1075/2007: disturbo delle persone 2 Cass. 23130/2006: rumore del condizionatore CAPACITÀ DI INTENDERE E VOLERE…………………………………….pg. 629 Cass., sez. unite, 9163/2005: disturbi della personalità COLTIVAZIONE DI MARIJUANA……………………………………………pg. 654 Cass. 17983/2007: coltivazione domestica Cass. 21832/2007: modica quantità di stupefacenti 12 CONCORSO APPARENTE DI NORME (INCENDIO E CROLLO DI COSTRUZIONI) TRACCIA: Tizio è amico da diversi anni di Caia. Nel tempo, Tizio diviene amante di Caia che è sposata con due figli (Caietta e Caietto); Tizio vorrebbe far separare Caia dal marito. Invero, Caia ritiene che il rapporto avuto con Tizio sia stato privo di Amore, così che non ritiene giusto decidere di separarsi. Tizio non ne vuole sapere di rinunciare a Caia e decide di incendiare la casa dove quest’ultima vive con il marito. Così, Tizio, un giorno, si apposta vicino la casa di Caia, attendendone l’uscita insieme al marito ed ai figli; quando Tizio si rende conto che la casa è vuota, la incendia, accettando il rischio del crollo della stessa. Due giorni dopo il fatto, Tizio si reca da un legale per essere informato circa la sua posizione giuridica. Il candidato, premessi brevi cenni sul concorso apparente di norme, affronti la questione giuridica posta. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa era utile ricostruire (molto) sinteticamente il fatto. Subito dopo, il problema andava inquadrato nell'ambito del concorso apparente di norme. Il concorso apparente di norme è un istituto giuridico complesso, che si riferisce all'ipotesi in cui un medesimo fatto sembra, prima facie, riguardare due o più norme, ma in realtà una soltanto deve essere applicata; il concorso di reati designa una pluralità di violazioni della legge penale, mentre il concorso apparente di norme individua, a seguito di interpretazione, la violazione di una sola fatttispecie incriminatrice: il concorso apparente di norme è l'antitesi, la negazione del concorso di reati. Esistono varie teorie, in tema di concorso apparente di norme, finalizzate ad individuare un criterio idoneo a discernere la pluralità dei reati (concorso di reati) dall'unicità del reato (concorso apparente di norme). Le varie teorie possono così riassumersi: -teoria della specialità in astratto (è necessario che due norme riguardino il medesimo beneinteresse tutelato, affinchè si possa parlare di concorso apparente, in quanto il concetto di "stessa materia", ex art. 15 C.P., va interpretato in senso formale-astratto); -teoria della specialità in concreto (le norme in concorso apparente possono riguardare anche beniinteressi diversi, purchè vi sia una condotta oggettiva sussumibile apparentemente in diverse norme, in quanto l'art. 15 C.P., laddove parla di "stessa materia" si riferisce ad una concezione concretasostanziale); -teoria del ne bis in idem (non sempre il pincipio di specialità, che generalmente risolve il problema del concorso apparente, è da solo sufficiente a risolvere i concorsi apparenti di norme, in quanto vi sono casi di norme speciali e generali tra loro), che riguarda le ipotesi di clausole di riserva (alcuni parlano di principio di sussidiarietà); -teoria della consunzione, in base alla quale (argomentando dall'art. 84 C.P., oltre che dall'art. 15 C.P.) la norma che assorbe l'intero disvalore del fatto andrà applicata. Nel caso sottoposto al legale si pone proprio un problema di concorso apparente di norme o concorso di reati: Tizio deve rispondere di incendio, ex art. 423 C.P., o di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi, ex art. 434 C.P., ovvero, ancora, di entrambi i reati menzionati in concorso tra loro? 13 Indubbiamente, l'art. 423bis C.P. non potrà trovare applicazione in quanto riferibile a "boschi" e neanche l'art. 449 C.P. in quanto Tizio non ha agito con colpa, ma con dolo sia per l'incendio che per il crollo (seppure nella forma del dolo eventuale); neanche potrà trovare applicazione l'art. 424 C.P., perchè non vi è il dolo diretto a danneggiare, ma un dolo diretto ad incendiare (ed, eventualmente, anche a far crollare), e neanche potrà trovare applicazione l'art. 635 C.P. (Tizio vuole incendiare e non cagionare un generico danno). Secondo una certa impostazione minoritaria, pertanto, nel caso di specie, sussisterebbe un concorso di reati, in quanto si verificherebbero due reati separati e distinti, ben attinenti a condotte ben diverse e danni non omogenei. Tale ricostruzione, invero, di recente è stata superata dalla giurisprudenza che ha avuto modo di cogliere degli aspetti comuni alle fattispecie prese in esame, giustificando una ricostruzione diversa in favore del concorso apparente di norme, da risolvere tramite il criterio della consunzione e/o assorbimento; in questi casi, infatti, il reato più ampio ed idoneo a cogliere l'intero disvalore del fatto assorbirebbe il reato meno grave: nel caso di specie dovrebbe trovare applicazione solo il reato di crollo di costruzioni o altri disastri dolosi, ex art. 434 C.P. Tuttavia, tale orientamento giurisprudenziale recente, per quanto condivisibile, non è applicabile alla condotta di Tizio, che potrà rispondere del solo reato di incendio. Infatti, affinchè si possa ipotizzare un concorso di reati tra l'art. 423 C.P. e l'art. 434 C.P. ovvero un concorso apparente di norme, Tizio avrebbe dovuto agire con una condotta diretta a cagionare il crollo della costruzione (o parte di essa) e non accettando il rischio del crollo; id est: l'art. 434 C.P. richiede la sussitenza del dolo diretto (e/o specifico), con la conseguenza di essere incompatibile con il dolo indiretto e/o eventuale, così che non si pone proprio un problema di concorso apparente di norme o concorso di reati, perchè l'art. 434 C.P. non è, comunque, ex ante integrato. Inoltre, il crollo della costruzione non è certo che si sia verificato, così che l'art. 434 C.P. non è per nulla applicabile per la carenza sia dell'elemento psicologico richiesto e sia per carenza dell'elemento oggettivo. Altresì, nel caso di specie non sussiste neanche il pericolo per l'incolumità (che è condizione obiettiva di punibilità dello stesso art. 434 C.P.), come desumibile dal fatto che, verosimilmente, Tizio ha appiccato l'incendio alla casa di Caia in un luogo non tanto frequentato, perchè, diversamente, non si sarebbe limitato ad attendere che la famiglia di caia si allontanasse, ma avrebbe dovuto attendere che anche i vicini si allontanassero. In questo senso, allora, Tizio non risponderà del reato di incendio in concorso con quello di crollo e neanche correrà questo rischio, in un eventuale giudizio, in quanto l'art. 434 C.P. non è applicabile al caso di specie (ne in astratto con il concorso apparente e nè in concreto con il concorso di reati) in quanto non si sono realizzati gli elementi costitutivi del reato suddetto (e neanche la condizione obiettiva di punibilità richiesta dal legilsatore); al più converrebbe consigliare a Tizio di cercare di riparare i danni cagionati con l'incendio, al fine di godere dell'attenuante dell'art. 62 n. 6 C.P. CONCORSO ANOMALO (RISSA ED OMICIDIO) TRACCIA Tizio e Caio sono tifosi del Milan; il giorno della partita Torino - Milan, si recavano allo stadio torinese per vedere la partita e tifare per la propria squadra del cuore. Il Milan perdeva. Tizio e Caio, delusi, incominciavano a gridare una serie di canzoni contro il Torino; Sempronio e Quarto, tifosi del Torino, sentivano le canzoni contro la propria squadra e si avvicinavano a Tizo e Caio, insultandoli. Ne nasceva una rissa. Dopo poco, Quinto, che passava nei dintorni, si accorgeva della rissa; Quinto, antico rivale di Tizio, 14 estraeva un coltello dalla tasca del giubbotto ed iniziava a correre verso Tizio per ucciderlo. Erroneamente, poi, Quinto colpiva mortalmente Sempronio. Subito dopo, Tizio e Caio scappavano. Tizio e Caio si recano da un legale; il candidato rediga motivato parere sulla posizione di Tizio e Caio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto. Subito dopo, bisognava inquadrare il fatto accaduto nell'ambito della rissa, ex art. 588 c.p. Tale reato è necessariamente plurisoggettivo; è dubbio, poi, se per la configurazione di tale reato siano sufficienti due persone (tesi prevalente in giurisprudenza, che pone l'accento sul fatto che viene usato l'inciso "chiunque", che sembra presupporre l'indifferenza al numero di soggetti coinvolti, per cui potrebbero anche essere il minimo, due appunto) ovvero almeno tre (tesi prevalente in dottrina che esalta la parola "partecipa" che sembra richiamare la partecipazione al reato, sulla falsariga delll'art. 416 bis c.p. in cui il minimo di soggetti coinvolti nel reato deve essere pari a tre). Tizio e Caio rischiano seriamente di rispondere del reato di rissa, in quanto non solo hanno partecipato, ma, verosimilmente, l'hanno anche causata. Tuttavia, Tizio e Caio rischiano anche di rispondere del reato cagionato da Quinto? E' configurabile il concorso anomalo, ex art. 116 c.p.? Al quesito posto bisognerebbe dare risposta negativa, in quanto affinchè si verifichi il concorso anomalo vi deve essere il dolo del fatto minore comune a tutti i concorrenti, ex art. 116 c.p., e l'agente deve compiere un reato diverso da quello per il quale si era accordato con gli altri concorrenti (il legislatore dice "qualora il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti...", ex art. 116 c.p.); altresì, l'evento deve essere conseguenza dell'omissione o azione degli altri concorrenti. Nel caso di specie, allora, si verifica uno schema fattuale ben diverso da quello ipotizzato dal legislatore all'art. 116 c.p.: -Tizio e Caio non hanno mai fatto alcun accordo con Quinto, -Quinto non ha compiuto un reato diverso da quello voluto, ma ha realizzato il medesimo reato (omicidio) di quello voluto, sbagliando soggetto passivo (il reato è il medesimo, ma cambia il soggetto passivo) -Tizio e Caio non hanno determinato in alcun modo il reato di omicidio, perchè erano inconsapevoli della volontà omicida (al più, nella rissa ,il nesso causale con l'omicidio vi può essere sotto il profilo della prevedibilità nella misura in cui l'omicidio avviene all'interno della rissa, con gli stessi soggetti della rissa, ma non è prevedibile l'intervento di un terzo che nutre rancori verso uno dei "rissaioli") di Quinto; la rissa non è stata la causa dell'omicidio, ma una mera occasione; al più, si potrebbe dire che la rissa possa essere stata la causa dell'errore (soggettivo) di Quinto, ma non la causa dell'evento: causare un errore nei mezzi di esecuzione di un reato non vuol dire causare il reato stesso (che si sarebbe egualmente compiuto, seppure in danno di un soggetto diverso). Tutto quanto detto varrebbe ad escludere l'applicabilità dell'art. 116 c.p. a Tizio e Caio. Il fatto, poi, che la rissa sia stata l'occasione dell'omicidio ma non la causa varrebbe anche ad escludere la responsabilità del secondo comma dell'art. 588 c.p. Inutile porsi il problema dell'aberratio delicti o ictus in capo a Quinto, perchè i fatti vanno analizzati solo sotto il profilo delle posizioni di Tizio e Caio, come richiesto espressamente dalla traccia. Non andava ipotizzato il reato di ingiuria o diffamazione perchè gli insulti (non sappiamo bene il contenuto delle affermazioni) a vicenda (ex art. 599 c.p.) sarebbero stati mere provocazioni (utili eventualmente come attenuanti per il reato di rissa). Infine, non da ultimo, poteva essere utile chiedersi se potesse configurarsi il reato ex art. 593 c.p.. Al problema interpretativo posto si potrebbe dare risposta negativa, alla luce del fatto che il 15 legislatore, ex art. 593 c.p., incrimina colui che "trova" una persona ferita o morta, ma non colui che scappa; in questo senso, pertanto, optare per una ricostruzione diversa significherebbe violare la lettera della legge (sul punto, invero, la giurisprudenza più recente interpreta "molto" estensivamente il verbo "trovare"). Sotto tali rilievi argomentativi, pertanto, Tizio e Caio potrebbero rispondere del solo reato di rissa, ex art. 588 comma I, attenuato, ex art. 62 c.p. CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO (RESPONSABILITA’ DEI SINDACI) TRACCIA Surreal è una società per azioni che si occupa della vendita di penumatici. Tizio è sindaco della società Surreal da 12 anni; da 3 anni Caio è amministratore della Surreal. Tizio è nelle condizioni di verificare di volta in volta le operazioni economiche suggerite o attuate da Caio, fatta eccezione per quelle attinenti a operazioni di fusione. Caio comunica a Tizio di aver bisogno di un finanziamento pubblico per un'operazione di fusione della società Surreal con la Duoband; Tizio acconsente. Dopo un anno, a Caio viene notificato un'informazione di garanzia per il reato di cui all'art. 640 bis c.p. Tizio rimane stupito di quanto avvenuto e teme un coinvolgimento personale. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente poteva essere utile accennare al discorso sul concorso omissivo in reato commissivo altrui, con particolare riferimento alla complessa tematica relativa alla configurabilità di una responsabilità penale dei sindaci per i reati commessi dagli amministratori di società. Susssiste una posizione di garanzia in capo al sindaco della società? L'impostazione minoritaria opta per la tesi negativa: l'obbligo dei sindaci è di sorveglianza (devono informare gli organi competenti) e non sono muniti di poteri impeditivi, con la conseguenza pratica che non si trovano in una posizione di garanzia; l'art. 40 cpv c.p., in tema di omissione, dice che il soggetto attivo è responsabile se non impedisce un evento che ha l'obbligo giuridico di impedire, ma dall'art. 2403 c.c. non si desume un obbligo giuridico di impedire l'evento, ma di informare terzi. La tesi prevalente ( si veda Cassazione pen. sez. III, 27 luglio 2004, 32730), tuttavia, è nel senso del possibile concorso omissivo in reato commissivo da parte dei sindaci, perchè, si dice, l'art. 2403 c.c. e 2409 c.c., laddove impone un obbligo di vigilanza e denuncia degli amministratori che compiono reati, implicitamente, sembrerebbero ammettere anche il suddetto concorso: se il sindaco non vigila (nel senso di informare terzi del compimento di reati) e non denuncia, allora, entra in concorso, perchè concorre nel cagionare il reato, sul presupposto logico che, verosimilmente, laddove il sindaco avesse vigilato correttamente, il reato non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato a condizioni diverse; id est, se il sindaco non vigila rischia di entrare in concorso di reato con l'amministratore. In questo senso, pertanto, Tizio rischierebbe di essere condannato per concorso nel reato ex art. 640 bis c.p. Tuttavia, seppure in astratto può sussistere il suddetto reato, non è detto che possa realizzarsi in 16 concreto e che Tizio abbia compiuto il suddetto reato. Infatti, Tizio non era nelle condizioni di verificare le operazioni di fusione, con la conseguenza che, se a monte Tizio non poteva verificare operazioni truffaldine di fusione, allora, a valle non potrà essere punito per il compimento di un reato per il quale non era stato messo nelle condizioni di evitare. Seppur tali rilievi sembrano avere una certa capacità di convincimento, tuttavia, Tizio ha acconsentito alla fusione, con la conseguenza applicativa che tale consenso facilmente potrebbe essere ritenuto manifestazione di volontà di aderire al proposito crimonoso dell'amministratore Caio. In base a quanto detto, pertanto, Tizio rischia seriamente di concorrere con il reato (eventualmente) compiuto da Caio proprio in considerazione del suo assenso, così che un'eventuale difesa dovrebbe mirare a far ritenere il consenso come se fosse stato illegittimamente prestato (per errore sul fatto, sostenendo, ad esempio, che Tizio credeva erroneamente di aver capito l'operazione di fusione posta in essere da Caio). FALSO GROSSOLANO TRACCIA: Tizio, immigrato regolare, acquista da Mirko borse griffate FENUX e DIRITTO&GIUSTIZIA, per un valore pari a pochi euro. Tizio rivende, poi, le borse false (nella firma e nella sostanza) a clienti che incontra per strada. Mirko, in passato, aveva detto a Tizio che tale vendita non era illecita e che non si fondava su una falsificazione delle borse, perchè gli acquirenti quando acquistavano erano consapevoli di non comperare prodotti originali, così che non venivano in concreto danneggiati e non si configurava un falso punibile. Tizio, tuttavia, decide di recarsi dall'avvocato Caio per avere una delucidazione sul punto. Il candidato rediga motivato parere in favore di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Subito dopo, era possibile inquadrare il fatto nella problematica attinente al falso punibile (è la stessa traccia che “suggerisce” di parlare del problema del falso sotto il profilo della sua punibilità). Tutti i falsi sono punibili ex se, ovvero è necessario un quid pluris? Il falso è punibile per la sola falsificazione ovvero è necessario che vi sia un’intrinseca idoneità ingannatoria? In generale, la normativa in tema di falso potrebbe essere interpretata alla luce del principio generale di offensività, ex art. 49 c.p.: la condotta tipica per avere rilevanza penale deve presentare una intrinseca idoneità offensiva. Se, quindi, si leggono le disposizioni in tema di falso (falsificazione) alla luce dell’art. 49 c.p., allora, la falsificazione è punibile solo nella misura in cui sia effettivamente offensiva. Applicando tale ricostruzione, la dottrina e parte della giurisprudenza hanno elaborato falsi non punibili, come il falso inoffensivo, falso innocuo, falso inulte, la dubbia figura del falso consentito (come il falso su autorizzazione del titolare del diritto) ed il c.d. falso grossolano. Con particolare riferimento a quest’ultima tipologia di falso, è stato detto che la contraffazione di cui all’art. 474 c.p., ben potrebbe riguardare, in alcuni casi, una contraffazione grossolana non punibile, laddove la stessa falsificazione sia così evidente da non essere idonea ad ingannare alcuno. Nel caso di specie, allora, Tizio ben potrebbe non essere punibile proprio perché ha posto in essere 17 atti di vendita di un prodotto falsificato grossolanamente; più chiaramente, benché astrattamente Tizio possa aver compiuto il reato ex art. 474 c.p. (con particolare riferimento all’inciso “detiene per vendere, o pone in vendita, o mette altrimenti in circolazione…”), in concreto, potrebbe non risultare punibile proprio perché i prodotti della sua vendita (borse FENUX e DIRITTO&GIUSTIZIA) non presentano un’idoneità ingannatoria ed offensiva, ex art. 49 c.p., verso l’acquirente che, al momento dell’acquisto (in base a circostanze chiare ed univoche come, ad esempio, il basso prezzo) è consapevole del valore reale del bene acquisito, con la conseguenza giuridica che non viene tratto in inganno. Di contro, la giurisprudenza più recente ritiene che il falso grossolano non possa rilevare ai fini dell’esonero di responsabilità dall’art. 474 c.p. perché tale norma tutelerebbe la fede pubblica (l’art. 474 c.p. è collocato sistematicamente nel titolo VII) e non la trasparenza del singolo acquisto, con la conseguenza che la stessa fede pubblica rischierebbe di essere vulnerata, perché laddove l’acquirente, ad esempio, vada in giro con il prodotto falsificato rischierebbe di indurre nei terzi la convinzione che quello stesso bene appartenga effettivamente alle case di moda da cui prende analogicamente il nome. Tuttavia, tale orientamento giurisprudenziale non può trovare applicazione nel caso di specie. Infatti, i beni che Tizio mette in vendita sono così manifestamente falsificati da non correre il rischio di ingannare alcuno; si tratta di beni a firma FENUX o DIRITTO&GIUSTIZIA, cioè firme molto diverse da quelle “classiche”, con la conseguenza applicativa che non vi è, da questa angolazione prospettica, alcun rischio di ingannare la fede pubblica. Se, poi, non vi è il rischio di ingannare la fede pubblica, allora, a fortiori, non vi è il rischio di ingannare il singolo compratore sull’origine, provenienza o qualità dell’opera, con il corollario applicativo che non verrà neanche integrato il reato ex art. 517 c.p. (non vi è, infatti, l’induzione in inganno). Se viene meno l’idoneità dell’azione a violare il bene-interesse tutelato, allora, de plano, verrà meno anche il reato. In base a tali rilievi argomentativi, poi, non sarebbe neanche configurabile il reato di ricettazione, ex art. 648 c.p., in quanto verrebbe meno il reato presupposto; se, infatti, i beni (borse) di cui si è detto non sono stati contraffatti in modo punibile, allora, Mirko non sarà punibile penalmente (sotto il profilo del falso), con la conseguenza che se viene meno il reato presupposto, de plano, verrà meno anche il reato presupponente ex art. 648 c.p. (il reato di ricettazione richiede la configurabilità di un altro reato a monte, come desumibile dall’inciso “…denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto…”). In questo senso, pertanto, Tizio potrebbe non essere punibile. REATO ABERRANTE E TENTATIVO TRACCIA: Tizio è titolare dell'azienda CULTAN; Caio è titolare dell'azienda CUTON; Sempronio è il poliziotto del quartiere. Tizio è adirato con Caio, in quanto ritiene che la CUTON stia facendo concorrenza sleale. Una sera, Tizio esce di casa con un coltello per recarsi ad uccidere Caio nella sua abitazione. Tizio entra nella casa e si dirige verso la presunta camera da letto di Caio; Tizio, al buio, inizia a cercare la presunta sagoma di Caio e, quando la vede, fuori al balcone, cerca subito di colpirla con il coltello. Tuttavia, la sagoma fugge ed accende la luce, rivelando la persona di Sempronio che svolgeva il suo 18 lavoro. Tizio scappa via; due giorni dopo, Tizio si reca da un legale. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Il problema, poi, andava inquadrato nell’ambito dell’art. 82 c.p., con particolare riferimento al problema (complesso) della sua compatibilità con il tentativo. L’art. 82 c.p. può trovare applicazione anche laddove non vi è reato compiuto, ma tentativo punibile? Detto in altri termini, vi può essere tentativo di delitto aberrante? Secondo una certa impostazione il problema posto andrebbe risolto negativamente, perché l’art. 82 si riferirebbe solo al reato consumato (si dice “…il colpevole risponde come se avesse compiuto il reato in danno…”); laddove il legislatore parla di reato, lo farebbe per riferirsi a quello compiuto. Applicando tale tesi al caso di specie, allora, Tizio ben potrebbe rispondere di tentato omicidio aggravato, ex art. 61 n.10 c.p. Tuttavia, tale ricostruzione non è del tutto condivisibile, sia perché porrebbe a carico dell’autore del reato un aggravante non voluta (rischiando di vulnerare, in concreto, anche l’art. 27 Cost.) e sia perché si finirebbe per trattare in modo eguale situazioni giuridiche diseguali in contrasto con l’art. 3 Cost. (si tratterebbe allo stesso modo il fatto preso in esame e l’ipotesi del “malvivente” che direttamente cerca di uccidere un pubblico ufficiale). Inoltre, anche il tentato reato è, nella sostanza, un vero e proprio reato (come sostenuto dalla giurisprudenza più recente), e non una figura minore, con la conseguenza applicativa che al tentativo andranno applicate le attenuanti ed aggravanti comuni e che laddove il legislatore si riferisce al reato è necessario estendere tale concetto al tentato reato. In questo senso, pertanto, nell’ipotesi presa in esame Tizio potrebbe rispondere di tentato omicidio aberrante verso Caio, non trovando altresì applicazione l’aggravante ex art. 61 n.10 c.p. (alla luce del rinvio dell’art. 82 all’art. 60 c.p.). Inoltre, Tizio potrebbe vedere cumulato il reato suddetto con quello di violazione di domicilio, ex art. 614 c.p. ABERRATIO E TENTATO OMICIDIO TRACCIA: Tizio è un imprenditore che gode di rispetto presso i suoi colleghi. Un giorno, Tizio veniva a sapere che Caio, imprenditore che svolgeva attività analoghe, aveva vinto una gara di appalto del valore di diversi milioni di euro. Tizio, appresa la notizia, correva subito verso la sede dell’impresa di Caio con il proposito di ucciderlo. Tizio arrivava alla sede dell’azienda di Caio, impugnando una pistola; Tizio puntava la pistola verso Caio e sparava un colpo. Nella traiettoria si trovava, casualmente, Sempronio che veniva ferito alla spalla; il proiettile, così, veniva deviato e colpiva la spalla di Caio. In seguito al fatto, quindi, recavano ferite alla spalla sia Caio che Sempronio. Tizio scappava via ed il giorno dopo si recava nello studio di un avvocato. 19 Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere sulla questione giuridica posta. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva risultare utile ricostruire sinteticamente il fatto. Prima facie, Tizio sembrerebbe aver compiuto il reato di tentato omicidio (verso Caio) e lesioni personali ex art. 582 c.p. (verso Sempronio); tuttavia, tale ipotesi si potrebbe verificare solo se Tizio avesse agito con dolo, seppure eventuale, verso Sempronio, ma non se Sempronio è stato ferito involontariamente e imprevedibilmente. Al più potrebbe emergere il tentativo di omicidio verso Caio cumulato con le lesioni personali colpose verso Sempronio. Tuttavia, il caso in esame sembra riguardare il delitto aberrante e non il tentato omicidio, in quanto vi è, chiaramente, un errore nei mezzi di esecuzione del reato, in quanto Tizio non ha verificato adeguatamente, prima di sparare, che nessuno si potesse frapporre tra lui e Caio; la sussistenza di un errore nei mezzi di esecuzione del reato nonché il ferimento di un ulteriore soggetto rispetto a quello che si voleva “danneggiare” sembrerebbe deporre nel senso di un reato aberrante bilesivo. Generalmente, si suole distinguere tra aberratio ictus ed aberratio delicti; le due fattispecie hanno in comune il fatto che vi è una divergenza tra voluto e realizzato e che tale divergenza sia dovuta ad un errore esecutivo, mentre si distinguono perché: -nell’aberratio ictus si vuole commettere un certo reato nei confronti i una determinata persona, ma tale reato viene commesso nei confronti di persona diversa (art. 82 c.p.) -nell’aberratio delicti si vuole commettere un certo reato, ma se ne commette uno diverso. Sinteticamente: nell’aberratio ictus si ha un mutamento della persona offesa, mentre nell’aberratio delicti un evento diverso. A queste fattispecie – base, si possono aggiungere fattispecie complesse relative al numero dei soggetti offesi (aberratio ictus o delicti, bilesive o plurioffensive). Seppure in teoria tali differenze sembrano agevoli, in pratica può risultare arduo distinguere le figure suddette, perché è dubbio se per evento diverso sia necessario far riferimento ad una diversità formale (si realizza un evento che lede un bene-interesse diverso rispetto al bene-interesse che si voleva “aggredire”) o sostanziale (si realizza un fatto naturalisticamente diverso da quello verificatosi che si voleva realizzare). Nel caso, di specie, ad ogni modo, vi è un reato aberrante bilesivo, con riferimento alle lesioni verso Caio e Sempronio. Nel caso di specie, sembrerebbe, poi, configurarsi un’aberratio ictus, perché l’evento che si verifica (lesioni personali verso Caio e Sempronio) non sembra potersi dire diverso da quello voluto, perché si tratta di reati appartenenti allo stesso bene-interesse tutelato (tesi formale), con la conseguenza applicativa che, nel caso di specie, si offende sia una persona diversa rispetto a quella che si voleva offendere sia la persona che si voleva offendere (ex art. 82 comma 2 c.p.); id est, l’evento che si realizza non è “diverso” in senso giuridico rispetto a quello che si voleva realizzare, perché tentato omicidio e lesioni personali colpose riguardano il medesimo bene-interesse tutelato (“Delitti contro la persona”), con il corollario applicativo che Tizio, sotto questo profilo interpretativo, potrebbe rispondere di tentato omicidio (assorbente rispetto alle lesioni personali colpose verso Sempronio), con sanzione aumentata fino alla metà ex art. 82 comma 2 c.p. Diversamente, laddove si volesse accogliere la tesi naturalistica dell’evento (Tizio ha realizzato un evento diverso da quello voluto, perché voleva uccidere Caio, ma ha cagionato lesioni personali a Caio e Sempronio), Tizio risponderà di tentato omicidio in concorso con lesioni personali colpose, ex art. 83 comma 2 c.p. Si ritiene utile ricordare che: 20 -l’error in persona riguarda un difetto di percezione a monte (ab initio), mentre l’aberratio ictus un errore che si realizza nella fase esecutiva (come nel caso di specie) -risponde di aberratio ictus (in combinato disposto con il reato ex art. 584 c.p.) il soggetto che voleva percuotere un determinato soggetto, ma in concreto ne abbia ucciso un altro -nell’art. 83 c.p. l’evento non è voluto dall’agente che erra nell’esecuzione, mentre nell’art. 116 c.p. l’evento è voluto, derivando da una volontaria iniziativa di un concorrente che devia dall’originario progetto criminoso. GETTO DI COSE PERICOLOSE TRACCIA: Tizio è proprietario dell’immobile Alfa. Tizio passa gran parte della giornata ai vari telefoni cellulari di cui è proprietario, a causa del suo lavoro. Un giorno, Tizio decide di far installare all’ultimo piano di Alfa un’antenna della telefonia mobile, al fine di essere sicuro di avere sempre il segnale durante le numerosissime telefonate tramite cellulare. Caio proprietario dell’immobile Beta, situato di fronte ad Alfa, ritiene che la suddetta antenna produca onde elettromagnetiche pericolose. Caio denuncia Tizio per il reato di getto pericoloso di cose. Tizio si reca da un legale per raccontare il fatto, precisando di non aver chiesto al comune alcun tipo di autorizzazione per l’installazione dell’antenna. Il candidato rediga motivato parere favorevole alla posizione di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Subito dopo la questione giuridica andava inquadrata nell’ambito del reato ex art. 674 c.p., tenendo presente che il parere doveva essere “favorevole alla posizione di Tizio”. Pertanto era utile chiedersi: -se il campo elettromagnetico è “cosa” -se il termine “gettare” può ricomprendere anche l’emissione di onde magnetiche -se le onde elettromagnetiche sono idonee ad offendere come indicato nello stesso art. 674 c.p. Su questi punti, vi è da precisare, che non c’è unanimità di vendute né in dottrina e né in giurisprudenza. Secondo una certa impostazione, anche le onde elettromagnetiche possono integrare il reato ex art. 674 c.p. In particolare, secondo questa ricostruzione, le onde elettromagnetiche ben potrebbero essere cose, perché il legislatore, ex art. 624 c.p., laddove spiega che l’energia elettrica è cosa mobile, esprime chiaramente una voluntas legis di parificare le cose all’energia, così che l’energia sarebbe cosa anche ai fini della configurabilità del reato di getto di cose pericolose. Sarebbe, poi, possibile “gettare” energia elettrica, in quanto tale verbo ha una portata molto ampia e, comunque, sarebbe stato utilizzato in senso atecnico. 21 Inoltre, non vi sarebbe alcun dubbio sul fatto che le onde elettromagnetiche possano offendere o molestare le persone, sia perché, indebitamente, impongono qualcosa che ben potrebbe non essere voluta, violando la libertà di autodeterminazione (sancita anche a livello costituzionale) dei terzi, e sia perché sarebbe nociva per la salute umana (tanto che, generalmente, sono richieste autorizzazioni amministrative volte a limitare l’installazione di “ripetitori”). In fondo, è stato detto, l’art. 674 c.p. sarebbe la fattispecie penale corrispondente all’illecito civile ex art. 844 c.c. Tuttavia, tale impostazione non è del tutto condivisibile e rischia di porsi in contrasto con il principio di legalità e del favore rei. Infatti, secondo altra (e più condivisibile) impostazione l’art. 674 c.p. non sarebbe applicabile al caso di specie, a tutto vantaggio della posizione giuridica di Tizio. Precisamente: il campo elettromagnetico non sarebbe “cosa”, non sarebbe possibile “gettare” onde elettromagnetiche e la condotta di Tizio sarebbe inoffensiva. Con riferimento al primo profilo, dunque, le onde elettromagnetiche non sarebbero cose, ma flussi di energia; laddove il legislatore, ex art. 624 c.p., parifica il furto di energia elettrica al furto di cosa mobile, individua un’equivalenza (basata su una fictio iuris) applicabile esclusivamente all’art. 624 c.p. e non ad altre fattispecie giuridiche; un’equivalenza collocata in una norma di parte speciale e non nella parte generale del codice penale avrebbe il significato di limitarne l’effetto applicativo alla singola disposizione e non a tutto il codice. Ne seguirebbe che, estendere la clausola di equivalenza anche a fattispecie come l’art. 674 c.p. si tradurrebbe in una violazione del principio di legalità e del favor rei. Altresì gettare sarebbe un verbo incompatibile con un oggetto come le onde elettromagnetiche, perché il suddetto verbo si riferirebbe alla preesistenza di qualcosa in natura, diversamente dalle onde elettromagnetiche; id est, si può gettare un bene che già esiste a monte, ma l’emissione di onde elettromagnetiche vuol dire generare flussi prima non esistenti: si tratterebbe di concetti diametralmente opposti. Infine, non sarebbe vero che le onde elettromagnetiche sono offensive e le autorizzazioni amministrative richieste (di massima) sono volte non a tutelare la salute, ma lo stato dei luoghi; in questo senso, infatti, si giustificherebbe ampiamente le diverse antenne telefoniche presenti in vari centri abitati. In questo senso, accogliendo tale orientamento, Tizio ben potrà non essere ritenuto responsabile del reato di cui all’art. 674 c.p. Si consiglia di leggere le massime giurisprudenziali che seguono. Cassazione penale (III sez.) Sentenza del 13-01-2003, n. 760 Il superamento dei limiti fissati in leggi speciali attraverso l'immissione di gas, fumi, vapori e simili non è condizione da sola sufficiente per la configurazione del reato di cui all'art. 674 c.p. Per la venuta in essere di quest'ultimo è necessario, infatti, che le predette immissioni abbiano carattere effettivamente molesto e dannoso per le persone interessate dall'evento. In caso contrario, non si avrà la perfezione dell'illecito di cui all'art. 674 ma quello relativo alla legge speciale posto a tutela dei limiti fissati Cassazione penale (I sez.) Sentenza del 24.04.2002 , n. 15717 22 L'emissione di onde elettromagnetiche, oltre i limiti stabiliti dalla legge in materia, può configurare gli estremi del reato di cui all'art. 674 c.p. quando risulti accertata la potenziale nocività dell'emissione per la salute umana. Il secondo punto da analizzare è quello relativo ai requisiti necessari per emettere un provvedimento di sequestro. Infatti, mentre per la venuta in essere dell'elemento strutturale della fattispecie di cui all'articolo 674 c.p. si deve verificare la concreta possibilità che il campo prodotto dalle onde elettromagnetiche sia nocivo per la salute delle persone esposte alla sua azione, per quanto riguarda i requisiti del sequestro preventivo questa certezza non rileva. "Per la sua adozione, infatti, non è necessario che il Giudice valuti la sussistenza di gravi e specifici indizi di colpevolezza, essendo di contro sufficiente che sussista il fumus commissi delicti, vale a dire la astratta sussumibilità del fatto nella fattispecie di reato." Cassazione penale (I sez.) Sentenza del 14-06-2002, n. 23066 Nell'ipotesi di emissione di onde elettromagnetiche generate da ripetitori radiotelevisivi la configurabilità del reato di cui all'art. 674 cod. pen. è subordinata al superamento dei valori indicativi dell'intensità di campo fissati dalla normativa specifica vigente in materia. Cassazione penale (III sez.) Sentenza del 19-12-2002, n. 42924 La Corte di Cassazione, in piena sintonia con alcuni suoi precedenti, dichiara che nell’art. 674 c.p. si deve fare "rientrare anche quello di diffondere, comunque, polveri nelle aree circostanti “. DOLO EVENTUALE E COLPA COSCIENTE TRACCIA: Tizio, un giorno, tradisce la compagna Tizia, con la quale è legato da 12 anni. In particolare, Tizio realizza rapporti completi e senza precauzioni con la prostituta Franca. Dopo due anni dal tradimento, Tizio si reca in ospedale per fare dei normali controlli medici e viene a sapere di aver contratto la malattia nota come HIV (seppure in una forma particolarmente attenuata). Tizio decide di non dire alcunché alla compagna Tizia sia per non vederla soffrire “inutilmente” e sia perché ritiene che, avendo contratto una forma lieve di HIV, non possa contagiare la compagna. Tizio continua ad avere rapporti sessuali completi e senza precauzioni con la compagna Tizia. Tizia contrae la malattia e dopo un anno muore. Tizio ha paura di poter rispondere di omicidio doloso e si reca da un avvocato. Il candidato rediga motivato parere favorevole al proprio assistito sulla questione giuridica posta. 23 POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario affrontare il discorso (classico) su dolo eventuale e colpa cosciente, partendo da un inquadramento del dolo. Il dolo è la forma più grave della colpevolezza ed il criterio normale di imputazione soggettiva (come desumibile dalla lettura dell’art. 42 comma II cod. pen.); il dolo è la previsione e volontà dell’evento (pericoloso o dannoso), come precisato dall’art. 43 c.p. Il dolo può esprimersi attraverso diverse manifestazioni (species); tali manifestazioni si differenziano tra loro per il più o meno grave disvalore normativo che esprimono nel rivelare l’atteggiamento del soggetto agente verso il divieto della norma penale, incontrando una diversa risposta sanzionatoria, graduabile ex art. 133 c.p., che enumera tra i criteri di gravità del reato, anche l’intensità del dolo (smentendo la vecchia tesi secondo cui il dolo non sarebbe suscettibile di gradazione). E’ stato detto che il dolo è previsione e volontà; nell’ambito della previsione (o rappresentazione) si suole individuare varie species nell’ambito dello spatium deliberandi: tenendo conto di tale criterio discretivo, è stata elaborata la fondamentale sequenza, in ordine di intensità crescente, tra dolo d’impeto e dolo di proposito, del quale la premeditazione costituisce la species più rilevante. Nell’ambito della volontà, di massima, si suole distinguere tra dolo intenzionale, diretto ed eventuale (alcuni distinguono solo tra dolo diretto e dolo eventuale); il dolo intenzionale ricorre quando il soggetto vuole, come obiettivo, proprio la realizzazione della condotta criminosa (nei reati di mera condotta) ovvero la causazione dell’evento (nei reati di evento). Ricorrerebbe, invece, secondo l’orientamento giurisprudenziale più recente, il dolo diretto quando la conseguenza del proprio agere (evento antigiuridico) è accettata come di probabile verificazione; nel dolo eventuale, l’agente accetta il rischio di verificazione dell’evento antigiuridico ritenendolo possibile. Sinteticamente: il dolo intenzionale è il più grave perché mira direttamente alla realizzazione dell’evento antigiuridico (non vi è accettazione del rischio, perché si vuole direttamente compiere il reato, in tutti i suoi elementi costitutivi), mentre le altre due tipologie di dolo si differenziano per la minore o maggiore possibilità (probabilità) di verificazione (si accetta il rischio, ritenendolo possibile o probabile). Si è soliti, poi, distinguere il dolo eventuale dalla colpa con previsione (o colpa cosciente): il dolo eventuale configurerebbe l’ipotesi in cui l’agente si rappresenti vari eventi possibili collegati alla sua condotta, e decida di agire accettando il rischio della verificazione di uno o più eventi antigiuridici, diversamente dalla colpa con previsione, dove l’agente, pur essendosi rappresentato uno o più eventi antigiuridici possibili, decide di agire nella convinzione che certamente l’evento (o eventi) non voluto (o non voluti) non si realizzerà (o non si realizzeranno); nella colpa cosciente vi è essenzialmente un errore di calcolo (sulle possibilità scientifiche di realizzazione dell’evento) ovvero, secondo altra tesi, una generica imperizia o superficialità. Nel caso di specie, che elemento psicologico sembra potersi individuare? Si tratta di dolo eventuale o colpa cosciente? Tizio risponderà di omicidio doloso (per dolo eventuale) o colposo (sub specie di colpa con previsione)? In considerazione del fatto che Tizio ha agito nella convinzione di non poter contagiare la compagna e del fatto che, imprudentemente, non si è informato maggiormente sulle possibilità di contagio, sembrerebbe che possa rispondere a titolo di colpa, in quanto vi è stata ignoranza medica, superficialità e imperizia, ma Tizio non si è mai rappresentato come possibile la morte della compagna Tizia. In un’ottica difensiva (seppur in parziale contrasto con i doveri costituzionali di solidarietà), non sarebbe del tutto fuori luogo ipotizzare che non vi è un obbligo di trasparenza tra compagni e/o conviventi, come vi è per i coniugi, con la conseguenza logica-deduttiva che, se non vi è a monte un obbligo di trasparenza, allora, a valle non vi può essere una responsabilità per violazione di 24 quell’obbligo; altresì, sempre in un’ottica difensiva, sarebbe anche possibile provare a dimostrare che la tipologia di HIV contratta da Tizio, sul piano scientifico, generalmente non è “contagiosa”, ma il contagio sarebbe derivato da un caso fortuito (imprevedibile con la normale diligenza). Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -Il lancio di sassi dal cavalcavia avviene sotto la chiara consapevolezza del rischio di poter uccidere. Si tratta di dolo alternativo e non dolo eventuale, con la conseguenza che si può configurare anche il tentativo. Suprema Corte di Cassazione, Sezione Prima Penale, sentenza n.5436/2005 (Presidente: R. Teresi; Relatore: G. Corradini) LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE I PENALE SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza 14/6/2004 la Corte d’Appello di Torino confermo’ la sentenza emessa a seguito di rito abbreviato dal Tribunale di Tortona in data 11/7/2003 con cui M. S. era stato ritenuto colpevole dei reati di tentato omicidio ai danni di S. S. e di attentato alla sicurezza dei trasporti, per avere, l’8 luglio 2003, in Castelnuovo Scrivia, lanciato un sasso dal diametro di dodici centimetri dal cavalcavia n. 49 sulle autovetture che transitavano sulla sottostante autostrada A7 in direzione di Milano, cosi’ colpendo l’autovettura Mercdes condotta da S. S. e ponendo in pericolo la sicurezza dei trasporti, non riuscendo nell’intento per la pronta reazione della persona offesa che riusciva a controllare l’autovettura e ad arrestare la cosa, e, ritenuta la continuazione fra i due reati contestati, lo aveva condannato alla pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione, con la concessione delle attenuanti generiche e della diminuente per il rito. Nella mattinata dell’8 luglio 2003 erano giunte ai Carabinieri alcun segnalazioni da parte di automobilisti che transitavano sulla A7 i quali avevano notato un giovane, accuratamente descritto dai segnalanti, posto a fianco di una autovettura di piccola cilindrata, che aveva appena lanciato un sasso sulla autostrada sottostante dal cavalcavia n. 4. Altra segnalazione proveniente da una insegnante, M. E., specificava che il giovane che aveva lanciato il sasso era un suo ex alunno, certo S. M., che era stato visto nella circostanza dalla M. mentre si sforzava, essendo di bassa statura, alla fine comunque riuscendoci, di fare superare al sasso una rete di recinzione, alta m. 1,80, che era stata posta sul cavalcavia proprio per evitare il lancio di sassi in quanto, qualche anno prima, vi era stato un episodio mortale nel vicino cavalcavia della Callosa che aveva avuto grande eco giornalistica. La M. aveva visto bene in viso il giovane allorche’ si era voltato verso di lei, dopo il fatto, mentre si 25 puliva le mani ed aveva visto la macchina del giovane, una Punto grigia. I carabinieri, giunti sul posto, avevano rinvenuto una Mercedes con un ce4rchione ed un pneumatico rotto, il cui conducente, S. S., al contrario di altri conducenti di autovetture in transito in quel momento, non era riuscito ad evitare un sasso, dal diametro di 12 cm. Circa e del peso di circa 3 kg., che si trovava al centro della sua corsia di percorrenza. Sul cavalcavia furono rinvenuti un paio di occhiali che in seguito risultarono appartenere al M. e che il ragazzo aveva dimenticato sul luogo del fatto. Il M. era stato rintracciato dopo circa un’ora alla guida della Punto grigia con cui era andato nel frattempo a prendere sul posto di lavoro la propria madre, che aveva a bordo, proprio mentre stava tornando sul cavalcavia alla ricerca degli occhiali li dimenticati. La perquisizione immediatamente eseguita sulla vettura aveva consentito di rinvenire altri nove sassi delle stesse dimensioni di quello lanciato sull’autostrada. L’imputato aveva ammesso la condotta sostenendo che aveva prelevato il sasso dai dieci che aveva in macchina, a suo dire li collocati per difesa personale, e di averlo lanciato dopo aver guardato bene la strada stando attento a non colpire nessuno, aggiungendo che pero’, essendo diagnosticato che ho colpito la macchina, ammetto di aver sbagliato. Aveva altresi’ sostenuto di avere agito a causa delle sue condizioni di infelicita’ e solitudine dovute a problemi di disoccupazione e familiari collegati anche alla morte di suo padre avvenuta dodici anni prima. In sede di appello fu disposta una perizia psichiatrica sull’imputato, sollecitata dalla sua difesa e motivata d alcuni episodi della vita del giovane M. che avevano anche determinato un trattamento terapeutico presso il Servizio psichiatrico di base di Voghera, ma il perito concluse nel senso che l’imputato, pur risultando affetto da ritardo mentale lieve e da disturbo passivo, aggressivo di personalita’, era soggetto capace pienamente di intendere e di volere all’epoca dei fatti e capace di stare in giudizio in quanto i predetti disturbi avevano, per entita’ ed essenza, rilevanza unicamente clinica e non anche psichiatrica, forense. La Corte di Appello, investita dall’appello del M., confermo’ pertanto il giudizio di imputabilita’ ma anche quello di colpevolezza espresso dai giudici di primo grado, rilevando in particolare che sussisteva la idoneita’ e la univocita’ degli atti posti in essere dall’imputato a provocare la morte dell’automobilista che transitava nella sottostante autostrada, avendo egli lanciato, in corrispondenza della corsia di scorrimento delle auto, un sasso di rilevante massa da un punto del cavalcavia da cui, come era stato accertato, non era possibile vedere le auto che transitavano in basso e che in quel momento erano numerose, essendo notoriamente quella autostrada a quell’ora notevolmente trafficata, addirittura sforzandosi per superare con il lancio la rete metallica posta proprio per impedire che un sasso lanciato da quel punto potesse provocare la morte degli automobilisti in transito, cosi’ evidenziando la volonta’ di cagionare la morte, almeno sotto il profilo del dolo alternativo essendosi posto quanto meno in una posizione di indifferenza rispetto alle possibili conseguenze del suo gesto cosi’ accettando una altissima probabilita’ che la massa del sasso scagliato colpisse una vettura in transito provocando la morte degli occupanti nonostante la residua possibilita’ di un evento diverso. Nel contempo la Corte di Appello ritenne che la mancata reiterazione del lancio di sassi, pur presenti nella vettura del M., non escludesse il dolo omicidiario considerato che era comparsa sulla 26 scena la sua insegnante M e che comunque quell’unico lancio gia’ integrava gli estremi del reato contestato. Ha proposto ricorso per cassazione la difesa dell’imputato chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata e lamentando con due motivi distinti: erronea applicazione degli artt. 56 e 575 c.p. [1] laddove la sentenza aveva ritenuto la sussistenza del tentativo di omicidio, in assenza del dolo diretto di tale reato, avendo la dottrina dominante e la giurisprudenza consolidata escluso la compatibilita’ del dolo eventuale con il tentativo e dovendosi nella specie escludere che l’imputato volesse uccidere il S. che neppure conosceva o qualsiasi altro automobilista in transito, posto che aveva lanciato il sasso, senza poter vedere le autovetture in transito, dalla parte opposta del cavalcavia rispetto alla direzione di marcia della sottostante autostrada e che il sasso non aveva colpito direttamente la vettura del S., bensi’ era caduto sulla carreggiata dove era stato schivato da due autovetture mentre il S. non era stato capace di evitarlo e lo aveva urtato con una ruota, riuscendo comunque ad arrestare la marcia; manifesta illogicita’ della motivazione della sentenza impugnata laddove, ai fini della valutazione della sussistenza o meno del dolo omicidiario, non aveva considerato la particolare situazione di anormalita’ psicologica dell’imputato e la irrazionalita’ del suo gesto e della condotta successiva che lo aveva portato a tornare verso il luogo del fatto insieme alla madre, al fine di escludere la coscienza e la volonta’ del fatto quanto meno sotto il profilo dell’elemento psicologico. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha concluso per il rigetto del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Il primo motivo di gravame attiene alla individuazione dell’elemento psicologico del reato contestato che, ad avviso della difesa dell’imputato, non potrebbe essere caratterizzato come dolo diretto, bensi’, al massimo, come dolo eventuale, in quanto tale incompatibile con oil tentativo di omicidio, come ormai ritenuto da tempo dalla giurisprudenza consolidata. Secondo la difesa del ricorrente il dolo diretto dovrebbe essere escluso poiche’ l’imputato non conosceva neppure la persona offesa e non aveva quindi alcun motivo per ucciderla e comunque aveva lanciato il sasso senza poter vedere le autovetture in transito, dal lato del cavalcavia opposto rispetto alla direzione di marcia delle vetture sulla sottostante autostrada, cosi’ rivelando che la sua volonta’ non era quella di uccidere il S. o qualunque altro automobilista in transito. La doglianza e’ infondata. La giurisprudenza di questa Corte e’ nel senso che costituisce tentativo di omicidio il lancio di sassi da un cavalcavia sulla sottostante autostrada in quanto tale azione, seppure non diretta, in ipotesi, a colpire singoli autoveicoli, e’ idonea, per la non facile avvisabilita’ degli oggetti che cadono all’improvviso dall’alto o che comunque siano gia’ giunti al suolo sulla carreggiata mentre i conducenti sono intenti ad osservare le macchine che precedono e seguono e per la consistente velocita’ tenuta generalmente dai conducenti in autostrada, a creare il concreto pericolo di incidenti stradali, anche mortali, al cui verificarsi, quindi, sotto il profilo soggettivo, deve intendersi diretta la volonta’ dell’agente (cfr. Cass. 30/4/2003 n. 1989). A tali corretti principi si e’ attenuto il giudice di merito il quale ha ritenuto che il lancio di sassi da un cavalcavia, oltretutto protetto da uno sbarramento laterale alto un metro e ottanta centimetri proprio per impedire qual lancio che aveva provocato poco tempo prima un evento mortale su quella stessa autostrada, evento che aveva suscitato grande allarme pubblico anche per la tragica emulazione che ne era seguita, costituisse una specifica condotta per ritenere che l’imputato volesse 27 provocare la morte degli automobilisti che transitavano sulla sottostante autostrada, alla stregua degli elementi sintomatici solitamente indicati dalla giurisprudenza per la individuazione del dolo diretto omicidiario, ed in particolare della raccolta di un rilevante numero di grossi sassi, rinvenuti all’interno della sua macchina, dell’impiego di un sasso del peso di ben 3 kg., che, lanciato dall’alto sulle auto in corsa, avrebbe certamente sfondato il parabrezza o quanto meno provocato la fuoriuscita di una vettura dalla sede stradale, dello specifico e ripetuto sforzo fatto dall’imputato, vista la sua bassa statura, per raggiungere tale risultato, della precedente morte di altra persona per una azione analoga con quelle stesse modalita’, ben nota all’imputato, nonche’ della accertata mancanza di visuale sulla autostrada dal cavalcavia , che non consentiva di verificare visivamente se in quel momento giungessero o meno delle macchine, anche se a quell’ora l’autostrada era notoriamente trafficata in modo notevole per cui le autovetture arrivavano in continuazione ed era praticamente impossibile che una autovettura non finisse colpita dal sasso ovvero vi finisse sopra subito dopo la sua caduta. Ne rileva a tal fine che l’imputato non conoscesse la vittima ne le altre persone che in quel momento circolavano sull’autostrada Milano- Genova, poiche’ all’imputato non interessava uccidere una specifica persona, essendo per lui indifferente, vista anche la sua struttura di personalita’, ben delineata nella perizia psichiatrica, che morisse una o altra persona. Si tratta eventualmente di inadeguatezza della causale alla stregua del sentire dell’uomo comune che pero’ non incide sulla sussistenza o meno della volonta’ omicida, essendo varie per intensita’ le ragioni di ciascun individuo e potendosi uccidere anche per un futile motivo, essendo l’omicidio di per se un gesto sempre irrazionale che non puo’ quindi essere giudicato alla stregua di criteri razionali. Ugualmente non rileva che l’imputato potesse o meno vedere le auto in transito, poiche’ sapeva benissimo che sotto il cavalcavia, sulla autostrada Milano- Genova, con direzione verso Milano, transitava a quell’ora una fila continua di autovetture e proprio per questo aveva scelto quel luogo e quell’ora per il lancio dei sassi, correndo il rischio di essere visto e riconosciuto (come poi e’ stato in effetti visto e riconosciuto dalla sua ex insegnante) ed anzi proprio la circostanza, accertata positivamente, che non potesse vedere dal cavalcavia le macchine in corsa sulla sottostante autostrada, dimostra la sua totale indifferenza verso la vita delle persone che transitavano in quel momento dirette verso Milano. Si ha invero dolo eventuale allorquando l’agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilita’ del verificarsi di una diversa conseguenza della propria condotta e, ciononostante, agisca accettando il rischio di cagionarla, mentre il dolo alternativo sussiste qualora l’agente si rappresenta e vuole indifferentemente, al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, che si verifichi l’uno o l’altro degli elementi casualmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria (nella specie che muoia una persona o piu’ persone ovvero che una o piu’ vetture finiscano fuori strada), sicche’, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro, egli risponde per quello effettivamente realizzato (cfr. per tutte Cass. 10/4/2003 n. 16976). Orbene, e’ di tutta evidenza che, come giustamente ritenuto dai giudici di merito, nel caso in esame si sarebbe percio’ trattato non gia’ di dolo eventuale bensi’ di dolo alternativo, non potendo il lancio di sassi diretto ad un fine diverso da quello di colpire una macchina in transito, ne l’imputato stato in grado di indicare un diverso fine, con la conseguenza che deve ritenersi, anche in tal caso, configurabile il reato di tentato omicidio poiche’ la particolare manifestazione di volonta’ dolosa definita dolo alternativo deve qualificarsi come diretta, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro evento (v. Cass. 14/1/2000 n. 385). 28 E’ infondata anche la seconda doglianza diretta ad escludere il dolo sotto il diverso profilo della mancanza di coscienza o volonta’ collegata alla anormalita’ psicologica dell’imputato. La difesa dell’imputato ha accettato il giudizio di sussistenza della imputabilita’ emergente dalla perizia psichiatrica disposta in grado di appello, dovendo convenire sulla sussistenza della capacita’ di intendere e di volere dell’imputato, nonostante i disturbi di personalita’ di cui e’ affetto, che sono di indubbia gravita’ e che hanno gia’ portato i giudici di merito a collocare il giovane M. in una struttura protetta diversa dal carcere, ma che non escludono ne fanno grandemente scemare la sua imputabilita’ ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 88 e 89 c.p.; pero’ ha ritenuto che tali disturbi psicologici potessero escludere la coscienza e volonta’ del fatto illecito e quindi la sussistenza del dolo ai sensi dell’art. 43 c.p. L’argomentazione non e’ condivisibile poiche’ nei rapporti fra imputabilita’ e dolo, l’indagine sul primo dei suddetti elementi va tenuta ben distinta d quella del secondo, essendo quest’ultimo (il dolo) un elemento costitutivo del delitto, la cui sussistenza va in ogni caso accertata secondo le regole generali, e cio’ con riferimento all’ipotesi di un soggetto dotato di normale capacita’ di intendere e di volere, mentre l’imputabilita’ costituisce semplicemente il presupposto per l’affermazione delle responsabilita’ in ordine al reato commesso, il quale dovra’ pertanto essere gia’ stato compiutamente qualificato nelle sue connotazioni soggettive ed oggettive. L’imputabilita’, quale capacita’ di intendere e di volere, e la colpevolezza, quale coscienza e volonta’ del fatto illecito, esprimono quindi concetti diversi ed operano anche su piani diversi, cosicche’ neppure la mancanza di imputabilita’ impedisce la sussistenza del dolo, dovendosi prima accertare, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l’evento sia stato prodotto secondo l’intenzione, oltre l’intenzione o contro l’intenzione, per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento in ragione del suo stato di mente; con la conseguenza che la colpevolezza anche del soggetto disturbato ed addirittura quella del soggetto infermo di mente deve essere valutata alla stregua delle regole di cui agli artt. 42 e 43 c.p., indipendentemente dalla perturbazione psichica e dalla riduzione del senso critico collegata alla malattia ovvero al disturbo di personalita’. In tal modo hanno correttamente operato i giudici di merito i quali hanno valutato la sussistenza del dolo in base al parametro normativo ed alla stregua dei principi giurisprudenziali consolidati, per cui il ricorso dell’imputato, siccome totalmente infondato, deve essere respinto, con le conseguenze di legge. PQM Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Roma, 25 gennaio 2005. Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2005. -Se si accetta il rischio della probabilità di verificazione dell’evento antigiuridico si tratta di dolo; se si accetta il rischio della possibile verificazione dell’evento antigiuridico vi è dolo eventuale. 29 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE PENALI SENTENZA 14.02.1996 n° 3571 Fatto Con sentenza della Corte di Appello di Milano del 20 maggio 1995, in parziale riforma di decisione del Tribunale di quella città del 14 novembre 1994, M. F. è stato condannato alla pena di anni sei e giorni venti di reclusione per i delitti di tentata rapina aggravata (artt. 56, 628 co. 1 e 3 cod. pen.), tentato omicidio aggravato artt. 56, 575, 61 n. 2 cod. pen.) e detenzione e porto illegale di pistola semiautomatica Beretta cal. 7,65 con matricola abrasa, tutti ritenuti in continuazione e commessi in concorso con certo T. M. . Hanno ritenuto concordemente i giudici di merito che il M. e il T. il 23 giugno 1994, si sono introdotti in una oreficeria di Milano per compiere una rapina e sono stati costretti alla fuga dalla reazione delle vittime e da operai che lavoravano nei pressi, intervenuti in soccorso. Inseguiti per la strada, il M. , che impugnava una pistola e che aveva esploso altri colpi, si è rivoltato e, dalla distanza di 4 - 5 metri, con il braccio ripiegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato un colpo verso il busto di certo P. C. , che è riuscito a scansarlo, mentre il secondo colpo si è inceppato. La Corte di Milano ha ritenuto il fatto integrante il tentato omicidio, ravvisando la sussistenza dell'elemento soggettivo "quantomeno a titolo di dolo eventuale". Il solo M. ha proposto ricorso per Cassazione deducendo il vizio di violazione di legge perché il dolo eventuale non è configurabile nel delitto tentato. La seconda Sezione della Corte, rilevando che, nonostante l'intervento delle Sezioni Unite (18 gennaio 1983, n. 6309, Basile, 159.825), persisteva contrasto sul punto nelle decisioni delle Sezioni Semplici, con ordinanza del 17 novembre 1995 ha rimesso la decisione del ricorso alle Sezioni Unite. Diritto Il ricorso, con il quale si sostiene non essere configurabile il tentativo con dolo eventuale, deve essere rigettato perché infondato. È infondato perché nella specie sussiste il dolo diretto e non quello eventuale; cade quindi la base stessa del ricorso e non può essere riesaminata la questione, già risolta nel senso della compatibilità 30 da queste Sezioni Unite (18 giugno 1983, n. 6309, Basile, 159.825), con decisione non condivisa talvolta dalle Sezioni Semplici, talché ciò ha indotto la Seconda Sezione della Corte a riproporre la questione stessa. Già le Sezioni Unite, investite del problema in fattispecie analoga (12 ottobre 1993, n. 748, Cassata, 195.804), hanno chiarito quali siano i livelli crescenti della volontà dolosa, che va dal dolo eventuale, in cui vi è la sola accettazione del rischio dell'evento, al dolo diretto in cui l'evento è accettato perché altamente probabile o certo, al dolo intenzionale quando l'evento è perseguito come scopo finale. In proposito conviene ulteriormente precisare, perché non prosegua una errata tendenza giurisprudenziale ad estendere il dolo eventuale "per superare le difficoltà probatorie che talora si riscontrano nell'accertamento della..... volontà omicida" (cfr. Sez. Un. 15 dicembre 1992, Cutruzzolà) o per semplificare la motivazione sul dolo, che tale forma di dolo sussiste quando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il rischio di cagionarle. Quando invece si entra nel campo della probabilità, specie quando la realizzazione del fatto si presenti all'agente come altamente probabile - e sarà il concreto accadimento stesso a segnare la linea di demarcazione - non si può ritenere che il colpevole si limiti ad accettare il rischio dell'evento, ma accettando l'evento lo vuole, sicché versa in dolo diretto e non eventuale (cfr., limitatamente alla distinzione tra dolo eventuale e alternativo, Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428, Casu, 189.405). Nella specie, risulta dalla sentenza della Corte di Milano che il ricorrente M. ha commesso il tentato omicidio dell'operaio P. , che lo inseguiva, con dolo diretto. Già in precedenza il M. , inseguito, si era voltato ed aveva sparato prendendo la mira verso terra alla destra di due inseguitori. Quasi raggiunto dal P. , si è rivoltato e da 4 - 5 metri, con il braccio piegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato verso il busto dell'inseguitore che è riuscito a scansare il colpo: il secondo colpo si è inceppato. La dinamica dei fatti rende chiaro che il M. aveva deciso di evitare comunque la cattura, anche uccidendo l'inseguitore, La micidialità dell'arma, la voluta direzione dei colpi verso parte vitale del corpo dello inseguitore, la distanza ravvicinata facevano apparire estremamente probabile l'uccisione della persona contro la quale l'azione era diretta, che nella specie si è fortunosamente salvata. Essendo l'evento altamente probabile il M. non si è limitato ad accettare il rischio del suo verificarsi, ma l'ha voluto. Pertanto, la situazione di fatto quale ritenuta dalla corte di merito è di dolo diretto e l'errore di diritto in cui è incorsa nello specificare l'elemento soggettivo del tentativo di omicidio in esame "quantomeno a titolo di dolo eventuale", deve essere corretto senza rinvio. Trattandosi di dolo diretto, il ricorso del M. , basato - come già notato - sulla non configurabilità di un tentativo con dolo eventuale, deve essere rigettato con conseguente sua condanna al pagamento delle spese del procedimento. 31 P.Q.M Visto l'art. 616 cod. proc. pen.; Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Roma, 14 febbraio 1996. DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 12 APR. 1996 FAVOREGGIAMENTO DEL FAMILIARE TRACCIA: Tizio è un giovane di 23 anni che da diverso tempo frequenta cattive compagnie. In particolare, Tizio, Caio e Sempronio acquistano prodotti falsificati per rivenderli in negozi griffati a prezzo molto superiore del valore reale e di acquisto. Martufella è la madre di Tizio che da diversi mesi è a conoscenza dell’attività illecita del figlio. Un giorno Tizio viene a sapere che i carabinieri lo stanno cercando; Tizio scappa all’estero, in Svizzera, dandone comunicazione solo alla madre. I carabinieri, poi, si recano da Martufella per avere informazioni circa la presunta attività illecita compiuta da Tizio; i carabinieri chiedono anche a Martufella dove sia andato Tizio. Martufella dichiara di non sapere alcunché. Diversi giorni dopo le dichiarazioni, Martufella si reca dal legale Saverio. Il candidato affronti la questione giuridica proposta, non tralasciando di evidenziare gli istituti giuridici sottesi alla fattispecie presa in esame. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente si poteva entrare nel cuore del problema: Martufella, che ha dichiarato il falso nei confronti dei Carabinieri, per agevolare il figlio Tizio, ha compiuto qualche reato? Prima facie, sembrerebbe potersi dire che Martufella abbia compiuto il reato di favoreggiamento personale, ex art. 378 c.p., in favore del figlio. E’ davvero così? Invero, Martufella sembra aver agito nell’ambito dei casi di non punibilità, ex art. 384 c.p., perché ha agito mossa dalla necessità di salvare il figlio dal nocumento all’onore che poteva derivare da un processo penale. Nell’ambito dell’art. 384 c.p., era necessario soffermarsi sul concetto di necessità; generalmente, in questi casi, la giurisprudenza sostiene che se il parente presunto favoreggiatore (nel caso di specie la madre Martufella) dichiara il falso, nel senso di cercare di depistare le indagini dicendo ad esempio che, il favoreggiato, si trova in un luogo al posto di un altro, si configura il reato di favoreggiamento 32 personale, perché vi è un quid pluris che esorbita dallo stretto necessario volto a tutelare l’onore; se, invece, il parente presunto favoreggiatore dichiara il falso nei limiti dello stretto indispensabile (come nel caso di specie che la madre si limita a comunicare di non sapere alcunché), ben potrebbe trovare applicazione l’art. 384 c.p. In questo senso, pertanto, ed alla luce della giurisprudenza prevalente, Martufella ben potrebbe non essere ritenuta responsabile di alcun reato. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono, al fine di conoscere gli orientamenti giurisprudenziali più recenti. -Se il genitore mente per salvare il figlio, non c’è favoreggiamento personale. CASS. PEN- SEZ. VI- 6 settembre 2006, n. 29769- Pres. Criscuolo – est. Cortese Fatto Con sentenza in data 17 dicembre 2004 il Gup del Tribunale di Udine applicava ex articolo 444 Cpp a H. M. la pena di due di reclusione per il delitto di cui all’articolo 378 Cp.Propone ricorso l’imputata, deducendo che la sua condotta non è punibile ex articolo 384 Cp, in quanto posta in essere per la necessità di proteggere il figlio H. C., imputato di concorso nel delitto ex articolo 648 Cp. Diritto Il ricorso è fondato.Come, invero, risulta in atti, H. C., accusato di concorso nel delitto di ricettazione, in relazione al quale furono rese ai Carabinieri le dichiarazioni false e reticenti che hanno dato luogo al presente procedimento, è figlio della prevenuta. La stessa, quindi, andava e va ritenuta non punibile per il reato ascritto, a sensi del comma 1 dell’articolo 384 Cp, essendo evidente che la sua condotta fu determinata dalla necessità di evitare al figlio le gravi e inevitabili conseguenze sulla libertà e sull’onore che gli sarebbero derivate dall’accertamento della sua colpevolezza per il delitto ex articolo 648 Cp.L’impugnata sentenza deve, pertanto, essere annullata senza rinvio. PQM Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, trattandosi di persona non punibile ai sensi dell’articolo 384, comma 1 Cp. - Il falso deve essere inevitabile, ex art. 384 c.p., per non essere punibile. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 33 SEZIONE VI PENALE Sentenza 20 giugno 2006 - 2 agosto 2006, n. 27614 Presidente Sansone - Consigliere Romano Repubblica Italiana In Nome del Popolo Italiano La Corte Suprema di Cassazione VI sezione penale (…) Con sentenza 16 luglio 2004 la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma della sentenza 5/12/2002 del tribunale della stessa città, (con la quale XXX L. era stata condannata per il reato di cui all’art. 372 c.p. ad anni 1 di reclusione- le era contestato di aver affermato il falso come testimone, in quanto aveva dichiarato, all’udienza 1/2/2001, dinanzi al Tribunale di Trento: "di essere stata lei a telefonare alla sorella XXX P.L. il giorno 30/4/1999; che la predetta telefonata aveva lo scopo di avvisare la sorella che il notaio YYY attendeva che (la stessa) e gli altri due fratelli si recassero da lui a sottoscrivere la cancellazione di due ipoteche già pagate in quanto lei intendeva vendere e l’acquirente senza la cancellazione non avrebbe acquistato; che, nella mattinata del 30/4/1999, ella si era incontrata con il notaio YYY per trattare di queste questioni con il compratore e che al rientro dallo studio del notaio aveva chiamato la sorella (suddetta); che ricordava il giorno esatto per averlo appreso dalla sua agenda del 1999", concedeva all’imputata stessa la non menzione alla condanna. Avverso detta sentenza la XXX ha proposto ricorso per Cassazione. Denunzia erronea applicazione della legge penale. Deduce: che erroneamente la Corte d’Appello di Trento non ha ritenuto sussistente l’esimente di cui all’art. 384 c.p., considerando la necessità di salvare un proprio congiunto dal nocumento che consegue ad una condanna, adeguatamente salvaguardata dalla facoltà di astensione dalla deposizione; che il prevalente orientamento della recente giurisprudenza di legittimità ritiene applicabile tale esimente anche quando il prossimo congiunto dell’imputato abbia operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare. Osserva il Collegio che il ricorso è infondato. Al riguardo correttamente la corte territoriale, si è espressa nel senso che "… l’interesse del testimone, il quale è compreso dalla deposizione testimoniale, ‘dalla necessità di salvare un prossimo congiunto dal nocumento’ che consegue ad una condanna, sia adeguatamente salvaguardato con la facoltà di astensione dalla deposizione (cfr. Cass. Sez. VI, 16/11/2000). Il testimone è, infatti, posto nella condizione di scegliere consapevolmente – in seguito all’avvertimento del giudice – se sottoporsi alla testimonianza con conseguente obbligo di dire la verità ovvero se esimersi dalla stessa; con tale scelta egli è in grado di sottrarsi ‘all’inevitabilità del nocumento’ che potrebbe derivare al prossimo congiunto dalla verità della sua deposizione". In conformità dell’avviso della corte territoriale, questo Collegio non condivide l’orientamento della sentenza della Sezione VI, 4/10/2001, che come si è detto, estende l’applicabilità dell’esimente anche nei confronti di coloro che abbiano operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare, ma ritiene di restare nel solco della prevalente giurisprudenza di legittimità per ragioni che, come di seguito sarà detto, appaiono inconfutabili. La pronunzia dinanzi menzionata si fonda preminentemente sull’assunto che la causa di non punibilità di cui alla disposizione in parola "… presuppone una situazione di necessità, nettamente distinta da quella prevista in via generale dall’art. 54 c.p., poiché non richiede (come in quest’ultimo) che il pericolo non sia stato causato dall’agente, nella quale il nocumento alla libertà e all’onore è evitabile solo con la commissione di uno dei reati contro l’amministrazione della giustizia", ma non coglie che tale netta distinzione è, viceversa, smentita dal testo delle disposizioni. Orbene questo Collegio ritiene che l’ipotesi in cui la situazione di necessità sia stata 34 volontariamente causata dal soggetto agente, esplicitamente esclusa (art. 54 c.p.) nello stato di necessità, nel cui disposto è detto che il pericolo di un danno grave alla persona deve essere dall’agente "… non volontariamente causato", non può avvalersi di un trattamento meno favorevole rispetto all’esimente di cui all’art. 384 c.p., per incontrovertibili argomenti, attinti all’interpretazione letterale della norma. Deve considerarsi: in primo luogo il significato dell’espressione "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore" che, cioè, indica chi è obbligato a fare cose contrarie alla sua volontà e, comunque, non spontanee; che, quando ciò avviene, sussiste una situazione in cui certamente non versa il soggetto che ha scelto di non astenersi dal deporre, così determinando esso stesso la situazione di necessità; in secondo luogo l’aggettivo "inevitabile", inevitabilità che non sembra più sussistere allorché l’agente avrebbe potuto evitare la situazione necessitante avvalendosi della facoltà di non rispondere e così scongiurando il nocumento derivante da una sua testimonianza veritiera; in terzo luogo che l’ultima parte del comma 2 dell’art. 384 col dire "… la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto a rifornire informazioni ai fini dell’indagine o assunto come testimone (…) avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni, testimonianza …", procura un ulteriore argomento favorevole alla tesi propugnata, in quanto riguardo a costoro non dovrebbe escludersi la punibilità nel caso in cui il soggetto sia stato avvertito della facoltà di astenersi e vi abbia rinunciato. Alla reiezione del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 20 giugno 2006. - Presentare la fotocopia di un documento non è falso. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE SENTENZA 11-07-2005 / 30-09-2005, N. 35165 Svolgimento del processo - Motivi della decisione D. Loris è stato condannato dal Tribunale dell'Aquila alla pena di m. 6 di reclusione per il delitto di cui agli artt. 477-482 c.p., avendo alterato la fotocopia di un certificato del servizio veterinario dell'USL n. 1 di Agnone, inserendovi un capo bovino e modificando la data. La corte d'appello confermava. Ricorre il difensore, deducendo il vizio di motivazione e la violazione di legge: · il fatto non sussiste, poichè il falso cade su una semplice fotocopia; · Non v'è prova della commissione del fatto, onde può al più configurarsi, nella specie, il reato di cui allo art. 489 c.p.; · erroneamente non è stata applicata l'attenuante di cui all'art. 482 c.p. e sono state negate le generiche, nonchè la sospensione condizionale della pena. Le doglianze sono prive di fondamento. E' versata in fatto quella che nega la commissione dell'addebito, in spregio alla ricostruzione storica del fatto, così come operata dai giudici di merito. Infondate sono tutte le altre. Fuorviante e fallace è la tesi secondo cui il reato di falso si configura se abbia ad oggetto una copia fotostatica. Tanto può, infatti, affermarsi solo se la copia predetta sia presentata come tale, dal momento che essa produce effetti giuridici solo se autenticata o non espressamente disconosciuta (sez. 5^ 5.5.98, n. 11185, Detti). 35 Al contrario, la fotocopia integra il reato di falsità materiale quando sia presentata non come tale, ma con l'apparenza di un documento originale, atto a trarre in inganno i terzi di buona fede (sez. 5^, 17.6.96, n. 7717, Jacobacci; 15.4.99, n. 7566, Domenici). Il giudice si è attestato su un livello di pena assai prossimo al minimo edittale, onde appare evidente che ha tenuto conto della fattispecie delineata dagli artt. 477 e 482 c.p. (che non configura un'attenuante, come sembra ritenere il ricorrente), ascritta al D.. I precedenti penali sono stati ritenuti ostativi esplicitamente alla sospensione condizionale della pena, implicitamente alle richieste generiche, per il cui riconoscimento non è stato individuato alcun elemento di meritevolezza. Il ricorso va rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese del procedimento. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Così deciso in Roma, il 11 luglio 2005. Depositato in Cancelleria il 30 settembre 2005. DIFFAMAZIONE E DIRITTO DI CRITICA TRACCIA: Tizio è un esponente politico di livello nazionale. Tizio veniva invitato da Sempronio, a tenere una relazione sul programma elettorale ed a farsi intervistare dai diversi giornalisti. Alla relazione, che veniva organizzata in un teatro nella bellissima città di Palermo, partecipavano Caio, Matrix e Sandro. Caio, Matrix e Sandro erano giornalisti del “Dieciore”, prestigioso quotidiano locale, noti per articoli particolarmente velenosi e di corrente politica avversa a Tizio. Tizio incominciava a parlare di una serie di iniziative, quando Caio gridava “Buffone, fatti processare”; dopo le urla si sedeva comodamente, attendendo eventuali repliche. Poco dopo, Caio si alzava, di nuovo, in piedi e gridava: “Sei un buffone, perché non parli delle tangenti e del processo a tuo carico iniziato un anno fa?”; successivamente, Caio si sedeva. L’incontro terminava dopo un’ora circa, dall’intervento di Caio. Un mese dopo, Caio si recava da un legale. Il candidato rediga motivato parere favorevole a Caio, dopo aver premesso brevi cenni sul rapporto tra diffamazione e diritto di critica. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire (molto sinteticamente il fatto). Successivamente, era necessario parlare del rapporto tra diffamazione e diritto di critica. La diffamazione è generalmente ritenuto reato di dolo generico (non si deve per forza voler offendere il soggetto passivo, ai fini della punibilità); i requisiti necessari alla sussistenza della diffamazione (dal punto di vista della condotta oggettiva) sono stati individuati in: -assenza dell’offeso; -offesa all’altrui reputazione; -comunicazione con più persone (si ritiene configurabile la condotta omissiva, ad esempio, nell’ipotesi in cui il diffamante non aggiorni una notizia già resa nota). Generalmente, il reato di diffamazione (la diffamazione può esistere anche tramite internet) non è 36 configurabile laddove sia stata posta in essere una condotta diffamatoria nell’esercizio di un diritto, ex art. 51 c.p., come quello di manifestazione libera del pensiero (anche sub specie di diritto di critica e satira). Tuttavia, affinché no siano superati i limiti consentiti dell’art. 51 c.p. e non si arrivi all’eccesso colposo, è necessario, secondo la tesi dominante, che il “diffamante”si esprima rispettando la pertinenza (le affermazioni esternate devono rivestire interesse per l’opinione pubblica) e continenza (correttezza nell’esposizione dei fatti). Vi è diffamazione nel caso di specie? A rigore, nell’ipotesi presa in esame, più che emergere un rapporto tra diffamazione e diritto di critica, sembrerebbe emergere il rapporto tra ingiuria e diritto di critica, perché la esternazioni fatte da Caio sembravano dirette a Tizio e non ai presenti; id est, sembrerebbe emergere un’offesa al decoro ed onore di una persona, piuttosto che la comunicazione con terzi, tanto più che la diffamazione per configurarsi richiede l’assenza dell’offeso (in quanto si dice “fuori dei casi indicati nell’articolo precedente”), diversamente dal caso de quo (tanto più che, poi, tale argomentazione è più favorevole al Caio). Sussiste, quindi, ingiuria? Al quesito si potrebbe rispondere negativamente, perché erano state poste domande di interesse pubblico, senza eccedere i limiti di continenza (l’affermazione di “buffone” riveste una certa critica più che offesa); nello stesso senso, d’altronde, si è espressa la giurisprudenza più recente (si veda la sentenza della Cassazione 19509/2006, sotto riportata). Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -Dare del "buffone" al Presidente del Consiglio dei Ministri può non integrare il delitto di ingiuria (o diffamazione) qualora l'esternazione, seppur aspra e forte, si contestualizzi nell'ambito di una critica politica rispettosa dei requisiti previsti dall'art. 51 c.p. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 7 giugno 2006 n. 19509 MOTIVI DELLA DECISIONE Il Giudice di pace di Milano condannava R.P. alla pena della multa, per avere offeso l'onore e il decoro di Berlusconi Silvio, Presidente del Consiglio dei Ministri, proferendo al suo indirizzo le seguenti espressioni: «Fatti processare, buffone! Rispetta la legge, rispetta la democrazia o farai la fine di Ceausescu e di don Rodrigo».Il giudice escludeva la sussistenza dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., sia per la violazione del limite della continenza, sia perché, essendosi svolto l'episodio nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, difettava il contesto stesso nel quale si inquadra il diritto di critica.Ricorre l'imputato, che ribadisce gli assunti difensivi prospettati, lamentando violazione di legge e vizio di motivazione. Egli rammenta il particolare momento in cui si svolse la vicenda, ossia il maggio 2003, quando il querelante, al centro del dibattito politico per il noto conflitto di interessi che lo riguardava, era imputato nel processo Sme a Milano e promuoveva leggi ad personam (legge Cirami, legge sulle rogatorie internazionali, legge di modifica del reato di falso in bilancio).Il prevenuto è un giornalista free lance, collaboratore di vari giornali, sensibile alla questione morale della politica italiana, organizzatore di dibattiti sul tema.L'epiteto "buffone", opportunamente contestualizzato, perde la sua carica lesiva e va comunque inserito nell'ambito della critica politica, che si esprime con toni 37 anche aspri e sgradevoli.Le circostanze dimostrano chiaramente - prosegue il ricorrente - che la strategia processuale adottata dal querelante era dilatoria e defatigante e, dunque, contraria ai doveri di un cittadino investito di elevate funzioni pubbliche. E tale strategia si coniugava con i ripetuti attacchi del partito del querelante contro l'ordine giudiziario.L'imputato richiamava pure la decisione del caso Oberschick da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo dell'1 luglio 1997, che ha ritenuto che l'espressione "idiota" rivolta da un giornalista ad un personaggio politico molto in vista in un articolo improntato a critica poteva essere considerata polemica, ma non costituiva gratuito attacco personale.Non diversamente, pertanto, assume il R., l'epiteto "buffone" esprime veemente, ma legittima critica rivolta al querelante, la cui condotta appariva elusiva del rispetto della legge.È stata presentata memoria difensiva all'odierna udienza.Il ricorso è fondato.Il diritto di critica può manifestarsi anche in maniera estemporanea, non essendo necessario che si esprima nelle sedi, ritenute più appropriate, istituzionali o mediatiche, ove si svolgano dibattiti fra i rappresentanti della politica ed i commentatori. Diversamente, verrebbe indebitamente limitato, se non conculcato, il diritto di manifestazione del pensiero che spetta al comune cittadino. Irrilevante, dunque, è la circostanza che nella specie la censura sia stata esternata nei corridoi di un palazzo di giustizia, che appare anzi particolarmente idoneo, come sede privilegiata, a suscitare riflessioni sul tema della legalità e del rispetto della legge.Che si tratti di una critica lo si desume in maniera non dubbia dal fatto che l'imputato ha fatto seguire all'epiteto incriminato espressioni che suonano come forte riprovazione della condotta tenuta dal querelante come homo publicus. L'esortazione pressante «fatti processare, rispetta la legge» è una vibrata ed accorata censura, istintivamente suscitata dalla presenza del personaggio che a tante polemiche e contrasti aveva dato origine.Non a caso il ricorrente ha rammentato temi scottanti, che hanno profondamente diviso l'opinione pubblica, dando luogo a critiche anche da parte della stampa estera: il conflitto di interessi, le leggi definite ad personam, il rapporto fra i parlamentari e la giurisprudenza.Del carattere di critica politica dell'esternazione è conferma ulteriore l'evocazione del dittatore romeno Ceausescu e del personaggio manzoniano simbolo di sopraffazione ed arbitrio (don Rodrigo).Ciò che denota il profondo senso di protesta per il vulnus che il R. riteneva inferto a valori primari dello stato di diritto, come quello della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge ed ai giudici che la applicano.È noto che il diritto di critica si concreta nella espressione di un giudizio o di un'opinione che, come tale, non può essere rigorosamente obiettiva. Ove il giudice pervenga, attraverso l'esame globale del contesto espositivo, a qualificare quest'ultimo come prevalentemente valutativo, i limiti dell'esimente sono costituiti dalla rilevanza sociale dell'argomento e dalla correttezza di espressione (Cass., Sez. V, 11211/1993, Paesini, in tema di diffamazione a mezzo stampa; 6416/2004, Pg in proc. Ambrosio; 7671/1984, Hendi).Non si è trattato di gratuità l'espressione alla persona del querelante, ma di forte critica, speculare per intensità al livello di dissenso nell'ambito politico e nell'opinione pubblica dalla delicatezza dei problemi posti ed affrontati dalla persona offesa.Il diritto di critica riveste necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili quando si svolge in ambito politico, in cui risulta preminente l'interesse generale al libero svolgimento della vita democratica. Ne deriva che, una volta riconosciuto il ricorrere della polemica politica ed esclusa la sussistenza di ostilità e malanimo personale, è necessario valutare la condotta dell'imputato alla luce della scriminante del diritto di critica di cui all'art. 51 c.p. (Sez. VII, 15236/2005, Ferrara ed altri).Il Giudice di pace ha estrapolato dalle frasi pronunciate dal R. il solo termine oggettivamente offensivo, negando l'esercizio del diritto di critica ed omettendo di contestualizzare, come dovuto, l'esternazione.Al contrario, si adombrano nel caso di specie gli estremi dell'esimente in questione, della quale resta da accertare se sia stato rispettato il limite della continenza (o correttezza formale).La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio al Giudice di pace di Milano, che si uniformerà al principio di diritto innanzi formulato e che motiverà congruamente in punto di continenza.Essendo stati accertati il sostrato fattuale della critica e l'utilità sociale della stessa, intesa come interesse della collettività alla manifestazione del pensiero ed alla conoscenza delle pur divergenti opinioni dei cittadini sui temi cruciali della vita pubblica, il giudice di merito dovrà stabilire se sia stato violato il limite della correttezza formale delle espressioni adoperate dal 38 R.Sotto tale profilo egli avrà cura di considerare: la desensibilizzazione del significato offensivo di talune parole, segnatamente in ambito politico e sindacale, ossia il mutato atteggiamento circa la loro offensività da parte dei consociati, in ragione delle peculiarità di taluni settori della vita pubblica, ove i contrasti si esprimono tradizionalmente in forma anche vibrata (per l'operatività della scriminante anche quando essa si esprima in toni aspri e di disapprovazione, v., ex pluribus, Sez. V, 12013/1998, Casanova; 761/1998, Pg in proc. Pendinelli ed altri; 11905/1997, Farassino; 5109/1997, Landonio).La critica può esplicarsi in forma tanto più incisiva e penetrante, quanto più elevata è la posizione pubblica della persona che ne è destinataria (Sez. VII, 11928/1998, Ruffa; 3473/1984, Franchini).Ciò vale a dire che il livello e l'intensità, pur notevoli, delle censure indirizzate a mo' di critica a coloro che occupano posizioni di tutto rilievo nella vita pubblica, non escludono l'operatività della scriminante.Pertinente appare, al riguardo, il richiamo fatto dal ricorrente alla decisione 1° luglio 1997 della Corte europea dei diritti dell'uomo (causa Oberschick c. Austria), che ha ritenuto la violazione dell'art. 10 della Convenzione da parte dell'Austria, in un caso in cui il direttore di un giornale aveva pubblicato un commento su un discorso tenuto dal leader del partito liberale austriaco e capo del governo della Carinzia, nel quale questi veniva definito "idiota". La Corte ha affermato in proposito:- che la libertà di espressione non vale solo per le "informazioni" e le "idee" recepite favorevolmente, ma anche per quelle che indignano ed offendono;- che se si tratta di un uomo politico, che è un personaggio pubblico, i limiti alla protezione della reputazione si estendono ulteriormente, nel senso che il diritto alla tutela della reputazione deve essere ragionevolmente bilanciato con l'utilità della libera discussione delle questioni politiche;- che se l'espressione "idiota" può essere offensiva dal punto di vista obiettivo, è anche vero che essa appare proporzionata all'indignazione suscitata dallo stesso ricorrente.Si impone, dunque, l'annullamento con rinvio al Giudice di pace di Milano per nuovo esame. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, con rinvio al Giudice di pace di Milano per nuovo esame. -La falsita’ della notizia esclude l’applicazione di qualsivoglia scriminante. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. VI PENALE - SENTENZA 16 marzo 2006 n. 9246 A seguito di querela sporta dall’avv. G.L., fu promossa azione penale per diffamazione aggravata nei confronti della S., tre articoli redatti dalla quale erano stati pubblicati sul quotidiano La Repubblica il 27/9/1996 e l’8/12/1996, e per omesso controllo nei confronti del M., direttore del detto giornale.Con sentenza del 28/3/2002, il Tribunale di Roma dichiarava gli imputati colpevoli dei reati loro ascritti, condannandoli alla pena ritenuta di giustizia.Su gravame dei medesimi, la Corte di appello di Roma il 14/11/2003 riformava parzialmente la pronuncia di primo grado, condannando la S. e il M. al pagamento di 2.000,00 Euro ciascuno, a titolo di riparazione pecuniaria, ma confermandola nel resto.Tale decisione veniva annullata con rinvio, per vizio procedurale, da questa Corte, con sentenza del 3/6/2004.Il giudice di rinvio, individuato in altra sezione della Corte di appello di Roma, assolveva, sulla sentenza oggi esaminata, da ogni addebito la S. perche’ il fatto non costituisce reato e il M. perche’ il fatto non sussiste.Pur rilevando la ormai intervenuta prescrizione dei reati, riteneva tale giudice di dover emettere pronuncia assolutoria, notando anzitutto che la persona del L. era, all’epoca, salita agli onori della cronaca in virtu’ della notoria amicizia con l’allora A. D.P. e del coinvolgimento in delicate indagini processuali; dal che 39 derivava l’interesse pubblico alla conoscenza di fatti che la riguardassero.Cio’ premesso, osservava il giudice a quo che i riferimenti alla persona fisica del querelante assumevano carattere o di irrilevanza per difetto di offensivita’, o di satira pittoresca, non venendone comunque deformata l’immagine del soggetto.Il primo articolo non affermava che i clienti dell’avv. L. avessero ricevuto un trattamento di favore in forza della suddetta amicizia, della quale si limitava a dare atto dell’esistenza, citando anche il veridico episodio di una compravendita di auto e della partecipazione (ancorche’ non in qualita’ di fondatore) del medesimo ad una societa’, che peraltro aveva scopi perfettamente leciti e che quindi non provocava alcun disonore per il soggetto citato.Quanto a dichiarazioni rese da tale M.R. a proposito di detta amicizia, il Tribunale aveva frainteso il senso della smentita da costui resa, che altro non era se non il desiderio di tenersi lontano dalla vicenda, senza peraltro negare le voci che collegavano il L. al D.P.E del resto, la notizia era riportata dalla S. con estrema cautela.Il secondo articolo, a parte le notazioni descrittive della persona fisica del querelante, conteneva notizie veritiere sulla carriera dell’avv. L., collocato anche nell’ambito di una societa’ denominata Promosud, rispetto alla quale era stata svolta un indagine giudiziaria, che rendeva la notizia di pubblico interesse.Del resto, una smentita di costui circa la posizione assunta in seno alla detta associazione (e non societa’) era stata pubblicata dalla giornalista.Quanto poi all’affermazione della S., per cui il L. faceva, piu’ che l’avvocato, l’intermediario di affari, si trattava di una evidente distorsione del patrimonio professionale del soggetto, che pero’ non aveva rilevanza penale, potendo se mai comportare titolo di risarcimento civilistico, per il mancato uso di termini intrinsecamente offensivi.In relazione ai successi professionali dell’avvocato, era mera deduzione di quest’ultimo che la S. intendesse attribuirli alla piu’ volte ricordata amicizia; e l’unico caso citato a sproposito non incideva sulla complessiva veridicita’ dell’assunto.Nel terzo articolo veniva citata una perquisizione nello studio del L., a proposito del quale si rammentava che rivestiva la toga ma fondava societa’, il che non era attributivo di attivita’ disdicevoli.E quanto alla menzione di una contabile bancaria oggetto di procedimento penale che si sarebbe concluso un anno dopo, l’articolista esercitava il diritto di cronaca e, citando e non condividendo una intervista del gia’ ricordato R., quello di critica, contenuto in termini non diffamatori.Avverso tale pronuncia ricorreva per cassazione, a mezzo del suo difensore, la parte civile L:, che denunciava violazione di legge e vizio della motivazione.La sentenza impugnata aveva erroneamente ricondotto nell’esercizio della satira i molteplici richiami alla fisicita’ del ricorrente; la satira deve essere chiaramente percepita come una voluta deformazione del soggetto cui si riferisce, mentre nel caso di specie gli argomenti svolti dal giudice (che negavano tale effetto) apparivano palesemente contraddittori ed ignoravano i limiti della continenza, qui superati per la reiterata virulenza delle singole descrizioni, oltre tutto in un contesto non rispondente al vero, in riferimento ad un inesistente procedimento disciplinare a carico del L.Quanto all’amicizia con l’ex magistrato, non era corretto limitarsi all’esame oggettivo delle espressioni usate, dovendosi tener conto del significato finale e complessivo degli apprezzamenti ed apparendo evidente l’insinuazione che essa avesse agevolato l’ascesa professionale del soggetto, con accostamenti suggestivi tra la vita privata e quella forense.La notizia dell’acquisto di una Mercedes era collegata alla persona del D.P. falsamente, essendo l’auto intestata a compagnia assicuratrice e rivenduta poi ad un prezzo documentato come molto inferiore a quello riferito dalla giornalista.Qualsiasi esimente ne era allora esclusa.La notizia relativa alla fondazione della soc. Isi Informatica era non veridica, come riconosciuto dalla sentenza, che contraddittoriamente poi la considerava non diffamatoria, distaccandola dal contesto dell’articolo che aveva il chiaro scopo di porre in cattiva luce il ricorrente.Altrettanto doveva dirsi per la Promosud (associazione e non societa’) posta in collegamento con la qualita’ allora di ministro del D.P., di nuovo accostato al L. con intento denigratorio, derivante dalla qualificazione di avvocato del malaffare; solo una lettura parziale dell’articolo poteva giustificare l’affermata irrilevanza penale del suo contenuto.L’intervista del R. era riportata in modo esasperato; il giudice di rinvio l’aveva valutata come vera, scorrettamente interpretando altre note giornalistiche e pero’ ignorando che il suo contenuto, ancorche’ cautamente riferito, integrava la lamentata diffamazione, stante anche la 40 risalenza nel tempo delle dichiarazioni, frattanto ampiamente screditate.In particolare, il richiamo alla contabile bancaria, che di nuovo avrebbe collegato il L. al D.P., veniva indicata come riscontro dell’intervista del R., che peraltro non ne parlava.Era quindi carente ogni interesse legittimante la pubblicazione.Sostanzialmente falsa, e illogicamente ritenuta sostanzialmente vera, la notizia delle mancate carcerazioni che l’avv. L. avrebbe ottenuto (sempre nei modi illeciti insinuati, definendosi il querelante come avvocato dei miracoli) per i propri clienti; ancora una volta evocando le amicizie del ricorrente e dimenticando le carcerazioni e le condanne subite da numerosi altri patrocinati dal medesimo avvocato.La falsita’ della notizia escludeva l’applicazione di qualsivoglia scriminante.Si insisteva, quindi, per l’annullamento della sentenza impugnata.Il ricorso e’ fondato.Il giudice del rinvio ha ritenuto, in presenza di una causa estintiva del reato per il quale vi era stata condanna in primo grado, che fosse evidente la prova della irrilevanza penale della condotta tenuta dalla S. e della insussistenza dell’omesso controllo addebitato al suo direttore, E.M., applicando quindi la formula liberatoria dell’art. 129 c. 2 c.p.p.A tale conclusione e’ pervenuto, ritenendo che la giornalista avesse correttamente esercitato il diritto di cronaca e che le notazioni soggettive, mediate le quali aveva colorato il personaggio oggetto dei tre articoli, fossero esercizio di satira; nessuna di tali argomentazioni e’ correttamente sostenibile.La satira, notoriamente, e’ quella manifestazioni del pensiero (talora di altissimo livello) che nei tempi si e’ addossata il compito di castigare ridendo mores; ovvero, di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioe’ verso il bene.E dunque, simili indicazioni sono strettamente funzionali allo scopo, che, senza la loro evocazione, rimarrebbe irraggiungibile; ora, tutto si puo’ dire, tranne che quelli che la Corte territoriale ha valutato essere commenti satirici (la forfora, lo sguardo del bottegaio) abbiano svolto, nella fattispecie, tale compito.Se la giornalista intendeva informare la pubblica opinione sulle vicende che vedevano (oggettivamente) coinvolto il L., simili notazioni erano del tutto superflue; e, pur non avendo intrinsecamente valenza diffamatoria, nella loro sgradevolezza inutile assumevano tale carattere.E simile conclusione pare adeguarsi al tono di tutti gli articoli, dai quali traspare un evidente (e oggettivamente inutile) malanimo verso l’attuale ricorrente.A proposito del quale, poi, neppure puo’ dirsi che il diritto di cronaca sia stato esercitato nel rispetto, indispensabile, della veridicita’ dei fatti riportati; la stessa sentenza impugnata deve dare atto (o inaccettabilmente trascura) della oggettiva falsita’ di circostanze accreditate come reali negli articoli: la vicenda della Mercedes, l’attribuzione della fondazione di una societa’, il complesso della intervista del R., le sorti processuali (generalmente evocate) dei clienti del L., ai quali (contrariamente al vero) sarebbero stati riservati trattamenti processuali privilegiati.Il tutto sullo sfondo, piu’ o meno palesemente evocato, di un’amicizia con l’allora notissimo magistrato, la quale aveva rivalutato la persona del parvenu, quale il L. sostanzialmente e’ indicato essere stimato dai suoi colleghi.E non a caso, la giornalista lo definiva piu’ un affarista che un legale; giudizio che senza un giustificato collegamento con le vicende del soggetto, esaminate negli articoli.E’ sufficiente questo rapsodico esame dei medesimi, per concludere che la responsabilita’ penale era stata correttamente affermata in primo grado, dovendosi peraltro prendere atto della estinzione dei reati per l’ormai intervenuta prescrizione.Per tale ragione deve essere annullata senza rinvio l’impugnata senza, ferme restando le statuizioni civili a suo tempo adottate.P.Q.M.Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perche’ i reati sono estinti per prescrizione, ferme restando le statuizioni civili.Roma, 24/2/2006.Depositata in Cancelleria il 16 marzo 2006. -Per l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento, è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell'esercizio di attività parlamenta. 41 CORTE COSTITUZIONALE - SENTENZA 27 luglio 2006 n. 317 SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 19 settembre 2001, promosso con ricorso del Tribunale di Roma, sezione VII penale, notificato il 9 luglio 2004, depositato in cancelleria il 16 luglio 2004 ed iscritto al n. 11 del registro conflitti 2004. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell'udienza pubblica del 4 luglio 2006 il Giudice relatore Paolo Maddalena; udito l'avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati. Ritenuto in fatto 1. ¾ Con ricorso depositato il 21 marzo 2003, il Tribunale di Roma, sezione VII penale, nel corso di un procedimento penale instaurato nei confronti del deputato Gianfranco Miccichè per il reato di diffamazione a mezzo stampa in danno del dott. Giancarlo Caselli, Procuratore della Repubblica di Palermo, ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla deliberazione, adottata dall'Assemblea il 19 settembre 2001 (documento IV-quater, n. 1), con la quale è stato dichiarato, in conformità alla proposta della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati, che i fatti per i quali è in corso il processo a carico del deputato Miccichè concernono opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il giudice ricorrente espone che le dichiarazioni per le quali è in corso il procedimento penale sono state rese dal deputato Miccichè nel corso di una intervista al periodico “Liberal” pubblicata in data 17 settembre 1998. In quell'intervista, il deputato Micciché avrebbe detto, tra l'altro, che il dott. Caselli «è stato mandato in Sicilia per dare una spallata decisiva alla D.C.», ha fatto «solo politica», con processi ai politici che «servono solo a scrivere le verità pagate dei pentiti», perdendo «tempo e denaro» e così senza lottare contro la vera mafia. Ad avviso del Tribunale ricorrente, la deliberazione della Camera dei deputati sarebbe lesiva delle attribuzioni costituzionali della giurisdizione a causa della mancanza del nesso funzionale tra le opinioni espresse dal deputato Miccichè e l'attività parlamentare. Secondo il Tribunale di Roma – ad avviso del quale «esula dall'oggetto del presente conflitto sia lo stabilire la natura diffamatoria delle affermazioni contenute nell'articolo in esame sia la possibilità di configurare la scriminante del diritto di cronaca o di critica, nella specie politica» –, per poter definire insindacabile un'opinione espressa da un parlamentare in un'intervista alla stampa non è sufficiente una mera comunanza di tematiche con il dibattito parlamentare, come è insufficiente il semplice collegamento di argomento o di contesto tra attività parlamentare e dichiarazione; occorre, piuttosto, che si riscontri la identità sostanziale di contenuto, nella specie mancante, tra l'opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata nella sede esterna. Pertanto, il Tribunale chiede che la Corte dichiari che non spetta alla Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali è in corso il procedimento penale concernono opinioni espresse dal deputato Miccichè nell'esercizio delle sue funzioni di parlamentare, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, ed annulli la deliberazione adottata dalla stessa Camera il 19 settembre 2001. 2. ¾ Con ordinanza n. 218 del 2004, depositata il 6 luglio 2004, la Corte ha dichiarato ammissibile il conflitto proposto dal Tribunale di Roma. L'ordinanza di ammissibilità, unitamente all'atto introduttivo del giudizio, è stata notificata in data 9 luglio 2004. Il conseguente deposito è stato effettuato il 16 luglio 2004. 3. ¾ Nel giudizio si è costituita la Camera dei deputati, depositando documenti e svolgendo deduzioni, a conclusione delle quali ha chiesto che la Corte dichiari il conflitto inammissibile, irricevibile e improcedibile, e in subordine rigetti il ricorso, dichiarando che spettava alla Camera dei deputati affermare l'insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse nei confronti del dott. Giancarlo Caselli dal deputato Gianfranco Micciché. La difesa della Camera, riservandosi, preliminarmente, di identificare compiutamente tutte le ragioni di irricevibilità, di inammissibilità e di improcedibilità del conflitto solo dopo avere esaminato gli atti e i documenti depositati dal ricorrente Tribunale di Roma, osserva, nel merito, che il procedimento nei confronti del deputato Miccichè riguarda talune sue opinioni e valutazioni di contenuto schiettamente politico sull'operato del dott. Giancarlo Caselli: in particolare, dichiarazioni concernenti la ritenuta distorsione politica 42 subita dall'attività della Procura di Palermo, a causa delle scelte operate dal capo di quell'Ufficio, dott. Caselli. Secondo la difesa della Camera, simili opinioni erano state già manifestate, in sede parlamentare ed in atti tipici, prima delle dichiarazioni del deputato Micciché ora in contestazione. Nella memoria si richiamano, in particolare: un'interrogazione del deputato Forestiere (XII Legislatura, n. 4/05334 del 16 novembre 1994); un'interpellanza del deputato Maiolo (XIII Legislatura, n. 2/01335 del 30 luglio 1998); una dichiarazione di voto del deputato Mancuso del 9 luglio 1998; un'interpellanza con primo firmatario il deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 2/00252 del 21 ottobre 1996); un'interrogazione del deputato Parenti (XIII Legislatura, n. 3/02499 dell'11 giugno 1998); un'interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/01624 del 28 ottobre 1997); un'interrogazione del deputato Maiolo (XIII Legislatura, n. 3/01517 del 30 settembre 1997); un'interrogazione del deputato Sgarbi (XII Legislatura, n. 3/00009 del 29 aprile 1994); un'interrogazione, ancora, del deputato Sgarbi (XII Legislatura, n. 4/08683 del 21 marzo 1995); un'interpellanza del senatore Novi (XIII Legislatura, n. 2/00445 del 2 dicembre 1997); un'interpellanza del deputato Tassone (XIII Legislatura, n. 2/00783 del 17 novembre 1997); un'interpellanza dei senatori Contestabile e Milio (XIII Legislatura, n. 2/00097 del 15 ottobre 1996); un'interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/02766 del 30 luglio 1998); altra interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/02843 del 15 settembre 1998); un'interrogazione del deputato Sgarbi (XIII Legislatura, n. 3/02476 dell'8 giugno 1998); un'interrogazione del deputato Maiolo (XIII Legislatura, n. 3/01784 del 10 dicembre 1997); un'interrogazione del deputato Fragalà (XIII Legislatura, n. 3/01801 del 15 dicembre 1997); un'interrogazione del deputato Gasparri (XIII Legislatura, n. 3/02201 del 14 aprile 1998); un'interrogazione con primo firmatario il deputato Giuliano (XIII Legislatura, n. 3/01712 del 19 novembre 1997); un'interrogazione del deputato Saponara (XIII Legislatura, n. 4/05613 del 27 novembre 1996); un'interrogazione con primo firmatario il senatore Marini (XIII Legislatura, n. 4/03013 del 20 novembre 1996); un'interrogazione del deputato Gasparri (XIII Legislatura, n. 3/01907 del 28 gennaio 1998); l'illustrazione, da parte del deputato Mancuso, dell'interrogazione n. 2-00950 nella seduta dell'11 marzo 1998. Questi atti starebbero a dimostrare che la critica parlamentare nei confronti della Procura di Palermo e specificamente del suo capo, dott. Caselli, accusato di aver abusato dei suoi poteri per finalità puramente politiche, è stata a dir poco diffusa, trovando posto in numerosissimi atti di sindacato ispettivo e nelle discussioni parlamentari. Le dichiarazioni extra moenia del deputato Miccichè, pertanto, non avrebbero fatto altro che divulgare all'esterno il contenuto di atti tipici della funzione parlamentare, oltretutto senza espressioni insultanti. Secondo la difesa della Camera, il deputato può giovarsi, ai fini della non sindacabilità delle sue dichiarazioni, dell'attività parlamentare posta in essere sul medesimo tema da altri membri delle Camere. La “paternità” delle dichiarazioni rese intra ed extra moenia non avrebbe alcuna importanza al fine dell'attivazione della garanzia di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione. Se, infatti, il contenuto sostanziale delle dichiarazioni è il medesimo, l'ammissione del sindacato su quelle “esterne” determinerebbe, comunque, un'interferenza su quelle “interne”, e quindi la violazione degli artt. 67 e 68, primo comma, della Costituzione, quale che fosse l'identità del parlamentare dichiarante. Questa prospettazione si imporrebbe anche in considerazione della funzione dell'insindacabilità, che è quella, oggettiva, di tutelare le istituzioni rappresentative, e non i loro membri. Inoltre dovrebbe considerarsi che gli atti tipici sopra ricordati provengono, in gran parte, da appartenenti al medesimo gruppo parlamentare del quale fa parte il deputato Miccichè, e la consentaneità ideologica tra appartenenti al medesimo gruppo fa sì che non si possa immaginare una separazione netta fra le attività di parlamentari diversi, ma appartenenti al medesimo gruppo. Secondo la difesa della Camera, possono aversi tre tipi di opinioni di parlamentari manifestate extra moenia, che debbono ricevere trattamenti diversi: (a) opinioni del tutto estranee alla sfera della politica; (b) opinioni connesse alla sfera della politica, ma estranee alla politica parlamentare; (c) opinioni connesse alla politica parlamentare. Mentre le prime non possono minimamente pretendere alcuna specifica garanzia costituzionale diversa da quelle comuni, e le seconde, a loro volta, sono assoggettate al regime ordinario, in forza del principio di parità di trattamento valorizzato dalle 43 sentenze n. 10 e n. 11 del 2000 della Corte costituzionale, le terze, invece, dovrebbero godere della copertura assicurata dall'art. 68, primo comma, Cost. Ciò perché il fatto che esse siano state manifestate extra anziché intra moenia sarebbe meramente accidentale, e non potrebbe essere alla base di un trattamento deteriore, che porrebbe a rischio l'autonomia del parlamentare. Nella società dell'informazione – si sostiene – i tempi, i mezzi e le modalità della politica e della stessa attività parlamentare sono profondamente mutati, e l'imposizione di una connessione stretta tra singoli atti parlamentari e singole opinioni manifestate all'esterno determinerebbe un'eccessiva formalizzazione, non più corrispondente ai tempi e alle modalità di esercizio del mandato parlamentare. Una volta che si affermi il principio secondo cui le opinioni dei rappresentanti della Nazione sono tutelate anche se manifestate al di fuori del recinto parlamentare, il discrimine tra ciò che deve e ciò che non può essere tutelato non può che stare nella oggettiva connessione delle opinioni con il complessivo contesto parlamentare, e cioè con i contenuti (di volta in volta modificantisi) della politica parlamentare. 4. ¾ In prossimità dell'udienza, la difesa della Camera dei deputati ha depositato una memoria illustrativa. 4.1. ¾ In via preliminare, viene eccepita l'inammissibilità del ricorso, in quanto il Tribunale di Roma avrebbe misurato la sussistenza o meno del nesso funzionale semplicemente su uno stralcio, oltretutto inesatto, delle dichiarazioni rese in sede giornalistica dal deputato Miccichè. L'isolamento di certe frasi o espressioni nel più ampio contesto delle dichiarazioni del parlamentare avrebbe impedito al ricorrente di valutare appieno il collegamento tra queste dichiarazioni e la funzione parlamentare, che può essere apprezzato solo a condizione di avere una completa rappresentazione delle une e delle altre. Si riprodurrebbe, pertanto, la situazione già esaminata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 79 del 2005, con cui è stata dichiarata l'inammissibilità del conflitto in un caso – ritenuto analogo – nel quale l'atto introduttivo del conflitto non conteneva una compiuta esposizione dei fatti, non riportando le frasi pronunciate dal parlamentare. In altri termini, il Tribunale ricorrente avrebbe indebitamente isolato alcune frasi (oltretutto inesattamente riportate) dal complessivo contesto delle dichiarazioni extra moenia del deputato Miccichè, e, in tal modo, non riuscirebbe nell'intento di dimostrare la fondatezza delle proprie censure, perché non avrebbe tenuto nel debito conto l'intero dire del menzionato parlamentare, indispensabile oggetto – invece – della valutazione ai fini dell'applicazione dell'art. 68, primo comma, Cost. 4.2. ¾ Nel merito, la Camera dei deputati ribadisce le conclusioni di non fondatezza del ricorso. A sostegno della sussistenza del nesso funzionale, la difesa della Camera richiama l'interrogazione cofirmata dal deputato Miccichè, XIII legislatira, n. 4/08769 del 1° aprile 1997, nella quale si ironizza duramente sulla «grande illusione di mafia sconfitta, suscitata dal frastuono e dalla passerella di molti di coloro che operano o si aggirano nell'ambito dell'antimafia» e si lamenta la «Babele delle rivelazioni dei pentiti». Invoca, inoltre, l'interrogazione dello stesso deputato Micciché, XIII legislatura, n. 3/06609 del 27 novembre 2000, nella quale si censura il comportamento dell'allora sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo Gioacchino Natoli, unitamente a quello del pubblico ministero di Perugia Fausto Cardella, in particolare alla luce di una denuncia, in quanto «risulta, in sostanza dalla descritta denuncia come un pubblico ufficiale, cioè il predetto dottor Natoli, tenuto per legge all'osservanza del principio di legalità, abbia violato tale dovere, clamorosamente manifestando la sua assoluta contrarietà allo sviluppo di quelle attività di indagine che, invece, stante le dichiarazioni di Badalamenti (il quale aveva smentito Buscetta in ordine al suo teorema e alla responsabilità del senatore Andreotti nell'omicidio Pecorelli), bene avrebbero potuto evitare anni di inutili e persecutorie indagini e di un altrettanto inutile dibattimento; si tratta, secondo la denuncia, di una manovra intenzionalmente tendenziosa, diretta ad accreditare la cosiddetta verità nascente dalle artefatte dichiarazioni del collaborante Buscetta, manovra implicante una diretta responsabilità processuale e morale del predetto dottor Natoli e verosimilmente del predetto dottor Cardella». Nella difesa della Camera si richiamano, inoltre, ulteriori interpellanze ed interrogazioni di altri parlamentari, appartenenti allo stesso gruppo del deputato Miccichè, in cui si imputano al dott. Caselli gravi violazioni deontologiche ed il perseguimento di finalità non attinenti a interessi oggettivi del suo ufficio. Ad avviso della Camera, gli atti tipici di funzione degli altri parlamentari 44 appartenenti al medesimo gruppo non possono restare senza influenza nella ricostruzione del nesso funzionale che lega dichiarazione extra e dichiarazione intra moenia. Quanto alla collocazione temporale delle opinioni manifestate in sede parlamentare, per rapporto a quelle manifestate extra moenia, nella memoria si rileva che la sentenza n. 221 del 2006 di questa Corte, in materia di insindacabilità di consiglieri regionali, avrebbe ribadito che quel che conta non è l'anteriorità degli atti di funzione rispetto alle dichiarazioni extra moenia, bensì il nesso di sostanziale contestualità tra gli uni e le altre. Ad avviso della difesa della Camera, peraltro, l'oggettiva divulgazione all'esterno ben potrebbe essere presente anche quando lo spatium temporis che separa opinioni e divulgazione è notevole. Considerato in diritto 1. ¾ Il Tribunale di Roma, sezione VII penale, ha sollevato – con ricorso depositato il 21 marzo 2003 – conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla deliberazione, adottata dall'Assemblea il 19 settembre 2001 (documento IV-quater, n. 1), con la quale è stato dichiarato, in conformità alla proposta della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati, che i fatti per i quali è in corso il processo a carico del deputato Miccichè per il reato di diffamazione a mezzo stampa in danno del dott. Giancarlo Caselli, Procuratore della Repubblica di Palermo, concernono opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari, a norma dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Le dichiarazioni per le quali è in corso il procedimento penale sono state rese dal deputato Miccichè nel corso di una intervista al periodico “Liberal” in data 17 settembre 1998. In quell'intervista, il deputato Micciché avrebbe detto, tra l'altro, che il dott. Caselli «è stato mandato in Sicilia per dare una spallata decisiva alla D.C.», che il predetto magistrato ha fatto «solo politica», con processi ai politici che «servono solo a scrivere le verità pagate dei pentiti», perdendo «tempo e denaro» e così senza lottare contro la vera mafia. 2. ¾ Deve, preliminarmente, essere ribadita l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l'ordinanza n. 218 del 2004. Non può essere accolta in proposito l'eccezione, avanzata dalla difesa della Camera dei deputati, basata sul rilievo che l'atto introduttivo del presente giudizio sarebbe privo dei necessari requisiti formali, per la mancanza di una compiuta esposizione dei presupposti di fatto del conflitto. Contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa della resistente, l'atto introduttivo del conflitto riporta sia il testo integrale delle dichiarazioni rese dal deputato Micciché nell'intervista al periodico “Liberal”, pubblicata il 17 settembre 1998, sia l'esatto tenore dell'imputazione per la quale è stata disposta la citazione a giudizio del predetto parlamentare. Che l'imputazione contestata al deputato Micciché non riporti tutte le frasi pronunciate dal medesimo, ma soltanto alcuni stralci delle medesime, tratte dal più ampio contesto, non significa che vi sia stata, nel caso, una libera rielaborazione ad opera dell'autorità giudiziaria ricorrente tale da impedire l'accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate nel corso dell'intervista e gli eventuali atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse potrebbero essere la divulgazione esterna. 3. ¾ Nel merito, il ricorso è fondato. Va qui ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, per l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento, è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell'esercizio di attività parlamentari (cfr., tra le più recenti, sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, n. 164, n. 176 e n. 193 del 2005). Indipendentemente dall'eventuale contenuto diffamatorio di tali dichiarazioni, il compito di questa Corte è limitato alla verifica se esse, ancorché rese al di fuori della sede istituzionale, siano collegate ad attività proprie del parlamentare; costituiscano, cioè, espressione della sua funzione o ne rappresentino il momento di divulgazione all'esterno (sentenza n. 508 del 2002 e n. 235 del 2005). Nel caso in esame, neppure nella delibera di insindacabilità e nella proposta della Giunta per le autorizzazioni è possibile rinvenire un riferimento ad atti tipici del parlamentare. In proposito, la proposta della Giunta, alla quale rinvia la delibera di insindacabilità, contiene solo un generico richiamo al collegamento fra le dichiarazioni del deputato Miccichè e il «contesto politico-parlamentare», giacché «le tematiche della giustizia, del modo in cui essa è amministrata e del ruolo di taluni magistrati è oggetto ormai da diversi anni di un vastissimo dibattito in tutto il Paese e soprattutto nelle sedi politicoparlamentari», ivi rilevandosi come «l'onorevole Miccichè abbia legittimamente esercitato il suo 45 diritto di critica come parlamentare in ordine a questioni di indubbio rilievo pubblico, nel quadro di quelle attività che possono senz'altro definirsi prodromiche o conseguenti agli atti tipici del mandato parlamentare». A tale proposito, non può che ribadirsi che il «contesto politico» o comunque l'inerenza a temi di rilievo generale dibattuti in Parlamento, entro cui tali dichiarazioni si possano collocare, non vale in sé a connotarle quali espressive della funzione, ove esse, non costituendo la sostanziale riproduzione delle specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni, siano non già il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale coperto, a garanzia delle prerogative delle Camere, dall'insindacabilità), ma una ulteriore e diversa articolazione di siffatto contributo, elaborata ed offerta alla pubblica opinione nell'esercizio della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21 della Costituzione (sentenza n. 51 del 2002). La difesa della Camera, a sostegno della sussistenza del nesso funzionale, richiama l'interrogazione cofirmata dal deputato Micciché, XIII Legislatura, n. 4/08769 del 1° aprile 1997 e l'interrogazione dello stesso deputato Miccichè, XIII legislatura, n. 3/06609 del 27 novembre 2000. La seconda interrogazione (quella del 27 novembre 2000) non assume rilievo, in quanto posta in essere dal deputato Miccichè in data posteriore alle dichiarazioni oggetto del presente giudizio (cfr., da ultimo, sentenza n. 260 del 2006). Ma anche il primo di tali atti, l'unico in ipotesi rilevante, in quanto anteriore alle dichiarazioni al periodico “Liberal”, non è idoneo a giustificare l'insindacabilità, perché non si riscontrano i due elementi che debbono contemporaneamente ricorrere affinché possa dirsi sussistente il nesso funzionale: il legame temporale fra l'attività parlamentare e l'attività esterna, di modo che questa assuma una finalità divulgativa della prima; la sostanziale corrispondenza di significato tra opinioni espresse nell'esercizio di funzioni parlamentari e atti esterni, non essendo sufficienti né una mera comunanza di argomenti né un mero contesto politico cui esse possano riferirsi (sentenze n. 28 e n. 176 del 2005, n. 221 e n. 258 del 2006). Per un verso, infatti, difetta il medesimo contesto temporale tra atto tipico e divulgazione extra moenia, il primo risalendo ad oltre un anno prima. Per l'altro verso, l'interrogazione del 1° aprile 1997 – riguardante genericamente la «grande diffusione di mafia sconfitta, suscitata dal frastuono e dalla passerella di molti di coloro che operano o si aggirano nell'antimafia» e la «Babele delle rivelazioni dei pentiti», senza alcun apprezzamento critico nei confronti del dott. Giancarlo Caselli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo – ha un oggetto sostanzialmente diverso da quello di cui alle dichiarazioni apparse su “Liberal”, in cui si imputa proprio al dott. Caselli, nella sua qualità, di essere stato «mandato in Sicilia per dare una spallata decisiva alla D.C.», di avere fatto «solo politica», con processi ai politici che «servono solo a scrivere le verità pagate dei pentiti», perdendo «tempo e denaro» e così senza lottare contro la vera mafia. Si deve, pertanto, concludere che le espressioni usate dal deputato Micciché, per le quali è stato instaurato il procedimento penale all'origine del presente conflitto, non trovano corrispondenza in alcun atto o intervento parlamentare dello stesso deputato. La difesa della Camera, invero, sia nella memoria di costituzione che in quella depositata in prossimità dell'udienza, ha richiamato numerosi atti tipici (interrogazioni ed interpellanze) di altri parlamentari, molti dei quali appartenenti al medesimo gruppo del deputato Miccichè, a dimostrazione di quanto fosse diffusa la critica parlamentare nei confronti della Procura di Palermo e specificamente del suo capo, dott. Caselli, accusato di aver abusato dei suoi poteri per finalità puramente politiche. E sostiene che il deputato potrebbe giovarsi, ai fini della non sindacabilità delle sue dichiarazioni, dell'attività parlamentare posta in essere sul medesimo tema da altri membri delle Camere, tanto più in un caso di appartenenza al medesimo gruppo parlamentare. Tale tesi non può essere condivisa. Questa Corte ha già chiarito che la verifica del nesso funzionale tra dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente parlamentari, nonché il controllo sulla sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde, devono essere effettuati con riferimento alla stessa persona, mentre «sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari» (sentenze n. 260 del 2006, n. 146 del 2005 e n. 347 del 2004). La circostanza che gli altri parlamentari, ai cui atti si collegherebbero le dichiarazioni oggetto del giudizio penale, appartengono allo stesso gruppo del deputato Micciché, non può influire sull'estensione della garanzia a soggetti diversi da quello cui si 46 riferisce la delibera di insindacabilità. È vero che le guarentigie previste dall'art. 68 sono poste a tutela delle istituzioni parlamentari nel loro complesso e non si risolvono in privilegi personali dei deputati e dei senatori. Da questa esatta rilevazione non si può trarre, tuttavia, la conseguenza che, come afferma la difesa della Camera dei deputati, esista una tale fungibilità tra i parlamentari iscritti allo stesso gruppo da produrre effetti giuridici sostanziali nel campo della loro responsabilità civile e penale per le opinioni espresse al di fuori delle Camere: «l'art. 68, primo comma, Cost. non configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento parlamentare di un appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti gli altri iscritti al gruppo medesimo» (sentenza n. 249 del 2006). 4. ¾ Deve quindi concludersi che la Camera dei deputati, nel deliberare l'insindacabilità delle dichiarazioni di cui si tratta, ha violato l'art. 68, primo comma, della Costituzione e ha leso in tal modo le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente. La deliberazione di insindacabilità deve essere, pertanto, annullata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava alla Camera dei deputati affermare che le dichiarazioni rese dal deputato Gianfranco Miccichè, oggetto del procedimento penale pendente davanti al Tribunale di Roma, VII sezione penale, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; annulla, di conseguenza, la delibera di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 19 settembre 2001 (documento IV-quater, n. 1). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 18 luglio 2006. -La verifica del nesso funzionale tra dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente parlamentari, nonché il controllo sulla sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde, devono essere effettuati con riferimento "alla stessa persona" , mentre sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari, financo nella ipotesi in cui si tratti di parlamentari appartenenti allo stesso gruppo di cui faccia parte l’imputato. L’articolo 68, comma 1, della Costituzione , infatti, non configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento parlamentare di un appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti gli altri iscritti al gruppo medesimo. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE di FERIALE - SENTENZA 30 agosto 2006 …omissis….. OsservaCon,sentenza del 26 gennaio 2006, la Corte di appello di Milano, in parziale riforma de la sentenza pronunciata dal Tribunale di Monza, Sezione distaccata di Desio, il 7 maggio 2004, con la quale Sgarbi Vittorio era stato dichiarato responsabile del reato di diffamazione aggravata in danno di Caselli Giancarlo, Aliquo’ Vittorio, Lo Forte Guido, Ingroia Antonio, Di Leo Giovanni e Sava Lia, all’epoca dei fatti magistrati in servizio presso la procura della Repubblica di Palermo, in relazione ad un articolo e ad una intervista pubblicati sul quotidiano “il Giornale” il 17 ed il 14 agosto 1998, e condannato alla pena di mesi uno di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, ha ridotto la pena irrogata all’imputato determinandola in euro mille di multa, confermando nel resto l’impugnata sentenza.Avverso la sentenza di appello hanno proposto ricorso per cassazione i difensori dell’ imputato, rassegnando due distinti atti di impugnazione. Nel ricorso proposto dall’avv. Giampaolo 47 Cicconi si lamenta, come primo motivo, il mancato proscioglimento dell’imputato, avendo egli legittimamente esercitato la funzione parlamentare, con conseguente applicabilità della prerogativa sancita dall’articolo 68, comma 1 della Costituzione. Il giudice di appello si sarebbe, infatti, limitato a :;otto lineare che la Camera dei deputati aveva già sancito - peraltro in epoca antecedente alla entrata in vigore della legge 140/003 - la insussistenza dei presupposti per deliberare la insindacabilità delle opinioni espresse dall’ imputato, ma nulla avrebbe detto a proposito della mancata applicazione della garanzia costituzionale, omettendo al contempo di disporre, in base alla richiamata novella, la trasmissione degli atti alla stessa Camera, che avrebbe poi dovuto deliberare entro 90 giorni. Si prospetta, poi, violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alle dedotte nullità delle notifiche di alcuni atti del processo per incertezza assoluta del destinatario, in quanto nella relazione di notificazione sarebbe stata indicata, quale persona che aveva ricevuto gli atti presso lo studio del difensore domiciliatario, un nominativo illeggibile qualificato come “incaricata di ricevere le notifiche”. Nel terzo motivo viene prospettata violazione di legge, per omessanotifica della ordinanza del 5 dicembre 2001, con la quale il giudice per le indagini preliminari rinviava l’udienza preliminare dal 5 a16 dicembre 2001: sostiene, infatti, il difensore che, in mancanza di una formale dichiarazione di contumacia, il giudice «avrebbe dovuto disporre il rinnovo della notifica all’imputato e non ritenere: sufficiente la lettura dell’ ordinanza effettuata in udienza alla presenza del sostituto del difensore». La sentenza sarebbe comunque da annullare, in quanto la Corte territoriale avrebbe immotivatamente disatteso gli impedimenti addotti dall’ imputato per le udienze del 20 dicembre 2005 e 26 gennaio 2006. In subordine, ove fosse ritenuto non documentato l’impedimento per il 20 dicembre 2005, dovrebbe qualificarsi come illegittima la ordinanza emessa il 26 gennaio 2006, giacché essa si sarebbe fondata sulla erronea premessa - pur mutuata da giurisprudenza di legittimità, che peraltro si contesta - secondo la quale la declaratoria di contumacia pronunciata alla precedente udienza, avrebbe precluso “all’appellante la possibilità di far valere impedimenti alle udienze successive...”. Nel quarto motivo, il difensore denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla mancata applicazione delle esimenti del diritto di critica o di cronaca. Nelle specie – osserva, infatti, il ricorrente – l’imputato si sarebbe “limitato a censurare il comportamento delle persone offese, esprimendo comunque giudizi e convinzioni personali; concetti peraltro ripresi da numerosi atti ispettivi ed interpellanze presentate da altri parlamentari”. Anche ammesso – sottolinea ancora l’atto di ricorso – che le frasi riferite all’imputato potessero avere contenuto denigratorio, il medesimo dovrebbe ritenersi non punibile “per avere esercitato il diritto di critica garantito dall’articolo 21 della Costituzione”, anche se esercitato “con toni coloriti e polemici”.Ugualmente numerose, e in larga misura riproduttive delle analoghe questioni già dedotte in sede di appello, sono le censure sviluppate nel ricorso sottoscritto dall’avvocato Salvatore Lo Giudice. Nel primo motivo si denuncia “esercizio da parte del giudice di una potestà riservata dalla legge all’organo legislativo” in riferimento alla mancata trasmissione degli atti alla Camera cui apparteneva l’imputato, ai sensi dell’articolo 3,ella legge 140/03: Tale norma, infatti, non consentiva al giudice alternative alla trasmissione degli atti alla Camera competente, ove fosse stata ritenuta ne n direttamente applicabile l’esimente di cui all’articolo 68, comma 1, Costituzione, e ciò a prescindere dalla precedente deliberazione dell’organismo parlamentare. Nel secondo motivo si rinnova la eccezione della nullità della notifica di «tutti gli atti del procedimento in particolare del decreto che dispone il giudizio e dell’avvisi di fissazione della udienza preliminare, effettuata all’imputato nel domicilio irritualmente (e perciò inefficacemente) eletto all’ atto della nomina del difensore li fiducia», reputandosi non conferenti le contrarie deduzioni svolte al riguardo dalla Corte territoriale. Sotto altro profilo - sottolinea il difensore ricorrente - la decisione impugnata sarebbe viziata anche con riferimento alla già eccepita nullità del a ordinanza dichiarativa della contumacia intervenuta il 6 dicembre 200 l nella udienza preliminare. Infatti, nel disporre il rinvio dal 5 al 6 dicembre 2001, il giudice non provvedeva alla rinnovazione della notifica all’imputato assente, «considerando sufficiente la lettura della ordinanza effettuata in udienza in presenza del sostituto del difensore di fiducia presso il cui studio l’imputato risultava (pure inefficacemente, come si è detto) domiciliato». Si denuncia, poi, violazione di legge e vizio di 48 motivazione in riferimento a varie questioni attinenti l’ ammissibilità della costituzione le delle parti civili. Si rinnova, infatti, la censura secondo la quale la costituzione le di parte civile sarebbe stata viziata dalla assenza di valida procura ai sensi dell’articolo 100 Cpp, giacché la procura speciale conferita a norma dell’articolo 122 del codice di rito ai fini della costituzione, non equivale a conferimento della rappresentanza processuale che scaturisce dal mandato defensionale. Si lamenta, poi, ugualmente vizio di motivazione in riferimento alla replica - reputata nonappagante, - che la Corte territoriale avrebbe offerto alla censura secondo la quale le parti civili Caselli e Lo Forte avrebbero dovuto essere escluse, avendo esercitate l’azione civile in sede propria nei confronti dell’editore – responsabile civile - per la integralità del danno subito. Nel quarto motivo di ricorso si denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in riferimento alla ritenuta sussistenza del delitto di diffamazione. I giudici dell’appello, infatti, si sarebbero limitati a riportarsi alla motivazione della sentenza di primo grado senza prendere in considerazione le censure prospettate nell’atto di appello, che vengono diffusamente riprodotte. In particolare, non sarebbe spiegata la legittimità della individuazione dei soggetti indicati quali persone offese nella imputazione di cui al capo A) della rubrica, e conseguentemente, la diffamazione che si sarebbe realizzata in loro danno. Del pari carente sarebbe la motivazione nella parte in cui ha escluso l’esimente del diritto di cronaca e di critica politica, deducendo genericamente la prospettazione di “circostanze false”, “modalità espositive suggestive” e “ricche di valenza diffamatoria”. Violazione di legge e vizio di motivazione si denunciano, pure, nel quinto ed ultimo motivo di ricorso, in riferimento alla mancata assunzione delle prove indicate nei motivi di appello, giacché la reiezione della richiesta di rinnovazione della istruzione dibattimentale si sarebbe fondata su una tautologica delibazione circa la estraneità delle prove stesse all’oggetto del processo.In prossimità della udienza, il difensore delle parti civili ha depositato documentata memoria, a conclusione della quale ha sollecitato declaratoria di rigetto degli atti di ricorso proposti dai difensori dell’imputato.Le censure poste a base degli atti di ricorso sono prive di fondamento. La prima, fra le numerose eccezioni in rito sollevate dai difensori dell’imputato, fa leva sulla asserita mancata identificazione della persona che avrebbe materialmente ricevuto gli atti notificati presso il difensore domiciliatario. Osserva infatti il ricorrente che dal complesso delle disposizioni dettate dagli articoli 157, 167 e 168 Cpp, emergerebbe che il nucleo essenziale del procedimento di notificazione sarebbe costituito dalla consegna della copia dell’atto da notificare al destinatario, in quanto unico mezzo che consente la conoscenza di esso; e tale attività ufficiale notificatore deve attestare nella relazione di notifica, ai fini – si puntualizza – della prova di essa, “superabile solo con querela di falso”. Nella specie, poiché nelle varie notificazioni destinate all’imputato presso il difensore gli atti sarebbero stati consegnati a persona il cui nominativo non risulterebbe leggibile e qualificata come “incaricato di ricevere le notifiche”, mancherebbe la compiuta indicazione delle generalità del consegnatario, la quale precluderebbe “la sua identificazione, risolvendosi il tutto nella nullità prevista dall’articolo 171 lettera d) Cpp”. L’eccezione è palesemente destituita di fondamento. Va subito osservato, infatti, che la causa di nullità della notificazione evocata dal ricorrente attiene esclusivamente all’ipotesi in cui siano state violate le disposizioni inerenti la persona cui deve essere consegnato l’atto: vale a dire, una gamma di situazioni assai ampia che può ricomprendere evenienze fra loro non poco diversificate: quali la incapacità del consegnatario; il mancato possesso delle qualità legittimanti; il mancato rispetto delle disposizioni sui luoghi; la mancata osservanza dell’ordine da rispettare tra i possibili consegnatari di cui all’articolo 157 Cpp. Il vizio, quindi, presuppone l’accertamento di determinati “stati di fatto” e non certo come dedotto nella specie – la semplice difficoltà di “lettura” delle generalità dell’accipiens riportate nella relazione di notificazione, quando di tale persona, per di più, sia stata precisata la qualifica che la pone in relazione al luogo in cui la notifica è stata eseguita ed alla persona del destinatario della stessa. In tale cornice, risulta quindi di tutta evidenza come la semplice indicazione della qualità di “incaricata di ricevere le notifiche”, riferita a persona presente nello studio di un avvocato e che ivi svolga quelle specifiche mansioni, ne permetta, in modo quanto mai agevole, la pronta identificazione; con l’ovvia conseguenza di rendere del tutto eccentrica la stessa astratta configurabilità del vizio prospettato dal 49 ricorrente, presupponendo esso il positivo accertamento della avvenuta violazione delle disposizioni di legge circa il consegnatario della copia dell’atto. D’altra parte, la giurisprudenza di questa Corte ha avuto modo di precisare che il termine di “incaricato” utilizzato dall’ufficiale giudiziario nella individuazione della persona che ha ricevuto la notifica presso lo studio professionale del difensore, è idoneo ad indicare la temporanea presenza di colui che, negli orari di apertura dello studio professionale, ed in assenza dell’avvocato, svolge esclusivamente la funzione di ricevere la posta (Cassazione, Sezione seconda, 16 gennaio 2003, Noviello).Altre questioni in rito, dedotte sempre dalla difesa dell’imputato, presentano, fra loro, aspetti di connessione che ne consigliano una trattazione unitaria. Viene, anzitutto, nuovamente proposta la eccezione di nullità della notificazione degli atti introduttivi del processo, in quanto eseguita nel domicilio eletto con forme irrituali (l’elezione di domicilio era infatti contenuta nell’atto di nomina del difensore, cosicché essa risultava «effettuata con modalità diverse da quelle tassativamente previste dal codice di rito»), insistendosi nel reputare come assoluta la nullità che sarebbe scaturita dall’indicato vizio. Anche tale eccezione risulta, però, del tutto priva di consistenza giuridica. Come esattamente ricordano le parti civili, questa Corte ha avuto modo di puntualizzare che la nullità di cui all’articolo 179, comma 1, Cpp, si riferisce alle sole ipotesi in cui sia stata del tutto omessa la notificazione della citazione, oppure che questa sia stata fatta con forme assolutamente non idonee a raggiungere lo scopo. Al tempo stesso, si è pure ritenuto che, quando, nonostante la sua idoneità in astratto, la notificazione effettuata in forma diversa da quella prescritta noi ha conseguito lo scopo di portare l’atto di citazione a conoscenza dell’imputato, questi, se vuole far valere la nullità assoluta stabilita dall’articolo 179, comma 1, Cpp, non può limitarsi a denunciare l’inosservanza della norma processuale, ma deve anche rappresentare al giudice di non aver avuto conoscenza dell’atto e deve eventualmente avvalorare l’affermazione con elementi che la rendano credibile. «In atti si è affermato in un processo basato sulla iniziativa delle parti è normale che anche l’esercizio dei poteri officiosi del giudice sia mediato dall’attività delle parti, quando dagli atti non risultino gli elementi necessari per l’esercizio di quei poteri e solo le parti sono in grado di rappresentarli al giudice e di procurarne l’acquisizione» (Cassazione, Su, 27 ottobre 2004, Palumbo). Nella specie, dunque, non soltanto non sono stati prospettati elementi dai quali desumere che le notificazioni effettuate presso il difensore “domiciliatario” non abbiano raggiunto lo scopo di portare gli atti a conoscenza dell’imputato, ma può al contrario dedursi l’esatto reciproco, cosi come reciproca era l’ipotesi delibata dalla richiamata sentenza delle Su di questa Corte (in quel caso, infatti, in luogo della notificazione nel domicilio eletto, la notificazione era stata eseguita presso la casa di abitazione, mediante consegna dell’atto alla moglie convivente dell’imputato). Occorre, infatti, qui ribadire che l’elezione di domicilio ha le connotazioni tipiche di un atto a carattere negoziale, costitutivo, che comporta una manifestazione di volontà (ex multis, Cassazione, Sezione. quarta, 16 giugno 2005, De Stefano); con l’ovvia conseguenza che, ove la relativa “scelta”, ancorché manifestata attraverso formalità diverse da quelle prescritte, risulti essere stata in concreto soddisfatta, ben può presumersi che il provvedimento di notificazione abbia raggiunto l’effetto di portare l’atto a conoscenza del destinatario. Per altro verso, non è senza significato neppure la circostanza che le “forme” attraverso le quali è stata nella specie effettuata la dichiarazione di elezione di domicilio, risultino esser state nella sostanza satisfattive dei “requisiti” che le specifiche formalità prescritte dall’articolo 162 Cpp mirano a presidiare: vale a dire da un lato, la certa provenienza della elezione dall’interessato (attraverso la autentificazione della sottoscrizione, nel caso in esame effettuata dallo stesso difensore); dall’altro, la certezza della data ed il carattere recettizio della dichiarazione in questione. (attraverso il deposito dell’atto nella cancelleria del giudice). D’altra parte, se è ben vero che la giurisprudenza prevalente di questa Corte afferma che la elezione di domicilio è atto personale a forma vincolata, da compiersi esclusivamente secondo le modalità indicate nell’articolo 162 Cpp, traendosi da ciò il corollario che non può riconoscersi validità ed efficacia alla elezione di domicilio fatta presso il difensore e da questi depositata in cancelleria, anziché dichiarata a verbale dall’imputato o da questi trasmessa all’autorità procedente mediante telegramma o lettera raccomandata, con sottoscrizione autenticata (Cassazione, Su, 27 50 novembre 1998, Boscotrecase; Cassazione, Sezione prima, 8 febbraio 2001, Antonelli; v. anche, Cassazione, Sezione sesta, 12 giugno 2003, Conte), non può sottacersi che, più di recente, è stato affermato che, in tema di dichiarazione o elezione di domicilio, la forma vincolante che condiziona l’efficacia dell’atto è esclusivamente quella relativa alla sua sottoscrizione ed all’autenticazione della firma, trattandosi di atto decisionale dell’imputato. Per quanto attiene, invece, alle modalità di comunicazione all’autorità giudiziaria, l’articolo 162, comma 1, Cpp, opera nel senso che la trasmissione tramite il mezzo postale costituisce una facilitazione per l’imputato e non rende invalide altre modalità di presentazione che offrano maggiori garanzie, quali la presentazione per mezzo del difensore o di altra persona espressamente autorizzata (Cassazione, Sezione prima, 7 febbraio 2006, Rossini). Non v’è dubbio, quindi, che, in presenza di un siffatto contesto normativo, le notificazioni eseguite presso il difensore, conformemente alla espressa volontà manifestata dall’imputato, abbiano raggiunto il loro effetto, con la conseguenza di precludere la configurabilità di una nullità assoluta, a norma dell’articolo 179, comma 1, Cpp, sub specie di omessa citazione dell’imputato.In tale prospettiva, allora, si dissolve anche la fondatezza delle censure relative alla mancata notificazione all’imputato dell’avviso di differimento della udienza dal 5 al 6 dicembre 2001, giacché l’avviso dato verbalmente al difensore equivaleva, a norma dell’articolo 148, comma 5, Cpp, alla notificazione dell’avviso all’interessato, in quanto dato oralmente difensore domiciliatario.Neppure fondata è la questione, sollevata dalla difesa del ricorrente, secondo la quale risulterebbe illegittima perché in contrasto con il regime della contumacia, quale scaturito dalle novelle introdotte in sede di udienza preliminare ad opera dalla legge 479/91, sotto gli articoli 420 e seguenti, e dei corrispondenti i chiami che compaiono nella disciplina relativa alla costituzione delle parti in dibattimento (articolo 484 Cpp) l’ordinanza emessa il 26 gennaio 2096; illegittimità che si desume dal fatto che il provvedimento in questione si sarebbe fondato sull’assunto ritenuto erroneo per il quale la declaratoria di contumacia pronunciata nel corso della precedente udienza, avrebbe precluso «all’appellante la possibilità di far valere impedimenti alle udienze successive». Al riguardo, infatti, va rammentato che questa Corte ha avuto modo di affermare che la scelta dell’imputato di rimanere estraneo al processo, conclamata dalla dichiarazione di contumacia,determina che in caso di rinvio dell’udienza non possa far valere un impedimento a comparire per la prosecuzione, senza far precedere la richiesta dalla volontà esplicita di volervi partecipare al processo (Cassazione, Sezione seconda, 19 febbraio 2003, Pm in proc. Leone, mass. Uff. n. 227244). E ciò gia basterebbe a dissolvere, ab imis, il fondamento della doglianza. Ma, più radicalmente, e contrariamente all’assunto del ricorrente, parrebbe che la peculiare natura e disciplina del procedimento in contumacia non a caso annoverato, sotto la vigenza e secondo la sistematica del codice abrogato, fra i procedi, lenti speciali si presenti strutturalmente e funzionalmente “insensibile” rispetto agli impedimenti che possano riguardare la persona di chi sia stato regolari ente dichiarato contumace ed abbia quindi liberamente scelto la peraltro ampiamente garantita via del procedimento in absentia. La difesa dell’imputato, a sostegno della propria tesi, sottolinea la portata a proprio avviso innovativa che rivestirebbe l’uso della locuzione «Quando, l’imputato ... non si presenta all’udienza», che compare nel comma 1 dell’ articolo 420ter, in luogo della espressione «Quando l’imputato non si presenta alla prima udienza» che figurava nell’abrogato articolo 486. Ma la diversità lessicale che il ricorrente segnala non sembra assumere portata dirimente né uno specifico valore denotativo, agli effetti che qui interessano, posto che la stessa ben potrebbe giustificarsi con l’esigenza di coordinamento formale scaturita dalla diversa collocazione “topografica” della disciplina relativa all’istituto della contumacia: dagli atti preliminari al dibattimento, appunto, all’«udienza» preliminare. Più significativa pare, invece, la circostanza che, mentre l’impedimento dell’imputato assume articolata. disciplina e pregnanza di garanzie in stretta correlazione con il momento in cui occorre valutare l’esistenza dei presupposti per la declaratoria della contumacia della quale, quindi, rappresenta condizione “ontologicamente” negativa una volta che lo status di contumace sia stato ritualmente attribuito, soltanto la comparizione e non altre evenienze sono considerati dalla legge, come fattispecie “solutorie” del procedimento contumaciale. A seguito della comparizione, infatti, 51 ancorché tardiva, ma comunque antecedente all’epilogo della udienza preliminare o del dibattimento, il «giudice revoca l’ordinanza che ha dichiarato la contumacia» (articolo 420quater, comma 3, Cpp), reintroducendo, quindi – non a caso attraverso un atto formale, quale è il provvedimento di revoca – l’ordinario procedimento “in presenza”, che assicura le corrispondenti garanzie partecipative all’imputato comparso. Ove l’imputato contumace fosse ammesso a dedurre impedimenti nel successivo corso della udienza preliminare o del giudizio, cesserebbe qualsiasi distinzione rispetto all’imputato sempre presente o a quello semplicemente assente, giacché troverebbe applicazione, in ogni caso, la disciplina dettata dall’articolo 420ter, comma 3, Cpp, la quale, invece, non soltanto non è in alcun modo richiamata dall’articolo 420quater (l’articolo 420ter è in atti richiamato soltanto nei commi 1 e 2), ma si presenterebbe come previsione del tutto eccentrica rispetto agli stessi connotati tipici del procedimento contumaciale (sul piano concettuale, infatti, la figura del contumace “impedito” è, davvero, una contraddictio in adiecto. Non può pertanto condividersi il diverso orientamento che sembra espresso in Cassazione, Sezione sesta, 21 dicembre 2000, Santangelo, mass. Uff. 219830).A proposito, poi, dell’insistito richiamo alle prerogative che avrebbero assistito la posizione dell’imputato quale parlamentare e che sarebbero state vulnerate nel mancato riconoscimento del legittimo impedimento a comparire, va rammentato come la giurisprudenza costituzionale formatasi sul punto risulti ormai attestata nell’affermare che la posizione dell’imputato membro del Parlamento di fronte alla giurisdizione penale, non è assistita da speciali garanzie costituzionali diverse da quelle stabilite dall’articolo 68, comma 1 e 2, della Costituzione. Al di fuori delle ipotesi ivi disciplinate trovano infatti applicazione, nei confronti dell’imputato parlamentare, le generali regole del processo, assistite dalle correlative sanzioni, e soggette nella loro applicazione agli ordinari rimedi processuali. È dunque compito esclusivo delle competenti autorità giurisdizionali interpretare ed applicare le regole processuali, anche stabilendo se ed in che limiti gli impedimenti legittimi derivanti dalla sussistenza di doveri funzionali relativi ad attività di cui sia titolare l’imputato, rivestano tale carattere di assolutezza da dovere essere equiparate – secondo quanto ora dispone l’articolo 420ter comma 1, Cpp a cause di forza maggiore. Non vi è quindi luogo in questo campo ha puntualizzato la Corte costituzionale, chiamata a dirimere i purtroppo non infrequenti conflitti tra autorità giudiziaria e Parlamento ad individuare regole speciali, derogatorie dal diritto comune, e pertanto nemmeno la regola per cui costituirebbe in ogni caso impedimento assoluto quelle (e solo quello) derivante dalla necessità per l’imputato di prendere parte a votazioni in assemblea: il che significherebbe introdurre una distinzione fra diversi aspetti della attività del parlamentare, tutti riconducibili egualmente ai suoi diritti e doveri funzionali, non potendosi inoltre escludere che l’esigenza di indire votazioni insorga in ogni momento nel corso delle attività delle assemblee parlamentari, indipendentemente dalla preventiva programmazione dei lavori. Tuttavia, l’autorità giudiziaria, allorquando agisce nel campo suo proprio e nell’esercizio delle sue competenze, deve tener conto non solo delle esigenze delle attività di propria pertinenza, ma anche degli interessi, costituzionalmente tutelati, di altri poteri, che vengano in considerazione ai fini dell’applicazione delle regole comuni, e cosi ai fini dell’apprezzamento degli impedimenti invocati per chiedere il rinvio dell’udienza. Pertanto. il giudice non può, al di fuori di un ragionevole bilanciamento fra le due esigenze. entrambe di valore costituzionale, della speditezza del processo e della integrità funzionale del Parlamento, far prevalere solo la prima, ignorando totalmente la seconda. Da qui, anche, l’onere per il giudice di concordare un calendario delle udienze (evenienza, questa, che la sentenza impugnata dà atto essere avvenuta) che tenga conto delle esigenze del parlamentare e che permetta, quindi, di evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari (v. Corte costituzionale, sentenze 225/01, 263/03, 284/04 e 451/05). Posto, dunque, che nella vicenda processuale che viene qui in discorso la delibazione degli impegni di. (l’imputato è stata ritualmente effettuata dai giudici a quibus, ne deriva che le doglianze riproposte al riguardo in sede di ricorso si rivelano del tutto destituite di fondamento.Alle medesime conclusioni occorre pervenire anche per ciò che concerne il motivo di ricorso nel quale si lamenta la mancata trasmissione degli atti alla Camera di appartenenza dell’imputato, a seguito della entrata in vigore della legge 140/03 e della correlativa 52 cosiddetta “pregiudiziale parlamentare” in riferimento alla eccepita insindacabilità delle opinioni espresse dall’imputato medesimo, a nonna dall’articolo 68, comma 1, della Costituzione. Al riguardo, infatti, del tutto correttamente i giudici del merito hanno disatteso la fondatezza della identica questione già loro devoluta, sul rilievo che la trasmissione degli atti, in forza dello jus superveniens, si rivelava del tutto superflua, avendo la Camera dei deputati – a suo tempo investita dello scrutinio sulla sussistenza o meno della immunità parlamentare in riferimento alla presente vicenda – aveva negato la copertura costituzionale della insindacabilità, e perciò stesso omesso di dare vita al procedimento per conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato. Come, infatti, hanno correttamente rammentato le parti civili, la Corte costituzionale (v. sentenza 120/04) ha avuto modo di puntualizzare che la disciplina introdotta dalla legge 140/03, a parte l’articolo 1 relativo ai processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato, rappresenta null’altro che il coronamento della medesima linea attuativa già tracciata con la lunga ed ininterrotta catena di decreti legge, mai convertiti, succedutisi tra il 1993 ed il 1996, senza che, peraltro, potessero intravedersi – come d’altra parte sarebbe stato precluso ad una legge ordinaria – elementi concretamente innovativi rispetto al testo costituzionale ed alla (ormai imponente) giurisprudenza costituzionale formatasi a margine della prerogativa della insindacabilità parlamentare. Dunque, da un lato, la perdurante validità delle specifiche esigenze di collegamento funzionale fra le opinioni espresse extra moenia dal parlamentare e gli atti tipici della relativa funzione – nesso funzionale i cui presupposti e requisiti sono stati reiteratamente scandagliati in numerosissime pronunce del giudice delle leggi – mentre, dall’altro, l’esigenza di correlare quel nesso alla tutela dei valori di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e della eguale tutela giurisdizionale e diritto di agire e di difendersi in giudizio.Un’esigenza di bilanciamento, dunque, di primario risalto, al punto – ha soggiunto la Corte da essere stata «avvertita anche nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, come dimostrano, in particolare, le decisioni 30 gennaio 20o3 sui ricorsi n. 40877/98 e n. 45649/99 [si veda, successivamente, la decisione del 3 giugno 2004 sul ricorso n. 73936/01, nonché, da ultimo, la decisione del 6 dicembre 2005, sul ricorso n. 23053], secondo le quali l’assenza di un chiaro legame tra l’opinione espressa e l’esercizio di funzioni parlamentari postula una interpretazione stretta della proporzionalità esistente tra il fine perseguito ed i mezzi impiegati, specialmente nei casi in cui, sulla base della natura asseritamente politica della dichiarazione contestata, venga negato il diritto del soggetto leso di agire in giudizio». In tale contesto, dunque, la già intervenuta delibazione parlamentare circa la vicenda oggetto del presente procedimento e della sua non riconducibilità al plesso delle garanzie sancite dall’articolo 68 Costituzione, non soltanto rendeva del tutto superflua la trasmis3ionè degli atti da parte della autorità giudiziaria, ma paradossalmente ove tale trasmissione fosse stata in concreto disposta, la stessa si sarebbe addirittura potuto“interpretare” quale strumento di atipica ingerenza, giacché la scelta di “non reagire” al processo da parte della Camera dei deputati, proprio perché adottata in sede politico parlamentare, assumeva le connotazioni di irreversibile espressione della volontà di quel potere costituzionale. Per altro verso, la mancata evocazione di specifici atti parlamentari compiuti o riferibili all’imputato, quali “opinioni” delle quali gli articoli oggetto di imputazione avrebbero in ipotesi rappresentato elementi meramente divulgativi, impedisce in radice di poter ravvisare, nella specie, i presupposti per ritenere applicabile, in questa sede, la causa di non punibilità prevista dall’articolo 68, comma 1, Costituzione, che uno degli atti di ricorso sollecita, addirittura, in via preliminare”. Né può certo venire in soccorso ad una siffatta impostazione accenno, che compare sempre nel ricorso proposto dall’avv. Cicconi, al fatto che le espressioni usate dall’imputato rinvenissero “copertura” agli effetti della sindacabilità ex articolo 68. Costituzione in «numerosi atti ispettivi ed interpellanze presentate da altri parlamentari», giacché la giurisprudenza costituzionale è da tempo consolidata nell’affermare che la verifica del nesso funzionale tra dichiarazioni rese extra moenia ed attività tipicamente parlamentari, nonché il controllo sulla sostanziale corrispondenza tra le prime e le seconde, devono essere effettuati con riferimento «alla stessa persona», mentre sono irrilevanti gli atti di altri parlamentari, financo nella ipotesi in cui si tratti di parlamentari appartenenti allo stesso gruppo di cui faccia parte l’imputato. Si è infatti 53 sottolineato, al riguardo, che è ben vero che le guarentigie previste dall’articolo 68 Costituzione sono poste a tutela delle istituzioni parlamentari nel loro complesso e non si risolvono in privilegi personali dei deputati e dei senatori. Ma da questa esatta rilevazione non può trarsi tuttavia la conseguenza che esista una ti: e fungibilità tra i parlamentari iscritti allo stesso gruppo da produrre effetti giuridici sostanziali nel campo della loro responsabilità civile e penale per le opinioni e: presse al di fuori delle Camere: l’articolo 68, comma 1 Costituzione si è infitti efficacemente sottolineato non configura una sorta di insindacabilità di gruppo, per cui un atto o intervento parlamentare di un appartenente ad un gruppo fornirebbe copertura costituzionale per tutti gli altri iscritti al gruppo medesimo (su tali aspetti, v Corte costituzionale, sentenze 317/06, 260/06, 249/06, 146/05 e 347/04).Devono infine essere respinte anche tutte le questioni relative alle parti civili. A., proposito, infatti, della dedotta irritualità della procura conferita dalle parti civili, che si asserisce essere formalmente corretta ai fini della costituzione di parte civile, n, i non idonea a conferire anche valida rappresentanza processuale, «tanto che in calce all’atto di costituzione si legge una nomina di difensore in favore di sé stesso dell’avvocato nominato procuratore ex articolo 122 Cpp», basterà osservare che, al di là d. gli aspetti meramente nominalistici, ciò che conta è il profilo sostanziale degli atti di conferimento dei poteri, giacché è su di essi che va misurata tanto la legitimatio ad causam che la legitimatio ad processum. Ebbene, l’atto di procura speciale, con autentica notarile, sottoscritto dalle odierne parti civili, non soltanto “nominativa” e “costitutiva” quali procuratori speciali gli “avvocati...” affinché, alternativamente, si costituiscano parte civile: in loro vece nel procedimento penale a carico di…” ma attribuiva agli stessi anche il compito di rappresentanti e difenderli “con ogni necessaria facoltà, compresa quella di estendere la costituzione di parte civile nei confronti di tutti gli eventuali responsabili, di nominare sostituiti ed altri difensori, con espresso riferimento ad ogni grado del giudizio, di citare il responsabile civile di presentare impugnazioni, di ricorrere in Cassazione, eleggere domicilio, presentare memorie, richieste di risarcimento e conclusioni e fare quant’altro necessario fino al momento in cui sarà ottenuto il risarcimento integrale dei danni”. Non si vede, dunque, quali altre “formule” le parti private avrebbero dovuto adottare per il conferimento, accanto alla rappresentanza “sostanziale”, anche del correlativo potere di rappresentanza processuale. La procura è quindi valida anche quale nomina di difensore (v. Cassazione, Sezione quinta, 7 marzo 1995, Prati; Sezione quarta, 11 giugno 2001, Emanuele; Sezione quinta, 8 ottobre 2002, Farneti).Palesemente infondata è, poi, la pretesa inammissibilità della domanda risarcitoria delle parti civili Caselli o Lo Forte nei confronti dell’imputato, in considerazione della intervenuta condanna al risarcimento in sede civile a carico dell’editore e del direttore responsabile. Anche a volere prescindere, infatti, dai pur puntuali rilievi svolti dai difensori delle parti civili nella documentata memoria prodotta per l’udienza, ove si segnala la diversità della posizione del direttore e dell’editore del quotidiano convenuti in sede propria e della non integralità del danno ivi richiesto e riconosciuto, è assorbente rilevare che, in sede penale, la condanna risarcitoria è stata pronunciata solo sull’an, riservandosi la liquidazione del quantum in separata sede. Dunque, non v’è spazio alcuno per ritenere sine titulo la condanna pronunciata per il capo civile.Manifestamente infondato, oltre che generico, è anche il quinto ed ultimo motivo del ricorso proposto dall’avvocato Lo Giudice, nel quale ci si duole della scarna motivazione con la quale il giudice dell’appello avrebbe disatteso la richiesta di assunzione probatoria sollecitata nei motivi di impugnazione. Non può non rammentarsi, al riguardo, che la disposizione di cui all’articolo 603 Cpp, è fondata sulla presunzione di completezza dell’indagine probatoria esperita in primo grado e subordina la rinnovazione del dibattimento, da una parte, alla condizione di una sua necessità, che il legislatore qualifica come “assoluta” per sottolineare la oggettività e la insuperabilità con ricorso agli ordinari espedienti processuali, e, dall’altra, alla condizione che il giudice, cui è demandata ogni valutazione in proposito, la percepisca e la valuti come tale, vale a dire come un ostacolo all’accertamento della verità del caso concreto, insormontabile senza il ricorso alla rinnovazione totale o parziale del dibattimento. La discrezionalità dell’apprezzamento, dalla legge rimesso al giudice di merito, determina su altro versante l’incensurabilità in sede di legittimità di una valutazione, come nella specie, correttamente 54 anche se succintamente motivata, posto che l’apprezzamento circa la pertinenza e la rilevanza del novum evocato a corredo della domanda probatoria, necessariamente si salda all’intero panorama già scandagliato in prime cure (sul carattere eccezionale della rinnovazione della istruzione dibattimentale in appello, cfr. ex multis, Cassazione, Sezione seconda, 1 dicembre 2005, Di Gloria Il Grande).Quanto, infine, alle doglianze relative alla carenza di motivazione in ordine alle ragioni per le quali si sarebbe realizzata la diffamazione in danno delle persone indicate nella imputazione relativa al capo a) della rubrica, ed all’identico vizio che affliggerebbe la sentenza impugnata sul più generale profilo della mancata applicazione della esimente del diritto di cronaca e di critica politica, i rilievi non colgono nel segno, giacché i giudici dell’appello hanno, sia pur succintamente, esaminato le stesse doglianze, disattendendole alla luce dei rilievi già sviluppati nella sentenza di primo grado. In merito al primo profilo, infatti, nella sentenza di primo grado significativamente si premette: «quanto all’esatta individuazione dei magistrati non citati nominativamente, si osserva subito, per sgombrare il campo da eventuali contrarie argomentazioni che tale individuazione deve ritenersi emergere con tutta evidenza, al momento dei fatti, per essere gli stessi magistrati appartenenti al pool che svolgeva indagini nei confronti del collega Bombardini, più volte citati nominativamente e con la pubblicazione delle rispettive fotografie sulla maggior parte delle testate nazionali e locali, per cui non sussisteva alcuna possibilità di errore identificativo». Ed è noto, al riguardo, che, in tema di diffamazione, non è necessario che la persona cui l’offesa è diretta sia nominativamente designata, essendo sufficiente che essa sia indicata in modo tale da poter essere individuata in maniera inequivoca (Cassazione, Sezione quinta, 18 gennaio 1993, Pendinelli). Quanto, poi, al mancato riconoscimento della esimente del diritto di cronaca o di critica politica, la relatio che la sentenza di appello opera agli enunciati in fatto già presenti nella decisione adottata il primo grado, si rivela, in sé, legittima, posto che, una volta attestata la falsità delle circostanze esposte nell’articolo e nella intervista oggetto di imputazione, e verificata, la portata lesiva della onorabilità delle persone offese che palesemente caratterizzavano quelle stesse circostanze, «per giunta riportate puntualizza la sentenza impugnata con modalità espositive suggestive, ricche di valenza diffamatoria», v’è quanto basta per ritenere superata la soglia all’interno della quale vanno parametrati i confini entro i quali va riconosciuto il diritto, costituzionalmente presidiato, di manifestare liberamente e con ogni mezzo il proprio pensiero. Va infatti ribadito che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, è configurabile l’esimente del diritto di critica distinto e diverso dal diritto di cronaca quando il discorso giornalistico abbia un contenuto esclusivamente valutativo e si sviluppi nell’alveo di cui a polemica intensa e dichiarata, frutto di opposte concezioni, su temi di rilevanza sociale, senza trascendere ad attacchi personali finalizzati come nella specie –all’unico scopo di aggredire l’altrui sfera morale, non richiedendosi neppure a differenza di quanto si verifica con riguardo al diritto di cronaca che la critica sia formulata con riferimento a precisi dati fattuali, sempre, però, che il nucleo ed il profilo essenziale di questi non siano strutturalmente travisati e manipolati. Non sussiste, quindi, l’esimente del diritto di critica allorché un magistrato del Pm venga accusato come nelle vicende oggetto delle odierne imputazioni di svolgere indagini politiche, in quanto una siffatta espressione, evocando l’intento di favorire una determinata forza politica a scapito di un’altra, assume portata offensiva, risolvendosi in un attacco alla sfera morale della persona. Esula, dunque, dalla scriminante del diritto di critica, politica o giornalistica, l’accusa di asservimento della funzione giudiziaria ad interessi personali, partitici, politici, ideologici, ovvero accuse di strumentalizzazione di quella funzione per il conseguimento di finalità divergenti da quelle che debbono guidare l’operato del Pm, stanti le attribuzioni ed i doveri istituzionali che caratterizzano la posizione ordinamentale di tale organo (v., fra le altre, Cassazione, Sezione quinta, 1 luglio 2005, Liguori; 5 marzo 2004, Giacalone; 4 dicembre 1998, Soluri). D’altra parte, l’applicazione della scriminante del diritto di critica politica, pur nell’ambito (che certo non ricorre nella specie) della polemica tra avversari di contrapposti chiarimenti ed orientamenti, di per sé improntata ad un maggior grado di virulenza, presuppone che la critica sia espressa con argomentazioni, opinioni, valutazioni, apprezzamenti che non degenerino in attacchi personali o in manifestazioni gratuitamente lesive della altrui 55 reputazione, strumentalmente estese anche a terreni estranei allo specifico della contesa politica, e non ricorrano all’uso di espressioni linguistiche oggettivamente offensive ed estranee al metodo ed allo stile di una civile contrapposizione di idee, oltre che non necessarie per la rappresentazione delle posizioni sostenute e non funzionali al pubblico interesse (Cassazione, Sezione prima, 10 giugno 2005, Pochini). Un limite di continenza, dunque, necessariamente ancor più rigoroso ove esso venga riguardato, non nella prospettiva di una contesa fra gruppi politici contrapposti, ma si iscriva – come nella specie – in una “polemica” unilateralmente promossa attraverso l’arbitrario inserimento di magistrati all’interno di un supposto schieramento politico antagonista. Per altro verso, l’esercizio del diritto di critica, pur assumendo necessariamente connotazioni soggettive ed opinabili, specie quando lo stesso abbia ad oggetto l’esercizio di pubbliche funzioni, richiede – accanto al rispetto del limite della rilevanza sociale e della correttezza delle espressioni usate – che, comunque, le critiche trovino riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale e che, pertanto, esse non si risolvano in una ricostruzione volontariamente disopra della realtà, preordinata esclusivamente ad attirare l’attenzione negativa dei lettori sulla persona criticata (sulla verità del fatto, Cassazione, Sezione quinta, 30 novembre 2005, Sorbo; 25 febbraio 2005, Ferrara; 12 novembre 2004, Perna). Ebbene, anche sotto tale profilo – per la verità neppure seriamente contestato in sede di ricorso – la sentenza di primo grado ha dato puntualmente atto di come le “accuse”, “per molti versi deliranti”, rivolte dall’imputato per il tramite degli organi di stampa, si fossero rivelate, nel merito, infondate, avendo l’istruttoria dibattimentale “permesso di stabilire che la diversa verità dei fatti emergeva dai comportamenti da ciascuno posti in essere e da tutta la documentazione degli atti pubblici ed ufficiali che ben era conosciuta allo stesso imputato, che poteva essere conosciuta, che, in quanto sconosciuta perché riservata, doveva indurre a prudenza”. Dunque, palese in conferenza, di qualsiasi scriminante, sia essa riconducibile al diritto di cronaca, ovvero al diritto di critica, che il ricorrente – errando – assume essere stato indebitamente pretermesso dai giudici a quibus.Pertanto, avendo la sentenza impugnata fatta proprio lo scrutinio già condotto in primo grado sulla assenza dei presupposti per ritenere nella specie ravvisabile l’invocata scriminante, deve ritenersi che la pronuncia stessa si sottragga al dedotto vizio di motivazione, considerato che le doglianze a tal proposito sollevata in sede di appello non coinvolgevano profili diversi da quelli già esaminati nel precedente grado di giudizio.Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione di quelle sostenute nel grado delle parti civili, che vengono liquidate come da dispositivo.PQMRigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili che liquida in complessivi euro 5000 come da notula, oltre spese generali come per legge. -La diffamazione, in quanto reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono la espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. V PENALE - SENTENZA 25 luglio 2006, n. 25875 SENTENZA sul ricorso proposto da: 1) C.R., nato il ...; 2) D.N.C., nato il ...; avverso la sentenza 11 gennaio 2005 della Corte d'Appello di Napoli; Visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Fumo Maurizio;Udito il P.G., in persona del Sostituto Procuratore Generale F.M. Jacoviello, che ha chiesto: 1) annullamento senza rinvio in ordine al capo relativo alle spese cui è stato condannato l'imputato; 2) annullamento con rinvio in ordine alla entità della liquidazione del'onorario del difensore di p.c.; 3)dichiarazione di inammissibilità nel resto per quanto riguarda il ricorso dell'imputato.Udito il difensore di p.c., Avv. 56 E.B., che, illustrando i motivi di ricorso, ne ha chiesto l'accoglimento, chiedendo al contempo dichiararsi inammissibile il ricorso proposto nell'interesse dell'imputato;adito il difensore dell'imputato, Avv. F.M., che, illustrando i motivi di ricorso, ne ha chiesto l'accoglimento;Osserva quanto segue:Il Tribunale di Napoli, con sentenza 03.08.2003, condannò C.R. alla pena ritenuta di giustizia (con la continuazione, il riconoscimento di attenuanti generiche e il beneficio della sospensione condizionale), oltre al risarcimento danni in favore della p.c., giudicandolo colpevole del reato di cui all'art. 595 cp (per avere offeso la reputazione dell'Avv. D.N.C. aprendo un sito internet a nome del predetto, indicato come ... ..., sul quale apparivano immagini di adolescenti intenti a compiere atti sessuali) e per quello ex artt. 476, 482, 485, 61n.2 cp perchè, allo scopo di commettere il predetto reato di diffamazione, apponeva la falsa firma del D.N.C. in calce al modulo di richiesta di apertura dei siti web ..., ..., ....La Corte d'Appello, con sentenza 11.01.2005, ha confermato la pronunzia di primo grado (affermando tuttavia in motivazione di concedere al C.R. il beneficio della non menzione), condannando l'imputato al pagamento delle ulteriori spese processuali e al rimborso di quelle sostenute dalla p.c. in secondo grado, spese che ha liquidato in Euro 1000 oltre Iva e Cpa.Ricorre il difensore dell'imputato e deduce erronea applicazione della legge processuale con riferimento alla difformità tra motivazione e dispositivo della sentenza, erronea applicazione della legge penale sostanziale con riferimento all'art. 595 cp e della legge processuale penale con riferimento all'art. 192 cpp, nonchè difetto di motivazione con riferimento alla applicazione di tale ultimo articolo.Argomenta come segue:a) La Corte ha riformato la sentenza di primo grado (concedendo la non menzione), ma ha poi erroneamente condannato l'appellante alle spese processuali.b) La Corte afferma che il contenuto diffamatorio delle notizie e immagini inserite sul sito web è stato certamente percepito da terzi, dal momento che l'imputato inviò una lettera anonima a un giornalista, invitandolo a visitare i siti pornografici. Orbene, è evidente che, con l'avvisare il giornalista, certamente il mittente della lettera intendeva avvisare il D.N.C., ma il giudice di secondo grado confonde la lettera inviata al giornalista con altra lettera inviata al D.N.C. con la quale lo si rendeva edotto della presenza sul web delle notizie e immagini sopra indicate.Sulla base di tale equivoco, i giudicanti ricostruiscono (errando) la natura dolosa della condotta ascritta all'imputato.c) Nei procedimenti di natura indiziaria devono ovviamente trovare applicazione i commi I e II dell'art. 192 cpp. Ebbene, la Corte di merito non ha adeguatamente motivato in ordine al secondo motivo di gravame col quale si contestava la riconducibilità al C.R. del fatto accertato.Erroneamente si sostiene infatti in sentenza che la difesa dell'imputato non contesta che l'attivazione dei siti sarebbe stata effettuata ad opera del ricorrente e dunque non si comprende donde il giudicante abbia tratto il suo convincimento che sia stato proprio l'imputato l'autore della falsificazione documentale di cui al capo di imputazione.Invero l'esame di tutti gli elementi ritenuti indiziari non ha consentito di raggiungere la certezza della concordanza tra gli indizi predetti, atteso che essi rinviano alla condotta di soggetti diversi dal ricorrente (B.G., M.C., C.C., C.F.).A ben vedere, dunque, i pretesi indizi non sono neanche precisi e univoci.La motivazione tenta di sopperire, facendo menzione di un presunto malanimo dell'imputato nei confronti del D.N.C. per essere stato quest'ultimo avvocato della ... in una controversia civile che la aveva opposta al C.R..La circostanza è quantomeno equivoca, atteso che anche gli altri soggetti sopra indicati risultano essere stati coinvolti nella ricordata vicenda giudiziaria.Nessun ulteriore elemento di convincimento può poi essere tratto dal presunto astio che l'imputato avrebbe nutrito nei confronti di un magistrato che, in funzione di G.E., si occupò di un'esecuzione immobiliare in danno del ricorrente, posto che in tale vicenda non risulta a nessun titolo coinvolto il D.N.C..In realtà l'unico elemento concreto emerso consiste nel fatto che la Polposta ebbe ad accertare che i siti furono "attivati" attraverso un'utenza telefonica nella presunta disponibilità dell'imputato. Detta utenza in realtà è intestata alla sorella di C.R.; nulla prova che fosse in uso esclusivo al ricorrente.Ricorrono inoltre, congiuntamente, il D.N.C. e il suo difensore, Avv. E.B., i quali deducono violazione di legge (art.1 D.M. 127/04 in relazione all'art.4 capitolo I che stabilisce gli onorari minimi e i diritti previsti per le prestazioni professionali del difensore) e lamentano che la liquidazione operata dal giudice di secondo grado risulta, da un lato, del tutto priva di motivazione, 57 dall'altro, comunque, inferiore al minimo stabilito, appunto, per legge.Tanto premesso, questo Collegio rileva che la sentenza di secondo grado reca, come premesso, nella parte motiva, la indicazione della concessione dell'ulteriore beneficio della non menzione al C.R. ("la completa incensuratezza dell'imputato consente la concessione del beneficio della non menzione"), mentre di tanto non è traccia nel dispositivo.Orbene, poichè - ai sensi delle risalenti pronunzie della Corte Costituzionale 225/75 e 155/84 - l'art.175 comma I cp va necessariamente interpretato nel senso che può concedersi la non menzione anche in presenza di pene per reati anteriormente commessi, purchè dette pene, cumulate con quella da irrogare, non superino il limite dei due anni, ne consegue che il C.R., in astratto e nonostante la precedente condanna già riportata, potrebbe fruire del beneficio richiesto.Il contrasto tra dispositivo e motivazione non è dunque irrilevante.L'errore della Corte d'Appello (aver affermato che l'imputato era incensurato) e l'omissione compiuta (nel dispositivo, rispetto alla motivazione) impongono l'annullamento con rinvio per nuovo esame (ovviamente ad altra sezione della medesima Corte), in accoglimento, nei termini appena chiariti, della prima censura del ricorso del C.R.Va da sè che l'eventuale concessione del beneficio (e dunque, sostanzialmente, all'accoglimento del primo motivo di appello) dovrebbe corrispondere una conseguente statuizione in ordine alle spese per il giudizio di secondo grado, come richiesto dalla difesa del C.R.La seconda censura è manifestatamente infondata.Questa Corte, proprio con riferimento a un caso di "diffamazione telematica", ebbe ad affermare (ASN 200004741 - RV 217745) che la diffamazione, in quanto reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono la espressione ingiuriosa e dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano state immesse sul web, nel momento in cui il collegamento viene attivato.Coerentemente, dunque, la Corte territoriale ha fatto riferimento alla missiva ricevuta dal giornalista (e dunque resa inevitabilmente nota a più persone operanti nella redazione del quotidiano), il quale, proprio a seguito di essa, si collegò con il sito e prese visione del suo contenuto, comunicandolo poi al D.N.C..Che quest'ultimo sia stato, poi, a sua volta, destinatario di altra lettera di analogo contenuto è del tutto irrilevante.Al proposito, oltretutto, va chiarito che, quando una notizia risulti immessa sui cc.dd. media, vale a dire nei mezzi di comunicazione di massa (cartacei, radiofonici, televisivi, telematici ecc.), la diffusione della stessa, secondo un criterio che la nozione stessa di "pubblicazione" impone, deve presumersi, fino a prova del contrario.Il principio non può soffrire eccezione per quanto riguarda i siti web, atteso che l'accesso ad essi è solitamente libero e, in genere, frequente (sia esso di elezione o meramente casuale), di talchè la immissione di notizie o immagini "in rete" integra l'ipotesi di offerta delle stesse in incertam personam e dunque implica la fruibilità da parte di un numero solitamente elevato (ma difficilmente accertabile) di utenti.La terza censura è, a sua volta, manifestatamente infondata, atteso che essa presuppone una errata lettura e una non corretta comprensione della trama argomentativa posta dalla Corte a supporto della decisione assunta.I giudice del merito, infatti, muovono dal dato certo, consistente nel fatto che i siti in questione furono "caricati" da un'utenza telefonica, installata presso il laboratorio di riparazione TV dell'imputato.Dunque, anche se l'utenza in questione era intestata a C.F., osserva la Corte d'Appello, l'utente abituale era certamente il fratello R. Accanto a tale primo elemento, tuttavia, i giudici di merito considerano anche il fatto che l'imputato aveva un valido movente per un'azione ritorsiva nei confronti del D.N.C. (vedasi quanto esposto in narrativa a proposito dle fatto che la p.o. era il legale della ... che intentò azione civile contro il C.).E' duqnue esatto che anche altri soggetti avrebbero potuto avere motivi di astio nei confronti del D.N.C ma è anche esatto che l'utenza telefonica in questione era installata presso il laboratorio del C.R. e non degli altri "sospettabili"."Dall'incrocio degli elementi sopra indicati, la Corte giunge, con procedimento certamente non illogico, alla conclusione che autore della diffamazione (e del falso strumentale ad essa) altri non poteva essere stato se non l'imputato.I canoni del processo indiziario risultano dunque puntualmente osservati.Consegue l'inammissibilità delle censure sub b) e c).La censura recata dal ricorso dell'Avv. B. e di D.N.C appare, viceversa, fondata, atteso che, a seguito di mera operazione di raffronto/riscontro, è agevole accertare che quanto liquidato dal giudice di secondo grado costituisce somma inferiore ai minimi stabiliti per legge.L'impugnata sentenza va dunque 58 annullata con rinvio (come si è detto, ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli), limitatamente:1) al diniego della non menzione in favore di C.R.;2) alla liquidazione delle spese in favore della p.c., nel giudizio di appello.Nel resto il ricorso del C.R. va dichiarato inammissibile.L'imputato va condannato al ristoro delle spese sostenute dalla p.c. in questo grado di giudizio che si liquidano come da dispositivo.PQM La Corte annulla l'impugnata sentenza limitatamente al diniego del beneficio della non menzione della condanna e all'entità della liquidazione delle spese di p.c., con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte d'Appello di Napoli; dichiara inammissibile nel resto il ricorso dell'imputato e condanna il ricorrente C.R. al pagamento delle spese sostenute dalla parte civile in questo grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro duemilatrecento (2300), di cui duemila (2000) per onorario. TRUFFA E MILLANTATO CREDITO TRACCIA: Tizio, gelataio di Palermo, conosceva da diversi anni il sig. Pizzul. Tizio veniva visto dal sig. Pizzul in compagnia del giudice civile Martufel. Pizzul veniva citato, poi, in giudizio da Sempronio, per un inadempimento contrattuale del valore di dieci milioni di euro; il giudice competente era Martufel. Tizio, allora, venuto a sapere del fatto, si recava presso il domicilio di Pizzul. Tizio chiedeva a Pizzul la somma di un milione di euro, promettendo a quest’ultimo l’assoluzione dal processo civile, in considerazione dell’amicizia con il giudice Martufel: Tizio prometteva a Pizzul di non fargli avere la condanna al pagamento per la causa promossa da Sempronio. Pizzul restava sbalordito; dopo due giorni dall’incontro, Pizzul telefonava a Tizio, comunicandogli di voler accettare la proposta. Pizzul consegnava un assegno, del valore di un milione di euro, a Tizio. Dopo sei mesi dal fatto, Tizio, che non aveva mai avuto intenzione di chiedere alcun “favore” a Martufel, si recava da un legale. Il candidato, premessi brevi cenni sul reato di truffa, affronti la questione giuridica posta evidenziando eventuali tesi favorevoli al proprio assistito. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa andava ricostruito (molto sinteticamente il fatto); subito dopo era necessario parlare brevemente del reato di truffa. Generalmente il reato di truffa (oggi si ritiene ammissibile anche la truffa omissiva e telematica) è un tipico reato in contratto (e non reato-contratto) che incide sul processo di volizione, alterandolo, con la conseguenza che eventuali contratti, stipulati a seguito di truffa (truffa contrattuale) sono annullabili (per vizi della volontà). Secondo l’orientamento più recente, la truffa, ex art. 640 c.p., è reato plurioffensivo, comune (può essere compiuto da chiunque, mentre se vi è la qualifica soggettiva pubblica del soggetto attivo, che abusa della sua autorità, vi potrà essere concussione), tendenzialmente a condotta vincolata (la giurisprudenza non è unanime sul punto) caratterizzata da artifici e raggiri (che è un concetto molto più ampio della dissimulazione del proprio stato di insolvenza, come nel caso di insolvenza fraudolenta, ex art. 641 c.p.) che cagionano un danno patrimoniale (alla luce della collocazione sistematica: “Dei delitti contro il patrimonio”) con un collegamento causale diretto (alcuni ammettono anche la truffa a danno di terzo o a favore di terzo) tra depauperamento (altrui danno) ed arricchimento (ingiusto profitto). Successivamente, bisognava chiedersi se la fattispecie di truffa sia o meno applicabile al caso preso 59 in esame; Tizio ha realizzato una condotta idonea ad integrare gli estremi della truffa? Invero, Tizio non sembra tanto aver realizzato una condotta generica di artifici e raggiri (c’è una forma, particolare, di mediazione, che non è presente nello schema della truffa), ma più specifica e circostanziata di millantato credito, ex art. 346 c.p. Tizio, in particolare, chiedeva una somma di denaro a Pizzul in cambio di un favore da chiedere a Martufel, con la conseguenza che vi è la condotta tipica della mediazione verso pubblico ufficiale, ex art. 346 c.p.; non era applicabile il II comma dell’art. 346 c.p., in quanto Tizio non riceveva il milione di euro con il pretesto di comprare il favore di Martufel, ma riceva quel denaro come corrispettivo della richiesta di un favore a Martufel (senza cedergli il compenso del milione di euro ovvero parte di esso). Ulteriore problema che doveva essere preso in considerazione era quello del possibile concorso di reati tra truffa e millantato credito (altrimenti la traccia non avrebbe richiesto di premettere brevi cenni sulla truffa se, in qualche modo, non era una figura destinata ad essere trattata), tanto più che bisognava cercare di evidenziare tesi favorevoli (già da questo “suggerimento” della traccia poteva intuirsi di dover negare validità alla tesi del concorso di reati). Il concorso di reati non sembra sussistere nel caso di specie, in quanto l’art. 346 c.p. potrebbe essere ritenuta norma speciale rispetto a quella di truffa, come sostenuto da parte della dottrina (e giurisprudenza), tanto più che emerge la specificità del credito vantato e della mediazione che, invece, non è espressamente menzionata nella truffa; id est: l’art. 346 c.p. ha una sua autonomia strutturale ben diversa dalla truffa, con la conseguenza che le due figure possono anche non concorrere tra loro, come nel caso di specie in cui la condotta antigiuridica è costituita dall’aver vantato un credito come prezzo per una mediazione. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -L’autista giudiziario in servizio presso un Tribunale che si fa consegnare una somma di danaro da un detenuto, al fine di “comprare” un provvedimento di scarcerazione, millantando credito presso un magistrato dello stesso Tribunale in procinto di adottare un provvedimento di sospensione dell’esecuzione delle pena detentiva in corso nei confronti dello stesso detenuto (c.d. “compratore di fumo”), risponde soltanto del reato di millantato credito, ex art. 346, comma 2, c.p., e non anche del reato di truffa, atteso che tra le due fattispecie di reato non vi può essere concorso formale; in tal caso, infatti, non può trovare applicazione anche la norma incriminatrice della truffa, in quanto tale reato deve ritenersi assorbito in quello di millantato credito, sul rilievo che, diversamente, l’imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui all’art. 346, comma 2, c.p. CASS. PEN. SEZ VI- 12 settembre 2006, n. 30150- Pres. Leonasi- Fidelbo SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d'appello di Messina ha confermato la decisione con cui il locale Tribunale, in composizione monocratica, aveva condannato Filippo LA PORTA alla pena di anni due e mesi due di reclusione per i reati di millantato credito e truffa aggravata, con condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, da liquidarsi in separata sede. 60 Secondo la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito LA PORTA, autista giudiziario in servizio presso il Tribunale di Nicosia, avrebbe millantato credito presso il dott. Luca Rossomandi, magistrato di quello stesso ufficio, facendosi promettere e poi consegnare la somma di otto milioni di lire da Giovanni Sutera e Santi Sutera, per "comprare" il provvedimento di scarcerazione dallo stesso magistrato, che avrebbe dovuto adottare una decisione in ordine alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva che Giovanni Sutera stava scontando. Per questi fatti i giudici d'appello hanno ritenuto sussistente, oltre al reato di cui all'art. 346 c.p., anche l'ipotesi di truffa aggravata ai danni dei fratelli Sutera. 2. L'imputato ha proposto ricorso per cassazione per mezzo del suo difensore. Con il primo motivo deduce l'erronea applicazione dell'art. 346 comma 2 c.p. riprendendo un argomento già speso in appello. In particolare, il ricorrente assume che non ricorra nella specie il reato di millantato credito, in quanto al momento dell'accordo truffaldino il magistrato aveva già emesso il provvedimento, con la conseguenza che è venuto a mancare lo stesso presupposto per la sussistenza del millantato credito, cioè l'acquisto del favore presso il pubblico ufficiale. Con altri due motivi si deduce l'inosservanza dell'art. 61 n. 9 e n. 11 c.p., in quanto erroneamente i giudici hanno applicato tali circostanze aggravanti, non riferibili all'imputato che svolgeva mansioni di autista giudiziario e che quindi non si è agevolato del servizio cui era addetto, né la sua attività ha integrato la violazione connessa alle sue funzioni; allo stesso modo, si ritiene che LA PORTA non abbia "abusato" delle relazioni d'ufficio, tenendo conto che lavorava in una sede diversa da quella del dott. Rossomando, che era giudice di sorveglianza a Caltanissetta. Con il quarto motivo, collegato agli ultimi due, il ricorrente deduce la violazione dell'art. 640 c.p., ritenendo che una volta escluse le aggravanti, i giudici d'appello avrebbero dovuto dichiarare l'improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela. Con l'ultimo motivo, infine, si contesta la sentenza per l'immotivato diniego delle circostanze attenuanti generiche. MOTIVI DELLA DECISIONE 3. Il primo motivo è infondato. 3.1. Correttamente i giudici d'appello hanno ritenuto la sussistenza del reato di millantato credito, nell'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 346 c.p., escludendo che con la sua condotta l'imputato abbia posto in essere solo una truffa ai danni dei fratelli Sutera, così come sostiene il ricorrente, secondo cui il delitto di millantato credito non vi sarebbe stato, in quanto l'accordo truffaldino si sarebbe concluso successivamente all'emanazione del provvedimento di scarcerazione. Si tratta di una ricostruzione alternativa dei fatti, smentita dalla sentenza impugnata che, invece, rispondendo alla medesima obiezione sollevata nei motivi d'appello, ha ritenuto che le trattative abbiano preceduto il provvedimento di scarcerazione e che le parti avessero anche raggiunto un accordo preventivo circa il pagamento della somma di cinque milioni, pagamento subordinato alla effettiva scarcerazione del Sutera. E' evidente che la dedotta violazione di legge si fonda su una ipotesi alternativa a quella ritenuta dai giudici di merito, in cui, indirettamente, vengono confutati i fatti così come ricostruiti dalla sentenza impugnata, senza peraltro che siano stati proposti motivi riguardanti la mancanza ovvero la illogicità o la contraddittorietà della motivazione. In sostanza, la supposta erroneità nell'applicazione dell'art. 346 comma 2 c.p. si fonda su una ricostruzione dei fatti che non trova riscontro nella sentenza. Infatti, è sulla base della ipotesi ricostruttiva effettuata nella sentenza che deve essere valutata non solo la correttezza del procedimento logico-argomentativo che ha portato a ritenere la sussistenza del reato, ma anche la corretta applicazione delle norme sostanziali e processuali. 3.2. In ogni caso, deve osservarsi che la circostanza relativa al momento in cui l'accordo è intervenuto - prima o dopo l'emanazione del provvedimento di scarcerazione emesso dal giudice non è elemento in grado di far venire meno l'ipotizzabilità del reato di cui all'art. 346 comma 2 c.p. Questo delitto si realizza quando l'agente si fa dare o promettere il denaro col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o di doverlo remunerare, quando cioè promette la 61 corruzione del pubblico ufficiale; la dazione o la promessa trovano la loro causa nel pretesto di corrompere il funzionario e la condotta dell'agente finisce per realizzare un mendacio in danno del "compratore di fumo", indotto da tale falsa rappresentazione della realtà a impegnarsi nell'adempimento della prestazione. Il reato si consuma nel momento in cui l'agente si fa promettere l'utilità col pretesto di dover comprare il favore del pubblico ufficiale e non è previsto come elemento costitutivo del reato che l'agente condizioni effettivamente l'attività del pubblico ufficiale. Se ciò accadesse, se cioè la remunerazione fosse effettivamente destinata al pubblico ufficiale scatterebbero le diverse ipotesi di reato previste dagli arti 318, 319 c.p. Il millantato credito realizza, quindi, una tutela anticipata, in quanto perché sia integrato basta la dazione o la promessa di un'utilità, anche non patrimoniale. Ne consegue che ai fini della configurabilità dell'illecito non assume alcun rilievo il fatto che il pubblico ufficiale abbia o meno emesso il provvedimento favorevole: tenuto conto del momento consumativo del millantato credito, il reato si realizza anche nel caso in cui il provvedimento favorevole già esista, ma sia ignoto al "compratore di fumo", il quale, ignaro, concluda l'accordo con l'agente. La circostanza dedotta dal ricorrente può acquistare rilievo solo come elemento sintomatico della conoscenza, da parte del "compratore di fumo", del raggiro posto in essere ai suoi danni: ma nel caso in esame non vi è la minima prova di ciò e lo stesso imputato si è solo limitato ad affermare, apoditticamente, che al momento dell'accordo il provvedimento era già stato emesso. 3.3. La sentenza impugnata ha riconosciuto l'imputato colpevole sia del reato di millantato credito, che del reato di truffa, prendendo così posizione sul dibattuto problema del concorso tra le due fattispecie penali. Deve tuttavia osservarsi che la questione, ancora aperta in dottrina e in giurisprudenza, circa la possibilità o meno che i due reati possano concorrere riguarda esclusivamente la fattispecie contenuta nel primo comma dell'art. 346 c.p., relativa al fatto di chi, millantando credito presso un pubblico ufficiale riceve denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale, ma non si pone con riferimento alla ipotesi di cui al secondo comma, che è quella contestata nel caso in esame. L'orientamento dottrinario prevalente ritiene che in base al principio di consunzione il millantato credito, nell'ipotesi di cui al comma 1, assorbe la truffa in quanto la contiene, sia pure nella forma del tentativo e questa tesi è seguita da una parte minoritaria della giurisprudenza (Sez. VI, 4 maggio 2001, n. 2010, Paccani); un diverso orientamento, minoritario in dottrina, ma prevalente in giurisprudenza, ritiene invece che tra i due reati sia configurabile il concorso formale, perché tutelano interessi distinti e perché diverso è il mezzo utilizzato per la loro commissione, dal momento che nel delitto di millantato credito la condotta consiste in un raggiro del tutto particolare consistente nelle vanterie esplicite o implicite di ingerenze o pressioni sulla attività pubblica (Sez. VI, 25 febbraio 2003, n. 15118, Santangelo, RV 224844; Sez. VI, 24 novembre 1998, n. 13657, Battaglia; Sez. VI, 7 novembre 1997, n. 547, Virzi). Ma un problema di concorso in relazione all'ipotesi di cui al comma 2 dell'art. 346 c.p. non sembra destinato a porsi, almeno negli stessi termini conosciuti per l'altra figura. La fattispecie contemplata nel capoverso dell'art. 346 c.p. oltre ad essere del tutto autonoma rispetto all'altra, riguarda, come si è visto, il fatto di chi riceve o fa dare o fa promettere a sé o ad altri denaro o altra utilità, col pretesto di dover comprare il favore di un pubblico ufficiale o impiegato, o di doverlo remunerare. Si tratta di un reato autonomo ricalcato sullo schema della truffa, anzi rappresenta, così come ritiene una autorevole dottrina, una figura particolare di truffa. Invero, a differenza del millantato credito previsto dal primo comma del citato art. 346 c.p., in questa ipotesi la condotta richiesta non sembra poter prescindere dagli artifizi o raggiri indicati per il delitto di truffa: anche nella fattispecie in esame la condotta dell'agente consiste in una forma di raggiro nei confronti di un soggetto che viene indotto da una falsa rappresentazione della realtà ad un accordo che lo impegna ad una prestazione di pagamento. Qui il soggetto attivo non si propone attraverso un'attività di intermediazione, come nella ipotesi base dell'art. 346 c.p., ma si presenta quale strumento di corruzione di un funzionario pubblico, con la conseguenza che se realizza effettivamente l'attività di corruzione concorre del delitto di cui all'art. 318-319 c.p., mentre se, ingannando il "compratore di fumo", si appropria della 62 retribuzione risponderà del reato di cui al capoverso dell'art. 346 c.p. Ciò che differenzia le due ipotesi di millantato credito è l'elemento del "pretesto" contenuto nel comma 2 dell'art. 346 c.p., un elemento che richiama il mendacio e l'inganno, in quanto corrisponde sostanzialmente alla falsa causa addotta dall'agente per indurre con l'inganno il "compratore di fumo" ad una prestazione patrimoniale, che diversamente non sarebbe ottenibile. D'altra parte, la sovrapposizione con il reato di truffa può essere colta anche da un altro punto di vista, che mette in evidenza come la condotta dell'agente sia tutta protesa al conseguimento di un profitto patrimoniale attraverso l'induzione in errore del ed. compratore di fumo, il quale non è punibile proprio in considerazione di tale struttura della norma, considerazione questa che porta a ritenere che il bene oggetto della tutela penale, almeno nell'ipotesi di cui al capoverso dell'art. 346 c.p., sia anche quello patrimoniale. In definitiva, si tratta di una fattispecie che ricalca pienamente la struttura della truffa e che consiste - secondo la definizione di una autorevole dottrina - in una "frode volgare tesa al privato, col pretesto di una corruzione che non si ha nessuna intenzione di intraprendere". Sulla base di questa interpretazione, che il Collegio ritiene di accogliere, deve escludersi che l'imputato possa rispondere, con riferimento alla medesima condotta, anche del reato di truffa commesso nei confronti dei fratelli Sutera, così come ritenuto nella sentenza impugnata, in quanto fra le due fattispecie non vi può essere concorso formale. Non può trovare applicazione anche la norma incriminatrice della truffa, in quanto tale reato deve ritenersi assorbito in quello di millantato credito, dal momento che, diversamente, l'imputato si troverebbe a dover rispondere di due reati, sebbene il disvalore del fatto risulti già integralmente valutato dalla norma incriminatrice di cui all'art. 346 comma 2 c.p. 3.3. I motivi di cui ai n. 2, 3 e 4 del ricorso, tutti riguardanti il reato di truffa, devono ritenersi assorbiti 4. Infondato è l'ultimo motivo, con cui il ricorrente lamenta la mancata concessione delle attenuanti generiche, in quanto la sentenza ha motivato in maniera adeguata tale scelta, ponendo l'accento sui gravi precedenti dell'imputato. 5. In conclusione la sentenza deve essere annullata senza rinvio, limitatamente alla condanna per il reato di truffa, la cui pena, pari a due anni di reclusione inflitta in continuazione al delitto di millantato credito, può essere eliminata in questa sede. Per il resto il ricorso deve essere rigettato. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla imputazione di truffa, siccome assorbita nel reato di millantato credito ed elimina la relativa pena di mesi due di reclusione. Rigetta nel resto. -La fattispecie criminosa di cui all’articolo 316-ter del Cp ha carattere residuale e sussidiario rispetto alla fattispecie della truffa aggravata prevista dall’articolo 640-bis del Cp e non è con essa in rapporto di specialità, sicché ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere e omissione di informazioni dovute) ben può concorrere a integrare gli artifici e/o i raggiri previsti dalla fattispecie della truffa, ove di questa figura siano integrati gli altri presupposti. Bisogna verificare caso per caso. CASS. PEN.- SEZ. II- 15 settembre 2006, n. 30729- Pres. Rizzo- est. Macchia Con ordinanza del 25 gennaio 2006, il Tribunale di Catanzaro, in parziale accoglimento dell'appello proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Lamezia Terme avverso l'ordinanza del locale Giudice per 63 le indagini preliminari del 29 settembre 2005, con la quale era stata respinta la richiesta di sequestro preventivo e per equivalente formulata in relazione al delitto di cui all'art. 640 bis cod. pen. in riferimento a finanziamenti erogati alla azienda IMM s.r.l. in Gizzeria, località Marevitano, a seguito di artifici contabili e operazioni di false fatture, ha fra l'altro disposto il sequestro preventivo per equivalente - in ragione dell'ammontare dei finanziamenti erogati - dei beni, fra gli altri, di CARERE Vincenzo Salvatore, fino alla concorrenza di euro 2.169.010,52. In particolare, il Tribunale dell'appello cautelare riteneva la sussistenza di gravi indizi in ordine al delitto di cui all'art. 640 bis cod. pen. in merito al finanziamento richiesto per la costruzione dell'opificio in Ginzeria della IMM Industria Manifattura Maglieria s.r.l. alla stregua di varie emergenze scaturite dalle indagini. Tale apprezzamento era infatti desunto dal fatto che il finanziamento era stato richiesto facendo leva su un artificio contabile consistito nell'aver indicato come esistente un apporto di capitale da parte di alcuni soci senza che tale aumento fosse stato effettivo, non essendo stati mai operati i relativi versamenti ed essendo stata stornata la posta attiva nei successivi stati patrimoniali e bilanci di esercizio. La operazione truffaldina era poi asseverata dalla esistenza di false attestazioni e false fatture finalizzate alla percezione delle successive tranches di finanziamento a fronte di lavori effettivamente eseguiti e pagati per importi inferiori, nonché dalla falsa indicazione di acquisti di macchinari nuovi in luogo degli acquisti effettivi, relativi a macchinari usati, nonché dalla acquisizione di elementi dai quali era possibile desumere lo storno di denaro indicato come corrispettivo dei pagamenti in contanti per opere e forniture non realizzate, su conti comunque riconducibili agli indagati. A proposito, poi, della specifica posizione del CARERE, il Tribunale ne ha messo in luce la qualità di consulente fiscale della impresa IMM in riferimento ad un complesso artificio contabile realizzato dall'indagato nel quadro della vicenda oggetto del procedimento, vale a dire il fittizio aumento di capitale preordinato al conseguimento del contributo, ed il successivo mutamento dello stato patrimoniale con eliminazione, al 31 dicembre 2000, del credito verso soci e dell'aumento di capitale. Evenienza, questa, che veniva assunta a base della accusa, considerato che il mutamento dei dati delle scritture contabili, redatte dall'indagato nel 1999 e nel 2000, e relative al capitale sociale, si presentavano come operazioni in sé prive di logica, spiegandosi invece nella prospettiva della relativa finalizzazione alla richiesta di finanziamento.Avverso l'ordinanza indicata in premessa propone ricorso per cassazione il difensore, deducendo vari motivi. Nel primo si lamenta violazione dell'art. 15 della legge 29 settembre 2000, n. 300, introduttiva dell'art. 322 ter cod. pen., in quanto la condotta dell'indagato sarebbe stata antecedente alla data di entrata in vigore della novella, essendosi realizzata con il deposito presso il registro delle imprese di Catanzaro del bilancio di esercizio del 1999 e della connessa relazione, avvenuto il 30 maggio 2000, rappresentando il successivo mutamento dello stato patrimoniale al 31 dicembre 2000 - menzionato nella ordinanza impugnata - null'altro che un post factum tendente all'adeguamento formale delle risultanze contabili. Si prospetta, poi, nel secondo motivo, erronea applicazione dell'art. 640 bis cod. pen. e conseguente erronea applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in quanto il reato contestato doveva essere quello di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all'art. 316 ter cod. pen., posto che, a seguito della introduzione di tale figura, per la realizzazione del delitto di truffa di cui all'art. 640 bis cod. pen., sarebbe richiesto un quid pluris oltre alla mera presentazione di dichiarazioni e documenti falsi. Il che comporta, secondo il ricorrente, la inapplicabilità della confisca per equivalente, stante il rinvio operato al solo art. 640 bis cod. pen. ad opera dell'art. 640 quater del medesimo codice. Nel terzo motivo si denuncia erronea applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in relazione all'art. 322 ter cod. pen., nonché violazione dell'art. 27, primo comma, Cost., quanto alla affermata responsabilità per l'intero ammontare del profitto in capo a ciascuno dei concorrenti nel reato contestato, nonché violazione dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen., per carenza di motivazione sul punto. A parere del ricorrente, infatti, stante anche lo scopo della norma, il sequestro e la confisca non possono che riguardare il profitto ed il guadagno personalmente desunto dal reato; sicché, anche a voler accedere ad una configurazione sanzionatoria della misura, la stessa deve necessariamente postulare la graduabilità della misura stessa in rapporto alla colpevolezza del singolo partecipe. Si prospetta, 64 inoltre, errata applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in relazione all'art. 322 ter dello stesso codice, quanto alla interpretazione del termine «profitto», erroneamente riferito al «lordo» e non al «netto» dell'utile desunto dal finanziamento: ad avviso del ricorrente, infatti, il sequestro e la confisca per equivalente devono essere commisurati non all'ammontare lordo del finanziamento, ma al minor importo che risulta dopo aver dedotto le spese sostenute dagli interessati prima e dopo l'ottenimento della sovvenzione agevolata. Si denuncia, poi, nel quinto motivo, vizio di motivazione in riferimento al rigetto dell'appello del pubblico ministero in ordine al mancato sequestro della azienda, contestandosi la motivazione offerta sul punto nella ordinanza impugnata, e si lamenta, nel sesto ed ultimo motivo, erronea applicazione dell'art. 640 quater cod. pen., in riferimento all'art. 322 ter, cod. pen., quanto alla individuazione dei presupposti del sequestro per equivalente. Ad avviso del ricorrente, infatti, il sequestro per equivalente rappresenta la extrema ratio cui si può ricorrere ove non sia possibile il sequestro e la confisca dei beni ottenuti, anche in via derivata, per effetto della commissione del reato; sicché, non avendo il provvedimento impugnato dato contezza circa la infruttuosa ricerca del profitto originario o derivato, il provvedimento di cautela deve ritenersi in parte qua viziato e conseguentemente da annullare.Il ricorso è infondato. Le doglianze poste a fondamento del primo motivo sono, infatti, palesemente inconsistenti, giacché, pur in presenza dell'univoco tenore della disposizione dettata dall'art. 15 della legge n. 300 del 2000 - in base al quale le disposizioni previste dagli artt. 322 ter e 640 quater cod. pen. in tema di confisca «per equivalente» si applicano ai reati ivi previsti commessi anteriormente all'entrata in vigore della stessa legge - non può certo assumersi, sia pure ai limitati effetti della legittimità del provvedimento ablatorio, la possibilità di configurare una sorta di frazionabilità temporale della condotta posta in essere dal singolo concorrente, giacché, evidentemente, è solo la data di consumazione del reato a rappresentare l'unitario discrimine agli effetti della applicazione, non soltanto dell'editto sanzinatorio penale, ma anche della peculiare misura patrimoniale rappresentata dalla confisca dei beni di cui il reo (autore principale o concorrente che sia) ha la disponibilità, per un valore corrispondente a quello del profitto desunto dal reato (sempre che, ovviamente, non sia possibile la confisca diretta dei beni che quel profitto concretamente rappresentino). Nella specie, poiché la erogazione delle rate del finanziamento oggetto di contestazione sono proseguite - come puntualizza lo stesso ricorrente - sino a tutto l'anno 2002, non v'è dubbio che il provvedimento adottato risulti del tutto legittimo sul piano della applicabilità della nuova disciplina, non sottacendo neppure come la stessa condotta materiale ascritta all'indagato non si sia affatto esaurita - come il ricorrente si sforza di argomentare - con il deposito del bilancio recante i contestati artifici contabili, giacché le successive (e contestate) condotte di ripianamento non possono affatto assumere, nella economia della programmata operazione truffaldina, le prospettate e neutre connotazioni di un mero post factum privo di risalto penale.Ugualmente infondato è il secondo motivo di ricorso, nel quale si deduce che la fattispecie in astratto ravvisabile non sarebbe quella della truffa di cui all'art. 640 bis cod. pen., ma la particolare ipotesi di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato di cui all'art. 316 ter cod. pen., giacché nella vicenda de qua l'illecito si sarebbe realizzato esclusivamente attraverso comportamenti perfettamente coincidenti con la figura delineata dall'indicato art. 316 ter cod. pen., «e cioè - si sottolinea nel ricorso - nel mero “utilizzo” e nella “presentazione” di “dichiarazioni e documenti falsi o attestanti cose non vere”, senza che l'accusa abbia descritto, nel capo di imputazione... quelle note di ulteriore fraudolenza che debbono connotare il più grave reato di cui all'art. 640 bis». Donde la inapplicabilità del sequestro per equivalente, non essendo il reato di cui all'art. 316 ter previsto fra quelli per i quali è consentita la confisca (e dunque il sequestro preventivo) del tantundem, in base al combinato disposto degli artt. 322 ter e 640 quater cod. pen. L'assunto non può, però, essere condiviso. Questa Corte, infatti, ha avuto modo recentemente di sottolineare che la fattispecie criminosa di cui all'art. 316 ter cod. pen., ha carattere residuale e sussidiario rispetto alla fattispecie di truffa aggravata e non è con essa in rapporto di specialità, sicché ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, e omissioni di informazioni dovute) può concorrere ad integrare gli artifici ed i raggiri previsti dalla fattispecie di truffa, ove di questa figura criminosa siano integrati 65 gli altri presupposti. Si è così chiarito che anche il mendacio ed il silenzio assumono connotazioni «artificiose» o di «raggiro» in riferimento a specifici obblighi giuridici di verità, la cui violazione sia penalmente sanzionata, perché essi qualificano l'omessa dichiarazione o la dichiarazione contraria al vero come artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto o manipolazione dell'altrui sfera psichica (Cass., Sez. II, 10 febbraio 2006, p.m. in proc. Fasolo, RV 233449). È del tutto evidente, infatti - ha osservato questa Corte - che, mirando la sanzione penale ad assicurare la certezza e speditezza del traffico giuridico, la veridicità dell'atto così presidiato è destinata a suscitare uno specifico affidamento nei destinatari del relativo contenuto dichiarativo o attestativo; con la conseguenza che la relativa immutatio veri da parte dell'autore è in grado di inscenare una artificiosa rappresentazione della realtà in sé atta ad indurre in errore quanti - non per scelta soggettiva, ma in ragione del carattere giuridicamente fidefacente di quell'attestato o documento erano tenuti ad una condotta di «affidamento» quali destinatari di tali atti. Non v'è dubbio, quindi, che i contestati «artifici contabili» inseriti nelle scritture obbligatorie, e le false fatturazioni e le altrettanto false attestazioni di fatti contabili rilevanti sullo stato patrimoniale abbiano realizzato appieno la contestata ipotesi di truffa, senza, quindi, la possibilità di evocare il ricorso alla sussidiaria e del tutto residuale ipotesi dell'art. 316 ter cod. pen., delineata dal legislatore, in ossequio a precisi obblighi internazionali, a loro volta intesi ad allargare (e non certo a ridurre) l'area della persecuzione penale nello specifico settore delle frodi connesse ai finanziamenti pubblici ed a reprimere fatti di corruzione (v. Corte cost. ordinanza n. 95 del 2004 e la già richiamata sentenza di questa Corte in proc. Fasolo).Ugualmente infondate sono le censure che il ricorrente ha posto a base del terzo motivo di ricorso. A tal proposito, pur dovendosi sottolineare, ad avviso del ricorrente, che la misura della confisca per equivalente, nel privare il reo della somma corrispondente all'arricchimento tratto dal reato, chiaramente mira a «garantire il raggiungimento delle finalità preventive della pena, assicurando che dal delitto non residuino comunque conseguenze redditizie in capo ai singoli percettori di guadagni illeciti, destinatari di sanzioni personalmente orientate»; e pur dovendosi, quindi, riconoscere la «logica sanzionatoria» che informa l'istituto, se ne desume che, proprio in funzione di tale natura, la misura della sanzione deve necessariamente essere rapportata al livello di contributo che ciascun partecipe ha offerto per la realizzazione del reato. Pertanto - conclude il ricorrente - «è proprio la graduabilità della sanzione penale - frutto del necessario rispetto del principio di personalità - che logicamente deve escludere la soggezione dei singoli concorrenti ad una misura la cui entità copra l'intero disvalore del reato, tanto più laddove il “monte-pena” prescinda, come nel caso della confisca del profitto, dalla colpevolezza del singolo partecipe (si può dare un contributo colpevole minimo ad un reato produttivo di un enorme guadagno altrui) ». La tesi, anche se coerente nello sviluppo logico, non può condividersi, in quanto fondata su una premessa erronea. Come infatti sottolineano tanto l'ordinanza impugnata che il ricorrente, questa Corte ha avuto modo di affermare che è legittimo il sequestro preventivo, funzionale alla confisca di cui all'art. 322 ter cod. pen., eseguito in danno di un concorrente nel reato di cui all'art. 316 bis cod. pen., per l'intero importo relativo al prezzo o profitto dello stesso reato, nonostante le somme illecite siano state incamerate in tutto o in parte da altri coindagati, in quanto, da un lato, il principio solidaristico, che informa la disciplina del concorso di persone nel reato, implica l'imputazione dell'intera azione delittuosa e dell'effetto conseguente in capo a ciascun concorrente e comporta solidarietà nella pena; dall'altro, la confisca per equivalente riveste preminente carattere sanzionatorio e può interessare ciascuno dei concorrenti anche per l'intera entità nel prezzo o profitto accertato, salvo l'eventuale riparto tra i medesimi concorrenti, che costituisce fatto interno a questi ultimi e che non ha alcun rilievo penale (Cass., Sez. V, 16 gennaio 2004, Napolitano, RV 228750). Tutto ciò, però, non equivale affatto a trasferire la misura patrimoniale della confisca per equivalente nel panorama delle pene propriamente intese, giacché, a far velo ad una siffatta configurazione, concorrono due rilievi. Anzitutto - e come la sentenza Napolitano, appena citata, ha puntualizzato - presupposto imprescindibile per l'applicazione della confisca per equivalente è che nella «sfera giuridico-patrimoniale» della persona indagata per uno dei reati in ordine ai quali la misura stessa è applicabile, non sia stato 66 «rinvenuto, per una qualsivoglia ragione, il prezzo o il profitto del reato per cui si proceda, ma di cui sia ovviamente certa l'esistenza». Ne deriva, quindi, che, operando la confisca - ed il sequestro per equivalente soltanto nella ipotesi di impossibilità di applicare la ordinaria misura della confisca del profitto o del prezzo del reato, quale istituto sostanzialmente surrogatorio di quest'ultimo, non può certo presupporsi una sorta di novatio della misura, tale da trasformare il provvedimento ablatorio in una vera e propria pena patrimoniale. È del tutto evidente, infatti, che risulterebbe a dir poco eccentrica rispetto al sistema ed alla stessa tavola dei valori costituzionali, la possibilità di far discendere l'applicazione di una pena dalla semplice e casuale eventualità rappresentata dalla impossibilità di rinvenire - e conseguentemente aggredire - il profitto o il prezzo del reato. Per altro verso, ove il legislatore avesse davvero inteso imprimere alla confisca per equivalente le stigmate della sanzione criminale, non si spiegherebbe la previsione della irretroattività sancita dal richiamato art. 15 della legge n. 300 del 2000, bastando a tal fine il generale precetto sancito dall'art. 25, secondo comma, della Carta fondamentale. Il paradigma della «gradualità» della confisca per equivalente in rapporto al quantum di contributo offerto nella realizzazione dell'illecito concorsuale - insistentemente evocato dal ricorrente - non può quindi rappresentare, in assenza di una specifica disposizione legislativa, un criterio legittimamente applicabile, muovendosi esso al di fuori dello schema legale e delle stesse finalità, indubbiamente general-preventive, che il peculiare istituto mira a soddisfare. Precludere, infatti, la realizzazione del profitto desunto da taluni reati attraverso la ablazione diretta dello stesso o del valore corrispondente, equivale a postulare, in capo ai singoli partecipi, una «responsabilità per l'intero» del tutto legittima, giacché spetta alla discrezionalità del legislatore calibrare - nel rispetto del principio di ragionevolezza - la disciplina dei presidi volti ad impedire (e prevenire) che l'utile comunque desunto dal reato possa essere, in tutto o in parte, mantenuto nella disponibilità (giuridica e patrimoniale) di chi abbia a qualsiasi titolo concorso nella realizzazione dell'illecito. E ciò - evidentemente - anche a prescindere da qualsiasi rilievo in ordine ai diversi «gradi» di responsabilità, ovvero all'ammontare effettivo del profitto che «singolarmente» ciascun coautore del fatto abbia desunto dal reato.I restanti motivi di ricorso sono, invece, palesemente inconsistenti. Circa il quarto motivo basta infatti osservare che il profitto del reato di cui all'art. 640 bis cod. pen., non può che corrispondere all'importo del finanziamento indebitamente percepito, senza che possa a tal fine assumere risalto alcuno il fatto che il percettore dello stesso abbia subito dei «costi» per il relativo conseguimento: la logica del profitto corrispondente al «netto» della erogazione - che il ricorrente deduce, per di più, in termini del tutto teorici ed astratti - è profilo assolutamente inconferente, così come lo sono, agli effetti di qualsiasi provvedimento di confisca, gli eventuali oneri economici sopportati dall'autore del reato per la realizzazione del fatto delittuoso. Inammissibile, per difetto di legittimazione ed interesse, e fondato su vizio non deducibile ex art. 325 cod. proc. pen., è il quinto motivo, nel quale si censura, per di più sull'esclusivo versante del vizio di motivazione, il rigetto dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso la decisone del giudice per le indagini preliminari in tema di sequestro preventivo. Manifestamente infondato è, infine, l'ultimo motivo di ricorso, giacché la motivazione offerta dai giudici a quibus a sostegno della ritenuta impossibilità di procedere al sequestro diretto del profitto, in quanto non più rinvenibile, si presenta del tutto corretta, considerata, fra l'altro, la insussistenza di elementi dai quali poter dedurre la individuabilità di beni conseguiti con il finanziamento illecitamente ottenuto.Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.P.Q.M.Rigetta il ricorso. -La fattispecie criminosa di cui all’art. 316 ter c.p. ha, pertanto, carattere residuale e sussidiario rispetto alla fattispecie di truffa aggravata e non è con essa in rapporto di specialità: ne discende che ciascuna delle condotte ivi descritte (utilizzo o presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, e omissioni di informazioni dovute) può concorrere ad integrare gli artifici ed i raggiri previsti dalla fattispecie di truffa, ove di questa figura criminosa siano integrati gli altri presupposti. 67 SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE II PENALE SENTENZA (ud. 10-02-2006) 23-03-2006, n. 10231 Svolgimento del processo Con sentenza del 28 settembre 2004, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Patti, ha dichiarato non luogo a procedere nei confronti di F.C. in ordine al reato di truffa aggravata ( art. 640 c.p., comma 2) in danno dell'Azienda Ospedaliera di Patti dalla quale aveva ottenuto prestazioni sanitarie in regime di esenzione contributiva mediante falsa dichiarazione sulle condizioni di reddito proprie e della sua famiglia, in Patti il 24 marzo 2002. Il Giudice dell'udienza preliminare, escluso che la fattispecie contestata potesse essere ricondotta alla meno grave ipotesi di reato di cui all'art. 316 ter cod. pen. sul rilievo che l'indebito conseguimento di prestazioni di carattere previdenziale ed assistenziale in regime di esenzione non rientrava nel novero delle sovvenzioni (contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo) oggetto di tutela, escludeva altresì - all'esito di un' accurata disamina dei principi interpretativi formulati dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale in ordine al rapporto di sussidiarietà (non di specialità) tra l'art. 316 ter e 640 bis cod. pen. - che la condotta contestata (falsa dichiarazione sulle condizioni di reddito familiare), in quanto non indirizzata al conseguimento indebito di una sovvenzione pubblica (nel significato enucleato) e non integrata da ulteriori profili idonei a configurare la sussistenza di artifizi o raggiri e l'induzione in errore del soggetto passivo, consentisse di ritenere realizzato il delitto di truffa, oggetto di contestazione. Riteneva infine non accoglibile la tesi della pubblica accusa in ordine all'applicabilità dell'ipotesi delittuosa di cui al D.L. n. 382 del 1989, art. 3, comma 4, perchè abrogato dal D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 8. Contro tale decisione ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Patti, che ha chiesto l'annullamento della sentenza impugnata per i seguenti motivi: 1) per erronea applicazione della legge penale in relazione al D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 8, sul rilievo che nell'abrogazione ivi enunciata, con riferimento a tutte le precedenti norme in materia di partecipazione alla spesa sanitaria, non si fa menzione del D.L. n. 382 del 1989, art. 3, il quale stabilisce specificamente la riconducibilità al paradigma della truffa, nell'ipotesi aggravata di cui al capoverso dell'art. 640 cod. pen., di ogni condotta di indebito conseguimento dei prestazioni assistenziali sanitarie; 2) per erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 316 ter, 640 e 640 bis cod. pen., sul rilievo che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che anche la condotta di mero mendacio, non accompagnata da ulteriori comportamenti ingannevoli e consistente anche nel semplice mantenimento del silenzio su circostanze rilevanti, se attivamente orientata a trarre in inganno il soggetto passivo, integra V artificio della truffa ove tale effetto abbia prodotto. Nel caso di specie, la sottoscrizione di una dichiarazione ideologicamente falsa sulle proprie condizioni di reddito, oltre ad integrare il reato previsto dall'art. 483 cod. pen. (per il quale il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto il rinvio a giudizio), aveva indotto l'ente a riconoscere l'esenzione contributiva. La ritenuta irrilevanza penale della condotta asseritamente esauritasi nella falsa dichiarazione, non può dunque essere condivisa, perchè, quando la condotta medesima è caratterizzata da modalità ingannevoli diverse ed ulteriori rispetto alla mera falsa dichiarazione, è configurabile la fattispecie della truffa aggravata. Le conclusioni scritte del Procuratore generale presso questa Corte, con le quali si chiede di annullare la sentenza impugnata, si articolano nella disamina attenta della sentenza impugnata, della quale si condivide il complessivo impianto motivazionale; constata, tuttavia, la differente rilevanza che agli effetti della odierna determinazione deve essere assegnato ad una condotta realizzatasi attraverso la produzione di una falsa autocertificazione, non potendosi sottovalutare, ad avviso del requirente, l'affidamento ex lege sulla relativa veridicità, atteso che il legislatore attribuisce a tale genere di dichiarazioni valore certificativo. Tale aspetto, soggiunge il requirente, non è stato mai oggetto di approfondita attenzione. Se il soggetto ricevente, deve, per legge, affidarsi a tale 68 dichiarazione, ad una siffatta autocertificazione non può non annettersi un valore ulteriore rispetto al semplice mendacio; e, quindi, il significato di artificio per la intrinseca capacità ingannatoria. Motivi della decisione 1. Il primo motivo di ricorso del Procuratore della Repubblica, che denuncia violazione di legge in relazione alla ritenuta vigenza del D.L. 25 novembre 1989, n. 382, art. 3, convertito in L. 25 gennaio 1990, n. 8, è infondato, in quanto l'abrogazione operata dal D.Lgs. 29 aprile 1998, n. 124, art. 8 (in conformità, anche, alle argomentazioni svolte sul punto dal Procuratore generale nella requisitoria scritta), si estende a tutta la precedente disciplina in materia di partecipazione alla spesa sanitaria e di esenzione della stessa; sicchè non è consentito ritenere la sopravvivenza di una singola norma. La formula usata dal legislatore, non consente, invero, margini di incertezza. Infatti, il richiamo, con portata caducatoria, di "tutte" le precedenti norme (che già di per sè non lascia spazi di esclusione), è confermato dal successivo inciso ("non esplicitamente confermate dal presente decreto"), il quale ultimo, a ben guardare, rafforza il convincimento che il legislatore ha inteso con la nuova normativa disciplinare ex novo l'intera materia, attraverso una regolamentazione dettagliata (che per il suo tecnicismo ha fatto ritenere preferibile il sistema della delega al governo) e completa. Essendo stati ridefiniti i criteri, sia di partecipazione alla spesa sanitaria, sia di esenzione, sia di valutazione della situazione economica dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate nei confronti di amministrazioni pubbliche, sia di modalità per l'acquisizione delle informazioni e l'effettuazione dei controlli, anche le previsioni sanzionatorie della precedente disciplina restano travolte dal novum. Ed invero il D.Lgs. n. 124 del 1998, art. 4, comma 7 prevede in qual modo il diritto all'esenzione debba essere riconosciuto dalle AUSL, nonchè il contenuto e la funzione della dichiarazione sostitutiva a norma dell'allora vigente L. n. 15 del 1968 (abrogata e sostituita dal D.P.R. 445 del 2000, che, però, all'art. 78, ha espressamente stabilito che restano in vigore le disposizioni di cui al D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 109, concernenti la dichiarazione sostitutiva unica per la determinazione dell'indicatore della situazione economica equivalente dei soggetti che richiedono prestazioni sociali agevolate). Mentre il successivo art. 6, regola le procedure e i tempi, in particolare le competenze regionali (comma 2), per il riconoscimento del diritto all'esenzione (lett. a); per il rilascio da parte delle AUSL del documento attestante il diritto all'esenzione (lett. b); per le modalità con le quali effettuare i controlli sulle esenzioni riconosciute (lett. c). La particolarità di tale procedura - la cui attivazione è individuata nella dichiarazione sostitutiva del richiedente (D.Lgs. n. 109 del 1998, art. 4, tuttora in vigore, perchè, si ribadisce, fatto salvo espressamente dal D.P.R. 445 del 2000, sopra citato, art. 78), la quale prevede l'espressa dichiarazione di consapevolezza della possibilità (nel caso di corresponsione della prestazione) di controlli diretti ad accertare la veridicità delle informazioni fornite - da ulteriormente conto della intenzione del legislatore di dettare una disciplina integralmente nuova. Del resto, la disposizione di cui al citato D.L. n. 382 del 1989, art. 3, nel suo dato testuale ("chiunque, con qualsiasi mezzo, ottiene indebitamente l'esenzione dal pagamento delle quote di partecipazione alla spesa sanitaria"), era stato correttamente interpretata (cfr. Cass., Sez. 2^, 6 marzo 1996, P.M. in proc. Angeloni, n. 3778/96, C.E.D, Cass., n. 204752) come fattispecie da leggere in maniera non isolata ed indipendente, (in quanto non retta da principi giuridici propri), ma alla stregua dei principi generali ai quali si ispira anche l'art. 640 cod. pen. (cui la disposizione predetta espressamente rinvia quoad poenam), e che informano un più ampio sistema di norme volte ad impedire le frodi compiute mediante lo svolgimento di attività illecite. In conseguenza, anche nel caso in cui si dovesse pervenire al diverso approdo della sua vigenza, il risultato non muterebbe, dovendosi comunque tener conto del novum che è conseguito all'entrata in vigore dell'art. 316 ter cod. pen.. 2. Più complessa è la questione che propone il secondo motivo di ricorso. La sentenza impugnata, partendo dalla premessa che l'abrogazione del sopra citato D.L. n. 382 del 1989, art. 3 aveva comportato la necessità di ricondurre il profitto conseguente all'indebita esenzione dal pagamento delle quote di partecipazione sanitaria all'ipotesi delittuosa di cui all'art. 640 cod. pen. (come del resto contestato all'imputato) solo nel caso in cui la condotta di induzione in errore fosse 69 conseguenza di artifici e raggiri, li ha ritenuti non sussistenti perchè la condotta si era risolta nella semplice falsa dichiarazione di persona non abbiente. A giustificazione di tale assunto, in sentenza si è richiamato quanto stabilito nell'ordinanza n. 95 del 2004 pronunciata dalla Corte costituzione l'8-12 marzo 2004 sulla questione di legittimità costituzionale dell'art. 316 ter cod. pen. (richiamo sicuramente opportuno perchè la definizione della condotta delineata dal delitto di truffa è unitaria sia che essa si esplichi a danno del privato, sia che si esplichi ai danni dello Stato o di altro ente pubblico). La Corte costituzionale, rammentata la coincidenza della questione con quella in passato sollevata per la previsione punitiva di cui alla L. 23 dicembre 1986, n. 898, art. 2, ha rilevato che "il carattere sussidiario e "residuale" dell'art. 316 ter cod. pen. rispetto all'art. 640 bis cod. pen. - a fronte del quale la prima norma è destinata a colpire fatti che non rientrino nel campo di operatività della seconda - costituisce dato normativo assolutamente inequivoco". Ha in tal modo escluso l'automatica sovrapponibilità delle condotte individuate nell'art. 316 ter cod. pen. (dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere) con quelle di cui all'art. 640 cod. pen., cioè con gli artifizi e i raggiri. Ha tuttavia espressamente riservato all'"ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall'art. 316 ter cod. pen. integri anche la figura descritta dall'art. 640 bis cod. pen., facendo applicazione in tal caso solo di quest'ultima previsione punitiva", perchè ha ritenuto evidente, anche in ragione delle preoccupazioni espresse dal legislatore nel corso dei lavori parlamentari, che "l'art. 316 ter cod. pen. sia volto ad assicurare agli interessi da esso considerati una tutela aggiuntiva e "complementare" rispetto a quella già offerta dall'art. 640 bis cod. pen., "coprendo", in specie, gli eventuali margini di scostamento - per difetto - del paradigma punitivo della truffa rispetto alla fattispecie della frode "in materia di spese", quale delineata dall'art. 1 della Convenzione (PIF): margini la cui concreta entità - correlata alle più o meno ampie "capacità di presa" che si riconoscono al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli "artifici o raggiri", in qualunque forma realizzati, sia all'induzione in errore - spetta all'interprete identificare, ma sempre nel rispetto della inequivoca vocazione sussidiaria della norma oggi sottoposta a scrutinio". Vale a dire: nella valutazione della fattispecie concreta è rimesso al giudice stabilire se la condotta che si è risolta in una falsa dichiarazione, per il contesto in cui è stata formulata, integri l'artificio di cui all'art. 640 cod. pen.. La soluzione adottata in via interpretativa dal Giudice delle leggi è condivisibile, e d' altra parte coincide con i principi già affermati da questa Corte, anche a sezioni unite (Cass., Sez. un., 24 gennaio 1996, Panigoni ed altri, in tema di rapporto fra la L. n. 898 del 1986, art. 2, ed il reato di truffa; Cass., Sez. 6^, 24 settembre 2001, P.M. in proc. Tammerle, n. 41928/01, C.E.D. Cass., n. 220200) Dalla più volte richiamata ordinanza n. 95 del 2004 della Corte costituzionale emergono, dunque, due profili che paiono essereoltremodo qualificanti ai fini dell'odierno scrutinio. Da un lato, infatti, traspare in termini "costituzionalmente conformati" il dato incontrovertibile - alla stregua, anche, degli analoghi approdi, cui la Corte stessa era pervenuta in riferimento ai precedenti normativi in tema di frodi FEOGA, non a caso altrettanto "travagliati" quanto a ricostruzione ermeneutica - rappresentato dalla circostanza che, atteso il più che dichiarato carattere residuale e sussidiario che contraddistingue il reato di cui all'art. 316 ter cod. pen. rispetto alla ipotesi di truffa, la descrizione della relativa fattispecie individua una condotta necessariamente "diversa" da quella che invece caratterizza la figura, per così dire, "maggiore": giacchè, ove così non fosse, tra le due norme poste a raffronto, la relatio correttamente evocabile non sarebbe quella di sussidiarietà (rapporto, questo, che riflette un paradigma di alternatività strutturale tra le fattispecie, nel senso che le aree applicative delle due figure restano fra loro nettamente distinte, ancorchè raccordate da un fenomeno di progressività lesiva), ma quella della specialità, per la quale una figura assumerebbe connotazioni di parziale o totale "assorbimento" degli elementi descrittivi della seconda, o dando vita ad un fenomeno di "assorbimento" reciproco, per "cerchi concentrici". Al riguardo, non possono, quindi, non essere condivise le obiezioni di equivocità espresse dai 70 commentatori e fatte proprie dal Procuratore generale nella requisitoria scritta, alla sentenza, di questa stessa Sezione, del 22 marzo 2002, Morandell, essendosi in essa affermato - non senza un formale ossequio ai dieta delle Sezioni unite, pronunciatesi sul finitimo tema delle frodi FEOGA (Sez. un., 15 marzo 1996, Panigoni) - che, avuto anche riguardo alla scarsa chiarezza dell'innesto normativo rappresentato dall'art 316 ter cod. pen. e dei suoi problematici rapporti con il delitto di truffa, non potesse "essere di risolutivo aiuto l'attardarsi ad approfondire i concetti di sussidiarietà o specialità delle norme, perchè, nel caso in esame sembrerebbe trattarsi quasi di un criterio di sussidiarietà espresso ("salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall'art. 640 bis) il quale, in realtà, disegna e ritaglia una fattispecie normativa specifica nell'ambito della più generale previsione della truffa comunitaria". Tale assunto, infatti, negato a chiare lettere dal Giudice delle leggi, non può trovare accoglimento, proprio per la inconciliabilità logica delle due prospettive di fondo sulla cui "confondibilità" quell'assunto stesso poggiava; giacchè, una volta ricondotto il rapporto tra le due fattispecie nello schema della "specificità" dell'una rispetto all'altra, doveva derivarne la ontologica esclusione di qualsiasi rapporto di sussidiarietà. Mentre, infatti, dalla mancanza della norma sussidiaria non deriva la applicabilità della norma, per così dire, "sussidiata" (la prima, anzi, è per sua stessa natura destinata a colmare lacune precettive e sanzionatorie che residuano dalla seconda), ove difetti, invece, la norma speciale, si "riespande" l'area applicativa della norma generale: i due fenomeni, in sostanza - quello di sussidiarietà, da un lato, e quello di specialità, dall'altro - non soltanto si presentano fra loro come realtà normative nettamente distinguibili, ma si collocano, addirittura, su piani alternativi. Sotto altro profilo, dalla citata sentenza della Corte costituzionale, deriva anche che, qualsiasi diversa interpretazione o applicazione dell'art. 316 ter cod. pen., - come traspare dalla stessa "questione" sulla quale la Corte è stata chiamata a pronunciarsi e che emerge dalla parte narrativa dell'ordinanza - ineluttabilmente condurrebbe a conseguenze del tutto irragionevoli, giacchè, a configurare il richiamato art. 316 ter cod. pen. come una sorta di figura attenuata di truffa, si creerebbe, nel sistema, un singolare "privilegio" nel trattamento sanzionatorio di ipotesi di frodi in teoria più gravi, perchè realizzate contro enti pubblici (addirittura con semplice sanzione amministrativa, se la somma indebitamente percepita è inferiore alla soglia prevista dallo stesso art. 316 ter cod. pen.), rispetto al trattamento riservato alle truffe commesse in danno di privati. Il corollario che se ne può trarre, propone, dunque, una alternativa ineludibile: o si ritiene che la semplice "presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero ... l'omissione di informazioni dovute" non sia più condotta qualificabile come artifizio o raggiro agli effetti di quanto previsto dall'art. 640 cod. pen., come il giudice a quo e parte della dottrina sostengono; oppure, occorre riconoscere che anche quei "fatti" possono integrare gli artifizi o raggiri descritti dal delitto di truffa. La richiamata ordinanza della Corte costituzionale, come già si è accennato, mostra di propendere chiaramente verso quest'ultima soluzione, sottolineando come rientri "nell'ordinario compito interpretativo del giudice accertare, in concreto, se una determinata condotta formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall'art. 316 ter c.p. integri anche la figura descritta dall'art. 640 bis, c.p., facendo applicazione, in tal caso, solo di quest'ultima previsione punitiva". Non senza però aver poco prima puntualizzato, come debba riconoscersi all'interprete - e, dunque, al giudice - il compito di accertare i concreti margini di operatività dell'art. 316 ter cod. pen., sempre, peraltro, nel rispetto della "inequivoca vocazione sussidiaria" di tale norma, misurandone l'entità, come già si è accennato, alla stregua delle "più o meno ampie "capacità di presa" che si riconoscano al delitto di truffa, avuto riguardo sia all'elemento degli "artifizi e raggiri", in qualunque forma realizzati, sia al requisito della induzione in errore". Poichè, quindi, artifizi e raggiri continuano a permanere nel sistema come condotte in sè strutturalmente variegate e contenutisticamente "aperte", se ne deve desumere che, ove il legislatore ne avesse inteso circoscrivere l'ambito, avrebbe operato - claris verbis - sulla struttura dello stesso art. 640 cod. pen., e non certo attraverso una norma "di confine", destinata a colmare un'area di condotte (a torto o a ragione) ritenute non punibili a titolo di truffa. Pretendere quindi di derivare dall'art. 316 ter un "indicatore" normativo destinato a produrre un 71 "prosciugamento" contenutistico delle condotte che possono integrare artifizi e raggiri, equivarrebbe ad introdurre - a parere di questa Corte - un arbitrio ermeneutico, produttivo di sicuri effetti incostituzionali, contrario alla dichiarata mens legis e certamente antitetico rispetto a quella "vocazione sussidiaria", che la norma stessa - stavolta con inequivoco ed espresso esordio precettivo - ha inteso programmaticamente enunciare, come "marcatore" rispetto alla figura della truffa aggravata a norma dell'art. 640 bis, cod. pen.. Ciascuna delle condotte indicate dallo stesso art. 314 ter cod. pen., può dunque concorrere ad integrare, in ipotesi, gli artifizi e raggiri previsti per la realizzazione del delitto di truffa: sempre che, ovviamente, di tale figura vengano integrati anche gli ulteriori presupposti. Il problema sta quindi nel calibrare, come ha rammentato la Corte costituzionale, lo spazio entro il quale un determinato comportamento, eventualmente corrispondente alle figure descritte dall'art. 316 ter cod. pen., realizzi le più che tradizionali forme degli artifizi o raggiri, dai quali derivi, poi, l'ulteriore requisito della induzione in errore (si è anzi evidenziato, a quest'ultimo riguardo, come nella fattispecie di cui all'art. 316 ter difetti, rispetto alla ipotesi della truffa, proprio l'elemento della induzione in errore: il che, ad avviso di alcuni commentatori, consentirebbe di intravedere un margine residuale di applicabilità dello stesso art. 316 ter cod. pen. nelle ipotesi, ad esempio, dell'approfittamento dell'errore altrui, o della condotta che si iscriva nell'ambito di un procedimento che non comporti alcuna verifica sulla veridicità delle dichiarazioni del soggetto attivo o delle relative semplici omissioni). In proposito, la dottrina, come è noto, è da tempo sostanzialmente concorde nel definire l'artifizio come una manipolazione o trasfigurazione della realtà esterna, provocata mediante la simulazione di circostanze inesistenti o, al contrario, con la dissimulazione di circostanze esistenti. Attraverso, dunque, una più o meno callida "messa in scena", si realizza una realtà apparente, in varia misura difforme da quella effettiva, attraverso una immutatio veri che può attingere qualsiasi elemento del mondo circostante. Il raggiro, invece, operando direttamente sulla psiche del soggetto, viene fatto consistere in una proposizione menzognera corredata di un ingegnoso avvolgimento di parole od argomentazioni atte a far scambiare il falso per vero. Come, però, si è sottolineato in dottrina - puntualmente rammentata dal Procuratore generale nella propria requisitoria - la giurisprudenza di questa Corte ha gradualmente finito per svalutare il ruolo della condotta, orientandosi sempre più verso una configurazione del reato in senso causale, ove ciò che rilevava non era tanto la definizione dei concetti di artifizi e raggiri, quanto, piuttosto, la idoneità di quelle condotte a produrre l'effetto di induzione in errore del soggetto passivo. Si è così assistito al consolidarsi dell'affermazione secondo la quale, ai fini della sussistenza del reato di truffa, l'idoneità dell'artificio e del raggiro deve essere valutata in concreto, ossia con riferimento diretto alla particolare situazione in cui è avvenuto il fatto ed alle modalità esecutive dello stesso; tale idoneità - si è aggiunto - non è perciò esclusa dalla esistenza di preventivi controlli, nè dalla scarsa diligenza della persona offesa nell'eseguirli, quando, in concreto, esista un artificio o un raggiro posto in essere dall'agente e si accerti che tra di loro e l'errore in cui la parte offesa è caduta sussista un preciso nesso di causalità (Cass., Sez. 6^, 25 febbraio 2003, Di Rosa; Cass., Sez. 5^, 27 marzo 1999, Longarini; Cass., Sez. 1^, 7 dicembre 1990, Ricci; Cass., Sez. 2^, 14 novembre 1989, Scarcelli). Da tale svalutazione della portata definitoria e precettiva degli artifici e raggiri, in una prospettiva tutta tesa a privilegiare una disamina causalmente orientata della fattispecie, sarebbe così derivata, secondo alcuni, una dilatazione del raggio d'azione della truffa, sino ad attrarre - quali elementi idonei ad indurre in errore (e come tali riguardagli alla stregua di artifizi o raggiri, secondo una visione per così dire "retrograda", che ricostruisce le cause dagli effetti), condotte in sè "neutre", come il silenzio, o il mendacio. Come ricorda la già citata sentenza delle Sezioni unite Panigoni, "indubbiamente potrebbe riproporsi la questione se il concetto di "artifizi o raggiri" sia integrato anche dalla menzogna pura e semplice e cioè dalla menzogna che, anche senza particolari modalità ingannatorie "aggiuntive", abbia determinato l'errore nel soggetto passivo. Questione - avvertivano le Sezioni unite - senz'altro seria, potendosi ritenere che - senza quella "forzatura" del concetto di artifizi e raggiri riconosciuta da dottrina e giurisprudenza ... - la menzogna pura e semplice integra soltanto la condotta che 72 induce in errore, ma non la condotta posta in essere con artifizi e raggiri". Eppure, non v'è chi non veda come silenzio e mendacio cessino di essere elementi strutturalmente neutri, per assumere, invece, connotazioni senz'altro "artificiose" o di "raggiro" in rapporto a specifici obblighi giuridici che qualifichino l'omessa dichiarazione o la dichiarazione contraria al vero come artificiosa rappresentazione di circostanze di fatto o manopolazione della altrui sfera psichica in rapporto allo specifico valore fidefacente che la dichiarazione contraria al vero può assumere nell'ordinamento. L'omesso adempimento dell'obbligo di comunicazione, così come la "semplice" menzogna, al di là dell'effetto di induzione in errore, possono già di per sè integrare - in ragione dello specifico affidamento che quelle stesse condotte, in positivo o in negativo, possono, ex lege, ingenerare - le caratteristiche della artificiosa mise en scene che rappresenta l'in se della truffa (Cass., Sez. 6^, 3 aprile 1998, Perina; Cass., Sez. 2^, 19 aprile 1991, Salvalaio; Cass. Sez. 2^ 23 giungo 1989, Della Torre). La conclusione, dunque, lumeggiata dal giudice a quo e, come si è accennato, condivisa da una parte della dottrina, secondo la quale l'innesto dell'art. 316 ter cod. pen. restringerebbe l'area degli artifizi e raggiri ponendo in seria crisi la perdurante proponibilità delle tesi giurisprudenziali dianzi riferite, non può trovare accoglimento: il carattere necessariamente sussidiario di quella fattispecie, infatti, ne esclude la configurabilità alla stregua di "frode minore", per consentirne l'inquadramento in una apposita categoria di fattispecie "altra" (e dunque alternativa) rispetto alla truffa, i cui elementi tipizzanti erano e restano quelli contrassegnati da una lunga e consolidata tradizione ermeneutica. La condotta descritta dal richiamato art. 316 ter cod. pen. si distingue, dunque, dalla figura delineata dall'art. 640 bis cod. pen. per le modalità, giacchè la presentazione di dichiarazioni o documenti attestanti cose non vere deve essere "fatto" strutturalmente diverso dagli artifizi e raggiri, e per la assenza della induzione in errore, considerato che ove l'ente erogante fosse stato in concreto "circuito" attraverso la produzione di elementi attestativi o certificativi artificiosamente decettivi, il fatto finirebbe per essere attratto nell'ambito della clausola di salvezza con cui lo stesso art. 316 ter cod. pen. esordisce. La sussistenza, dunque, della induzione in errore, da un lato, e la natura fraudolenta della condotta, dall'altro, non può che formare oggetto - come puntualmente ha segnalato la Corte costituzionale e come per certi aspetti induce a ritenere una pertinente lettura della sentenza Panigoni - di una disamina da condurre caso per caso, alla stregua di tutte le circostanze che caratterizzino la vicenda in concreto. Non senza sottolineare come, la stessa collocazione topografica dell'art. 316 ter cod. pen., e gli elementi descrittivi che compaiono tanto nella rubrica che nel corpo della norma, chiaramente mostrino la volontà del legislatore di perseguire la semplice percezione sine titulo delle erogazioni, e non le "modalità" attraverso le quali l'indebita percezione si è realizzata; svelando, per questa via, la scelta di non incentrare la voluntas puniendi, sulle condotte nelle quali l'erogazione è stata realizzata attraverso la frode ed il conseguente errore dell'ente erogante, nella dichiaratapresupposizione che tale fatto fosse già "coperto" dalla previsione dettata dall'art. 640 bis cod. pen.. In questa prospettiva, è ben vero che l'area applicativa della figura "sussidiaria" finisce per circoscriversi ad ipotesi che, nel panorama della più estesa tematica delle frodi, rischiano di assumere connotazioni del tutto marginali: ma ciò risponde, a ben guardare, proprio alla scelta - imposta dagli obblighi comunitari - di non lasciare nulla di "impunito" nello specifico settore, in linea, dunque, con il carattere, non soltanto sussidiario, ma anche "residuale" che - come ricorda l'ordinanza n. 95 del 2004 della Corte Costituzionale - caratterizza l'art. 316 ter cod. pen. rispetto all'art. 640 bis cod. pen.. Resta ovviamente irrisolto il più generale problema di definire i margini di soluzione delle possibili "frizioni ermeneutiche" cui ineluttabilmente si può andare incontro nel tracciare una sorta di actio finuim regundorum tra le due figure di reato. Ma, per quel che qui rileva, sembra dirimente osservare che - come ha correttamente puntualizzato il Procuratore generale presso questa Corte - la natura e la forma del "mendacio" assumono connotazioni ben diverse alla luce del contesto "normativo" in cui esse si iscrivono. Altro è, infatti, la dichiarazione o il documento nei quali si 73 prospettano circostanze non vere, senza che sul dichiarante incomba uno specifico obbligo di verità; altro è l'identica prospettazione o produzione documentale ove, invece, quell'obbligo sussista in forza di una specifica previsione. Nell'ipotesi, poi, in cui - come nella vicenda in esame - non soltanto l'obbligo di verità sia positivamente sancito dalla legge, ma sia addirittura presidiato da una apposita figura di reato, ne consegue che la "trasmigrazione" di un siffatto "mendacio" nell'area degli artifizi e raggiri deve ritenersi senz'altro realizzata. E' del tutto evidente, infatti, che, mirando la sanzione penale ad assicurare la certezza e la speditezza del traffico giuridico, la veridicità dell'atto così presidiato è destinata a suscitare uno specifico affidamento nei destinatari del relativo contenuto dichiarativo o attestativo; con la conseguenza che la relativa immutatio veri da parte dell'autore è in grado di inscenare una artificiosa rappresentazione della realtà, in sè atta ad indurre in errore quanti - non per scelta soggettiva, ma in ragione del carattere giuridicamente fidefacente di quell'attestato o documento erano tenuti ad una condotta di "affidamento" quali destinatari di tali atti. In tale cornice ben si iscrive, dunque, proprio la vicenda oggetto del presente scrutinio, giacchè, come emerge dalla imputazione e dalla stessa sentenza impugnata - nella quale si da atto di come diverso debba essere l'epilogo in ordine al reato di cui all'art. 483 cod. pen., contestato al capo A) - la truffa ai danni della Azienda Ospedaliera si sia realizzata con artifizi e raggiri consistiti, appunto, "nel rendere la falsa dichiarazione sostitutiva di certificazione di cui al capo che precede". Falso contestato, appunto, sub specie di cui all'art. 483 cod. pen., art. 61 cod. pen., n. 2, in relazione al D.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445, art. 76, comma 3, e art. 46, lettere o) ed r), perchè - si legge nella rubrica, "con dichiarazione resa ad impiegato addetto all'ufficio ticket dell'Ospedale di Patti, autocertificava, con ciò attestando il falso, di essere disoccupato o licenziato, e comunque che il proprio nucleo familiare era titolare di un reddito non superiore a quello previsto per l'attribuzione del diritto alla fruizione delle prestazioni mediche richieste in regime di esenzione contributiva". Posto, quindi, che le dichiarazioni sostitutive di certificazioni sono destinate a "provare", come recita il D.P.R. n. 445 del 2000, art. 46, comma 1, determinati stati, qualità personali e fatti, e considerato che tali dichiarazioni "sono considerate come fatte a pubblico ufficiale" e, se mendaci, sono punite "ai sensi del codice penale e delle leggi speciali in materia" (art. 76 del medesimo decreto), ne deriva che il relativo valore e regime giuridico equivale, in tutto e per tutto, alle normali e corrispondenti certificazioni pubbliche, con tutto quel che ne consegue sul piano dell'affidamento che in esse doverosamente va riposto, alla stregua di una precisa e cogente scelta normativa. Donde la sussistenza, nel caso concreto, di una condotta che presenta tutti i "requisiti" per poter ritenere nella specie integrati gli artifizi e raggiri atti ad indurre in errore la parte offesa, e, quindi, permettere le conseguenti delibazioni, sia pure agli effetti del circoscritto ambito processuale che qui rileva, in ordine alla ravvisabilità del contestato delitto di truffa aggravata, di cui all'art. 640 cod. pen., comma 2. 3. La sentenza deve in conseguenza essere annullata. A norma dell'art. 569 cod. proc. pen., comma 4, gli atti vanno trasmessi alla Corte di appello di Messina competente per l'appello, che si atterrà ai principi di diritto indicati. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e dispone che gli atti siano trasmessi alla Corte di appello di Messina per l'ulteriore corso. Così deciso in Roma, il 10 febbraio 2006. Depositato in Cancelleria il 23 marzo 2006 - Il pubblico dipendente che, avendo effettivamente compiuto una missione fuori sede, richieda falsamente rimborso delle spese sostenute per il trasferimento commette il delitto di truffa ai danni dell'amministrazione dalla quale dipende, ma non sarà ipotizzabile un falso punibile, perchè, com'è noto, la falsità ideologica in atti privati non è prevista come reato. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 74 SEZIONE QUINTA SENTENZA 12-04-2005 / 22-04-2005, n. 15271 Svolgimento del processo Carmen P. ed Emanuela B. impugnano per cassazione la sentenza che, in accoglimento dell'appello del pubblico ministero, ne ha dichiarato la colpevolezza in ordine al delitto di falso in atto pubblico, perchè, nella qualità di ispettrici dell'Inail, avevano attestato e documentato falsamente spese di missione superiori a quelle effettivamente affrontate. Propongono entrambe due motivi d'impugnazione. Con il primo motivo le ricorrenti deducono violazione dell'art. 479 c.p. e sostengono che le richieste di rimborso delle spese di missione non vengono redatte nell'esercizio di pubbliche funzioni, sicchè si tratta di atti privati per i quali non è punibile la falsità ideologica. Con il secondo motivo le ricorrenti deducono in via subordinata violazione dell'art. 480 c.p., sostenendo che le suddette richieste di rimborso possono essere qualificate tutt'al più certificati amministrativi, non atti pubblici. Il primo motivo del ricorso è fondato e assorbente. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, invero, "in materia di falso ideologico in atto pubblico, è tale ogni scritto redatto dal pubblico impiegato e dal pubblico ufficiale per uno scopo inerente alle loro funzioni, anche quando si tratti di atti di corrispondenza, interna o esterna, o comunque, di atti interni alla P.A., anche non tassativamente previsti dalla legge: ciò che rileva è la provenienza dell'atto dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni ed il contributo da esso fornito - in termini di conoscenza o di determinazione - ad un procedimento della Pubblica amministrazione" (Cass., sez. 5^, 18 marzo 1999, Andronico, m. 213363). Sicchè è sufficiente che l'atto provenga dalla pubblica amministrazione, perchè rientri nella tutela prevista dall'art. 479 c.p., essendo irrilevante la sua eventuale destinazione meramente interna all'organizzazione. Vanno pertanto considerati pubblici anche gli atti redatti dal pubblico dipendente per attestare l'effettivo espletamento di una missione di istituto (Cass., sez. 5^, 23 ottobre 1995, Iaquinta, m. 202500) ovvero la sua stessa presenza in ufficio (Cass., sez. 5^, 9novembre 2004, Amendola, m. 230261), perchè si tratta di attestazioni attinenti, oltre che eventualmente al rapporto di lavoro del dichiarante, anche al regolare funzionamento dell'ufficio pubblico e possono assumere nei confronti dei terzi un rilievo probatorio non predeterminabile. Deve escludersi invece che il pubblico dipendente rediga atti pubblici quando non agisca neppure indirettamente per conto della pubblica amministrazione, ma operi solo come soggetto privato in un rapporto contrattuale con la sua stessa amministrazione di appartenenza. E tanto si desume non solo dall'art. 479 c.p., che per la sua applicazione richiede l'esercizio delle funzioni pubbliche, e dall'art. 493 c.p., che presuppone l'esercizio delle attribuzioni dell'incaricato di pubblico servizio equiparato al pubblico ufficiale, ma anche dall'art. 482 c.p., laddove, sia pure ai soli fini delle falsità materiali, equipara al privato il pubblico ufficiale che agisca al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni. Redige perciò un atto privato il pubblico dipendente che, avendo effettivamente compiuto una missione fuori sede, richieda il rimborso delle spese sostenute per il trasferimento. In questi casi infatti il pubblico dipendente non esprime la volontà o la conoscenza della pubblica amministrazione, ma rappresenta esclusivamente un suo interesse privato, senza attestare alcunchè in ordine all'attività della pubblica amministrazione. Sicchè nella sua condotta risulterà configurabile il delitto di truffa ai danni dell'amministrazione dalla quale dipende, ma non sarà ipotizzabile un falso punibile, perchè, com'è noto, la falsità ideologica in atti privati non è prevista come reato. La sentenza impugnata va pertanto annullata senza rinvio, perchè il fatto non è previsto dalla legge come reato. P.Q.M. La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perchè il fatto non è previsto dalla legge come 75 reato. Così deciso in Roma, il 12 aprile 2005. Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2005. RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ E VIOLENZA SESSUALE TRACCIA: Tizio è un signore di circa quaranta anni, che ama uscire la sera con colleghe di lavoro. Una sera, mentre passeggiava vicino al Colosseo con Francesca (giovane attrice polacca), intravedeva la ex moglie Marta; Tizio si avvicinava a Marta (dopo aver chiesto a Francesca di attendere qualche minuto da sola), chiedendole un appuntamento per il mese successivo, al ristorante Gustibus, nei pressi di piazza di Spagna. Marta, timidamente, accettava. Accadeva, poi, che Tizio chiedeva a Francesca di lavorare per lui, in cambio di 200,00 euro al giorno; Francesca, senza lavoro e bisognosa di denaro, accettava senza chiedere ulteriori spiegazioni. Tizio, allora, la conduceva presso la sua abitazione, spiegandole che avrebbe dovuto prostituirsi ogni sera; Francesca a quel punto urlava, ma Tizio la legava di forza ad un letto e si allontanava. Ogni sera Tizio la slegava, portandola in strada a prostituirsi. Francesca subiva la volontà di Tizio. Tizio, poi, un giorno, andava a cena con Marta a cenare presso Gustibus; dopo cena, Tizio iniziava a dire a Marta di voler tornare insieme. Tizio faceva anche gesti volti a far capire a Marta di volerla baciare, ma non la toccava mai; Marta minacciava di procedere a denuncia per violenza sessuale. Tizio, allora, tornava a casa da solo, adirato. Tizio, una volta a casa, andava da Francesca che era legata ed indossava i jeans; Tizio provava a baciarle le cosce, ma non riuscendo a sfilare i jeans, cercava di baciare il collo; neanche in questo, però, riusciva. Quella stessa notte Francesca riusciva a scappare. Due giorni dopo, Tizio si recava da un legale per avere informazioni circa la sua posizione giuridica complessiva. Il candidato affronti la complessa questione giuridica posta. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, poteva essere utile distinguere la fattispecie antigiuridica integrata da Tizio nei confronti di Francesca, dalla fattispecie realizzata verso Marta. Con riferimento alla posizione di Tizio verso Francesca, emerge una condotta che sembra integrare la riduzione in schiavitù, ex art. 600 c.p., ed il sequestro di persona, ex art. 605 c.p., oltre che il reato di violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p. Con riferimento al reato di riduzione in schiavitù emerge una condotta sostanzialmente finalizzata ad uno scopo (prestazioni lavorative o sessuali, accattonaggio o prestazioni che comportano sfruttamento): si esercita un potere, simile a quello del diritto di proprietà, per realizzare uno scopo 76 (si parla di dolo specifico). In questo senso, allora, Tizio sembra aver realizzato il reato ex art. 600 c.p. perché costringe Francesca a fare ciò che lui vuole ed, in particolare, a prostituirsi. Francesca diventa una res senza diritti, succube della volontà di Tizio. E’ possibile ipotizzare anche il concorso con il reato di sequestro di persona? Al quesito si potrebbe dare risposta negativa (con riferimento al caso di specie), in considerazione del fatto che non viene negata in assoluto la libertà personale (nel senso di costringimento fisico a restare ferma in un certo luogo), in quanto Francesca esce ogni sera per prostituirsi; id est: non emerge la restrizione assoluta della libertà (anche di locomozione), quanto piuttosto la coartazione a fare qualcosa (prostituzione) di specifico (nel sequestro di persona, di massima, il sequestrante non richiede alla vittima una condotta attiva), per cui non vi è sequestro di persona, ma “solo” riduzione in schiavitù. Ulteriore problema che si poneva nel rapporto tra Tizio e Francesca, era la sussistenza dell’eventuale reato di violenza sessuale; Tizio ha violentato, ex art. 609 bis c.p., Francesca? Qui il problema posto andava risolto (preferibilmente) alla luce della giurisprudenza più recente. Il fatto che Francesca indossasse i jeans non rileva specificatamente sulla questione (con l’occasione, si ricorda che la tesi relativa alla non configurabilità del reato di violenza sessuale, in presenza di una donna che indossa i jeans, è stata abbandonata, di recente), se non nel senso che Tizio non riesce a baciare le cosce di Francesca, con la conseguenza che non si integra il reato di violenza sessuale, ma al più tentata violenza sessuale; anche con riferimento al tentato bacio sul collo sembrerebbe configurarsi il tentativo di violenza sessuale (a meno che Tizio non sia riuscito, in concreto, a sfiorare con le labbra il collo di Francesca, ma la traccia sembrava escluderlo). Successivamente, si poteva porre il problema della sussistenza o meno del reato di violenza sessuale (o tentata violenza sessuale) di Tizio verso Marta. In questo caso, invero, non vi è alcun contatto tra Tizio e Marta che, in qualche modo, possa giustificare una restrizione della libertà di autodeterminazione di Marta (Tizio faceva solo gesti, senza toccare alcunché); né, altresì, sembrerebbe poter sussistere il tentativo, in quanto non c’è proprio un minimum di minaccia al bene-interesse tutelato. La stessa giurisprudenza più recente sembra orientata in questo senso. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. Il jeans non può rappresentare il discrimen tra atto sessuale consentito e atto sessuale imposto con violenza. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE SENTENZA 19 maggio 2006 n. 22049 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO D.B.R., nato a Belluno il 9/1/1965, era tutto a giudizio per rispondere: del delitto p. e p. dell’art. 519 co. 1 c.p. per aver, in Belluno nell’aprile del 1990, costretto con violenza e minaccia S. B. a congiungersi carnalmente con lui (l’imputato, richiesto dagli occupanti di un appartamento soprastante i bar presso cui lavorava di recapitare delle consumazioni, aveva chiesto alla B. di accompagnarlo per aiutarlo a svolgere la commissione e al ritorno, dopo avere fermato ad un piano intermedio l’ascensore sul quale entrambi si trovavano, con uno strattone costringeva la giovane ad uscire e quindi premendola contro la parete del pianerottolo riusciva ad abbassarle i pantaloni e gli slip e quindi la penetrava pur parzialmente con il membro: azione da cui desisteva per la reazione 77 che la ragazza, dopo i primi attimi di smarrimento, si opponeva, anche mettendosi a piangere; del delitto p. e p. Dell’art. 527 c.p. per aver compiuto su S. B., nelle circostanze e con le modalità di cui al capo che precede, gli atti osceni ivi descritti (parziale denudamento della ragazza e congiunzione carnale). Con sentenza in data 11/4/1997 il Tribunale di Belluno dichiarava il D.B. colpevole di entrambi i delitti a lui ascritti e, ritenuto il vicolo di continuazione tra tali reati, lo condannava alla pena principale di anni 3 e mesi 2 di reclusione ed al quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Il predetto imputato era altresì condannato al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, danni che venivano liquidati direttamente in £ 30.000.000, oltre alle spese di lite. In ordine alla ritenuta responsabilità, il primo Collegio la fondava in principalità sulle deposizioni della parte lesa e della sua amica A.S., sulla valutazione critica delle dichiarazioni dell’imputato, nonché su una serie di convalidanti considerazioni logiche. In particolare attendibili e precisi, almeno sui punti centrali della vicenda, erano ritenuti dal tribunale sia la parte lesa B., sia la sua amica e compagna di scuola A.S. In particolare quest’ultima aveva confermato che il D.B., nel bar, aveva chiesto alla B.S. di andar via con lui; che questa aveva accettato ed era stata fuori un certo tempo; che al ritorno la ragazza era sconvolta e le aveva chiesto di essere accompagnata al bagno; che in tale locale la B. le aveva confidato che il D.B. aveva abusato di lei, mostrandole gli slip sporchi di sangue. Trovavano così, secondo i primi giudici, sostanziale riscontro le dichiarazioni accusatorie della parte lesa che aveva ricostruito la violenza subita e risposto ad una serie di considerazioni critiche avanzate dalla difesa. Prendendo poi in esame le dichiarazioni dell’imputato, il Tribunale rilevava come costui, pur negando l’addebito anche con toni non privi di arroganza e supponenza, avesse ammesso di essersi fatto accompagnare dalla B. (circostanza che, peraltro, aveva negato in sede di indagini) adducendo l’intenzione di aver un semplice colloquio. I primi giudici ritenevano poi che la tesi difensiva di una denuncia costruita per ritorsione, dopo l’interruzione di un rapporto sentimentale, era smentita dal riferito stato di assoggettamento (che da solo dava ragione del ritardo nella denuncia) e comunque non era provata anche per la rinuncia ad escutere quei testi che, secondo l’originaria impostazione difensiva, avrebbero dovuto deporre in tal senso. Avverso tale sentenza proponeva rituale impugnazione in appello l’imputato. della Corte di appello di Venezia con sentenza del 10 mar. 2005- 11 apr. 2005, in parziale riforma della sentenza 11/4/1997 del Tribunale di Belluno, dichiarava non doversi procedere nei confronti dell’appellante in ordine al reato di cui all’art. 527 c.p. perché estinto per prescrizione; ritenuto poi il fatto contestato al capo a) come rientrante nella previsione dell’art. 609 bis, ultimo comma, c.p. rideterminava l pena nei confronti del predetto imputato in anni 2 di reclusione; condannava poi il D.B. a rifondere alla costituita parte civile le spese del grado. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso è articolato in tre motivi con il primo motivo il ricorrente si duole dell’irrituale inserimento di un giudice onorato nel collegio del tribunale senza che risultasse l’impedimento o la mancanza di un giudice togato. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’inadeguata valutazione delle risultanze probatorie. In particolare non si sarebbe tenuto conto che la parte offesa indossava pantaloni del tipo jeans, che secondo comune esperienza non è possibile sfilare senza la fattiva collaborazione di chi li indossa. Con il terzo motivo il ricorrente fa valere la (ritenuta) estinzione del reato per prescrizione. Il primo motivo è infondato. Questa Corte (Cass. sez. I 2 apr. 2004, Sepede) ha già affermato, quanto alla capacità del giudice, che la partecipazione al collegio di un giudice onorario non è causa di nullità. Ed invero, ha precisato la cit. pronuncia, nessuna specifica disposizione di legge impedisce che un giudice onorario venga chiamato a far parte del tribunale; ne ciò può desumersi dall’art. 43 bis ord. 78 giud., che si limita ad introdurre, come si evince dalla sua formulazione letterale, un mero criterio organizzativo dell’assegnazione del lavoro tra i giudici ordinari e quelli onorari (cfr. anche Cass., sez. IV, 19 feb. 2004, n. 20187, Suriel; Cass., VI, 21 mar. 2003, n. 20517, Ragosa). Analogamente Cass., sez. VI, 19 feb. 2004, n. 20187, Suriel, ha ribadito che la trattazione in dibattimento da parte del giudice onorario di un procedimento penale diverso da quelli indicati dall’art. 43 bis, co. 3, lett. b), ord. giud., ossia in relazione a reati non previsti nell’art. 550, co. 1, cod. proc. pen., non è causa di nullità, in quanto la disposizione ordinamentale introduce un mero criterio organizzativo dell’assegnazione del lavoro tra i giudici ordinari e quelli onorari. Inammissibile è poi il secondo motivo del ricorso. Rispetto alla pronuncia invocata dal ricorrente (Cass. 6 nov. 1998, Cristiano) con cui questa Corte aveva annullato con rinvio, per carenza di motivazione, la sentenza di secondo grado che aveva affermato la colpevolezza dell’imputato di violenza carnale senza tenere conto del presunto dato di comune esperienza secondo cui è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans ad una persona senza la sua fattiva collaborazione, perché trattasi di un’operazione che è già difficoltosa per chi li indossa, la successiva giurisprudenza di questa Terza Sezione (Cass., sez. III, 6 nov. 2001, Kamal) ha precisato che l’attendibilità della vittima della violenza sessuale non può essere inficiata dal fatto che la stessa indossasse i jeans al momento dello stupro, posto che la paura di ulteriori conseguenze potrebbe avere determinato la possibilità di sfilare i jeans più facilmente. La stessa pronuncia ha poi aggiunto che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza (cfr., anche Cass., sez. 24 nov. 1999, Spina). Nella specie invece l’impugnata pronuncia della Corte d’appello di Venezia è assistita da motivazione sufficiente ed immune da contraddittorietà. In particolare la Corte di appello ha ricordato come B.S. ha puntualmente e senza contraddizioni riferito l’episodio della violenza subita. Quanto poi alle presunte difficoltà ricostruttivo che avrebbe espresso la teste A. la Corte di appello ha posto in evidenza come la teste sia stata ferma e chiara, nei punti essenziali (ribadisco, lei mi aveva detto che l’aveva violentata, praticamente…), ben descrivendo lo svolgersi dell’episodio di violenza. In merito poi alla prospettazione secondo cui le tracce di sangue, segno della violenza, sarebbero riferibili al flusso mestruale la Corte di appello si è fata carico anche di questa deduzione in fatto rilevando che c’è differenza sostanziale, se non altro quantitativamente, tra l’una cosa e l’altra. C’era poi l’evidente stato di sconvolgimento della parte lesa, conseguente alla violenza subita. Insomma la censura del ricorrente attinge null’altro che alla valutazione dei fatti da parte dei giudici di merito senza per ciò evidenziare alcuna illogicità manifesta della motivazione della sentenza impugnata, che invece, si ribadisce, è sufficientemente e non contraddittoriamente argomentata. Infondato è anche il terzo motivo di ricorso. Il reato, di cui l’imputato è stato ritenuto colpevole, non è prescritto. Infatti la condotta delittuosa è stata posta in essere il 30 apr. 1990, talché la prescrizione sarebbe decorsa (dopo 15 anni, stante l’interruzione del termine di prescrizione) il 30 apr. 2005. Ma occorre considerare il rinvio del dibattimento a richiesta della difesa dal 4 feb. 1994 al 15 apr. 1994e dal 20 gen. 1995 al 3 nov. 1995, per la durata complessiva di 11 mesi e 24 giorni, periodo questo che si aggiunge all’ordinario termine prescrizionale. Questa Corte (Cass., sez. un., 28 nov. 2001, Cremonese) ha infatti affermato che la sospensione del comportamento e il rinvio o la sospensione del dibattimento comportano la sospensione dei relativi termini ogni qualvolta siano disposti per impedimento dell’imputato o del suo difensore, ovvero su loro richiesta e sempre che l’una o l’altra non siano determinati da esigenze di acquisizione della prova e dal riconoscimento di un termine a difesa. Successivamente in senso conforme v. Cass., sez. un., 24 set. 2003, Putrella. Successivamente, fissata l’udienza del 9 mar. 2006, prima del compimento del termine 79 prescrizionale, quest’ultimo è stato ulteriormente sospeso (per 30 giorni) per consentire alla difesa di presentare motivi aggiunti ai sensi dell’art. 10, co. 5, legge 20 feb. 2006 n. 46; sicché il termine finale di prescrizione del reato deve fissarsi nel 22 mag. 2006, non decorso alla data dell’odierna pronuncia. Pertanto il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Roma, 19 mag. 2006. Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2006. - E’ un dato di comune esperienza che non è possibile sfilare i jeans senza il consenso della vittima. Corte di CassazioneIn data 12-7-92 R. P., allora diciottenne, denunciava alla Questura di Potenza che il giorno precedente, verso le ore 12,30, era stata vittima di una violenza carnale consumata in suo danno da C. C., suo istruttore di guida. Costui, come aveva fatto altre volte, l'aveva prelevata presso la sua abitazione, per effettuare la lezione di guida pratica. Sennonché, con la scusa di dover prelevare altra ragazza pure interessata alle lezioni di guida, l'aveva condotta fuori dal centro abitato e, fermata l'autovettura in una stradella interpoderale, l'aveva gettata a terra e, dopo averle sfilato da una gamba i jeans che indossava, l'aveva violentata. Consumato l'amplesso, l'aveva condotta a casa imponendole con minacce di non rivelare ad altri l'accaduto. I genitori, vedendola turbata, le avevano chiesto spiegazioni, ma aveva preferito non raccontare quanto le era accaduto. Lo stesso giorno, dopo il suo rientro a casa dalla lezione di teoria presso l'autoscuola, aveva informato i genitori della violenza subita. Il C., sottoposto a fermo lo stesso giorno della denuncia, dava una diversa versione dei fatti. Ammetteva di avere avuto il rapporto sessuale con la P., nelle circostanze di tempo e di luogo da questa riferite, ma precisava che la ragazza era stata consenziente. Iniziatosi procedimento penale a carico del C. per i reati di violenza carnale, violenza privata, ratto a fine di libidine, lesioni personali, atti osceni in luogo pubblico e violenza privata, il tribunale di Potenza, con sentenza del 29.2.96, condannava l'imputato per il reato di atti osceni in luogo pubblico, mentre lo proscioglieva dai rimanenti reati. A seguito di appello del pm e dell'imputato, la Corte di Appello di Potenza, con sentenza del 19.3.98, dichiarava il C. responsabile di tutti i reati a lui contestati e lo condannava alla pena di anni 2 e mesi 10 di reclusione. Contro tale sentenza il C. ha proposto ricorso per Cassazione ed ha dedotto il visto di motivazione sostenendo che la Corte di Appello aveva affermato la di lui responsabilità con argomentazioni non coerenti con le risultanze processuali.Motivi della decisioneRitiene la Corte che la sentenza impugnata merita l'annullamento perché carente di adeguato e convincente apparato argomentativo. E' certo che a carico dell'imputato sussistono le reiterate accuse formulate dalla P. Ma, considerate le proteste di innocenza dell'imputato, il quale ha sostenuto che la ragazza era stata consenziente al rapporto sessuale, la Corte di merito avrebbe dovuto procedere ad una rigorosa analisi in ordine alla attendibilità delle dichiarazioni accusatorie rese dalla P., mentre invece ha affermato la colpevolezza dell'imputato valorizzando le circostanze di fatto che ben si conciliavano con la versione dei fatti rappresentata dal C. e minimizzando o ammettendo di valutare altre circostanze che mal si conciliano con la denunciata violenza carnale. La sentenza afferma che le dichiarazioni rese dalla P. sono da ritenersi attendibili perché costei non aveva motivo alcuno per muovere contro il C. una accusa calunniosa. Una tale considerazione non può condividersi sol che si consideri che la ragazza potrebbe avere accusato falsamente il C. di averla violentata, per giustificare con i genitori l'amplesso carnale avuto con una persona molto più grande di lei di età e per di più sposata, amplesso che non si sentiva di tener celato poiché preoccupata dalle possibili conseguenze del rapporto carnale.Peraltro una tale ipotesi non appare inverosimile alla luce del comportamento 80 tenuto dalla P. dopo i fatti. Costei raccontò ai genitori quanto le era accaduto non già appena tornò a casa, sebbene i parenti le chiedessero cosa le era successo in quanto era visibilmente turbata, ma soltanto la sera dopo aver assistito presso l'autoscuola alla lezione di Teoria. La Corte di Appello giustifica un tale ritardo sostenendo che la P. presumibilmente provava vergogna: o si sentiva in colpa. Ma una tale argomentazione non è convincente. Non si vede infatti quale vergogna o senso di colpa la P. potesse avvertire, se effettivamente vittima di una violenza carnale, data la gravità di un tale fatto, peraltro commesso dal suo istruttore di guida, sulla cui autovettura si era trovata per effettuare la programmata esercitazione di guida.Parimenti censurabile è la sentenza allorché afferma che la P. fu realmente vittima della denunciata violenza carnale dato che è certo che durante l'amplesso aveva i jeans tolti soltanto in parte mentre se fosse stata consenziente al rapporto carnale avrebbe tolto del tutto i pantaloni che indossava. Un tale rilievo non può condividersi perché sarebbe stato assai singolare che in pieno giorno (il fatto avvenne verso le ore 12-12,30), in una zona che seppur isolata non era preclusa al transito di persone, la P. si denudasse del tutto perché era consenziente all'amplesso.Deve poi rilevarsi che è un dato di comune esperienza che è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans di una persona senza la sua fattiva collaborazione, poiché trattasi di una operazione che è già assai difficoltosa per chi li indossa. Anche su altri punti la sentenza ci sembra carente di convincente motivazione. Sul corpo della P. e del C. non sono stati riscontrati segni di una colluttazione tra i due o comunque di una vigorosa resistenza della ragazza al suo aggressore. La Corte di Appello al riguardo si limita ad affermare che per la sussistenza del reato di violenza carnale non è necessario che l'autore del fatto sottoponga la persona offesa ad atti di violenza e che comunque, sul caso in esame, la P. non aveva opposto resistenza temendo di subire gravi offese alla sua incolumità fisica. Ma al riguardo è da osservare che è istintivo, soprattutto per una giovane, opporsi con tutte le sue forze a chi vuole violentarla e che è illogico affermare che una ragazza possa subire supinamente uno stupro, che è una grave violenza alla persona, nel timore di patire altre ipotetiche e non certo più gravi offese alla propria incolumità fisica.La sentenza impugnata infine, non chiarisce come si concilia con l'asserita violenza carnale la circostanza che la P. non tentò di fuggire appena il C. fermò l'autovettura e manifestò i suoi propositi, così come non dà una plausibile spiegazione del comportamento della ragazza che, dopo la consumazione del rapporto carnale, si mise alla guida dell'autovettura. In sentenza viene precisato che lei aveva interesse a tornare subito a casa. Ma la Corte di Appello ha omesso di considerare che è assai singolare che una ragazza, dopo aver subito una violenza carnale, si trovi nelle condizioni d'animo che le consentano di porsi alla guida di una autovettura con accanto il suo stupratore, soprattutto se, come nel caso in esame, essendo inesperta di guida, deve pilotare l'autovettura seguendo i consigli e le istruzioni di chi momenti prima l'ha violentata.Ne consegue che la sentenza impugnata risulta affetta da motivazione carente ed illogica e pertanto merita l'annullamento con rinvio alla Corte di Appello di Napoli.Per questi motiviAnnulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Napoli.Roma 6 novembre 1998.Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 1999. - L’attenuante dell’art. 609 quater può sussistere anche se la consumazione è avvenuta secondo modalità innaturali (nel caso di specie un adulto consuma il rapporto con la figlia minorenne della convivente consenziente). Corte di cassazione Sezione III penale Sentenza 17 febbraio 2006, n. 6329 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza del 25 novembre 2003 la Corte d'appello di Cagliari decidendo sulla impugnazione proposta da T.M. avverso la sentenza in data 30 novembre 2001 del tribunale della stessa città - che 81 lo aveva condannato alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione per il delitto di violenza sessuale ed a quella di mesi due di reclusione per i reati di percosse e minacce - dichiarava di non doversi procedere per intervenuta remissione della querela in ordine al reato di percosse e rideterminava la pena per i reati sub b) e c) nella misura di gg. 15 di reclusione, confermando nel resto con condanna dell'appellante anche alle spese di costituzione e rappresentanza della costituita parte civile. Con il primo motivo di appello l'imputato aveva negato il pregresso rapporto di convivenza con la ragazza, S.V., vittima della violenza. La Corte di merito replicava che le risultanze testimoniali dimostravano il contrario ed altrettanto risultava in definitiva dalle stesse dichiarazioni dell'imputato che aveva parlato di una volontà calunniosa della parte lesa originata dai suoi rimproveri per lo scarso impegno scolastico. Con altro motivo erano state evidenziate le inesattezze in cui era caduta la ragazza. La Corte osservava che erano inesattezze di carattere marginale e che doveva escludersi il dolo di calunnia nel suo racconto anche perché non aveva avuto difficoltà a riferire dei suoi incontri precedenti con uomini giovani e meno giovani. Con un'ulteriore motivo aveva sottolineato che la parte lesa aveva falsamente negato di avere parlato dei suoi rapporti con l'imputato ed altresì che la denuncia era chiaramente finalizzata a liberarsi dello stesso. La replica era che i testimoni avevano confermato il racconto della parte lesa e che per sbarazzarsi del T. sarebbe stato sufficiente denunciare i maltrattamenti ai quali sottoponeva la famiglia. La gravità del fatto escludeva infine ad avviso della Corte che il fatto stesso potesse configurarsi come fatto di minore gravità. L'imputato propone personalmente ricorso per cassazione denunziando con un unico motivo mancanza ed illogicità manifesta della motivazione laddove la sentenza impugnata ha negato la minore gravità di cui all'art. 609-quater, comma 3. Rappresenta infatti che si è trattato di un unico rapporto, pacificamente acconsentito dalla ragazza che si era rifiutata ad un rapporto completo ma aveva optato senza difficoltà per un coito orale e che infine fin dall'età di 13 anni la stessa aveva avuto rapporti con giovani ed adulti. MOTIVI DELLA DECISIONE L'unico motivo di ricorso merita di essere accolto. La diminuente della minore gravità del fatto di cui all'art. 609-quater, comma 3, c.p. è stata negata dalla Corte territoriale con riferimento alle "modalità innaturali del rapporto", ritenute tali da compromettere "l'armonioso sviluppo della sfera sessuale della vittima". L'affermazione si pone in contrasto con quanto poco prima rilevato dalla stessa Corte allorché ha proceduto alla ricostruzione dell'unico episodio - quello riprodotto nel capo di imputazione - di abuso sessuale posto in essere dall'imputato ai danni della minore: si era trattato di un rapporto pienamente assentito dalla stessa che ne aveva scelto le modalità. L'imputato infatti intendeva avere un rapporto completo ma la ragazza, consapevole che l'uomo aveva avuto problemi di tossicodipendenza, aveva optato per un, a suo avviso, meno rischioso rapporto orale. Ora è bensì vero che ciò non elimina la riprovevolezza della condotta dell'imputato che in realtà si è avvalso dello stato di soggezione in cui la giovane vittima si trovava nei suoi confronti per essere 82 inserita nello stesso nucleo familiare da lui costituito con la di lei madre convivente. Ma tale relazione interpersonale fa parte dell'elemento oggettivo della fattispecie delittuosa tipica di cui si tratta (punita con la reclusione da 5 a 10 anni di reclusione) senza la quale quest'ultima non si sarebbe integrata in quanto pacificamente all'epoca del fatto la ragazza aveva compiuto 14 anni e come si è visto la stessa aveva prestato il proprio consenso al rapporto sessuale. In questo contesto non sembra possa convenirsi con l'impugnata sentenza laddove afferma la gravità dell'episodio deducendola dalle modalità innaturali del rapporto, che in realtà furono scelte con avvedutezza della minore in quanto a suo dire idonee ad evitare i rischi che un diverso rapporto poteva comportare per la sua salute a causa della pregressa condizione di tossicodipendente dell'imputato. Ancora meno condivisibile è l'altra affermazione della stessa sentenza, relativa alle negative conseguenze indotte da questo rapporto sullo sviluppo sessuale della minore. L'affermazione è infatti del tutto apodittica in quanto trascura di considerare quanto nella stessa sentenza poco prima si è rilevato, e cioè che la ragazza già a partire dall'età di 13 anni aveva avuto numerosi rapporti sessuali con uomini di ogni età di guisa che è lecito ritenere che già al momento dell'incontro con l'imputato la sua personalità dal punto di vista sessuale fosse molto più sviluppata di quanto ci si può normalmente aspettare da una ragazza della sua età. Alla stregua delle considerazioni che precedono e tenendone il debito conto, la Corte territoriale ala quale gli atti devono essere restituiti dovrà valutare se il diniego della attenuante in parola possa essere deciso con il supporto di una motivazione diversa da quella testè censurata. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione annulla la sentenza impugnata limitatamente al diniego della attenuante di cui all'art. 609-quater, comma 3, c.p. e rinvia ad altra sezione della Corte d'appello di Cagliari. - Il consenso della minore di anni 14 non attenua la gravità del reato di violenza sessuale. CASS. PEN.- SEZ. III- 12 ottobre 2006, n. 34120- Pres. De Maio- est. Franco Svolgimento del processoCon sentenza del 14 maggio 2002 il tribunale di Nuoro dichiarò Deliperi Gian Paolo colpevole del reato di cui all'art. 609 quater n. 1 cod. pen, per avere compiuto reiteratamente atti sessuali, consistiti anche in congiunzioni carnali, con Trogu Cecilia, consenziente ma minore degli anni 14, avendo all'epoca anni 13 e mesi 10, e lo condannò alla pena di anni 6 di reclusione, oltre pene accessorie e risarcimento del danno in favore della parte civile.La corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, con la sentenza in epigrafe concesse le attenuanti generiche e quindi ridusse la pena ad anni 5 di reclusione, confermando nel resto la sentenza di primo grado.L'imputato propone ricorso per cassazione deducendo:a) violazione e falsa applicazione dell'art. 609 quater cod. pen. per mancata applicazione del terzo comma del medesimo articolo; contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Lamenta, in sostanza, che erroneamente e con motivazione manifestamente illogica la corte d'appello non ha ravvisato l'ipotesi del fatto di minore gravità, pur avendo riconosciuto che nella specie non vi era stata nessuna violenza; che non vi era stata nessuna compressione della libertà della vittima; che la ragazza aveva mostrato particolare intraprendenza, tanto che era stata lei a procurare il luogo adatto per gli incontri sessuali e non aveva disdegnato di allontanarsi dalla propria città per recarsi nell'abitazione dell'uomo a Sassari; che la ragazza aveva tenuto un comportamento che sembrava «eufemistico definire disinibito e disinvolto» nonché una «apparente maturità psico-fisica» ed una «particolare disponibilità e spigliatezza». Osserva che non doveva venire in rilievo la completezza dell'atto sessuale ma il grado di compressione della libertà 83 sessuale della vittima, oltre che le circostanze oggettive e soggettive del fatto.b) mancanza e contraddittorietà della motivazione in ordine alla determinazione della pena ed in particolare perché immotivatamente la corte d'appello ha mantenuto la stessa pena base già determinata dal giudice di primo grado e non ha effettuato la riduzione massima per le attenuanti generiche.e) ribadisce la sollevata eccezione di illegittimità costituzionale che non è seriamente contrastata dalle osservazioni della corte d'appello. Sostiene che vi è disparità di trattamento rispetto alla legge sulla interruzione della gravidanza, specie con riferimento alla mancata distinzione legislativa tra ignoranza della età della vittima ed errore in relazione alla medesima nonché alla non punibilità nel caso in cui i rapporti sessuali con una minore degli anni 14 e maggiore degli anni 13 siano intercorsi con un soggetto anch'esso minore di età.Motivi della decisioneVa preliminarmente esaminata la eccezione di illegittimità costituzionale che deve essere dichiarata inammissibile.Innanzitutto deve osservarsi che, secondo la costante e comune interpretazione giurisprudenziale e dottrinale, contro la statuizione del giudice del merito che abbia dichiarato manifestamente infondata una eccezione di illegittimità costituzionale non è consentito proporre impugnazione. E ciò per il motivo che, ai sensi dell'art. 24, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'eccezione di illegittimità costituzionale che sia stata dichiarata manifestamente infondata o irrilevante «può essere riproposta ali'inizio di ogni grado ulteriore del processo».Va quindi esaminata l'eccezione riproposta con il ricorso per cassazione, la quale va appunto dichiarata inammissibile per mancanza dei requisiti richiesti dall'art. 23 delle legge n. 87 del 1953, il quale prescrive che chi intende sollevare una questione di legittimità costituzionale deve indicare le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge che ritiene viziate da illegittimità costituzionale, le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate, nonché i termini ed i profili della questione proposta.Il ricorrente si è invece limitato a «ribadire» l'eccezione sollevata ed a prospettare genericamente una disparità di trattamento «rispetto alla legge sulla interruzione della gravidanza», nonché una distinzione tra ignoranza ed errore della età della vittima ed a fare riferimento alla ipotesi in cui il soggetto attivo sia anch'esso minorenne, ma ha completamente omesso di indicare sia le disposizioni legislative che ritiene viziate da illegittimità costituzionale, sia le norme o i principi della Costituzione che assume essere stati violati, sia soprattutto i termini ed i profili della eccezione sollevata.Per completezza può anche osservarsi che, qualora dovesse poi ritenersi che il ricorrente abbia fatto rinvio per relationem alla eccezione sollevata in sede di appello e che tale rinvio fosse ammissibile, l'eccezione sarebbe manifestamente infondata per i motivi tutti perspicuamente ed esaustivamente indicati dalla corte d'appello e che qui dovrebbero intendersi richiamati.Ritiene il Collegio che il primo motivo sia infondato, in quanto la motivazione con la quale la corte d'appello ha ritenuto che non potesse ravvisarsi la ipotesi di minore gravità è priva di errori di diritto e di vizi logici.La giurisprudenza di questa Suprema Corte, invero, ha ripetutamente affermato che l'attenuante del fatto di minore gravità è applicabile quando, avuto riguardo ai mezzi, alle modalità esecutive ed alle circostanze dell'azione, sia possibile ritenere che la libertà sessuale personale della vittima sia stata compressa in maniera non grave, ed implica la necessità di una valutazione globale del fatto, non limitata alle sole componenti oggettive del reato, bensì estesa anche a quelle soggettive ed a tutti gli elementi menzionati nell'art. 133 cod. pen. (cfr. Sez. Ili, 8 giugno 2000, Nitti, m. 217.708; Sez. Ili, 24 marzo 2000, Improta, m. 216.568; Sez. Ili, 1 luglio 1999, Scacchi, m. 215.077); che l'attenuante di cui all'art. 609, comma 3, cod. pen. non risponde ad esigenze di adeguamento del fatto alla colpevolezza del reo, ma concerne la minore lesività del fatto in concreto rapportata al bene giuridico tutelato e, quindi, assumono rilievo il grado di coartazione esercitato sulla vittima e le condizioni, fisiche e mentali, di quest'ultima, le caratteristiche psicologiche, valutate in relazione all'età, l'entità della compressione della libertà sessuale ed il danno arrecato alla vittima anche in termini psichici (cfr. Sez. Ili, 24 marzo 2000, Improta, m. 216.569; Sez. Ili, 29 febbraio 2000, Pziello Della Rotonda, m. 215.954; Sez. Ili, 28 ottobre 2003, El Kabouri, m. 226.865).Ciò posto, non si rinviene nessuna contraddittorietà nella motivazione della corte d'appello, la quale ha sì posto in evidenza la particolare intraprendenza della ragazza (la quale si procurava addirittura il luogo più adatto per gli incontri amorosi e si allontanava dalla propria 84 città anche per andare a casa dell'imputato), che questa aveva tenuto un comportamento che era «eufemistico definire come disinibito e disinvolto», che aveva una «apparente maturità psico-fisica» ed una «particolare disponibilità e spigliatezza», ma ha ritenuto queste circostanze rilevanti ai fini del riconoscimento delle attenuanti generiche e della valutazione del dolo dell'imputato, mentre le ha ritenute irrilevanti, o quanto meno non decisive, ai fini del riconoscimento della ipotesi di minore gravità. A questo fine, invero, la corte d'appello, conformemente del resto al costante orientamento giurisprudenziale dianzi ricordato, ha esattamente tenuto conto soprattutto dell'entità della compressione della libertà sessuale e del danno arrecato alla vittima anche in termini psichici, ed ha osservato, da un lato, che era irrilevante la circostanza che non vi era stata violenza o minaccia o abuso di autorità o abuso delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della ragazza dal momento che proprio l'assenza di tali elementi rendeva applicabile la disposizione in esame (e non l'ipotesi aggravata di cui all'art. 609 ter), e, dall'altro lato, che si era trattato di penetrazione vaginale reiterata, la quale, nonostante la ragazza fosse stata consenziente, aveva costituito per la stessa una esperienza pur sempre traumatica, in considerazione del fatto che si era trovata ad avere il primo rapporto sessuale completo quando aveva soltanto 13 anni e 10 mesi (con un coinvolgimento anche affettivo e con una delicata estrinsecazione della personalità) e soprattutto del fatto che ciò era avvenuto da parte di un adulto, che invece avrebbe dovuto avere una sorta di obbligo morale di protezione ed una particolare cautela nei confronti della minore, evitandole appunto che «vivesse l'esperienza pur sempre traumatica della deflorazione con un uomo maturo».Ritiene il Collegio che si tratta di considerazioni che non possono ritenersi manifestamente illogiche e che quindi non sono sindacabili da questa Corte.Il Collegio ritiene che la sentenza impugnata abbia fornito una congrua, specifica ed adeguata motivazione anche in ordine alla determinazione della pena, che è stata dal giudice del merito valutata conforme a giustizia e proporzionata alla entità del fatto ed ai suoi risvolti particolari. D'altra parte il giudice di primo grado aveva determinato la pena base non solo in considerazione delle modalità e della gravità dell'azione criminosa, ma soprattutto in considerazione dei numerosi e specifici precedenti penali dell'imputato.Il ricorso deve pertanto essere rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.Per questi motivi La Corte Suprema di Cassazione dichiara inammissibile la sollevata eccezione di illegittimità costituzionale.Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. - Bacio sul collo repentino è violenza sessuale. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE Sentenza 26.01.2006 - 09.06.2006, n. 19808 (Presidente: G. De Maio; Relatore: A. Fiale) FATTO E DIRITTO La Corte d'Appello di Genova, con sentenza del 18.10.2002, confermava la sentenza 29.9.2000 del Tribunale di San Remo che aveva affermato la penale responsabilità di G.G. in ordine al reato di cui agli artt. 609bis e 61 n.9 cod.pen. (perchè, abusando delle proprie qualità di assistente capo della Polizia di Stato e comandante di una pattuglia, costringeva la collega R.C. a subire atti sessuali consistiti in baci sul collo e tentativi di baci sulla bocca, dopo averla stretta a sè - in San remo il 10.06.1994) e, riconosciute sia la diminuente di cui al 3° comma dell'art. 609bis cod. pen. siale circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, lo aveva condannato alla pena principale di anni uno e mesi due di reclusione e alla pena accessoria di legge, con doppi benefici. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso il difensore di G., il quale - sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione - ha eccepito l'insussistenza del reato per carenza della 85 connotazione oggettiva, in quanto la sfera sessuale della parte offesa non sarebbe stata attinta dalle condotte contestate, consistenti in mere "avances" non incidenti sulla libertà di determinazione sessuale della donna. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso deve essere rigettato perchè infondato. 1. Con riferimento alla condotta tipica del reato di "violenza sessuale" devono ribadirsi le considerazioni già svolte da questa Corte Suprema nella sentenza 23.04.2004 n.37395 ove è stato posto in rilievo che l'individuazione di tale condotta si riconnette alla definizione della nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione "atti sessuali" di cui alla legge 15.02.1996, n.66, in quanto l'art. 609bis cod. pen. (introdotto appunto da tale legge) ha concentrato in una fattispecie unitaria le previgenti ipotesi criminose previste dagli artt. 519 e 521, individuando quale unica condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della "congiunzione carnale" e degli "atti di libidine violenti", il fatto di chi con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità "costringe" taluno a compiere o a subire "atti sessuali". In ordine al problema dell'individuazione del minimum di condotta penalmente rilevante perchè resti integrato il delitto di violenza sessuale, la giurisprudenza di questa Corte è orientata nel senso che il concetto attuale di "atti sessuali" è semplicemente la somma dei concetti previgenti di congiunzione carnale e atti di libidine (vedi Cass., Sez. III, 03.11.1999, n.2941, P.G. in proc. Carnevali). Punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare e la condotta vietata dall'art. 609bis cod. pen. ricomprende - se connotata da costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica - oltre ad ogni forma di congiunzione carnale, qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo, ancorchè fugace ed estemporaneo, o comunque coinvolgendo la corporeità sessuale di quest'ultimo, sia finalizzato e normalmente idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale. Le finalità dell'agente e l'eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale non assumono rilievo decisivo ai fini dle perfezionamento del reato, che è caratterizzato dal dolo generico e richiede semplicemente la coscienza e volontà di compiere atti pervasivi della sfera sessuale altrui (vedi Cass., Sez. III, 10.04.2000, n.4402, Rinaldi). Non possono qualificarsi, pertanto, come "atti sessuali" - nel senso richiesto dalla norma incriminatrice in esame - tutti quegli atti i quali, pur essendo espressivi di concupiscenza sessuale, siano però inidonei (come nel caso dell'esibizionismo, del feticismo, dell'autoerotismo praticato in presenza di altri costretti ad assistervi o del "voyerismo") ad intaccare la sfera della sessualità fisica della vittima, comportando essi soltanto offesa alla libertà morale di quest'ultima o (ricorrendone i presupposti) al sentimento pubblico del pudore (vedi Cass., Sez. III, 03.11.1999, n.2941, P.G. in proc. Carnevali). Anche i palpeggiamenti ed i toccamenti possono costituire una indebita intrusione nella sfera sessuale ed il riferimento al sesso non deve limitarsi alle zone genitali, ma comprende pure quelle ritenute "erogene" (stimolanti l'istinto sessuale) dalla scienza medica, psicologica ed antropologicosociologica (vedi Cass., Sez. III, 01.12.2000, n.12446, Gerardi; 30.03.2000, n.4005, Alessandrini; 27.01.1999, n.1137 De Marco; 05.06.1998, n. 6652, Di Francia). 2. Questa Corte inoltre ha già prestato adesione (con la sentenza n.37395/2004) all'orientamento dottrinario secondo il quale "le fattispecie incriminatrici, per loro stessa natura, implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti presi in considerazione", sicchè deve convenirsi che "la determinazione di ciò che è sessualemte rilevante in materia penale non può in realtà prescindere dal riferimento al costume e alle rappresentazioni culturali di una collettività determinata in un determinato momento storico". Non basta dunque, talvolta, il solo riferimento alle parti anatomiche aggredite dal soggetto attivo e/o al grado di intensità fisica del contatto instaurato, non potendo trascurarsi la valenza significativa 86 dell'intero "contesto" in cui il contatto si realizza e la complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa in una situazione che, oltretutto, è connotata dalla presenza di fattori coartanti. Più aderente alla logica dell'apprezzamento penalistico va considerato, conseguentemente, un approccio interpretativo di tipo sintetico, volto, cioè a desumere il significato della violenza sessuale da una valutazione complessiva di tutta la vicenda sottoposta a giudizio. 3. Appare opportuno ricordare, infine, che - secondo parte della dottrina - il concetto di violenza è ben diverso da quelli della sorpresa e dell'insidia, sicchè non realizzerebbero violenza sessuale gli atti non violenti ma attuati di sorpresa, pure essendo manifestazioni di immoralità e spesso di degenerazione, riconducibili eventualmente ad altre ipotesi di reato. La giurisprudenza di questa Corte, invece, è orientata nel senso che la violenza richiesta per l'integrazione del reato non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da realizzare un vero e proprio costringimento fisico, ma anche quella che si manifesta nel compimento, insidiosamente rapido, dell'azione criminosa, così venendosi a superare la contraria volontà del soggetto passivo (vedi Cass., Sez. III, 01.12.2000, n.3990). 4. Nella fattispecie in esame i giudici del merito si sono correttamente attenuti ai principi di diritto dianzi enunciati e le condotte tenute dal G. nei confronti della donna, che svolgeva con lui servizio istituzionale di pattuglia, sono state valutate in relazione all'intero contesto in cui i comportamenti si sono realizzati. Risulta accertato, invero, che: - la R. fu comandata dall'imputato di raggiungere, in ora notturna, una spiaggia isolata e che, ivi giunti, dopo avere spento il motore dell'autovettura di servizio, quegli di sorpresa la strinse a sè e tentò di baciarla, provocando l'immediata reazione di lei, che si divincolò ed allontanò il collega "mettendogli una mano sulla bocca"; - seguì un nuovo ordine di portarsi in uno spiazzo panoramico, ove per la seconda volta l'imputato repentinamente strinse la donna con forza tra le braccia, baciandole il collo, a fronte dell'aperto dissenso da lei manifestato. Condotte rapide ed insidiose, idonee ad offendere la libertà di autodeterminazione sessuale della R., poste in essere nella piena consapevolezza di un rifiuto inequivocamente e reiteratamente palesato. 5. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Roma, 26.01.2006. Depositata in cancelleria il 09.06.2006. - Abbracciare la moglie separata chiedendo un rapporto sessuale non è violenza. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE Sentenza 13 gennaio 2006 - 12 maggio 2006, n. 16287 (Presidente: C. Vitalone; Relatore: P. Onorato) IN FATTO E IN DIRITTO Con sentenza del 2/12/2003 il GIP del Tribunale di Firenze, procedendo col rito abbreviato, dichiarava M. T. colpevole del reato di lesioni personali, di cui agli artt. 582, 585 e 577, ultimo comma, c.p., in danno della moglie separata M. N. (capo b) e del reato di violenza sessuale, ipotesi lieve, di cui all'art. 609 bis, commi I e ultimo, c.p. (capo c), condannandolo, col beneficio della sospensione condizionale, alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione per il secondo, con le pene accessorie di legge. 87 Su appello dell'imputato, la corte distrettuale di Firenze, con sentenza del 14/1/2005, assolveva il T. dal reato sub C. Osserva che dall'episodio in questione, avvenuto a preparare il pranzo alla figlia che doveva rientrare dalla scuola (secondo gli accordi di separazione coniugale), il marito si era avvicinato di slancio alla moglie, l'aveva abbracciata toccandole il sedere e pronunciando alcune parole di affetto, desiderio, frustrazione, forse con l'intento di ripristinare l'intimità perduta. Rivendicò con parole non equivoche un rapporto che la moglie efficacemente gli proibì. L'approccio divenne così lite; le parole, insulti. In sostanza, secondo la Corte, il T. non usò violenza a carattere sessuale, non palpeggiò la moglie, non le toccò le parti intime. Avverso la sentenza d'appello, limitatamente alla decisione assolutoria, ha proposto ricorso il Procuratore Generale. Deduce contraddittorietà e manifesta illogicità di motivazione, errata interpretazione della norma incriminatrice e travisamento del fatto. Sostiene che i toccamenti e palpeggiamenti nelle parti intime (indicati dalla vittima) erano oggettivamente suscettibili di eccitare la concupiscenza sessuale e anche soggettivamente connotati da sessualità, essendo accompagnati da frasi offensive che alludevano al rapporto carnale. Ad avviso del collegio, il ricorso è inammissibile perché richiede in sostanza una rivalutazione delle risultanze processuali che è preclusa al giudice di legittimità. Con motivazione scevra da vizi logici o giuridici, la Corte fiorentina ha accertato che quella mattina del 30/4/2001 il T. abbracciò la moglie (separata) con un semplice gesto affettivo, anche se contemporaneamente richiedendo un rapporto sessuale, che però la moglie decisamente rifiutò. A questo punto scoppiò la lite, durante la quale il marito percosse la moglie, procurandole lesioni personali. Ma, al di la della violenza fisica, l'imputato si astenne dal dare sfogo al suo desiderio sessuale, non compiendo atti sessuali di alcun tipo (palpeggiamenti o toccamenti), come dichiarò la stessa donna. È questa una violazione legittima delle risultanze probatorie, che questo giudice non può sostituire con la diversa valutazione fattane dal PM ricorrente, anche se per ipotesi altrettanto plausibile P.Q.M. la Corte di cassazione dichiara inammissibile il ricorso del procuratore generale. Roma, 13/1/2006. Depositata in Cancelleria il 12 maggio 2006. - Il tentato bacio sulla bocca può essere violenza sessuale. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE Sentenza n.549/2006 (Presidente: C. Vitalone; Relatore: A. Postiglione) SENTENZA FATTO E DIRITTO B. V., direttore della Banca di Credito Cooperativo di Preganzioli, è stato condannato, con i benefici di legge, alla pena di anni uno e due mesi di reclusione oltre ai danni a favore della parte civile, M. F., dipendente della predetta banca, in relazione ad un abuso ex art. 609 ter cod. pen., commesso sul luogo di lavoro il 14/2/2000. 88 La pena, già comminata dal Tribunale di Treviso con sentenza del 24/5/2002, veniva confermata dalla Corte di Appello di Venezia in data 20/5/2003. L'imputato ha proposto ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi di censura. Con il primo deduce la inutilizzabilità delle risposte della persona offesa durante l'esame del PM in quanto sarebbero state rese a seguito di domande suggestive, nonché carenza di adeguata motivazione sul punto. Con il secondo motivo si assume che non poteva qualificarsi il fatto con riferimento all'art. 609 bis cod. pen., posto che il mero sfioramento con le labbra del viso altrui per dare un bacio non potrebbe avere contenuto libidinoso. Con il terzo motivo si lamenta carenza di logica motivazione nella valutazione di quanto affermato dall'imputato in relazione all'episodio contestato. Con il quarto motivo sui assume che erroneamente non sarebbe stata disposta la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, per ascoltare alcune testimonianze addotte dalla difesa. Con il quinto motivo viene censurata la valutazione dei giudici di merito sul contenuto delle testimonianze assunte, nel senso della loro non coerenza. Il ricorso è infondata. In ordine alla prima censura osserva la Corte che i giudici di merito hanno correttamente escluso la violazione delle regole per l'esame testimoniale di cui all'art. 499 c.p.p. con riferimento alla deposizione della persona offesa. Tale deposizione è stata giustamente utilizzata, perché da un puntuale riscontro documentale degli atti operato dai giudici di appello e da questa Corte, emerge in modo chiaro che il pubblico ministero pose delle domande, in modo non suggestivo, ma piano ed oggettivo, senza interferire con la libertà e sincerità delle risposte, peraltro molto dettagliate e precise sull'episodio accaduto il 14/2/2000. Sul punto la sentenza impugnata motiva espressamente riproponendo, a titolo esemplificativo, la domanda principale: ci racconti l'episodio del 14 febbraio, e precisando che, tutto il resto della deposizione è scevra di condizionamenti e scorre sempre con tali passaggi, ricchi di particolari che costituiscono anzi una ulteriore prova di attendibilità e sincerità della M. Trattasi, all'evidenza, di una valutazione di merito correttamente motivata, che esclude la irregolarità processuale e la conseguente sanzione della inutilizzabilità, considerato altresì il potere di equilibrio esercitato dal Presidente, nella direzione dell'udienza. La difesa ha avuto la possibilità di saggiare l'attendibilità della teste con il controesame. Nel valutare l'attendibilità di una teste, occorre peraltro considerare l'intero contenuto di quanto dichiarato e non una singola domanda. Circa la seconda censura, questa Corte ribadisce che nella nozione di atti sessuali di cui all'art. 609 bis c.p. si devono includere non solo gli atti che involgono la sfera genitale, bensì solo gli atti che riguardano le zone erogene su persona non consenziente (Cass. Sez. 3, 12446, 1/12/2000, rv. 89 218351). Tra gi atti suscettibili di integrare il delitto possono essere ricompresi palpeggiamenti e sfregamenti delle parti intime, compresi anche gli atti insidiosi e rapidi (come palamenti al seno e tentativi di baci sulla bocca; Cass. Sez. 3, n. 4402, 10/4/2000, rv. 220938). Comunque sul punto i giudici di merito hanno dato sufficiente logica motivazione, sicché non vi è spazio per censure di legittimità. Analogamente deve dirsi per altri punti di censura, attinenti alla sufficienza o meno delle prove testimoniali acquisite rispetto alle ulteriori richieste, posto che la loro valutazione nel contenuto è rimessa all'apprezzamento dei giudici di merito. Risultano motivati tutti i profili sollevati nel ricorso, giacché sia il racconto a propria discolpa dell'imputato, sia la testimonianza dell'amica della persona offesa (S.), dei genitori, della psicologia e delle altre persone sentite (Q., S., B., B., B.,) risultano aver formato oggetto di corretto esame. Segue alla condanna, che va confermata, anche quella alla spese ed onorari della parte civile nel presunto giudizio, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento a favore della parte civile costituita della somma complessiva di Euro 1500, di cui Euro 1200 per onorari, oltre IVA e CA. Roma, 15/11/2005. Depositata in Cancelleria l'11 gennaio 2006. - La pacca sul sedere può essere violenza sessuale. Cass. 876/2005 LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO La Corte di Appello di Trieste, con sentenza emessa il 19/02/04, in riforma della sentenza del Tribunale di Tolmezzo, in data 2/03/01, appellata dal PG della Corte di Appello di Trieste nei confronti di P. I., imputato dei reati di cui agli artt. 609 bis c.p. (n. 1 della rubrica), 527 c.p. (n. 2 c.p.); 594 c.p. (n. 3 c.p.), in ordine ai quali era stato assolto nel giudizio di 1° grado, perché il fatto non sussiste, dichiarava il P. colpevole dei reati ascrittigli e, ritenuta l’ipotesi di cui al 2° comma dell’art. 609 bis c.p., lo condannava alla pena di anni uno e mesi due di reclusione; pena sospesa e non menzione. L’interessato proponeva ricorso per Cassazione denunciando violazione dell’art. 606, lett. b) ed e) c.p.p. In particolare il ricorrente esponeva: che la motivazione della decisione impugnata era carente, contraddittoria e si fondava su una errata valutazione delle risultanze processuali; che la condotta contestata all’imputato non concretizzava il reato di violenza sessuale, ex art. 609 bis c.p., bensì la 90 fattispecie contravvenzionale di molestia o disturbo alle persone, con conseguente estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione. Tanto dedotto, il ricorrente chiedeva l’annullamento della sentenza impugnata. Il PG della Cassazione, nella pubblica udienza del 3/12/04, ha chiesto il rigetto del ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Il ricorso è infondato. La Corte Territoriale, mediante un procedimento argomentativi privo di errori di diritto e vizi logici, ha motivato in odo esauriente in ordine a tutti i punti determinanti della decisione. In particolare, per quanto attiene al reato di cui all’art. 609 bis c.p. )capo 1 della rubrica), la Corte Territoriale ha ricostruito con precisione il contesto in cui si è svolta la vicenda in esame. Ha accertato la credibilità soggettiva ed oggettiva della persona offesa, P. M., le cui dichiarazioni sono state confermate dalla madre e dal fidanzato della stessa. Il racconto della donna si presenta coerente e plausibile nella sua attualità; inoltre non è inficiato da risultanze processuali di segno opposto, come congruamente motivato nella decisione impugnata. Tanto affermato, va subito aggiunto che le questioni dedotte sul punto in esame costituiscono, nella sostanza, censure in punto di fatto, poiché non attengono ad errori di diritto o vizi di motivazione, bensì alle valutazioni operate dai giudici di merito. Si chiede, in realtà, una rilettura delle risultanze probatorie onde pervenire ad una diversa valutazione delle risultanze processuali, più favorevole alla tesi difensiva del ricorrente. Trattasi di censure non consentite in sede di legittimità, perché in violazione della disciplina di cui all’art. 606 c.p.p. Parimenti è infondata la censura attinente alla qualificazione giuridica del fatto. La condotta del P., concretizzatasi nel reiterato palpeggiamento libidinoso del sedere di P. M., approfittando della menomata condizione della donna la quale, intenta a telefonare presso la cabina telefonica sita nella piazzetta del paese di Bordano, non era in grado di ostacolare un toccamento repentino ed imprevedibile, realizza certamente la fattispecie criminosa di cui all’art. 609 bis c.p. Al riguardo va ribadito che rientrano nella nozione rilevante ai fini della norma di cui all’art. 609 bis c.p., tutti gli atti sessuali indirizzati verso zone erogene, idonei a compromettere la libera determinazione del soggetto passivo in ordine alla sua sessualità, connotati dalla costrizione, abuso di inferiorità fisica e psichica. Ne rileva ai fini della consumazione del reato di violenza sessuale, il fatto che l’atto sessuale sia di breve durata e che non abbia determinato la soddisfazione erotica del soggetto attivo (vedi anche Cass. Sez. III Sent. n. 7722 del 4/7/2000, ud. 2/5/2000, rv. 217012). Non risultano essere state dedotte nel ricorso de quo ulteriori censure ne in ordine alla determinazione della pena, ne in ordine ai restanti reati di cui ai capi 2° e 3° della rubrica. Va respinto, pertanto, il ricorso proposto da P. I., con conseguente condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano in complessivi Euro 1700, come da dispositivo. P.Q.M. La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione alla parte civile costituita dalle spese e compensi del presente grado, che liquida in complessive Euro 1700,00 più IVA e CA, di cui 1500, 00 per onorari di difesa. Roma, 3/12/04. Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2005. NESSO CAUSALE E FATTORI INTERRUTTIVI TRACCIA: Il giovane Tizio riportava ustioni alla persona che, secondo il giudizio del personale sanitario operante sull’isola in cui il paziente risiedeva, richiedevano un ricovero in una struttura ospedaliera 91 della vicina città. Considerate le avverse condizioni del mare, interveniva un elicottero della Polizia di Stato, condotto da Caio, con a bordo Sempronio, quale specialista in volo. L’elicottero atterrava sul campo sportivo dell’isola e, durante le operazioni di imbarco del ferito, il motore rimaneva acceso in previsione di un decollo immediato. Sennonché, la barella che trasportava Tizio risultava troppo grande per il velivolo, inducendo gli operatori sanitari a far sdraiare il paziente su un lenzuolo sul fondo dell’abitacolo. In quel preciso istante, una forte raffica di vento faceva impennare la barella, che sfuggiva al controllo di Sempronio e urtava le pale dell’elicottero, che perdeva stabilità e si inclinava verso il suolo, facendo volare in aria elementi meccanici. Caio, allora, decideva di non tentare il decollo, anche in considerazione delle molte persone presenti vicino al velivolo, senza però mettere in atto neppure l’altra manovra suggerita dal manuale di volo, ossia lo spegnimento del motore. In tale fase concitata, Tizio era riuscito ad allontanarsi, mentre Sempronio e Mevia (un’infermiera) venivano colpiti mortalmente dagli elementi meccanici volati in aria, a seguito del ribaltamento e della perdita di stabilità. Caio si recava da un legale di fiducia. Il candidato rediga motivato parere in merito alla questione giuridica posta. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Il parere andava affrontato focalizzando l’attenzione sul nesso causale, applicando anche le tesi recenti in tema di causalità in concreto (la tesi sulla causalità scientifica è stata in parte abbandonata dalla giurisprudenza). Si può dire, nella complessa vicenda, che Caio ha cagionato la morte di Sempronio e Mevia, ovvero sussistono dei fattori interrottivi del nesso di causalità? L’accertamento processuale dell’esistenza del nesso causale deve avvenire alla luce di canoni di certezza processuale che conducono, all’esito di un ragionamento di tipo induttivo, ad un giudizio di responsabilità, caratterizzato da elevato grado di credibilità razionale. Le leggi scientifiche universali e quelle statistiche che esprimono un coefficiente probabilistico prossimo al 100% (completato da coefficienti medio bassi di probabilità frequentista), devono essere corroborate da positivo riscontro probatorio circa la sicura non incidenza nel caso di specie di altri fattori interagenti: non è consentito dedurre automaticamente e proporzionalmente dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge scientifica la conferma dell’ipotesi sull’esistenza del rapporto di causalità. Nel caso di specie, allora, emerge che si è verificato un fattore interruttivo del nesso di causalità, ex art. 41 II comma c.p., derivante dalla raffica di vento improvvisa: è stata tale raffica che, interrompendo il nesso causale rispetto a Caio, ha cagionato la morte di Sempronio e Mevia. Non rileva il fatto che Caio non ha rispettato alla lettera il manuale di volo, in quanto, nel caso di specie, verosimilmente, anche laddove l’avesse rispettato la morte di Sempronio e Mevia si sarebbe verificata lo stesso; id est, rileva il nesso causale in concreto, e non il mero rispetto di dati formali, come il rispetto preciso e puntale del manuale di volo (secondo la giurisprudenza più recente). In questo senso, pertanto, Caio non sarà punibile (probabilmente, per non aver commesso il fatto). Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. 92 -La verifica dell'esistenza del nesso di causalità nel caso di condotta omissiva va operata in concreto, in termini di ragionevole certezza, secondo tutte le circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di "serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l'azione impeditiva dell'evento. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE PENALE Sentenza 19 aprile 2006 n. 20192 Svolgimento del processo 1. Con sentenza del 17 dicembre 2003 - 9 aprile 2004 la quarta sezione penale di questa Corte annullava con rinvio ad altra sezione la sentenza pronunciata dalla prima sezione della Corte di Appello di Caltanissetta del 12 dicembre 2002 che aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione nei confronti di R.G. in ordine al reato di omicidio colposo, così confermando la sentenza pronunciata in primo grado dal tribunale di Gela dell'1 marzo 2001, che, concedendo all'imputato le attenuanti generiche, aveva già dichiarato l'estinzione del reato (fatto commesso il [...]. Questa la vicenda che ha originato il processo penale. Il R., medico del servizio di pronto soccorso dell'ospedale di Gela, era imputato di avere cagionato la morte della paziente S.A. per negligenza ed imperizia professionali. La S., affetta da HBS-beta thalassemia e da "drepanocitosi allo stato eterozigote", il [...] veniva ricoverata nel nosocomio di Gela in condizioni di grave crisi da iperemolisi. Nonostante gli evidenti sintomi manifestati dalla paziente e malgrado il sanitario fosse stato messo sull'avviso dai familiari, l'imputato non aveva effettuato la diagnosi, aveva omesso di apprestare le opportune misure terapeutiche, si era rifiutato di chiamare il medico responsabile del reparto di medicina e aveva così privato la donna della necessaria assistenza, concorrendo a cagionarne la morte avvenuta per scompenso cardiocircolatorio in soggetto gravemente anemizzato per imponenti crisi emolitiche. I giudici della Corte di appello avevano confermato l'addebito di grave negligenza formulato a carico del dottor R. che, in base agli elementi a sua conoscenza sullo stato di salute della S., avrebbe dovuto immediatamente disporre l'effettuazione di un'analisi del liquido ematico onde orientate da subito il trattamento terapeutico che egli aveva invece limitato alla mera somministrazione di farmaci antidolorifici. Su ricorso dell'imputato, questa Corte osservava che il ragionamento dei giudici di merito doveva ritenersi viziato sotto il dato "fattuale e logico". Ferma l'accertata negligenza e imperizia professionale del R. e quindi la sua colpa professionale, non risultava provata nel processo l'incidenza causale della condotta colposa sull'evento letale. Sotto tale profilo errata doveva ritenersi l'affermazione dei primi giudici che sulla base della relazione di consulenza tecnica avevano riconosciuto all'operato del sanitario la connotazione di condizione equivalente del verificarsi dell'evento, dando rilievo ai fini del rapporto causale anche e soltanto alle "serie ed apprezzabili possibilità di successo, tali che la vita della S. sarebbe stata, con una certa probabilità, salvata"; tale affermazione si poneva in assoluto contrasto con quanto statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la nota sentenza del 10 luglio 2002 n. 27, Franzese. Illogica doveva poi ritenersi - secondo la cit. pronuncia rescindente di questa Corte - l'affermazione che sarebbe stata necessario disporre perizia medico- legale sulla derivazione causale della morte della S. dalla condotta professionale del R. e nel contempo, in assenza di espletata prova sul rapporto causale, prosciogliere il predetto per prescrizione del reato con valutazione di colpevolezza necessariamente connessa alla concessione delle attenuanti generiche. La sentenza della Corte di appello di Caltanissetta veniva quindi annullata con rinvio ad altra 93 sezione per nuovo esame. 2. Con sentenza del 1.12.2004 - 8.2.2005 la Corte d'Appello di Caltanissetta ha rigettato l'appello confermando la pronuncia di primo grado. Osserva la Corte territoriale che i periti d'ufficio avevano definito "sconcertante" la condotta dei sanitari che di lei si occuparono negli ultimi giorni di vita. La gravità e le peculiari caratteristiche della S. erano note perchè avevano dato luogo a trasfusioni nella fase pre-parto (al settimo mese a seguito di una crisi emolitica si era dovuto fare ricorso ad una intensiva terapia trasfusionale). Ricoveratasi alle 2,00 del [...] nell'ospedale di Gela con evidenti sintomi di crisi emolitica in atto in paziente che, nella diagnosi di entrata, si assumeva affetta da thalassemia, la S. rimaneva priva di specifica terapia per circa nove ore. I periti hanno stigmatizzato il mancato "immediato" ricorso a terapia trasfusionale, specificando come detto immediato trattamento era la sola condizione per salvare la vita della paziente e hanno indicato indiscutibilmente in tale omissione una possibile concausa del decesso poichè quando la stessa giungeva alle 12, 30 del 31 maggio all'ospedale di Catania, ove il marito aveva voluto trasferirla per sfiducia nella struttura sanitaria di Gela che con la sua inerzia aveva prodotto il precipitare delle condizioni della paziente, la stessa era già gravemente anemizzata (16% di ematocrito) ed in condizioni cardiocircolatorie già compromesse. E' in questa inerzia e nell'omissione della sola terapia utilmente praticabile alla paziente per poterle salvare la vita che i consulenti hanno individuato indiscutibilmente una condizione colposa dell'evento che si innestava su una terapia forse non tutto efficace praticata nell'ospedale di Catania, che peraltro aveva ricevuto la paziente già in condizioni critiche in quanto la grave anemia aveva creato una precaria situazione cardiocircolatoria, il precipitare della quale produceva il decesso. L'apparente momentanea ripresa della donna dopo la trasfusione praticatale a Catania non era in contrasto con il giudizio dei periti, poichè lo scompenso cardiocircolatorio con occlusione dei vasi era indicato come effetto delle "imponenti crisi emolitiche" che la donna aveva dovuto subire a causa dei precedenti ritardi nella pratica delle dovute terapie. Osserva quindi la Corte d'appello che i giudici del Tribunale di Gela avevano accertato la responsabilità dell'imputato R. per il decesso della S. alla stregua del diritto vivente al tempo della loro pronuncia. In base a quella giurisprudenza - osservava ancora la Corte d'appello - l'accertamento di responsabilità del R. appariva del tutto giustificato anche senza il ricorso alla perizia, ricorso inevitabile invece in base allo standard probatorio richiesto dalla più recente giurisprudenza nell'accertamento del nesso di causalità, non essendo più sufficiente stabilire che la condotta colposa del sanitario sia stata probabile condizione del decesso del paziente, occorrendo invece una prova più specifica e stringente del nesso di causalità nel caso concreto e quindi la prova che detta condotta sia stata anche la causa sufficiente, con la dimostrazione che nel caso concreto, tenuto conto di tutte le specifiche variabili in gioco, quel singolo caso si sarebbe risolto con la salvezza del paziente se allo stesso fosse stata praticata la dovuta terapia in attuazione della corretta condotta professionale. Una tale prova non era affatto necessaria in base ai criteri vigenti al tempo della pronuncia dei giudici del tribunale di Gela sicchè costoro ben avevano potuto accertare la responsabilità del R. nonostante i consulenti tecnici avessero concluso la loro relazione rilevando come non vi fosse certezza che un tempestivo e adeguato intervento medico avrebbe salvato la vita della S.. Avevano quindi formulato un giudizio astratto e basato sul criterio dell'alto grado di possibilità di successo, criterio ovviamente che prescinde dal quello della certezza nel caso concreto, come rilevato dai consulenti. Per costoro la mancanza di adeguata e tempestiva terapia aveva consentito alla malattia di produrre il suo effetto letale. Era, infatti, venuta meno la sola terapia che avrebbe potuto salvare la paziente. Sulla base degli accertamenti eseguiti non era possibile per il tribunale affermare con certezza che la donna si sarebbe salvata, ma si poteva correttamente ritenere, alla luce delle affermazioni dei consulenti, che senza l'adeguata e tempestiva terapia la paziente era destinata con certezza a morire. Sulla base di tali premesse la Corte d'appello si è trovata a dover decidere sulla base di un materiale 94 istruttorio che poteva considerarsi insufficiente a pervenire ad affermazione di responsabilità alla stregua del più rigoroso criterio di accertamento del nesso di causalità individuale; si è posta quindi l'alternativa se, in presenza di una causa estintiva del reato, dovesse prosciogliersi l'imputato ai sensi dell'art. 530 c.p.p. , comma 2, ovvero se, non potendosi parlare di "evidenza" dell'innocenza dell'imputato, questi dovesse essere prosciolto ribadendosi la formula dell'estinzione del reato. Ha ritenuto la Corte d'appello che l'alternativa dovesse essere risolta nel secondo senso potendo ritenersi estremamente probabile (con elevato grado di credibilità razionale) che la morte della S. avesse trovato concausa determinante nell'inerzia dei medici di Gela nelle decisive ore che precedettero il suo trasferimento a Catania. 3. Avverso questa pronuncia il R. ha proposto ricorso per Cassazione con due motivi illustrati anche con una successiva memoria difensiva. Le parti offese, costituite parti civili, B.G. e B. M.S. hanno presentato due memorie difensive. L'imputato ricorrente ha presentato anche motivi nuovi. Motivi della decisione 1. Va premesso che la parte civile, ritualmente costituita in primo grado senza che a ciò abbia rinunciato nelle successive fasi del processo, può comunque stare in giudizio anche se non ha proposto impugnazione. L'art. 76 c.p.p. , comma 2, infatti prevede che la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, sancendo il c.d. principio di immanenza della costituzione di parte civile. La parte civile non può però giovarsi dell'eventuale impugnazione del P.M.. Infatti - come già affermato da questa Corte (Cass., sez. 2^, 9 maggio 2000, Caniglia) - qualora la parte civile, a fronte della sentenza di assoluzione dell'imputato in primo grado, non si sia avvalsa della facoltà di impugnazione prevista dall'art. 576 c.p.p. , il giudice d'appello, nell'affermare, su gravame del solo P.M., la penale responsabilità dello stesso imputato, non può statuire sulla domanda di risarcimento del danno derivante dal reato, non potendosi in contrario invocare il menzionato principio di immanenza della costituzione di parte civile. Quindi la parte civile, pur in presenza di una pronuncia di merito dichiarativa dell'estinzione del reato per prescrizione, dalla stessa non impugnata, può stare in giudizio anche nel giudizio di Cassazione; può prendere la parola e rassegnare delle conclusioni (in termini di rigetto del ricorso, ad es., ma non di richiesta di risarcimento del danno). 2. Il primo motivo del ricorso, con cui si denuncia la violazione del principio di diritto affermato dalla menzionata sentenza rescindente, è inammissibile. E' sufficiente rilevare che il ricorrente, invece di censurare la sentenza impugnata, si limita testualmente a trascrivere la deposizione del teste C., assunto dalla Corte d'appello all'udienza del 12 marzo 2002, prima della pronuncia rescindente. Quindi invoca un'inammissibile rinnovazione della valutazione del materiale probatorio. 3. Il secondo motivo è infondato. 3.1. La Corte d'appello ha ribadito il giudizio in ordine all'affermazione della colpa (ritenuta gravissima) dell'imputato, che pur conoscendo la patologia congenita di cui era affetta la S., non ha effettuato alcuna analisi del sangue nè ha predisposto quanto necessario per la terapia trasfusionale; ossia non ha preso quelle iniziative che sarebbero state adottate dopo circa quattro ore dal dott. C. il quale, appena preso servizio nel reparto, subentrò all'imputato. Ma in realtà il carattere colpevole e negligente della condotta dell'imputato è pacifico e già accertato nelle precedenti fasi del giudizio atteso che la sentenza rescindente di questa Corte ha riguardato unicamente la valutazione del nesso di causalità da farsi alla luce della più volte citata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte. Orbene quanto al nesso causale la Corte d'appello, con valutazione in fatto sufficientemente e non contraddittoriamente motivata, ha affermato come fosse "estremamente probabile (con elevato grado di credibilità razionale) che la morte della S. abbia trovato concausa determinante nell'inerzia dei medici di Gela nelle decisive ore che precedettero il suo trasferimento a Catania". 95 In punto di fatto questo elevato grado di probabilità è desunto dalla Corte d'appello: dalle stesse dichiarazioni dell'imputato in sede di interrogatorio al P.M., che si è mostrato consapevole della necessità di un'immediata trasfusione di sangue; dalle precedenti crisi da iperomolisi superate dalla donna (in occasione di una minaccia di aborto nonchè dello stesso parto); la crisi emolitica dei soggetti affetti da difetto emoglobinico allo stato di eterozigote è controllabile, secondo la letteratura medica, ben più della talassemia allo stato di monozigote; dalla mancanza di specifiche patologie ulteriori e aggiuntive. La Corte ha poi ritenuto che l'impossibilità per l'accusa di fornire la prova piena del nesso di causalità non impediva di affermare che, stante lo stato del processo, non emergeva l'evidenza dell'innocenza dell'imputato ai sensi dell'art. 129 c.p.p. , comma 2. 3.2. In diritto vanno richiamati i principi fissati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SS.UU. 10 luglio 2002, Franzese), secondo cui: a) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell'evento hic et nunc, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbeverificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; b) Non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, così che, all'esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica". Sulla base di questo arresto giurisprudenziale la verifica dell'esistenza del nesso di causalità nel caso di condotta omissiva va operata in concreto, in termini di ragionevole certezza, secondo tutte le circostanze che connotano il caso, e non già in termini di mera probabilità statistica pur rivelatrice di "serie ed apprezzabili probabilità di successo" per l'azione impeditiva dell'evento. Questa prova del nesso di causalità è però necessaria per pervenire ad un'affermazione di responsabilità dell'imputato. Quando invece si è verificata una causa estintiva del reato è sufficiente che, a quello stadio del processo, sussista una ragionevole probabilità del nesso causale per escludere l'applicabilità dell'art. 129 c.p.p. , comma 2. In questo caso la prova sarebbe si insufficiente ( art. 530 c.p.p. , comma 2) per pervenire ad un'affermazione di responsabilità mancando quella verifica in concreto richiesta dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite; ma neppure, all'opposto, sussiste la prova che l'imputato non ha commesso il fatto o che il fatto non sussiste. Nè è possibile procedere ad ulteriori accertamenti (quali una consulenza tecnica) per sciogliere il nodo della verifica in concreto dell'esistenza del nesso di causalità, stante l'estinzione del reato per prescrizione. Correttamente pertanto i giudici di merito hanno adottato una pronuncia (processuale) di non doversi procedere per essere estinto il reato per prescrizione e non già una pronuncia (nel merito) di assoluzione dell'imputato per non aver commesso il fatto. 4. In conclusione il ricorso va rigettato con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese in favore della parte civile nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione di spese ed onorari di parte civile che liquida in complessivi Euro 2.000,00 (duemila) oltre I.V.A. e C.P.A.. Così deciso in Roma, il 19 aprile 2006. Depositato in Cancelleria il 13 giugno 2006 96 -La sussistenza del nesso eziologico non può essere semplicisticamente rinvenuta nelle leggi statistiche, ma allo stesso tempo non può prescindersi dalle stesse: id est, la certezza processuale si rinviene anche attraverso l’accertamento probabilistico dell’esito favorevole dell’intervento medico inattuato, in quanto le leggi statistiche costituiscono condizione necessaria del giudizio ipotetico in tema di causalità omissiva, ma non sufficiente, poiché la percentuale di successo astrattamente idonea a configurare la responsabilità medica va verificata alla luce degli elementi in concreto desumibili dalla risultanze istruttorie (l'età, il sesso, le condizioni generali del paziente, altri fenomeni morbosi interagenti, la sensibilità individuale ad un determinato trattamento farmacologico e tutte le altre condizioni, che appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica). SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Sentenza 9 febbraio 2006/12 aprile 2006, n. 12894 (Presidente D. Nardi, Relatore F. Monastero) Fatto e diritto Il GIP presso il Tribunale di Lametia Terme con sentenza del 17 luglio 2002 assolveva, con la formula perché il fatto non sussiste, il dott. V. P., primario della divisione di ostetricia e ginecologia dell'Ospedale di Soveria Mannelli, e il dott. V. F., responsabile pro tempore del predetto reparto (in assenza del primo, per ferie, nei giorni 13,14,15 maggio 1999), dal reato di omicidio colposo in danno di G. I. M., gestante, ivi ricoverata con i sintomi di un parto prematuro, a far data dal 13 maggio 1999 e deceduta il 16 dello stesso mese, a causa della sindrome denominata "coagulopatia intravasale disseminata (CID)" (un difetto nella coagulazione del sangue dovuto alla mancanza di fibrinogeno), seguita da shock emorragico con danno ipossico generalizzato. Si era contestato agli imputati di aver cagionato per negligenza, imperizia ed imprudenza la morte di I. G., addebitandosi in particolare ad entrambi, nelle rispettive qualità, di avere omesso di effettuare sulla paziente gli esami clinici e strumentali (ecografia, monitoraggio dei valori dell'emocromo, tocografia uterina) necessari per accertare la presenza o l'insorgenza di un distacco intempestivo di placenta; di avere omesso di effettuare un emocromo la mattina del 16 maggio 1999, nonostante i sintomi di distacco della placenta presentati dalla paziente (dolori addominali e vomito); di avere omesso di disporre tempestivamente il trasferimento della paziente ad altro ospedale, dotato di centro trasfusionale, di rianimazione e di terapia intensiva neonatale, idoneo, pertanto, a fronteggiare una potenziale situazione di crisi in cui la G. si fosse venuta a trovare, pur in presenza di diversi fattori, conosciuti da entrambi i medici (il V. anche in qualità di medico curante) deponenti per il distacco della placenta. Il giudice di primo grado aveva assolto entrambi i medici dall' imputazione loro ascritta sulla base dei seguenti rilievi: 1) la sussistenza di una situazione dubbia in merito alle modalità di manifestazione della patologia, non essendo risultato certo che il distacco intempestivo della placenta (DIP) si fosse manifestato in maniera progressiva, evolvendosi da una forma lieve di primo grado ad una gravissima di terzo grado, e che, di conseguenza, tale distacco potesse essere tempestivamente diagnosticato e curato; 2) il distacco improvviso della placenta -ritenuta l'ipotesi più probabile- avrebbe escluso la configurabilità dell'omissione, essendo stato praticato in termini ragionevoli il taglio cesareo o comunque apparendo difficile ritenere, con ragionevole certezza, che una maggiore celerità dell'intervento avrebbe salvato la vita della donna; 3) in considerazione della gravissima situazione, il decesso sarebbe avvenuto anche in una struttura attrezzata, in conformità alle conclusioni del perito nominato dal giudice, prof. Barrii, il quale aveva sottolineato che non vi sarebbero state misure idonee a fronteggiare la gravissima situazione e che, in casi come quello in esame in cui il DIP aveva avuto come conseguenza la coagulopatia intravasale disseminata (CID), poteva essere addirittura 97 controproducente la terapia trasfusionale; 4) non vi erano elementi per ritenere che una condotta non omissiva degli imputati avrebbe determinato un decorso degli eventi sostanzialmente diverso. A seguito dell'appello interposto dal P.M. e dalle parti civili, la Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza in data 13 maggio 2004, riformava quella di primo grado, assolvendo il V. con la formula per non avere commesso il fatto, ma dichiarando il V. responsabile del reato ascrittogli e, concessegli le attenuanti generiche, lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, oltre al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separato giudizio. I giudici di appello ritenevano il dott. V. esente da colpa, con riferimento ad entrambe le posizioni di garanzia dallo stesso rivestite, sia nella qualità di primario (per tutto il periodo del ricovero, salvo l'ultimo giorno, in cui la situazione era già compromessa, il V. era in ferie) che in quella di medico curante (sulla base del principio dell'affidamento, al sanitario (il quale, interpellato telefonicamente sui sintomi presentati dalla donna nel corso della notte -sanguinamento e contrazioni uterine-aveva indicato come probabile un leggero distacco della placenta ed aveva indirizzato la paziente all' Ospedale di Soveria Mannelli) non poteva addebitarsi la responsabilità di non avere previsto i possibili sviluppi del caso. Secondo la Corte territoriale, invece, doveva ritenersi sussistente il nesso di causalità tra le omissioni colpevoli, contestate e ritenute dimostrate, tutte riconducibili al V., responsabile del reparto, in assenza del primario, e la morte della paziente, Nel pervenire al giudizio di responsabilità, La Corte osservava che: 1) le emergenze processuali dimostravano che il distacco della placenta, causa determinante della morte, era già presente al momento del ricovero in ospedale (tale conclusione era contenuta anche nella consulenza del prof. Ricci ( il quale, unitamente alla dott. Giardini aveva redatto la prima consulenza disposta dal P.M.), favorevole alla difesa; 2) anche se così non fosse stato, sarebbero stati comunque omessi tutti gli accertamenti necessari (in particolare quello ecografico e quello sulla contrattilità uterina che avrebbero consentito di valutare più a fondo le cause delle perdite ematiche) per impedire che il distacco della placenta, perfettamente prevedibile, avesse le conseguenze letali poi verificatesi, tenuto conto che trattavasi di paziente a rischio, oltre che per la sintomatologia, anche per la sua storia pregressa (dalla consulenza di un altro consulente del P.M., il prof. Bresadola, risultava che la gravidanza della G. era successiva a due aborti spontanei precoci, a due ricoveri in ospedale per difficoltà gestazionali, ad una terapia giornaliera di deltacortene e bassi dosi di aspirina, a fronte del ripetersi di emorragie modeste); 3) la mancanza di sofferenza fetale -argomento utilizzato dal primo giudice per escludere il distacco della placenta al momento del ricovero- non era significativa, alla luce della letteratura medica, per pervenire alle conclusioni della sentenza di primo grado; 4) anche il colorito normale e roseo del muscolo uterino -altro elemento di sostegno alla pronuncia assolutoria- costituiva argomento non significativo, sia perché la circostanza era stata riferita dai medici, che avevano eseguito il taglio cesareo (gli imputati) sia perché si poteva desumere dalla consulenza del prof. Bresadola che l'area interessata era situata nella parte posteriore dell'utero e comunque, all'interno della cavità uterina; 5) erano stati trascurati i segnali di malessere (vomito e forti dolori di pancia) che la donna presentava il giorno 16 maggio 1999, per il quale era già stata disposta la sua dimissione, così creando una situazione dì emergenza che non era stato possibile affrontare con i presidi disponibili, laddove altra struttura sanitaria, dotata di un centro trasfusionale e dì rianimazione, avrebbe invece potuto intervenire con successo; 6) le conclusioni del prof. Barni, secondo il quale il decesso sarebbe avvenuto anche in una struttura attrezzata, erano smentite da quelle rese dai consulenti Bresadola e Rizzo (quest'ultimo consulente nominato dalle parti civili) e dalla letteratura medica, secondo la quale la percentuale di mortalità materna in caso di DIP era da ritenere dell'ordine del 5% e la gravità della condizione morbosa doveva considerasi dipendente in gran misura non solo dall'entità del distacco placentare ma anche dalla durata dell'intervallo fra inizio dei sintomi e istituzione di adeguata terapia. Avverso la predetta decisione propone ricorso per cassazione Vescia F. articolando un unico complesso motivo con il quale deduce la violazione di legge e la carenza ed illogicità della motivazione quanto all'affermazione di responsabilità. 98 Il ricorrente, dopo aver premesso che la sentenza impugnata ha aderito acriticamente all'impostazione accusatoria del P.M., sostiene che i giudici di merito, disattendendo i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (10 luglio 2002, Franzese) avrebbero errato nell'individuare la sussistenza del nesso eziologico tra il suo comportamento ed il decesso della paziente, non tenendo conto della interferenza di decorsi causali alternativi e facendo riferimento ad ormai superati criteri di probabilità statistica. Sotto il primo profilo, si sostiene che i giudici dell'appello sarebbero partiti dall'apodittico presupposto che al momento del ricovero la G. fosse in condizione di probabile distacco della placenta; in ogni caso, anche ipotizzando la reale sussistenza di tale situazione, il trattamento sanitario adottato, come, si sostiene, risultava anche da talune delle consulenze tecniche acquisite in atti, sarebbe stato in linea con i protocolli medici; il distacco della placenta sarebbe invece stato improvviso, dopo tre giorni di quiete, come emergeva dalla consulenza del prof. Barni e, pertanto, nessuna rilevanza avrebbero potuto avere le omissioni contestate all'imputato (relative all' accertamento ecografico e quello sulla contrattilità uterina ed al trasferimento della paziente in un centro attrezzato), dovendo ragionevolmente ritenersi che l'evento morte si sarebbe comunque verificato. Sotto il secondo profilo, in violazione dei principi affermati dalle Sezioni unite, la sentenza impugnata, avrebbe tratto la conferma della ipotesi sull'esistenza del rapporto di causalità, dal coefficiente di probabilità statistica espresso dalla legge scientifica, laddove aveva contestato la tesi esposta dal prof. Barni, secondo il quale il decesso sarebbe avvenuto anche in una struttura attrezzata, facendo riferimento alla bassissima percentuale di mortalità materna in caso di distacco intempestivo di placenta e sottolineando che, in caso di intervento tempestivo con tutte le misure idonee a fronteggiare l'emorragìa, l'evento morte era da ritenere evitabile in una altissima percentuale di casi. Così ragionando i giudici avrebbero dedotto "automaticamente" dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, violando il dovere loro imposto di verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponìbile. In applicazione di tali principi, secondo il ricorrente, al giudizio di responsabilità si potrebbe pervenirsi solo quando, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e "processualmente certa" la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica". Nella fattispecie, si argomenta, i giudici dell'appello non avrebbero tenuto conto del complessivo quadro probatorio secondo il quale: non poteva escludersi l'ipotesi di un distacco improvviso della placenta (assunta dal perito d'ufficio come dato pressoché certo); doveva ritenersi l'idoneità della struttura sanitaria ad affrontare l'emergenza, alla luce dichiarazioni del perito nel corso del dibattimento, che aveva escluso comunque I' efficacia di qualsiasi intervento nella ipotesi di distacco improvviso della placenta con sindrome CID e l'inutilità della terapia trasfusionale; l'incertezza in ordine alla possibilità di una diagnosi più tempestiva in quanto i possibili esami sull'ematocrito e quelli ecografia non avrebbero consentito con sicurezza la diagnosi; l'idoneità in ogni caso del trattamento sanitario adottato che non sarebbe stato diverso anche se fosse stato più celermente diagnosticato il distacco intempestivo di placenta. Con memoria ritualmente depositata, la difesa dell'imputato ha articolato un motivo aggiunto, con il quale prospetta plurime violazioni alle norme processuali da parte dei giudici di appello, che possono sintetizzarsi nei seguenti termini. La sentenza impugnata, accogliendo acriticamente i motivi di impugnazione del P.M., non avrebbe dato atto del contraddittorio materiale probatorio, costituito dagli esiti delle diverse consulenze, provenienti anche dallo stesso pubblico ministero, in merito alle cause della morte della G., così dando luogo ad una motivazione incompleta, fondata su una valutazione frazionata degli atti di causa ed apodittica. Sotto tale ultimo profilo i giudici del merito non avrebbero evidenziato gli 99 elementi dai quali avevano desunto il momento iniziale del distacco della placenta (da essi individuato, contrariamente al giudice di primo grado, nel momento del ricovero della G.) nonché la prevedibilità del distacco della placenta, soprattutto tenuto conto delle conclusioni del prof. Bami, perito nominato dal giudice, che aveva sottolineato che tale sintomatologia nelle sue espressioni più gravi è solita manifestarsi in modo improvviso ed in apparente benessere, come anche la devastante complicazione di CID. Tale situazione di contrasto avrebbe legittimato, nella ipotesi in cui i giudici non avessero ritenuta adeguata l'applicazione dell'art. 530, comma 2, c.p.p., la predisposizione di un nuovo accertamento peritale che potesse consentire di fare chiarezza sulle conclusioni difformi, al fine di dirimere il ragionevole dubbio sulla ricostruzione del nesso causale, in conformità agli insegnamento della S.C. Il ricorso non può trovare accoglimento. I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla ritenuta erroneità dell'affermato giudizio di responsabilità. Pur dovendosene apprezzare la ricchezza espositiva non possono, però, trovare accoglimento, in quanto la sentenza impugnata appare caratterizzata da un convincente apparato argomentativo sulle questioni di interesse ai fini del giudizio di responsabilità e non presenta, peraltro, neppure errori di diritto, con precipuo riguardo ai principi applicabili in tema di colpa e di nesso di causalità. Deve innanzitutto sottolinearsi che con il presente gravame, attraverso la denunzia di asseriti vizi di violazione di legge e di motivazione, sono state riproposte questioni sostanzialmente di fatto già dibattute nelle precedenti fasi del giudizio, tutte tese a dimostrare che il quadro probatorio esaminato dai giudici di merito non avrebbe fornito sufficiente prova della responsabilità del ricorrente. In proposito, non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito. IIvizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espresso disposto normativo, risultare dal testo del provvedimento impugnato e l'illogicità deve essere manifesta, cioè percepibile immediatamente, ictu oculì ( v. Cass., Sezioni unite, 24 settembre 2003, Petrella). Tanto comporta, quanto al vizio di illogicità, per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l'iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e, per un altro verso, che questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un'altra interpretazione o di un altro iter, quand'anche in tesi ugualmente corretti sul piano logico; ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, munite di eguale crisma di logicità ( v. Cass., Sezioni unite, 27 settembre 1995, Mannino; da ultimo, Cass., Sezione IV, 14 dicembre 2004, parte civile Castelbonese ed altri, in proc.Marotta ed altri): dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica. E' principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una "plausibile opinabilità di apprezzamento". Ciò in quanto l'art. 606, comma 1, lettera e), del c.p.p non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass., Sezione V, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, in particolare non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento di riscontro probatorio (Cass., Sezione VI, 6 marzo 2003, Di Folco). Ciò premesso in termini generali, ritiene il Collegio che i vizi dedotti non sono riscontrabili nella 100 sentenza impugnata con la quale la Corte ha dimostrato di avere analizzato tutti gli aspetti essenziali della vicenda, pervenendo, all'esito di un approfondito vaglio di tutta la materia del giudizio, a conclusioni sorrette da argomentazioni logico giuridico. I giudici di appello hanno infatti adeguatamente e logicamente motivato il proprio convincimento sulla sussistenza di comportamenti omissivi posti in essere dal ricorrente, nella qualità di responsabile del reparto di ginecologia dell'ospedale di Soveria Mannelli, e sulla rilevanza causale degli stessi nel processo determinativo dell'evento. Nella specie la Corte di merito ha dedotto in modo logico e corretto, la responsabilità del ricorrente da specifici accertamenti fattuali e dalle relazioni dei consulenti tecnici del pubblico ministero, individuando vari profili di colpa, tutti riconducibili, in via generale, alla mancanza dì una assistenza adeguata a fronteggiare la situazione di una paziente, certamente a rischio per la sua storia pregressa e certamente da monitorare attentamente per i sintomi che presentava. Alla luce di tali premesse, a fine di accertare se possa ritenersi corretta la valutazione dei giudici di appello sull'esistenza degli elementi costitutivi del reato, appare opportuno riassumere la ricostruzione dei fatti così come effettuata dalla Corte di appello, integrata con il riferimento a quella eseguita dal giudice di primo grado, e ciò per verificare, nel rigoroso ambito di valutazione e di sindacato di cui supra si è detto, la congruenza delle conclusioni adottate sull'esistenza della colpa e del nesso di condizionamento tra la condotta colposa ed il verificarsi dell'evento. Come si è accennato in premessa, si desume dalla motivazione della sentenza gravata che G. I., al settimo mese di gravidanza, era stata ricoverata presso l'Ospedale dì Soveria Mannelli il 13.5.1999, con la diagnosi di minaccia di parto prematuro, dopo che a seguito di contrazioni uterine e perdite ematiche vaginali dal giorno precedente, il medico curante aveva paventato un distacco intempestivo della placenta. La paziente durante il ricovero non era stata sottoposta ad accertamenti ecografia per indisponibilità dell'ecografo né al monitoraggio delle contrazioni uterine attraverso l'effettuazione di tracciati cardiotocografici: indagini strumentali, entrambe, che avrebbero consentito di fornire importanti indicazioni diagnostiche in merito alle cause di quelle perdite ematiche e di accertare la presenza di un eventuale distacco, anche se lieve, della placenta. il giorno 16.5.1999, già fissato per le dimissione della G., insorgeva una sintomatologia acuta, caratterizzata da forti dolori di pancia e vomito e venivano constatate perdite ematiche dai genitali rosso vivo miste a coaguli; diagnosticato un distacco intempestivo di placenta, la G. era sottoposta a taglio cesareo d'urgenza, a seguito del quale il feto veniva estratto privo di vita. Essendo comparsa una emorragia imponente, veniva eseguito un intervento di isterectomia e, infine, la donna veniva ricoverata d'urgenza presso il reparto di rianimazione dell'Ospedale di Lametta Terme, dove, risultate inefficaci le manovre rianimatorie, se ne verificava il decesso per arresto cardio-circolatorio conseguente a coagulazione intravasale disseminata (CID) instauratasi per distacco intempestivo di placenta. Proprio muovendo da tali incontestati dati fattuali, i giudici dell'appello hanno, con adeguata e convincente motivazione, espresso il loro convincimento sìa sulla causa della morte della G., sia sui profili di colpa (omissiva) apprezzati a carico del sanitario che aveva in cura la donna (il ricorrente, dottor V.), sia sulla sussistenza del nesso causale tra detti profili di colpa e l'evento letale. Tale apprezzamento, va soggiunto, è stato compiuto attraverso l'analisi critica dei diversi (e contrastanti) apporti medico-legali e delle conclusioni di segno opposto raggiunte dal giudice di primo grado. Sotto il primo profilo, quello dell'accertamento della causa della morte, la Corte d'appello ha ritenuto di trarre dalle emergenze processuali, analizzate nei termini suddetti, il convincimento che causa della morte era da ritenersi il distacco della placenta, da cui era scaturita la coagulopatia intravasale disseminata (CID) seguita da shock emorragico con danno ipossico generalizzato. In tal modo la Corte di merito ha rispettato il principio ineludibile in forza del quale, nella ricostruzione del nesso eziologico, non si può assolutamente prescindere dall'individuazione dì tutti gli elementi concementi la "causa dell'evento" (ergo, la causa della morte del paziente): solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione 101 della malattia, è poi possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare (avvalendosi delle leggi statistiche o scientifiche e delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto) se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta (ma omessa), l'evento lesivo "al di là di ogni ragionevole dubbio" sarebbe stato evitato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (sul punto, v. Cass., Sezione IV, 25 maggio 2005, Lucarelli, i cui principi, diversamente da quanto prospettato nei motivi aggiunti, non sono affatto contraddetti dalla sentenza sub iudice). Il convincimento espresso dal giudice d' appello, siccome adeguatamente argomentato attraverso l'analisi dei diversi apporti del sapere tecnico-scientifico, non può essere qui posto in discussione, non interessando neppure approfondire se la patologia iniziale (il distacco della placenta) fosse o meno presente già al momento del ricovero, essendo ampiamente satisfattivo, ai fini dell'accertamento della colpa (v. infra), la rappresentazione, in parte motiva, di circostanze che dovevano indurre a ritenere tale evento (a prescindere da quando insorto) come prevedibile, sì da imporre un conseguente approccio diagnostico e terapeutico. Or bene, sotto il secondo profilo, quello della colpa del sanitario, il giudice di merito ha posto in evidenza i plurimi addebiti colposi omissivi riconducibili all'odierno ricorrente, il quale, nella qualità dì medico che aveva in cura la paziente, aveva comunque omessi tutti gli accertamenti necessari (in particolare quello ecografico e quello sulla contrattilità uterina che avrebbero consentito di valutare più a fondo le cause delle perdite ematiche che subiva la paziente) per impedire l'evento letale verificatosi a seguito di una patologia - quale il distacco della placenta- che, come accennato, poteva e doveva ritenersi prevedibile, tenuto conto che trattavasi di paziente a rischio, oltre per la sintomatologia, anche per la sua storia pregressa (si rappresenta in motivazione che la gravidanza della G. era successiva a due aborti spontanei precoci, a due ricoveri in ospedale per difficoltà gestazionali, ad una terapia giornaliera di deltacortene e bassi dosi di aspirina, a fronte del ripetersi di emorragie modeste). Prevedibilità del resto rafforzata, secondo quando convincentemente riportato in motivazione, dai segnali di malessere (vomito e forti dolori di pancia) che la paziente presentava il giorno per il quale era stata disposta la dimissione. Sotto il terzo profilo, quello del rapporto di causalità, risulta convincentemente argomentata la ritenuta sussistenza del nesso di condizionamento tra le carenze comportamentali del sanitario e l'evento morte, sviluppata attraverso il rilievo, supportato dalla scienza medica scientifica, che laddove vi fosse stato un intervento tempestivo di diagnosi e di cura, altissime sarebbero state le probabilità di fronteggiare con successo l'emorragia rivelatasi invece letale (99, 5%). In proposito, non può condividersi la censura della difesa che il ragionamento del giudice di merito avrebbe finito con il contrastare con i principi della sentenza Franzese, laddove questa avrebbe imposto il superamento delle regole della probabilità statistica nella ricostruzione del nesso di condizionamento tra la condotta omissiva del sanitario e l'evento letale verificatosi per il paziente. Al riguardo, come puntualizzato anche in dottrina, bisogna partire dalla considerazione che la risposta sulla sussistenza o meno del nesso eziologico non può essere, in effetti, esaustivamente e semplicisticamente trovata, sempre e comunque, nelle leggi statistiche. E" un assunto ormai non più dubitabile, dopo quanto ampiamente, ed esaustivamente, osservato proprio dalle Sezioni unite, con la sentenza Franzese. Però, non può neppure affermarsi che le leggi statistiche, in precedenza considerate decisive, debbano essere completamente trascurate. Le leggi statistiche, in vero, sono solo uno degli elementi che il giudice può e deve considerare, unitamente a tutte le altre emergenze del caso concreto. Con la conseguenza che il giudizio positivo sulla sussistenza del nesso eziologico non si baserà più solo sul calcolo aritmetico/statistico (quale che sia la percentuale rilevante), ma dovrà trovare il proprio supporto nell'apprezzamento di tutti gli specifici fattori che hanno caratterizzato la vicenda concreta. Il giudice, in buona sostanza, potrà (anzi, dovrà) partire dalle leggi scientifiche di copertura e in primo luogo da quelle statistiche, che, quando esistano, costituiscono il punto di partenza dell'indagine giudiziaria. Però, dovrà poi verificare se tali leggi siano adattabili al caso esaminato, 102 prendendo in esame tutte le caratteristiche specìfiche che potrebbero minarne -in un senso o nell'altro- il valore di credibilità, e dovrà verificare, altresì, se queste leggi siano compatibili con l'età, il sesso, le condizioni generali del paziente, con la presenza o l'assenza di altri fenomeni morbosi interagenti, con la sensibilità individuale ad un determinato trattamento farmacologico e con tutte le altre condizioni, presenti nella persona nei cui confronti è stato omesso il trattamento richiesto, che appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica. In una tale prospettiva, il dato statistico, lungi dall'essere considerato ex se privo di qualsivoglia rilevanza, ben potrà essere apprezzato dal giudice, nel caso concreto, ai fini della sua decisione, se riconosciuto come esistente e rilevante, unitamente a tutte le altre emergenze fattuali della specifica vicenda sub iudice, apprezzando in proposito, laddove concretamente esìstenti ed utilizzabili, oltre alle leggi statistiche, le "regole scientifiche" e quelle dettate dall"'esperienza". E' ovvio poi che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà verificare l'eventuale emergenza di "fattori alternativi" che possano porsi come causa dell'evento lesivo, tali da non consentire di poter pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale ("al di là di ogni ragionevole dubbio") sulla riconducibilità di tale evento alla condotta omissiva del sanitario. Ed è altresì ovvio che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà porsi anche il problema dell' "interruzione del nesso causale", per I' eventuale, possibile intervento nella fattispecie di una "causa eccezionale sopravvenuta" -rispetto alla condotta sub iudice del medico- idonea ad assurgere a sola causa dell'evento letale (articolo 41, comma 2, c.p.). Nel rispetto di tale approccio metodologico, il giudizio finale, laddove di responsabilità a carico del sanitario, non potrà che essere un giudizio supportato da un "alto o elevato grado di credibilità razionale" ovvero da quella "probabilità logica" pretesa dalle Sezioni unite Franzese; mentre l'insufficienza, la contraddittorietà e/o l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale e, quindi, il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico, rispetto ad altri fattori interagenti o eccezionalmente sopravvenuti nella produzione dell'evento lesivo, non potrà che importare una conclusione liberatoria. Or bene, il giudice di merito si è mosso nel pieno rispetto di questi principi essendo pervenuto al giudizio di responsabilità esprimendo il proprio convincimento non solo e non tanto sul dato statistico percentuale (delle probabilità di salvezza), ma inserendo tale dato nel giudizio complessivo che lo ha portato, in modo convincente e qui incensurabile, a fondare la responsabilità del sanitario per l'evento letale in modo "processualmente certo". In altri termini, la sentenza impugnata, richiamando il dato statistico relativo alla possibilità di sopravvivenza della paziente con distacco di placenta in caso di intervento tempestivo, dopo avere esaminato tutte le circostanze del caso concreto ed aver effettuato il giudizio controfattuale, si è posta in linea con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, come già evidenziato, il dato statistico deve ricevere conferma nell'apprezzamento di tutti gli elementi che hanno caratterizzato il caso concreto. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di quelle di parte civile che liquida in complessive euro 2.500,00 ( duemilacinquecento), di cui 300,00 ( trecento) per spese, oltre IVA e CPA. Così deciso nella camera di consiglio del 9 febbraio 2006 Il Consigliere, estensore II Presidente Patrizia Piccialli Graziana Campanaio -La posizione di garanzia penalisticamente rilevante in capo all'equipe medica non riguarda solo l'intervento chirurgico, ma si estende anche alle fasi post-operatorie. 103 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COCO Giovanni Silvio – PresidenteDott. TUCCIO Giuseppe – ConsigliereDott. MARINI Lionello – ConsigliereDott. CHILIBERTI Alfonso - Consigliere Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA 30-03-2005 n. 12275 Svolgimento del processo - Motivi della decisione Con separati atti Francesco A., Giacomo C. e Benedetto Z. hanno proposto a mezzo dei rispettivi difensori ricorso avverso la sentenza in data 13.12.2002 della Corte d'appello di Catania, che ha confermato la sentenza 10.7.2001 del Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Lentini, con la quale ciascuno è stato condannato con le attenuanti generiche alla pena di un anno di reclusione per il reato di cui agli artt. 40 cpv. e 589 c.p., commesso il 4.10.1995. Gli imputati, costituenti l'equipe chirurgica che effettuò l'intervento operatorio su Bordarmi Eugenio il 2.10.1995, sono statiritenuti responsabili del detto reato per aver omesso di effettuare su di un soggetto con fratture costali multiple e doppie l'intervento di stabilizzazione di dette fratture o di applicargli un tubo oro- tracheale allo scopo di ovviare all'insufficienza respiratoria, per averlo fatto rientrare al reparto dopo l'intervento anzichè sottoporlo a terapia intensiva, e per aver sottovalutato elementi significativi che rendevano prevedibile un'insufficienza respiratoria, quali l'incremento progressivo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, provocando così la morte del paziente per insufficienza respiratoria acuta. La corte di merito non dava rilievo ad una discrasia tra cartella clinica e cartellino anestesiologico, che non parlavano d'intervento di osteosintesi, e registro di sala operatoria, che ne attestava l'esecuzione, sul rilievo che era senz'altro da escludersi che vi fosse stata un'osteosintesi completa, relativa a tutte le 24 fratture costali, mache non poteva escludersi che l'intervento avesse interessato le costole prossime alla ferita chirurgica, sì che ben poteva esservi stata un'osteosintesi parziale. Rilevava invece come la ventilazione forzata cui si era fatto ricorso durante l'intervento operatorio era stata interrotta dopo l'esecuzione di questo e nulla era stato fatto per consentire la respirazione del paziente, e ravvisava la responsabilità di tutti detti medici, che avevano partecipato o assistito all'intervento e che erano o dovevano essere a conoscenza delle condizioni del ricoverato, e quindi avevano l'obbligo giuridico, sulla scorta dei D.P.R. 761/79 e 128/69 (che comporta che primari, aiuti ed assistenti assumono tutti e per intero, salve le eccezioni che non sono qui ravvisabili, la responsabilità del caso concreto) di impedire l'evento indicando, promovendo, imponendo odoperando direttamente i necessari presidi, accertamenti ed interventi. All'udienza del 17.3.2004 si celebrava il giudizio di Cassazione a carico dell'A. e del C., e veniva straciata per difetto di notifica la posizione dello Z., il giudizio nei cui confronti si è celebrato in data odierna. Osserva questa Corte che il reato è prescritto: il termine di prescrizione, infatti, per effetto delle attenuanti generiche e compresa l'interruzione, è di anni sette e mesi sei, per cui - pur tenendosi conto della sospensione per mesi 11 e gg. 25 - esso si è interamente consumato. Lamenta il ricorrente vizi che non sono idonei a far apparire evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non l'ha commesso, che il fatto non è preveduto dalla legge come reato, si che non è consentito un proscioglimento ai sensi dell'art. 129, co. 2^, c.p.p.La stessa esclusione del reato di falso ideologico, dimostrata dalla sentenza 7.2.2003 esibita, non dimostra che vi è stata un'osteosintesi completa, e prevalentemente i motivi si fondano su risultanze processuali che non 104 emergono dal testo della sentenza impugnata, nè si può dubitare del fatto che, se l'intervento operatorio in senso stretto può ritenersi concluso con l'uscita del paziente dalla camera operatoria, sul sanitario grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase post-operatoria; tale obbligo, rientrante tra quelli di garanzia, discende non solo da norme, scritte e non, ma anche dal contratto d'opera professionale, di tal che la violazione dell'obbligo comporta responsabilità civile e penale per un evento casualmente connesso ad un comportamento omissivo ex art. 40, co. 2 c.p. (cfr. Cass. 3492/02). L'impugnata sentenza va dunque annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione. Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2005. Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2005. ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA TRACCIA: Tizio è un giovane amante del calcio dilettantistico. Tizio, grande giocatore, riteneva di avere un futuro da calciatore professionista, così che si impegnava al massimo e con ardore in ogni partita; Tizio, in ogni partita, giocava solo per vincere. Un giorno, Tizio veniva invitato a partecipare ad una partita di calcetto, per fini di beneficenza. Ad un certo punto della partita, la squadra avversaria andava in vantaggio di punteggio e Tizio si adirava parecchio, soprattutto contro Caio. In un’azione, Tizio entrava in scivolata su Caio, causandogli la frattura della caviglia. Caio veniva ricoverato in ospedale e Tizio veniva espulso. Due giorni dopo, Tizio si recava da un legale. Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa era utile sintetizzare il fatto. Successivamente, era necessario affrontare (sinteticamente) il problema delle scriminanti non codificate (attività sportiva violenta, consenso, offendicula, ecc.). In particolare, sul punto, ci si è chiesto se possano configurarsi ulteriori scriminanti oltre quelle tipizzate dal legislatore penale (artt. 50, 51, 52, 53, 54 c.p.). Secondo parte minoritaria della dottrina, non potrebbero sussistere scriminanti non codificate, in considerazione del divieto di analogia. Secondo altra ricostruzione, invece, sarebbero ammissibili scriminanti non codificate, estendendo le norme scriminanti tipizzate analogicamente in bonam partem; in questo senso, si dice, ad esempio, sarebbero giustificabili azioni sportive violente (nei limiti del rischio consentito in rapporto alla natura dell’attività sportiva). Secondo altra ricostruzione, il problema andrebbe risolto “semplicemente” alla luce delle scriminanti tipizzate, che già per la loro generalità possono essere applicate nella maggior parte dei casi (legittima difesa aniticipata, consenso presunto, stato di necessità anticipata). In questo senso, allora, nel caso di specie ben potrebbe emergere la scriminante non codificata 105 dell’attività sportiva violenta (che rientra, secondo una certa tesi, nell’esercizio del diritto o nel consenso dell’avente diritto), con la conseguenza che Tizio potrebbe non risultare responsabile delle lesioni (dolose o colpose) causate a Caio. Nel caso di specie, comunque, si trattava di prendere in esame un’attività sportiva (come il calcio) eventualmente violenta ( e non necessariamente violenta come la boxe), analizzando i limiti del rischio consentito in una partita di calcetto per scopi di beneficenza. Sono stati superati i limiti del rischio consentito? Al quesito si poteva dare risposta affermativa, evidenziando che una frattura alla caviglia in una partita di calcetto non è un fatto intrinseco all’attività sportiva (come può essere un livido, o una “storta”), tanto più che non era di livello agonistico. Al più, anche in un’eventuale ottica difensiva, si poteva sostenere la presenza di un eccesso colposo, con la conseguente applicabilità dell’art. 590 c.p., in considerazione del fatto che la lesione cagionata da Tizio a Caio è stata realizzata non tanto al fine di danneggiare Caio, quanto piuttosto per vincere la partita (Tizio giocava in ogni partita solo per vincere). Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -La condotta del giocatore non professionista deve essere correlata al tipo di competizione in atto, tanto da essere richiesta una particolare cautela e prudenza per evitare il pregiudizio fisico all’avversario, e quindi un maggior controllo dell’ardore agonistico, non equiparabile a quello che caratterizza le competizioni sportive tra professionisti, le cui azioni impetuose, invece, sono scriminate nei limiti del rischio consentito. CASS. PEN.- SEZ. IV- 6 ottobre 2006, n. 33577 MOTIVI DELLA DECISIONECon sentenza emessa il 24 maggio 2002 il Tribunale di Trapani dichiarava G. Giovanni responsabile del delitto di lesioni colpose gravi commesso il 25 agosto 1999 in danno di V. Giuseppe colpendolo al ginocchio destro, durante una partita amichevole di calcio a cinque, con una "entrata in scivolata" di estrema irruenza e violenza, senza regolare e coordinare il proprio sconnesso intervento in considerazione della dinamica dell'azione di gioco e della posizione assunta dal pallone, sì da aver cagionato al predetto V., rovinato a terra sul ginocchio sinistro, la rottura bilaterale dei tendini rotulei di entrambe le ginocchia.Avverso detta sentenza proponeva appello l'imputato deducendo la erroneità dell'ordinanza non ammissiva dell'esame del consulente tecnico dott. M. e di ulteriore ordinanza recettiva della richiesta, formulata con riferimento all'art. 507 c.p.p., di esame testimoniale di spettatori della partita, e lamentando la mancata assoluzione per insussistenza del fatto.Con sentenza emessa in data 9 maggio 2003 la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza impugnata, determinava la pena in euro 200 di multa, confermando nel resto la sentenza impugnata.La Corte territoriale affermava la insussistenza degli estremi per procedere alla rinnovazione parziale del dibattimento per raccogliere la prova denegata dal primo giudice, e ciò in quanto la ricostruzione del fatto - e segnatamente della dinamica dell'incidente - così come operata nella sentenza impugnata sulla base del plurimo e convergente dato testimoniale oltre che delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, era da ritenersi con evidenza del tutto corretta e condivisibile, essendo emerso che il G. aveva optato un intervento in scivolata molto violento e duro, appoggiando una mano a terra e quindi colpendo il V. con ambo le gambe, una delle quali, distesa a terra, aveva attinto il pallone e la caviglia della vittima, mentre l'altra, alzata, aveva raggiunto il ginocchio destro di quest'ultima, la quale, di conseguenza, era caduta poggiando sul ginocchio sinistro.Tali risultanze, secondo la Corte di merito, destituivano di fondamento la ricostruzione della vicenda operata dall'imputato il quale, dopo avere negato di essersi appoggiato con una mano a terra, aveva sostenuto di avere colpito soltanto il pallone, e che la caduta al suolo 106 del V. era dipesa dalle modalità scomposte e goffe del tentativo da lui operato di evitare l'ostacolo, saltandolo per finire inginocchiato a terra.Ciò posto, i secondi giudici affermavano che la «causa di giustificazione non codificata dell'esercizio di un'attività sportiva, ravvisata dalla giurisprudenza di legittimità, in tanto può, secondo detta giurisprudenza, configurarsi in quanto le lesioni derivate dall'esercizio di detta attività siano state procurate nel rispetto delle regole alle quali la singola pratica sportiva è informata, nel senso che (e tanto vale indubbiamente per il gioco del calcio, nel quale è possibile e frequente lo scontro fisico tra i giocatori, con esiti anche gravi) il comportamento lesivo può ritenersi corretto e scriminato soltanto ove posto in essere nel rispetto delle regole della disciplina specifica e del dovere di lealtà nei riguardi dell'avversario».Nel caso in esame, escluso il dolo, il comportamento tenuto dall'imputato era stato indubbiamente colposo, «per avere egli interpretato l'evento sportivo in corso come una competizione effettiva, quindi animato da un agonismo non conferente alla situazione concreta, per avere impostato la manovra di contrasto in scivolata del V. senza governare adeguatamente il proprio slancio, la propria forza fisica e soprattutto per averlo colpito sia alla caviglia, sia al ginocchio destro mentre tentava il salto, senza che questo specifico fallo avesse alcuna utilità rispetto all'intento di allontanare il pallone che si trovava a terra spinto dal piede della persona offesa».Donde la violazione delle regole calcistiche e delle norme di prudenza, stante la sproporzione e l'eccessività dell'intervento a fronte della caratteristiche dell'incontro di calcio, a cinque giocatori per parte (già per questo differenziantesi dal calcio tradizionale ad undici giocatori contrapposti per il minor contenuto agonistico), avente carattere amichevole in quanto organizzato estemporaneamente da un gruppo di amici e conoscenti, alcuni dei quali non avevano (a differenza dell'imputato, il quale aveva militato nella serie B di calcio a cinque) mai giocato a calcio, nonché a contenuto agonistico limitato, svoltosi sulla sabbia ed in assenza di un arbitro.Avverso la sentenza resa dalla Corte territoriale ha proposto ricorso l'imputato deducendo i seguenti motivi:1) la mancata assunzione di prova decisiva e mancata rinnovazione del dibattimento per udire il teste dott. M., manifesta illogicità della motivazione quanto alla decisività di detta prova;2) mancata assunzione di prova decisiva e mancata rinnovazione del dibattimento per l'audizione dei consulenti tecnici L. e V. e manifesta illogicità della motivazione sul punto;3) mancata assunzione di prova decisiva e mancata rinnovazione del dibattimento per l'audizione degli spettatori della partita;4) manifesta illogicità della motivazione in ordine all'affermazione di responsabilità, sull'assunto che la ricostruzione del fatto sarebbe inverosimile, come, se disposta consulenza, i consulenti avrebbero ritenuto; inoltre, la circostanza che il pallone fu spedito in fallo laterale dimostra, secondo il ricorrente, che unico obiettivo dell'imputato era stato quello di colpire il pallone medesimo.La Corte osserva quanto segue.I motivi sopra riassunti sub nn. 1), 2) e 3) - tutti concernenti gli asseriti vizi di cui alle lett. d) ed e) dell'art. 606 c.p.p., sono inammissibili per difetto di requisito di specificità prescritto dall'art. 581, lett. c), c.p.p. a pena di inammissibilità sancita dall'art. 591, comma 1, lett. c), dello stesso codice.Invero la motivazione della sentenza impugnata dà adeguatamente conto, in termini di acquisita certezza processuale, di un colpo violento sferrato dall'imputato al ginocchio destro di V. Giuseppe, nella fase di gioco in questione, ed a fronte dell'accertata rottura traumatica bilaterale dei tendini rotulei della persona offesa, caduta dall'altro ginocchio a seguito del colpo subito, e pertanto dà altresì conto, sia pure in parte implicitamente, della inesistenza della necessità di ulteriori indagini mediante parziale rinnovazione della istruzione dibattimentale in secondo grado onde accertare le concrete modalità della condotta incriminata ed il nesso causale tra la medesima ed il grave evento lesivo.A fronte di detta motivazione il ricorrente si limita ad affermare, del tutto genericamente, la esistenza di imprecisati "pregressi danni fisici" dai quali la persona offesa sarebbe stata affetta per mettere in dubbio, del tutto inattendibilmente alla luce della risultanze valorizzate dai giudici di merito, la sussistenza del nesso causale.Né lo stesso ricorrente chiarisce minimamente in che consiste la pretesa decisività delle prove delle quali lamenta la mancata assunzione da parte dei secondi giudici, e neppure evidenzia (al di là dell'uso di espressioni del tutto generiche in ordine all'essere la irrilevanza delle prove stata connessa "alla presunta astrattezza dell'intervento denegato" e ad un preteso miglior punto di osservazione degli spettatori rispetto a quello dei testi 107 presenti sul campo a breve distanza dal punto di verificazione del fatto) l'asserita illogicità manifesta della complessiva ricostruzione del fatto, motivatamente ritenuta dai secondi giudici tale, in quanto provata, da non giustificare il ricorso alla rinnovazione parziale del dibattimento in grado di appello ex art. 603 c.p.p.A tale riguardo questa Corte osserva che, per giurisprudenza di legittimità assolutamente costante dopo la pronuncia della sentenza delle Sezioni unite di questa Corte 2780/1996, Panigoni ed altri, l'istituto di cui all'art. 603 c.p.p. ha carattere eccezionale e presuppone l'impossibilità di decidere allo stato degli atti, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, non suscettibile di sindacato in sede di legittimità ove congruamente e logicamente motivato, il provvedere negativamente sulla relativa richiesta (Cass., Sez. VI, 7047/1996, Pg in proc. Riberto; Sez. I, 5267/1998, Fiore; Sez. V, 6379/1999, Bianchi ed altri; Sez. I, 9531/1999, Pg in proc. Merlino; Sez. V, 7659/1999, Jovino; Sez. VI, 9151/1999, Capitani; Sez. III, 13071/1999, Crivelli ed altri; Sez. II, 8106/2000, Accertatola; Sez. VI, 68/2002, Pg in proc. Raviolo; v. anche Cass., Sez. V, 8891/2000, Callegari, a tenore della quale «In tema di rinnovazione, in appello, della istruzione dibattimentale, il giudice pur investito - con i motivi di impugnazione - di specifica richiesta, è tenuto a motivare solo nel caso in cui a detta rinnovazione acceda; invero, in considerazione del principio di presunzione di completezza della istruttoria compiuta in primo grado, egli deve dare conto dell'uso che va a fare del suo potere discrezionale, conseguente alla convinzione maturata di non potere decidere allo stato degli atti. Non così, viceversa, nella ipotesi di rigetto, in quanto, in tal caso, la motivazione potrà anche essere implicita e desumibile della stessa struttura argomentativa della sentenza di appello, con la quale si evidenzia la sussistenza di elementi sufficienti alla affermazione o negazione di responsabilità»).In definitiva, il mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione parziale della istruzione dibattimentale in grado di appello in tanto sarebbe stato censurabile nella presente sede di legittimità, sotto il dedotto profilo del vizio di cui alla lett. e) dell'art. 606 c.p.p. in quanto il ricorrente avesse proposto argomentazioni specifiche tali da dimostrare (il che non si dà in relazione al ricorso in esame), indipendentemente dalla esistenza o meno di una specifica motivazione sul punto nella decisione impugnata, la esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della medesima, di lacune o illogicità manifeste, ricavabili dal testo del provvedimento medesimo (od anche, dopo la modifica dell'art. 606, lett. e), c.p.p. apportata dall'art. 8 l. 46/2006, da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame) e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state verosimilmente evitate qualora fosse stato provveduto, come richiesto, all'assunzione o alla riassunzione di prove determinate in grado di appello.E quanto all'ulteriore vizio dedotto in ricorso, di cui alla lett. d) dell'art. 606 c.p.p., si è già rilevata la assoluta genericità del suddetto motivo, dal momento che il ricorrente suggerisce una indagine ad explorandum senza indicare specifici e concreti elementi fattuali che, se provati, avrebbero sovvertito il giudizio, sicché la censura non va oltre il limite di una eventualmente possibile diversa prospettazione valutativa, neppure adeguatamente chiarita e comunque insufficiente a delineare il carattere di "decisività" delle prove richieste.Il quarto motivo, concernente l'affermazione di responsabilità, è infondato, essendo affidato alla inconsistente deduzione di una pretesa inverosimiglianza di un intervento tanto agile e controllato quale quello ascritto all'imputato che, in quanto "giocatore di sottocategoria" non sarebbe stato in grado di compierlo, ed all'assunto, irrilevante alla luce della motivazione della sentenza impugnata, che egli ebbe a colpire (anche) il pallone (circostanza, questa, idonea ad escludere il dolo del delitto di lesioni, ascritto peraltro a titolo colposo) senza che il ricorrente confuti le ragioni di diritto illustrate nella sentenza impugnata in riferimento alla sussistenza della colpa correlata alle modalità della condotta correlata al tipo di competizione amichevole in atto (vedansi, a sostegno della fondatezza di tale operata correlazione e delle conseguenze trattene dai secondi giudici, Cass., Sez IV, 2765/1999, Pg in proc. Bernava, e Cass., Sez. V, 9627/1992, Lolli, con riguardo, rispettivamente, ad una fattispecie di attività sportiva consistita in una esibizioneallenamento, e ad altra consistita in un incontro di calcio tra dilettanti, entrambe ritenute intrinsecamente tali da richiedere, da parte dei contendenti, particolare cautela e prudenza per evitare il pregiudizio fisico per l'avversario, e quindi un maggiore controllo dell'ardore 108 agonistico).Per le sin qui esposte ragioni il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.P.Q.M.Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. -Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica. Corte di cassazione Sezione V penale Sentenza 23 maggio 2005, n. 19473 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza del 27 settembre 1999, il tribunale di Venezia dichiarava F.D. colpevole del reato di lesioni volontarie aggravate, ai sensi dell'art. 582, 583, comma 2, n. 3, c.p. (per avere cagionato a D.A., colpendolo violentemente con una gomitata all'addome, nel corso di una partita di calcio, una lesione gravissima dalla quale derivava la perdita dell'uso dell'organo della milza) e - con la concessione delle attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata aggravante - lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da determinarsi in separata sede, con provvisionale liquidata in lire 20.515.600, oltre consequenziali statuizioni di legge. La vicenda processuale riguardava un episodio accaduto il 3 marzo 1995 durante un incontro di calcio del campionato "Eccellenza" tra le squadre Nuova Salzano e Jesolo 91. Sugli sviluppi di un calcio d'angolo, il D., portiere dello Jesolo, aveva respinto, in elevazione, il pallone e subito dopo, in fase di ricaduta, era stato colpito dal F., giocatore avversario, con una gomitata all'addome. Immediatamente soccorso, lo stesso D. era stato trasportato all'Ospedale di Mirano dove, otto giorni dopo, aveva subito la splenectomia e la saturazione di una perforazione intestinale. Pronunciando sul gravame proposto dal difensore dell'imputato, la Corte d'appello di Venezia riformava, in parte, l'appellata decisione, dichiarando non doversi procedere nei confronti del F. perché il reato ascrittogli era estinto per intervenuta prescrizione. Confermava le disposizioni relative all'azione civile, con ulteriori statuizioni di legge. Avverso l'anzidetta pronuncia lo stesso difensore e l'imputato personalmente propongono ora distinti ricorsi per cassazione, deducendo le ragioni di censura in parte motiva indicate. MOTIVI DELLA DECISIONE 1.- Il primo motivo di ricorso proposto dal difensore denuncia mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla dinamica della vicenda, ricostruita sulla base di deposizioni testimoniali contrastanti e senza dar conto, peraltro, dei molteplici rilievi mossi nell'atto di appello. 109 Il secondo motivo denuncia violazione dell'art. 606, lett. e), del codice di rito, nonché mancanza e, comunque, manifesta illogicità della motivazione in ordine a quella stessa dinamica, in palese contrasto con univoche risultanze testimoniali. Il terzo motivo denuncia identica violazione dell'art. 606, lett. e), del codice di rito con riferimento alla ritenuta volontarietà della duplice lesione della milza e dell'intestino, nonostante le precise affermazioni del dr. Dall'Olivo, il chirurgo che aveva operato la parte offesa. Il quarto motivo eccepisce la violazione dell'art. 606, lett. b) ed e), del codice di rito in relazione agli artt. 50 e 51 c.p. ed alle cause di giustificazione non codificate; nonché errata interpretazione ed applicazione della legge penale od illogicità della motivazione. Contesta, in particolare, la qualificazione giuridica del fatto come reato doloso, insistendo, altresì, per la richiesta di applicazione delle scriminanti di cui agli artt. 50 e 51 c.p. (consenso dell'avente diritto ed esercizio di un diritto) ovvero di quelle, atipiche e non codificate, dell'esercizio dell'attività sportiva e dell'azione socialmente adeguata, sulla base, peraltro, di autorevoli insegnamenti di questo Giudice di legittimità. Il quinto motivo denuncia violazione dell'art. 606, lett. b), c.p.p. in relazione agli artt. 582, 590 c.p.; errata interpretazione ed applicazione della legge penale sul gradato rilievo che, nel caso di specie, sarebbe stata, semmai, ravvisabile una fattispecie colposa, ai sensi dell'art. 590 c.p. Il primo motivo del ricorso proposto personalmente dall'imputato riproduce, in buona sostanza, le censure già espresse nel ricorso del difensore, sotto il profilo del difetto motivazionale, in ordine alla lettura delle risultanze testimoniali. Il secondo motivo eccepisce inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell'art. 606, lett. b), del codice di rito, sul riflesso, fondato anche su diversi richiami giurisprudenziali di legittimità e di merito, che, nel caso di specie, sarebbe operante la scriminante del consenso dell'avente diritto nell'ambito del rischio consentito che ogni giocatore conosce ed accetta e che l'ordinamento non punisce per l'interesse pubblico sotteso alla pratica sportiva. 2. - Le censure relative alla motivazione ed alla metodologia di lettura delle risultanze di causa, che sostanziano i motivi primo, secondo e terzo del ricorso proposto dal difensore ed il primo motivo del ricorso dell'imputato, valutate globalmente per identità di ratio, devono essere disattese in quanto si risolvono in censure di merito. Peraltro, la dinamica del sinistro, nelle sue particolari modalità, risulta delineata sulla base di un'argomentazione immune da incongruenze di sorta. Dal coacervo delle motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado, che, in quanto convergenti in punto di penale responsabilità, si integrano vicendevolmente, costituendo una sola entità giuridica, risulta infatti accertato che le gravi conseguenze fisiche patite dal D. sono riconducibili alla gomitata inferta dal F., nel corso di un'azione di gioco. Il dato sostanziale, emerso pacificamente dalle risultanze processuali, al di là delle segnalate divergenze su particolari ininfluenti e marginali, depone incontrovertibilmente per l'ascrivibilità del fatto allo stesso imputato e per l'accidentalità dell'evento nell'ambito di un'ordinaria fase di gioco, non essendo emerso da alcunché che il colpo sia stato inferto deliberatamente od in un diverso contesto, vale a dire "a gioco fermo", con lo specifico e diretto intendimento di aggredire la persona offesa. In questa sede di legittimità risultano, allora, insindacabili la ricostruzione della dinamica dell'incidente, la determinazione dell'evento lesivo e la sua riconducibilità all'azione violenta del F. L'esistenza di un idoneo apparato giustificativo a fondamento della versione dei fatti prescelta dal giudice del merito non lascia, dunque, spazio all'apprezzamento delle doglianze di parte, neanche 110 sotto il profilo scientifico relativo a natura ed eziologia delle lesioni riportate dalla persona offesa, a fronte delle dichiarazioni - giustamente valorizzate - del consulente di parte civile e del chirurgo che aveva operato il D. Le censure di parte vanno, poi, disattese nella misura in cui, sono intese alla contestazione del mancato rilievo dell'art. 129 c.p.p., a fronte della causa estintiva maturata per decorso del termine prescrizionale, ed alla richiesta di relativa applicazione in questa sede di legittimità. E' ius receptum, infatti, che l'art. 129 c.p.p. - come, del resto, è fatto palese dal significato letterale delle locuzioni usate dalla stessa norma - postula che, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice debba privilegiare la pronuncia di proscioglimento nel merito, con formula corrispondente, soltanto quando dagli atti di causa risulti evidente - e, dunque, con rilievo percettivo ictu oculi - che il fatto non sussiste o che l'imputato non lo ha commesso e che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (cfr. Cassazione, 48527 del 18 novembre 2003, rv. 228505, secondo cui la valutazione che, in proposito, deve essere compiuta dal giudice appartiene più al concetto di constatazione che a quello di apprezzamento; con la conseguenza che, qualora le risultanze processuali siano tali da condurre a diverse ed alternative interpretazioni, senza che risulti evidente la prova dell'estraneità dell'imputato al fatto criminoso, non può essere applicata la regola di giudizio ex art. 530, comma 2, c.p.p., la quale equipara la prova incompleta, contraddittoria od insufficiente alla mancanza di prova, ma deve essere dichiarata la causa estintiva della prescrizione). La Corte di merito ha correttamente applicato tale principio giurisprudenziale rilevando che non risultava evidente in atti alcuna situazione sostanziale che potesse giustificare il proscioglimento in merito del F., da privilegiare rispetto alla declaratoria della causa estintiva del reato per prescrizione. Risultano, invece, fondate, nei soli termini di seguito indicati, le doglianze di parte, espresse nei motivi quarto e quinto dei ricorso del difensore e nel motivo secondo dell'impugnazione dello stesso imputato, relativamente alla qualificazione giuridica dei fatto in questione. Profilo questo che, nell'economia del giudizio, mantiene la sua rilevanza anche in presenza di una causa estintiva, per la ricaduta che, agli effetti civili, assume la caratterizzazione giuridica ai fini della determinazione del quantum risarcitorio. Orbene, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito sportivo, nozione che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l'integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio consentito. Si tratta di un'area di non punibilità, la cui giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante. Il quesito interpretativo se l'esimente in questione debba essere ricondotta al paradigma del consenso dell'avente diritto, di cui all'art. 50 c.p., e dunque all'ambito concettuale di una tipica causa di giustificazione prevista dal sistema positivo, ovvero all'area delle cause di giustificazione c.d. non codificate è stato risolto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte nel secondo senso, in considerazione dell'interesse primario che l'ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport (cfr., tra le altre, Cassazione, Sez. IV, 12 novembre 1999, n. 2765, rv. 217643; id., Sez. V, 2 giugno 2000, n. 8910, rv. 216716). Tale interpretazione deve essere certamente ribadita, vuoi perché la riconducibilità ad una tipica causa di giustificazione comporterebbe non trascurabili problemi di coordinamento con il generale principio della non disponibilità di beni giuridici fondamentali, quali la salute od anche la vita, dotati, certamente, di valenza costituzionale, vuoi perché, in effetti, alla pratica sportiva l'ordinamento giuridico assegna un ruolo di assoluto rilievo. 111 La considerazione privilegiata attiene sia ad una duplice prospettiva, sia individuale, sul piano della tutela della persona, sia di carattere sociale: entrambe meritevoli di protezione. Sotto il primo profilo, rileva la funzione altamente educativa dello sport, soprattutto agonistico, sotto forma non solo di cultura fisica, ma di educazione del giovane praticante al rispetto delle norme ed all'acquisizione della regola di vita secondo cui il conseguimento di determinati obiettivi (quale può essere la vittoria di una gara o il miglioramento di record personale) è possibile solo attraverso l'applicazione, il sacrificio e l'allenamento e, soprattutto, deve essere il risultato di tali componenti, senza callide o pericolose scorciatoie. Ed in tale prospettiva, lo sport diventa anche formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare, con lo spirito giusto, la grande competizione della vita che li attende e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle regole e del prossimo. La valenza positiva dello sport la si coglie, in modo più vistoso, in chiave sociale, con riferimento alle discipline di squadra, in quanto al valore del benessere fisico, si accompagna quello della socializzazione, con evidente ricaduta nella sfera di previsione dell'art. 2 della Carta Costituzionale, alla luce del riferimento alle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità, tra le quali sono certamente da ricomprendere anche le associazioni sportive. Senza dire, poi, dell'ulteriore profilo di utilità sociale connesso al fatto che lo sport può aiutare le istituzioni a distogliere i giovani da pericolose forme di devianza. Funzionale al perseguimento di questi valori è il principio di lealtà e di rispetto dell'avversario, codificato mediante regole tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di specifiche sanzioni. Non a caso tutti i regolamenti delle federazioni sportive annoverano tra i principi fondamentali quello della lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di ciascun ordinamento. Orbene, proprio sulla base di tali principi è stata ritagliata la nozione di illecito sportivo, con riferimento all'inosservanza sia dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina (ad esempio, determinate tipologie comportamentali anche estranee alla competizione vera e propria; tesseramenti fraudolenti od iniziative volte ad alterare il regolare svolgimento di una gara ed altro ancora), sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate nell'agone sportivo e che compongono la parte tecnica del regolamento di ciascuna federazione. L'area del rischio consentito deve ritenersi coincidente con quella delineata dal rispetto di quest'ultime regole, che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport. Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l'uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata - in forme corrette - al perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell'avversario (quale può essere l'impossessamento di un pallone conteso o la realizzazione di un goal nel calcio, calcetto, hockey, pallanuoto, pallamano; di un canestro nel basket o di una meta nel rugby et similia; o ancora il superamento dell'avversario nel pugilato, nella lotta ed altro ancora). Posto che l'uso della forza fisica, nel senso anzidetto, può essere causa di pregiudizi per l'avversario che cerchi di opporre regolare azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva. Ma neppure in ipotesi di violazione di quelle norme, tale da configurare illecito sportivo, viene travalicata l'area del rischio consentito, ove la stessa violazione non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un'azione che, nella concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette. Tutte le volte in cui quella violazione sia, invece, voluta, e sia deliberatamente 112 piegata al conseguimento del risultato, con cieca indifferenza per l'altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell'area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l'occasione dell'azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (per ragioni estranee alla gara o per pregressi risentimenti personali o per ragioni di rivalsa, ritorsione o reazione a falli precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso). E' evidente che, ai fini dell'indagine in questione, risulta decisivo accertare se il fatto si sia o meno verificato nel corso di una tipica azione di gioco, in quanto in ipotesi alternativa ricorre sempre una fattispecie dolosa. Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un'ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all'avversario, ma al conseguimento - in forma illecita, e dunque antisportiva - di un determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di un'azione di gioco non sia stato altro che mero pretesto per arrecare, volontariamente, danni all'avversario. Orbene, applicando tali principi alla fattispecie in esame, è agevole rilevare che dall'esposizione della sentenza impugnata, integrata, per quanto di ragione, dalla motivazione di primo grado, non emerge alcun elemento - neppure dalle dichiarazioni della persona offesa - che potesse indurre a ritenere che il F. avesse profittato delle circostanze di tempo e luogo per colpire deliberatamente il D., sull'impulso di motivazioni estranee allo svolgimento della partita. E' risultato, inoltre, che il fatto lesivo ha avuto luogo nel corso di un'ordinaria azione di gioco, sugli sviluppi di un corner, nella tipica situazione che si verifica quando il pallone, dopo la battuta del calcio d'angolo, spiove in area avversaria e viene conteso dal portiere e dagli altri giocatori. Nello specifico, il D., in elevazione, era saltato più in alto degli avversari e, sia pure contrastato, era riuscito a respingere la sfera e poi, in fase di ricaduta, aveva subito l'azione fallosa del F. che lo aveva colpito con una gomitata. Quindi, certa la circostanza di gioco, certa l'azione fallosa per violazione di una specifica regola di gioco (tipico fallo sul portiere) ed altrettanto certo l'effetto lesivo, non risulta indicata prova alcuna che l'impatto sia stato volontariamente inteso ad arrecare pregiudizio all'integrità fisica dell'avversario, piuttosto che evento conseguente ad un'intempestiva azione di contrasto (il portiere aveva già colpito il pallone) caratterizzata da salto scomposto (con le braccia allargate ed i gomiti alzati) ovvero da volontaria violazione di regole di gioco (fallo da frustrazione) non accompagnata però da univoca volontà di ledere. In questa logica, la parte motiva della sentenza impugnata offre un elemento di particolare pregnanza che, riduttivamente, è stato valorizzato dal giudice di merito, al solo fine di ribadire il giudizio di riconducibilità del fatto lesivo al F. E cioè la circostanza che, al termine della partita, l'atleta si sia recato prontamente nello spogliatoio avversario per sincerarsi delle condizioni del D., ad eloquente riprova, ancorché postuma, non solo che era stato proprio lui l'autore del fallo, ma, soprattutto, che non v'era stato alcun pregresso risentimento od alcuna volontà di far male. 3. - Per tutto quanto precede, il fatto lesivo per cui è causa deve essere riqualificato, ai sensi dell'art. 590 c.p., come fatto colposo, con conseguente statuizione nei termini indicati in dispositivo. P.Q.M. 113 Annulla senza rinvio l'impugnata sentenza limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto che qualifica come reato di lesioni colpose. Rigetta nel resto il ricorso. -Il giocatore autore dell'evento lesivo, che sia stato però rispettoso delle regole del gioco, del dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e della integrità fisica di costui, commette un illecito sportivo ma non è perseguibile penalmente, poichè in siffatta ipotesi non può dirsi superata la soglia del "rischio consentito", in quanto è dato di comune esperienza che nel corso di una gara l'ansia di risultato, la stanchezza fisica e la carica agonistica, talvolta eccessiva, possono comportare delle violazioni non volontarie del regolamento di gara. Viceversa quando il fatto lesivo si verifica perché il giocatore violi volontariamente le regole del gioco disattendendo i doveri di lealtà verso l'avversario che, invece, dovrebbero costituire la caratteristica essenziale di ogni sportivo, allora il fatto non potrà rientrare nella causa di giustificazione, ma sarà penalmente perseguibile. Cassazione sez. V, sentenza 21.02.2000 n° 1951 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE V PENALE SENTENZA Sul ricorso proposto da Rolla Lorenzo, nato a La Spezia il 7 gennaio 1973 elettivamente domiciliato presso l'avvocato A. Corradino del foro di La Spezia Avverso la sentenza emessa il 22 settembre 1999 dalla Corte di Appello di Genova, che aveva confermato la sentenza del Pretore di La Spezia, che aveva condannato Rolla Lorenzo alla pena di mesi due di reclusione con i benefici della sospensione della pena e della non menzione della condanna, oltre al risarcimento dei danni patiti dalla parte civile Daniele Ricci ed al pagamento delle spese processuali per il reato di cui all'art. 582 c.p. (querela del 16 dicembre 1994); Visti gli atti, la sentenza denunciata ed il ricorso; Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere dott. Gennaro Marasca, che ha illustrato lo svolgimento del processo ed i motivi del ricorso Udito il Pubblico Ministero in persona del dott. Antonio Frasso che ha concluso per il rigetto del ricorso con condanna del ricorrente alle spese del procedimento; La Corte di Cassazione osserva A) Svolgimento del processo 1) Le due sentenze di merito 114 Nel corso della partita di pallacanestro tra le squadre del Lerici e del Sarzana il giocatore Daniele Ricci subiva un colpo, alla mandibola che gli procurava una frattura all'angolo mandibolare destro". Si rese necessario un intervento chirurgico che comportò una incapacità complessiva di attendere alle proprie occupazioni di trenta giorni. Si appurava che in una fase di gioco c.d. "fermo", perché si aspettava una rimessa laterale del pallone, il giocatore Rolla Lorenzo sferrò un pugno all'avversario. Con sentenza del 10 aprile 1997 il Pretore di Sarzana, ritenuto il fatto volontario, condannava Rolla Lorenzo per il delitto di lesioni di cui all'art. 582 c.p. alla pena di mesi due di reclusione, con i benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p., oltre al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile Daniele Ricci ed al pagamento delle spese processuali. La Corte di Appello di Genova, con sentenza del 22 settembre 1998, dopo avere escluso il caso fortuito ed avere ritenuto la sussistenza del dolo confermava la decisione di primo grado e condannava l'appellante a pagare le maggiori spese processuali ed a rifondere le spese sostenute dalla parte civile. 2) I motivi del ricorso Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione Rolla Lorenzo, che deduceva i seguenti motivi di impugnazione: 1) Violazione dell'art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p. in relazione all'art. 192 c.p.p. Il ricorrente lamentava che fosse stato dato credito ai testimoni dell'accusa piuttosto che a quelli della difesa, che le valutazioni operate dalla Corte di merito non fossero logiche e che vi era stato un vero e proprio travisamento del fatto. 2) Violazione dell'art. 606 comma 1 lett. b) c.p.p. in relazione agli artt. 592 e 43 c.p., trattandosi tutto al più di illecito sportivo. Il ricorrente chiedeva l'annullamento della sentenza impugnata. B) I motivi della decisione 3) La remissione della. Querela Perveniva a questa Corte un verbale di remissione della querela di Daniele Ricci e l'accettazione della remissione dell'imputato Rolla Lorenzo. Il reato ritenuto dai giudici di merito non è remissibile, poiché le lesioni subite dal Ricci sono guarite in trenta giorni. Per tali ipotesi è prevista la procedibilità di ufficio e, pertanto, la richiesta del ricorrente non è accoglibile 4) Il vizio di motivazione I motivi posti a sostegno dei ricorso proposto dal Rolla non sono fondati 115 Con il primo motivo il ricorrente si è lamentato che, nella ricostruzione dei fatti in occasione dei quali il Ricci subì lesioni, i giudici di merito abbiano prestato maggiore credito ai testimoni indicati dal PM rispetto a quelli proposti dalla difesa, senza una plausibile ragione. Ciò avrebbe comportato una illogicità della motivazione ed un travisamento del fatto con palese violazione dei criteri previsti dall'art. 192 c.p. per una corretta valutazione delle prove. In realtà il ricorrente con l'eccezione del vizio di motivazione ha prospettato una diversa ricostruzione dei fatti, a lui più favorevole, sollecitando la Corte di Cassazione ad una rivalutazione del fatto. Dimentica il ricorrente che la Corte di Cassazione non può rivalutare il materiale probatorio, poiché tale valutazione è demandata, in via esclusiva, ai giudici di merito. Esula, inoltre, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, ripetesi, riservata, in via esclusiva, al giudice di merito (SS-UU. 30 aprile 1997, Dessimone Cass. Pen. 1997, 3327). Non può, quindi integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (vedi anche Cass. 18 dicembre 1995, Perpiglia, CED Cass. n, 203468). Per espressa volontà del legislatore alla Corte di Cassazione spetta esclusivamente il compito di riscontrare l'esistenza di un logico e coerente apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata e la completezza della motivazione nel senso che i giudici di merito debbono tenere conto, ai fini della decisione degli argomenti della difesa ed, in particolare, nel giudizio di secondo grado, dei motivi di appello. Quanto, poi, al dedotto travisamento del fatto è sufficiente rilevare che il travisamento del fatto è un vizio che in tanto può essere oggetto di valutazione e di sindacato in sede di legittimità, in quanto risulti inquadrabile nelle ipotesi tassativamente previste dall'art. 606 lett. e) c.p.p.. L'accertamento di esso richiede, pertanto la dimostrazione, da parte del ricorrente, della avvenuta rappresentazione al giudice della precedente fase di impugnazione, degli elementi dai quali quest'ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicché la Corte di Cassazione possa, a sua volta, desumere, dal testo del provvedimento impugnato, se e come quegli elementi siano stati valutati (così SS.UU. 30 aprile 1997, Dessimone, citata). E' alla luce di tali principi che debbono essere valutati i motivi dei ricorso del Rolla. L'apparato argomentativo che sorregge le decisioni di merito della sentenza impugnata è, in verità, articolato e complesso. Il ragionamento dei giudici di merito appare logico, poiché essi, con molta precisione hanno esaminato tutte le testimonianze, ne hanno valutato la attendibilità, hanno affrontato e risolto le singole questioni poste dagli appellanti ed hanno fornito una ricostruzione dei fatti logica e plausibile Non compete alla Corte di legittimità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, e, tuttavia, è lecito rilevare che le argomentazioni, fondate, peraltro, su indirizzi giurisprudenziali consolidati, appaiono non solo 116 logiche e coerenti con i criteri fissati dal legislatore per una corretta valutazione delle prove, ma anche immuni da interne contraddizioni. Insomma la motivazione che sorregge la decisione impugnata regge senz'altro al vaglio di legittimità. Infine è necessario rilevare che la Corte di Appello di Genova ha tenuto conto dei motivi di appello ed ha vagliato tutte le istanze difensive, riesaminando le questioni sottoposte alla sua attenzione, cosicché non sussiste il dedotto vizio di travisamento del fatto. Non è certo il caso di ripercorrere tutta la motivazione della sentenza impugnata per una puntuale verifica della logicità delle argomentazioni poste a sostegno della decisione. Sarà sufficiente ricordare che la Corte di merito, dopo avere analizzato tutte le testimonianze, ha chiarito che le dichiarazioni della parte lesa - che aveva sostenuto di avere ricevuto un pugno alla mandibola destra dal Rolla durante una fase di gioco "ferma" in attesa di una rimessa laterale del pallone - erano assai precise ed avevano ricevuto piena conferma dalle deposizioni di Scaglione Massimo compagno di squadra del Ricci, e di Giannetti Andrea, allenatore del Sarzana testimonianze che per la precisione, la coerenza e la completezza erano da ritenersi pienamente attendibili Inoltre - ha spiegato la Corte di merito - tali testimonianze non sono stato smentite dalle dichiarazioni dei testimoni indicati dalla difesa, Baudoni Enzo, Roncallo Francesco e Bergamaschi Annalena, che, seppur imprecise ed incomplete, hanno confermato "l'impatto" tra i due giocatori, anche se non hanno saputo precisare né con quale parte del corpo - mano o pugno - il Rolla avesse colpito la parte lesa né dove fosse stato attinto il Ricci dal colpo infertogli dall'imputato. Infine la Corte di Genova ha rilevato che le deposizioni della parte lesa e dei testimoni ad essa più favorevoli avevano trovato un riscontro obiettivo nella natura e nella ubicazione delle lesioni subite dal Ricci - frattura dell'angolo mandibolare destro. Trattasi, come già si è notato, di una ricostruzione dei fatti fondata su argomenti logici ed esaurienti frutto di un buon governo dei criteri di valutazione delle prove. La motivazione della decisione impugnata non presenta contraddizioni desumibili dal testo stesso . La denunciata manifesta illogicità della motivazione è, pertanto, infondata. E' rimasto, quindi, provato - e ritenuto dai giudici di merito - che nel corso di una partita di pallacanestro e, precisamente, mentre si era in attesa di una rimessa laterale del pallone, i due giocatori - Rolla e Ricci - stavano tentando di posizionarsi nel modo migliore, per essere pronti a ricevere il lancio del pallone, ed anche di contrastarsi reciprocamente, per impedire che l'avversario fosse in condizioni di ricevere il pallone . E' in tale fase che il Rolla, che si trovava alle spalle del Ricci, colpì con un pugno la mandibola destra dell'avversario. Il gesto del Rolla costituì forse una reazione ad un gomito del Ricci appoggiato sul suo corpo, come ha riferito il teste Giannetti. 5) L'assenza di cause di giustificazione 117 Se tale è la ricostruzione della vicenda infondato è pure il secondo motivo di gravame E' noto che sia la dottrina che la giurisprudenza hanno da tempo individuato nella attività sportiva o meglio nell'esercizio della c.d. violenza sportiva una scriminante dei fatti lesivi che tale violenza possa cagionare. Il problema, assai rilevante nell'esercizio del pugilato, è peraltro presente in molti altri sport, singoli o di squadra, che richiedano una notevole carica agonistica, il compimento di movimenti rapidi, per i quali non è sempre possibile garantire il massimo controllo, ed un contrasto anche fisico tra i partecipanti al gioco. E' stata, quindi, costruita, un po' alla volta, la categoria dei c.d. "illeciti sportivi" nella quale rientrano tutti quei comportamenti, che, pur potendo talvolta costituire infrazione alle regole del gioco comportanti penalizzazioni per il giocatore e/o per la sua squadra, non sono penalmente perseguibili, perché non superano la c.d. soglia di "rischio consentito" nell'esercizio di quella specifica attività sportiva. Soltanto il superamento di tale soglia, che ovviamente varia a seconda dello sport e della maggiore o minore carica di "violenza sportiva" richiesta per il suo esercizio, renderebbe i comportamenti lesivi perseguibili penalmente a titolo di dolo o di colpa. Molto si è discusso in dottrina ed in giurisprudenza se una tale ipotesi scriminante dovesse essere inquadrata nel paradigma del consenso dell'avente diritto - art. 50 c.p., - o se, invece, si dovesse parlare di una causa di giustificazione non codificata. La soluzione del problema non è semplice, perché se è vero che una parte della giurisprudenza parla esplicitamente di consenso dell'avente diritto (vedi per es. Cass. Sez. V n. 9627 in data 8 ottobre 1992) non può non considerarsi che riesce davvero difficile riportare la causa di non punibilità di un evento lesivo verificatosi nel corso di una manifestazione sportiva nell'ambito di una causa di giustificazione tipica come quella di cui all'art. 50 c.p. senza forzare il limite normativo della tutela di un bene per principio indisponibile quale è appunto quello alla vita o all'integrità fisica. Secondo una parte della dottrina, più correttamente, l'indagine dell'interprete dovrebbe riguardare una fase precedente, poiché il limito della punibilità dei fatti in esame andrebbe ricercato negli elementi costitutivi della fattispecie e nell'incidenza dei caso fortuito. Si vuole dire cioè che per ogni competizione sportiva sono dettate prescrizioni tecniche che lasciano intendere come nel rispetto delle regole del gioco la legge presume il fortuito per l'eventuale verificarsi di una disgrazia. Il fortuito, come è noto, resta fuori dello schema delle cause di giustificazione perché incide sul rapporto di causalità. Pur essendo le due tesi indicate supportate da validi argomenti sembra, però, preferibile ritenere che quella in esame costituisca una causa di giustificazione atipica o meglio non codificata che trova la sua ragione di essere nel fatto che la competizione sportiva è non solo ammessa, ed anzi incoraggiata per gli effetti positivi che svolge sulle condizioni fisiche della popolazione, dalla legge e dallo Stato, ma è anzi ritenuta dalla coscienza sociale come una attività assai positiva per l'armonico sviluppo della intera comunità. 118 Ciò significa che viene a mancare nel comportamento dello sportivo, che, pur rispettoso delle regole del gioco, cagioni un evento lesivo ad un avversario, quella antigiuridicità che legittima la pretesa punitiva dello Stato e la inflizione di una sanzione. Insomma l'azione che cagiona l'evento non contrasta affatto con gli interessi della comunità, ma anzi, come si è già detto, contribuisce a raggiungerli. Questo è il fondamento della non punibilità dei comportamenti considerati, che è esattamente identico, a ben riflettere, a quello delle cause di giustificazione codificate - assenza della antigiuridicità per mancanza del danno sociale -. Ecco allora che in virtù di un procedimento di interpretazione analogica, resa possibile dal fatto che essa è in bonam partem [3], è possibile individuare delle cause di giustificazione non codificate, tra le quali di certo rientra, per tutto le ragioni già esposte' l'esercizio della attività sportiva. Non è sempre agevole individuare i comportamenti scriminati dalla causa di giustificazione considerata. Neppure è facile stabilire quale sia la soglia del c.d. "rischio consentito" per ciascuna disciplina sportiva. Trattasi in realtà di questioni prevalentemente di fatto la cui soluzione compete ai giudici di merito (così Cass. Sez. V 8 ottobre 1992 n. 9627 citata ). Possono tuttavia essere individuati dei criteri generali dei quali è necessario tenere conto. Non vi può essere alcun dubbio, infatti che molte competizioni sportive, e tra esse anche il gioco della pallacanestro richiedano oltre che abilità specifica anche prontezza di riflessi, vigore fisico, rapidi movimenti o capacità di contrastare l'avversario. Il gioco consiste, infatti, nell'acquisire e mantenere il possesso della palla impedire che gli avversari se ne impossessino, muovere rapidamente verso il canestro avversario e tentare, spesso in posizioni acrobatiche, di mandare la palla nel canestro. E' allora evidente che oltre alla abilità nel controllo della palla, di sicuro predominante nel gioco in questione, è necessaria una prestanza fisica, una carica agonistica rilevante, tenuto conto della notevole velocità del gioco, ed una notevole rapidità di esecuzione dei vari movimenti del corpo in situazione statica e di corsa. In tali condizioni specialmente se si considera che questo gioco viene praticato da persone di notevole statura fisica - sovente vicina ai due metri di altezza - e, quindi, di peso considerevole, non è possibile escludere anche il casuale scontro fisico tra giocatori avversari ed il prodursi di conseguenti eventi lesivi. Il giocatore autore dell'evento lesivo, che sia stato però rispettoso delle regole del gioco, del dovere di lealtà nei confronti dell'avversario e della integrità fisica di costui certamente non sarà perseguibile penalmente perché non può dirsi superata, in siffatta situazione, la soglia del "rischio consentito" (vedi Cass. Sez. V. Nasuti 12 maggio 1993). Talvolta, poi si possono verificare violazioni involontarie delle norme regolamentari del gioco dovute essenzialmente alla foga agonistica ed alla incapacità di interrompere tempestivamente la 119 propria azione o corsa al fine di non ostacolare l'avversario ad es. il c.d. fallo di ostruzione. In tali ipotesi si versa in ipotesi di "illecito sportivo" sanzionato dalle norme regolamentari ma non perseguibile penalmente, perché anche in tale ipotesi non può ritenersi superato il c.d. "rischio consentito", in quanto è dato di comune esperienza che nel corso di una gara l'ansia di risultato, la stanchezza fisica e la carica agonistica, talvolta eccessiva, possono comportare delle violazioni non volontarie del regolamento di gara. Quando però il fatto lesivo si verifichi perché il giocatore violi volontariamente le regole dei gioco disattendendo i doveri di lealtà verso l'avversario che, invece, dovrebbero costituire la caratteristica essenziale di ogni sportivo allora il fatto non potrà rientrare nella causa di giustificazione, ma sarà penalmente perseguibile. Se il fatto si verifichi nel corso di una azione di gioco al fine di impossessarsi della palla o di impedire che l'avversario ne assuma il controllo ed il mancato rispetto delle regole dei gioco sia, in realtà, dovuto all'ansia di risultato, certamente il fatto avrà natura colposa. Una responsabilità per dolo sarà, invece, ravvisabile o quando la gara sia soltanto l'occasione dell'azione volta a cagionare l'evento oppure quando il comportamento posto in essere dal giocatore autore del fatto lesivo non sia immediatamente rivolto all'azione di gioco, ma piuttosto ad intimorire, l'antagonista e a dissuaderlo dall'opporre un qualsiasi contrasto - casi deplorevoli che purtroppo non sono infrequenti, per esempio sui campi di calcio - oppure a "punirlo" per un fallo involontario subito c.d. fallo di reazione anche esso piuttosto frequente. In entrambi i casi indicati, come è evidente, la condotta dell'agente fuoriesce dagli schemi tipici dei gioco e la violazione delle regole non è diretta in via immediata al compimento di una azione di gioco, ma al perseguimento di altri fini dei tutto estranei alla competizione o, se connessi alla stessa, non perseguibili perché illeciti. Sulla scorta delle osservazioni che procedono e tenuto conto della ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, infondato appare il motivo di gravame proposto. Il Rolla, infatti, in attesa di una rimessa laterale del pallone - poco interessa qualificare questa fase del gioco come "ferma" oppure no - sferrò un pugno al giocatore avversario attingendo la mandibola destra. Il comportamento, certamente volontario, è stato posto in essere in violazione delle regole dei gioco, che non prevedono fatti di violenza di tal genere, e dei doveri di lealtà e non era diretto al compimento di una azione di gioco Azione di gioco è certo quella di posizionarsi in attesa della rimessa laterale del pallone e ciò è lecito fare anche spostandosi oppure muovendo il corpo, ivi comprese le braccia, ma non certo aggredendo il giocatore avversario. L'aggressione fisica nel gioco della pallacanestro non rientra in nessuno schema di azione, perché al contenuto regolamentare di tale gioco è estranea la violenza fisica. Poco interessano in questa sede le motivazioni che possono avere spinto il Rolla a porre in essere la sua condotta: forse hanno ragione i giudici di merito quando ritengono che il Rolla volesse intimidire, con un colpo ben assestato, l'antagonista o forse ha ragione il Giannetti quando riferisce che il Rolla potrebbe avere reagito al posizionamento di un gomito del Ricci sul proprio corpo. 120 E', invece, rilevante il fatto che la condotta posta in essere dal Rolla non aveva nulla a che fare con il gioco praticato 6) Il dolo Quanto al dolo, di cui il ricorrente eccepisce l'inesistenza nel caso di specie hanno ragione i giudici di merito quando rilevano che il dolo nel delitto di lesioni è generico, essendo sufficiente l'intenzione di infliggere all'altrui persona una violenza fisica, e può manifestarsi anche nella forma eventuale (vedi Cass. Sez. 14 luglio 1996 n. 6773, Poma). Il dolo del delitto in esame sussiste, infatti, per giurisprudenza consolidata (vedi ex plurimis Cass. Sez. I n. 3329 del 14 marzo 1988),tutte le volte che l'agente ha previsto che il suo comportamento avrebbe potuto determinare un'offesa all'integrità personale del soggetto passivo ed ha agito al fine o al costo di cagionarla. Le ragioni esposte impongono il rigetto del ricorso e la conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del procedimento Così deliberato in Camera di consiglio, in Roma, in data 2 dicembre 1999. Depositata in cancelleria il 21 febbraio 2000 SCRIMINANTE DI CUI ALL’ART. 384 C.P. TRACCIA: Tizio, nel 1998, veniva ascoltato quale persona informata sui fatti dagli ufficiali di P.G. del commissariato di Milano, che indagavano sul traffico di sostanze stupefacenti praticato dai fratelli Furbis; a tali ufficiali, Tizio aveva detto, contrariamente al vero, di non fare uso di droga e di non averne mai acquistata da alcun Furbis. Invero, Tizio era venuto a sapere che vari amici nella stessa situazione rischiavano di subire un processo penale per favoreggiamento. Tizio, allora, decide di recarsi da un legale. Il candidato, premessi brevi cenni sul reato di favoreggiamento, rediga motivato parere. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Anche in questo caso, si pone un problema di applicabilità della scriminante prevista dall’art. 384 c.p. Il problema dell’applicabilità o meno dell’art. 384 c.p. poteva essere risolto evidenziando l’elemento psicologico con cui Tizio ha agito: Tizio ha agito per avvantaggiare i Furbis, oppure al fine di evitare di trovarsi sospettato per un possibile concorso di persone nel reato? Dalla traccia sembra emergere che Tizio abbia agito per salvare se stesso e non per avvantaggiare i 121 Furbis, per cui dovrebbe essere applicata la scriminate prevista all’art. 384 c.p. e non la fattispecie del favoreggiamento. Il fatto, poi, che Tizio rischiasse un’incriminazione per una fattispecie amministrativa (e art. 75 del D.P.R. 309/1990) e non penale, non può ex se escludere l’applicabilità della suddetta scriminante, in quanto rileva la posizione soggettiva di Tizio in rapporto all’elemento psicologico e non in riferimento alla minaccia di una sanzione penale o meno; id est: l’art. 384 c.p., per essere applicabile, fa riferimento al fatto che il soggetto interessato agisce al fine di difendersi o difendere terzi ( e non al fine di aiutare), con la conseguenza logica-deduttiva che non rileva in alcun modo l’entità del “nocumento”, ma il fine per cui si agisce, che è idoneo ad escludere il dolo del favoreggiamento. ----------------------------------INDEBITO UTILIZZO DEL BANCOMAT TRACCIA: Tizio è un noto ladro di periferia. Un giorno, Tizio notava dentro un’auto Punto una carta bancomat, lasciata sul sedile. Tizio, allora, apriva lo sportello, forzandolo, e si impossessava della suddetta carta bancomat. Successivamente, si recava ad uno “sportello bancomat” per cercare di procedere alla richiesta elettronica (attraverso codice non conosciuto) di banconote. Tizio, tuttavia, mentre inseriva la carta bancomat nell’apposita fessura, veniva fermato dalla polizia. Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere favorevole al proprio assistito. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto. Successivamente, il problema poteva essere inquadrato nell’ambito della responsabilità penale per il reato di furto e di utilizzo indebito di carte bancomat, ex art. 12 della L. 197/1991. Astrattamente, infatti, ben potrebbe configurarsi il reato di furto, ex art. 624 c.p., in quanto Tizio si è impossessato della cosa mobile altrui (carta bancomat), forzando, tra l’altro, lo sportello della Punto, al fine di trarne profitto (usando la carta per prelevare contante); in aggiunta a tale reato, poi, potrebbe sussistere l’utilizzo indebito del bancomat, in quanto la carta sottratta veniva utilizzata indebitamente. In questo senso, potrebbe emergere un concorso di reati, perché sembrerebbero emergere condotte ben distinte tra loro: l’una volta ad impossessarsi del bene (furto), e l’altra volta ad utilizzare indebitamente il bene sottratto. Tuttavia, tale ricostruzione non è del tutto condivisibile, in quanto sembra punire due volte il soggetto per il medesimo fatto, in contrasto con il principio del ne bis in idem. In particolare, Tizio si è impossessato della carta bancomat al fine di trarne un profitto indiretto tramite utilizzo del bancomat, con la conseguenza che i due reati si trovano in un rapporto di mezzo a fine, facendo parte, altresì, del medesimo disegno criminoso. Inoltre, dalla lettera dell’art. 12 della legge 197/1991 appare evidente che viene punito l’indebito utilizzo, che per poter sussistere, inevitabilmente, deve basarsi su un impossessamento indebito; diversamente argomentando, non si tratterebbe di utilizzo indebito. Sotto tali profili, pertanto, sembra potersi dire che il principio della consunzione, nel caso di specie, segnala all’interprete che il reato della legge speciale assorbe quello di furto (anche per merito dell’art. 15 c.p.). Tizio, allora, risponderà del reato di utilizzo indebito di documenti che abilitano al prelievo di denaro contante, ex art. 12 della l. 197/1991? 122 Invero, in un’ottica difensiva, ben potrebbe ritenersi che il reato suddetto possa degradare, nel caso di specie, a tentativo, perché, a rigore, non vi è stato un vero e proprio utilizzo indebito, ma tentato (ex art. 56 c.p.) utilizzo indebito. Infatti, Tizio viene fermato dalla polizia mentre inseriva la tessera bancomat, per cui l’utilizzo indebito non si è completato, con la conseguenza che non vi poteva essere la certezza assoluta che l’indebito utilizzo potesse essere portato a termine, tanto più che, in concreto, il profitto non si è avuto (la giurisprudenza recente è contraria a questa ricostruzione, ma la traccia richiedeva uno sforzo argomentativo a favore di Tizio), ma è rimasto meramente potenziale (le carte bancomat, ex se, non hanno valore, se non nella misura in cui vengono utilizzate). Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -Il reato di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, di cui all'art. 12 della legge 5.7.1991, n. 197, è da considerarsi consumato, in base alla formulazione della norma incriminatrice, ogni qual volta l'utilizzo abbia avuto effettivamente luogo, indipendentemente dal conseguimento o meno del profitto che l'agente perseguiva. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Sezione V Penale Composta dagli Ill.mi Signori: dr. Carlo COGNETTI Presidente dr. Angelo DI POPOLO Consigliere dr. Gennaro MARASCA Consigliere dr. Emilio MALPICA Consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti il 28.12.1999 dall'avv. Mario Fedrizzi, difensore di G. A., nato a Trento il 3.1.1975, e dal Procuratore Generale della Repubblica di Trento, avverso la sentenza dell'1/15.12.1999 della Corte di Appello di Trento. Letti il ricorso e la sentenza impugnata. Sentita la relazione fatta dal consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO. 123 Udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto dr. Umberto Toscani, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso del P.G., con conseguente revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena concessa dal Pretore di Bolzano con sentenza del 18.1.1996, ed il rigetto del ricorso del G.. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza del 29.4.1998, il GUP del Tribunale di Trento dichiarava G. A. colpevole dei reati di cui agli artt. 624, 625 c.p. ed all'art. 12 della L.5.7.1991, n. 197 [1], e - ritenuta la continuazione tra gli stessi illeciti - lo condannava alla pena ritenuta di giustizia. L'imputato era stato accusato di avere forzato, in concorso con altri, la portiera dell'autovettura di V. D. per impossessarsi di un giaccone lì custodito, all'interno del quale si trovava un portafogli contenente tra l'altro la somma di L. 350.000, una carta di credito (CartaSi) ed una tessera Bancomat e di avere successivamente inserito quest'ultima tessera in uno sportello della Cassa Rurale di Povo in Trento, al fine di prelevare indebitamente del contante, senza però riuscire nell'intento a seguito dell'intervento della p.g.. Pronunciando sull'appello proposto nell'interesse dell'imputato, la Corte di Appello di Trento confermava l'impugnata pronuncia con conseguenziali statuizioni. Avverso tale decisione proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trento, lamentando la mancata revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena a suo tempo concesso all'imputato G. dal Pretore di Bolzano, con sentenza 18.1.1996, sul rilievo che il fatto-reato per cui si procedeva era stato commesso il 4.1.1997 e, dunque, entro il quinquennio decorrente dal passaggio in giudicato della precedente condanna. Proponeva ricorso per cassazione anche il difensore dell'imputato per censurare il mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art 62, n. 6 e la mancata applicazione alla fattispecie della norma di cui all'art. 56 c.p.. MOTIVI DELLA DECISIONE Assume rilievo pregiudiziale la ragione di censura riguardante la configurazione giuridica di una delle fattispecie dedotte in giudizio, e precisamente quella relativa all'indebito inserimento della carta di pagamento Bancomat nell'apposito sportello dell'istituto di credito emittente. In proposito, la Corte territoriale ha fatto richiamo al pacifico insegnamento giurisprudenziale di legittimità che, pur ritenendo astrattamente ammissibile il tentativo in riferimento al reato di cui all'art. 12 del d.l. 3.5.1991, n. 143, conv. in legge 5.7.1991, n. 197, ha nondimeno precisato che il reato di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento è da considerarsi consumato, in base alla formulazione della norma incriminatrice, ogni qual volta l'utilizzo abbia avuto effettivamente luogo, indipendentemente dal conseguimento o meno del profitto che l'agente perseguiva (cfr., da ultimo, Cass. Sez. l, 28.4.1998. n. 2409). Ed applicando tale principio al caso di specie, nel quale il conseguimento del profitto era stato impedito dall'intervento degli agenti di p.g., dopo che la carta Bancomat era stata introdotta nella macchina e mentre era ancora in corso di effettuazione l'operazione bancaria relativa, ha ritenuto che tale condotta fosse da qualificare in termini di reato consumato e non già di mero tentativo. Ad avviso di parte ricorrente, la corretta applicazione del dictum della Suprema Corte alla fattispecie concreta avrebbe, invece, dovuto portare a risultati diametralmente opposti, alla stregua 124 del rilievo che, in riferimento all'apposita tessera di pagamento in questione, l'indebito utilizzo coincide non già con il suo inserimento nella macchina elettronica distributrice di banconote, ma con il momento in cui, compiute tutte le operazioni necessarie, la stessa macchina abbia erogato il contante, facendolo scivolare nell'apposita cassettina raggiungibile dall'esterno, in modo che l'utente possa effettivamente apprenderlo, anche se poi tale apprensione non dovesse aver luogo a seguito dell'intervento di terzi o per altra ragione. Diversamente opinando, nell'ipotesi di specie il tentativo sarebbe di assai difficile configurazione. Il rilievo è da ritenere fondato. È dato di comune esperienza che, a differenza di altre carte di pagamento (quale la tessera viacard, utilizzabile presso i caselli autostradali per il pagamento del pedaggio), l'utilizzo del bancomat non si risolve nell'inserimento del tesserino magnetico nell'apposita fessura delle macchine all'uopo predisposte, ma richiede un'attiva partecipazione dell'utente, consistente nella digitazione del codice segreto nella tastiera numerica - indispensabile ai fini della sua legittimazione, attraverso l'automatica individuazione tra gli aventi titolo - e nella successiva effettuazione di tutta una serie di ulteriori operazioni, sempre mediante l'uso dei tasti, non appena l'apposito display visualizzi le relative informazioni. Solo in esito al corretto adempimento delle richieste attività, la macchina automatica può rilasciare le banconote nella quantità richiesta ed il momento in cui il contante compare nell'apposita fessura segna, in chiave giuridica, il trasferimento del bene dalla sfera patrimoniale dell'istituto di credito all'ambito di disponibilità dell'utente, con la materiale offerta allo stesso prenditore. Tant'è che, contestualmente all'erogazione delle banconote, la macchina provvede all'automatico addebito dell'operazione nel conto corrente dell'intestatario della carta di pagamento. Dunque, la cooperazione dell'utente costituisce il discrimine tra l'uso della carta bancomat e quello di analoghe carte di pagamento, il cui utilizzo si risolve nella mera consegna all'addetto esattore perché provveda lui stesso alle necessarie registrazioni ai fini dell'ammissione al servizio richiesto, senza che il portatore abbia a compiere alcun'altra attività. Non è certo casuale, d'altronde, che le affermazioni giurisprudenziali richiamate dalla Corte territoriale facciano riferimento a fattispecie riguardanti carte di questo tipo, come appunto la viacard, relativamente alle quali il momento consumativo - pur non potendosi escludere concettualmente il tentativo - coincide con la consegna all'esattore, restando assolutamente irrilevante il conseguimento o meno del profitto che l'agente perseguiva. Interpretazione che si spiega, agevolmente, anche in ragione della natura composita del bene giuridico tutelato dalla norma in questione che attiene non solo ad un ambito patrimoniale squisitamente privato (e, dunque, proprio del titolare della carta di credito e/o del soggetto emittente), ma anche ad una sfera di interessi pubblici, quali l'interesse d'impedire che il sistema finanziario venga utilizzato ai fini di riciclaggio e quello di salvaguardare, al tempo stesso, la fede pubblica (cfr., Cass. sez 5, 9.4.1999, n. 7192). Nell'ipotesi del bancomat, invece, la potenziale configurabilità del tentativo si dilata notevolmente proprio in quanto l'utilizzazione postula il compimento delle operazioni di cui si è detto, a parte poi il pur fondamentale rilievo che un problema di individuazione del fine e dell'idoneità dell'atto affidato all'apprezzamento di fatto del giudice di merito - si pone anche in ragione della notoria molteplicità di usi del bancomat, collegata al suo inserimento nelle stesse macchine erogatrici di danaro. L'utilizzo del tesserino magnetico, infatti, non sempre prelude al prelievo di banconote, ma può anche essere finalizzato ad operazioni diverse (indicazione del saldo, lista movimenti, ricariche telefoniche ed altro ancora). Alla luce delle considerazioni che precedono, non appare, dunque, revocabile in dubbio che l'intervento degli agenti di p.g. prima della materiale apprensione delle banconote ed anzi mentre 125 era in corso di effettuazione l'operazione bancaria relativa comporti il ridimensionamento della fattispecie nello stadio del tentativo, la cui ammissibilità, peraltro, in relazione alla norma di cui all'art. 12 del dl. N. 143/91, era stata già riconosciuta da questa Corte (cfr. Cass. sez. 5, 24.4.1996, n. 4295, con specifico riferimento alla condotta di chi introduca una carta bancomat di illecita provenienza in uno sportello automatico e, non disponendo del codice di accesso, esegua una serie di combinazioni numeriche al fine di conseguire il danaro, senza riuscirvi). 2. - È, invece, infondata la doglianza relativa al mancato riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 c.p.. In proposito, appare ineccepibile l'interpretazione della Corte territoriale che ha negato l'applicabilità della circostanza attenuante dell'integrale riparazione del danno in ragione della mancanza di spontaneità nella restituzione dei beni e di effettività della riparazione del danno, considerato, peraltro, che la refurtiva (o meglio, il giaccone di cui l'imputato si era in precedenza disfatto, gettandolo in un cassetto delle immondizie) era stata recuperata dopo la sorpresa in flagranza del G. nel tentativo di indebito utilizzo della tessera bancomat. 3. - Per quanto precede, l'impugnata sentenza deve essere annullata con rinvio al giudice competente per la determinazione della pena da infliggere al G. in relazione alla diversa qualificazione giuridica della fattispecie considerata. Alla stesso giudice di rinvio deve essere rimesso anche l'esame dell'istanza di revoca della sospensione condizionale della pena già concessa all'imputato, la cui mancata valutazione da parte della Corte territoriale, nonostante espressa richiesta nel verbale di udienza, ha costituito oggetto del ricorso per cassazione proposto dal Procuratore Generale. P. Q. M. La Corte, qualificato il reato di cui all'art. 12 della l. n. 197/91 come tentativo, annulla l'impugnata sentenza con rinvio alla Corte di Appello di Brescia per la rideterminazione della pena e per nuovo esame sulla richiesta di revoca della sospensione condizionale della pena. Rigetta nel resto il ricorso dell'imputato. Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del 31.1.2001. Depositata in Cancelleria l'8 giugno 2001. -In tema di tentativo punibile si segnala, per importanza, la recentissima sentenza della Cassazione. L'istituto del delitto tentato non prevede una distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi, in quanto la struttura del tentativo si fonda sul compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto. Ne deriva che non si richiede che l’azione esecutiva sia già iniziata e che anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco a commettere un delitto. 126 CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 2 febbraio 2007, n. 4359 - Pres. Bardovagni – est. Urban Svolgimento del processo Con sentenza del 23 febbraio 2006 la Ca di Milano, Sezione per i Minorenni, in parziale accoglimento dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano condannava M. per concorso nell’omicidio pluriaggravato ai danni di M. C. e T. Fabio; confermava l’assoluzione dello stesso M. e di M. Mario dai reati di tentato omicidio ai danni degli stessi M. C. e T. Fabio. Il presente processo è lo stralcio di un più ampio processo nei confronti delle cosiddette “Bestie di Satana”, un gruppo di numerosi adepti dediti a riti satanici che a partire dal 1996 operò nella zona del milanese: i fatti presi in esame con la sentenza impugnata riguardano i due minorenni che facevano parte del gruppo, M. Mario e M. Massimiliano. Le indagini presero avvio dalla morte di Mariangela P., in data 24 gennaio 2004, per la quale furono arrestati V. Andrea, B. Elisabetta e S. Nicola. L’episodio fu subito messo in relazione con la sparizione di T. Fabio e di M. C., risalente al 17 gennaio 1998, i quali avevano frequentato gli stessi personaggi coinvolti nell’uccisione della P.. Alcuni mesi dopo l’arresto il V. decideva di collaborare con gli inquirenti e forniva dettagliati elementi sulla uccisione della M. e del T. indicando i personaggi che avevano preso parte al delitto, tra i quali erano il M. e il M.; sulla scorta delle dichiarazioni rese dal V. erano stati rinvenuti i cadaveri dei due giovani. Il M. confessava di aver preso parte al delitto; anche un altro partecipante al rito satanico e quindi alla duplice uccisione, G. Pietro, confessava le proprie responsabilità e forniva nuovi elementi a carico del M. e del M.. Si ricostruivano in tal modo altri due episodi avvenuti poco tempo prima dell’uccisione: il primo, avvenuto nel dicembre 1997 era consistito nel tentativo di uccidere M. C. prima somministrandole una bevanda a base di barbiturici per stordirla ? quindi iniettandole una potente dose di eroina. L’impresa era stata interrotta per il casuale passaggio nella zona di una pattuglia dei Carabinieri. Il secondo episodio, avvenuto nella notte di Capodanno tra il 1997 e il 1998 prevedeva l’uccisione della M. e del T. facendo esplodere l’auto a bordo della quale i due erano stati indotti ad appartarsi, mediante P inserimento di un petardo acceso nel tubo di scappamento. La vicenda si era però conclusa con l’incendio dell’auto, senza alcuna esplosione e quindi i due giovani erano riusciti ad abbandonare l’auto incendiata. La Ca riteneva che tali ipotesi di reato non consentissero una dichiarazione di responsabilità, in quanto nel primo caso gli atti posti in essere dagli imputati si interruppero nella fase preparatoria (la somministrazione dei barbiturici) e gli stessi abbandonarono volontariamente il progetto. Nel secondo caso gli atti posti in essere per sopprimere i due ragazzi non furono idonei a provocarne la morte in quanto erano privi della potenzialità letale necessaria: in altre parole, secondo le valutazione di un perito di ufficio, era impossibile che attraverso la introduzione di un petardo acceso nel tubo di scappamento si potesse verificare una deflagrazione e in ogni caso 127 l’incendio che si sarebbe verificato sarebbe avvenuto all’esterno dell’auto e quindi non avrebbe compromesso la possibilità degli occupanti dell’auto di allontanarsi. Quanto alla responsabilità del M. in ordine al duplice omicidio, la sentenza impugnata, riformando la sentenza assolutoria del Gup, ritiene sia sussistente il concorso morale nell’omicidio, avendo egli contribuito a rafforzare il proposito criminoso degli altri compartecipi sia partecipando alle riunioni nel corso delle quali fu assunta la decisione di uccidere i due, sia perché egli fu tenuto al corrente dei preparativi che precedettero l’uccisione e in particolare dello scavo della fossa. La sera del delitto gli fu affidato l’incarico di coadiuvare l’azione del gruppo dando una mano a controllare il T. e la M. mentre si trovavano presso il locale Mid Night e quindi di fornire un’azione di copertura rimanendo nello stesso locale mentre gli altri componenti del gruppo si occupavano di eseguire materialmente gli omicidi. Successivamente si doveva occupare di sviare i sospetti, facendo in modo che il ?motorino della M. non fosse rinvenuto all’esterno dello stesso locale e quindi andando a passare il resto della notte a casa di uno dei compartecipi, L. Paolo; la mattina seguente si sarebbe poi attivato assieme agli altri per fingere di cercare il T. di cui era stata denunziata la “scomparsa” dal padre, sempre allo scopo di sviare ogni sospetto. Sulla base di tali elementi si era quindi riscontrata la prova della colpevolezza del M., avendo egli preso parte in veste non soltanto passiva, ma avendo fornito un rilevante contributo causale in tutte le fasi dell’impresa, in quella preparatoria, in quella esecutiva e in quella di depistaggio delle indagini. Propone ricorso per cassazione il Pg della Repubblica presso la Ca di Milano sul punto della assoluzione degli imputati in ordine ai due tentativi di omicidio contestati. Quanto all’episodio della somministrazione alla M. di barbiturici, alla quale avrebbe dovuto seguire la iniezione di una dose letale di eroina si rileva la violazione di legge e la illogicità della motivazione in quanto anche gli atti preparatori possono integrare il tentativo, quando siano idonei, diretti in modo non equivoco alla consumazione di un reato. Nella specie, il passaggio in zona di un’auto dei Carabinieri non avrebbe avuto alcun rilievo n’ella determinazione volitiva dei compartecipi; per altro verso la assunzione di una dose pari ad un grammo si eroina avrebbe una elevatissima probabilità di essere letale nei riguardi un soggetto non assuefatto. Nè si comprende per quale motivo sarebbe stata sminuita solo in questo frangente la attendibilità delle dichiarazioni rese dal V., ritenuto in ogni altra occasione pienamente affidabile. Quanto all’episodio dell’incendio dell’auto sulla quale si trovavano il T. e la M., il ricorrente rileva come nella specie fossero presenti tutti i presupposti necessari allo sviluppo di un grave incendio che avrebbe dovuto compromettere ogni possibilità per i due ragazzi di mettersi in salvo. Infatti il serbatoio della benzina era stato riempito solo a metà (condizione ritenuta indispensabile per l’innesco dell’incendio); nell’auto erano stati posti alcuni petardi; gli occupanti dell’auto sarebbero stati intossicati dai fumi tossici prodotti dall’incendio e dalla deflagrazione dei petardi; i due ragazzi si sarebbero trovati in uno stato di scarsa vigilanza, essendo essi intenti a consumare un atto sessuale. Tali elementi contribuirebbero a realizzare quella idoneità degli atti compiuti, con valutazione da effettuare in astratto ed ex ante, a provocare la morte dei due giovani. Propone ricorso il difensore di M. Massimiliano rilevando, con il primo, motivo, l’inappellabilità ai sensi dell’articolo 10 comma 2 legge 46/2006 da parte del Pm della sentenza di proscioglimento emessa dal G.U.P. del Tribunale per i Minorenni di Milano. 128 Con il secondo motivo si è rilevata l’assenza dei servizi minorili nell’udienza preliminare, ai fini di valutare la necessità di un eventuale aggiornamento delle relazioni sulla personalità del ragazzo (articoli 31 e 28 Dpr 448/88). Con il terzo motivo si rileva la violazione di legge in relazione alla mancata acquisizione in sede di incidente probatorio delle trascrizioni integrali degli interrogatori resi dagli imputati detenuti, essendo stati acquisiti, semplicemente i verbali riassuntivi; ai sensi dell’articolo 141bis Cpp tale omissione comporterebbe la inutilizzabilità di dette dichiarazioni. Con il quarto motivo si rileva la inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo stesso M. in data 14 giugno 2004, interrotte ai sensi dell’articolo 63 Cpp. Con il quinto motivo si rileva la carenza della motivazione sul punto della individuazione di elementi di responsabilità a carico del M., posto che il G.U.P. l’aveva assolto dallo stesso reato e non si dà conto in modo completo e approfondito, delle ragioni della diversa valutazione degli elementi acquisiti. Con il sesto motivo si censura la sentenza impugnata per la contraddittorietà di taluni aspetti della motivazione, quale quello in cui da un lato si afferma che tutti gli adepti erano tra loro “pari”, e da un altro si prospetta un gruppo di componenti dotati di carisma e gli altri più deboli, che sarebbero stati succubi dei primi. Si n’chiamano quindi studi relativi a sette sataniche, senza approfondire la vera natura del gruppo preso in esame. Superficiale e incompleta sarebbe poi la valutazione sulla attendibilità delle dichiarazioni rese dal coimputati V. e G., sulla base delle quali era stata ritenuta la responsabilità del M. In relazione alle dichiarazioni del V., non sarebbe mai stato precisato il ruolo che il M. avrebbe rivestito nel momento decisionale delle azioni da compiere: in realtà il V. si è limitato ad affermare che il M. era a conoscenza delle decisioni assunte, senza fornire alcun elemento dal quale ritenere una sua partecipazione attiva alla fase decisionale. Peraltro la credibilità di dette chiamate in correità sono evidente sminuite dalla circostanza che il V. avrebbe indicato il M. come partecipe alla deliberazione di uccidere la P. nel 2004, quando questi si era già allontanato dal gruppo da ben sei anni. Analoghi rilievi andavano quindi mossi alla valutazione della attendibilità dell’altro chiamante in correità, G. Pietro, il quale non avrebbe fornito significativi elementi per la configurare la responsabilità del M.; né sarebbero state in qualche modo riscontrate le notizie già riferite dal V.. Anche le dichiarazioni del M. apparirebbero quanto mai vaghe e sfumate in relazione alla posizione del M.. Quanto infine alle dichiarazioni rese dallo stesso M., fermi restando rilievi già illustrati sulla inutilizzabilità di quanto dichiarato in assenza di difensore, la sentenza d’appello avrebbe omesso ogni seria valutazione sulla loro attendibilità e sulla loro efficacia; né si sarebbe curata di comparare le varie dichiarazioni, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione delle stesso alle varie riunioni preparatorie tenute prima del duplice omicidio. Con il settimo motivo si censura la sentenza per violazione di legge e illogicità della motivazione sul punto della sussistenza degli elementi richiesti per la configurabilità del cosiddetto concorso morale. In realtà si tratterebbe di semplice connivenza, e non di volontà di concorrere assieme agli altri, al raggiungimento del fine criminoso; e tale atteggiamento non sarebbe di per se punibile. Con l’ottavo motivo si censura la sentenza impugnata per carenza di motivazione sul punto della riqualificazione del fatto di aver passato la notte successiva al duplice omicidio presso l’abitazione del L. come favoreggiamento personale. 129 Con il nono motivo si rileva l’assoluta assenza di motivazione sul punto della sussistenza della imputabilità del M. al momento della commissione del fatto, trattandosi di imputato minorenne. Con il decimo motivo si censura la sentenza impugnata sul punto della mancata sospensione di cui all’articolo 28del Dpr 448/88 in assenza di un progetto educativo attualmente in esecuzione e tenuto conto della età del M., in realtà la relazione dei Servizi minorili avrebbe fatto riferimento ad un progetto educativo. Con l’undicesimo motivo si censura infine la sentenza sul punto della assenza di motivazione sulla determinazione della pena applicata, senza peraltro applicare la diminuente di cui all’articolo 114 Cp. Motivi della decisione Nell’esaminare i ricorsi nello stesso ordine seguito sopra, si deve che il ricorso del Pg presso la Ca di Milano è fondato. Quanto al capo D, ossia il tentato omicidio ai danni di M. C. nel dicembre 1997, erroneamente il Tribunale aveva ritenuto che gli atti preparatori (come descritti nel capo di imputazione, ossia nei confronti dei due imputati all’epoca minorenni e in concorso con altri soggetti appartenenti al gruppo, tra i quali V. Andrea e G. Pietro, consistiti nello stordire la stessa facendole bere acqua nella quale era stata sciolta una sostanza a base di barbiturici ? Valium ? e nel predisporre una siringa contenente una overdose di eroina ? circa un grammo ?nel trasportare la stessa in stato di incoscienza in zona periferica, frequentata da tossicodipendenti e non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla loro volontà) non avevano raggiunto la soglia del tentativo punibile. Su tale capo D il Pm deduce la mancanza e contraddittorietà della motivazione in rapporto all’affermazione della Ca secondo cui non si sarebbe raggiunta la soglia del tentativo punibile non essendo mai andata la condotta degli indagati oltre agli atti preparatori, perché costoro avevano predisposto il delitto nei dettagli ed erano già stati predisposti gli atti successivi da compiere. L’impugnazione del Pm è fondata. Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata non abbia esaurientemente vagliato, in ogni suo aspetto, le modalità organizzative e operative del gruppo criminale: la ricostruzione della vicenda, negli stessi termini con cui risulta precisata nella sentenza impugnata, dimostra che V omicidio della M. era stato non solo deliberato dal gruppo criminale, ma era stata predisposta un’adeguata organizzazione per eseguirlo. In particolare, era stato predisposto un modo per stordire la ragazza, il suo accompagnamento in zona appartata e notoriamente frequentata da tossicomani, era stata acquistata e preparata la siringa contenente P overdose di eroina. Nella ricostruzione analitica della vicenda in base a prove attendibili e concordi la Corte d’Appello ha ravvisato lo svolgimento di un’attività meramente preparatoria, ritenendo che non vi sia stato neppure l’inizio della condotta tipica. Nell’esprimere tale valutazione la sentenza non affronta il problema della distinzione in concreto fra atti deliberativi dell’omicidio progettato dai concorrenti e gli atti organizzativi, che hanno assunto una specificità e un’imponenza tali da non poter non rappresentare un inizio di esecuzione. A prescindere da questo, occorre tener presente che P istituto del delitto tentato, nel sistema adottato dal codice penale, non prevede una distinzione fra atti preparatori e atti esecutivi, in quanto la struttura del tentativo si fonda sul compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto (Cassazione, Sezione sesta, 7446/92; seconda, 4982/85; 3692/85; 3326/85; 10957/83; quinta, 5186/83; 3111/83); ne deriva che non si richiede che l’azione esecutiva sia già iniziata (Cassazione, Sezione seconda, 10362/87; 9776/80; 130 2791/92) e che anche un atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco a commettere un delitto (Sezione seconda, 1058/85; 6439/84; quinta, 3939/85; seconda, 1813/84; 3265/83). In altri termini, il criterio legale per la qualificazione del tentativo punibile è quello dell’individuazione nello sviluppo assunto dalla condotta degli elementi distintivi del delitto consumato attraverso l’univocità della direzione degli atti compiuti verso la commissione di tale delitto e la contemporanea idoneità degli atti stessi a commetterlo (Cassazione, Sezione sesta, 11022/96; 295/95; prima, 7938/92; seconda, 10496/88; sesta, 25040/04). L’idoneità degli atti ? valutata ex ante e non con riferimento alle circostanze impreviste che abbiano impedito il verificarsi dell’evento o il compimento dell’intera azione necessaria per la consumazione del delitto (Cassazione, Sezione seconda, 10362/87; 3326/85; 8997/84; 7451/83), tenendo conto delle circostanze in cui opera L’agente e delle modalità dell’azione ? è criterio di determinazione dell’adeguatezza causale, intesa come attitudine a creare una situazione di pericolo attuale e concreto di lesione del bene protetto dalla norma incriminatrice (Cassazione, Sezione quinta, 1365/98; prima 9273/95; 7317/95; 151/94; sesta, 5405/85). L’univocità degli atti è espressa dal riferimento di essi al delitto consumato, riferimento che deve essere non equivoco, cioè tale da non consentire la possibilità di ritenere leciti gli atti stessi in quanto vi è già, ravvisabile, sia in base all’essenza di essi, sia in base alla prova specificamente acquisita, la finalità della commissione di un determinato delitto. Per converso, l’inidoneità dell’azione, che rende impossibile l’evento dannoso o pericoloso (articolo 49 Cp) esige che l’incapacità di essa di produrre l’evento sia assoluta, intrinseca e originaria e tale risulti secondo una valutazione oggettiva da compiersi risalendo al momento iniziale del suo compimento; deve cioè tradursi in inefficienza causale rispetto alla produzione dell’evento, indipendentemente da ogni cautela predisposta dalla parte offesa o intervento successivo che abbia impedito la realizzazione (Sezione quinta, 3315/83; terza, 1588/82; quinta, 5946/82; terza, 10571/81; quinta, 4624/81). Alla luce degli orientamenti giurisprudenziali qui esposti non v’è dubbio che la condotta dei componenti di un gruppo criminale che allo scopo di eliminare uno dei componenti del gruppo deliberano di ucciderlo e predispongono l’organizzazione necessaria per l’esecuzione del delitto configura un tentativo di omicidio. Sussiste, infatti, in questa ipotesi l’idoneità dell’azione, da valutare ex ante in base alle prospettive di realizzazione che gli atti esecutivi di per sé posseggono, indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei, nonché in base all’efficienza causale che l’azione stessa dimostra. È altresì presente l’univocità degli atti compiuti, i quali sono inequivocabilmente diretti a commettere il delitto di omicidio in danno della vittima designata. Ai suddetti principi di diritto deve uniformarsi la decisione e per conseguenza la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per nuovo giudizio sui capi impugnati. Analoghi rilievi debbono essere mossi alla pronunzia di assoluzione dei due imputati minorenni in ordine al capo C, ossia al tentato omicidio di M. C. e di T. Fabio al Parco dell’Acquatica, nella notte tra il 31 dicembre 1997 e il 1 gennaio 1998. In quella occasione, secondo il capo di imputazione i due imputati, in concorso con altri componenti del gruppo, avevano appiccato il fuoco all’auto a bordo della quale si trovavano i due ragazzi da uccidere, collocando materiale esplodente nel condotto di iniezione del carburante e non riuscendo nell’intento per cause indipendenti dalla loro volontà. In relazione a tale episodio la Ca aveva ritenuto che gli atti compiuti non fossero idonei a provocare una deflagrazione tale da provocare la morte degli occupanti dell’auto, ovvero ad appiccare un incendio tale da compromettere ogni possibilità di salvezza degli stessi occupanti. 131 Su tale capo C il Pm deduce la mancanza e contraddittorietà della motivazione in rapporto all’affermazione della Corte d’Appello secondo cui non si sarebbe raggiunta la soglia del tentativo punibile. L’impugnazione del Pm è fondata. Ritiene il Collegio che facendo uso degli stessi principi sopra richiamati e riferiti all’episodio di cui al capo D la sentenza non ha approfondito in modo completo il tema dell’idoneità dell’azione, da valutare ex ante in base alle prospettive di realizzazione che gli atti esecutivi di per sè posseggono, indipendentemente dall’insuccesso determinato da fattori estranei, nonchè in base all’efficienza causale che l’azione stessa dimostra. Su cale punto, li n’corso della pubblica accusa ha richiamato non soltanto le risultanze della perizia predisposta dall’ing. B., ma tutte le circostanze predisposte dai correi per ottenere il successo dell’agguato e cioè il riempimento solo parziale del serbatoio del carburante, allo scopo di consentire la diffusione dei vapori di benzina e facilitare quindi la propagazione dell’incendio; il posizionamento di petardi all’interno della vettura; la conseguente emissione di fumi tossici che avrebbero provocato un serio impedimento per i due occupanti di potersi mettere in salvo; la induzione a compiere un rapporto sessuale, allo scopo attenuare la vigilanza delle due vittime designate. Anche su tali aspetti la sentenza impugnata non fornisce adeguate risposte e merita quindi di essere annullata con rinvio per nuovo giudizio. In relazione al ricorso nell’interesse di M. Massimiliano, si osserva: quanto al primo motivo di ricorso, i provvedimenti da assumere in relazione alla inammissibilità della impugnazione del Pm sono precisati nella parte finale della presente sentenza, in funzione dell’accoglimento del presente ricorso. In relazione alla questione dell’assenza dei servizi minorili all’udienza avanti alla Corte d’Appello, si tratta di questione ritenuta superata dalla sentenza impugnata dalla circostanza che nel frattempo il M. è diventato maggiorenne; sul punto, si tratta di valutazione in contrasto con la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto che la misura della sospensione del processo e la messa alla prova di cui all’articolo 28 legge 448/88, in funzione della quale è richiesta la presenza al processo dei servizi sociali, è applicabile anche nei riguardi degli imputati infradiciottenni al momento della commissione del reato, che siano divenuti maggiorenni alla data del provvedimento di sospensione (Cassazione Sezione quarta, 4 aprile 2003, ric. Pm in proc. Orlati, RV 225587). Si ritiene in ogni caso che la assenza dei servizi sociali alla udienza non dia luogo a nullità, in conformità al principio di carattere generale della tassatività delle nullità e potendo in ogni caso il giudice avvalersi dei poteri di cui agli articoli 422 e 507 Cpp quando ritenga indispensabile la presenza dei servizi sociali. La censura sul punto deve essere quindi disattesa. I successivi rilievi riguardanti la mancata acquisizione dei verbali integrali degli interrogatori degli imputati detenuti (terzo motivo) non hanno pregio: questa Corte ha ?hà avuto modo di affermare il principio che “In tema di documentazione dell’interrogatorio di persona detenuta, la sanzione di inutilizzabilità ex articolo 141bis Cpp consegue alla mancata riproduzione fonografica o audiovisiva dell’atto, ovvero alla ipotesi in cui, pure avvenuta tale riproduzione, manchi sia la sua trascrizione, che la redazione del verbale in forma riassuntiva. La semplice mancata trascrizione del contenuto dell’interrogatorio registrato o filmato, in presenza della verbalizzazione riassuntiva, non implica inutilizzabilità, anche nel caso in cui la suddetta trascrizione, in quanto richiesta dalla parte, costituisca obbligo per il giudice.” (Cassazione Sezione quinta, 31 gennaio 2000 ric. Carboni, RV 215970). Quanto al merito del ricorso, riguardante la valutazione degli elementi di responsabilità a carico del M., il ricorso è fondato. La sentenza impugnata dà atto della esistenza di elementi di responsabilità anche a carico del M., sotto il profilo del concorso morale. Tali elementi sarebbero costituiti in 132 primo luogo della presenza del M. alle riunioni nel corso delle quali fu assunta la decisione di uccidere la M. e il T.; egli fu tenuto al corrente anche dello stato dei preparativi relativi al progetto e in particolare dello scavo della fossa dove i due sarebbero stati sepolti. In secondo luogo egli avrebbe coadiuvato gli altri partecipi sia per intrattenere i due giovani sin tanto che si trovavano presso il locale dove ebbe inizio la tragica serata (il Mid Night), sia prestandosi alla successiva azione di copertura sino a passare il resto della notte a casa del L. e simulare di attivarsi per cercare il T. dopo che i genitori si erano resi conto della sua scomparsa. La sentenza impugnata assume che tali elementi valgano a ritenere una presenza non soltanto passiva del M. all’interno del gruppo, ma che essa abbia contribuito a rafforzare la volontà criminale degli altri compartecipi sia nella fase preparatoria che in quella esecutiva, che in quella successiva di depistaggio delle indagini. In realtà, secondo la linea assunta dalla difesa, dai risultati delle indagini effettuate, la presenza del M. alle riunioni del gruppo criminale sarebbe stata soltanto occasionale e saltuaria, essendo egli coinvolto nella vicenda solo in quanto legato al M. e al T., con I quali condivideva la passione per la musica e con i quali partecipava ad un gruppo musicale. La presenza del M. ad alcune delle riunioni avrebbe consentito a questi di conoscere alcuni dei programmi criminali deliberati, ma non avrebbe prestato alcun contributo per l’assunzione di tali decisioni. Anche le chiamate in correità del M., del V. e del G. sarebbero quanto mai vaghe e prive di indicazione di singoli elementi individualizzanti ai fini della sua partecipazione al duplice omicidio. Tali aspetti, sui quali era stata fondata la sentenza di primo grado, non hanno trovato adeguato e soddisfacente approfondimento da parte di giudici dell’appello, soprattutto in relazione all’aspetto fondamentale della sussistenza del comportamento non semplicemente passivo, di semplice connivenza, ma di contributo cosciente e volontario al fine di realizzare l’evento. Nè risulta che la sentenza impugnata abbia sottoposto a critica le valutazioni che avevano indotto il giudice di primo grado di decidere per l’assoluzione del M.: in relazione a tale aspetto è evidente la violazione del principio più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (Sezione seconda, 12/12/2002, P.G. in proc. Contrada, rv. 225564; Sezione IV, 29/11/2004, P.G. in proc. Marchiorello, rv. 231136), per il quale il giudice di appello che riformi totalmente la sentenza di primo grado, caratterizzata come nella specie da un solido impianto argomentativo, “ha l’obbligo non solo di delineare con chiarezza le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio ma anche di confutare specificamente e adeguatamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza e, soprattutto quando all’assoluzione si sostituisca la decisione di colpevolezza dell’imputato, di dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificata la riforma.” (Cassazione Su 12 luglio 2005 ric. Mannino, RV 33748). In relazione a tale aspetto il ricorso del M. deve essere quindi accolto, restando assorbiti oli altri motivi di ricorso. A seguito della novella legislativa introdotta con legge 46/2006, deve essere dichiarata, ai sensi della norma transitoria di cui all’articolo 10 comma 4, l’inammissibilità dell’appello del Pm, con la conseguente notifica della presente sentenza del Pm appellante, ai fini dell’eventuale ricorso per cassazione previsto dallo stesso articolo 10 comma 3 (in tal senso: Cassazione Sezione quinta, 10 maggio 2006, ric. Nardo e altri, RV 234096). Si designa per il giudizio di rinvio relativo alla posizione di M. Mario sui capi C e D la Ca di Brescia, Sezione per i Minorenni, ai sensi dell’articolo 623 Cpp. Detta norma non consente, infatti, di disporre il rinvio alla stessa sezione in diversa composizione e ai sensi dell’articolo 58 dell’Ordinamento giudiziario approvato con Rd 12/1941 in nessuna Ca è prevista più di una Sezione 133 per i Minorenni: ne deriva la necessità di ordinare il rinvio alla Ca più vicina, nella specie, la Ca di Brescia. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione, Prima Sezione Penale, annulla nel confronti di M. Massimiliano la sentenza impugnata; dichiarato inammissibile l’appello del pubblico ministero e dispone la trasmissione del presente provvedimento, ai sensi dell’articolo 10, commi 2 e 4, legge 46/2006, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Milano e al Procuratore Generale presso la Ca di Milano. Annulla la sentenza impugnata, limitatamente ai capi c) e d), nei confronti di M. Mario e rinvia per nuovo giudizio sui capi predetti alla Sezione per i Minorenni presso la Ca di Brescia. -In tema di consunzione, si veda la sentenza che segue. Il rapporto di consunzione, secondo la più autorevole dottrina in argomento, è un rapporto di valore tra due norme incriminatrici, in base al quale l'apprezzamento negativo dell'accadere concreto riconducibile ad un'unica condotta (la dottrina parla di "identità normativa del fatto") appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave, di guisa che applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto moltiplicarsi della sanzione. In altri termini, il rapporto di consunzione comporta sempre la prevalenza della norma che prevede il reato più grave, ovvero, più precisamente, quella che prevede il trattamento penale più severo (anche quando il trattamento più severo si ricolleghi, come nel caso di specie, alla sussistenza di una circostanza aggravante specifica). SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE I PENALE Sentenza (ud. 24-01-2006) 02 marzo 2006, n. 7629 OSSERVA 1. Con sentenza 20 giugno 2005 la Corte di Appello di Palermo confermava la sentenza 28 marzo 2003 di quel Tribunale che aveva condannato L.N., titolare della ditta "Licata Giocattoli" di Palermo, e O.F., dipendente del L. con funzioni di magazziniere, rispettivamente alla pena di anni cinque e mesi quattro di reclusione ed alla pena di anni quattro e mesi sette di reclusione per i seguenti reati: Il solo L.: 134 Capo A - incendio doloso ( artt. 423 e 425 c.p.) di una parte dei locali della ditta "Licata Giocattoli" (pari a mq. 1650) e della merce in essi contenuta, commesso il (OMISSIS). Il L. e l' O. in concorso tra loro: Capo B - incendio doloso ( artt. 423 e 425 c.p.) degli interi locali della ditta "Licata Giocattoli" (pari a mq. 4500) e della merce in essi contenuta, nonchè dell'edificio abitato da oltre sessanta famiglie e degli esercizi commerciali adiacenti; commesso il (OMISSIS); Capo C - crollo doloso ( art. 434 c.p.) dei locali della ditta "Licata Giocattoli", di parte dell'edificio sovrastante e di sette negozi adiacenti; commesso il (OMISSIS); Capo D - per avere cagionato, come conseguenza non voluta dei reati di cui ai capi C e D ( art. 586 c.p.), la morte del vigile del fuoco B.N., impegnato nelle opere di spegnimento dell'incendio; commesso il (OMISSIS); Capo E - per avere posto in essere le condotte di cui ai capi precedenti al fine di conseguire il risarcimento previsto dalla polizza assicurativa stipulata dal L. nel (OMISSIS) con le Assicurazioni Generali s.p.a.; in Palermo fino al (OMISSIS). La Corte di secondo grado basava la propria decisione sulle seguenti argomentazioni: - Che gli accertamenti tecnici avevano evidenziato come l'incendio del (OMISSIS) fosse stato provocato da un quantitativo di benzina (circa un litro) versato su un paio di scaffali metallici posti sul fondo del negozio di vendita al pubblico e si fosse sviluppato rapidamente. - Che il fumo era stato notato per la prima volta dalla teste P. alle ore 13.45, mentre i vigili del fuoco avevano fissato il momento di inizio dell'incendio del (OMISSIS) tra le 13.15 e le 13.43. - Che il L. era stato l'ultimo a lasciare i locali del negozio uscendo e chiudendolo per la pausa pranzo alle ore 13.25 di quel (OMISSIS). - Che non altri se non il L. avrebbe potuto appiccare il primo incendio, visto che è stato l'ultimo a uscire. - Che gli autori del fatto non possono essere stati dei terzi estranei perchè "se così fosse stato i predetti avrebbero atteso la chiusura del negozio prima di agire". - Che i due incendi - del (OMISSIS) e del (OMISSIS) - vanno valutati congiuntamente "poichè rivelano la riconducibilità dei due eventi allo stesso soggetto", dal momento che "sono stati realizzati con identiche modalità esecutive, vale a dire in pieno giorno, all'interno dei locali e non all'esterno e, soprattutto, allo stesso orario". - Che secondo il consulente l'incendio del 27 agosto aveva avuto "un'origine policentrica caratterizzata da una dinamica veloce" e, in particolare, era stato originato da sei distinti focolai dislocati su due piani: il primo e il secondo piano cantinato. - Che il (OMISSIS), verso le ore 13, alcuni testimoni avevano visto il fumo uscire dalle finestre del magazzino della ditta. 135 - Che quel giorno (OMISSIS) la chiusura del negozio per la pausa pranzo era intervenuta verso le ore 13. - Che secondo il consulente tecnico alle ore 13 di quel (OMISSIS), al momento della chiusura del negozio, l'incendio era stato già attivato, Perchè altrimenti, all'arrivo dei vigili del fuoco, circa venti minuti dopo la chiusura del negozio, "l'incendio non avrebbe assunto le vaste dimensioni che in realtà ha avuto". - Che di conseguenza "a commettere l'incendio non può che essere stato il L. e mai certamente terzi estranei poichè, se fossero stati questi ultimi, i predetti avrebbero atteso la chiusura del negozio prima di agire". - Che "la necessità di ripetere l'iniziativa criminosa commettendo il secondo incendio ... dimostra l'estrema imperizia dell'autore di entrambi", ragion per cui "soltanto soggetti inesperti e estranei al mondo del crimine e ancor più a contesti di tipo mafioso possono avere assunto le due iniziative criminose"; il che comporta, secondo la Corte di merito, che "la individuazione del responsabile ben si attaglia alla personalità del L.", essendo persona priva di trascorsi penali. - Che infine, secondo la Corte di merito, "il movente che ha mosso la mano del L. è duplice: lucrare l'indennizzo previsto dal contratto di assicurazione per destinarlo al pagamento almeno in parte dell'ingente somma che avrebbe dovuto corrispondere al fratello Giacomo", a causa di una complessa e risalente controversia civile in atto tra i due fratelli. Relativamente alla posizione di O.F., magazziniere della ditta in questione, la Corte di secondo grado basava la propria decisione di confermarne la condanna sulle seguenti argomentazioni: - O.F. era tra le persone presenti nei locali della ditta quel (OMISSIS). - Dalle 12 alle 13 era rimasto tutto il tempo nel deposito sito al secondo piano cantinato ed era risalito al primo piano solo al momento della chiusura del negozio. - Quel giorno l'ultimo a uscire fu l' O. e, su incarico del L., fu lui a chiudere i locali della ditta riconsegnando poi le chiavi al L. che gliele aveva affidate. - Da ciò si doveva desumere, secondo la Corte di merito, che era stato l' O. a provocare l'incendio, previa intesa con il L.. 2. Avverso la sentenza di secondo grado propongono ricorso per Cassazione i difensori del L. e dell' O.. Il ricorrente O. deduce l'illogicità della motivazione e la violazione di legge con riferimento all'art. 192 c.p.p., comma 2, sostenendo che non vi siano indizi gravi, precisi e concordanti da cui desumere la sua responsabilità penale per i fatti del (OMISSIS), e lamenta che la sentenza impugnata non abbia dato risposta o abbia dato risposta incongrua o comunque insufficiente alle doglianze specifiche contenute nei motivi di appello sottolineando, in particolare, la mancata indicazione di un valido movente che possa concernere la sua persona, nonchè la totale assenza di risposta alle argomentazioni contenute nei motivi di appello con le quali la difesa O. aveva contestato la tesi del "rapporto di sudditanza" che era stata sostenuta nella sentenza di primo grado. La difesa del L. ricorre per cinque ordini di motivi. 136 Con il primo motivo deduce la mancanza ed illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità penale per i due delitti di incendio contestati ai capi A e B, lamentando in particolare che l'impugnata sentenza non abbia dato risposta o abbia dato risposta incongrua e inadeguata alle specifiche e argomentate doglianze contenute nei motivi di appello, segnatamente laddove la difesa aveva contestato: - il punto in cui la sentenza di primo grado aveva assunto elementi di convincimento circa la natura dolosa del primo incendio dalle caratteristiche del secondo incendio trascurando il primo giudizio espresso dai Vigili del fuoco; - il punto in cui la sentenza di primo grado aveva sostenuto che il L. avrebbe appiccato il fuoco nei suoi locali nel quadro di una vertenza con suo fratello sia allo scopo di sottrarre beni alla divisione con il congiunto sia allo scopo di ottenere liquidità dalla compagnia assicuratrice; - il punto in cui la sentenza di primo grado aveva escluso, in relazione a entrambi gli incendi, che terzi estranei potessero essere entrati nel locale per appiccare il fuoco, possibilità su cui la difesa aveva argomentato nei motivi di appello sottolineando come l'ingresso di estranei fosse divenuto più agevole a seguito dei danni dovuti al primo incendio; - il punto in cui la sentenza di primo grado aveva escluso che gli incendi potessero riconnettersi al fatto che il L. era stato sottoposto a richieste estorsive da parte della mafia alle quali aveva cercato di sottrarsi; - il punto in cui la sentenza di primo grado aveva ritenuto di poter fissare con relativa precisione l'ora in cui il fuoco venne appiccato in occasione del secondo incendio, nonostante la "estrema varietà ed inattendibilità di molte delle dichiarazioni rese, seppure in buona fede, dai testimoni esaminati. Sempre nel primo motivo di ricorso L. vengono contestati come manifestamente illogici taluni argomenti della sentenza di secondo grado, come quello in cui si sostiene "l'estrema imperizia" di chi appiccò gli incendi e si desume da tale notazione un indizio ulteriore a carico del L. in quanto soggetto inesperto e estraneo al mondo del crimine, ovvero quello in cui, per escludere l'ipotesi di una matrice mafiosa, si sostiene che non sarebbe possibile individuare una volontà di intimidazione "dal momento che non vi è stato il ricorso a mezzi esplosivi". Con il secondo motivo di ricorso la difesa L. deduce l'erronea applicazione della legge penale e l'illogicità della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 434 c.p. (capo C), posto che tale norma sarebbe applicabile solo fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, quindi solo quando il crollo sia determinato da atti diversi da quelli integranti uno dei delitti configurati negli articoli precedenti. Con il terzo motivo di ricorso la difesa L. deduce l'erronea applicazione della legge penale e l'illogicità della motivazione in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 586 c.p. (capo D), lamentando che la sentenza impugnata non avrebbe motivato specificamente circa la prevedibilità in concreto dell'evento morte con riferimento allo specifico rischio creato dalle concrete modalità di realizzazione dell'illecito doloso di cui al capo B. Con il quarto motivo di ricorso (strettamente collegato e conseguente al primo motivo) la difesa L. chiede l'annullamento della sentenza impugnata anche in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 642 c.p. (capo E). 137 Con un ultimo motivo di ricorso la difesa L. deduce l'erronea applicazione della legge penale e l'illogicità della motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla mancata applicazione di un minimo aumento di pena per effetto della riconosciuta continuazione. 3. Entrambi i ricorsi sono fondati e meritano accoglimento. Per quanto riguarda i motivi di ricorso attinenti al merito dell'accusa relativa ai reati di cui ai capi A e B le doglianze avanzate dai due ricorrenti (ricorso O. e primo motivo di ricorso L.) possono essere trattate congiuntamente. In proposito osserva il Collegio che la stringatissima sentenza impugnata si limita a ribadire succintamente e frettolosamente (quindi a riassumere lacunosamente) le argomentazioni che erano state svolte dai giudici di primo grado, sottraendosi così all'obbligo di fornire puntuale risposta alle controargomentazioni contenute nei motivi di appello svolti dalle difese dei due imputati. I ricorsi sono fondati anche laddove mettono in luce le affermazioni apodittiche e le argomentazioni gravemente illogiche che caratterizzano qua e là il provvedimento impugnato, come quella che ritiene di poter desumere un indizio a carico del L. dalla sua qualità di soggetto "inesperto e estraneo al mondo del crimine" (pag. 6), o quella che sottolinea il mancato ricorso a mezzi esplosivi come argomento per escludere la matrice mafiosa (pag. 9). Sotto il primo profilo basti dire che l'estraneità al mondo del crimine è una connotazione estremamente generica che si attaglia alla stragrande maggioranza degli esseri umani, ed è francamente illogico ritenere di poter desumere da tale connotazione - di per sè quanto meno neutra - una sorta di paradossale indizio di reato; sotto il secondo profilo, basti dire che la lunga e articolata elaborazione giudiziaria che si è sviluppata intorno alle attività criminali delle mafie storiche dimostra che la forza di intimidazione che le contraddistingue non è legata esclusivamente all'uso di esplosivi. A proposito, poi, del movente che avrebbe indotto l' O. a appiccare il secondo incendio, l'illogicità della motivazione del provvedimento impugnato è particolarmente grave laddove si afferma (pag. 13) che la responsabilità dell' O. è "oggettivamente desumibile dalla sua presenza sui luoghi e dal mero rapporto di lavoro che lo legava al L."; illogicità davvero manifesta, tanto più se si considera che la stessa sentenza di secondo grado da conto della presenza di un certo numero di altri dipendenti del L. sul luogo del secondo incendio. Questo argomento irrazionale, inoltre, si aggancia ad un altra affermazione altrettanto illogica che si può leggere nelle righe che immediatamente lo precedono: si tratta di un'affermazione decisamente apodittica, secondo la quale "il fatto che ... il L. abbia potuto avvalersi dell'opera dell' O. deriva intuitivamente dalla manifestata disponibilità dell' O. ad assecondare i propositi criminosi del proprio datore di lavoro, senza che sia necessario per questo indagare sull'esistenza di recondito rapporto di sudditanza psicologica". Va anzitutto sottolineato, infatti, che l'affermata "manifestata disponibilità dell' O. ad assecondare i propositicriminosi del proprio datore di lavoro" è rimasta un postulato totalmente privo di qualsiasi tentativo di dimostrazione. D'altro canto, poichè la tesi della sudditanza psicologicà dell' O. rispetto al L. era stata sostenuta (quale elemento indiziante per entrambi gli imputati) nella sentenza di primo grado, ed era stata specificamente contestata nei motivi di appello, è del tutto evidente che era preciso dovere della Corte di secondo grado fornire un'adeguata e altrettanto specifica risposta sul punto, anzichè limitarsi a definire non necessario indagare su tale aspetto della vicenda processuale. Dati i gravi vizi logici della motivazione, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per un riesame complessivo degli elementi probatori prospettati dall'accusa a carico rispettivamente dei due imputati in ordine ai due incendi di cui ai 138 capi A e B. 4. Pure fondato è il secondo motivo di ricorso proposto dalla difesa L. relativamente al delitto di crollo doloso di cui all'art. 434 c.p., comma 2, contestato al capo C, ancorchè per ragioni non del tutto coincidenti con quelle prospettate dal ricorrente. Va premesso che l'art. 434 c.p., che prevede congiuntamente il delitto di crollo doloso di costruzioni e il delitto di disastro doloso innominato, è ricompreso - così come il delitto di incendio doloso previsto dall'art. 423 c.p. - tra i "delitti di comune pericolo mediante violenza" (Libro 2^, Titolo 6^, Capo 1^, artt. 422 e 437 c.p.). Peraltro, la peculiarità dell'art. 434 c.p., (proprio per il fatto di prevedere congiuntamente il crollo doloso e il disastro innominato) è quella di costituire una norma di chiusura nel quadro, appunto, della sottoclasse dei delitti di disastro. Orbene, ritiene il Collegio che, come del resto è ritenuto dalla dottrina più recente, l'espressione "fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti", contenuta nell'art. 434 c.p., rimanda non già a tutti gli articoli precedenti contenuti nel Capo 1^, bensì soltanto a quelli, tra gli articoli precedenti, che prevedono altri delitti di disastro. Tra questi ultimi rientrano, per esempio, l'art. 428 c.p. (naufragio), l'art. 430 c.p. (disastro ferroviario), l'art. 432 c.p. (attentato alla sicurezza dei trasporti), ma non anche l'art. 423 c.p. che prevede il delitto di incendio. Nel caso di specie il delitto di cui all'art. 434 c.p., comma 2 è stato contestato - in concorso formale con il delitto di cui all'art. 423 c.p. - perchè, in conseguenza dell'incendio del (OMISSIS), si è verificato il crollo parziale dell'edificio sovrastante alla ditta "Licata Giocattoli", per modo che l'accusa ha ritenuto che i due imputati, provocando l'incendio, abbiano al tempo stesso commesso "un fatto diretto a cagionare il crollo" dell'edificio sovrastante; con l'aggravante di avere effettivamente cagionato tale crollo (parziale). In altri termini, lo stesso fatto materiale è stato configurato come reato due distinte volte sulla base di due distinte norme incriminatrici. Ritiene questa Corte che l'iter logico motivazionale percorso dalla sentenza impugnata sia viziato sotto un duplice profilo. Sotto il primo profilo, infatti, nella sentenza impugnata si riscontra un difetto di motivazione circa l'elemento soggettivo del delitto di cui all'art. 434 c.p., dal momento che nessuna argomentazione viene prospettata dalla Corte di merito a tale proposito. In altri termini, il delitto di crollo doloso viene ritenuto sussistente per il fatto in sè della materialità del crollo, e la volontà di cagionare il crollo viene affermata apoditticamente in capo a coloro che sono accusati di avere appiccato l'incendio. La sentenza impugnata va quindi annullata anche sotto questo profilo, e il giudice di rinvio dovrà analizzare il contesto probatorio onde stabilire, motivatamente, se l'elemento soggettivo del delitto di crollo doloso sia effettivamente ravvisabile, quanto meno in termini di dolo eventuale, o se invece sia configurabile soltanto il dolo di incendio ex art. 423 c.p.. Sotto il secondo profilo - qualora sia effettivamente ravvisabile il dolo di crollo ex art. 434 c.p. - la sentenza impugnata appare comunque viziata per difetto di motivazione perchè non si pone il problema del rapporto esistente fra il delitto di incendio doloso e il delitto di crollo doloso quando i due delitti, come nel caso di specie, vengano ricollegati a un'identica condotta materiale, oltre che a un'identica offesa agli interessi tutelati dalla legge. A questo proposito ritiene il collegio che tra le due norma in questione debba riconoscersi esistente il cosiddetto rapporto di "sussidiarietà", ovvero di "consunzione", ispirato al principio del ne bis in idem sostanziale secondo il quale (anche fuori dei casi di vera e propria specialità) nessuno può essere punito più volte per lo stesso fatto (ovvero, più precisamente, per la medesima offesa ai beni tutelati dalla legge). In particolare, il rapporto di consunzione, secondo la più autorevole dottrina in argomento, è un rapporto di valore tra due norme incriminatrici, in base al quale l'apprezzamento negativo 139 dell'accadere concreto riconducibile ad un'unica condotta (la dottrina parla di "identità normativa del fatto") appare tutto già compreso nella norma che prevede il reato più grave, di guisa che applicare anche la norma che prevede il reato meno grave condurrebbe ad un ingiusto moltiplicarsi della sanzione. In altri termini, il rapporto di consunzione comporta sempre la prevalenza della norma che prevede il reato più grave, ovvero, più precisamente, quella che prevede il trattamento penale più severo (anche quando il trattamento più severo si ricolleghi, come nel caso di specie, alla sussistenza di una circostanza aggravante specifica). Pertanto, se il reato di crollo di costruzione previsto dal secondo comma dell'art. 434 c.p. (pena edittale da tre a dodici anni di reclusione) sia commesso cagionando l'incendio della costruzione ( art. 423 c.p.: pena edittale da tre a sette anni di reclusione), dovrà trovare applicazione solo la norma che incrimina il crollo doloso (aggravato ex comma 2), in base al principio di sussidiarietà tra norme che prevedono stati o gradi diversi di offesa di un medesimo bene (nel caso: la pubblica incolumità), in quanto l'offesa maggiore assorbe quella minore e, di conseguenza, l'applicabilità di una norma è subordinata alla mancata applicazione dell'altra (cfr. Cass., Sez. 6^, 30 aprile 1999 n. 1531, dep. 16 giugno 1999, Sibio, CED-214741, che ha affermato l'assorbimento del reato di frode processuale nel più grave reato di falsa perizia contestato a colui che aveva indotto in errore il perito trasmettendogli un documento certificativo falso). 5. Gli altri motivi di ricorso devono ritenersi assorbiti in quelli sin qui trattati. Peraltro, data l'ampiezza ed il rilievo delle questioni sulle quali il giudice di rinvio è chiamato a intervenire, è opportuno che il nuovo esame si estenda fino ad abbracciare nuovamente anche le questioni residue, con particolare riguardo - relativamente al reato di cui all'art. 586 c.p. contestato al capo D - alla prevedibilità in concreto dell'evento morte. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di Appella, di Palermo. Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2006. Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2006 OMISSIONE DI ATTI D'UFFICIO TRACCIA: Francesco è un noto barbone, piuttosto violento, che vive nei pressi della stazione Tiburtina di Roma. Michela, dottoressa in legge, una sera, vero le 23.30, si trovava nei pressi della suddetta stazione per fare la spesa al supermercato notturno. Michela veniva fermata da Francesco, che la minacciava con un coltello, affinché la prima si concedesse fisicamente al secondo; Michela urlava, ma Francesco incominciava a prenderla a schiaffi, portandola in una macchina abbandonata, dove procedeva a violentarla ripetutamente. Dopo l’atto fisico, Francesco correva verso la metropolitana e si dileguava. 140 Michela, ferita visibilmente in più parti del corpo, con la forza rimasta, si recava al vicino comando dei Carabinieri, per esporre l’accaduto. I carabinieri Tizio e Caio, preposti alla ricezione delle denunce, ritenevano di non redigere verbale di quanto narrato da Michela, per l’assenza di referto medico; a nulla valevano le implorazioni di Michela. Il giorno dopo Michela si recava da un legale, manifestando l’intenzione di voler agire contro Tizio e Caio. Il candidato rediga motivato parere, tenendo presente le richieste di Michela. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario precisare che Francesco aveva compiuto il reato di violenza sessuale. Dopo, era utile chiedersi se Tizio e Caio avevano compiuto qualche reato, idoneo a giustificare un’azione giudiziaria (querela) penale. In effetti, il fatto sembra assumere rilevanza penale, con particolare riferimento all’art. 328 c.p., tanto più che il fatto narrato da Michela appariva, ictu oculi, verosimile (Michela era visibilmente ferita in più parti del corpo), con la conseguenza che non può emergere un errore sul fatto. In questo senso, allora, Tizio e Caio sembrano aver rifiutato un atto del loro ufficio, in modo non scusabile. Si precisa, poi, che verosimilmente l’art. 361 c.p. non sembra poter trovare applicazione, in quanto nel caso di specie non emerge un’omessa denuncia o ritardo all’Autorità giudiziaria, ma un rifiuto a monte di un atto che, poi, sarebbe dovuto essere comunicato all’autorità Giudiziaria; l’art. 361 c.p. riguarda il caso del mancato rispetto dell’obbligo di denuncia all’Autorità Giudiziaria, mentre l’art. 328 c.p. riguarda il rifiuto di un atto generale (nel caso di specie, denuncia da parte di un privato). Si consiglia di leggere la sentenza che segue. -E’ omissione di atti d’ufficio non accogliere una denuncia di violenza sessuale per assenza di referto medico. Corte di cassazione Sezione VI penale Sentenza n.44734 del 20 novembre 2003 OSSERVA 141 Sull'appello proposto da F. T. e D.C. F. avverso la sentenza del Tribunale di Napoli del 24 gennaio 2001 con la quale i predetti appellanti, dichiarati colpevoli del reato di cui agli artt. 110 e 328 c.p. perché, in concorso tra loro, quali sottufficiali in servizio presso la stazione dei CC di Casoria e, come tali, pubblici ufficiali, si erano indebitamente rifiutati di ricevere una denuncia di violenza carnale presentata da P.F., asserendo, tra l'altro, che "per formalizzare una denuncia di tal genere era indispensabile un referto medico", in Casoria il 26 novembre 1994, erano stati condannati, previa concessione ad entrambi delle attenuanti generiche, alla pena di mesi quattro di reclusione ciascuno, con i doppi benefici di legge, la Corte di appello di Napoli, con sentenza del 31 gennaio 2002, confermava il giudizio di primo grado, ribadendo la comprovata sussistenza del reato contestato e la sua attribuibilità ad entrambi gli imputati, la cui condotta risultava essere stata priva di "qualunque plausibile giustificazione", avuto riguardo alle circostanze e modalità dei fatti, come riferiti dalla giovane donna. Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati, deducendo, a monocordi motivi di gravame, la violazione dell'art. 606, lett. e), c.p.p. per manifesta illogicità della motivazione in ordine all'asserito carattere di "indebito rifiuto" riferito alla contestata condotta dei ricorrenti, apoditticamente attribuendo credito alle dichiarazioni della parte offesa, senza nemmeno assicurare l'acquisizione di un pur opportuno e necessario supporto documentale sanitario circa le reali condizioni psico-fisiche della denunciante. I ricorsi sono infondati e vanno rigettati, con la conseguente condanna degli imputati in solido al pagamento delle spese processuali. Ed invero, contrariamente a quanto denunciato dai ricorrenti, il contesto motivazionale dell'impugnata sentenza offre un quadro esaustivo, convincente e logico delle ragioni supportanti il confermato giudizio di colpevolezza degli imputati in ordine alla corretta contestazione di rifiuto di atti d'ufficio. Ricorre, infatti, tale reato, allorché, come nella specie, si realizza il mancato compimento di un atto rientrante nella competenza funzionale del pubblico ufficiale come è il riceversi, nella qualità di sottufficiali in servizio presso una stazione dei CC, una denuncia di fatto penalmente rilevante, e l'asserita e del tutto gratuita necessità (ovvero anche mera opportunità) di previamente munirsi di asseritamente "indispensabile" referto medico circa la possibile conferma di violenza carnale in pregiudizio della donna che intende sporgere la denuncia per tale reato, vale a configurare l'avverbio "indebitamente" inserito nel dettato legislativo, creando, in ogni caso, un ritardo alla intuibile esigenza di tempestività della denuncia in relazione all'esigenza di tempestività dell'inizio delle indagini per la migliore e fattiva identificazione dell'autore del fatto reato e conseguenti provvedimenti a suo carico, ove necessari. Né giova far richiamo alle asserite "buone intenzioni" degli imputati nell'agevolare, con l'invito rivolto alla ragazza, la migliore efficienza delle indagini, posto che resta impregiudicata, in punto di dolo generico (sufficiente alla configurabilità del reato), la consapevolezza degli imputati di agire, comunque, in violazione dei doveri loro imposti ex lege nella ricezione di denuncia di fatto reato, salvo che, dal contesto modale e temporale di tutti i fatti, non sia ragionevole e palesemente evidente dedurre che la denuncia si riferisca a fatto assolutamente inverosimile da parte di soggetto altrettanto assolutamente non affidabile in punto di sufficiente credibilità. Di qui la corretta conferma del giudizio di condanna, a prescindere dall'invocata acquisizione di certificazione sanitaria sulla "denuncianda" violenza carnale. P.Q.M. 142 Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali. TENTATIVO E REATO IMPOSSIBILE TRACCIA: Tizio, il 20 gennaio 2007, litigava violentemente con Caio, per motivi di lavoro. Il 22 gennaio 2007, Caio si recava nell’abitazione di Tizio, al fine di ucciderlo; Caio sparava un colpo di pistola diretto verso Tizio, nella convinzione che dormisse. Il giorno 23 gennaio 2007, Caio veniva a sapere dalla televisione che Tizio era già morto per infarto ancora prima di essere sparato. Caio si recava da un legale. Il candidato, premessi brevi cenni sul tentato omicidio, rediga parere favorevole a Caio POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa andava ricostruito il fatto, soffermarsi sulla circostanza che nel momento in cui Caio sparava a Tizio, costui era già morto per cause indipendenti dalla condotta di Caio stesso, per cui non vi era spazio applicativo per la sussistenza del reato di omicidio. Successivamente occorreva soffermarsi sulla configurabilità nel caso de quo del delitto di omicidio tentato. Caio pone in essere degli atti diretti in modo univoco alla realizzazione del delitto di omicidio, solo che l’evento della morte non si realizza per circostanze gnoselogicamente sopravvenute (la conoscenza da parte dell’agente della morte pregressa è successiva) ma fenomenicamente antecedenti (Tizio era già morto al momento dello sparo). Per configurare il delitto tentato l’ idoneità dell’azione potrebbe essere valutata ex ante, in base alle circostanze in cui opera l’agente e alle modalità in concreto dell’azione, a prescindere dai motivi che successivamente hanno reso l’azione inidonea. Sotto tale profilo, Caio ha posto in essere una condotta idonea ed ha manifestato una volontà inequivoca alla realizzazione dell’evento morte, e la circostanza che la morte della vittima avesse avuto luogo anteriormente per infarto costituisce un elemento non conosciuto e non conoscibile da parte di Caio, che non inficia la sequenza causale posta in essere. Tuttavia, è pur vero che Tizio era già morto prima del colpo mortale di Caio, per cui si potrebbe dire, ex post, che la condotta non era idonea ad uccidere, con la conseguenza applicativa che potrebbe trovare applicazione l’art. 49 c.p,, relativamente alla fattispecie impossibile. In questo senso, allora, anche in una logica di favor rei, Caio non dovrebbe essere punito a titolo di tentato omicidio, in quanto seppur è vero che, di massima, il tentativo va valutato ex ante, è pur vero che il principio di causalità si fonda sulla materialità del collegamento tra condotta ed evento, con la conseguenza che se tale materialità non vi è (o non vi può essere), allora, a rigore, non dovrebbe sussistere alcun reato. Diversamente argomentando, verrebbe del tutto vulnerato l’art. 49 c.p. rendendolo inutile duplicato a contrario dell’art. 56 c.p., e si punirebbe un soggetto per la sola volontà manifestata di uccidere, senza alcun riferimento all’idoneità concreta (e non astratta) a minacciare il bene-interesse giuridicamente tutelato. 143 FURTO D'USO E FORZA MAGGIORE TRACCIA: Tizio, studente universitario incensurato, un giorno, vedeva in strada un camioncino della spazzatura, lasciato incustodito. Tizio decideva di prendere il camioncino per farsi un giro, passando dalla piazza principale al fine di farsi vedere dagli amici e ridere. Mentre Tizio si allontanava dal luogo del furto veniva sorpreso dai carabinieri che, senza denuncia del proprietario del camioncino, accusavano Tizio di furto. Il candidato rediga motivato parere a favore di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE : In premessa andava ricostruito sinteticamente il fatto. Successivamente occorreva soffermarsi sulla qualificazione giuridica della condotta di Tizio: essa è riconducibile alla fattispecie di furto aggravato, ex art. 625 n.7 c.p. (perseguibile d’ufficio) oppure si tratta di un ipotesi più lieve di furto d’uso, ex art. 626, n.1 c.p. (perseguibile a querela della persona offesa) ? La prima ricostruzione (sfavorevole a Tizio) comporta la punibilità della condotta posta in essere in quanto Tizio si impossessa di un bene altrui (la camionetta per raccogliere la spazzatura), utilizzato per lo svolgimento di un pubblico servizio o, comunque, di una pubblica utilità. La circostanza dell’utilizzo del bene per finalità ludiche (fare una bravata, per vantarsene con gli amici), del resto non escluderebbe la sussistenza di un elemento essenziale del reato di furto, ossia, il profitto. Infatti, la giurisprudenza ha accolto una nozione estensiva del concetto di profitto ricomprendendovi qualsiasi vantaggio, patrimoniale e non patrimoniale, compreso il mero piacere o divertimento. Se la condotta posta in essere da Tizio è riconducibile al furto aggravato dall’utilizzo di beni lato sensu pubblicistici, allora il reato è perseguibile d’ufficio senza necessità di querela da parte del proprietario del bene sottratto (vedi art. 624, comma 3, c.p). Ma le modalità concrete di svolgimento della vicenda suggeriscono una diversa ricostruzione del fatto (più favorevole a Tizio). La condotta dell’agente, proprio perché legata all’intenzione di fare una “bravata”, manifesta, implicitamente, l’intenzione di fare uso momentaneo del bene illegittimamente sottratto (per farsi notare dagli amici), senza la volontà di appropriarsi definitivamente del bene, che, tra l’altro, per le caratteristiche intrinseche che presenta non può essere adoperato per scopi diversi rispetto alla stessa raccolta di rifiuti e, quindi, non è suscettibili di una apprensione in via definitiva, per finalità diverse. Si tratterebbe in definitiva di una ipotesi di furto d’uso. Tale fattispecie, però, si configura quando il soggetto agente, non solo, agisce allo scopo di fare un uso momentaneo della cosa, ma anche provvede alla immediata restituzione del medesimo. In tema di restituzione del bene momentaneamente sottratto l’art. 626, n. 1, c.p. è stato oggetto di una sentenza di parziale illegittimità emessa dalla Corte Costituzionale, la quale ha affermato che la fattispecie del furto d’uso può configurarsi anche quando la immediata restituzione del bene non ha avuto luogo per circostanze non imputabili all’agente, riconducibili a caso fortuito o forza maggiore. 144 E’ possibile allora affermare che il fatto che Tizio sia stato fermato dai carabinieri costituisce una ipotesi di forza maggiore, che ha reso impossibile la restituzione del camioncino della spazzatura? Invero, la giurisprudenza ritiene che la restituzione possa ritenersi impedita per l’intervento delle forze dell’ordine o di un terzo, costituendo tali eventi ipotesi di forza maggiore, ma precisa che l’impedimento della restituzione deve, comunque, inserirsi in un contesto logico-temporale da cui desumere, con certezza o verosimiglianza, l’effettiva restituzione. Nel caso in esame tale elemento, pure, sembra desumersi dalla natura del bene oggetto di apprensione materiale da parte di Tizio, in quanto l’utilizzo della camionetta della spazzatura era legato all’uso momentaneo del bene per poi restituirlo, non essendo ipotizzabile un uso personale del bene in oggetto, diverso dalla raccolta della spazzatura stessa. Così argomentando, la condotta di Tizio configurerebbe un’ipotesi di furto d’uso, fattispecie perseguibile solo a querela della persona offesa, querela che nel caso in esame non è stata presentata. DOLO ALTERNATIVO E TENTATIVO TRACCIA: L’onorevole Tizio Mix decideva di uccidere uno degli invitati alla festa del collega parlamentare Caio Max, al fine di creare uno scandalo ed indebolire l’immagine di quest’ultimo. Così, Tizio Mix, il giorno della festa voluta fortemente da Caio Max, collocava una caramella avvelenata sopra un vassoio, confondendola con altre 15 caramelle. I camerieri non si accorgevano di alcunché. Marcello Caius prendeva in mano la caramella avvelenata per assaporarla, ma veniva chiamato da altre persone e, furtivamente, la gettava a terra senza farsi vedere dai colleghi. La caramella avvelenata andava persa, senza che nessun invitato l’avesse ingerita. Il candidato affronti la questione giuridica posta relativamente alla posizione giuridica di Tizio Mix. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era possibile chiedersi che fattispecie sembra aver integrato Tizio Mix. Indubbiamente, il reato di omicidio non si è verificato, in quanto nessuno degli invitati alla festa voluta da Caio Max decede; può sussistere, allora, il reato tentato (nella specie tentato omicidio)? Sussistono, invero, atti diretti in modo non equivoco a commettere il delitto di omicidio, desumibili dal fatto che Tizio Mix collocava una caramella avvelenata al fine di uccidere qualcuno (il destinatario è indeterminato, ma ristretto ad un gruppo) degli invitati. Dal punto di vista della condotta, quindi, sembra poter sussistere il tentato omicidio. Dal punto di vista soggettivo, potrebbe sussistere il dolo eventuale. A riguardo, occorre ricordare che tale tipologia di dolo si realizza, secondo l’orientamento prevalente, quando un soggetto agisce accettando il rischio della verificazione di un reato, ma è dubbio se tale elemento psicologico sia compatibile con il delitto tentato. Secondo una certa impostazione, gli atti diretti in modo non equivoco avrebbero una portata essenzialmente oggettiva, riferendosi al nesso di causalità, con la conseguenza logico-deduttiva che, in quest’ottica, nulla osterebbe alla compatibilità del dolo eventuale (dolo indiretto) con il tentativo, ex art. 56 c.p. Secondo altra tesi, invece, sarebbe incompatibile il tentativo con il dolo eventuale, in quanto il legislatore, ex art. 56 c.p., riferendosi agli atti diretti in modo non equivoco, sembrerebbe richiedere 145 la necessaria sussistenza di un dolo diretto, con la conseguenza che il dolo indiretto, come, appunto, quello eventuale, escluderebbe la configurabilità della fattispecie di delitto tentato. Invero, nel caso di specie non sembra sussistere l’elemento psicologico del dolo eventuale, quanto piuttosto del dolo diretto (o, al più, dolo alternativo), in quanto Tizio Mix vuole (intenzionalmente) cagionare una morte, cioè vuole esattamente integrare gli estremi del delitto di cui all’art. 575 c.p., seppur è indifferente il soggetto passivo del reato. In questo senso, allora, il dolo è diretto verso l’evento (“Tizio Mix decideva di uccidere”), per cui ben potrebbe sussistere la fattispecie tentata, ex art. 56 c.p. e art. 575 c.p., con la conseguenza dell’irrilevanza, rispetto al caso concreto, dell’accoglimento della tesi positiva o negativa in tema di compatibilità tra dolo eventuale e tentativo. Sotto tali profili ricostruttivi, pertanto, Tizio Mix potrebbe essere chiamato a rispondere del reato di tentato omicidio. Si consiglia di leggere la sentenza che segue. -Vi sono più tipi di dolo: -dolo eventuale, in cui vi è la sola accettazione del rischio dell'evento -dolo diretto in cui l'evento è accettato perché altamente probabile o certo -dolo intenzionale quando l'evento è perseguito come scopo finale. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE PENALI SENTENZA 14.02.1996 n° 3571 Fatto Con sentenza della Corte di Appello di Milano del 20 maggio 1995, in parziale riforma di decisione del Tribunale di quella città del 14 novembre 1994, M. F. è stato condannato alla pena di anni sei e giorni venti di reclusione per i delitti di tentata rapina aggravata (artt. 56, 628 co. 1 e 3 cod. pen.), tentato omicidio aggravato artt. 56, 575, 61 n. 2 cod. pen.) e detenzione e porto illegale di pistola semiautomatica Beretta cal. 7,65 con matricola abrasa, tutti ritenuti in continuazione e commessi in concorso con certo T. M. . Hanno ritenuto concordemente i giudici di merito che il M. e il T. il 23 giugno 1994, si sono introdotti in una oreficeria di Milano per compiere una rapina e sono stati costretti alla fuga dalla reazione delle vittime e da operai che lavoravano nei pressi, intervenuti in soccorso. Inseguiti per la strada, il M. , che impugnava una pistola e che aveva esploso altri colpi, si è rivoltato e, dalla distanza di 4 - 5 metri, con il braccio ripiegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato un colpo verso il busto di certo P. C. , che è riuscito a scansarlo, mentre il secondo colpo si è inceppato. 146 La Corte di Milano ha ritenuto il fatto integrante il tentato omicidio, ravvisando la sussistenza dell'elemento soggettivo "quantomeno a titolo di dolo eventuale". Il solo M. ha proposto ricorso per Cassazione deducendo il vizio di violazione di legge perché il dolo eventuale non è configurabile nel delitto tentato. La seconda Sezione della Corte, rilevando che, nonostante l'intervento delle Sezioni Unite (18 gennaio 1983, n. 6309, Basile, 159.825), persisteva contrasto sul punto nelle decisioni delle Sezioni Semplici, con ordinanza del 17 novembre 1995 ha rimesso la decisione del ricorso alle Sezioni Unite. Diritto Il ricorso, con il quale si sostiene non essere configurabile il tentativo con dolo eventuale, deve essere rigettato perché infondato. È infondato perché nella specie sussiste il dolo diretto e non quello eventuale; cade quindi la base stessa del ricorso e non può essere riesaminata la questione, già risolta nel senso della compatibilità da queste Sezioni Unite (18 giugno 1983, n. 6309, Basile, 159.825), con decisione non condivisa talvolta dalle Sezioni Semplici, talché ciò ha indotto la Seconda Sezione della Corte a riproporre la questione stessa. Già le Sezioni Unite, investite del problema in fattispecie analoga (12 ottobre 1993, n. 748, Cassata, 195.804), hanno chiarito quali siano i livelli crescenti della volontà dolosa, che va dal dolo eventuale, in cui vi è la sola accettazione del rischio dell'evento, al dolo diretto in cui l'evento è accettato perché altamente probabile o certo, al dolo intenzionale quando l'evento è perseguito come scopo finale. In proposito conviene ulteriormente precisare, perché non prosegua una errata tendenza giurisprudenziale ad estendere il dolo eventuale "per superare le difficoltà probatorie che talora si riscontrano nell'accertamento della..... volontà omicida" (cfr. Sez. Un. 15 dicembre 1992, Cutruzzolà) o per semplificare la motivazione sul dolo, che tale forma di dolo sussiste quando l'agente, ponendo in essere una condotta diretta ad altri scopi, si rappresenti la concreta possibilità del verificarsi di ulteriori conseguenze della propria condotta, e ciononostante agisca accettando il rischio di cagionarle. Quando invece si entra nel campo della probabilità, specie quando la realizzazione del fatto si presenti all'agente come altamente probabile - e sarà il concreto accadimento stesso a segnare la linea di demarcazione - non si può ritenere che il colpevole si limiti ad accettare il rischio dell'evento, ma accettando l'evento lo vuole, sicché versa in dolo diretto e non eventuale (cfr., limitatamente alla distinzione tra dolo eventuale e alternativo, Sez. Un., 6 dicembre 1991, n. 3428, Casu, 189.405). Nella specie, risulta dalla sentenza della Corte di Milano che il ricorrente M. ha commesso il tentato omicidio dell'operaio P. , che lo inseguiva, con dolo diretto. Già in precedenza il M. , inseguito, si era voltato ed aveva sparato prendendo la mira verso terra alla destra di due inseguitori. Quasi raggiunto dal P. , si è rivoltato e da 4 - 5 metri, con il braccio 147 piegato e l'avambraccio parallelo al suolo, ha sparato verso il busto dell'inseguitore che è riuscito a scansare il colpo: il secondo colpo si è inceppato. La dinamica dei fatti rende chiaro che il M. aveva deciso di evitare comunque la cattura, anche uccidendo l'inseguitore, La micidialità dell'arma, la voluta direzione dei colpi verso parte vitale del corpo dello inseguitore, la distanza ravvicinata facevano apparire estremamente probabile l'uccisione della persona contro la quale l'azione era diretta, che nella specie si è fortunosamente salvata. Essendo l'evento altamente probabile il M. non si è limitato ad accettare il rischio del suo verificarsi, ma l'ha voluto. Pertanto, la situazione di fatto quale ritenuta dalla corte di merito è di dolo diretto e l'errore di diritto in cui è incorsa nello specificare l'elemento soggettivo del tentativo di omicidio in esame "quantomeno a titolo di dolo eventuale", deve essere corretto senza rinvio. Trattandosi di dolo diretto, il ricorso del M. , basato - come già notato - sulla non configurabilità di un tentativo con dolo eventuale, deve essere rigettato con conseguente sua condanna al pagamento delle spese del procedimento. P.Q.M Visto l'art. 616 cod. proc. pen.; Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Roma, 14 febbraio 1996. DEPOSITATA IN CANCELLERIA, 12 APR. 1996 OMISSIONE DI REFERTO TRACCIA: Tizio è operaio, da diversi anni, della società Frixibel. Un giorno accadeva che a Tizio cadesse sul piede una chiave inglese, a causa di un cedimento strutturale del piano superiore; più chiaramente, un cedimento strutturale di un segmento di struttura metallica, posizionata sopra Tizio, causava, improvvisamente, una pendenza idonea a far scivolare verso il basso una chiave inglese che finiva sul piede di Tizio, fratturandolo. Tra un piano e l’altro della struttura metallica non erano state predisposte le opportune misure di sicurezza. Tizio si recava dal dott. Bianchi per farsi controllare ed ingessare il piede; Tizio faceva presente a Bianchi che il fatto era avvenuto mentre era sul luogo di lavoro senza precisare altro. Il dott. Bianchi procedeva regolarmente alla visita, senza procedere a riferirne all’Autorità 148 giudiziaria. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica del dott. Bianchi. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA PENALE 6BIS In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario chiedersi se il dott. Bianchi poteva aver commesso il reato di omissione di referto, ex art. 365 c.p. Tale reato sussiste quando il soggetto attivo omette di dare comunicazione all’Autorità giudiziaria di un fatto che presenta i caratteri di un delitto perseguibile d’ufficio; inoltre, l’obbligo grava sul sanitario (soggetto attivo) solo se l’eventuale comunicazione non rischi di esporre il soggetto assistito a procedimento penale: semplificando, se l’assistito è soggetto attivo di qualche reato (perseguibile d’ufficio) non vi è l’obbligo di comunicazione all’Autorità giudiziaria, mentre se l’assistito è soggetto passivo sussiste l’obbligo di comunicazione. Il fatto accaduto a Tizio sembra poter essere inquadrato nell’art. 437 c.p. oppure nell’art. 451 c.p., ovvero in reati perseguibili d’ufficio, con la conseguenza logico-deduttiva che il dott. Bianchi potrebbe rischiare un’incriminazione per omissione di referto, ex art. 365 c.p., per non aver comunicato all’Autorità la sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio. Tuttavia, vi è da precisare che, nel caso di specie, ben potrebbe trovare applicazione l’art. 47 c.p., con la conseguenza di ritenere non punibile il dott. Bianchi (l’art. 365 c.p. richiede la sussistenza del dolo che, nel caso di specie, mancherebbe, ex art. 47 c.p.). Sotto tale profilo, pertanto, il dott. Bianchi potrebbe non aver integrato gli estremi della fattispecie di cui all’art. 365 c.p. RIFIUTO DI OBBEDIENZA TRACCIA: Il candidato esamini la questione giuridica prospettata di seguito. Tizio, appartenente al corpo di Polizia Municipale con la qualifica di istruttore di vigilanza e senza alcun potere di coercizione, riceveva dal suo superiore Caio l’ordine di inoltrare all’Autorità Giudiziaria un’annotazione di servizio, redatta dall’agente di Polizia Giudiziaria Sempronio dalla quale emergevano ipotesi di responsabilità penale. Tizio si rifiutava di eseguire l’ordine. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, il problema posto andava inquadrato nell’ambito dell’art. 329 c.p.. Tizio ha compiuto il reato di cui all’art. 329 c.p.? Dal punto di vista rigorosamente oggettivo sembrerebbe poter sussistere un rifiuto di obbedienza da parte di un militare o agente della forza pubblica, ma Tizio rientra in queste ultime qualificazioni soggettive (idonee a perimetrare l’applicabilità della disposizione de quo)? Tizio è militare o agente della forza pubblica? Sembrerebbe potersi dire, ictu oculi, che la polizia municipale (Tizio) sia inquadrabile nella categoria degli agenti di forza pubblica, ma è davvero così? 149 Invero, il concetto di forza pubblica sembra richiamare il potere di coercizione, nel senso, cioè, che affinché possa sussistere la forza pubblica vi deve essere potere di coercizione; diversamente, lo stesso concetto di “forza” pubblica verrebbe ad essere vulnerato. Sotto tale profilo, pertanto, Tizio potrebbe non rispondere del reato di cui all’art. 329 c.p., per l’assenza della richiesta condizione soggettiva. Ne deriva l’irrilevanza penale di ogni forma di omissione o rifiuto che riguardi l’espletamento di un’attività meramente amministrativa quale è, nel caso di specie, quella svolta da Tizio. Si consiglia di leggere, Di Martino, Rifiuto o ritardo di obbedienza da parte di militare o agente della forza pubblica, in AA.VV., Reati contro la pubblica amministrazione, Torino, 2004, pag. 300. Altresì, si consiglia di leggere, Mella, Rifiuto di obbedienza, in Studium Iuris, 1/2007, pag. 99. RIDUZIONE IN SCHIAVITU’ TRACCIA: Tizio e Tizia acquistavano, previa valutazione dell’aspetto fisico, una donna moldava (Cosha) al prezzo di euro 1.000.000. Successivamente, Tizio e Tizia introducevano, in modo clandestino, in Italia la donna moldava, privandola della libertà di movimento, segregandola in un appartamento e assoggettandola a continua e diretta sorveglianza. Cosha, la donna moldava, decideva di prostituirsi per riscattare il debito verso Tizio e Tizia, che l’avevano comprata per 1.000.000 euro, senza subire alcuna costrizione in tal senso. Il candidato affronti la questione giuridica proposta, soffermandosi sulla portata applicativa dell’art. 600 c.p., come novellato nel 2003. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era necessario porre l’attenzione sull’art. 600 c.p., che viene ritenuto, secondo l’orientamento più recente, reato di evento a condotta vincolata. Nel caso di specie, Tizio e Tizia sembrano aver integrato la prima parte della fattispecie, ex art. 600 c.p., ma non la seconda parte, in quanto la loro condotta non ha costretto il soggetto passivo (Cosha) a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o, comunque, a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento; ne segue che potrebbe essere dubbio che sussistano gli estremi applicativi della fattispecie de qua. Ai fini dell’art. 600 c.p., come novellato, è necessaria la costrizione a prestazioni lavorative o sessuali o accattonaggio o prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, tanto più che si tratta di un reato di evento, oppure è sufficiente l’integrazione della prima parte della disposizione? Secondo una prima impostazione, non sarebbe necessario che venga integrata anche la seconda parte della norma, in quanto l’assenza di un punto, si dice, dal punto di vista letterale, starebbe a significare che la condotta deve essere integrata nella sua totalità, comprendendo anche la costrizione sessuale (nel caso di specie), con la conseguenza applicativa che Tizio e Tizia potrebbero non subire alcuna condanna per il reato di cui all’art. 600 c.p. 150 Secondo altra impostazione (giurisprudenziale) più recente, il problema posto andrebbe risolto in termini diversi, in quanto il solo evento idoneo ad integrare la fattispecie dell’esercizio di poteri corrispondenti a quelli proprietari, senza far assumere rilievo alla costrizione sessuale, che sarebbe, invece, una semplice conseguenza dell’evento. In altri termini, si dice, la costrizione a prestazioni sessuali (ovvero le altre previste all’art. 600 c.p.) non costituisce un’ulteriore condotta che l’autore deve porre in essere con violenza o minaccia, bensì effetto della situazione di assoggettamento che costituisce l’evento dell’azione penalmente sanzionata. Accogliendo tale ricostruzione, pertanto, Tizio e Tizia ben potranno essere ritenuti responsabili del reato di riduzione in schiavitù, seppur non abbiano costretto alla prostituzione Cosha, per averla comprata e tenuta segregata in un appartamento, avendo in concreto esercitato poteri corrispondenti a quelli proprietari. Si consiglia di leggere, Musacchio, La nuova normativa penale contro la riduzione in schiavitù e la tratta delle persone, in Giur. It., 2004, III, pag. 2446; Paesano, Il reato di riduzione in schiavitù, tra vecchia e nuova disciplina, in Cass. Pen. 2005, pag. 791. Si consiglia di leggere la sentenza che segue. -La riduzione in schiavitù è un reato di evento a forma vincolata, in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità. Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Penale, sentenza n.3368/2005 (Presidente: G. Savignano; Relatore: P: Onorato) LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE III PENALE SENTENZA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ordinanza del 6/10/2004 il Tribunale di Milano ha confermato la misura cautelare della custodia in carcere disposta il 2/9/2004 dal gip dello stesso tribunale contro F. C. G. per i seguenti reati: reclutamento, induzione e agevolazione della prostituzione, commesso con violenza (artt. 3, nn. 4 e 5, e 4 n. 1legge 75/1958); riduzione in stato di schiavitù e servitù, commessa in danno di minore di anni diciotto e a scopo di sfruttamento della prostituzione (art. 600, comma 1, 2 e 3, c.p.); favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione, commesso con violenza e minaccia in danno di più persone (artt. 3 n. 8 e 4 nn. 1 e 7 legge 75/1958). Ha osservato il Tribunale che risultavano gravi indizi di colpevolezza sulla base delle precise e coerenti dichiarazioni delle persone offese, che si confermavano a vicenda ed erano riscontrate anche dai risultati dei servizi di osservazione svolti dalla polizia giudiziaria e dalle dichiarazioni rese da tale D. S., che aveva aiutato le giovani M. e P. a sottrarsi al controllo dei loro sfruttatori. 151 In particolare, per quanto riguarda il delitto di riduzione in schiavitù di cui all’art. 600 c.p., recentemente riformulato ad opera della legge 11/8/2003 n. 228 [1], il giudice del riesame ha messo in evidenza che la riduzione i uno stato di soggezione continuativa, prevista e punita dalla norma, emergeva chiaramente dalle dichiarazioni rese dalle suddette M. e P., le quali avevano descritto la sistematica attività di violenza e di minaccia perpetrata dal G. al fine di costringerle ad esercitare la prostituzione e approfittando del loro stato di necessità, derivante dall’essere clandestine in Italia e senza passaporto, sottratto loro dal medesimo G. appena erano giunte in territorio italiano. Il G. ha proposto personalmente ricorso per cassazione, deducendo due motivi a sostegno. Col primo motivo lamenta una motivazione apparente in ordine alla sussistenza del delitto di cui all’art. 600 c.p., giacché il Tribunale sul punto ha omesso di indicare gli elementi fattuali in base ai quali ha ritenuto integrato il delitto medesimo; con il secondo motivo denuncia inosservanza o erronea applicazione dell’art. 600 c.p. Premesso che la norma richiede una interpretazione rigorosa, sostiene che lo stato di necessità previsto dal secondo comma del predetto articolo va inteso nel senso indicato dall’art. 54 c.p., mentre il Tribunale lo ha fatto scorrettamente coincidere con lo stato di straniero clandestino. MOTIVI DELLA DECISIONE La legge 11/8/2003 n. 228, recante misure contro la tratta delle persone, col suo art. 1, ha integralmente ridefinito il reato di riduzione in schiavitù, sostituendo il previgente art. 600 c.p. con il seguente art. 600 (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù): chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque a prestazioni che ne comportino lo sfruttamento, è punito con la reclusione da otto a venti anni. La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno abuso di autorità o approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti di cui al primo comma sono commessi in danno di minore degli anni diciotto o sono diretti allo sfruttamento della prostituzione o al fine di sottoporre la persona offesa al prelievo di organi. Il legislatore, nell’evidente intento di conferire determinatezza alla fattispecie abrogata, che puniva genericamente chiunque riduceva una persona in schiavitù o in una condizione analoga alla schiavitù, ha descritto analiticamente la condotta materiale del reato, configurando un delitto a fattispecie plurima, che è integrato alternativamente: dalla condotta di chi esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario: è questo un reato di mera condotta, parametrato sulla nozione di schiavitù prevista dall’art. 1 della Convenzione di Ginevra del 25/10/1926, ratificata con r.d. 26/4/1928 n. 1723, secondo il quale la schiavitù è lo stato o la condizione di un individuo sui quali si esercitano gli attributi del diritto di proprietà o alcuni di essi; dalla condotta di chi riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative (es. servitù per debiti) o a prestazioni sessuali, o all’accattonaggio o comunque prestazioni che ne comportino lo sfruttamento (es. servitù della gleba): si tratta in questo caso di un reato di evento a forma vincolata, in cui l’evento, consistente nello stato di soggezione in cui la vittima è costretta a svolgere determinate prestazioni, deve essere ottenuto dall’agente, alternativamente, mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità 152 ovvero approfittamento di una situazione di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità. Il legislatore del 2003, nel definire l’evento, riprende in parte la nozione di servitù per debiti quella di servaggio o servitù della gleba definite rispettivamente nelle lettere a) e b) dell’art. 1 della Convenzione supplementare di Ginevra del 7/9/1965, ratificata con lege 20/12/1957 n. 1304. Aggiunge però l’accattonaggio e le prestazioni sessuali. Ma soprattutto richiede una condotta del soggetto attivo qualificata da minaccia, violenza, inganno, abuso di autorità, o approfittamento di situazione di inferiorità o di necessità. Lo stato di necessità come sopra previsto non è una causa di giustificazione del reato, bensì un elemento della fattispecie, e più precisamente un presupposto della condotta approfittatrice dell’agente. Perciò, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente, la nozione di necessità non corrisponde a quella precisata nell’art. 54 c.p., ma è piuttosto paragonabile con la nozione di bisogno di cui all’art. 1448 cod. civ. e va intesa come qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale, adatta a condizionare la volontà della persona. Infatti, come nel caso di rescissione del contratto per lesione, nell’ipotesi di riduzione in schiavitù di cui si tratta si verifica una sproporzione tra la prestazione della vittima e quella del soggetto attivo, che deriva dallo stato di bisogno della prima di cui il secondo approfitti per trarne vantaggio (si pensi proprio al caso di specie in cui l’imputato ospitava nella sua casa le donne immigrate clandestinamente e, approfittando del loro stato di precarietà, le costringeva a prostituirsi per il suo vantaggio). Tanto premesso, va respinto il secondo motivo di ricorso (n. 2.2), giacché correttamente il tribunale del riesame ha ritenuto che le straniere M. e P. versavano in uno stato di necessità, in quanto immigrate clandestine, private per giunta del passaporto. Di qui i gravi indizi di colpevolezza a carico del G., il quale le costringeva alla prostituzione approfittando appunto del loro stato di necessità, ma anche sistematicamente percuotendole e minacciandole (anche di morte). Anche la prima censura appare chiaramente infondata, giacché l’ordinanza impugnata ha puntualmente richiamato le dichiarazioni delle persone offese, i risultati dei servizi di osservazione della polizia giudiziaria e infine le dichiarazioni di tale D. S., da cui risultavano in linea di fatto i comportamenti, di minaccia e violenza, tenuti dal G. per costringere le donne alla prostituzione. Il ricorso va quindi respinto. Consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. Considerato il contenuto dell’impugnazione, non si ritiene di comminare anche la sanzione pecuniaria a favore della cassa delle ammende. PQM 153 La Corte Suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Ai sensi dell’art. 94, comma 1 ter, disp. att. c.p.p. manda alla cancelleria per trasmettere copia della sentenza al direttore dell’istituto penitenziario territorialmente competente. SUCCESSIONE LEGGI PENALI TRACCIA: Tizio nel 2002 veniva sorpreso da Carabinieri alla guida della propria auto in stato di ebbrezza. La vicenda processuale veniva portata innanzi al Giudice di Pace di Firenze; nel 2003, l’art. 186 del codice della strada, come noto, veniva novellato, prevedendo, tra l’altro, una competenza diversa. Il candidato, premessi cenni sulle teorie in tema di successioni di leggi nel tempo, affronti la questione giuridica proposta, soffermandosi, in particolare, sul problema dell’applicabilità dell’art. 2 c.p. alle norme processuali, tenendo presente il principio del favor rei e quello della perpetuatio jurisdictionis. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era necessario esporre le varie tesi in tema di successione di leggi penali nel tempo. L’art. 2 c.p. sancisce il principio dell’irretroattività della legge penale, nonché quello della retroattività della legge più favorevole. In particolare, l’art. 2 comma II c.p. sancisce che se vi è un’abolitio criminis il fatto non costituirà più reato; se, invece, vi è una modifica della legge (ex art. 2 comma III c.p.), tale che la legge posteriore è diversa, potrà trovare applicazione solo quella più favorevole al reo (non si ha, in questo caso, abolitio criminis, ma mera successione di leggi penali nel tempo). Nella realtà non è sempre facile distinguere l’ipotesi di abolitio criminis da quella di successione di leggi penali nel tempo (modifica). La dottrina ha elaborato, sul punto, diverse tesi. Secondo una prima tesi, occorre valutare se il fatto concreto è sussumibile sia nella nuova che nella previdente normativa ed, in caso positivo, vi sarebbe la continuità del tipo di illecito, per cui non vi sarebbe abolitio criminis, ma successione di leggi penali nel tempo, con conseguente applicabilità della legge più favorevole (da vedere tendenzialmente in concreto). Secondo una seconda ricostruzione, andrebbe valutato il disvalore penale del fatto, sotto il profilo del bene protetto e della modalità di aggressione che, se permangono, sia nella nuova che nella vecchia disciplina vi sarà continuità del tipo di illecito. Secondo una terza tesi, invece, bisognerebbe valutare il nomen iuris, nel senso che alla modifica del nomen iuris farà capo un’abolitio criminis, mentre se il nomen iuris non viene modificato, allora, vi sarà continuità del tipo di illecito. Il problema che, tuttavia, si pone nel caso di specie è quello di capire se l’art. 2 c.p. possa trovare applicazione anche per le norme processuali, tanto più che in senso positivo sembrerebbe deporre il principio del favor rei ed in senso negativo sembrerebbe deporre il principio della perpetuatio jurisdictionis. Invero, il principio della perpetuatio jurisdictionis (desumibile anche dall’art. 11 della legge in generale) non andrebbe inteso in senso assoluto tanto che, più volte, è lo stesso legislatore che 154 prevede delle forme di deroga a tale principio, non violando, tra l’altro, l’art. 25 comma 2 Cost. (che si riferisce a norme penali che prevedono nuove fattispecie incriminatrici o che aggravano quelle esistenti); in questo senso, allora, una deroga al principio sopra detto ben potrebbe essere giustificato nella misura in cui si tratti di norme più favorevoli, estendendo l’ambito applicativo dell’art. 2 c.p. anche alle norme processuali. CONCORSO OMISSIVO IN REATO COMMISSIVO Tizio è proprietario del fondo Tuscolano, esteso per diversi ettari in una zona industriale abbandonata. Un giorno, Tizio si accorge che da diversi anni sul proprio fondo, che non visitava da parecchio tempo, sistematicamente Caio gettava rifiuti, commettendo il reato di cui all’art. 51 del d.lvo. 22/1997 (decreto Ronchi). Tizio si preoccupava della propria posizione giuridica, anche perché non aveva recintato il fondo. Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere sulla questione giuridica prospettata. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era necessario chiedersi se Tizio possa aver commesso il reato di concorso omissivo in reato commissivo con Caio. Invero, affinché Tizio possa entrare in concorso con Caio avrebbe dovuto agire con dolo ed essere obbligato a recintare il fondo; non sussistendo, in particolare, tale ultimo obbligo, alcun reato potrà essere imputato a Tizio, perché il reato omissivo si configura solo se vi è un obbligo giuridico di attivarsi, con il corollario che, mancando questo, il reato non si configurerà. Si consiglia di leggere la sentenza che segue. -Il proprietario del fondo non risponde a titolo di concorso omissivo nell’altrui reato ex art. 51, comma 2, D.Lgs. n. 22/1997 di abbandono o deposito incontrollato di rifiuti sul medesimo fondo, neanche quando ne abbia consapevolezza. Ed invero, in omaggio al principio di legalità, la condotta omissiva può dar luogo ad ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento, non gravante sul proprietario per i reati da altri commessi sul suo fondo. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - SENTENZA 6 febbraio 2007, n. 137 - Pres. Lupoest. Teresi 155 SENTENZA Con sentenza in data 26 settembre 2005 il Tribunale di Rimini condannava M.E. alla pena dell’ammenda per avere, quale legale rappresentate dell’Immobiliare Green di C. G. e C. Sas, consentito, omettendo la necessaria incombenza di recingere, vigilare e dissuadere utilizzatori clandestini del terreno esteso circa 20.000 metri quadrati, che lo stesso divenisse deposito incontrollato di circa 450 tonnellate di rifiuti urbani e speciali non pericolosi. Rilevava il Tribunale che il deposito incontrollato era stato realizzato per l’incompleta recinzione del terreno; che l’imputato, quale legale rappresentante della società, pur consapevole dello stato di degrado dell’area, aveva tollerato la protrazione di tale situazione consentendo "con la sua condotta dolosamente omissiva (essendosi intenzionalmente disinteressato delle sorti dell’azienda)", la consumazione dell’illecito ravvisabile nella condotta omissiva di colui che riveste una posizione di garanzia. Proponeva ricorso per cassazione l’imputato denunciando violazione di legge; mancanza o illogicità della motivazione in ordine alla configurabilità del reato perché la condotta omissiva del proprietario di un terreno, in relazione alla realizzazione sullo stesso di un deposito incontrollato di rifiuti da parte di terzi, integra concorso nel reato di cui all’articolo 51, comma 2, D.Lgs 22/1997 soltanto ove sussista l’obbligo giuridico d’impedire l’evento. Inoltre, poiché i reati di discarica abusiva e di non autorizzato stoccaggio di rifiuti possono realizzarsi solo in forma commissiva, una condotta omissiva (negligente) non può integrare il reato contestato non gravando sul proprietario del terreno alcun obbligo di recinzione né d’immediata eliminazione dei rifiuti abbandonati da altri. Chiedeva l’annullamento della sentenza. Il ricorso è fondato perché "in tema di gestione di rifiuti, la consapevolezza del proprietario del fondo dell’abbandono sul medesimo di rifiuti da parte di terzi non è sufficiente ad integrare il concorso nel reato di cui all’articolo 51, comma 2, D.Lgs. 22/1997 (abbandono o deposito incontrollato di rifiuti), atteso che la condotta omissiva può dar luogo ad ipotesi di responsabilità solo nel caso in cui ricorrano gli estremi del comma 2 dell’articolo 40 C.p., ovvero sussista l’obbligo giuridico di impedire l’evento" (Cassazione, Sezione terza, 32158/2002, Ponzio, rv. 222420). Quindi, anche in materia ambientale un dato comportamento omissivo acquista il connotato dell’antigiuridicità solamente in funzione di una norma che imponga al soggetto di attivarsi per impedire l’evento naturalistico di lesione dell’interesse tutelato. Tale posizione è configurabile nei confronti del produttore dei rifiuti il quale è tenuto a vigilare che propri dipendenti o altri sottoposti o delegati osservino le norme ambientalistiche, dovendosi intendere produttore di rifiuti, ai sensi dell’articolo 6, comma 1, lettera b), del D.Lgs 22/97, non soltanto il soggetto dalla cui attività materiale sia derivata la produzione dei rifiuti, ma anche il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione ed a carico del quale sia quindi configurabile, quale titolare di una posizione definibile come di garanzia, l’obbligo, sancito dall’articolo 10, comma 1, del citato decreto, di provvedere allo smaltimento dei detti rifiuti nei tempi medi prescritti. 156 Nella specie, non è stato ravvisato concorso nel reato, potendosi, quello esterno materiale, realizzare con condotta commissiva mediante cogestione di fatto o morale (istigazione, rafforzamento, agevolazione) ovvero con condotta omissiva - in linea teorica - ma sempre che il non agere s’innesti in uno specifico obbligo giuridico di impedire l’evento (Cassazione, Sezione prima, 12431/1995, Insinna, RV. 203332], sicché erroneamente è stato ritenuto che integri il reato contestato la condotta del proprietario di un terreno che abbia omesso d’impedire che sul proprio fondo non recintato terzi realizzassero un deposito incontrollato di rifiuti. Il ricorso, pertanto, deve essere annullato senza rinvio. P.Q.M. La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata per non avere l’imputato commesso il fatto. Così deciso alla c.c. 16 novembre 2006. CONCORSO DI REATI E CONCORSO APPARENTE DI NORME TRACCIA: Tizio acquista per 10.000,00 euro una donna polacca. A seguito dell’acquisto la porta in Italia, rinchiudendola per diversi giorni in una stalla. Successivamente, Tizio obbliga la donna polacca alla prostituzione. Il candidato, premessi brevi cenni sul concorso di reati e sul reato progressivo, rediga motivato parere sulla questione giuridica prospettata. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario accennare al problema del concorso di reati ed al reato progressivo. In generale, è possibile dire che si hanno più reati e non un unico reato, quando la condotta o le condotte integrano gli estremi applicativi di più fattispecie penali incriminatrici, non trovando applicazione né l’art. 15 c.p. e neanche l’art. 84 c.p. In altri casi, invece, il concorso di norme è meramente apparente, nel senso, cioè, che solo apparentemente vi sono più reati e norme idonee ad inquadrare un caso concreto, mentre, invero, è applicabile una sola norma incriminatrice. Per comprendere a pieno se si tratti di concorso apparente di reati o concorso di reati, secondo la giurisprudenza più datata era necessario riferirsi al solo principio di specialità, ex art. 15 c.p., da intendersi in astratto (il concetto di stessa materia andava individuato nell’ambito del medesimo bene-interesse protetto, da individuare in base alla collocazione sistematica all’interno del codice voluta dal legislatore), mentre secondo la giurisprudenza più recente, accogliendo le istanze della dottrina, è possibile anche utilizzare il criterio della consunzione, anche al fine di non rendere l’art. 84 c.p. un inutile duplicato, al contrario, dell’art. 15 c.p., nonché al fine di rispettare il principio del ne bis in idem sostanziale. 157 In questo contesto, allora, ben si colloca il reato progressivo che è una species del reato complesso, ex art. 84 c.p. Il reato progressivo, al pari del reato complesso, contiene come elemento costitutivo un reato minore, in modo tale che la commissione del maggiore richiede (necessariamente o eventualmente) il passaggio attraverso la commissione del minore. La ragione della differente denominazione, come è stato acutamente osservato, starebbe in ciò: se, alla stregua di un’analisi attenta al dato strutturale, si conclude per la qualificazione dell’attività criminosa di tipo progressivo in termini di reato complesso, un esame attento, invece, al divenire dell’illecito penale induce a cogliere le peculiarità tipicamente proprie del reato progressivo, in specie il passaggio da un minus ad un maius; sotto tale profilo, allora, si comprende come il reato progressivo, pur inquadrandosi nell’ambito dei reati complessi, ha una sua peculiarità dovuta alla progressività della condotta, nell’ambito del medesimo disegno criminoso, da un minus ad un maius. In questo senso, allora, che reato ha commesso Tizio? Vi è spazio per il concorso tra sequestro di persona, ex art. 605 c.p., e riduzione in schiavitù? Alla luce di quanto è stato detto, sembrerebbe potersi dire che vi è stato un passaggio dal reato meno grave (sequestro di persona) a quello più grave (riduzione in schiavitù) nell’ambito del medesimo disegno criminoso, con la conseguenza logico-deduttiva che, a rigore, sembrerebbe doversi escludere la pluralità di reati, a favore dell’unico reato, più grave, di riduzione in schiavitù. TRASFUSIONI DI SANGUE E TESTIMONI DI GEOVA TRACCIA: Tizio medico dell’ospedale Vito Vitis di Genova, veniva chiamato d’urgenza ad operare Caio, noto testimone di Geova. Tizio faceva presente a Caio di doversi sottoporre ad una trasfusione di sangue, ma quest’ultimo si rifiutava per i suoi convincimenti religiosi. Tizio faceva presente a Caio che, laddove non si fosse sottoposto a trasfusione, con ogni probabilità sarebbe morto; Caio ribadiva che preferiva morire che subire una trasfusione. Successivamente, Caio perdeva coscienza, a causa della diversa quantità di sangue perduto. Tizio decideva, allora, di procedere alla trasfusione, ipotizzando un consenso sopravvenuto. Caio si salvava. Il giorno dopo, Tizio, si recava dal legale Marcello, a cui esponeva quanto successo, precisando di aver immaginato che, se Caio fosse rimasto cosciente, di certo, alla fine della discussione, avrebbe prestato il proprio consenso. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire il fatto. Successivamente, era fondamentale accennare al fatto che, di massima, l’attività medica trova la sua fonte legittimante sia nel consenso del paziente, che nel profilo pubblicistico della difesa della salute, ex art. 32 Cost. 158 Indubbiamente, Tizio, con la sua condotta ha agito senza consenso, rischiando di aver compiuto il reato di violenza privata, ex art. 610 c.p.; di contro è pur vero che, la sua condotta, potrebbe essere scriminata dal consenso presunto, ex art. 50 c.p. (eventualmente nascente anche da un errore di fatto). D’altronde, a giustificare la condotta del medico Tizio vi sarebbe sia l’art. 51 c.p., che imponeva a Tizio di cercare di tutelare il proprio paziente (anche ex art. 32 Cost.), che l’art. 54, c.p., tale per cui sembrerebbe potersi dire che, sotto tali angoli prospettici, Tizio avrebbe posto in essere una condotta ampiamente scriminata. Si consiglia di leggere le pronunce giurisprudenziali che seguono, seppur di diritto civile. -Nel momento in cui le trasfusioni si rendano necessarie a scongiurare il pericolo di vita del paziente, il sanitario che le effettui, seppur a conoscenza del rifiuto del paziente stesso, pone in essere un comportamento scriminato ex articolo 54 c.p. che esclude la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE 4211/2007 SEZIONE III CIVILE (Presidente Varrone – Relatore Amatucci) Svolgimento del processo Con citazione del 14/10/2002 T. S. proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di X., sezione stralcio, del 9/7/2002 di rigetto della domanda di risarcimento dei danni morali patiti per essere stato costretto, contro la sua volontà a subire l’intervento, espressamente rifiutato, di una trasfusione sanguigna. Premesso, in fatto, che la mattina del 15/5/1990 veniva, a seguito di un incidente stradale, ricoverato presso il pronto soccorso dell’Ospedale Santa Chiara ed immediatamente trasferito nel reparto rianimazione perché affetto da rotture multiple e rottura dell’arteria principale con emorragia in atto; che nel corso del successivo intervento chirurgico veniva sottoposto a trasfusione sanguigna nonostante avesse dichiarato che, in ossequio alle proprie convinzioni religiose Testimone di Geova non voleva gli venisse praticato tale trattamento; tutto ciò premesso, si doleva dell’erroneità ed offensività della scarna sentenza, impugnata sotto diversi profili. In primo luogo lamentava che il primo Giudice avesse affermato che,non essendo stato contestato ai sanitari alcun reato, non potesse essere loro addebitata alcuna responsabilità, ben potendo, al contrario, il Giudice civile accertare la sussistenza di un reato al limitato fine di decidere sulla domanda risarcitoria. Nella specie, in considerazione dell’esplicita manifestazione di volontà diretta a rifiutare la trasfusione, la consapevole e volontaria violazione, da parte dei sanitari, di tale volontà configurava gli estremi del reato di violenza privata. In secondo luogo, il Tribunale aveva ritenuto che i sanitari si fossero trovati di fronte alla necessità di salvargli la vita e che, conseguentemente, ciò avrebbe reso comunque lecito, ai sensi dell’articolo 159 54 c.p., il loro comportamento. Senonché il presunto stato di necessità da una parte era stato causato dagli stessi sanitari, che erano intervenuti tardivamente operandolo dopo ben sei ore dal ricovero, dall’altra sarebbe stato evitabile trasferendolo in altro nosocomio attrezzato per l’autotrasfusione. L’invito offensivo del Giudice a rivolgersi a “guaritori o sciamani”, poi, era del tutto inconferente non avendo egli assolutamente rifiutato la medicina tradizionale ma solo quel trattamento medico; del pari inaccettabili le considerazioni “etiche” del primo Giudice in ordine alla richiesta risarcitoria ed all’uso che avrebbe fatto della somma eventualmente percepita (mancata devoluzione in beneficenza). Chiedeva pertanto, in riforma dell’impugnata decisione, il risarcimento di tutti i danni morali, patrimoniali e biologici subiti. Si costituiva in giudizio l’Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari della Provincia Autonoma di X. (ex USL 5) eccependo, in primo luogo, l’inammissibilità delle nuove domande volte ad ottenere il risarcimento anche del danno biologico e patrimoniale. Nel merito, chiedeva la conferma dell’impugnata decisione, evidenziando come la trasfusione fosse stata effettuata quando non c’erano alternative in considerazione delle condizioni di salute del S.; precisava come il diritto alla vita costituisse un diritto indisponibile costituzionalmente garantito di cui nessuno poteva disporre e come il rifiuto alla trasfusione fosse stato effettuato in un momento in cui le condizioni di salute non erano così gravi come quelle verificatesi poi, in sala operatoria, quando tale dissenso non poteva più essere manifestato. In ogni caso, se anche volessero ritenersi ravvisabili gli estremi di un reato, il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato, ai sensi dell’articolo 54 c.p., dalla necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte. Con sentenza 19 dicembre 2003 la Corte di Appello X. rigettava il gravame e dichiarava interamente compensate le spese del grado, affermando: che il primo problema era accertare se fosse possibile evitare le trasfusioni, se, cioè, l’aggravarsi dell’emorragia nel corso dell’operazione fosse prevedibile fin dal momento del ricovero; che la risposta doveva essere negativa dal momento che l’aggravamento delle condizioni del paziente era sopravvenuto appunto durante l’intervento e non poteva essere imputato ai sanitari; che l’altro nodo fondamentale da accertare era se il rifiuto al trattamento trasfusionale manifestato al momento del ricovero potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si erano rese necessarie; che la risposta era “se non sicuramente negativa, quantomeno fortemente dubitativa”, essendo assai dubbio che il S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’incombente pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il suo dissenso, che per essere valido deve essere inequivocabile, attuale, effettivo e consapevole; che, comunque, anche nell’ipotesi in cui l’iniziale dissenso dovesse ritenersi perdurante nel tempo e che quindi i medici si fossero trovati ad operare nella certezza che il trattamento trasfusionale non era consentito dal paziente, tuttavia il comportamento dei sanitari doveva ritenersi scriminato alla luce dell’articolo 54 c.p., essendosi trovati nella necessità di salvare il S. dall’imminente ed incombente pericolo di morte. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il S., affidandolo a due motivi, ai quali ha resistito l’azienda provinciale per i servizi sanitari della provincia autonoma di X. con controricorso. Motivi della decisione Con il primo motivo il ricorrente, denunciando la contraddittorietà e comunque la insufficienza della motivazione su punti decisivi della controversia, lamenta che il giudice del gravame non si è neppure posto il problema della evidente negligenza professionale dei sanitari nel l’inadeguatezza 160 della diagnosi quanto alla lesione vascolare, nel senso che il quadro clinico, gravemente compromesso e peggiorato manifestatosi nel corso dell’intervento chirurgico, era perfettamente prevedibile proprio alla luce della diagnosi d’ingresso del paziente. In particolare, il S. afferma, in primo luogo, che la Corte d’appello aveva contraddittoriamente ritenuto che, durante l’intervento chirurgico, gli operatori s’erano trovati dì fronte ad una situazione non prevedibile al momento del ricovero e dei successivi esami clinici e strumentali per essere stata in origine diagnosticata una semplice lesione dell’arteria e della vena succlavia” e per essere stata invece riscontrata una “lacerazione” delle stesse in sala operatoria. Proprio la diagnosi di “lesione” dell’arteria e della vena succlavia avrebbe dovuto, all’opposto, indurre i sanitari ad intervenire immediatamente per frenare l’emorragia, così rendendo superflue le trasfusioni, invece di operare solo cinque ore più tardi, quando non erano più possibili terapie alternative alla trasfusione ematica ed il quadro clinico si presentava, come era del tutto prevedibile, gravemente peggiorato. Né poteva conferirsi alla diagnosi di “lesione dell’arteria e della vena succlavia” una valenza tanto riduttiva da escludere che essa comprendesse l’ipotesi, poi effettivamente riscontrata, dì una possibile lacerazione vascolare, giacché continua il ricorrente in tal caso ai medici sarebbe stato ascrivibile un errore diagnostico risoltosi non solo nella sottoposizione del paziente ad un trattamento terapeutico esplicitamente e ripetutamente rifiutato, ma anche nell’amputazione completa del braccio sinistro che era stata poi necessario praticare. Si sostiene, in secondo luogo, che il paziente aveva immediatamente domandato di essere trasferito in un ospedale attrezzato per terapie alternative alla trasfusione ematica. La Corte d’appello aveva escluso che ai sanitari fosse ascrivibile qualsiasi responsabilità al riguardo in quanto le indispensabili indagini strumentali avrebbero consentito che ciò avvenisse “al più verso le ore 10”, quando egli non era più in condizione di essere trasferito. Ma osserva il ricorrente se già alle 10 i valori dell’ematocrito erano tanto pregiudicati da rendere impraticabile il trasferimento, è stato logicamente contraddittorio concludere sia che la situazione di emergenza fosse imprevedibile al momento del successivo intervento chirurgico, sia che i medici non versassero in colpa per non avere immediatamente frenato l’emorragia, suturando i vasi la cui “lesione” pure era stata riscontrata dalla ore 7,05. Né, ancora, la Corte di merito s’era chiesta se l’arteriografia (pur ritenuta necessaria, unitamente all’indagine radiologica ed a quella tomografica, al fine di giustificare il tempo trascorso fino alle ore 10) fosse stata effettivamente eseguita, così offrendo anche una motivazione insufficiente sul punto. Con il secondo motivo il S. denuncia la violazione e la falsa applicazione degli articolo 13, comma 1 e 32, comma 2, Costituzione e 54 c.p., contestando l’affermazione della Corte territoriale circa la non operatività del suo dissenso alle trasfusioni anche nel successivo momento in cui le stesse si erano rese necessarie. Obietta al riguardo il ricorrente che la richiesta di consenso per la trasfusione non poteva che riferirsi alla necessità di tale trattamento per il mantenimento in vita del paziente e che pertanto il suo rifiuto, espresso sino a pochi minuti prima dell’operazione, era pienamente valido anche pochi minuti dopo ed avrebbe dovuto indurre i medici a non violentare la sua volontà, ma ad adeguarvisi anche se ciò avesse dovuto mettere in pericolo la sua stessa vita. Osserva inoltre che il richiamo della Corte di merito all’articolo 54 c.p. è erroneo, sia in ragione del fatto che lo stato dì necessità era venuto a determinarsi per negligenze degli stessi medici che si erano avvantaggiati della sua applicazione, sia perché lo stato di necessità può “sostituirsi al consenso mancante per rendere lecito un intervento medico d’urgenza, ma non può in alcun caso elidere e sopraffare il dissenso validamente espresso”, la cui vincolatività si basa sui principi espressi dalle. citate norme costituzionali. E, nel caso in esame, il paziente aveva legittimamente 161 rifiutato un trattamento medico (trasfusione) che, nella sua scala di valori, gli pareva inaccettabile per motivi morali e religiosi, anche a costo del sacrificio della vita stessa. Che, del resto, un intervento terapeutico non possa essere praticato senza il consenso “libero ed informato” del paziente è stabilito dall’articolo 5 della legge 28 marzo 2001 (recante “ratifica ed esecuzione della convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina”), la quale fa bensì salvi gli interventi di urgenza indispensabili (articolo 8), ma con la precisazione che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno presi in considerazione” (articolo 9); nonché dall’articolo 32 (recte, 40) del codice di deontologia medica, il quale prescrive che non è “consentito alcun trattamento medico contro la volontà della persona”. Nella specie conclude il ricorrente dopo diffusi richiami della giurisprudenza di legittimità e di merito l’essere stata la trasfusione praticata nonostante un dissenso manifestato per motivi religiosi (in quanto la stessa non è, appunto, ammissibile per gli aderenti alla fede dei testimoni di Geova) l’atto compiuto dai medici aveva comportato anche la violazione del principio stabilito dall’articolo 19 della Costituzione. I due motivi, che per la stretta connessione e conseguenzialitá logico-giuridica possono esaminarsi congiuntamente, non sono fondati. Per quanto concerne il primo motivo la Corte trentina, condividendo con apprezzamento consapevole e critico le conclusioni del C.T.U. , ha ritenuto che al momento del ricovero “appariva possibile una terapia alternativa alla trasfusione, che fu correttamente attuata dai sanitari della rianimazione”; che le emotrasfusioni si erano rese necessarie nel corso dell’intervento chirurgico “quando l’ulteriore peggioramento dell’ematocrito, l’ipertensione arteriosa ed il sanguinamento copioso dell’arteria lacerata ha fatto temere per la vita del paziente”; che il riscontro dell’importante lacerazione dell’arteria e della vena succlavia aveva prodotto necessariamente una emorragia del campo operatorio molto maggiore di quella prevista prima dell’intervento quando, in sede di visita preoperatoria, l’anestesista aveva annotato, mediante l’arteriografia, una ostruzione arteriosa a causa di un grosso ematoma, cosicché l’intervento era presumibilmente limitato allo svuotamento dell’ematoma ed alla decompressione dell’arteria; che neppure il C.T. di parte aveva ipotizzato la prevedibilità ex ante della lacerazione dell’arteria; che l’accertata situazione, oggettivamente diversa da quella iniziale, non poteva essere rimediata con il trasferimento del paziente nell’ospedale, meglio attrezzato, di Piacenza, atteso che le condizioni generali del S. e la caduta verticale dei valori ematici rendevano tale viaggio “molto rischioso per la vita”; tutto ciò premesso, la suddetta Corte ha tratto la conclusione che l’aggravamento del paziente, rivelatosi in sede operatoria, costituiva una situazione clinica oggettivamente e pesantemente diversa da quella diagnosticata all’atto del ricovero, non altrimenti evitabile e, soprattutto, non causata da imperizia e/o negligenza dei sanitari (si tenga presente, a quest’ultimo riguardo, che il S., pur avendo dovuto successivamente subire l’amputazione dell’arto, non ha mai proposto domanda risarcitoria per responsabilità professionale ex articolo 2236 c.c.). Orbene, sembra doversi riconoscere che tali conclusioni sono sostenute da una motivazione ampia, analitica e niente affatto contraddittoria ed il primo motivo va, pertanto, rigettato. Le conclusioni svolte introducono opportunamente l’esame dell’altro motivo con cui si affronta il nodo fondamentale per la decisione della presente controversia: accertare, cioè, se il rifiuto al trattamento trasfusionale, esternato dal S. al momento del ricovero, potesse ritenersi operante anche al momento in cui le trasfusioni si resero necessarie. 162 Il giudice del gravame, conformemente a quello di primo grado. ha ritenuto che la risposta ... è, se non sicuramente negativa, quanto meno fortemente dubitativa” in quanto “è più che ragionevole chiedersi se iI S., qualora avesse saputo dell’effettiva gravità della lesione e dell’attuale pericolo di vita, avrebbe senz’altro ribadito il proprio dissenso”. Ciò in virtù delle seguenti considerazioni: che anche il dissenso, come il consenso, deve essere inequivoco, attuale, effettivo e consapevole; che l’originario dissenso era stato espresso dal S. in un momento in cui le sue condizioni di salute non facevano temere un imminente pericolo di vita, tanto che il paziente era stato trattato con terapie alternative, che lo stesso S. aveva chiesto, qualora fosse stato ritenuto indispensabile ricorrere ad una trasfusione, di essere immediatamente trasferito presso un ospedale attrezzato per l’autotrasfusione, così manifestando, implicitamente ma chiaramente, il desiderio di essere curato e non certo di morire pur di evitare d’essere trasfuso; che alla luce di questi elementi e di un dissenso espresso prima dello stato d’incoscienza conseguente all’anestesia, era lecito domandarsi se sicuramente il S. non volesse essere trasfuso, ... o se invece fosse altamente perplesso e dubitabile, se non certo, che tale volontà fosse riferibile solo al precedente contesto temporale, meno grave, in cui l’uomo non versava ancora in pericolo di vita. Ha aggiunto il suddetto giudice che anche nell’ipotesi in cui il dissenso originariamente manifestato dal S. fosse ritenuto perdurante, comunque il comportamento adottato dai sanitari sarebbe stato scriminato ex articolo 54 c.p. e che, quindi, esclusa l’illiceità di tale comportamento, doveva escludersi la sussistenza di un qualsiasi danno risarcibile. Ora questa Corte, pur consapevole dell’importanza morale e culturale, prima ancora che giuridica della questione, ritiene che la motivazione dell’impugnata sentenza (perché, oltre alle asserite violazioni di legge, il ricorrente denuncia implicitamente anche un vizio di contraddittorietà della motivazione a pag. 9 - 10 del ricorso) non sia censurabile. Perché questo è il problema da risolvere: non circa il valore assoluto e definitivo di un dissenso pronunciato in virtù di un determinato credo ideologico e religioso (il rifiuto delle trasfusioni di sangue è fondato dalla comunità dei Testimoni di Geova su una particolare lettura di alcuni brani delle scritture: Gen. 9,3 - 6; Lev. 17,11; Atti 15, 28, 29), ma la correttezza della motivazione con cui il giudice trentino ha ritenuto che il dissenso originario, con una valutazione altamente probabilistica, non dovesse più considerarsi operante in un momento successivo, davanti ad un quadro clinico fortemente mutato e con imminente pericolo di vita e senza la possibilità di un ulteriore interpello dei paziente ormai anestetizzato. Va aggiunto e precisato che tale motivazione non è viziata da errori di diritto, perché rispettosa della legge 145/01 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione del Consiglio d’Europa per la protezione dei diritti dell’uomo e della dignità dell’essere umano riguardo all’applicazione della biologia e della medicina), che all’articolo 9 stabilisce che “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà, saranno tenuti in considerazione”. e che i sanitari trentini li abbiano tenuti in considerazione, risulta non foss’altro dall’avere interpellato telefonicamente, in costanza di intervento operatorio, il Procuratore della Repubblica ricevendone implicitamente un invito ad agire. Per il resto, la motivazione sì fonda su argomenti congrui e logici, non conformi alle credenze della Comunità religiosa d’appartenenza del S., ma certo aderenti ad un diffuso sentire in questo tempo di così vivo ed ampio dibattito sui problemi esistenziali della vita e della morte, delle terapie e dei dolore (si consideri ad esempio, che nei vari disegni di legge sul “testamento biologico”, contenente cioè le anticipate direttive di un soggetto sano con riguardo alle terapie consentite in caso si trovi in stato di incoscienza, spesso è previsto che tali prescrizioni non siano vincolanti per il medico, che può decidere di non rispettarle motivando le sue ragioni nella cartella clinica). Insomma, delle varie situazioni configurabili nell’attuale vivace dibattito sul tema drammatico della morte, situazioni da tenere ben distinte per evitare sovrapposizioni fuorvianti (accanimento terapeutico, rifiuto dì cure, testamento biologico, suicidio assistito), il tema in esame 163 riguarda appunto il rifiuto delle cure; ma non nel senso di statuire sulla legittimità del diritto di rifiutare nel caso dei Testimoni di Geova le trasfusioni di sangue anche se ciò determina la morte, ma, più limitatamente di accertare la legittimità del comportamento dei sanitari che hanno praticato la trasfusione nel ragionevole convincimento che il primitivo rifiuto del paziente non fosse più valido ed operante. A questo specifico riguardo la statuizione della Corte trentina dove ritenersi corretta ed il ricorso del S. non può trovare accoglimento. La novità e la delicatezza delle questioni trattate costituiscono giusti motivi per compensare le spese di questo grado. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso e compensa le spese dei giudizio di cassazione. - Il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea, ma purtroppo che non è regolato dal diritto. Tribunale di Roma Sezione Prima Civile Ordinanza 15 – 16 dicembre 2006 (Giudice Istruttore: Salvio) Premesso in fatto Con ricorso ex art. 700 C.P.C. proposto ante causam dal sig. Piergiorgio Welby nei confronti della ANTEA Associazione Onlus ed il Dott. Giuseppe Casale è stato chiesto: "accertato e dichiarato il diritto del ricorrente ad autodeterminarsi nella scelta delle terapie mediche invasive alle quali sottoporsi e, quindi, il diritto del medesimo ricorrente di manifestare il proprio consenso a taluni trattamenti ed il rifiuto ad altri; presto atto ed accertato, altresì che il Signor Piergiorgio Welby ha espresso, e ribadisce con il presente atto, la propria libera, informata, consapevole ed incondizionata volontà a che sia immediatamente cessata l'attività sulla propria persona di sostentamento a mezzo di ventilatore artificiale mentre sia proseguita e praticata la terapia di sedazione terminale; sia ordinato al Dott. Giuseppe Casale ed alla Antea Associazione Onlus, soggetti che hanno in cura il ricorrente, di procedere all'immediato distacco del ventilatore artificiale che assicura la respirazione assistita del Signor Welby, contestualmente somministrando al paziente terapie sedative che, in conformità con le migliori ed evolute pratiche e conoscenze medico-scientifiche, risultino idonee a prevenire e/o eliminare qualsiasi stato di sofferenza fisica e/o psichica del paziente stesso con modalità tali da rispettare momento per momento, sia all'atto del distacco dal respiratore che successivamente, il massimo rispetto delle condizioni di dignità e di sopportabilità del suo stato da parte del paziente; disporre, in ogni caso, tutte le misure ritenute più adeguate a dare concreta attuazione agli interessi e ai diritti esercitati dal ricorrente". Il ricorrente ha esposto: di essere affetto da anni da un gravissimo stato morboso degenerativo, clinicamente diagnosticato quale "distrofia fascioscapoloomerale; che il progredire della malattia, seguendo un decorso non inatteso, ha comportato che, allo stato odierno, al ricorrente è inibito qualsiasi movimento di tutto il corpo, ad eccezione di quelli oculari e labiali, e la sua sopravvivenza è assicurata esclusivamente per mezzo di un respiratore automatico al quale è collegato dal 1997; che la tipologia del morbo è tale che, sulla base delle attuali conoscenze medico-scientifiche, i trattamenti sanitari praticabili non sono in condizione di arrestarne in nessun modo l'evoluzione e, 164 quindi, hanno quale unico scopo quello di differire nel tempo l'ineludibile e certo esito infausto, semplicemente prolungando le funzioni essenziali alla sopravvivenza biologica ed il gravissimo stato patologico in cui versa il ricorrente; che, nonostante sia, nel fisico, completamente immobilizzato, il deducente conserva intatte le proprie facoltà mentali ed è, dunque, in grado di esprimere una volontà pienamente informata e consapevole circa l'accettazione o il rifiuto dei detti trattamenti, che, in considerazione del suo grave e sofferto stato di malattia in fase irreversibilmente terminale, dopo essere stato debitamente informato dei trattamenti praticabili e delle relative conseguenze, ha consapevolmente ed espressamente richiesto alla struttura ospedaliera ed al medico dai quali è professionalmente assistito, di non essere ulteriormente sottoposto alle terapie di sostentamento in atto e di voler ricevere assistenza nei limiti in cui sia necessario a lenire le sofferenze fisiche; che il ricorrente, in particolare, ha dichiarato, in data 24 novembre 2006, con volontà chiaramente ed univocamente espressa, che non consente a proseguire l'utilizzo, sulla propria persona, del ventilatore polmonare, chiedendo espressamente che si proceda al distacco di tale apparecchio, peraltro "sotto sedazione terminale", e, dunque, con espressa indicazione circa la contestualità tra il distacco medesimo ed il trattamento sedativo teso a scongiurare ulteriori patimenti; che la struttura ospedaliera ed il medico curante, in data 25 novembre 2006, hanno, per iscritto, opposto un rifiuto alla richiesta del Signor Welby, assumendo di non poter dare seguito alla volontà espressa dal paziente, in considerazione degli obblighi ai quali si ritengono astretti; che, in particolare, il medico curante, pur non negando di essere "obbligato per legge a rispettare la volontà" del sig. Welby, e dunque ad essere obbligato al distacco del ventilatore polmonare sotto sedazione, rilevato che ciò comporta "pericolo di vita", ha opposto che quando il paziente fosse sedato, e dunque "non più in grado di decidere" scatterebbe immediatamente in relazione al rischio di vita, l'obbligo di "procedere immediatamente" a riattaccare il ventilatore polmonare medesimo al fine di "ristabilire la respirazione"; che il rifiuto opposto alla richiesta del ricorrente è ingiustificato in base alle seguenti argomentazioni: 1) è principio pacifico che il consenso informato costituisce la base di ogni trattamento terapeutico; 2) che esso riceve protezione direttamente da norme di rango costituzionale (artt. 2, 13 e 32 Cost.) e ne consegue che ogni persona può vantare un vero e proprio diritto perfetto a liberamente e consapevolmente determinarsi in ordine al compimento o al rifiuto del compimento di qualsiasi attività invasiva di trattamento o terapia di natura medica e che tale diritto comprende quello di interrompere le terapie alla cui somministrazione sia stato in precedenza, manifestato il proprio assenso - cosa che, tra l'altro non è dato riscontrare nella specie in quanto l'applicazione, all'epoca, del respiratore automatico non venne preceduta da assenso del ricorrente, trovandosi in quel momento nella impossibilità di esprimerlo; 3) che il rapporto tra la libertà di disporre consapevolmente in ordine ai trattamenti terapeutici e la tutela del bene vita deve essere riconsiderato alla luce della evoluzione scientifica che incide sugli eventi naturali, quali il concepimento e la morte, qualificati, per i riflessi che hanno su di essi i progressi scientifici, quali "processi gestibili" e che, in conseguenza, di ciò si chiede, non tanto di opporsi agli eventi naturali, bensì di poter interloquire con quei soggetti (medici) che gestiscono la fase terminale della vita; 4) in forza del diritto ad autodeterminarsi nella scelta sulle caratteristiche, sui termini e sui limiti dei trattamenti cui il paziente intende sottostare, il principio del consenso informato alla interruzione della terapia comporta che il rifiuto cosciente e volontario dei trattamenti sanitari non desiderati viene espresso anche per la situazione successiva alla sedazione, in quanto ben rappresentata ed attuale nella coscienza e volontà del soggetto allorquando consente alla interruzione, ed i successivi eventi non costituiscono situazioni nuove o imprevedibili rispetto al momento in cui il consenso cosciente e volontario è stato manifestato: che sussiste la necessità di protezione urgente dei diritti del ricorrente, risultando particolarmente intollerabile, a livello psicologico, dover sottostare a terapie sanitarie che egli, a ragione, considera quale indebita ed illecita intrusione nella propria sfera personale e che ritiene, stante la loro sostanziale inutilità per il miglioramento della propria salute, profondamente lesive della propria dignità in quanto non utili neppure a perseguire benefici in termini di qualità della vita, e che il pregiudizio può essere rimosso solo rimuovendo senza indugio le cause che lo determinano. 165 Instauratosi il contraddittorio, si sono costituiti la Antea Associazione Onlus ed il Dott. Giuseppe Casale, medico e coordinatore della Associazione stessa, ed hanno richiesto, in via preliminare, rigettare la domanda per difetto di legittimazione passiva; nel merito, respingere il ricorso. Il Pubblico ministero è intervenuto in giudizio, ai sensi dell'art. 70 Cpc ed ha concluso che, sotto il profilo dell'esistenza del diritto ad ottemperare il trattamento terapeutico non voluto, con le modalità richieste, il ricorso è ammissibile e va accolto; per ciò che riguarda la possibilità di ordinare ai medici di non ripristinare la terapia, il ricorso è inammissibile, perché trattasi di scelta discrezionale del medico. Ritenuto in diritto In primo luogo deve essere affermata la non ritualità del deposito di note di chiarimento in data 14/12/2006 da parte degli avvocati di parte ricorrente, quando già il fascicolo era stato preso in riserva del Giudice, ed al di fuori della regolare esplicazione del contraddittorio all'interno del processo. Pertanto dello scritto non autorizzato non può tenersi conto; peraltro, va anche osservato, la non influenza, ai fini del decidere, delle argomentazioni illustrative aggiuntive ivi prospettate, in quanto il thema decidendum era già stato integralmente puntualizzato, in tutti i suoi aspetti ed implicazioni, negli scritti precedenti e nell'udienza di trattazione del ricorso. Va, preliminarmente, respinta l'eccezione di difetto di legittimazione passiva avanzata dai resistenti, in quanto di fatto superata, sia sulla base della documentazione allegata al ricorso (v. cartella clinica del sig. Welby, dalla quale risulta la presa in carico del paziente da parte dell'Associazione Antea Onlus, sottoscritta dal Dott. Casale), sia dalle stesse dichiarazioni rese in udienza dal Dott. Giuseppe Casale (v. verbale del 12/12/2006). Il principio dell'autodeterminazione e del consenso informato è una grande conquista civile delle società culturalmente evolute; esso permette alla persona, in un'epoca in cui le continue conquiste e novità scientifiche nel campo della medicina consentono di prolungare artificialmente la vita, lasciando completamente nelle mani dei medici la decisione di come e quando effettuare artificialmente tale prolungamento, con sempre nuove tecnologie, di decidere autonomamente e consapevolmente se effettuare o meno un determinato trattamento sanitario e di riappropriarsi della decisione sul se ed a quali cure sottoporsi. Nel corso degli anni è profondamente mutato il modo di intendere il rapporto medico-paziente, e il segno di questa trasformazione è proprio nella rilevanza assunta dal consenso informato, che ha spostato il potere di decisione del medico al paziente, in cui quest'ultimo è diventato protagonista del processo terapeutico. Il quadro di riferimento dei principi generali si rinviene innanzitutto negli artt. 2, 13 e 32 Cost., ed abbraccia la tutela e promozione dei diritti fondamentali della persona della sua dignità ed identità, della libertà personale e della salute. La giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale ha fatto emergere l'ampiezza di tale principio, nel senso che qualsiasi atto invasivo della sfera fisica, sia di natura terapeutica che non terapeutica, non può avvenire senza o contro il consenso della persona interessata, in quanto l'inviolabilità fisica costituisce il nucleo essenziale della stessa libertà personale; mentre, l'imposizione di un determinato trattamento sanitario può essere giustificato solo se previsto da una legge che lo prescrive in funzione di tutela di un interesse generale e non a tutela della salute individuale e se è comunque garantito il rispetto della dignità della persona (art. 32 Cost.) Il principio trova riconoscimento nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea nella Convenzione europea sui diritti dell'uomo e la biomedicina di Oviedo del 1997, ratificata con Legge 28 marzo 2001 n.145 nel Codice di deontologia medica, in molte leggi speciali, a partire dal quella istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Il codice di deontologia medica prescrive al medico di desistere dalla terapia quando il paziente consapevolmente la rifiuti (art. 32) e, inoltre, nel caso in cui il paziente non è in grado di esprimersi, 166 la regola deontologica prescrive al medico di proseguire la terapia fino a quando la ritenga "ragionevolmente utile" (art. 37). Pertanto, il principio dell'autodeterminazione individuale e consapevole in ordine ai trattamenti sanitari può considerarsi ormai positivamente acquisito ed è collegato al dovere del medico di informare il paziente sulla natura, sulla portata e sugli effetti dell'intervento medico, che è condizione indispensabile per la validità del consenso, ed è il presupposto dialettico del rapporto medico-paziente nonché fondamento di obblighi e responsabilità di quest'ultimo; esso, tuttavia, presenta aspetti problematici in termini di concretezza ed effettività rispetto al profilo della libera e autonoma determinazione individuale sul rifiuto o la interruzione delle terapie salvavita nella fase terminale della vita umana. Ritiene il giudicante, alla stregua dei principi sopra richiamati, e considerati i seguenti elementi: 1) le applicazioni pratiche che dei detti principi ha effettuato la giurisprudenza - che ad esempio, per quel che più può interessare il caso oggetto di esame, ha ritenuto di sussistere in capo alla persona un vero e proprio diritto soggettivo perfetto a rifiutare liberamente e consapevolmente la terapia, anche nel caso in cui quest'ultima consentirebbe di salvare la vita al paziente (ad esempio rifiuto della trasfusione per motivi religiosi), ravvisando il reato di violenza privata nel comportamento del medico che imponesse la terapia contro la volontà del paziente (ad es. Cass. Sez. I, 11 luglio 2002, n. 26646) o che ha ritenuto scriminante dal consenso informato del paziente prestato prima dell'anestesia tutte le attività mediche, i trattamenti e i rischi prevedibili al momento della prestazione del consenso, che siano stati preventivamente illustrati al paziente e volontariamente accettati prima della perdita di coscienza (v. fra le altre Cass. Sez. III n. 14638/2004) -; 2) le indicazioni contenute nel codice di deontologia medica, che all'art. 34 prescrive: "... se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà in caso di grave pericolo di vita, non può non tenere conto di quanto precedentemente manifestato dallo stesso"; 3) la disposizione di cui all'art. 9 della Convenzione di Oviedo (ratificata, anche se mancante dell'attuazione della delega di cui all'art. 3 della Legge 28 marzo 2001 n.145 ), che dispone che in caso di perdita irreversibile della coscienza bisogna tener conto delle direttive precedentemente espresse dal paziente; 4) l'intervento del Comitato nazionale di bioetica (18 dicembre 2003) che si è occupato delle "dichiarazioni anticipate di trattamento", affermando che esse si iscrivono in un positivo processo di adeguamento dell'atto medico al principio di autonomia decisionale del paziente, che non possa negarsi la rilevanza centrale assunta dal consenso informato del paziente e la positivizzazione del principio dell'autodeterminazione della persona in ordine ai trattamenti sanitari nella sua massima espansione, fino a comprendere il diritto di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico e di terapia, di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interrompere la terapia, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, in cui deve ritenersi riconosciuta all'individuo la libertà di scelta del come e del quando concludere il ciclo vitale, quando ormai lo spegnimento della vita è ineluttabile, la malattia incurabile e per mettere fine alle proprie sofferenze. Il tema della rilevanza della volontà individuale nel caso dei malati terminali da tempo anima il dibattito scientifico, filosofico, religioso e giuridico - anche sulla spinta del confronto con le esperienze di altri Paesi europei e non, in cui in qualche misura si è colto l'impegno negli ultimi anni per la predisposizione di una regolamentazione della materia: v. in particolare Olanda, Belgio, Stati Uniti, Canada, Australia, Inghilterra - e appare segnato da questioni eticamente laceranti, che tuttavia non possono essere ignorate perché già penetrate profondamente nella coscienza civile e nella pratica della medicina, specie laddove la terapia di mantenimento in vita viene continuata contro la volontà del paziente, quando si trovi in condizioni talmente gravi da far ritenere di voler negare al malato una morte dignitosa, prolungando una sofferenza ormai insostenibile. Il nodo centrale è che, siccome l'ordinamento giuridico va considerato nell'intero complesso, appare non discutibile che esso non preveda nessuna disciplina specifica sull'orientamento del rapporto medico-paziente e sulla condotta del medico ai fini dell'attuazione pratica del principio dell'autodeterminazione per la fase finale della vita umana, allorché la richiesta riguardi il rifiuto o l'interruzione di trattamenti medici di mantenimento in vita del paziente; anzi, il principio di fondo 167 ispiratore è quello della indisponibilità del bene vita: v. art. 5 del codice civile, che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e, soprattutto gli artt. 575, 576, 577, I comma n. 3, 579 e 580 del codice penale che puniscono, in particolare, l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio. Rispetto al bene vita esiste, altresì, un preciso obbligo giuridico di garanzia del medico di curare e mantenere in vita il paziente: "anche su richiesta del malato non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocare la morte" (art. 35 del codice deontologico) e "in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve limitare la sua opera all'assistenza morale e alla terapia atta a risparmiare inutili sofferenze, fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità della vita. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile. Il sostegno vitale dovrà essere mantenuto sino a quando non sia accertata la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell'encefalo" (art. 37 del codice deontologico). E allora lo sforzo di attuazione del principio della libertà individuale e di elaborazione del contenuto del consenso per le scelte di trattamento medico di fine vita nei malati terminali, tema molto presente nella sensibilità culturale, scientifica, etica e religiosa generale, richiede necessariamente il superamento della impostazione formale della generale doverosità giuridica del mantenimento in vita del paziente e il leale ripensamento delle categorie distintive fra comportamenti passivi e comportamenti attivi del medico, in particolare valorizzando l'essenza e il rispetto della dignità umana, la qualità della vita, e facendo ricorso ai concetti di futilità o inutilità del trattamento medico, di incurabilità della malattia, di insostenibilità della sofferenza e di condizioni degradanti per l'essere umano. Il Comitato nazionale per la bioetica è intervenuto muovendo dalla premessa che la morte non può essere considerata come un mero evento biologico o medico, essendo essa portatrice di un significato nel quale deve essere individuata la radice della dignità dell'essere umano. La morte assegna all'essere umano un compito morale, che è quello di trovare un senso che guidi e assicuri la sua libertà. Alla luce di questa visione, il Cnb considera criticamente ogni ipotesi di accanimento terapeutico, che volendo prolungare indebitamente il processo irreversibile del morire si pone contro la consapevolezza del soggetto alla propria invincibile caducità. L'accanimento terapeutico viene definito come un trattamento di documentata inefficacia in relazione all'obiettivo, a cui si aggiunge la presenza di un rischio elevato per il paziente di ulteriori sofferenze, in un contesto del quale l'eccezionalità dei mezzi adoperata risulta chiaramente sproporzionata rispetto agli obiettivi. L'art. 14 del codice deontologico medico vieta l'accanimento diagnostico terapeutico: "Il medico deve astenersi dall'ostinazione in trattamenti, da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per la salute del malato e/o un miglioramento della qualità della vita". Alcuni spunti di elaborazione, del tutto condivisi da questo Giudicante, possono trarsi dal decreto della Corte d'Appello di Milano del 26/11/1999 (anche se riguarda un caso differente di paziente in stato vegetativo persistente, per il quale era stata richiesta l'interruzione delle cure mediche che consentivano il protrarsi dello stato vegetativo, nonché l'alimentazione artificiale) : "Il dovere giuridico, etico, deontologico del medico si arresta di fronte all'incurabilità della malattia, giacché ogni protrazione della terapia, trasformando il paziente da soggetto ad oggetto, viola la sua dignità. Nell'eccezione più accreditata invero l'accanimento terapeutico, si presenta come una cura inutile, futile, sproporzionata, non appropriata rispetto ai prevedibili risultati, che può, pertanto, essere interrotta, perché incompatibile con i principi costituzionali, etici e morali di rispetto, di dignità della persona umana, di solidarietà". Può, pertanto, affermarsi che il divieto di accanimento terapeutico è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico, dal Comitato nazionale per la Bioetica, dai trattati internazionali, in particolare dalla Convenzione Europea, nonché condiviso anche in prospettiva morale religiosa. 168 Esso, tuttavia, sul piano dell'attuazione pratica del corrispondente diritto del paziente ad esigere ed a pretendere che sia cessata una determinata attività medica di mantenimento in vita (il problema si è posto, in particolare, per l'alimentazione e l'idratazione forzate e, come nel caso di specie, per la respirazione assistita a mezzo di ventilatore artificiale), in quanto reputata di mero accanimento terapeutico, lascia il posto alla interpretazione soggettiva ed alla discrezionalità nella definizione di concetti si di altissimo contenuto morale e di civiltà e di intensa forza evocativa (primo fra tutti la dignità della persona), ma che sono indeterminati e appartengono ad un campo non ancora regolato dal diritto e non suscettibile di essere riempito dall'intervento del Giudice, nemmeno utilizzando i criteri interpretativi che consentono il ricorso all'analogia o ai principi generali dell'ordinamento. Ciò perché i principi sono incerti ed evanescenti, manca una definizione condivisa ed accettata dei concetti di futilità del trattamento, di quando l'insistere con trattamenti di sostegno vitale sia ingiustificato o sproporzionato, sugli stessi concetti di insostenibilità della qualità della vita o di degradazione della persona da soggetto ad oggetto e perché non esistono linee-guida di natura tecnica ed empirica di orientamento dei comportamenti dei medici che, in definitiva, riempiano di contenuti il divieto di accanimento terapeutico ed il correlativo diritto a far cessare l'accanimento stesso con la richiesta di interruzione della terapia di sostentamento vitale (va ricordato, altresì, che non sono ancora stati emanati i decreti per l'attuazione della Legge 28 marzo 2001 n.145 ). Siccome un diritto può dirsi effettivo e tutelato solo se l'ordinamento positivamente per esso prevedeva la possibilità di realizzabilità coattiva della pretesa, in caso di mancato spontaneo adempito alla richiesta del titolare che intenda esercitarlo, va osservato che, nel caso in esame, il diritto del ricorrente di richiedere la interruzione della respirazione assistita e distacco del respiratore artificiale, previa somministrazione della sedazione terminale, deve ritenersi sussistente alla stregua delle osservazioni di cui sopra, ma trattasi di un diritto non concretamente tutelato dall'ordinamento; infatti, non può parlarsi di tutela se poi quanto richiesto al ricorrente deve essere sempre rimesso alla totale discrezionalità di qualsiasi medico al quale la richiesta venga fatta, alla sua coscienza individuale, alle sue interpretazioni soggettive dei fatti e delle situazioni, alle proprie concezioni etiche, religiose e professionali (come dimostra anche il diniego alla richiesta del sig. Welby da parte del Dott. Giuseppe Casale che, come egli ha chiarito in udienza, è anche collegato alle sue personali convinzioni etiche e professionali, essendo un sostenitore della cura dei malati terminali con cure palliative e che ha affermato che nel caso di Welby: "non c'è accanimento terapeutico perché il respiratore non è futile. Se io stacco il respiratore il paziente muore": v. dichiarazioni a verbale effettuate all'udienza del 12/12/2006). In altri termini, in assenza della previsione normativa degli elementi concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di ciò che va considerato accanimento terapeutico, va esclusa la sussistenza di una forma di tutela tipica dell'azione da far valere nel giudizio di merito, e di conseguenza, ciò comporta la inammissibilità dell'azione cautelare, attesa la sua finalità strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito. Solo la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare la accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine ed alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi degli operatori sanitari ed alle istanze di fare chiarezza nel definire concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentano di prevenire abusi e discriminazioni (allo stesso modo in cui intervenne il legislatore per definire la morte cerebrale nel 1993). Considerate la delicatezza e la novità della questione appare equo disporre la integrale compensazione delle spese di lite fra le parti. P.Q.M. Visto l'art. 669 septies C.P.C.; Il Giudice, pronunciando sul ricorso ex. artt. 669 ter e 700 C.P.C. proposto dal Sig. Piergiorgio Welby nei confronti della Antea Associazione Onlus e del Dott. Giuseppe Casale, ogni altra istanza 169 disattesa, così provvede: dichiara la inammissibilità del ricorso e compensa integralmente le spese processuali fra le parti. Depositata in Cancelleria il 16 dicembre 2006. RESPONSABILITA’ MEDICA E DELEGA ALLO SPECIALIZZANDO TRACCIA: Tizio è medico chirurgo dell’ospedale Politus di Cagliari. Un giorno, mentre era in sala operatoria a svolgere la sua attività, vedeva arrivare di corsa nell’ospedale, attraverso la finestra che affacciava sull’entrata principale, la moglie Tizietta grondante di sangue. Tizio, allarmato, ritenendo che l’operazione potesse essere proseguita dallo specializzando in medicina Marcus che era venuto ad assistere ad un’operazione de visu per la prima volta, abbandonava la sala operatoria, chiedendo a Marcus di proseguire la suddetta operazione. Tizio correva a soccorrere la moglie Tizia che, veniva detto dai medici, aveva subito un aborto spontaneo. Due giorni dopo, Tizio veniva a sapere che l’operazione di Marcus non era andata a buon fine e il paziente era morto. Tizio si recava da un legale. Il candidato prenda in esame la questione giuridica prospettata. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, il problema andava inquadrato nell’ambito del discorso sulle operazioni mediche d’equipe, con particolare riferimento alla delega dell’operazione ad uno specializzando. In generale, il medico che si assenta durante un’operazione chirurgica è responsabile di quanto accade al proprio paziente, per cui Tizio potrebbe rispondere di omicidio colposo, tanto più che si sarebbe allontanato dalla sala operatoria per aiutare la moglie senza rispettare (verosimilmente) regolamenti e normative interne (non si può soccorrere chiunque in qualsiasi momento, ma è necessario rispettare i regolamenti interni). Di contro, è pur vero che Tizio non ha abbandonato la sala operatoria, ma ha delegato Marcus affinché proseguisse l’intervento, per cui il problema è quello di capire se possa operare il principio dell’affidamento incolpevole al fine di esonerare da responsabilità Tizio; vi è incolpevole affidamento verso Marcus? Invero, alla luce del fatto che Marcus fosse uno specializzando in medicina e che era venuto ad assistere per la prima volta ad un’operazione, non banale visto che il paziente decedeva, non è possibile ritenere che l’affidamento posto in essere da Tizio in favore di Marcus possa essere incolpevole, quanto piuttosto colpevole (sub specie di imperizia e negligenza), con il corollario applicativo che, verosimilmente, Tizio sarà chiamato a rispondere (eventualmente in concorso con Marcus, che non si rifiutava di proseguire l’operazione) di omicidio colposo verso il paziente, attenuato dalle circostanze ex art. 62 c.p. (in particolare, quelle di cui al n. 1). 170 Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -L’anticipato «scioglimento dell’équipe chirurgica» per cause giustificate o dalla semplicità delle residue attività da compiere o dalla impellente necessità di uno dei componenti dell’équipe di prestare la propria opera professionale per la cura indilazionabile di altro o di altri pazienti, o, a maggior ragione, per il concorso di entrambe le cause, ben può esonerare da responsabilità colposa il medico allontanatosi, che quindi non era presente nel momento in cui o è stata omessa la dovuta prestazione professionale o è stato eseguito un maldestro intervento, che ha causato conseguenze dannose per il paziente. Corte di cassazione - Sezione IV penale - Sentenza 6 aprile-16 giugno 2005 n. 22579 (Presidente De Grazia; Relatore Visconti; Pm - conforme - Geraci) Svolgimento del processo Con sentenza in data 13/5/2004 la Corte di Appello di Salerno ha confermato, limitatamente agli imputati (A) e (B), la sentenza del 2/10/2001 del Tribunale di Salerno, che li aveva ritenuti responsabili di lesioni colpose e, concesse le attenuanti generiche, ritenute equivalenti alla contestata aggravante, li aveva condannati alle pene ritenute di giustizia. Ai predetti imputati era stato addebitato il delitto di cui agli artt. 113 e 590, comma 2, in relazione all'art. 583, 1° comma, n. 2, C.P. perché, a seguito di un intervento di taglio cesareo su ©, eseguito dal dott. (A), coadiuvato dal dott. (B), era stata dimenticata nell'addome della paziente una garza laparotomica. Dimessa dalla clinica «D» il 16/10/1995, la © subì due interventi chirurgici il 29/12/1995, eseguiti presso l'ospedale di Samo, il primo di «laparotomia sottombelicale per ascesso intraperitoneale contenente pezza laparotomica con asportazione della tuba sinistra» ed il secondo di asportazione dell'ovaio di sinistra. Sempre nell'ospedale di Sarno, rispettivamente in data 20/1/1996 e 4/3/1996, la © subì un primo successivo intervento chirurgico per «ascesso intracavitario in regione paraombelicale sinistra», e poi un secondo per «peritonite infetta delle pelvi e delle ultime anse». Il giudice di primo grado, così come quello di appello, ha ritenuto che il primo intervento fu causato dalla necessità di rimuovere la garza laparotomica, ed i successivi per sopperire alle gravi complicazioni alle quali aveva dato luogo la permanenza della garza nell'addome. Il giudice di appello ha dapprima motivato sul mancato decorrere del termine per la prescrizione, essendosi verificate sospensioni per anni uno, mesi sette e giorni quindici, a causa dei rinvii per impedimento o comunque su istanze dei difensori. Ha poi richiamato per relationem la motivazione della sentenza di primo grado, ed infine ha esaminato i motivi di appello, tra cui anche quelli del responsabile civile «D». Per ciò che concerne la posizione del (A), la Corte territoriale ha ritenuto che dalle dichiarazioni del consulente del P.M. e del testimone (E), che ha sottoposto la © agli interventi chirurgici presso l'ospedale di Sarno, era risultato che l'asportazione della tuba sinistra era avvenuta per effetto della permanenza della garza nell'addome della paziente, e che tutti i successivi interventi erano stati conseguenti al primo. Inoltre, l'avere ritenuto da parte del primo giudice che un intervento più tempestivo avrebbe limitato le conseguenze dannose non immutava il fatto, sempre ricollegato alla negligenza e alla non attenta esecuzione del parto cesareo. La Corte di merito ha poi disatteso il motivo di appello dello (B) attinente ad un ruolo assolutamente marginale tenuto nell'intervento di parto cesareo, rilevando che l'imputato era un collaboratore della casa di cura e partecipava agli interventi che si svolgevano nel suo turno di 171 servizio. Nella specie, il giudice di merito ha rilevato che il (A) ne ha voluto la presenza finché fosse indispensabile, e che lo ha fatto andare via solo quando era «impellente» la sua presenza in reparto. Infine, è stato disatteso anche l'appello del responsabile civile, non condividendosi le eccezioni procedurali, di incompletezza del decreto che aveva disposto la citazione in giudizio, e di tardività, secondo la quale la citazione era avvenuta dopo la prima udienza, avendo poi il responsabile civile potuto compiutamente svolgere tutte le attività difensive necessarie. In ordine alla responsabilità il giudice di merito ha richiamato una sentenza della Corte di Cassazione - sezione civile - in base alla quale in caso di danni causati dall'insuccesso di un intervento chirurgico la casa di cura nella quale l'intervento è stato praticato risponde del danno causato dal chirurgo anche nei casi in cui quest'ultimo non faccia parte dell'organizzazione aziendale della stessa. La Corte ha, quindi, confermato la sentenza di primo grado, tranne che per altro imputato, ed ha condannato in solido gli imputati ed il responsabile civile al rimborso delle spese sostenute dalla parte civile. I due imputati ed il responsabile civile hanno proposto ricorso per cassazione, chiedendo l'annullamento della sentenza della Corte di Appello di Salerno. (A), a mezzo del proprio difensore, con un primo motivo, ha eccepito la violazione degli artt. 521 e 522 C.P.P., deducendo che la Corte di merito aveva risposto solo in parte al motivo di appello, non rilevando invece che il giudice di primo grado aveva sostenuto che una tempestiva rimozione della garza avrebbe consentito una rapida guarigione, ed evitato le successive conseguenze, per cui tutti gli interventi, successivi al primo, sono «causalmente scollegati» con la condotta posta a carico del ricorrente nel decreto di citazione a giudizio. Con un secondo motivo di impugnazione, il ricorrente ha assunto l'erronea applicazione della legge penale in relazione all'attribuzione dell'evento lesivo alla condotta colposa dell'imputato, in quanto, essendosi l'indebolimento permanente dell'organo della riproduzione verificatosi per un errore tecnico compiuto nell'intervento di rimozione della garza, nessun danno permanente si era sviluppato per colpa del ricorrente, e la condotta iniziale, penalmente rilevante, era successiva a quella tenuta nel corso del parto cesareo. Con il terzo ed ultimo motivo di gravame, il ricorrente ha assunto la mancanza di motivazione in ordine allo specifico motivo di appello, secondo il quale la competenza alla conta delle garze è del ferrista, e non del primo operatore. (B), con un primo motivo di ricorso, ha censurato la sentenza impugnata per violazione dell'art. 192 C.P.P. e difetto di motivazione, non essendo egli il «medico di turno» ed avendo occasionalmente assistito il dott. (A). Inoltre, nella stessa sentenza di appello era riconosciuto che egli andò via «quando la sua presenza non era più indispensabile», per cui, effettuandosi la conta delle garze prima della sutura della ferita, egli non era più presente in camera operatoria. Dopo avere ribadito la maggiore competenza del dott. (A) e l'impossibilità di interferire con le sue decisioni, peraltro su un fatto imprevedibile, il ricorrente ha lamentato che la Corte di merito non ha ritenuto di rinnovare l'istruttoria dibattimentale al fine di accertare la propria effettiva partecipazione all'intervento, non suffragata da prova scritta a lui attribuibile. Con il secondo ed ultimo motivo di gravame, lo (B) ha dedotto la violazione dell'art. 157 C.P. in quanto i rinvii sono stati determinati da richieste delle altre parti processuali, per cui nei suoi confronti andava dichiarato estinto il reato ascrittogli per prescrizione. Il responsabile civile, con un primo motivo di ricorso, ha censurato la sentenza impugnata per violazione dell'art. 2049 C.C., ribadendo l'eccezione secondo la quale il dott. (A) non era suo dipendente, né collaboratore, ma il ginecologo di fiducia della partoriente, che aveva chiesto ospitalità alla clinica privata per l'operazione di taglio cesareo. Con il secondo motivo di ricorso, il responsabile civile ha reiterato le eccezioni di violazione dell'art. 83 C.P.P., in particolare perché il giudice si era limitato a provvedere sulla richiesta della parte civile con la sola espressione «visto, si autorizza», ed omettendo di fornire le indicazioni di cui al 3° comma della norma citata, omissione sanzionata con la nullità ai sensi del 5° comma. 172 Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente società ha eccepito la violazione degli artt. 192 e 546 C.P.P. per non avere la Corte di merito accolto la richiesta istruttoria integrativa del dott. (B), che comunque avrebbe partecipato autonomamente all'intervento di taglio cesareo. La società ricorrente ha poi dedotto che non è stata accertata la durata della partecipazione dello (B) all'intervento chirurgico e la fase in cui egli è intervenuto, per cui a suo carico vi è stata un'apodittica applicazione di un principio di responsabilità più oggettiva che per cooperazione colposa. Con il quarto ed ultimo motivo di gravame, la ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 157 C.P., assumendo che non tutti i rinvii erano stati richiesti dal responsabile civile. Motivi della decisione Il ricorso di (A) va dichiarato inammissibile, essendo tutti i motivi di impugnzione palesemente infondati. Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione degli artt. 521 e 522 C.P.P., assumendo che la Corte di merito ha riconosciuto che una tempestiva rimozione della garza nel periodo di degenza avrebbe senz'altro consentito una rapida guarigione ed evitato le successive devastanti conseguenze. Secondo il ricorrente, quindi, tutti gli interventi successivi al primo non possono essere causalmente ricollegati all'errore verificatosi, per cui la contestazione nel decreto di citazione, dalla quale l'imputato si è difeso, è diversa dal fatto per il quale è stato condannato. Sul punto, si osserva, in primo luogo, che la Corte territoriale ha ritenuto (pagg. 5 e 6 sentenza impugnata) sussistere comunque il nesso di causalità tra la condotta omissiva del (A), per avere lasciato la garza laparatomica nell'addome della paziente, e gli eventi lesivi successivi, in quanto, senza l'iniziale negligenza, nessuna conseguenza negativa incidente sulla salute di © si sarebbe verificata. Tale valutazione è così ampiamente logica da non potere meritare censura alcuna, e quindi supera l'eccezione procedurale, in quanto nessuna divergenza vi è stata tra l'imputazione contestata e la sentenza a norma dell'art. 521, 2° comma, C.P.P. Ma, in ogni caso, il ricorrente lamenta che da una contestazione più ampia (e cioè conseguenze lesive per vari interventi chirurgici, oltre che per l'indebolimento permanente dell'organo della riproduzione) sarebbe stato enucleato, per sopravvenuta incidenza di altre cause, un evento più circoscritto, dato che non è certamente variata la condotta addebitatagli. Premesso - ed è bene ribadirlo - che la sentenza impugnata non ha in nessun modo recepito tale versione dei fatti, ritenendo con motivazione chiara e congrua, che la condotta del (A) è stata causa di tutti i successivi eventi lesivi, in quanto antecedente causale determinante, la parziale riduzione dell'evento (e non certamente della condotta) rispetto alla contestazione più ampia, avrebbe al più costretto il ricorrente a difendersi da altri fatti addebitatigli, e dei quali non era stato ritenuto colpevole, fattispecie che esula completamente dalla previsione di nullità di cui agli artt. 521, 2° comma, e 522 C.P.P., che riguarda la sentenza emessa per un fatto diverso da quello descritto nel decreto di citazione a giudizio o contestato a norma degli artt. 516, 517 e 518, comma 2, ma non certamente la limitazione della condanna ad uno solo dei fatti contestati. Concludendo sul punto va ricordato che «con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale in contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione» (Cass. sezioni unite 19/6/1996 n. 16; conformi Cass. 7/6/2000 n. 7929; Cass. 5/7/2000 n. 10525). Le ragioni appena esposte consentono di ritenere palesemente infondato anche il secondo motivo di ricorso, assumendo il (A) che la sentenza di secondo grado avrebbe nella motivazione accolto 173 l'appello, ritenendo che l'indebolimento permanente dell'organo della riproduzione si era verificato non per colpa del ricorrente, ma per un errore tecnico verificatosi nel corso dell'intervento chirurgico effettuato per asportare la garza. Va ribadito che non è così, e che la semplice lettura delle pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata dimostra che i giudici di appello hanno ritenuto, in base alla consulenza tecnica disposta dal P.M. ed alle dichiarazioni del teste (E), che ha effettuato gli interventi chirurgici sulla persona della © nell'ospedale di Sarno, che «la causa diretta dell'indebolimento dell'organo della riproduzione è costituita dalla non attenta esecuzione dell'intervento di parto cesareo». Nella specie, pertanto, è anche superfluo qualsiasi richiamo alla costante giurisprudenza delle SS.UU. di questa Corte sulla inammissibilità delle censure di merito (Cass. 24/9/2003 n. 18; conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997), trattandosi di ricorso nel quale sono indicate valutazioni attribuite al giudice di merito, che non trovano riscontro nella lettura della sentenza impugnata, e neppure in valutazioni di carattere logico. Infatti, se i giudici di merito avessero ritenuto la esclusiva o concorrente responsabilità dei medici che avevano operato la © dopo l'intervento di parto cesareo, avrebbero dovuto rimettere gli atti al P.M. per procedere nei loro confronti. Non solo ciò non si è verificato, ma addirittura uno di tali chirurghi, il (E), è stato esaminato come testimone, e le sue dichiarazioni sono state valorizzate per confortare le risultanze degli accertamenti tecnici medico-legali. Con il terzo ed ultimo motivo di impugnazione il ricorrente ha censurato la sentenza gravata per non avere risposto al motivo di appello, secondo il quale la competenza alla conta delle garze è del ferrista e non del primo operatore. La Corte di Appello di Salerno, pur con motivazione sintetica, ha invece precisato che «appare appena il caso di ribadire che della evidenziata negligenza ne debba rispondere il (A) quale principale operatore» (pag. 6). Tale orientamento giurisprudenziale è stato recentemente ribadito con due sentenze di questa sezione (Cass. 26/5/2004 n. 39062; Cass. 2/3/2004 n. 24036). Alla declaratoria di inammissibilitià del ricorso proposto da (A) consegue, a norma dell'art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in euro 1.000,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità. La declaratoria di inammissibilità del ricorso impedisce di dichiarare il reato di lesioni colpose estinto per prescrizione. Come è stato affermato dalla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 32 del 22/11/2000, l'inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 C.P.P., tra cui la prescrizione del reato, maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso, come precisato a pag. 4 del provvedimento gravato (conformi Cass. 8/1/2001 n. 7678; Cass. 27/11/2002 n. 5758; Cass. 20/1/2004 n. 18641). A diverse conclusioni si deve pervenire per il ricorso di (B), che non è manifestamente infondato. Nella specie, il delitto di lesioni colpose è stato commesso l'11/10/1995, identificandosi il momento consumativo del reato di cui all'art. 590 C.P. in quello di insorgenza della malattia (Cass. 9/5/2003 n. 37432; Cass. 8/1/1998 n. 2522). A norma dell'art. 157 n. 4 C.P., per il delitto in questione il termine di prescrizione è di anni cinque, aumentato della metà in conseguenza dei numerosi atti interruttivi ex art. 160 C.P., pervenendosi così alla data dell'11/4/2003. Vanno ancora aggiunti anni uno, mesi sette e giorni quindici, per le numerose sospensioni (art. 159 C.P.) a causa di rinvii per impedimenti o comunque su richiesta degli imputati o di alcuni di essi, e cioè, in primo grado, dall'udienza del 14/3/2000 a quella dell'11/4/2000, e da questa a quella del 9/5/2000, nonché dall'udienza dell'11/7/2000 a quella del 26/9/2000 e da questa a quella del 12/12/2000, e, in grado di appello, dall'udienza del 21/3/2003 a quella del 27/11/2003, e da questa a quella del 22/4/2004. Ne consegue che il termine di prescrizione è scaduto definitivamente il 26/11/2004, e cioè nel periodo intercorrente tra l'emissione della sentenza di appello e di quella di legittimità. 174 Occorre precisare comunque che è infondato il secondo motivo di ricorso, secondo il quale il termine di prescrizione sarebbe scaduto prima della sentenza di appello, non essendo state tutte le richieste di rinvio formulate dalla difesa dello (B), che comunque non si è mai opposto, come da lui ammesso in ricorso. Infatti, la richiesta di rinvio investe l'intero processo, e non la posizione del singolo imputato, né la separazione dei procedimenti avrebbe giovato alla loro speditezza, e soprattutto all'accertamento dei fatti in modo omogeneo (Cass. 3/12/2003 n. 46321). La declaratoria di estinzione del reato per prescrizione nei confronti dello (B) è conseguente alla circostanza che il primo motivo di ricorso è fondato ed avrebbe legittimato l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata per difetto di motivazione su un punto rilevante della decisione, e cioè l'accertamento del momento in cui il ricorrente si sarebbe allontanato dalla camera operatoria. A questo Collegio non sfugge - anzi si condivide - la già citata giurisprudenza di legittimità, secondo la quale, in tema di colpa professionale, nel caso di équipes chirurgiche, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e di prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto ad osservare gli obblighi ad ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio o facendo in modo che si ponga opportunamente rimedio ad errore altrui che siano evidenti e non settoriali e, come tali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Cass. 2/3/2004 n. 24036). Ancor più specificamente, proprio in una fattispecie attinente alla mancata rimozione dall'addome di un paziente di una pinza chirurgica, spezzatasi ed in parte scivolata nelle anse intestinali, la Corte di legittimità ha ulteriormente specificato che il controllo della rimozione dei ferri spetta all'intera équipe operatoria, cioè ai medici, che hanno la responsabilità del buon esito dell'operazione anche con riferimento a tutti gli adempimenti connessi, e non può essere delegato al solo personale paramedico, avendo gli infermieri funzione di assistenza, ma non di verifica (Cass. 26/5/2004 n. 39062). Va, però, considerato che il giudice non può sottovalutare la circostanza dello «scioglimento dell'équipe operatoria», che può anche non incidere sull'esclusione della colpa e del nesso di causalità, qualora avvenga, ad esempio, in un intervento ad alto rischio, senza giustificazioni per chi si allontana, e quindi facendo venire meno quel contributo di conoscenze professionali che possono salvaguardare l'incolumità del paziente in presenza di errore altrui. Al contrario, lo stesso «scioglimento dell'équipe operatoria» in una fase in cui l'intervento può ritenersi, se non concluso, solo da definire con adempimenti della massima semplicità, quali la conta delle garze e dei ferri da rimuovere o già rimossi, e, subito dopo, la sutura della ferita, a conclusione di un'operazione chirurgica perfettamente riuscita, ed essendo il medico che si allontana giustificato da altre più pressanti ed urgenti attività mediche, consente di escludere la colpa per negligenza e, di conseguenza, l'incidenza causale sull'evento. Nella specie, la stessa motivazione della sentenza impugnata, pur valorizzando le dichiarazioni rese dallo stesso (B), e ritenute per lui solo pregiudizievoli in relazione all'esclusione di un ruolo secondario nell'intervento di parto cesareo, precisa che il ricorrente ha dichiarato di essersi allontanato dalla sala operatoria quando la sua presenza non era «più indispensabile», e si recò in reparto ove «era impellente» la sua presenza (pag. 7). Non vi è dubbio alcuno che la negligenza consistita nell'avere lasciato la garza nell'addome della © si è verificata nella fase finale dell'intervento, e cioè appena prima della sutura della ferita, essendo in precedenza non solo giustificata, ma opportuna la sua permanenza nel corpo della paziente. Al momento in cui la sentenza dà atto di un credibile allontanamento dello (B) prima che tutto l'intervento di parto cesareo (da ritenersi concluso con la sutura della ferita) sia terminato, la Corte di merito, sullo specifico motivo di appello dell'imputato, riproposto in sede di legittimità di una partecipazione parziale del ricorrente all'intervento o avrebbe dovuto pronunciarsi sulla presenza o meno dello (B) alla conta delle garze, o, quanto meno al momento in cui doveva essere eseguita, se 175 la conta non è stata fatta, ma non può, in primo luogo, ritenere che, anche in caso di assenza del ricorrente, questi ne deve rispondere avendo fatto parte dell'équipe operatoria, e, in secondo luogo, se la circostanza di fatto non risulti oggetto di indagine istruttoria, non può ritenere non decisiva la richiesta di integrazione istruttoria al fine di accertare la misura della partecipazione dello (B) all'operazione di parto cesareo. Sotto il primo aspetto la motivazione comporta una violazione di legge sostanziale addebitando la cooperazione colposa ex art. 113 C.P. a soggetto estraneo alla condotta colposa di negligenza, né portatore di un'autonoma colpa concorrente con quella del (A), tenuto conto della sua assenza nel momento in cui è stata omessa o male eseguita la verifica delle garze, e ben potendosi ritenere (ma la valutazione spetterebbe al giudice di merito) che le specifiche incombenze per le quali è stato chiamato nel reparto di una clinica privata siano più urgenti delle semplici fasi di completamento di un intervento di parto cesareo fino a quella fase perfettamente riuscito. Per ciò che concerne il secondo aspetto, e cioè la possibilità che sul punto (e cioè l'individuazione del momento dell'allontanamento dello (B) dalla sala operatoria) non sia stato effettuato in primo grado alcun accertamento, ritenendosi la presenza nell'équipe già decisiva per dichiarare la responsabilità del ricorrente, la motivazione di rigetto della richiesta di rinnovamento dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 C.P.P. è in parte mancante e in parte manifestamente illogica. È mancante là dove valuta la richiesta istruttoria al solo fine di escludere il ruolo marginale del ricorrente nell'esecuzione dell'intervento di taglio cesareo, e non anche per determinare la cooperazione colposa nel reato; è manifestamente illogica là dove assume che il suo allontanamento quando la presenza non era più «indispensabile» è prova della sua responsabilità, aggravando tale illogicità con la ritenuta «impellente» necessità di recarsi in reparto. Al contrario, proprio tali valutazioni avrebbero dovuto indurre i giudici di appello a disporre la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ex art. 603 C.P.P., trattandosi di risolvere una questione di diritto sostanziale, per la quale solitamente la giurisprudenza massimata di legittimità non può comprendere tutte le possibili variabili di fatto, a differenza di quel che avviene per lo più per i vizi processuali (ad es. tardività dell'impugnazione ex art. 585 C.P.P.). Pertanto, pur se va ribadito che, in tema di colpa professionale, l'intera équipe chirurgica è tenuta ad osservare gli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, e tra tali obblighi rientra anche quello di porre rimedio agli errori di altro medico, pur specialista, se questi siano rilevabili ed emendabili con l'ausilio di comuni conoscenze scientifiche del professionista medio, l'anticipato «scioglimento dell'équipe chirurgica» per cause giustificate o dalla semplicità delle residue attività da compiere o dalla impellente necessità di uno dei componenti dell'équipe di prestare la propria opera professionale per la cura indilazionabile di altro o altri pazienti, o - a maggior ragione - per il concorso di entrambe le cause, ben può esonerare da responsabilità colposa il medico allontanatosi, che non era quindi presente nel momento in cui o è stata omessa la dovuta prestazione professionale (negligenza) o è stato eseguito un maldestro intervento (imperizia o imprudenza), che ha causato conseguenze colpose per il paziente. Nella specie, dalla motivazione della sentenza impugnata si evince che o tale accertamento è del tutto carente nel procedimento a carico del ricorrente, e quindi, andava eseguito, anche in sede di appello, o - se oggetto dell'istruttoria nel primo grado di giudizio - di esso non è stato tenuto alcun conto per la decisione, pur trattandosi di valutazioni indispensabili al fine di individuare o escludere la responsabilità del ricorrente (B). Essendo il reato estinto per prescrizione, per ciò che concerne le determinazioni penali, tale formula prevale sull'annullamento con rinvio ex art. 623 C.P.P., e, in relazione al solo ricorso dello (B), gli atti vengono rinviati per le sole statuizioni civili al giudice civile competente per valore in grado di appello. Per ciò che riguarda il ricorso del responsabile civile (D), vanno preliminarmente esaminate le eccezioni di carattere processuale sulla regolarità della vocatio in iudicium. In sede di legittimità, la società ricorrente insiste principalmente per la nullità della citazione, ai sensi del 5° comma dell'art. 83 C.P.P., in quanto il decreto autorizzativo del giudice del 5/9/2000 176 non contiene gli elementi di cui al 3° comma della stessa norma, essendo limitato ad un mero «letta la richiesta che precede, autorizza la citazione». Osserva il Collegio che, trattandosi di decreto apposto in calce alla istanza di autorizzazione alla citazione del responsabile civile, il provvedimento del giudice è automaticamente. integrato dai dati contenuti nella domanda di citazione, che contiene tutti gli elementi specificati nel citato 3° comma, e cioè: a) la denominazione della società e l'indicazione del suo legale rappresentante; b) la domanda di risarcimento del danno, quantificata in lire 500.000.000; c) l'invito a costituirsi ai sensi dell'art. 84 C.P.P. Il provvedimento è poi sottoscritto dal giudice e reca la data del 5/9/2000. L'altra eccezione di rito, trattata nel ricorso per cassazione in modo generico, è da ritenersi abbandonata, ed è comunque infondata, in quanto la citazione è stata disposta per un'udienza successiva alla prima, quando questa però era stata rinviata prima della regolare costituzione delle parti ex art. 484 C.P.P., per cui, non essendosi instaurato il contraddittorio, il dibattimento non era neppure iniziato, e - secondo la migliore dottrina - in tale caso la citazione del responsabile civile è regolare, in quanto nessuna attività dibattimentale è possibile prima degli adempimenti di cui all'art. 484 C.P.P. Anche il primo motivo di ricorso è infondato. Il responsabile civile reitera l'eccezione di violazione dell'art. 2049 C.C., assumendo che, non essendo il (A) legato da alcun rapporto di collaborazione o di lavoro dipendente con la casa di cura privata, dove è stato eseguito l'intervento di parto cesareo, non sussiste alcun vincolo perché la società (D) sia tenuta a risarcire il danno alla ©. È ormai giurisprudenza civile costante che «nel caso di danni causati dall'insuccesso di un intervento chirurgico, la casa di cura nella quale l'intervento è stato praticato risponde, a titolo contrattuale ex art. 1218 C.C., del danno causato dal chirurgo, anche nei casi in cui quest'ultimo non faccia parte dell'organizzazione aziendale della casa di cura» (Cass. civile 8/1/1999 n. 103; conformi Cass. 8/5/2001 n. 6386; Cass. 14/7/2004 n. 13066). Infatti, il ricovero in una struttura deputata a fornire assistenza sanitaria avviene sulla base di un contratto tra il paziente ed il soggetto che gestisce la struttura, e l'adempimento di tale contratto, per quanto riguarda le prestazioni di natura sanitaria, è regolato dalle nome che disciplinano la corrispondente attività del medico nell'ambito del contratto di prestazione d'opera professionale. Il soggetto gestore della struttura sanitaria (pubblico o privato) risponde perciò per i danni che siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme dettate dagli artt. 1176, secondo comma, 1218 e 2236 C.C. Per ciò che concerne il terzo motivo di ricorso, per le ragioni appena esposte, l'eventuale partecipazione dello (B) all'intervento chirurgico come professionista autonomo, e non quale dipendente della società (D), non ha rilevanza alcuna. La questione della sua parziale partecipazione è stata già trattata e risolta - almeno ai fini penali - da questa Corte esaminando il ricorso dello stesso (B), ed alla cui motivazione si fa rinvio, mentre la stessa questione ha indubbia rilevanza per le statuizioni civili anche nei confronti della (D). Infatti, il ricorso del responsabile civile va senz'altro rigettato con riferimento al motivo attinente alla violazione dell'art. 83 C.P.P. e limitatamente al fatto attribuito a (A) (primo motivo nell'atto di ricorso), per le ragioni già esposte alla pagina che precede. Essendo, invece, fondato il motivo di ricorso attinente alla non provata - ai fini penali responsabilità dello (B), pur non potendosi, allo stato, escludere la responsabilità civile del detto medico, non ostandovi la declaratoria di estinzione del delitto di lesioni colpose per prescrizione, non vi è dubbio che anche il responsabile civile vada rimesso dinanzi al giudice civile competente in relazione al fatto di (B). Infine, per ciò che riguarda il quarto ed ultimo motivo, con il quale è stata eccepita la prescrizione del reato verificatasi, anche secondo il responsabile civile, prima della sentenza di appello, va ritenuto che trattasi di motivo di impugnazione, proposto dal responsabile civile, consentito dall'art. 575 C.P.P. in presenza di una sentenza di condanna degli imputati in secondo grado, ma comunque infondato per le ragioni esposte, trattando i motivi di ricorso proposti dallo (B) (pag. 9). 177 P.Q.M. La Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di (B), in quanto il reato ascrittogli è estinto per prescrizione, e rinvia per le statuizioni civili al giudice civile competente per valore in grado di appello. Dichiara inammissibile il ricorso di (A) e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende. Rigetta il ricorso del responsabile civile limitatamente al fatto di (A), e rimette lo stesso dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello in relazione al fatto di (B). -Ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte. Deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell'"equipe” e deve porre rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE IV PENALE Sentenza 12 luglio 2006 - 6 ottobre 2006, n. 33619 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE PENALE SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il Tribunale di Cosenza condannava B. R. e I. U. alla pena ritenuta di giustizia per aver colposamente cagionato, nella loro qualità di medici presso l'ospedale civile di S. Giovanni in Fiore, la morte di M. M. A., nel corso di un intervento di parto cesareo, in particolare per aver entrambi errato la manovra di intubazione a seguito di anestesia generale introducendo per due volte la cannula nell'esofago invece che in trachea e determinando così anossia prolungata con exitus (evento in S. Giovanni in Fiore il 6 febbraio 1998). A seguito di gravame ritualmente proposto nell'interesse di B. e I., la Corte d'Appello dì Catanzaro dichiarava inammissibile l'impugnazione proposta dal B. - sull'asserito rilievo dell'inosservanza di talune formalità previste dal codice di rito a pena di inammissibilità - e, quanto a I., confermava l'impugnata decisione, motivando il proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: a) era infondata l'eccezione di prescrizione del reato posto che il decorso del relativo termine aveva subito taluni periodi di sospensione, per un tempo complessivo di oltre 18 mesi, in conseguenza di rinvii disposti su richiesta della difesa di I. stesso per impedimento del difensore, nonché (dal 17 luglio 2003 al 19 febbraio 2004) per l'eventuale esercizio della facoltà di avvalersi del patteggiamento "allargato" ai sensi della legge n. 134 del 2003; b) alla visita anestesiologica cui la M. si era sottoposta in vista dell'intervento, non erano emerse controindicazioni di sorta; c) in occasione dell'intervento di parto cesareo la paziente aveva manifestato i primi sintomi di sofferenza da ipossigenazione dopo l'intubazione necessaria a garantire l'ossigeno, tanto da indurre i sanitari ad una nuova introduzione del tubo nella trachea; d) nonostante il secondo tentativo la situazione era degenerata in arresto cardiaco che aveva portato al decesso della paziente; e) dalla consulenza tecnica, disposta dal P.M. e dalla perizia autoptica era emerso che il decesso era stato determinato da prolungata anossia conseguente a mancata intubazione: dato conforme alle 178 risultanze della cartella clinica, dell'esame istopatologico e degli elementi valutativi acquisiti in occasione delle deposizioni dei vari testimoni escussi (in particolare, tra i vari elementi, la presenza di sangue di colore scuro - e quindi scarsamente ossigenato - pochi minuti dopo la prima intubazione); f) l'individuazione della causa della morte nell'errato inserimento del tubo endotracheale poteva dirsi quale dato acquisito e non revocabile in dubbio; g) lo stato di salute del neonato appariva elemento poco probante per escludere il difetto di ossigenazione della madre posto che il chirurgo aveva provveduto pochissimi minuti dopo la prima intubazione all'apertura della fascia addominale ed alla rapida estrazione del feto: dunque, stante la rapidità del parto, il feto aveva potuto godere di autonomi meccanismi di compensazione idonei ad ovviare alle carenze improvvise della madre (mentre il bambino era stato portato alla luce in buona salute); h) appariva priva di pregio la tesi difensiva dello laquinta, secondo cui questi avrebbe svolto un ruolo del tutto marginale nella vicenda mentre responsabile dell'intervento sarebbe stato il B.; la Corte distrettuale evidenziava che secondo l'indirizzo consolidato delineatosi in materia nella giurisprudenza di legittimità, nel caso di interventi in “equipe” ciascun sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle mansioni specificamente ed effettivamente svolte, ma deve costituire anche una sorta di garanzia per la condotta degli altri componenti e porre quindi rimedio agli eventuali errori altrui, purchè siano evidenti per un professionista medio e non settoriali di una specifica disciplina estranea alle sue cognizioni; i) nella concreta fattispecie si era trattato di errori piuttosto banali e comunque relativi alla comune attività di anestesista dei due imputati: in una prima fase, relativa all'intubazione - errata - da parte del B., lo I., procedendo all'auscultazione, con il fonendoscopio, del torace della paziente, non si era accorto dell'errore del collega ed aveva dato il proprio beneplacito all'inizio dell'intervento; nella seconda fase era stato personalmente lo laquinta a procedere all'intubazione; l) lo laquinta aveva partecipato dunque attivamente alle due fasi dell'anestesia, entrambe caratterizzate da manovre errate; m) risultava priva di fondamento l'eccezione di violazione del principio di correlazione tra la contestazione e la sentenza, avendo l'imputazione mossa allo laquinta fatto espresso riferimento alla errata manovra di intubazione costituita dall'avere introdotto per due volte la cannula nell'esofago invece che nella trachea; n) alcuna incidenza avevano avuto le condizioni fisiche della M., risultando dagli atti che la donna non presentava tracce di patologie preesistenti che potessero aver contribuito per via organica alla ipossigenazione, ed aveva caratteristiche strutturali (conformazione del collo, diametro boccale, distanza delle corde vocali) del tutto normali ed idonee a consentire un'agevole intubazione, come peraltro confermato anche dalla visita pre-anestesiologica che non aveva evidenziato alcuna anomalia. Hanno proposto ricorso per cassazione lo laquinta ed il B.. All'udienza del 2 febbraio 2006, essendo risultato deceduto l'avvocato Giuseppe Mazzotta, difensore di fiducia e domiciliatario dello I., è stato disposto lo stralcio degli atti relativi alla posizione di quest’ultimo ed è stato deciso il ricorso del solo B.. Il procedimento relativo al ricorso dello I. è stato quindi rinviato all'odierna udienza, con avviso al difensore di ufficio avvocato Falcolini ed avviso per lo laquinta, ai sensi dell'art. 161, comma quarto,c.p.p., allo stesso avvocato Falcolini, non essendo pervenuta nomina di altro difensore di fiducia da parte dell'imputato, in sostituzione dell'avvocato Mazzotta deceduto, e nemmeno altra dichiarazione o elezione di domicilio (essendo divenuta impossibile la notifica presso il precedente domiciliatario, lo stesso avvocato Giuseppe Mazzotta, perché, appunto, deceduto). Le censure dedotte dallo I. possono così sintetizzarsi: 1) asserita violazione del principio di correlazione tra contestazione e sentenza; 2) la Corte d'Appello avrebbe errato nel computo dei periodi di sospensione del decorso della prescrizione avendo calcolato anche il periodo relativo al rinvio richiesto dalla parte ai sensi della legge n. 134 del 2003; 3) vizio motivazionale in ordine alla 179 ritenuta colpevolezza dello laquínta poiché questi sarebbe intervenuto dopo la comparsa del sangue scuro - segno di rilevante anossia - e quindi allorquando la paziente doveva considerarsi già deceduta.. MOTIVI DELLA DECISIONE Il Collegio rileva l'inammissibilità del gravame per i motivi di seguito precisati. La doglianza relativa all'omessa correlazione tra accusa contestata e sentenza è manifestamente infondata, giacché, secondo giurisprudenza costante di questa Corte (Casa. sez. un. 22 ottobre 1996 n.16 rv.205619), per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedisseguo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza, perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è dei tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l’"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione: nel caso in esame l'affermazione di responsabilità dello I. risulta basata sull'imperita auscultazione polmonare nella prima intubazione eseguita dal B. e sull'errata intubazione effettuata una seconda volta dallo I. personalmente, sicché si tratta di operazioni concernenti la stessa attività (intubazione), cui si riferisce il capo di imputazione. A ciò aggiungasi che uniforme giurisprudenza di questa Corte (Cass. sez. IV 21 giugno 2004 n.27851 rv.229071, fra le più recenti) afferma che nei procedimenti per reati colposi, quando nel capo d'imputazione sono stati contestati elementi "generici" e "specifici" di colpa, non sussiste violazione del principio di correlazione tra sentenza ed accusa nel caso in cui il giudice abbia affermato la responsabilità dell'imputato per un'ipotesi di colpa diversa da quella specifica contestata; infatti, il riferimento alla colpa generica (nella concreta fattispecie con l'indicazione dell'imperizia) evidenzia che la contestazione riguarda la condotta dell'imputato globalmente considerata, sicché questi è in grado di difendersi relativamente a tutti gli aspetti dei comportamento tenuto in occasione dell'evento di cui è chiamato a rispondere. Parimenti destituita di qualsiasi fondamento risulta la censura relativa alla ritenuta insussistenza dei presupposti per la declaratoria di prescrizione. Appare infatti esatto il computo delle sospensioni del termine prescrizionale, calcolate dalla Corte territoriale per un periodo complessivo di oltre 18 mesi (precisamente si tratta di 18 mesi e 16 giorni), anche con riferimento al rinvio richiesto in applicazione dell'art.5 della legge n. 134 del 2003, giacché il secondo comma della citata disposizione espressamente prevede che "il dibattimento è sospeso per un periodo non inferiore a quarantacinque giorni… e durante tale periodo sono sospesi i termini di prescrizione": sicché la predetta causa estintiva maturerà il 22 febbraio 2007. Con riferimento al vizio motivazionale, va ribadito che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato - per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali (tranne che si verta nell'ipotesi introdotta con la legge n. 46 del 2006, estranea ai motivi enunciati con il ricorso). L'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici (Cass. sez. un. 16 dicembre 1999 n. 24 rv.214794). La Corte territoriale ha dimostrato in maniera ineccepibile come la responsabilità del decesso sia ascrivibile allo I.. Infatti, i giudici di seconda istanza, rispondendo a tutte le doglianze mosse, hanno 180 evidenziato che l'annerimento del sangue, constatato subito dopo l'inizio dell'intervento, fu il sintomo iniziale della sofferenza acuta da ipossigenazione; ed hanno altresì sottolineato che, in materia di colpa professionale di "equipe", ogni sanitario è responsabile non solo del rispetto delle regole di diligenza e perizia connesse alle specifiche ed effettive mansioni svolte, ma deve anche conoscere e valutare le attività degli altri componenti dell' "equipe" in modo da porre rimedio ad eventuali errori posti in essere da altri, purché siano evidenti per un professionista medio, giacché le varie operazioni effettuate convergono verso un unico risultato finale; la Corte d'Appello non ha mancato infine di precisare che, nella concreta fattispecie, si è trattato di errori piuttosto banali e comunque relativi proprio alla attività di anestesista dello I.. Questi non si è avveduto della prima manovra di intubazione eseguita dal B., ed ha provveduto ad effettuare la seconda, erronea; sicché "ha partecipato attivamente alle due fasi della anestesia, entrambe errate" (per come si legge testualmente nell'impugnata sentenza); ciò costituisce elemento tranciante rispetto all'affermazione dello laquinta secondo cui questi sarebbe intervenuto solo allorquando si era già verificato il decesso della M. (affermazione peraltro priva di qualsiasi fondamento alla luce di quanto ritenuto accertato in sede di merito dalla Corte territoriale: quest'ultima ha precisato, infatti, che la situazione degenerò in arresto cardiaco dopo la seconda introduzione del tubo nella trachea della M.). Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente (peraltro con argomentazioni generiche ed assertive), il convincimento espresso dalla Corte distrettuale si pone anche del tutto in sintonia con i princìpi enunciati in materia da questa Corte a Sezioni Unite (Sez. Un., 10 luglio 2002, Franzese): si è trattato infatti di un banalissimo intervento di taglio cesareo, eseguito su persona del tutto sana e priva di controindicazioni alla anestesia, deceduta soltanto a causa di un'errata manovra di intubazione, posta in essere dallo I. per le ragioni già illustrate. Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, dei ricorrente: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in euro mille. P. Q. M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorre e al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.000,00= in favore della cassa delle ammende. Roma, 12 luglio 2006. Il Presidente (Giovanni Silvio Coco) Il Consigliere estensore (Vincenzo Romis) ABUSIVO ESERCIZIO DELL'ATTIVITA’ MEDICA Tizia è amica da diversi anni di Francesca. Un giorno Francesca avvertiva dolori molto forti all’addome e si consultava con Tizia che, a suo dire, si era laureata in medicina. Tizia consigliava a Francesca di prendere il medicinale Fictio III almeno due volte al giorno, preferibilmente dopo i pasti; Francesca, fidandosi dell’amica (presuntivamente) laureata in medicina, eseguiva quanto consigliato. 181 Francesca peggiorava e si ricoverava all’ospedale, dove il medico Tartufell spiegava alla paziente che, con ogni probabilità, la situazione relativa all’addome era peggiorata a causa dell’utilizzo erroneo del medicinale Fictio III. Tizia, venuta a sapere del fatto, si recava dal legale Sempronio, facendo sapere di non essere laureata in medicina. Il candidato affronti la questione giuridica relativa alla sussistenza o meno del reato di abusivo esercizio della professione. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto. Successivamente, il problema andava inquadrato nell’ambito dell’art. 348 c.p. Tizia ha integrato gli estremi del reato di cui all’art. 348 c.p.? La particolarità della questione, essenzialmente, riguarda il problema interpretativo relativo al se sia necessario agganciarsi a criteri formali ovvero sostanziali, nell’ambito dell’applicazione di tale disposizione; più chiaramente, esercita abusivamente la professione sanitaria, ai fini dell’art. 348 c.p., solo colui che sistematicamente e con una struttura ad hoc riceve pazienti e prescrive farmaci, oppure anche colui che, sporadicamente, ovvero una tantum, suggerisce determinati medicinali? La prima opzione interpretativa sembrerebbe più ragionevole, in quanto punirebbe, in concreto, solo le condotte che abbiano raggiunto un minimum di offensività, coerentemente con l’art. 49 c.p. La seconda opzione ermeneutica, che intende per esercizio abusivo anche il mero consiglio suggerito una tantum, sembrerebbe più garantista. Invero la giurisprudenza che si è occupata dell’argomento ha individuato sempre una certa sistematicità dell’esercizio abusivo, sul presupposto che l’esercizio, ex se, richiederebbe una certa sistematicità. In questo senso, allora, Tizia non sembra aver esercitato abusivamente l’attività medica, quanto piuttosto aver suggerito, erroneamente, un medicinale pericoloso a Francesca; inoltre, nel caso di specie, indubbiamente, proprio per la carenza di sistematicità e di una struttura organizzata, non vi è il dolo dell’esercizio abusivo. Ne segue che, da questa angolazione prospettica, Tizia non risponderà del reato ex art. 348 c.p. L’argomento può essere ripetuto dal testo di Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, Giuffrè. Si consiglia di leggere la sentenza che segue. - Se non è ipotizzabile esercizio abusivo della professione di biologo nel fatto di chi usi l'apparecchio per ottenere una diagnosi che lo riguarda, per lo stesso motivo deve essere esclusa la configurabilità del reato nella condotta di chi, avendo posto a disposizione del pubblico un apparecchio per autodiagnosi, esegua in luogo dell'interessato quelle operazioni meramente materiali che sono necessarie per il suo funziona mento e per la produzione automatica della diagnosi. sentenza n. 39087 del 3 novembre 2001 Corte Suprema di Cassazione Giurisprudenza Civile e Penale (Sezione Sesta Penale - Presidente R. Leonasi - Relatore A. Di Virgilio) 182 Con sentenza in data 10.3.2000 il Tribunale di Milano dichiarava B. C. S. e C. R. responsabili del reato di cui agli artt. 110-348 c.p. per avere, il primo quale titolare di una farmacia e la seconda quale farmacista alla stessa addetta, esercitato abusivamente la professione di biologo eseguendo analisi del sangue e prestazioni di diagnostica strumentale di patologia clinica. Come risulta dalla sentenza impugnata, nel corso di un'ispezione eseguita presso la farmacia del B. si era constatato che esisteva nella stessa, pubblicizzata del resto da un cartello apposto all'ingresso, una apparecchiatura di cosiddetta autodiagnostica rapida, per esame di ematocrito, glicemia, colesfirolomia e trigliceridi. Durante l'ispezione si presentava un cliente per l'esame dell'ematocrito; e tutte le operazioni relative (prelievo di una goccia di sangue; confezionamento del "vetrino" e inserimento dello stesso nell'apparecchio) venivano eseguite dalla C., che assisteva il richiedente fino all'esito dell'esame fornito dall'apparecchio. Secondo il giudice di merito, pur essendo del tutto lecita l'installazione dell'apparecchiatura autodiagnostica presso una farmacia, l'intervento della farmacista (che aveva gestito tutte le fasi dell'operazione senza essere stata neppure sollecitata da una richiesta di aiuto del cliente, in conformità evidente con una prassi abituale necessariamente nota anche al B. e dallo stesso quanto meno accettata) aveva comportato un uso dell'apparecchio a fine di diagnosi eseguita da un soggetto diverso dal paziente; e cioè un atto tipico della professione di biologo. Da qui la configurabilità del reato ascritto agli imputati. Ricorrono questi ultimi a mezzo del comune difensore, deducendo erronea applicazione dell'art.348 c.p. nonché manifesta illogicità della motivazione relativamente all'elemento psicologico del reato. Il B. deduce manifesta illogicità della motivazione anche relativamente al concorso nel reato attribuitogli. I rilievi dei ricorrenti sono fondati. È ben vero che, così come ricorda la sentenza impugnata, le analisi biologiche non sono consentite ai farmacisti, trattandosi di atto tipico della professione di biologo. Nel caso di specie non vi è stata però alcuna analisi, e cioè alcuna valutazione di dati obiettivi acquisiti attraverso esami clinici, poiché il risultato degli accertamenti è derivato in via automatica e senza alcun intervento umano dall'uso dell'apparecchio posto a disposizione del pubblico nei locali della farmacia. La caratteristica distintiva degli apparecchi per cosiddetta autodiagnostica rapida è, per l'appunto, quella di consentire una diagnosi immediata per via strumentale e senza interferenza alcuna da parte dell'operatore, che é di solito (ma non necessariamente) il paziente, medesimo; tant'è che i predetti apparecchi vengono di solito venduti o dati a noleggio per uso domiciliare. Se così è, l'uso dell'apparecchio non può comunque invadere la sfera riservata all'esercizio della professione di biologo o a quello di qualsiasi altra professione; e non si configura, al contrario di quanto ritiene la sentenza impugnata, alcuna differenza tra il caso in cui l'apparecchio venga posto in funzione dal paziente stesso oppure da altra persona più esperta del suo funzionamento, così come avvenuto nella fattispecie, perché in entrambe le ipotesi l'acquisizione dei dati e la loro valutazione non dipendono dall'intervento dell'utente, che è diretto unicamente ad attivare le funzioni dell'apparecchio e non interferisce in alcun modo con la formazione della diagnosi, scaturente da una procedura informatica cui è estraneo qualsiasi intervento umano. Se non è ipotizzabile, come riconosce la sentenza impugnata, esercizio abusivo della professione di biologo nel fatto di chi usi l'apparecchio per ottenere una diagnosi che lo riguarda, per lo stesso motivo deve essere esclusa la configurabilità del reato nella condotta di chi, avendo posto a disposizione del pubblico un apparecchio per autodiagnosi, esegua in luogo dell'interessato quelle operazioni meramente materiali che sono necessarie per il suo funziona mento e per la produzione automatica della diagnosi. Va pertanto annullata senza rinvio la sentenza impugnata, non integrando il fatto ascritto ai ricorrenti gli estremi del reato loro contestato. PER QUESTI MOTIVI la Corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste. 183 LESIONI E VIOLENZA SESSUALE TRACCIA: Tizio è amico di Caio da diversi anni. Caio veniva a sapere che la propria ex moglie Saitta aveva rapporti sessuali abituali con Sempronio. Caio, che più di una volta era stato imputato per violenza sessuale senza mai, tuttavia, essere condannato, decideva di recarsi nella dimora di Saitta per prenderla a schiaffi violentemente. Caio comunicava il proposito criminoso a Tizio, che decideva di assecondarlo. Pochi giorni dopo, Tizio accompagnava con la propria auto Caio presso la dimora di Saitta. Tuttavia, quel giorno, Caio piuttosto che prendere a schiaffi Saitta, la violentava ripetutamente, mentre Tizio aspettava in auto. Dopo la violenza, Caio tornava in auto da Tizio, comunicandogli di aver violentato Saitta. Il giorno dopo, Tizio si recava da un legale. Il candidato, assunte le vesti del legale di Tizio, rediga motivato parere, soffermandosi sulle questioni giuridiche sottese alle fattispecie prese in esame. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE : In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario chiedersi: Tizio risponde solo del reato di lesione personale (ex art. 582 c.p.) in concorso con Caio, oppure sia di lesione che di violenza sessuale, ex art. 609bis c.p.? Il problema interpretativo posto andrebbe risolto alla luce degli artt. 110 e 116 c.p. Si applica la disciplina del concorso se si concorre nel medesimo reato e se nel caso in cui uno dei concorrenti voleva un reato diverso (Tizio pensava che si sarebbe realizzato solo il reato di lesioni personali) l’evento penale, comunque, si è verificato come conseguenza della condotta di colui che voleva il reato diverso. Indubbiamente, Tizio aveva pensato che Caio avrebbe compiuto il solo reato di lesioni personali, ma la condotta del secondo, comunque, è stata determinata anche dal primo? Tizio potrebbe rispondere, oltre che del reato di concorso in lesioni personali, anche di violenza sessuale, laddove si rispondesse positivamente all’interrogativo posto. Invero, l’evento violenza sessuale è attribuibile anche a Tizio solo se è stato conseguenza della sua azione od omissione; dal punto di vista oggettivo indubbiamente Tizio ha contribuito alla realizzazione del reato, ma dal punto di vista soggettivo (anche ex art. 27 Cost.) è dubbio che possa sussistere un’attribuzione causale di questo tipo, in quanto la violenza sessuale non poteva essere prevista perché imprevedibile. Infatti, Tizio si era accordato con Caio per la sola lesione personale, e seppur quest’ultimo era stato processato più volte per il reato di violenza sessuale, comunque, non era mai stato condannato, con il corollario logico-deduttivo che la violenza posta in essere da Caio a danno di Saitta non essendo prevedile in alcun modo da Tizio, non può giustificare una personale responsabilità in tal senso; diversamente argomentando, verrebbe vulnerato l’art. 27 Cost., nonché l’art. 43 c.p., a favore di una ricostruzione della responsabilità penale, in termini rigorosamente oggettivi, vietata dall’ordinamento giuridico penale. In questa prospettiva, pertanto, Tizio potrebbe rispondere in concorso con Caio del solo reato di lesioni personali, e non anche del reato di violenza sessuale. 184 Si consiglia di leggere la sentenza che segue. -Il delitto di violenza sessuale di gruppo, considerato come circostanza della forma aggravata dell’omicidio, se commesso in un unico contesto temporale, non concorre formalmente bensì resta in quest’ultimo assorbito, venendo a confluire nella figura del reato complesso di cui all’art. 84 comma 1 c.p., punibile con l’ergastolo. Altresì, la fictio juris dell’assorbimento, in funzione della previsione aggravatoria della pena per l’omicidio, non cancella l’autonomia del delitto di violenza sessuale, ai plurimi e diversi fini di volta in volta rilevanti per le norme di riferimento dell’ordinamento giuridico. Sentenza n. 6775 del 28 gennaio 2005 - depositata il 22 febbraio 2005 (Sezione Prima Penale, Presidente M. Sossi, Relatore G. Canzio) RITENUTO IN FATTO 1.– La sera di sabato 28 settembre 2002 il padre di (omissis) denunziava la scomparsa della figlia, studentessa quattordicenne, uscita di casa alle ore 15,30 circa. Il primo elemento utile per le indagini era costituito da un messaggio SMS, pervenuto la mattina successiva al cellulare del fratello (omissis), con il quale (omissis) comunicava che stava con “T.”, cioè con (omissis) cui era legata sentimentalmente, e che non intendeva tornare a casa. Il messaggio si rivelava però fuorviante e opera di altri soggetti perché il (omissis) in quel momento si trovava coi familiari nella caserma dei Carabinieri. Si accertava anche che il messaggio era stato inviato da una cabina telefonica stradale di Leno mediante una scheda prepagata smarrita dal titolare nello scorso agosto a Iesolo, località in cui era in vacanza la famiglia B. pure residente a Leno nei pressi dell’abitazione della famiglia P.. In effetti, la perquisizione domiciliare eseguita il 4 ottobre portava al rinvenimento della scheda telefonica in possesso del sedicenne (omissis), la cui tessera SIM risultava peraltro essere stata utilizzata per fare due telefonate dal cellulare di (omissis) dopo le ore 15,47 del 28 settembre. Il (omissis) confessava di avere ucciso (omissis) con un coltello e accompagnava i Carabinieri presso un vecchio e abbandonato cascinale -la cascina Ermengarda- alla periferia di Leno, indicando lo sgabuzzino sito al primo piano, ove era stato trascinato e giaceva il cadavere della ragazza. La polizia giudiziaria documentava fotograficamente e procedeva al campionamento di diverse fascette autobloccanti e di numerose macchie di sangue presenti nei diversi locali, sulla base delle quali e dei rilievi medico-legali i Carabinieri del RIS avrebbero poi enucleato la verosimile ipotesi ricostruttiva degli eventi, fatta propria dai giudici di merito. Il (omissis) faceva altresì rinvenire presso un’altra cascina i jeans e la giacca di (omissis), due rivestimenti del cellulare della stessa, due fazzoletti sporchi di sangue e una confezione di fascette, oltre un grosso coltello di acciaio per cucina. Gli accertamenti medico-legali individuavano sul corpo della ragazza quattro lesioni da punta e taglio, compatibili col coltello sequestrato, di cui due mortali all’emitorace anteriore e posteriore sinistro, una pure potenzialmente letale al collo ma provocata in limine vitae e un’altra alla regione lombare sinistra, oltre ad una ferita toracica più superficiale ed a numerose contusioni, escoriazioni, ecchimosi e ferite da difesa. 185 Coinvolto dal (omissis) nella vicenda, il giovane amico (omissis) faceva a sua volta il nome di un terzo minorenne, (omissis), ed entrambi facevano quindi il nome dell’odierno imputato, Giovanni Erra, residente di fronte all’abitazione P., cui attribuivano un preciso ruolo nella dinamica dei fatti, sia nella fase deliberativa che in quella esecutiva. Esaminato su sua richiesta dal G.i.p., all’esito dell’audizione del (omissis) e del (omissis) in sede di incidente probatorio, l’Erra rendeva parziali ammissioni circa la partecipazione all’incontro preliminare, in cui si era progettato di portare con un pretesto (omissis) nella cascina abbandonata per abusarne sessualmente, e la sua effettiva presenza nella medesima cascina il pomeriggio del 28 settembre. Dall’analisi delle tracce ematiche rinvenute all’interno della cascina il R.I.S. dei Carabinieri enucleava infine l’ipotesi di ricostruzione sequenziale degli avvenimenti, posta a base della prospettazione accusatoria. 1.1.- Tenuto conto della sostanziale coerenza tra le risultanze delle indagini tecniche e degli accertamenti medico-legali, le parziali ammissioni dell’imputato e il nucleo fondamentale delle dichiarazioni accusatorie degli imputati minorenni (omissis) e (omissis), il G.u.p. del Tribunale di Brescia, investito del rito abbreviato, riteneva provata la presenza fisica e la partecipazione diretta dell’Erra a tutte le cadenze principali del fatto criminoso e lo dichiarava colpevole dei delitti di violenza sessuale di gruppo e di sequestro di persona, unificati nel vincolo della continuazione, nonché del delitto di omicidio pluriaggravato, oltre che del reato di spaccio di sostanze stupefacenti, condannandolo, negate le attenuanti generiche e con la diminuente del rito, alla pena dell’ergastolo, oltre al risarcimento dei danni a favore dei genitori di (omissis), costituitisi parti civili. 1.2.- La Corte di assise di appello di Brescia, disattese le eccezioni difensive di inutilizzabilità delle dichiarazioni parzialmente confessorie rese dall’Erra al G.i.p. e respinte le istanze di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, pur ribadendo la tesi della partecipazione diretta dell’imputato alle principali cadenze della vicenda criminosa, accoglieva parzialmente l’appello dell’imputato relativamente all’esclusione delle aggravanti dell’omicidio di cui agli artt. 576, comma 1 nn. 1 e 5, e 577, comma 1 n. 4, in relazione agli artt. 61 nn. 1 e 2 c.p., sull’assunto che: l’aggravante dell’art. 576 comma 1 n. 5 si riferisce a figure di reato, quelle degli artt. 519-520-521, ormai espunte dall’ordinamento a seguito della riforma dei reati sessuali di cui alla legge n. 66 del 1996, e in ogni caso la violenza sessuale di gruppo costituisce una fattispecie autonoma a concorso necessario, rispetto alla quale non è dato rinvenire continuità normativa con le ipotesi abrogate; non era configurabile né provata la finalizzazione dell’omicidio all’occultamento dell’abuso sessuale o ad assicurarsi l’impunità dal medesimo reato, poiché la situazione era ormai uscita di controllo a causa dell’improvvisa furia omicida del (omissis); la futilità del motivo, pertinente alla condotta del materiale esecutore a fronte della reazione ingiuriosa della vittima, non si comunicava per il suo carattere soggettivo al coimputato. Di talché, con sentenza del 26/5/2004 la Corte distrettuale, concesse le attenuanti generiche ritenute equivalenti alla residua aggravante della crudeltà di cui all’art. 61 n. 4 c.p., riduceva la pena ad anni 20 di reclusione (p.b. per l’omicidio anni 23 + anni 7 per il concorrente reato continuato di sequestro di persona e violenza sessuale + anni 2 per il reato di spaccio di stupefacenti = anni 32, ridotti ex art. 78 c.p. ad anni 30 – 1/3 per il rito abbreviato = anni 20), con conseguente revoca della pubblicazione della sentenza e limitazione di durata pari a quella della pena detentiva delle pene accessorie dell’interdizione legale e della sospensione della potestà genitoriale; confermava nel resto la decisione di primo grado. 2.- Avverso la predetta sentenza hanno proposto distinti ricorsi per cassazione il difensore dell’imputato e il P.G. presso la Corte d’appello di Brescia, cui hanno fatto seguito note di replica del primo e memoria difensiva del procuratore speciale delle parti civili. 186 2.1.- Il difensore dell’imputato, dopo avere ribadito l’eccezione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dallo stesso davanti al G.i.p. all’esito dell’incidente probatorio fissato per l’audizione del (omissis) e del (omissis), nonché criticato la denegata rinnovazione dell’istruzione probatoria mediante il riesame dei coimputati minorenni e la perizia psichiatrica sulla fragile personalità dell’Erra, ha dedotto la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla individuazione del ruolo e dello specifico contributo concorsuale dell’imputato. Le sequenze fattuali sarebbero state ricostruite e la sua partecipazione alla vicenda criminosa affermata in forza di elementi indiziari inattendibili, incerti e congetturali, in particolare circa l’apporto operativo consistito nell’ostacolare la fuga della vittima e nel prestare aiuto all’aggressore determinato ad ucciderla. In ogni caso, quantomeno ai fini dell’ipotesi subordinata della diminuente di cui all’art. 116 c.p., secondo l’alternativa ricostruzione dei fatti prospettata dalla difesa del ricorrente, l’eventuale presenza dell’Erra nella cascina si sarebbe verosimilmente verificata quando la vittima era già stata colpita a morte e trovavasi accasciata per terra ai piedi della scala, mentre la furibonda reazione del (omissis), in preda ad una furia omicida, segnava ormai “un’invalicabile cesura tra gli atti sessuali e la deviazione da essi verso approdi nemmeno immaginati”, diversi e più gravi rispetto al reato voluto, oltre ogni possibilità di intervento dell’Erra per arrestare l’esecuzione omicidiaria. Ha denunziato inoltre la difesa dell’imputato l’erronea applicazione dell’aggravante della crudeltà, poiché le efferate e atroci modalità esecutive dell’omicidio, per il loro contenuto soggettivo, appartenevano esclusivamente alla sfera morale del (omissis), determinato da una ormai incontenibile furia ad uccidere (omissis), dalla quale era stato deriso e insultato. Quanto al sequestro di persona, se ne è contestata la coesistenza con il delitto di violenza sessuale, la quale avrebbe comportato di per sé una transitoria e funzionale limitazione della libertà di movimento della vittima, senza un’apprezzabile soluzione di continuità fra i segmenti dell’azione. Infine, sono stati censurati l’omesso riconoscimento dell’attenuante della minima importanza della partecipazione alla vicenda criminosa ex art. 114 c.p. e l’erroneo giudizio di equivalenza fra le attenuanti generiche e l’unica, residua aggravante. Il difensore delle parti civili ha replicato censurando l’inammissibilità del ricorso dell’imputato, essendosi questi limitato a proporre una ricostruzione alternativa degli eventi non consentita in sede di legittimità ovvero ad avanzare richieste manifestamente infondate. 2.2.- Il P.G. presso la Corte d’appello di Brescia ha dedotto a sua volta: a) la manifesta illogicità della motivazione quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante del nesso teleologico, sul rilievo che l’uccisione della ragazza aveva l’obiettivo di procurarsi l’impunità dai delitti di sequestro di persona e di violenza sessuale facendo tacere per sempre la vittima, sul cui corpo, pure in assenza di segni dei palpeggiamenti, erano comunque visibili le tracce lesive (tagli, graffi, ecchimosi) dell’aggressione subita; b) l’erronea applicazione della legge penale quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante di cui all’art. 576, comma 1 n. 5, c.p. in relazione al contestuale delitto sessuale di gruppo, attesa la prospettata continuità (non solo delle tradizionali condotte di violenza sessuale descritte negli artt. 609-bis e 609-ter, ma anche) della speciale e concorsuale figura criminosa di cui all’art. 609-octies rispetto alle abrogate fattispecie di cui agli artt. 519-520-521, tuttora richiamate dall’art. 576 per un mero difetto di coordinamento legislativo, con l’ulteriore conseguenza che l’illecito sessuale, degradato ad aggravante dell’omicidio, sarebbe in questo assorbito componendo la figura del reato complesso di cui all’art. 84 c.p.; c) l’erronea applicazione della legge penale quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante dei motivi abietti e futili, ritenuta per il suo carattere soggettivo propria del (omissis) e non estensibile 187 al coimputato Erra, che pure aveva contribuito al risultato finale condividendo consapevolmente gli sviluppi dell’azione esecutiva del primo. Ha postulato quindi il P.G. una rinnovata valutazione delle circostanze aggravanti erroneamente escluse e un nuovo giudizio di comparazione tra le stesse e le attenuanti generiche, la cui concessione a favore dell’imputato non è stata tuttavia contestata. All’atto di impugnazione del rappresentante della pubblica accusa ha replicato la difesa dell’imputato, ribadendo la tesi della discontinuità normativa fra le abrogate fattispecie degli artt. 519-520-521 c.p. e la nuova, autonoma e speciale, fattispecie della violenza sessuale di gruppo, costruita dalla dottrina e dalla giurisprudenza come reato plurisoggettivo a concorso necessario: donde la non riferibilità dell’aggravante di cui all’art. 576 comma 1 n. 5 al delitto di cui all’art. 609octies c.p. CONSIDERATO IN DIRITTO 3.– Vanno preliminarmente esaminate le eccezioni in rito sollevate dal difensore dell’Erra, in punto di ritenuta utilizzabilità delle dichiarazioni da questi rese nel corso di incidente probatorio davanti al G.i.p. e di denegata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, mediante la riaudizione dei coimputati minorenni e la perizia psichiatrica sulla personalità dell’imputato. Ritiene il Collegio che la prima eccezione, oltre ad essere formulata in termini generici, risulta manifestamente infondata, poiché l’Erra, dopo avere espressamente e personalmente chiesto al G.i.p. di essere anch’egli esaminato e posto a confronto con i coimputati minorenni (omissis) e (omissis), per i quali era stato appena ultimato il relativo incidente probatorio, ha reso, in sede di interrogatorio e di confronto con i suoi accusatori, dichiarazioni parzialmente confessorie, avvalendosi dell’assistenza del difensore nel pieno contraddittorio tra le parti, e accedendo poi al rito abbreviato, nel quale non rileva comunque la dedotta, e però insussistente, inutilizzabilità “fisiologica” della prova (Cass., Sez. Un., 21/6/2000, Tammaro). Quanto all’omessa rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, la Corte di assise di appello ha puntualmente replicato alla sollecitazione difensiva con rilievi fattuali attinenti alla completezza dei dati probatori già acquisiti ai fini del decidere. Donde la valutazione, logica e incensurabile in sede di legittimità, di superfluità dei richiesti mezzi di prova, atteso che, da un lato, i coimputati minorenni erano già stati sentiti numerose volte nelle varie fasi del processo, mentre i pur evidenti aspetti di fragilità della personalità dell’Erra e i denunziati “disturbi di ansia”, correlati anche all’abuso di alcool e di sostanze stupefacenti, non giustificavano neppure il dubbio di una loro incidenza sulla normale capacità d’intendere e di volere dell’imputato. 4.– La difesa ha denunziato la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta partecipazione dell’imputato alla vicenda criminosa, che sarebbe stata affermata in forza di elementi indiziari inattendibili, incerti e congetturali circa l’identificazione del ruolo e dello specifico contributo concorsuale a lui ascritto. Secondo l’alternativa sequenza fattuale prospettata dalla difesa, quantomeno ai fini della diminuente di cui all’art. 116 c.p., l’eventuale presenza dell’Erra nella cascina si sarebbe verificata solo quando la vittima era già stata colpita a morte ai piedi della scala, mentre l’ormai incontrollato comportamento del (omissis), in preda ad una furia omicida, segnava “un’invalicabile cesura tra gli atti sessuali e la deviazione da essi verso approdi nemmeno immaginati”, diversi e più gravi rispetto al reato voluto. Ad avviso del ricorrente meritavano di essere censurati, in ogni caso, l’omesso riconoscimento dell’attenuante della minima importanza della partecipazione ex art. 114 c.p. e, quanto al sequestro di persona, l’affermata coesistenza con il 188 delitto di violenza sessuale, pure in difetto di un’apprezzabile soluzione di continuità fra i segmenti dell’azione criminosa. Ritiene il Collegio che tutti i suesposti motivi di gravame siano privi di fondamento. 4.1.- Occorre innanzi tutto rammentare, in linea di fatto, che: - sono stati i minorenni (omissis) e (omissis) a fare per primi il nome dell’odierno imputato, Giovanni Erra, residente di fronte all’abitazione della famiglia P., ma dei cui rapporti con la ragazza era già stata rinvenuta una traccia epistolare nella minuta di un manoscritto della giovane scomparsa, in cui veniva descritto come un insistente ammiratore, che telefonava tutti i giorni destando in lei sentimenti di paura; - il (omissis) e il (omissis) hanno attribuito all’Erra un preciso ruolo nella dinamica dei fatti: essi, insieme con l’Erra e con un altro minorenne, (omissis), avrebbero concordato fin dal giovedì 26 settembre di attirare con un pretesto (omissis) nella cascina per abusarne sessualmente, confortati dalle assicurazioni dell’adulto che “ci sarebbe stata” come “ci stava con tutti”; l’Erra era presente nella cascina mentre i ragazzi spogliavano e palpeggiavano in varie parti del corpo la ragazza, legata con le mani dietro la schiena con fascette autobloccanti, ed anzi, essendo riuscita la stessa a fuggire per le scale dopo la prima coltellata infertale dal (omissis) a seguito del rifiuto opposto al rapporto sessuale, era stato l’Erra a trattenerla per riaccompagnarla forzosamente al primo piano dove la ragazza, portatasi verso la finestra per l’ennesimo disperato tentativo di fuga, era stata ancora colpita ripetutamente e mortalmente con il coltello dal (omissis); l’Erra aveva infine contribuito a trascinare il corpo della ragazza nello sgabuzzino; - lo stesso Erra ha reso parziali ammissioni nel corso dell’interrogatorio davanti al G.i.p., circa la partecipazione all’incontro di giovedì 26 con i ragazzi, in cui s’era recepito il progetto di portare con un pretesto (omissis) nella cascina abbandonata per abusarne sessualmente, e la sua effettiva presenza nella cascina il tardo pomeriggio di sabato 28, ove avrebbe assistito ad una parte dell’aggressione e dalla quale sarebbe fuggito perché impaurito dal comportamento del (omissis); - gli accertamenti medico-legali hanno individuato sul corpo della ragazza quattro lesioni da punta e taglio, compatibili col coltello fatto rinvenire dal (omissis), di cui due mortali all’emitorace anteriore e posteriore sinistro, una pure potenzialmente letale al collo ma provocata in limine vitae e un’altra alla regione lombare sinistra, oltre ad una ferita toracica più superficiale ed a numerose contusioni, escoriazioni, ecchimosi e ferite da difesa; - dall’analisi delle tracce ematiche rinvenute all’interno della cascina il R.I.S. dei Carabinieri ha enucleato l’ipotesi di ricostruzione sequenziale degli avvenimenti (il cui caposaldo è costituito dalla impossibilità, per una persona colpita da una coltellata così devastante quale quella all’emitorace anteriore sinistro, di sottrarsi alla presa dei giovani violentatori, di scendere al piano sottostante cercando di guadagnare la porta d’ingresso e con essa la salvezza) nei seguenti termini: la stretta e ripida scala collegante il piano terra al primo piano è stata individuata come la zona maggiormente interessata dalle tracce di sangue appartenenti alla (omissis) e in parte anche al (omissis), feritosi col coltello; in questa zona la ragazza ha cercato ripetutamente e vanamente di puntellarsi, qui ha cercato di fuggire raggiungendo il fondo delle scale per poi essere nuovamente sopraffatta e trascinata al primo piano, sollevata di peso da almeno due persone; gli accoltellamenti mortali alla schiena e lo sgozzamento finale sono avvenuti accanto alla finestra del primo piano, dalla quale la ragazza ha ancora invano cercato di affacciarsi. 189 Orbene, valutata la sostanziale coerenza tra le risultanze delle indagini tecniche e degli accertamenti medico-legali, le parziali ammissioni - pur ritrattate - dell’imputato, insieme con il falso alibi fornitogli dalla moglie, e il nucleo fondamentale delle plurime e talora contraddittorie dichiarazioni accusatorie degli imputati minorenni (omissis) e (omissis), i giudici del merito hanno ritenuto provata la presenza fisica e la partecipazione diretta dell’Erra a tutte le cadenze principali del fatto criminoso: e cioè, sia all’incontro serale del 26 settembre in cui s’era programmato di attirare con un pretesto la ragazza nella cascina per perpetrare la violenza sessuale anche grazie alle menzogne dell’adulto circa la propensione della stessa a “farsela con tutti”, sia alle condotte di violenza sessuale di gruppo cui aveva quantomeno assistito senza intervenire, sia infine all’uccisione di (omissis), avendo in particolare contribuito ad impedirne la fuga ed a riportarla con la forza al piano superiore, dove le venivano inferte le coltellate mortali. Nonostante le varie e contraddittorie dichiarazioni del (omissis), del (omissis) e dell’Erra, rimangono, infatti, taluni indiscutibili punti fermi in ordine alla circostanza della contemporanea presenza dell’imputato all’intera sequenza dei tragici avvenimenti, coerenti peraltro con gli oggettivi rilievi di polizia giudiziaria e con gli esiti delle citate indagini tecniche del R.I.S. e medico-legali, con particolare riguardo alle singole fasi: dell’incontro del 26 settembre in cui si presero gli accordi per attirare con un pretesto (omissis) nella cascina il successivo sabato onde abusarne sessualmente; del procacciamento delle fascette autostringenti e del coltello (di cui parlano l’Erra e sua moglie in due conversazioni telefoniche intercettate); della fuga della ragazza per le scale dopo il tentativo di immobilizzazione della stessa mediante le fascette adesive, il parziale denudamento, gli atti di violenza sessuale consistiti in palpeggiamenti del corpo ed il primo accoltellamento inferto per vincerne la resistenza; della caduta, dell’arresto, del mancato aiuto e anzi del riaccompagnamento forzoso della stessa al primo piano, ove veniva ripetutamente accoltellata alle spalle mentre era vicina alla finestra per poi subire il colpo finale alla gola. Così ricostruiti, con analitico e puntuale apparato argomentativo, i distinti momenti della complessa vicenda criminosa e, all’interno della descritta sequenza fattuale, i più significativi aspetti dello specifico contributo concorsuale recato dall’Erra al sequestro, agli atti di violenza sessuale e all’omicidio di (omissis) (ben oltre, dunque, la mera presenza passiva postulata dalla difesa), risulta ineccepibile la logica conclusione – oltre il ragionevole dubbio - che la fattiva collaborazione dell’imputato a trattenere la vittima che s’era data alla fuga per le scale ed all’operazione di riaccompagnamento forzoso al piano superiore, alla mercé quindi dell’aggressore armato di coltello, dal quale era già stata minacciata e gravemente ferita, comportava la consapevole adesione dell’Erra alla prosecuzione degli atti di violenza e, in termini di altissima probabilità (perciò di dolo diretto), attesa la furia omicida palesata dal (omissis), alla imminente realizzazione dell’evento omicidiario. Ed invero, una volta resosi conto che il (omissis) stava colpendo la ragazza con il coltello, solo con il delineato atteggiamento di adesione al dolo omicidiario, derivante dal timore di essere anch’egli accusato ove la stessa fosse riuscita a sfuggire agli aggressori, poteva giustificarsi l’aiuto prestato a ricondurla al piano superiore dove le vennero inferti i colpi mortali. Specifico e consapevole contributo causale per la realizzazione dell’impresa criminosa, questo, che per il consistente rilievo psicologico che lo sorregge esclude in radice la configurabilità del prospettato concorso anomalo ex art. 116 c.p.. Di talché, considerato che dei principi che presidiano l’acquisizione della prova e la sua valutazione la Corte distrettuale ha fatto corretta applicazione, con motivazione adeguata e articolata, estesa a tutti gli elementi offerti dal processo, dando ragione delle scelte eseguite e dell’assoluta preponderanza ed univoca convergenza delle prove d’accusa, concludendo quindi senza contraddizioni logiche per la responsabilità del ricorrente, le doglianze di quest’ultimo attinenti alla ricostruzione probatoria dei fatti o alla loro qualificazione giuridica per i profili dell’elemento psicologico, si rivelano infondate, sollecitando esse in realtà il riesame nel merito della decisione impugnata, che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità, laddove la Corte distrettuale, 190 come nella specie, abbia esplicitamente motivato circa tutti i punti oggetto delle specifiche ragioni di gravame. 4.2.- Risulta altresì priva di pregio, per il medesimo ordine di considerazioni, la doglianza del ricorrente relativa al mancato riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p., avendo i giudici del merito ritenuto, con esauriente e logico apparato argomentativo, che il ruolo svolto dall’Erra, lungi dall’essere stato marginale, era stato determinante e indispensabile, sia per la deliberata programmazione degli abusi sessuali sia per l’accertata partecipazione all’interno della cascina alle fasi del sequestro e della violenza sessuale, seguite dalla forte reazione e dall’uccisione della vittima. Di talché, contrariamente a quanto prospettato dalla difesa, da un lato il contributo concorsuale dell’Erra aveva rivestito efficienza causale, essendosi posto come condizione necessaria dell'evento lesivo, e dall’altro esso non era stato tale da poter essere avulso, senza apprezzabili conseguenze pratiche, dalla serie causale produttiva dell'evento. 4.3.- Anche per il capo relativo al sequestro di persona le decisioni di merito sono sorrette da un corretto e logico apparato argomentativo, ancorato a precise risultanze probatorie, essendosi evidenziato che, pur comportando la violenza sessuale di per sé una transitoria e funzionale limitazione della libertà di movimento della vittima (assorbendo in questo caso il giudizio di riprovevolezza di tale illecita condotta), nel caso concreto (omissis) venne privata della libertà personale per un tempo più ampio di quello necessario per realizzare gli atti di violenza sessuale, avendo la ritenzione e l’immobilizzazione della vittima contro la sua volontà anticipato di un congruo momento gli atti sessuali: questi, infatti, sicuramente iniziarono dopo le ore 16,00, mentre già alle ore 15,47 la ragazza era stata immobilizzata e le era stato sottratto il cellulare, con il quale il (omissis), inserendovi la sua scheda, avrebbe fatto una prima telefonata. 4.4.- Quanto al riconoscimento dell’esistenza a carico dell’Erra dell’aggravante per il delitto omicidiario di cui all’art. 577 n. 4, in relazione all’art. 61 n. 4 c.p. (avere agito con crudeltà verso la vittima per le atroci ed efferate modalità esecutive dell’omicidio), la relativa censura del ricorrente, argomentata sull’assunto che essa, per il suo carattere soggettivo, apparterrebbe esclusivamente alla sfera morale del (omissis), determinato da una ormai incontenibile furia ad uccidere (omissis), dalla quale era stato deriso e insultato, si palesa priva di fondamento. E’ bensì vero che la circostanza aggravante in esame ha natura soggettiva, in quanto attiene alla intensità del dolo del soggetto agente, rivelandone l’indole particolarmente malvagia e l’insensibilità a ogni richiamo umanitario (Cass., Sez. I, 30/05/1980, Milan, rv. 146064; Sez. I, 6 ottobre 1987, Mastrotaro, rv. 177452). Ma la Corte distrettuale, ai fini del criterio di imputazione disciplinato dagli artt. 59 comma 2 e 118 c.p., sost. rispettivamente dagli arrt. 1 e 3 L. 7/2/1990 n. 19, ha posto correttamente in rilievo come il ricorrente, nel momento in cui ebbe ad impedire la fuga della ragazza, già ferita a colpi di coltello ripetutamente infertile dal (omissis), ed a riportarla poi di peso al primo piano della cascina nelle mani dello stesso, non poteva non avere piena consapevolezza e perciò rappresentarsi i mezzi e le spietate modalità con cui l’aggressore, ancora in possesso del micidiale coltello, avrebbe proseguito nell’azione omicida, culminata addirittura con la recisione della gola quando la vittima era ancora viva. Di guisa che la relativa aggravante non può non essere riferita anche al soggetto che abbia dato la sua adesione, col proprio volontario contributo, alla realizzazione dell'evento criminoso e, prima dell'esaurirsi del suo apporto, ne abbia maturata e fatta propria la particolare intensità del dolo. 4.5.- Il ricorso dell’imputato va pertanto respinto con le conseguenze di legge, mentre, con riguardo alla residua doglianza difensiva avente ad oggetto il giudizio di equivalenza e la denegata prevalenza delle attenuanti generiche sull’aggravante della crudeltà - l’unica ritenuta sussistente dai giudici di appello -, il relativo motivo di gravame deve ritenersi assorbito nelle statuizioni di 191 accoglimento delle ragioni di ricorso del P.G., di cui appresso si dirà, restando affidato al giudice di rinvio il compito di provvedere al rinnovato apprezzamento circa la sussistenza delle altre circostanze aggravanti, pure contestate, ed al conseguente giudizio di comparazione delle stesse con le attenuanti generiche, e quindi all’eventuale rideterminazione della pena. 5.1.– Il P.G. ricorrente ha denunziato, a sua volta, l’erronea applicazione della legge penale, quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante del motivo abietto e futile di cui all’art. 577 n. 4, in relazione all’art. 61 n. 1 c.p., che la Corte d’appello ha ritenuto, per il suo carattere soggettivo, proprio del (omissis) e non estensibile al coimputato Erra, il quale avrebbe contribuito al raggiungimento del risultato finale “per una diversa motivazione, di ben più cospicuo spessore, rappresentata dalla necessità di evitare che fosse rivelato il compiersi di un tentato omicidio”. Il motivo di gravame è fondato poiché - come si è già osservato a proposito della “crudeltà” - la natura soggettiva e personale della circostanza aggravante in esame, siccome attinente alla intensità del dolo del soggetto agente, non comporta affatto, secondo una irragionevole applicazione del criterio di imputazione disciplinato dagli artt. 59 comma 2 e 118 c.p., che la stessa possa riguardare solo la sfera morale del (omissis), rimanendo invece automaticamente estranea all’Erra. Sembra infatti logico ritenere, come ha affermato il giudice di primo grado e come ha prospettato la pubblica accusa, che l’Erra, nel concorrere volontariamente e consapevolmente al risultato finale e nel condividere gli sviluppi dell’azione esecutiva, sia stato altresì in grado di rappresentarsi la palese viltà e l’enorme sproporzione dei motivi del gesto omicidiario, e perciò di maturare e fare propria la particolare intensità del dolo che lo ha assistito. 5.2.- Risulta parimenti fondato l’ulteriore motivo di ricorso con il quale il P.G. ha dedotto la manifesta illogicità della motivazione quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante del nesso teleologico di cui all’art. 576 comma 1 n. 1, in relazione all’art. 61 n. 2 c.p., che, secondo la contestazione, sarebbe stato commesso per occultarne un altro ovvero per assicurarsi l’impunità del delitto di violenza sessuale di gruppo. Infatti, le affermazioni della sentenza impugnata (pag. 46) secondo cui, da un lato, la finalizzazione dell’omicidio ad occultare l’abuso sessuale non sarebbe configurabile “perché l’omicidio della vittima non nasconde le eventuali tracce dell’abuso” e, dall’altro, “l’aiuto prestato dall’Erra non pare rivestire la finalità di evitare la scoperta del reato sessuale o di procurarsi l’impunità per tale delitto, ma è conseguenza della presa d’atto che la situazione era uscita di controllo e che occorreva evitare che la ragazza, già aggredita nella sua fisica incolumità, denunciasse qualche cosa di ben più grave che una molestia sessuale”, si palesano meramente apodittiche, disancorate da ogni base fattuale e probatoria, oltre che in insanabile contraddizione con quanto si legge in altri passaggi della motivazione. Ed invero, dall’affermazione contenuta nella medesima sentenza (pag. 42), laddove si sostiene che il comportamento attivo tenuto dall’Erra, nell’impedire alla (omissis) di fuggire, era “diretto ad evitare che la giovane desse l’allarme” e quindi potesse denunciare i gravi delitti fino a quel momento commessi, sembra lecito desumere, come lineare e logico corollario, la concreta configurabilità, tra i motivi soggettivi dell’apporto concorsuale dell’Erra all’uccisione della ragazza, anche dell’obiettivo di occultare o conseguire l’impunità dai delitti di sequestro di persona e di violenza sessuale, facendo tacere per sempre la vittima, sul cui corpo, pure in assenza di segni dei palpeggiamenti, erano comunque visibili le tracce lesive dell’aggressione subita. 192 Entrambi i punti controversi, riguardanti l’applicazione delle circostanze aggravanti del motivo abietto e futile e del nesso teleologico, dovranno essere oggetto, pertanto, di una nuova valutazione da parte del giudice di merito. 6.- Il P.G. ricorrente ha infine censurato l’erronea applicazione della legge penale quanto all’esclusione per l’omicidio dell’aggravante di cui all’art. 576, comma 1 n. 5, c.p. in relazione al contestuale delitto sessuale di gruppo, sul rilievo - contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte distrettuale - della continuità normativa della speciale figura criminosa di cui all’art. 609-octies rispetto alle abrogate fattispecie di cui agli artt. 519-520-521, tuttora richiamate dal n. 5 dell’art. 576. Il Collegio deve dunque rispondere al duplice quesito interpretativo: a) se la circostanza aggravante prevista dall’art. 576, comma 1 n. 5 c.p. per il reato di omicidio, quando sia stato eseguito “nell’atto di commettere taluno dei delitti previsti dagli artt. 519, 520 e 521”, sia tuttora configurabile, nonostante l’abrogazione di queste ultime disposizioni ad opera dell’art. 1 L. 15/2/1996 n. 66, con riferimento ai delitti di violenza sessuale di cui agli artt. 609-bis e segg. c.p., inseriti dalla stessa legge tra i delitti contro la libertà personale, ed in particolare con riferimento all’autonoma fattispecie della violenza sessuale di gruppo prevista dall’art. 609-octies; b) in caso di risposta affermativa, se tale aggravante sia compatibile con quella della connessione teleologica fra l’omicidio e la violenza sessuale, prevista dall’art. 61 n. 2 richiamato dall’art. 576, comma 1 n. 1 c.p.. 6.1.- Premesso in linea di fatto che nella ricostruzione probatoria della vicenda criminosa operata dai giudici di merito non è in discussione la sussistenza del requisito, necessario e sufficiente, della connessione di contestualità cronologica fra le condotte integrative dei due reati (Cass., Sez. I, 11/12/1972, Colarusso, rv. 123696-697; Sez. I, 10/2/1992, De Pasquale, rv. 189872; Sez. I, 4/3/1997, P.G. in proc. Chiatti, rv. 207229), nel senso che risulta accertato che in occasione e contemporaneamente agli atti di violenza sessuale sono stati posti in essere altresì atti diretti all’uccisione della vittima, ritiene innanzi tutto il Collegio che il rinvio dell’art. 576 comma 1 n. 5 ai “delitti previsti dagli artt. 519, 520 e 521” abbia natura “formale” anziché “recettizia”. Pur essendo praticabili anche all’interno del medesimo ordinamento entrambi i modelli di rinvio, la cui scelta rifletterebbe mere esigenze di economia legislativa, deve convenirsi, infatti, che la tecnica del rinvio “mobile” o “formale” appare più coerente al permanente potere del legislatore - frutto delle sue scelte punitive - di modificare, sostituire o addirittura abrogare il preesistente atto normativo. Questo tipo di rinvio consente più realisticamente di fare riferimento non solo alla specifica norma preesistente ma anche alle sue successive vicende modificative, mentre con il rinvio “fisso” o “recettizio” viene recepita per intero, senza che ne sia riprodotto il testo, solo la specifica disposizione incriminatrice all’epoca vigente, della quale si postula la perdurante intangibilità. E’ pacifico che la ratio della circostanza aggravante in esame é da ravvisare nell’intento di apprestare la rigorosa tutela degli interessi ivi protetti, mediante un più severo trattamento sanzionatorio dei fatti in essa previsti, nel senso di punire più gravemente con la pena dell’ergastolo l’omicidio allorché questo, denotando una più marcata attitudine criminosa dell’agente, sia contestuale alle aggressioni alla libertà sessuale della vittima, originariamente contemplate dagli artt. 519-521 c.p., abrogati dall’art. 1 L. n. 66 del 1996. Ed è altresì incontroversa, in dottrina e in giurisprudenza, la tesi della continuità normativa tra le previgenti e plurime nozioni di “congiunzione carnale” e di “atti di libidine” mediante violenza, minaccia o abuso di autorità, di cui alle abrogate figure criminose, e la nozione di “atti sessuali”, 193 risultante della somma delle previgenti fattispecie e richiamata dall’art. 609-bis c.p. per la configurabilità del reato di violenza sessuale, nel quale risultano oggi inseriti i medesimi fatti contemplati nelle prime (da ultimo, Cass., Sez. I, 24/2/2004, Ceraulo, rv. 227118; Sez. III, 6/5/2004, Gerboni, rv. 229555). All’esito della comparazione e del raffronto tra gli elementi strutturali del contenuto normativo delle fattispecie incriminatrici (secondo lo schema ermeneutico disegnato nelle più recenti decisioni delle Sezioni Unite: Sez. Un., 20 giugno 1990, Monaco; Sez. Un., 25/10/2000, Di Mauro; Sez. Un., 9/5/2001, Donatelli; Sez. Un., 27/6/2001, Avitabile; Sez. Un., 26/3/2003, Giordano) persiste infatti, anche se mutato, il giudizio di disvalore astratto per effetto di un nesso di continuità ed omogeneità delle rispettive previsioni e il significato lesivo del fatto storico risulta riconducibile nel suo nucleo essenziale ad una diversa categoria d’illecito, tuttora penalmente rilevante nonostante ed anzi proprio in conseguenza dell’intervento legislativo, formalmente abrogativo. Di talché, la pur espressa abrogazione dell’intero capo I del titolo IX del libro secondo del codice penale non ha certamente comportato una generalizzata abolitio criminis in materia, ma solo un ordinario fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, disciplinato dal comma 3 dell’art. 2 c.p., nell’ambito della cennata unificazione delle due fattispecie di cui agli artt. 519-521 nella violenza sessuale di cui all’art. 609-bis. Ciò posto, occorre concludere che la mancata riformulazione dell’art. 576 comma 1 n. 5 c.p., ad opera della L. n. 66 del 1996, sia ascrivibile a mero difetto di coordinamento legislativo e non possa essere affatto intesa dall’interprete come implicita abrogazione dell’aggravante, che permane nonostante la mutata collocazione dei fatti di reato contemplati nelle disposizioni degli artt. 519-521 in altro titolo e in altre norme dello stesso codice penale, in forza del rinvio “formale” di cui si è fatto cenno. 6.2.- Si sostiene tuttavia, da una parte della dottrina, che il rinvio in esame opererebbe ancora con esclusivo riguardo alle condotte di violenza sessuale già ricadenti nella sfera delle tradizionali figure criminose degli artt. 519-521, oggi descritte negli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater, quindi solo nell’ipotesi di realizzazione monosoggettiva del tipo di illecito, suscettibile di concorso eventuale di persone ex art. 110 c.p., ma non anche per la autonoma e più grave fattispecie criminosa della violenza sessuale di gruppo di cui all’art. 609-octies. In questa, nonostante l’identità del bene giuridico protetto, é configurabile, in considerazione del maggiore grado di intensità dell’offesa alla libertà sessuale della vittima realizzata da “più persone riunite”, un reato plurisoggettivo a concorso necessario (Cass., Sez. III, 3/6/1999, Bombaci, rv. 215148; Sez. III, 13/11/2003, Pacca, rv. 227495), completamente nuovo e non corrispondente alla previgente disciplina, che prevedeva solo la figura dell’ordinario concorso di persone negli atti di violenza. L’esclusione viene dunque motivata (v. anche la sentenza impugnata, pag. 45) con il rilievo che non sussisterebbe alcuna continuità normativa tra i delitti di cui agli abrogati artt. 519-521, per la cui integrazione non era richiesta, oltre all’accordo delle volontà dei compartecipi, anche l’elemento costitutivo della simultanea, effettiva presenza di costoro nel luogo e nel momento di consumazione dell’illecito, e quello di violenza sessuale di gruppo, nella specie contestato e ritenuto a carico dell’Erra. La tesi, come hanno puntualmente rilevato sia il P.G. ricorrente che il P.G. requirente, non può essere condivisa, per una serie di ragioni di ordine logico-sistematico. La descrizione legale della condotta tipica, integratrice dell’autonoma fattispecie della violenza sessuale di gruppo, pur connotata dalla contestualità e interazione delle condotte partecipative di più persone riunite nella fase esecutiva del delitto, e sol per questo punita più gravemente e sottratta al regime ordinario di perseguibilità a querela, rinvia secondo la formulazione letterale del primo comma dell’art. 609-octies, quanto alle modalità dell’azione criminosa, alla unitaria nozione degli “atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis”. 194 Orbene, se è esclusivamente il dato della “partecipazione da parte di più persone riunite ad atti di violenza sessuale” a svolgere il ruolo di elemento specializzante e aggiuntivo, che qualifica in termini di autonomia la fattispecie a concorso necessario della violenza sessuale di gruppo, rispetto alla tipicità generale del concorso di persone, non sembra possa dubitarsi che la condotta integratrice di base del delitto in esame sia pur sempre costituita dai singoli atti di violenza sessuale realizzati dai soggetti agenti, in forma monosoggettiva o plurisoggettiva, che corrispondono ontologicamente e strutturalmente alle tradizionali ipotesi di atti di libidine e di congiunzione carnale violenta, prima previste dalle abrogate norme degli artt. 519-521 ed oggi sostanzialmente sussumibili nell’unitaria nozione di cui all’art. 609-bis. Di talché, una volta individuato, all’esito del raffronto strutturale tra gli elementi descrittivi delle astratte fattispecie, un rapporto di specialità “per aggiunta” tra la fattispecie dell’art. 609-octies e quella dell’art. 609-bis c.p., deve convenirsi che anche in riferimento alla figura criminosa della violenza sessuale di gruppo, attesa la persistente e prevalente rilevanza lesiva dell’elemento comune e tipico alle due fattispecie, si pone in termini di continuità (lo stupro di gruppo essendo certamente punibile già in base alla legge precedente, a titolo di concorso di persone nel reato ex artt. 519-521) un ordinario fenomeno di successione di leggi penali incriminatrici nel tempo, disciplinato dal comma 3 dell’art. 2 c.p., nell’ambito della cennata unificazione delle due fattispecie di cui agli artt. 519-521 nella violenza sessuale di cui all’art. 609-bis (Cass., Sez. III, 1/7/1996, Hodca, rv. 205798). D’altra parte, essendo confermata la vigenza della previsione aggravatoria comportante la pena dell’ergastolo nelle ipotesi meno gravi di realizzazione monosoggettiva o di concorso eventuale ex art. 110 c.p. in atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis, sarebbe, oltre che iniquo, davvero irrazionale da un punto di vista logico-sistematico, considerata la ratio dell’aggravamento, interpretare la mancata riformulazione dell’art. 576 comma 1 n. 5 c.p., ad opera della L. n. 66 del 1996, nel senso della sua implicita abrogazione limitatamente alla più grave ipotesi dell’omicidio commesso nell’atto di eseguire una violenza sessuale di gruppo. Figura questa che, al di là dell’elemento specializzante e aggiuntivo della “partecipazione da parte di più persone riunite ad atti di violenza sessuale”, risulta per contro sovrapponibile, nel nucleo essenziale e negli elementi strutturali di base della norma incriminatrice, alle abrogate fattispecie degli artt. 110, 519-521 c.p., unificate nel nuovo art. 609-bis. Ne deriva quale ulteriore conseguenza che, in tal caso, il delitto di violenza sessuale di gruppo, considerato come circostanza della forma aggravata dell’omicidio se commesso in un unico contesto temporale, non concorre formalmente bensì resta in questo assorbito, venendo a confluire nella figura del reato complesso in senso stretto di cui all’art. 84 comma 1 c.p., punibile con l’ergastolo (Cass., Sez. I, 11/12/1972, Colarusso, rv. 123697; Sez. I, 10/2/1992, De Pasquale, rv. 189872). 6.3.- Avendo dato risposta affermativa al primo quesito interpretativo, la Corte è chiamata a pronunziarsi sull’ulteriore questione se l’affermata sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 576 comma 1 n. 5, con il conseguente assorbimento del delitto di violenza sessuale di gruppo in quello di omicidio, sia compatibile con il riconoscimento dell’aggravante prevista dall’art. 61 n. 2 richiamato dall’art. 576, comma 1 n. 1, contestata anche con riferimento al fine di occultare e conseguire l’impunità del primo dei menzionati delitti (oltre che del sequestro di persona), ovvero ne comporti l’esclusione. Premesso che ben possono coesistere, dal punto di vista storico-fattuale, la contestualità cronologica e il collegamento di tipo finalistico fra le condotte e le distinte volizioni dell’omicidio e della violenza sessuale, ritiene il Collegio (richiamandosi sul punto alla Relazione ministeriale al progetto 195 definitivo del codice penale del 1930 - p. 369 - e aderendo ad un pur remoto, ma non contrastato, indirizzo giurisprudenziale: Cass., Sez. I, 27/7/1937, Sotgiu; Sez. I, 28/1/1955 n. 142, Bertolino; Sez. I, 10/12/1958 n. 2069, Bianchi) che neppure si ravvisano ostacoli all’affermata compatibilità delle due aggravanti nella costruzione concettuale della figura del reato complesso. Ed invero, la fictio juris dell’assorbimento, in funzione della previsione aggravatoria della pena per l’omicidio, non cancella l’autonomia del delitto di violenza sessuale, ai plurimi e diversi fini di volta in volta rilevanti per le norme di riferimento dell’ordinamento giuridico. 7.- In definitiva, la sentenza impugnata, pronunziata dalla seconda sezione della Corte di assise di appello di Brescia, va annullata con rinvio ad altra sezione della medesima Corte, la quale, uniformandosi ai principi di diritto suenunciati, procederà a nuova valutazione circa la sussistenza delle circostanze aggravanti del nesso teleologico, della connessione cronologica e dei motivi abietti o futili, e quindi alla rielaborazione del giudizio di comparazione e bilanciamento tra le circostanze aggravanti e le attenuanti generiche, irreversibilmente concesse all’imputato in difetto di specifico gravame del P.G. sul punto (restando così assorbito il motivo di ricorso dell’imputato che ne chiede la prevalenza), e alla rideterminazione del complessivo trattamento sanzionatorio. PER QUESTI MOTIVI Annulla la sentenza impugnata limitatamente all’esclusione, per il delitto di omicidio, delle aggravanti di cui agli artt. 576, comma 1 nn. 1 e 5, e 577, comma 1 n. 4, in relazione all’art. 61 n. 1 c.p., e rinvia per nuovo giudizio su tali punti e per la conseguente rideterminazione del trattamento sanzionatorio ad altra sezione della Corte di assise di appello di Brescia. Rigetta il ricorso dell’Erra, che condanna al pagamento delle spese processuali nonché alla rifusione delle spese sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che si liquidano in complessivi euro 4.240, di cui euro 500 per spese. ATTIVITA’ SPORTIVA VIOLENTA TRACCIA: Tizio è proprietario e gestore di una palestra di pugilato denominata Vitalix. Tizio organizzava un incontro di pugilato nella sua palestra tra l’UOMO INVINCIBILE e TIGER MAN, di fronte a diversi spettatori. Accadeva, poi, che l’UOMO INVINCIBILE, preso dalla foga, tirasse un pugno particolarmente violento verso TIGER MAN; quest’ultimo cadeva e, dopo circa dieci minuti, moriva per arresto cardiaco, senza che nessun medico intervenisse, in quanto nella palestra Vitalix non era presente una struttura medica o paramedica, idonee a garantire il pronto intervento. Il candidato prenda in esame, redigendo motivato parere, la posizione giuridica dell’UOMO INVINCIBILE e di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. 196 Successivamente, era necessario accennare al discorso delle scriminanti non codificate, che, come noto, rendono legittime certe condotte seppur estranee alle scriminanti codificate, in una prospettiva di analogia in bonam partem. In particolare, allora, le attività sportive violenti giustificano lesioni personali, in quanto intrinsecamente correlate con la stessa attività sportiva che si pratica; si tratta di condotte scriminate per l’applicazione analogica della disciplina del consenso dell’avente diritto (il pugile quando inizia la sua attività esprime un consenso di fatto a subire lesioni personali), che ben potrebbe giustificare un’accettazione del rischio. Se si supera il rischio intrinseco all’attività sportiva che si sta svolgendo, emerge l’eccesso colposo. L’uomo invincibile ha agito eccedendo i limiti intrinseci all’attività sportiva di pugilato? Alla luce del fatto che, a rigore, l’uomo invincibile ha sferrato un pugno particolarmente violento, senza commettere alcuna scorrettezza e non utilizzando mezzi inidonei all’attività sportiva praticata (si pensi ad un calcio), per cui si è mantenuto nell’ambito dei limiti del rischio consentito ad uno sport come il pugilato, bisognerebbe concludere nel senso che la sua condotta era lecita, perché relativa alla scriminante non codificata dell’attività sportiva violenta. La posizione di Tizio, del tutto diversa da quella dell’uomo invincibile, invece, è ben più grave e potrebbe giustificare un addebito di responsabilità penale in termini di omicidio colposo, eventualmente in concorso con l’omissione di soccorso, in quanto Tizio proprietario di Vitalix rivestiva una posizione di garanzia (in quanto proprietario e gestore) su tutto ciò che accadeva nella sua palestra, per cui il fatto di non aver predisposto adeguati strumenti di intervento medico idonei ad evitare danni gravi, giustificherebbe a pieno titolo una responsabilità penale per quanto accaduto a Tiger man. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -L'atleta che deliberamente viola le regole del gioco è penalmente responsabile. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE SENTENZA 20 gennaio-23 maggio 2005, n. 19473 (Presidente Calabrese – estensore Bruno) Svolgimento del processo Con sentenza del 27 settembre 1999, il tribunale di Venezia dichiarava F. Davide colpevole del reato di lesioni volontarie aggravate, ai sensi dell’articolo 582, 583, comma 2, n. 3, Cp (per avere cagionato a D. Andrea, colpendolo violentemente con una gomitata all’addome, nel corso di una partita di calcio, una lesione gravissima dalla quale derivava la perdita dell’uso dell’organo della milza) e - con la concessione delle attenuanti generiche, prevalenti sulla contestata aggravante - lo condannava alla pena di mesi otto di reclusione, nonché al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, da determinarsi in separata sede, con provvisionale liquidata in lire 20.515.600, oltre consequenziali statuizioni di legge. 197 La vicenda processuale riguardava un episodio accaduto il 3 marzo 1995 durante un incontro di calcio del campionato “Eccellenza” tra le squadre Nuova Salzano e Jesolo 91. Sugli sviluppi di un calcio d’angolo, il D., portiere dello Jesolo, aveva respinto, in elevazione, il pallone e subito dopo, in fase di ricaduta, era stato colpito dal F., giocatore avversario, con una gomitata all’addome. Immediatamente soccorso, lo stesso D. era stato trasportato all’Ospedale di Mirano dove, otto giorni dopo, aveva subito la splenectomia e la saturazione di una perforazione intestinale. Pronunciando sul gravame proposto dal difensore dell’imputato, la Corte d’appello di Venezia riformava, in parte, l’appellata decisione, dichiarando non doversi procedere nei confronti del F. perché il reato ascrittogli era estinto per intervenuta prescrizione. Confermava le disposizioni relative all’azione civile, con ulteriori statuizioni di legge. Avverso l’anzidetta pronuncia lo stesso difensore e l’imputato personalmente propongono ora distinti ricorsi per cassazione, deducendo le ragioni di censura in parte motiva indicate. Motivi della decisione 1.- Il primo motivo di ricorso proposto dal difensore denuncia mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla dinamica della vicenda, ricostruita sulla base di deposizioni testimoniali contrastanti e senza dar conto, peraltro, dei molteplici rilievi mossi nell’atto di appello. Il secondo motivo denuncia violazione dell’articolo 606 lett. e) del codice di rito, nonché mancanza e, comunque, manifesta illogicità della motivazione in ordine a quella stessa dinamica, in palese contrasto con univoche risultanze testimoniali. Il terzo motivo denuncia identica violazione dell’articolo 606 lett. e) del codice di rito con riferimento alla ritenuta volontarietà della duplice lesione della milza e dell’intestino, nonostante le precise affermazioni del dr. Dall’Olivo, il chirurgo che aveva operato la parte offesa. Il quarto motivo eccepisce la violazione dell’articolo 606 lett. b) ed e) del codice di rito in relazione agli articoli 50 e 51 Cp ed alle cause di giustificazione non codificate; nonché errata interpretazione ed applicazione della legge penale od illogicità della motivazione. Contesta, in particolare, la qualificazione giuridica del fatto come reato doloso, insistendo, altresì, per la richiesta di applicazione delle scriminanti di cui agli articoli 50 e 51 Cp (consenso dell’avente diritto ed esercizio di un diritto) ovvero di quelle, atipiche e non codificate, dell’esercizio dell’attività sportiva e dell’azione socialmente adeguata, sulla base, peraltro, di autorevoli insegnamenti di questo Giudice di legittimità. Il quinto motivo denuncia violazione dell’articolo 606 lett. b) Cpp in relazione agli articoli 582, 590 Cp; errata interpretazione ed applicazione della legge penale sul gradato rilievo che, nel caso di specie, sarebbe stata, semmai, ravvisabile una fattispecie colposa, ai sensi dell’articolo 590 Cp. Il primo motivo del ricorso proposto personalmente dall’imputato riproduce, in buona sostanza, le censure già espresse nel ricorso del difensore, sotto il profilo del difetto motivazionale, in ordine alla lettura delle risultanze testimoniali. Il secondo motivo eccepisce inosservanza o erronea applicazione della legge penale, ai sensi dell’articolo 606, lett. b) del codice di rito, sul riflesso, fondato anche su diversi richiami giurisprudenziali di legittimità e di merito, che, nel caso di specie, sarebbe operante la scriminante del consenso dell’avente diritto nell’ambito del rischio consentito che ogni giocatore conosce ed accetta e che l’ordinamento non punisce per l’interesse pubblico sotteso alla pratica sportiva. 198 2. Le censure relative alla motivazione ed alla metodologia di lettura delle risultanze di causa, che sostanziano i motivi primo, secondo e terzo del ricorso proposto dal difensore ed il primo motivo del ricorso dell’imputato, valutate globalmente per identità di ratio, devono essere disattese in quanto si risolvono in censure di merito. Peraltro, la dinamica del sinistro, nelle sue particolari modalità, risulta delineata sulla base di un’argomentazione immune da incongruenze di sorta. Dal coacervo delle motivazioni della sentenza di primo e di secondo grado, che, in quanto convergenti in punto di penale responsabilità, si integrano vicendevolmente, costituendo una sola entità giuridica, risulta infatti accertato che le gravi conseguenze fisiche patite dal D. sono riconducibili alla gomitata inferta dal F., nel corso di un’azione di gioco. Il dato sostanziale, emerso pacificamente dalle risultanze processuali, al di là delle segnalate divergenze su particolari ininfluenti e marginali, depone incontrovertibilmente per l’ascrivibilità del fatto allo stesso imputato e per l’accidentalità dell’evento nell’ambito di un’ordinaria fase di gioco, non essendo emerso da alcunché che il colpo sia stato inferto deliberatamente od in un diverso contesto, vale a dire “a gioco fermo”, con lo specifico e diretto intendimento di aggredire la persona offesa. In questa sede di legittimità risultano, allora, insindacabili la ricostruzione della dinamica dell’incidente, la determinazione dell’evento lesivo e la sua riconducibilità all’azione violenta del F.. L’esistenza di un idoneo apparato giustificativo a fondamento della versione dei fatti prescelta dal giudice del merito non lascia, dunque, spazio all’apprezzamento delle doglianze di parte, neanche sotto il profilo scientifico relativo a natura ed eziologia delle lesioni riportate dalla persona offesa, a fronte delle dichiarazioni - giustamente valorizzate - del consulente di parte civile e del chirurgo che aveva operato il D.. Le censure di parte vanno, poi, disattese nella misura in cui, sono intese alla contestazione del mancato rilievo dell’articolo 129 Cpp, a fronte della causa estintiva maturata per decorso del termine prescrizionale, ed alla richiesta di relativa applicazione in questa sede di legittimità. E’ ius receptum, infatti, che l’articolo 129 Cpp - come, del resto, è fatto palese dal significato letterale delle locuzioni usate dalla stessa norma - postula che, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice debba privilegiare la pronuncia di proscioglimento nel merito, con formula corrispondente, soltanto quando dagli atti di causa risulti evidente e, dunque, con rilievo percettivo ictu oculi che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso e che il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato (cfr. Cassazione, 48527/03, rv. 228505, secondo cui la valutazione che, in proposito, deve essere compiuta dal giudice appartiene più al concetto di constatazione che a quello di apprezzamento; con la conseguenza che, qualora le risultanze processuali siano tali da condurre a diverse ed alternative interpretazioni, senza che risulti evidente la prova dell’estraneità dell’imputato al atto criminoso, non può essere applicata la regola di giudizio ex articolo 530, comma 2, Cpp, la quale equipara la prova incompleta, contraddittoria od insufficiente alla mancanza di prova, ma deve essere dichiarata la causa estintiva della prescrizione). La Corte di merito ha correttamente applicato tale principio giurisprudenziale rilevando che non risultava evidente in atti alcuna situazione sostanziale che potesse giustificare il proscioglimento in merito del F., da privilegiare rispetto alla declaratoria della causa estintiva del reato per prescrizione. Risultano, invece, fondate, nei soli termini di seguito indicati, le doglianze di parte, espresse nei motivi quarto e quinto dei ricorso del difensore e nel motivo secondo dell’impugnazione dello stesso imputato, relativamente alla qualificazione giuridica dei fatto in questione. Profilo questo che, nell’economia del giudizio, mantiene la sua rilevanza anche in presenza di una causa estintiva, per la ricaduta che, agli effetti civili, assume la caratterizzazione giuridica ai fini della determinazione del quantum risarcitorio. 199 Orbene, in materia di lesioni personali derivanti dalla pratica dello sport, le elaborazioni dottrinarie e giurisprudenziali hanno, da tempo, definito i contorni della nozione di illecito sportivo, nozione che ricomprende tutti quei comportamenti che, pur sostanziando infrazioni delle regole che governano lo svolgimento di una certa disciplina agonistica, non sono penalmente perseguibili, neppure quando risultano pregiudizievoli per l’integrità fisica di un giocatore avversario, in quanto non superano la soglia del c.d. rischio consentito. Si tratta di un’area di non punibilità, la cui giustificazione teorica non può che essere individuata nella dinamica di una condizione scriminante. Il quesito interpretativo se l’esimente in questione debba essere ricondotta al paradigma del consenso dell’avente diritto, di cui all’articolo 50 Cp, e dunque all’ambito concettuale di una tipica causa di giustificazione prevista dal sistema positivo, ovvero all’area delle cause di giustificazione c.d. non codificate è stato risolto dalla giurisprudenza di questa Suprema Corte nel secondo senso, in considerazione dell’interesse primario che l’ordinamento statuale riconnette alla pratica dello sport (cfr., tra le altre, Cassazione, Sezione quarta, 2765/99, rv. 217643; idem, Sezione quinta, 8910/00, rv 216716). Tale interpretazione deve essere certamente ribadita, vuoi perché la riconducibilità ad una tipica causa di giustificazione comporterebbe non trascurabili problemi di coordinamento con il generale principio della non disponibilità di beni giuridici fondamentali, quali la salute od anche la vita, dotati, certamente, di valenza costituzionale, vuoi perché, in effetti, alla pratica sportiva l’ordinamento giuridico assegna un ruolo di assoluto rilievo. La considerazione privilegiata attiene sia ad una duplice prospettiva, sia individuale, sul piano della tutela della persona, sia di carattere sociale: entrambe meritevoli di protezione. Sotto il primo profilo, rileva la funzione altamente educativa dello sport, soprattutto agonistico, sotto forma non solo di cultura fisica, ma di educazione del giovane praticante al rispetto delle norme ed all’acquisizione della regola di vita secondo cui il conseguimento di determinati obiettivi (quale può essere la vittoria di una gara o il miglioramento di record personale) é possibile solo attraverso l’applicazione, il sacrificio e l’allenamento e, soprattutto, deve essere il risultato di tali componenti, senza callide o pericolose scorciatoie. Ed in tale prospettiva, lo sport diventa anche formidabile palestra di vita, preparando i giovani ad affrontare, con lo spirito giusto, la grande competizione della vita che li attende e per la quale saranno, certamente, meglio attrezzati ove interiorizzino valori come sacrificio, applicazione, rispetto delle regole e del prossimo. La valenza positiva dello sport la si coglie, in modo più vistoso, in chiave sociale, con riferimento alle discipline di squadra, in quanto al valore del benessere fisico, si accompagna quello della socializzazione, con evidente ricaduta nella sfera di previsione dell’articolo 2 della Carta Costituzionale, alla luce del riferimento alle formazioni sociali nelle quali si svolge la personalità, tra le quali sono certamente da ricomprendere anche le associazioni sportive. Senza dire, poi, dell’ulteriore profilo di utilità sociale connesso al fatto che lo sport può aiutare le istituzioni a distogliere i giovani da pericolose forme di devianza. Funzionale al perseguimento di questi valori è il principio di lealtà e di rispetto dell’avversario, codificato mediante regole tassative che ciascun atleta, al momento del tesseramento, accetta consapevolmente, impegnandosi alla rigorosa osservanza, a pena di specifiche sanzioni. Non a caso tutti i regolamenti delle federazioni sportive annoverano tra i principi fondamentali quello della lealtà e della correttezza, che costituisce valore fondante di ciascun ordinamento. Orbene, proprio sulla base di tali principi è stata ritagliata la nozione di illecito sportivo, con riferimento all’inosservanza sia dei canoni di condotta generalmente previsti per ciascuna disciplina (ad esempio, determinate tipologie comportamentali anche estranee alla competizione vera e propria; tesseramenti fraudolenti od iniziative volte ad alterare il regolare svolgimento di una gara 200 ed altro ancora), sia delle specifiche regole di gioco che devono essere osservate nell’agone sportivo e che compongono la parte tecnica del regolamento di ciascuna federazione. L’area del rischio consentito deve ritenersi coincidente con quella delineata dal rispetto di quest’ultime regole, che individuano, secondo una preventiva valutazione fatta dalla normazione secondaria (cioè dal regolamento sportivo), il limite della ragionevole componente di rischio di cui ciascun praticante deve avere piena consapevolezza sin dal momento in cui decide di praticare, in forma agonistica, un determinato sport. Le regole tecniche mirano, infatti, a disciplinare l’uso della violenza, intesa come energia fisica positiva, tale in quanto spiegata in forme corrette al perseguimento di un determinato obiettivo, conseguibile vincendo la resistenza dell’avversario, (quale può essere l’impossessamento di un pallone conteso o la realizzazione di un goal nel calcio, calcetto, hockey, pallanuoto, pallamano; di un canestro nel basket o di una meta nel rugby et similia; o ancora il superamento dell’avversario nel pugilato, nella lotta ed altro ancora). Posto che l’uso della forza fisica, nel senso anzidetto, può essere causa di pregiudizi per l’avversario che cerchi di opporre regolare azione di contrasto, il rispetto delle regole segna il discrimine tra lecito ed illecito in chiave sportiva. Ma neppure in ipotesi di violazione di quelle norme, tale da configurare illecito sportivo, viene travalicata l’area del rischio consentito, ove la stessa violazione non sia volontaria, ma rappresenti, piuttosto, lo sviluppo fisiologico di un’azione che, nella concitazione o trance agonistica (ansia del risultato), può portare alla non voluta elusione delle regole anzidette. Tutte le volte in cui quella violazione sia, invece, voluta, e sia deliberatamente piegata al conseguimento dei risultato, con cieca indifferenza per l’altrui integrità fisica o, addirittura, con volontaria accettazione del rischio di pregiudicarla, allora, in caso di lesioni personali, si entra nell’area del penalmente rilevante, con la duplice prospettiva del dolo o della colpa. Il dolo ricorre quando la circostanza di gioco è solo l’occasione dell’azione volta a cagionare lesioni, sorretta dalla volontà di compiere un atto di violenza fisica (per ragioni. estranee alla gara o per pregressi risentimenti personali o per ragioni di rivalsa, ritorsione o reazione a falli precedentemente subiti, in una logica dunque punitiva o da contrappasso). E’ evidente che, ai fini dell’indagine in questione, risulta decisivo accertare se il fatto si sia o meno verificato nel corso di una tipica azione di gioco, in quanto in ipotesi alternativa ricorre sempre una fattispecie dolosa. Quando, invece, la violazione delle regole avvenga nel corso di un’ordinaria situazione di gioco, il fatto avrà natura colposa, in quanto la violazione consapevole è finalizzata non ad arrecare pregiudizi fisici all’avversario, ma al conseguimento in forma illecita, e dunque antisportiva di un determinato obiettivo agonistico, salva, ovviamente, la verifica in concreto che lo svolgimento di un’azione di gioco non sia stato altro che mero pretesto per arrecare, volontariamente, danni all’avversario. Orbene, applicando tali principi alla fattispecie in esame, è agevole rilevare che dall’esposizione della sentenza impugnata, integrata, per quanto di ragione, dalla motivazione di primo grado, non emerge alcun elemento neppure dalle dichiarazioni della persona offesa che potesse indurre a ritenere che il F. avesse profittato delle circostanze di tempo e luogo per colpire deliberatamente il D., sull’impulso di motivazioni estranee allo svolgimento della partita. E’ risultato, inoltre, che il fatto lesivo ha avuto luogo nel corso di un’ordinaria azione di gioco, sugli sviluppi di un corner, nella tipica situazione che si verifica quando il pallone, dopo la battuta del calcio d’angolo, spiove in area avversaria e viene conteso dal portiere e dagli altri giocatori. Nello specifico, il D., in elevazione, era saltato più in alto degli avversari e, sia pure contrastato, era riuscito a respingere la sfera e poi, in fase di ricaduta, aveva subito l’azione fallosa del F. che lo aveva colpito con una gomitata. 201 Quindi, certa la circostanza di gioco, certa l’azione fallosa per violazione di una specifica regola di gioco (tipico fallo sul portiere) ed altrettanto certo l’effetto lesivo, non risulta indicata prova alcuna che l’impatto sia stato volontariamente inteso ad arrecare pregiudizio all’integrità fisica dell’avversario, piuttosto che evento conseguente ad un’intempestiva azione di contrasto (il portiere aveva già colpito il pallone) caratterizzata da salto scomposto (con le braccia allargate ed i gomiti alzati) ovvero da volontaria violazione di regole di gioco (fallo da frustrazione) non accompagnata però da univoca volontà di ledere. In questa logica, la parte motiva della sentenza impugnata offre un elemento di particolare pregnanza che, riduttivamente, è stato valorizzato dal giudice di merito, al solo fine di ribadire il giudizio di riconducibilità del fatto lesivo al F.. E cioè la circostanza che, al termine della partita, l’atleta si sia recato prontamente nello spogliatoio avversario per sincerarsi delle condizioni del D., ad eloquente riprova, ancorché postuma, non solo che era stato proprio lui l’autore del fallo, ma, soprattutto, che non v’era stato alcun pregresso risentimento od alcuna volontà di far male. 2. - Per tutto quanto precede, il fatto lesivo per cui è causa deve essere riqualificato, ai sensi dell’articolo 590 Cp, come fatto colposo, con conseguente statuizione nei termini indicati in dispositivo. P.Q.M. Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza limitatamente alla qualificazione giuridica del fatto che qualifica come reato di lesioni colpose. Rigetta nel resto il ricorso. Così deciso in Roma il 20 gennaio 2005. Depositato in cancelleria il 23 maggio 2005. -Conta la posizione giuridica di fatto e non quella formale. CASS. PEN. – SEZ. IV - 22 novembre 2006, n. 38428- Pres. Lionello- est. Foti P. propone ricorso avverso la sentenza della Ca di Messina del 13 luglio 2004 che, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, sezione staccata di Taormina, lo ha condannato alla pena di un anno e sette mesi di reclusione per il reato di omicidio colposo. Secondo l’accusa, il P........, nella qualità di amministratore unico della cartiera di Francavilla Sicilia, avendo omesso di adottare, secondo il disposto dell’articolo 11 del Dpr 574/55, le opportune precauzioni a riguardo delle modalità di prelevamento e accatastamento della carta, aveva causato la morte per schiacciamento di Salvatore, dipendente della cartiera, travolto dalla caduta di una balla di carta, del peso di circa 600 chilogrammi, mentre era intento a prelevare detta carta servendosi di un “muletto”. La corte territoriale, nel confermare, in punto di responsabilità, la sentenza di primo grado, ha, anzitutto, disatteso la tesi difensiva secondo la quale l’imputato aveva, all’interno dell’azienda, solo compiti amministrativi che non lo rendevano destinatario delle norme antinfortunistiche. Essa ha sostenuto, invero, che la posizione dell’imputato, di amministratore unico dell’azienda e di soggetto che concretamente impartiva disposizioni ai lavoratori ed organizzava l’attività aziendale, 202 consentiva di indicarlo quale titolare della posizione di garanzia all’interno dell’azienda e dunque di responsabile dell’incolumità dei lavoratori. per il resto, i giudici dell’impugnazione hanno rilevato come l’incidente fosse stato causato da colpa esclusiva dell’imputato, responsabile di un sistema di lavoro del tutto errato che prevedeva, da un lato, il confuso accatastamento di pesanti balle senza che si provvedesse alloro ancoraggio per garantirne la stabilità, dall’altro il prelievo delle stesse attraverso un sistema del tutto inadeguato ed in condizioni ambientali particolarmente precarie posto che gli addetti erano costretti a transitare, con grave rischio per la loro incolumità, lungo gli stretti passaggi lasciati liberi dalle cataste di carta, ammucchiate all’interno di un locale privo di luce sufficiente, nelle ore notturne, e dal pavimento sdrucciolevole per la presenza di fango. Confermata la penale responsabilità dell’imputato, la corte territoriale, pur ribadendo il diniego delle circostanze attenuanti generiche, ha tuttavia ritenuto di ridurre ad un anno e sette mesi di reclusione la pena inflitta dal primo giudice. Avverso tale sentenza ricorre, dunque, il P...... che deduce: a) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione agli articoli 40, 43, 113 Cp e 11 Dpr 547/55, mancanza o contraddittorietà della motivazione, travisamento delle risultanze processuali. Sotto un primo profilo rileva il ricorrente che erroneamente la corte territoriale lo ha ritenuto responsabile della morte del Raiti, in quanto soggetto che, di fatto, provvedeva all’organizzazione del lavoro aziendale e ad impartire le direttive ai dipendenti. I giudici dell’impugnazione sarebbero, anzitutto, incorsi in errore nel qualificare la posizione dell’imputato che non era di amministratore unico dell’azienda, come erroneamente si sostiene nella sentenza impugnata (peraltro in contrasto con lo stesso capo d’imputazione che tale qualifica attribuisce ad altri e che indica l’odierno ricorrente quale semplice “dirigente”). L’errore, sostiene ancora il ricorrente, avrebbe indotto i giudici del merito a non approfondire con attenzione il tema dei compiti ricoperti dall’imputato ed a travisare le emergenze processuali, poiché nessuno dei testi indicati nella sentenza avrebbe mai affermato, come si legge nel documento impugnato, che era il Puglisi a provvedere all’organizzazione aziendale ed a comportarsi come il vero titolare dell’azienda. Sotto il profilo del vizio di motivazione il ricorrente deduce l’illogicità dell’iter argomentativi seguito dai giudici del merito in ordine alla condotta omissiva indicata quale antecedente causale dell’evento. In realtà, si sostiene nel ricorso, non sarebbe stata la mancata osservanza delle prescrizioni antinfortunistiche dettate dall’articolo 11 del citato Dpr a determinare l’evento, essendo stato accertato che le cataste erano stabili e che solo l’azione deliberata di chi manovrava il muletto sollevatore avrebbe potuto provocare la caduta delle balle di carta. Nel caso di specie, era stato accertato, attraverso l’esame dell’unico teste presente ai fatti, che la caduta non era stata accidentale, né determinata dal mancato ancoraggio al muro delle balle, bensì provocata da una manovra abnorme dell’operatore del muletto, cioè della vittima, che aveva volontariamente abbattuto la catasta per imbracare più facilmente le singole balle, ed alla cui anomala condotta, quindi, dovevano attribuirsi l’incidente e le sue gravi conseguenze. b) Mancanza o manifesta illogicità della motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio in relazione alla misura della pena inflitta ed al disconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Sotto tale profilo il ricorrente rileva la mancata indicazione dei criteri seguiti per l’individuazione della pena e delle ragioni che hanno determinato il diniego delle invocate circostanze attenuanti. Conclude, quindi, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata. Con note d’udienza il ricorrente ha ribadito le proprie argomentazioni e richieste. Il ricorso è infondato. 203 Certamente insussistente è il vizio di motivazione, che viene dedotto con riguardo, da un lato, all’errata indicazione del ricorrente, da parte dei giudici del merito, quale amministratore unico dell’azienda alle cui dipendenze lavorava il Raiti, dall’altro, all’errata interpretazione delle dichiarazioni rese dai testi Ferrara e Pafumi. In realtà, quanto il primo dei due profili censurati, occorre rilevare che se è vero che la corte d’appello ha erroneamente indicato il Puglisi quale amministratore unico dell’azienda, di cui è titolare ed amministratore la moglie del ricorrente, è altresì vero che la responsabilità di costui è stata dalla stessa corte rilevata in vista delle mansioni dirigenziali dallo stesso in concreto ricoperte ed esercitate all’interno della stessa azienda, secondo quanto emerso dalle acquisizioni probatorie in atti. In particolare, nella sentenza impugnata si richiamano espressamente le dichiarazioni dei testi Pafumi e Ferrara che hanno indicato l’imputato come il soggetto che dava le direttive ai dipendenti e che di fatto si comportava quale effettivo titolare dell’azienda. Del tutto adeguata e coerente rispetto a tali acquisizioni si presenta, quindi, la motivazione della sentenza impugnata, malgrado l’errata formale qualifica attribuita all’imputato. Con riguardo al secondo profilo di censura, rilevato che solo nei motivi di ricorso l’imputato ha contestato l’interpretazione fornita dai giudici del merito delle dichiarazioni dei testi Ferrara e Pafumi, del quale ultimo si contesta persino l’identificazione, e sorvolando circa l’ ammissibilità della censura, anche perché relativa ad una diversa interpretazione di elementi probatori adeguatamente e coerentemente valutati dal giudice del merito, occorre rilevare la totale inconsistenza dei rilievi mossi dal ricorrente. Invero, costui, in definitiva, nel contestare l’interpretazione delle dichiarazioni dei predetti testi, si limita ad adombrare l’ipotesi, senza tuttavia dame contezza, che il Puglisi al quale il Ferrara si riferiva era persona diversa dall’ odierno ricorrente e che il Pafumi lavorava, prima di essere licenziato, presso altra cartiera di proprietà della moglie dell’imputato, quasi che tali circostanze, ove anche veritiere, potessero autorizzare il dubbio circa la veridicità di quanto dai testi sostenuto. Ugualmente inesistenti sono i vizi di violazione di legge e di motivazione dedotti con riguardo all’individuazione della condotta colposa attribuita al ricorrente. In realtà, la corte territoriale ha chiaramente e coerentemente sostenuto, sulla scorta delle emergenze processuali, che profili di responsabilità a carico dell’imputato dovevano riscontrarsi nel non essersi egli accertato che le operazioni di accatastamento e di prelievo delle balle di carta, ciascuna del peso di alcune centinaia di chilogrammi, fossero eseguite nel rispetto della normativa vigente e, comunque, in condizioni di totale sicurezza per i lavoratori. In particolare, la stessa corte ha sostenuto che se era pur vero che non erano emerse carenze nelle protezioni antinfortunistiche in dotazione ai lavoratori, era tuttavia altrettanto vero che l’ambiente ed il sistema di lavoro della cartiera non era rispettoso delle norme antinfortunistiche, in particolare dell’articolo 11 del Dpr 547/55; in ragione di ciò, l’uno e l’altro si presentavano fortemente a rischio sia per l’instabilità delle pesanti ed ingombranti balle di carta accumulate l’una sull’altra in numero di tre o quattro, e persino cinque, senza essere fissate al muro, in locali talvolta male illuminati ed inadeguati, sia per il sistema di accatastamento e prelevamento delle stesse, che non garantiva l’incolumità dei lavoratori. D’altra parte, corretta si presenta la decisione impugnata anche laddove esclude qualsiasi ipotesi di concorso della vittima nella produzione dell’evento, posto che la manovra dallo stesso eseguita per il prelievo della carta rientrava, secondo quanto accertato dai giudici del merito, nel normale sistema operativo previsto per le operazioni di trasporto, cioè nell’ordinaria esecuzione delle mansioni normalmente svolte dal cartellista in tali occasioni. I giudici del merito, d’altra parte, hanno anche preso in esame la tesi, avanzata dal ricorrente, secondo cui la stessa vittima aveva posto in essere una manovra azzardata a causa della quale si sarebbe verificato il mortale infortunio, e ne hanno segnalato l’inconsistenza, avendo accertato che il Raiti non si era in alcun modo discostato dagli ordinari metodi lavorativi generalmente seguiti nell’azienda, di guisa che la caduta della pesante balla di carta che aveva 204 travolto il lavoratore era dovuta all’inosservanza, da parte dell’azienda, delle norme antinfortunistiche ed al sistema lavorativo che non aveva adeguatamente affrontato i delicati temi della sicurezza dei lavoratori. Palesemente infondata, infine, è la censura relativa al regime sanzionatorio, anche con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Su tali punti, invero, la corte territoriale ha adeguatamente, seppur sinteticamente, motivato, facendo riferimento alla gravità dei fatti e della condotta dell’imputato a causa dell’ esposizione a rischio di numerose persone, ed ancora ai precedenti penali, riguardanti proprio la violazione di norme in materia di lavoro e di tutela dell’ambiente, che testimoniano, a giudizio del giudice dell’impugnazione, un’ attenzione assolutamente insufficiente, da parte del P., ai temi della sicurezza e dell’organizzazione aziendale. Infondato è, dunque, il ricorso proposto da P. nei cui confronti, tuttavia, deve dichiararsi la prescrizione del reato di cui gli articoli 389 e 11 del Dpr 547/55, con conseguente eliminazione della pena di mesi uno di reclusione inflitta a titolo di continuazione. Il ricorrente deve essere condannato alla rifusione, in favore delle parti civili costituite, delle spese del presente grado di giudizio che liquida in complessivi curo 1.600 per onorari, oltre Iva e Cpa. PQM Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui agli artt. 11 e 389 del Dpr 547/55, perché estinto per prescrizione, ed elimina l’aumento di pena di un mese di reclusione per la continuazione. Rigetta il ricorso nel resto e condanna il ricorrente a rifondere alle parti civili Gioè Calogera, Raiti Vincenza, Raiti Lorena Miranda, Raiti Cristina e Raiti Maria Rosa le spese da queste sostenute nel presente grado di giudizio; spese che liquida in complessivi euro 1.600,00 per onorario, più Iva e Cpa. OMICIDIO PRETERINTENZIONALE TRACCIA: Tizio era fortemente adirato con Caio, in quanto quest’ultimo aveva sottratto dalla casa del primo 20,oo euro; Tizio incominciava a schiaffeggiare violentemente Caio, fino a farlo cadere per terra. Successivamente, Tizio prendeva a calci il viso di Caio, facendolo sanguinare. Dopo, Tizio, che in alcun modo voleva la morte di Caio, prendeva in mano un coltello molto grande al fine di spaventare Caio; quest’ultimo, si spaventava tantissimo ed aveva un infarto che lo portava al decesso. Il candidato prenda in esame la posizione giuridica di Caio, precisando se ai fini della configurabilità dell’omicidio preterintenzionale: -l’evento voluto meno grave deve verificarsi o meno e, in questo caso, se è necessaria almeno l’integrazione del tentativo punibile; -è necessaria o meno l’imputazione a titolo di colpa del reato più grave. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa poteva essere utile ricostruire molto sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario cercare di rispondere ai quesiti proposti dalla traccia. Caio rischia di rispondere del reato di omicidio preterintenzionale, ex art. 584 c.p. 205 Viene chiesto, poi, nell’ambito dello schema dell’art. 584 c.p., le percosse o lesioni personali devono necessariamente essere state integrate ovvero può essere sufficiente il tentativo? Secondo l’impostazione minoritaria, sarebbe necessaria la completa integrazione del reato meno grave (percosse o lesioni), alla luce del rinvio dell’art. 584 c.p. agli artt. 581 e 582 c.p. e non anche all’art. 56 c.p. Secondo l’impostazione prevalente, invece, il problema posto andrebbe risolto in termini diversi; infatti, non sarebbe necessario il rinvio ad un articolo (come l’art. 56 c.p.) puntualmente individuato, perché già la lettera della legge deporrebbe nel senso che è sufficiente l’integrazione del mero tentativo del reato minore, in quanto il legislatore con l’inciso “atti diretti a”, ha voluto richiamare il dato letterale dell’art. 56 c.p. (anche se non precisamente individuato), con il corollario applicativo che, ai fini della punibilità per omicidio preterintenzionale, sarà sufficiente l’integrazione delle tentate lesioni o percosse; diversamente argomentando, non si spiegherebbe la motivazione per cui il legislatore penale abbia ricalcato lo schema letterale del tentativo punibile. Successivamente, era fondamentale chiedersi se è necessaria la colpa del reato più grave (omicidio) ai fini dell’integrazione della preterintenzione. Secondo l’impostazione minoritaria, la preterintenzione sarebbe dolo misto a responsabilità oggettiva, alla luce del fatto che la preterintenzione è oltre l’intenzione, ex art. 43 c.p., quasi a voler dire che non è necessaria la sussistenza di alcun elemento psicologico ulteriore al dolo iniziale. Secondo l’impostazione prevalente, invece, la preterintenzione sarebbe dolo misto a colpa, in virtù dell’art. 27 Cost. (personalità della responsabilità penale), per cui sarebbe necessario il dolo relativo a percosse o lesioni misto alla colpa della morte, con il corollario logico deduttivo che, in questo caso, l’evento morte deve essere almeno prevedibile e/o evitabile. Una certa giurisprudenza recente ritiene (invero, sulla falsariga del dolo misto a responsabilità oggettiva) che sia necessario verificare solo la sussistenza del dolo del fatto minore, in una prospettiva unitaria dell’elemento psicologico, senza porsi alcun problema interpretativo dell’elemento psicologico del fatto più grave (morte). Nel caso di specie, pertanto, accogliendo la tesi prevalente della preterintenzione come dolo misto a colpa, sarà necessario, ai fini dell’applicabilità dell’art. 584 c.p., dimostrare che Tizio poteva prevedere che Caio avesse un infarto (ad esempio, se era malato di cuore), diversamente, Tizio risponderà solo di lesioni (o percosse) aggravate. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -L'art. 584 c.p. (omicidio preterintenzionale) non è costituito da dolo misto a responsabilità oggettiva oppure da dolo misto a colpa, ma semplicemente dal dolo del fatto minore, che assorbe la prevedibilita' dell'evento omogeneo piu' grave. In caso di omicidio preterintenzionale, il giudice non deve verificare se l'evento morte fosse prevedibile secondo un parametro legale, dettato per la colpa, ma solo se l'agente ha agito con il dolo di cui all'art. 581 o 582 c.p.. Corte di Cassazione, Sezione V Penale, Sentenza 8 marzo 2006 (dep. 14 aprile 2006), n. 13673/2006 (469/2006) REPUBBLICA ITALIANA 206 IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FOSCARINI Bruno - Presidente Dott. ROTELLA Mario - Consigliere Dott. NAPPI Aniello - Consigliere Dott. FUMO Maurizio - Consigliere Dott. DIDONE Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da H.A.A., nato il ... avverso la sentenza del 25/10/2004 della Corte d'Assise d'Appello di Milano; visti gli atti, la sentenza ed il procedimento; udita in publica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Rotella Mario; udite le conclusioni di rigetto del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Salzano F. e di manifesta infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale; udito il difensore, Avv. R. M. PREMESSO 1 - La Corte di Assise di Appello di Milano ha confermato la condanna inflitta ad H.A.A. dal GUP di Milano, con generiche e diminuente di rito, ad anni 4 e mesi 6 di reclusione, ai sensi dell'art. 584 cp, per avere cagionato il 4.5.99 la morte di E.D. per tromboembolia polmonare massiva da frattura pelvica (sx), colpendola ripetutamente con schiaffi e calci in data 28.4.99. La sentenza ricostruisce che il 28 aprile, secondo le testimonianze acquisite, l'imputata, vista la E. seduta per via su una panchina con tre amiche, si avvicinava sorridendo e, datole improvvisamente uno schiaffo, l'afferrava per i capelli e la strattonava piu' volte. Nel "parapiglia" seguito, per l'intervento delle altre donne, l'offesa cadeva in terra e la H. continuava a colpirla a calci, tra l'altro uno alla parte destra dell'inguine. Il movente di questo suo comportamento era dovuto all'insulto, che sosteneva di aver subito dall'E., per non aver provveduto a restituirle la somma prestatale di L. 220.000. Alla E., trasportata in ospedale, veniva riscontrato tra l'altro il trauma di cui imputazione, che le immobilizzava l'arto inferiore sinistro. Dimessa, con prognosi di gg. 30-35, era trovata morta in casa 6 giorni dopo. Il C.T. in sede di autopsia, presente quello per l'imputata, concludeva per il nesso causale dell'embolia mortale con il trauma pelvico. Il perito, di seguito nominato dal GIP, confermava. 207 Con l'atto di appello la difesa contestava l'assenza di prova che la E. fosse stata spinta in terra dall'imputata, e che la formazione trombotica, cui si rapporta il decesso, fosse dovuta al trauma fratturativo. La sentenza ha risposto che la E. e' caduta a terra, a seguito della colluttazione originata dalla H., che continuato a colpirla tra l'altro con un calcio, che ha cagionato la frattura da cui e' scaturito l'evento. Ha aggiunto che non era necessaria la previsione dell'evento, altrimenti rilevante ai sensi dell'art. 61 c.p., n. 3. Il ricorso denuncia: 1) Vizio di motivazione sul nesso causale: il trauma alla branca ileo-pubica sx e' derivato dalla caduta, non dal calcio, che concerne la parte destra dell'inguine, e dunque vi e' travisamento della prova decisiva; 2) Mancata pronuncia di sentenza a norma dell'art. 129 c.p.p., posto che il piu' grave evento non era prevedibile, e per la configurazione del reato secondo dottrina e giurisprudenza prevalenti e' necessario il dolo misto a colpa, nonostante taluna decisione di segno contrario; e solleva: 3) Questione di illegittimita' dell'art. 584 c.p. ai sensi dell'art.27 Cost., se la norma e' intesa nel senso di implicare attribuzione dell'evento piu' grave a titolo di responsabilita' obiettiva. Ritenuto: 1 - Il 2^ e 3^ motivo concernono la premessa normativa, e sono infondati. 1.1 - Il delitto di cui all'art. 584 c.p. ha un titolo proprio ed esclusivo di responsabilita'. L'art. 42 c.p., fondando la regola di responsabilita' nel dolo, prevede quali eccezioni il delitto preterintenzionale e colposo. E infine afferma che la legge determina i casi in cui l'evento e' posto altrimenti a carico dell'agente come conseguenza della sua condotta. Va percio' escluso che l'omicidio preterintenzionale sia punibile a titolo di dolo e responsabilita' obiettiva insieme. Si era ritenuto che lo fosse per dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. 5^ n. 10994/1981, rv. 151265; 9294/83 - 161038; 4836/85 - 169259; 2634/93 - 194325). Ma questa Corte (Sez. 5^, n.13114/02, P.G. in proc. Izzo, rv. 222054), giusta lettera della norma incriminatrice, afferma che l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale e' costituito unicamente dalla volonta' di infliggere percosse o provocare lesioni. Per intendere la ratio normativa, va innanzitutto osservato che l'art.43 c.p. costruisce l'elemento psicologico quale causalita' morale, in parallelo a quella materiale (art. 40 c.p.), fondandola sul rapporto tra intenzione, costituita da volonta' e previsione del risultato della condotta, ed evento conseguente alla stessa condotta. Definendo il delitto doloso secondo l'intenzione, l'articolo pone la regola di responsabilita' nella corrispondenza dell'evento, da cui dipende l'esistenza del reato, all'intenzione di risultato. 208 La corrispondenza permane nel delitto preterintenzionale, nel quale e' superata solo dalla maggior gravita' dell'evento. La corrispondenza e' invece esclusa nel delitto colposo nel quale l'evento, seppure preveduto, e' in contrasto con il risultato intenzionale. Ed e' per questa ragione che l'art. 43 c.p., detta quali parametri di causalita' morale ("quando l'evento ... si verifica a causa di ...") la negligenza, l'imprudenza, l'imperizia o l'inosservanza di norme da parte dell'agente. Ciascun parametro si rapporta alla categoria logica di prevedibilita' dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato, come conseguenza della condotta, e serve a dimostrare superabile dall'agente l'inconsapevolezza dell'esigenza di diverso comportamento. Tanto basta. Percio', se nel delitto colposo si agisce nonostante la previsione dell'evento, l'art. 61 c.p., n. 3 prevede un'aggravante: la possibilita' cognitiva e' superata dalla consapevolezza. La tassativa limitazione dell'aggravante al delitto colposo conferma che la previsione dell'evento da cui dipende l'esistenza del reato e' componente necessaria e non circostanziale nel delitto preterintenzionale, come in quello doloso. Il sistema dunque significa che quanto al delitto preterintenzionale, la disposizione dell'art.43 assorbe la prevedibilità di evento piu' grave nell'intenzione di risultato, per il quale parametri di negligenza, imprudenza o imperizia, men che d'inosservanza di norme, sono assolutamente irrilevanti. E' per esempio incontroverso che l'essere l'agente privo di conoscenze mediche, tali da consentirgli di prevedere l'evoluzione nell'evento morte del risultato lesivo intenzionale, non pone questione di imperizia, pur a fronte di complessa ricostruzione medico - legale del nesso causale. La ragione evidente e' che chi agisce con dolo di delitto di percosse o lesioni per definizione puo' prevedere l'evento piu' grave del risultato voluto, indipendentemente dai parametri che servono a qualificare la colpa. Il rischio del verificarsi della morte e' implicito nell'offesa dell'incolumita' personale, tant'e' che se l'agente prevede l'evento morte, il delitto e' secondo l'intenzione, e va qualificato omicidio volontario. Difatti, come si e' premesso, la piena corrispondenza dell'intenzione, intesa previsione e volonta' di risultato, all'evento conseguito alla condotta, integra dolo generico del delitto di cui all'art.575 c.p.. E, secondo diritto vivente, e' irrilevante che alla previsione dell'evento si associ l'opzione di risultato meno grave perche', agendo, si vuole anche quello piu' grave, secondo causalita' naturale della 209 propria condotta (dolo eventuale o indiretto). Tanto, paradossalmente, riconosce proprio la giurisprudenza del doppio elemento psicologico. L'errore ermeneutico e' dunque dovuto al travisamento della categoria (idea) di prevedibilita', per la colpa (concetto), che e' una specie del genere elemento psicologico. Ma se la prevedibilita' va codificata in un carattere (negligenza, imprudenza, etc.) necessario del delitto colposo, perche' l'evento si verifica contro l'intenzione, questa necessita' non esiste nel delitto preterintenzionale, a fronte dell'intenzione del risultato della condotta. 1.2 - A riprova strutturale, l'elemento psicologico dell'omicidio preterintenzionale e' unico, perche' ad esso corrisponde un solo evento, da cui dipende l'esistenza del reato. Tanto trova conferma, oltre che nella lettera della norma incriminatrice in rapporto al dettato dell'art. 15 c.p., nelle norme sul concorso di reati. Si ritorni alla lettera delle norma. Secondo l'art. 584 c.p., la condotta consiste in atti diretti a commettere taluno dei delitti di cui agli artt. 581o 582 c.p., mentre l'evento cagionato, da cui dipende l'esistenza del delitto, e' la morte. Per diritto vivente (giurisprudenza costante da Cass. 13.10.64, Viti in CPMA 65,488 e v. Sez. 5^, 4793/88, CED rv. 178180) la lettera significa sufficiente il tentativo di percosse, men che di lesione, per la punibilita' a titolo di omicidio preterintenzionale (se per es. ad un atto aggressivo, che non attinga il corpo dell'offeso, segua un infarto). Orbene, se l'agente ha voluto un evento minore omogeneo, quale conseguenza della condotta ai sensi dell'art. 581 o 582 c.p., la progressivita' del delitto di cui all'art. 584 c.p., implica, giusta la regola dell'art. 15 c.p., assorbimento del delitto sussidiario di cui all'art. 581 o 582 c.p.. Proprio il riferimento all'art.586 c.p., la cui disposizione parallela e' tratta a conforto dalla teoria del "doppio elemento psicologico", lo conferma. L'art.586 c.p., disciplina un delitto "contro l'intenzione", perche' l'evento mortale, o anche solo lesivo si badi (e v. oltre, dove si osserva perche' non e' previsto anche il delitto di lesione preterintenzionale), e' conseguenza non voluta di un delitto doloso non sussidiario. La disposizione si fonda dunque, al contrario di quella di cui all'art. 584 c.p., sulla disomogeneita' dell'evento lesivo o mortale, rispetto al risultato prefigurato e voluto dall'agente, tant'e' che rinvia all'art. 83 c.p., che disciplina l'aberrazione e a sua volta stabilisce bensi' che l'agente risponda a titolo di colpa del delitto qualificato dall'evento diverso, quando il fatto e' preveduto come delitto colposo, ma conferma il concorso di reati, se l'agente ha cagionato anche l'evento voluto. 210 L'art. 586 c.p., dunque, non si rifa' alla regola dell'art. 15 c.p., ma a quella del concorso di reati, perche' i due eventi eterogenei, ovvero rapportabili a norme che disciplinano diversa materia, implicano ciascuno un proprio elemento psicologico. Viceversa l'art. 584 c.p., non richiede un ulteriore elemento psicologico oltre il dolo di delitto sussidiario, perche' l'evento da cui dipende l'esistenza del reato progressivo e' unico. 1.3 - Per concludere sul perche' la prevedibilita' non assurge a carattere distinto dell'omicidio preterintenzionale, e' necessario verificare il rapporto con la realta' fenomenica. Orbene, si e' visto, l'esperienza dimostra che il rischio di evento omogeneo piu' grave e' insito nel danno o pericolo che si arreca alla persona fisica. E nel sistema l'interesse primario, che accomuna i beni essenziali della persona, e' complessivamente tutelato in ragione dell'idea (categoria) di inevitabilita' dell'evento piu' grave, conseguente al processo naturale attivato con la condotta umana. Si tratta della stessa idea per cui la legge afferma in via generale che la causalita' umana non e' esclusa da cause concorrenti precedenti, simultanee o sopravvenute, indipendenti dall'azione (art. 41 c.p.). Su questa premessa si rifletta innanzitutto sul perche' la legge non prevede il delitto di lesione preterintenzionale: il delitto di percosse e quello di lesione concernono oltre che lo stesso interesse, lo stesso bene incolumita'. Percio' se, percuotendo una persona, dalla condotta scaturisce un processo morboso (per es. da trauma), il delitto va qualificato ai sensi dell'art. 582 c.p., e, in ipotesi di maggior gravita', progressivamente aggravato ai sensi dell'art. 583 c.p.. La ratio di questa disciplina e' incontestata sul piano obiettivo e psicologico. Ma la vita, che si rapporta bensi' allo stesso interesse, costituisce quel bene diverso ed omogeneo, sulla cui tutela s'incentra tutto il sistema penale. E, fermo che se si usa violenza fisica alla persona per cagionare sofferenza o malattia, non si e' per definizione in grado di potere escludere che cause indipendenti dalla condotta, seppure ignote al momento di agire, possano concorrere a cagionare la morte, e' evidente perche' il sistema, per sorreggere la disciplina dell'unica ipotesi di delitto preterintenzionale di cui all'art. 584 c.p., disciplina una specie autonoma di responsabilita' morale nell'art. 43 c.p.. E' questa la ragione per cui, in caso di omicidio preterintenzionale, il giudice non deve verificare se l'evento morte fosse prevedibile secondo un parametro legale, dettato per la colpa, ma solo se l'agente ha agito con il dolo di cui all'art. 581 o 582 c.p.. La prevedibilita' dell'evento piu' grave è assorbita nell'intenzione di risultato del delitto contro la persona fisica, mentre la speculazione teorica del doppio elemento psicologico, pone la disciplina normativa fuori della realta'. 211 1.4 - E' pertanto singolare che la motivazione della sentenza impugnata concluda che la previsione dell'evento non e' necessaria, altrimenti nella specie sarebbe stata contestata l'aggravante di cui all'art. 61 c.p., n. 3 esclusa in concreto. In tal modo travisa che l'aggravante si applica solo ai delitti colposi, e non puo' essere applicata all'omicidio preterintenzionale, ed autorizza l'argomentazione infondata del ricorso. All'evidenza era sufficiente la risposta gia' resa che la H. aveva di certo voluto offendere l'incolumita' personale della E., per dimostrare corretta l'inferenza della sua responsabilita' a titolo di omicidio preterintenzionale per la morte cagionata. 2 - Il ricorso e' infine giunto a contestare l'illegittimita' dell'art.584 c.p., in rapporto all'art.27 Cost.. La verifica dell'equivoco dialettico, in cui e' gia' incorso in passato questo Giudice di diritto, a cui altrimenti si rifa' altrimenti il ricorso, dimostra la manifesta infondatezza della questione. Questa Corte aveva difatti gia' ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale, proprio con l'affermazione che la giurisprudenza configura la preterintenzione come dolo misto a colpa (Cass. Sez. 5^, n. 2634/93, rv. 194325, cit). Sennonche' la difesa non ha osservato che, motivandola, tradisce l'equivoco spiegando che l'evento non si rapporta a responsabilita' oggettiva, ma ad una prevedibilita' di minimo profilo. In tal modo ammette implicitamente che non si e' in presenza dei parametri posti dall'art.43 c.p., circa il delitto colposo, che concernono l'intenzione diretta ad altro risultato della condotta, percio' contro l'evento. Ma non trae l'implicazione realistica che la prevedibilita' dell'evento piu' grave e' in caso di delitto preterintenzionale categoria irrilevante per la struttura dell'elemento psicologico, assorbita nel dolo di percosse o lesioni. Orbene, l'art. 27 Cost., non trascura affatto che il disvalore del reato e' segnato oltre che dal nesso di causalita' tra condotta ed evento (art. 40 c.p.), dal rapporto dell'elemento psicologico con lo stesso evento (art. 43 c.p.). E' quanto si evince dall'ordinanza 152/84 e dalla sentenza 364/88 del Giudice di legittimita' (menzionate da Cass. 13114/02, cit.). In questi provvedimenti si afferma che l'art. 27 Cost., comma 1, propugnando il principio di responsabilita' personale, esclude quella per fatto di terzi (e percio' stesso gia' riconosce come centrale del sistema penale il rapporto causale dell'evento con la condotta dell'agente) e non contiene tassativo divieto di responsabilita' oggettiva (art. 42 c.p., comma u.), perche' il precetto va combinato quello di cui al comma con il 3 (che si occupa dell'emenda del reo). Per quanto interessa la responsabilita' morale ai sensi dell'art. 584 c.p., quest'ultima non rileva come concessiva perche', conclude il Giudice di legittimita', e' l'insieme degli elementi costitutivi di ciascun reato a significarne la ragione di incriminazione ed il metro di punibilita'. 212 Spetta dunque a questa Corte, per il suo compito nomofilattico, volto alla realizzazione del diritto vivente, spiegare la ragione di incriminazione, e affermare che nel caso non entra minimamente in giuoco la responsabilita' obiettiva, men che la colpa, bensi' solo il dolo di evento minore, che assorbe la prevedibilita' dell'evento omogeneo piu' grave. La ratio dell'art. 584 c.p., risulta insomma conforme al dettato costituzionale, in quanto si fonda sul rapporto dell'elemento psicologico di un delitto preveduto e voluto contro l'incolumita', con l'evento morte come conseguenza percio' stesso prevedibile della condotta. 3 - Passando alle questioni di premessa di fatto della sentenza impugnata, il 1^ motivo e' infondato, al di la' della lettera della motivazione, che pure afferma: "la frattura e' derivata non dalla caduta, ma dal violento calcio inflitto alla vittima gia' per terra". Questa frase a prima vista collega gratuitamente il trauma pelvico fratturativo, che immobilizzava l'arto inferiore sinistro della E., da cui e' scaturita la morte, al calcio da lei ricevuto in terra a destra nell'inguine, come pure riferito (pag. 2). L'asserto denuncia un travisamento, che e' bensi' evidente, ma irrilevante. La frase difatti va letta nel contesto ricostruttivo, che riassume nella frase precedente a quella censurata, quanto esposto in dettaglio dalla sentenza di 1^ grado, con il rilievo che se la donna (di eta' avanzata) "e' caduta a seguito del parapiglia, tale parapiglia e' stato cagionato dall'imputata". Ed e' incontestato dal ricorso che la H. l'aveva repentinamente percossa, afferrata per i capelli e strattonata, ed ha continuato nella sua azione violenta con calci, tra cui quello all'inguine, quando e' caduta in terra nel parapiglia, seguito al tentativo delle altre donne presenti di fermarla nella sua azione violenta. Ne segue per quanto interessa che la caduta, men che rapportabile a fatto di terzi, non e' ritenuta estranea alla condotta dell'imputata dai Giudici di entrambi i gradi di merito, bensi' dovuta proprio all'azione incriminata. Essi non hanno percio' rilevato alcun elemento di segno contrario idoneo ad escludere il nesso causale, posto che l'anziana persona offesa, prima di essere aggredita con violenza da lei e di cadere durante il "parapiglia" sorto per fermarla, ovvero consecutivo all'azione, era seduta e sicura sulla panchina. Pertanto il ragionamento complessivo si sottrae alla censura di manifesta illogicita' (contraddittorieta' o mancanza di motivazione che si voglia). Resta l'ultima questione, secondo la quale la Corte di merito individuando, quale causa dell'evento, un tipico atto diretto a ledere (art. 582 c.p.) e non invece, come correttamente avrebbe dovuto fare, un insieme di atti diretti ad indurre un altro soggetto a desistere da una condotta gia' oppressiva dell'offesa (art. 610 c.p.), ha ritenuto sussistente il reato di cui all'art. 584 c.p., in luogo della fattispecie prevista e punita dall'art. 586 c.p.. 213 L'argomento e' non consentito per l'implicazione di valutazione alternativa che prospetta in questa sede. Secondo la ricostruzione di fatto delle sentenze, l'intento offensivo dell'incolumita' sino a livello di lesione e' dimostrato dall'insieme della condotta violenta contro la persona, attestato a partire dallo schiaffo e dell'afferrare la donna per i capelli a finire proprio con quel calcio peraltro non unico, quale che fosse il movente della condotta. Ed e' anche manifestamente infondato. Se i Giudici di merito avessero ritenuto che l'agente aveva anche lo scopo rilevante di costringere l'offesa ad un non fare, si sarebbero trovati in presenza di concorso di reati, non alla necessita' di qualificare diversamente lo stesso fatto, insopprimibili gli estremi di delitto di lesione in rapporto al piu' grave evento cagionato. Il richiamo all'art. 586 c.p., posto a suffragio dal ricorso, percio' implica altro travisamento degli estremi di reato, stavolta non avallato da alcuna giurisprudenza. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Cosi' deciso in Roma, il 8 marzo 2006. Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2006 - La preterintenzione è dolo misto a colpa. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 8 giugno 2006 n. 19611 Presidente Sossi – Relatore Cassano Pg Viglietta – Ricorrente Grillo Ritenuto in fatto Con sentenza del 16 giugno 2004 il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Cosenza dichiarava Grillo Giovanni responsabile del delitto di omicidio volontario, commesso in Cosenza l’8 novembre 2002 in danno della convivente Tullo Carmela ed, esclusa l’aggravante della premeditazione e concesse le circostanze attenuanti generiche, applicata la diminuente per il rito abbreviato, lo condannava alla pena di anni quattordici di reclusione, nonché alle pene accessorie dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici e dell’interdizione legale per la durata della pena. La Corte d’assise d’appello di Catanzaro, con sentenza del 16 giugno 2005, riformava la decisione di primo grado limitatamente alla determinazione della pena, che riduceva ad anni dodici di reclusione, confermando per il resto la precedente statuizione. Avverso la citata sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, Grillo, il quale, anche mediante motivi nuovi, lamenta: a) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, dovendo il fatto essere qualificato come omicidio preterintenzionale e non volontario; b) mancanza e manifesta illogicità della motivazione, tenuto conto dell’impossibilità di conferire valore di piena prova all’alibi rivelatosi infondato, della patologia psichiatrica da cui è affetto l’imputato, tale da inficiare la valenza della sua confessione, della inattendibilità delle dichiarazioni 214 rese dal minore, affetto da ritardo mentale, e della incompatibilità tra le dichiarazioni rese da quest’ultimo e le risultanze medico?legali, dell’omessa valutazione della testimonianza di Benvenuto che ha escluso la presenza in loco dell’auto di Berardi la sera del fatto. Osserva in diritto Il ricorso non è fondato. 1. Con riferimento al primo motivo di censura il Collegio osserva quanto segue. 1.1. Il più stretto nesso psichico fra l’agente e il fatto é espresso dall’elemento del dolo, che secondo l’articolo 42, comma 2, Cp costituisce l’archetipo dell’imputazione soggettiva per l’attribuzione della responsabilità nella configurazione delle singole fattispecie incriminatici. Dalla definizione che di esso offre il successivo articolo 43, comma 1, Cp si evince che la struttura del dolo risulta normativamente caratterizzata non solo dall’elemento di natura intellettiva della previsione/rappresentazione, ma anche dall’ulteriore dato della volizione dell’evento. Per quanto riguarda in particolare l’aspetto della condotta, si avverte che, se per i reati a forma vincolata oggetto del dolo é la condotta specificamente descritta nella norma incriminatrice, nei reati a forma libera ? e cioè nelle fattispecie casualmente orientate ? in cui il legislatore pone l’accento con espressioni come “cagionare”. “determinare” e simili, piuttosto che sul tipo di azione, sulla produzione di un certo tipo di risultato naturalistico, la possibilità di imputare a titolo di dolo il fatto nel suo insieme postula che sia effettiva la volontà dell’ultimo atto causalmente idoneo a produrre l’evento. Che la rappresentazione e la volizione debbano in realtà avere ad oggetto tutti gli elementi costitutivi della fattispecie tipica ? condotta, evento inteso in senso naturalistico e nesso di causalità materiale ? e non il solo evento causalmente dipendente dalla condotta lo si desume chiaramente, d’altra parte, dalla disciplina dell’errore sul fatto costituente reato contenuta nel primo comma dell’articolo 47 Cp, secondo cui siffatto errore, facendo venire meno il dolo sotto il profilo della indispensabile consapevolezza degli elementi essenziali della fattispecie, esclude la responsabilità dolosa e la punibilità dell’agente. Costituisce, invero, consolidata affermazione nella giurisprudenza di legittimità (cfr., da ultimo, Cassazione, Sezione prima, 19.11.1999, Denaro, riv. 215521; 1, 11.2.1998, Andreotti, riv. 211534; 20.10.1997, Trovato, riv. 208933; Sezione sesta, 10.5. 1994, Nannarini, riv. 200940) quella secondo cui, in tema di delitti omicidiari, deve qualificarsi “diretta” e non “eventuale” la particolare manifestazione di volontà dolosa definita dolo “alternativo”, che sussiste allorquando l’agente, al momento della realizzazione dell’elemento oggettivo del reato, si rappresenta e vuole indifferentemente e alternativamente che si verifichi l’uno o l’altro degli eventi causalmente ricollegabili alla sua condotta cosciente e volontaria, sicché, attesa la sostanziale equivalenza dell’uno o dell’altro evento, egli risponde per quello effettivamente realizzato. Il dolo eventuale, invece, è caratterizzato dal fatto che chi agisce non ha il proposito di cagionare l’evento delittuoso, ma si rappresenta la probabilità, ? o anche la semplice possibilità ? che esso si verifichi e ne accetta il rischio. Questa Corte ha poi costantemente affermato che la sola presenza fisica di un soggetto allo svolgimento dei fatti non assume univoca rilevanza, allorquando si mantenga in termini di mera passività o connivenza, risolvendosi, invece, in forma di cooperazione delittuosa, allorquando la medesima si attui in modo da realizzare un rafforzamento del proposito dell’autore materiale del reato e da agevolare la sua opera, sempre che il concorrente morale si sia rappresentato l’evento del reato e abbia partecipato ad esso esprimendo una volontà criminosa uguale a quella dell’autore materiale (Sezione prima, 11. 10.2000, ric. Moffa, riv. 217347; Sezione 1, 11.3.1997, ric. Perfetto, riv. 207582). 215 Pertanto, la distinzione tra connivenza non punibile e concorso va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l’agente mantenga un comportamento meramente passivo, il secondo può manifestarsi pure in forme che agevolino la condotta illecita, anche solo assicurando all’altro concorrente stimolo all’azione o un maggior senso di sicurezza nella propria condotta, palesando chiara adesione alla condotta delittuosa (Sezione sesta, 3.6.1994, ric. Campostrini, riv. 199162; 4.12.1996, ric. Farniano, riv. 206786). La circostanza che il contributo causale del concorrente morale possa manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all’esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizza ione di esso) non esime il giudice di merito dall’obbligo di motivare sulla prova dell’esistenza di una reale partecipazione nella fase ideativa o preparatoria del reato e di precisare sotto quale forma essa si sia manifestata, in rapporto di causalità efficiente con le attività poste in essere dagli altri concorrenti, non potendosi confondere l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pure prevista dall’articolo 110 Cp, con l’indifferenza probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà (Su, 45276/03, ric. Pg in proc. Andreotti, riv. 226101). 1.2. Relativamente alla doglianza riguardante l’erronea qualificazione giuridica del fatto come omicidio volontario (articolo 575 Cp) piuttosto che come omicidio preterintenzionale, il Collegio osserva quanto segue. A norma degli articolo 42 comma 2 e 43 comma 1 Cp il delitto é “preterintenzionale o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”: elemento costitutivo della preterintenzione é dunque la volontà dolosa del fatto meno grave, cui faccia seguito, sul piano causale rispetto alla condotta criminosa, la realizzazione di un evento necessariamente non voluto (neppure nella forma del dolo eventuale o indiretto, perché altrimenti si verserebbe in altra fattispecie più grave di reato), più grave di quello perseguito. In giurisprudenza esiste una duplicità di indirizzo in ordine al problema se con tale modello di responsabilità si delinei un’ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva ovvero di dolo misto a colpa. Il dominante indirizzo dottrinale e il prevalente orientamento giurisprudenziale, formatosi quest’ultimo attorno al prototipo dell’omicidio preterintenzionale, ricostruiscono la fattispecie preterintenzionale come ipotesi di dolo misto a responsabilità oggettiva: il primo è riferito al reato?base e la seconda all’evento più grave non voluto, che resta, peraltro, del tutto estraneo alla proiezione dell’elemento volitivo e viene ascritto all’agente sulla base dell’accertamento del semplice nesso di causalità materiale con la condotta intenzionalmente diretta alla realizza ione di un evento diverso e meno grave, quindi in base al criterio d’imputazione della responsabilità oggettiva. Alla stregua di questa concezione si prescinde da ogni indagine di carattere psicologico sulla volontarietà, sulla colpa o sulla prevedibilità dell’evento. Questa linea interpretativa, peraltro, determina problemi d i coerenza costituzionale e sistematica, in quanto non pare compatibile con l’insegnamento offerto dalla Corte costituzionale in tema di “colpevolezza “ (v. sentenza 364/88). La Consulta ha, infatti, affermato che «[..] é da confermare che si risponde soltanto per il fatto proprio, purché si precisi che per fatto proprio non s’intende il fatto collegato al soggetto, all’azione dell’autore, dal mero nesso di causalità materiale, ma anche e soprattutto dal momento subiettivo costituito, in presenza della prevedibilità ed evitabilità del risultato vietato, almeno dalla colpa in senso stretto ... Va precisato che, se nelle ipotesi di responsabilità oggettiva vengono comprese tutte quelle nelle quali anche un solo, magari accidentale, elemento del fatto, a differenza di altri elementi, non é coperto dal dolo o dalla colpa dell’agente ?c.d. responsabilità oggettiva spuria o impropria ? il comma 1 dell’articolo 27 Costituzione non contiene un tassativo divieto di responsabilità oggettiva. Diversamente va posto il problema per la cosiddetta responsabilità 216 oggettiva pura o propria ... Ove non si ritenga di restringere la c.d. responsabilità oggettiva pura alle sole ipotesi nelle quali il risultato ultimo vietato dal legislatore non é sorretto da alcun coefficiente subiettivo, va, di volta in volta a proposito delle diverse ipotesi criminose, stabilito quali sono gli elementi più significativi della fattispecie che non possono non essere coperti almeno dalla colpa dell’agente, perché sia rispettata la parte del disposto di cui all’articolo 2 7 comma 1 Costituzione relativa al rapporto psichico tra soggetto e fatto [..]». La Corte osserva, inoltre, che la configurazione di un’ipotesi di responsabilità oggettiva per l’evento più grave non voluto, in assenza di alcun coefficiente di prevedibilità, sarebbe incoerente con il regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravatrici di cui all’articolo 59 comma 2 Cp, modif. dall’articolo i legge 19/1990. Secondo un diverso orientamento dottrinale e giurisprudenziale l’elemento psicologico del delitto preterintenzionale deve essere ravvisato nel dolo misto a colpa, riferito il primo al reato meno grave e la seconda all’evento più grave in concreto realizzatosi, e, ai fini dell’imputazione, si deve verificare, di volta in volta, la concreta prevedibilità ed evitabilità dell’evento maggiore (Sezione prima, 11055/98, ric. D’Agata, rv. 211611). Questo indirizzo, ad avviso del Collegio, appare maggiormente coerente con il principio di colpevolezza e con i principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale 368/88, secondo cui deve necessariamente postularsi la colpa dell’agente almeno in relazione agli “elementi più significativi della fattispecie”, fra i quali il “complessivo ultimo risultato vietato” se non si vuole incorrere nel divieto ex articolo 27, commi 1 e 3, Costituzione della responsabilità oggettiva c.d. pura o propria. L’alternativa sarebbe l’inquadramento dogmatico dei delitti dolosi lato sensu aggravati dall’evento necessariamente non voluto non più fra le figure autonome di reato, bensì fra le figure circostanziate, con la conseguente operatività per essi del descritto regime di imputazione soggettiva delle circostanze aggravanti, introdotto dalla legge 19/1990 che ha novellato l’articolo 59 comma 2 Cp, e del giudizio di bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti (Sezione prima, 11055/98, ric.D’Agata, cit.). Con riguardo alla problematica relativa al criterio differenziale dell’omicidio preterintenzionale rispetto al dolo omicidiario tipico ex articolo 575 Cp il Collegio rileva che nell’omicidio preterintenzionale, sotto il profilo soggettivo, concorrono un dato positivo ed uno negativo, la volontà di offendere con percosse o lesioni e la mancanza dell’intenzione di uccidere, al contrario, l’elemento psicologico che connota l’omicidio volontario é proprio l’intenzione di cagionare la morte della vittima. Quando il complesso delle circostanze non evidenzia ictu oculi l’animus necandi, per le difficoltà di riconoscere per via diretta il proposito dell’agente, sorreggono il ragionamento fatti certi che consentono di provare l’esistenza o meno di altri fatti ignoti attraverso un procedimento logico d’induzione. Costituiscono fatti indicativi della volontà omicida i mezzi usati, la direzione, l’intensità e la reiterazione dei colpi, la distanza dal bersaglio, la parte del corpo attinta, le situazioni di tempo e di luogo che favoriscono l’azione cruenta. 1.3. La sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione dei principi sinora enunciati, ravvisando nella fattispecie sottoposta al suo esame gli elementi costitutivi del dolo omicidiario ed escludendo di conseguenza la configurabilità dell’omicidio preterintenzionale. In tale ottica ha ritualmente valorizzato la partecipazione attiva di Grillo alla consumazione del delitto ? compiuto immediatamente dopo un litigio intercorso tra il ricorrente e la Tullo ? consistita nell’aggressione di parti vitali del corpo della donna, nel procacciamento dei mezzi necessari per la realizzazione dell’azione, nella rimozione e nella ricomposizione del corpo della vittima dopo I a precipitazione per le scale, nella sistemazione di taluni effetti personali indossati dalla donna all’interno dell’appartamento al fine di impedire la ricostruzione dell’accaduto e di simulare una caduta accidentale. A sostegno di tale conclusione sono state puntualmente richiamate le dichiarazioni rese dall’imputato in particolare nell’interrogatorio del 30 aprile 2004, la 217 testimonianza di Grillo Francesco, gli esiti degli accertamenti medico?legali, dai quali risultava che la morte era stata determinata da un’insufficienza cardio respiratoria terminale a genesi multifattoriale alla quale avevano contribúito con apporto causale vario le lesioni traumatiche contusive a livello della testa e del torace, l’azione di strangolamento e la probabile concomitanza di una crisi epilettica temporale. 2. Relativamente alla seconda doglianza difensiva occorre premettere, da un punto di vista metodologico, che l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l’adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni. Allorché sia denunciato con ricorso per cassazione vizio di motivazione del provvedimento impugnato, a questa Corte spetta il compito di verificare, in relazione alla peculiare natura del giudizio di legittimità e ai limiti che ad esso ineriscono, se il giudice di merito abbia dato adeguatamente conto delle ragioni poste a fondamento della decisione adottata, controllando la congruenza della motivazione, riguardante la valutazione degli elementi apprezzati rispetto ai canoni della logica e ai principi di diritto che governano la valutazione delle risultanze processuali (Su, 11/2000, riv. 215828). Il controllo della Corte di legittimità non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di merito, essendo inammissibile in sede di legittimità la prospettazione di una diversa valutazione di circostanze già esaminate dal giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile A) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Sezione sesta, 3529/99, riv. 212565; 2050/96, riv. 206104). Esula, pertanto, dai poteri della Corte di Cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Su, 6402/97, ric. Dessimone ed altri, riv. 207944; 19/1994, riv. 199391). Il vizio di mancanza e/o illogicità della motivazione non può essere sindacato da questa Corte, quando non risulti prima facie dal testo del provvedimento impugnato, restando ad essa estranea la verifica della sufficienza e della razionalità della motivazione sulle questioni di fatto (Sezione prima, 1700/98, riv. 210566). L’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (Su, 24/1994, ric Apina, riv. 214794). Dedurre tale vizio in sede di legittimità significa dimostrare che il testo del provvedimento è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti effettuata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica (Su, 16/1996, ric. Di Francesco, riv. 205621). In sede di legittimità sono, quindi, rilevabili esclusivamente i vizi argomentativi che incidano sui requisiti minimi di esistenza e di logicità del discorso motivazionale svolto nel provvedimento e non sul contenuto della decisione (Sezione prima, 1083/98, riv. 210019). In altri termini il controllo di questa Corte è diretto semplicemente ad accertare che a base della pronuncia esista un concreto apprezzamento delle risultanze e che la motivazione non sia puramente assertiva o palesemente affetta da errori logicogiuridici; restano escluse da tale sindacato le 218 deduzioni che riguardano l’interpretazione e la specifica consistenza dei fatti, la valutazione comparativa della loro rilevanza, la scelta di quelli determinanti. 2.2. Nel caso in esame la sentenza impugnata, con motivazione esente da vizi logici e giuridici, ha diffusamente spiegato gli elementi su cui ha fondato l’affermazione di penale responsabilità dell’imputato in ordine a delitti a lui ascritti e le ragioni per le quali essi non sono in alcun modo inficiati nella loro valenza dalle prospettazioni difensive, che peraltro ripropongono in questa sede rilievi già ampiamente apprezzati nel precedente grado di giudizio. Il provvedimento impugnato, come del resto quello di primo grado, è pervenuto alla declaratoria di colpevolezza del ricorrente sulla base dei seguenti elementi: a) dichiara ioni confessorie rese da Grillo Giovanni, in particolare in data 30 aprile 2004, dalla quale risultava che l’omicidio era conseguente ad un litigio causato dai rimproveri della donna che non gradiva la presenza di Berardi, amico del marito e che ad esso aveva attivamente partecipato il ricorrente, secondo quanto già in precedenza specificato, aggredendo la convivente in parti vitali del corpo, procurando i mezzi per la commissione dell’omicidio, rimuovendo e ricomponendo, dopo la precipitazione, il corpo della vittima sul pianerottolo delle scale con la schiena appoggiata alla parete, le gambe distese e la testa reclinata di lato, sistemando taluni effetti personali indossati dalla donna all’interno dell’appartamento al fine di impedire la ricostruzione dell’accaduto e di simulare una caduta accidentale; b) deposizione del figlio minore Francesco, teste oculare; c) accertamenti medico?legali dai quali risultava un duplice meccanismo lesivo con forza causale concorrente, secondo quanto già in precedenza specificato; d) sequestro del giubbotto indossato dalla donna che presentava uno strappo all’altezza del collo; e) esito della perizia psichiatrica esperita sull’imputato che escludeva disturbi psicotici che potessero avere intaccato le funzioni psichiche ed il rapporto e il contatto con la realtà e con gli altri ed evidenziava solo una patologia di tipo frustrazionale e di tipo conflittuale, esitata in acting?out (passaggio all’atto), di tipo violento, a direzione eterodistruttiva, la cui rilevanza psichiatrica forense era completamente nulla, non essendo connotata da una frattura evidente rispetto al peculiare stile di vita del soggetto e non emergendo in nessun caso la presenza di disturbi dispercettivi o di idee deliranti; f) il fallimento dell’abbi fornito per la sera del fatto da Berardi, cui in separato procedimento è stato contestato il concorso con Cirillo nell’omicidio della donna. I giudici di merito sono pervenuti all’affermazione di penale responsabilità dell’imputato all’esito di una compiuta valutazione del materiale probatorio acquisito e dell’analisi dei rilievi difensivi (già prospettati in secondo grado e riproposti in questa sede), fornendo su ciascun profilo, compresi quelli valorizzati dalla difesa, una motivazione logica ed esauriente e pienamente rispondente ai principi giuridici in precedenza enunciati. PQM Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. CONCORSO DI PERSONE E RESPONSABILITÀ DA LINK TRACCIA: 219 Tizio è direttore responsabile del sito on-line “Viva la Vita”, che si occupa di mondanità; Caio è direttore responsabile del sito “W i bambini nudi” che contiene materiale pedopornografico, nonché un prezzario relativo alle prestazioni sessuali di minorenni. Caio, tramite e.mail chiedeva a Tizio di inserire sul sito “Viva la Vita” un link al proprio sito pedopornigrafico. Tizio assecondava la richiesta di Caio, inserendo il suddetto link nel proprio sito on-line, dopo averne visto i contenuti ed essersi reso conto del contenuto pedopornografico. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE. In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Tizio è entrato in concorso di reato con Caio? Al quesito posto bisognava dare risposta positiva, perché la condotta realizzata da Tizio, sia dal punto di vista oggettivo (ha inserito un link) che dal punto di vista soggettivo (Tizio sapeva del contenuto pedopornografico del sito linkato) concorre a realizzare il reato di cui all’art. 600 ter c.p. Si consiglia di leggere la sentenza che segue. - Mettere un link per segnalare siti che, in qualche modo, realizzano reati, può integrare la fattispecie del concorso di persone nel reato, anche se la condotta è successiva ed ignorata dai soggetti attivi del reato principale. CASS. PEN.- SEZ. – 10 ottobre 2006, n. 33945– Pres. Lupo – est. Squassoni Motivi della decisione In data 26 gennaio 2006, il Pm presso il Tribunale di Milano (evidenziando la configurabilità del eeato previsto dall’articolo 171 comma 1 lettera abis) legge 633/41 a carico di B.) ha disposto di urgenza il sequestro preventivo di due portali web attraverso i quali, secondo la tesi accusatoria, erano stati illecitamente diffusi e trasmessi via internet in modalità peer to peer eventi sportivi (partite di campionato di calcio italiano) rispetto ai quali la Sky vantava un diritto di esclusiva. Il Giudice per le indagini preliminari non ha convalidato il sequestro, con ordinanza 8 febbraio 2006, avverso la quale il Pm ha proposto appello che è stato respinto con il provvedimento in epigrafe precisato. A sostegno della conclusione, il Tribunale ha ritenuto accertato in fatto che mediante una normale connessione via internet un numero imprecisato di utenti riuscisse a vedere le partite trasmesse dalla Sky; ciò era consentito non attraverso la elusione delle misure tecnologiche predisposte dalla società, ma perché le partite erano immesse in rete da alcune emittenti cinesi che avevano acquistato dalla Sky il diritto di trasmetterle localmente; gli indagati avevano facilitato l’accesso a tale 220 prodotto con la diffusione di informazioni e la predisposizione di un link che permetteva il collegamento diretto ai server cinesi. A parere dei Giudici, non sussiste la ipotizzabilità del contestato illecito in quanto la modalità con la quale deve avvenire la diffusione dell’opera, affinché possa ritenersi integrata la fattispecie incriminatrice, consiste nella immissione in rete con una connessione di qualsiasi genere; nel caso in esame, gli indagati si erano limitati a diffondere in via telematica un prodotto che già altri avevano immesso e la condotta di agevolazione alla consultazione dei siti avveniva in un momento successivo al perfezionamento del reato. Oltre a tali rilievi, i Giudici hanno osservato che normalmente la trasmissione di una partita calcistica, attività di mera documentazione, non può considerarsi una opera di ingegno e che tale tema non poteva essere accertato perché la visione dei filmati costituisce attività istruttoria preclusa al Tribunale. Il contratto di licenza, allegato dalla Sky alla denuncia? querela è stato considerato dai Giudici inutilizzabile perché redatto in lingua straniera. Per l’annullamento della ordinanza, ha proposto ricorso in Cassazione il Procuratore della Repubblica deducendo difetto di motivazione e violazione di legge. Dopo avere sostenuto che la trasmissione di un evento sportivo calcistico, per le tecniche delle riprese, può considerarsi una opera di ingegno, ha negato che gli indagati si fossero limitati ad agire come un motore di ricerca per indirizzare gli utenti in quanto avevano posto in essere una azione causale determinante la immissione delle trasmissioni nelle reti; ciò in quanto gli indagati avevano messo a disposizione degli utenti i mezzi tecnici necessari per la visione dello evento sportivo. Pertanto? ha concluso il Ricorrente? gli indagati avevano tenuto una condotta di immissione che non è a forma vincolata e può essere diretta o indiretta stante l’inciso, inserito nella norma contestata, “mediante connessioni di qualsiasi genere”. Le deduzione sono meritevoli di accoglimento. Innanzi tutto, i Giudici hanno evidenziato come non sia dimostrato che gli emittenti, cinesi, che vengono indicati dalla denunciante quali responsabili dell’abusiva diffusione in rete delle immagini coperte da esclusiva, avessero agito in violazione del contratto di licenza; il Tribunale ha reputato che il contratto (il cui esame era di fondamentale importanza per la risoluzione del caso) fosse inutilizzabile perché redatto in inglese. Sul punto, si rileva come l’obbligo di usare la lingua italiana, tranne che per le minoranza linguistiche, di cui all’articolo 109 Cpp concerna solo gli atti da compiersi nel procedimento e non gli atti già formati altrove ed acquisiti nel medesimo i quali, se redatti in lingua straniera, devono essere, tradotti a sensi dell’articolo 143 comma 2 Cpp. La nomina di un interprete avrebbe potuto essere effettuata anche dal Tribunale perché non rappresentava una attività istruttoria che gli era inibita per i suoi limiti cognitivi. Il principio che i Giudici, in sede di riesame o di appello, devono avere come referente solo gli elementi probatori offerti dallo organo della accusa, da considerarsi cosi come esposti, non esclude una valutazione dei documenti la cui traduzione è solo il momento prodromico al loro esame. Ugualmente non condivisibile è la affermazione dei Giudici secondo i quali era loro impedita la visione dei filmati degli eventi calcistici perché costituente una attività istruttoria inammissibile in un procedimento cartolare. 221 La conclusione non tiene conto della nozione di documento fornita dall’articolo 234 comma 1 Cpp che, in relazione al diffondersi della tecnologia, è solo in parte sovrapponibile con quella del diritto sostanziale. Essa comprende, oltre ai tradizionali documenti in senso stretto caratterizzati dalla scrittura, i documenti in senso lato intesi come oggetti rappresentativi di un fatto ed aventi la attitudine a costituire il fondamento sia di una prova storica sia di una prova critica; tra le cose preesistenti al processo e considerate prove documentali acquisibili, l’articolo 234 comma 1 Cpp annovera le riprese cinematografiche. La diretta visione delle partite calcistiche (altro elemento indispensabile per la valutazione della tesi accusatoria) avrebbe consentito di verificare, o di squalificare, la prospettazione del Pm secondo il quale le stesse costituivano, per le scelte tecniche degli operatori, una elaborazione creativa da considerarsi opera di ingegno. Sullo argomento, le deduzioni del Ricorrente sono in astratto condivisibili ed i Giudici del rinvio controlleranno se sono di attualità nella ipotesi concreta e verificheranno se, qualora le trasmissioni non fossero da qualificare come opere di ingegno, possa trovare applicazione la ipotesi di reato di cui all’articolo 171 lettera f) legge 633/41 nella interpretazione estensiva fornita dalla giurisprudenza, che tutela i programmi coperti dal diritto di esclusiva indipendentemente dalla loro qualificazione come opere di ingegno. Una tale mutatio libelli è consentita al Tribunale che, ai limitati fini del procedimento cautelare, può dare al materiale investigativo raccolto dal Pm autonome valutazioni in diritto. Il problema ora da affrontare concerne il perfezionamento della contestata fattispecie di reato sotto il profilo della abusiva “immissione” nella rete internet; come correttamente evidenziato dai Giudici di merito, “fra più condotte generiche suscettibili di integrare la messa a disposizione di una serie indeterminata di soggetti, il legislatore ha inteso sanzionare penalmente soltanto la condotta specifica di immissione nella rete internet dell’opera protetta”. Ora è pacifico, in punto di fatto, che gli indagati avevano messo a disposizione degli utenti le informazioni ed i mezzi tecnici attraverso i quali era possibile installare sul proprio personal computer tutto il software necessario alla visione delle partite di calcio sulle quali la Sky vantava un diritto di esclusiva; tale condotta è stata ritenuta dai Giudici come posteriore alla immissione in rete delle opere protette e, di conseguenza, inserendosi in un momento successivo al perfezionamento del reato, e stata considerata irrilevante ai fini penali. Tale conclusione merita un approfondimento. È innegabile che gli attuali indagati hanno agevolato, attraverso un sistema di guida on line, la connessione e facilitato la sincronizzazione con l’evento sportivo; senza la attività degli indagati, non ci sarebbe stata, o si sarebbe verificata in misura minore, la diffusione delle opere tutelate. Le informazioni sul link e sulla modalità per la visione delle partite in Italia, per raggiungere il loro obiettivo, devono essere state inoltrate agli utenti in epoca antecedente alla immissione delle trasmissioni in via telematica; tale rilievo, se puntuale in fatto, comporta come conseguenza che, in base alle generali norme sul concorso nel reato, gli indagati, pur non avendo compiuto l’azione tipica, hanno posto in essere una condotta consapevole avente efficienza causale sulla lesione del bene tutelato. È appena il caso di ricordare come l’attività costitutiva del concorso può essere individuata in qualsiasi comportamento che fornisca un apprezzabile contributo alla ideazione, organizzazione ed esecuzione del reato; non è necessario un previo accordo diretto alla causazione dell’evento, ben potendo il concorso esplicarsi in una condotta estemporanea, sopravvenuta a sostegno della azione di terzi anche alla insaputa degli altri agenti. Per le esposte considerazioni la Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Milano per una nuova decisione sull’appello del Pm. 222 PQM La Corte annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Milano. Si consiglia di leggere la legge 6 febbraio 2006, n. 38 (reperibile su http://www.giustizia.it/cassazione/leggi/l38_06.html ). ART. 116 C.P. E OMICIDIO PRETERINTENZIONALE TRACCIA: Tizio è un delinquente di fama nazionale; Tizio si accordava con Caio per farsi accompagnare a casa di Francesco per prenderlo a pugni, in quanto aveva violato un patto criminale. In effetti, Caio accompagnava, con l’auto, Tizio al domicilio di Francesco. Tizio entrava nella casa di Francesco ed iniziava a prenderlo a pugni; Francesco, imprevedibilmente, inciampava in un tappeto e urtava la testa ad uno spigolo di comodino, morendo. Tizio correva via e raccontava il fatto a Caio. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Caio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era necessario prendere in esame la posizione di Tizio che voleva cagionare lesioni e/o percosse a Francesco, ma in concreto ne cagionava la morte. Il fatto realizzato da Tizio sembra ricalcare lo schema giuridico dell’omicidio preterintenzionale, ex art. 584 c.p. Tizio, a rigore, risponderebbe di omicidio preterintenzionale solo se si accogliesse la tesi che individua nella preterintenzione un dolo misto a responsabilità oggettiva oppure dolo del fatto minore (come sostenuto dalla giurisprudenza più recente); se, diversamente, si accogliesse la tesi che ritiene la preterintenzione dolo misto a colpa, Tizio non risponderebbe di omicidio preterintenzionale perché Francesco muore in modo, sostanzialmente, imprevedibile (per cui non c’è colpa), con la conseguenza che Tizio risponderebbe solo di lesioni o percosse. Caio, che voleva in concorso con Tizio le sole lesioni o percosse, di cosa sarà chiamato a rispondere? Caio, a rigore, dovrebbe rispondere delle sole lesioni o percosse, in quanto l’art. 110 c.p. non è applicabile perché si è verificato un fatto diverso da quello voluto e neanche l’art. 116 c.p. potrà trovare applicazione; in particolare, l’art. 116 c.p. si riferisce alle ipotesi in cui uno dei concorrenti vuole un evento diverso da quello che, poi, in concreto si verifica, mentre nel caso di specie tale discrasia non si realizza perché i concorrenti vogliono lo stesso evento (né Tizio e né Caio vogliono la morte di Francesco, ma le sole lesioni o percosse), diversamente dall’art. 116 c.p. che avrebbe richiesto una differente volontà tra i concorrenti: l’art. 116 c.p. richiede una difformità di volontà tra concorrenti che, nel caso di specie, non sussiste. 223 ABERRATIO E DIVERSO OGGETTO MATERIALE DEL REATO TRACCIA: Tizio, per un’antica rivalità, decideva di danneggiare la casa di Sempronio, gettando una bomba carta sulla stessa; invero, lanciando la bomba carta piuttosto che colpire la casa, riusciva solo a colpire l’autovettura di Sempronio. Il candidato rediga motivato parere sulla posizione giuridica di Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era utile chiedersi se poteva trovare applicazione l’art. 82 c.p. oppure 83 c.p.. Infatti, a rigore, le norme in tema di aberratio non potranno trovare applicazione, in quanto l’aberratio ictus (art. 82 c.p.) si riferisce all’ipotesi di persona offesa diversa da quella a cui l’offesa era diretta e l’aberratio delicti (art. 83 c.p.) si riferisce all’ipotesi in cui si realizza un reato diverso da quello che si voleva realizzare, diversamente dal caso di specie dove emerge un diverso oggetto materiale. In altri termini, la divergenza tra voluto e realizzato riferita alle forme di aberratio riguardano casi del tutto difformi da quello di specie, con la conseguenza che difficilmente potrà trovare applicazione l’art. 82 oppure 83 c.p. Pertanto, Tizio risponderà di tentato danneggiamento, eventualmente in concorso con altri reati di tipo colposo che si riescano ad individuare, relativamente alla distruzione dell’autovettura di Sempronio. Il discorso può essere approfondito sul testo di Marinucci-Dolcini, Corso di diritto penale. GESTORE E OMICIDIO COLPOSO DA OMISSIONE Tizio disabile non vedente, ma autosufficiente, decideva di prendere la metropolitana che lo avrebbe portato a casa, senza chiedere l’aiuto di personale addetto. Per salire sulla metro, allungava, alla stazione di fermata della metro stessa, il bastone bianco per tastare la presenza del convoglio e, trovando il vuoto ma credendo trattarsi del vano di una carrozza a seguito dell’apertura delle porte automatiche, si sporgeva verso i binari facendo per salire. Così, accadeva che Tizio cadeva sulle rotaie e veniva travolto, dopo pochissimo tempo, dal convoglio metro successivo. Il candidato affronti la questione proposta, alla luce della possibile responsabilità per omicidio colposo da parte del gestore del servizio di metropolitana. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era necessario chiedersi se vi può essere, nel caso di specie, responsabilità del 224 gestore della metropolitana, per omicidio colposo realizzato in modo omissivo. Affinché possa sussistere una responsabilità omissiva per omicidio colposo, come noto, vi deve essere una norma positiva che impone un certo comportamento (si ricorda che l’omissione è un concetto normativo, che non esiste in rerum natura) e vi deve essere la causalità in concreto con doppio grado di giudizio (in primis, verificare che tra condotta ed evento c’è un nesso causale, in secundis, accertarsi che, laddove fosse stata posta in essere la condotta richiesta dalla norma violata, di certo, l’evento negativo non si sarebbe verificato), oltre ovviamente alla colpa (che in questo caso vi è sub specie di negligenza ed imperizia). La norma violata esiste, con specifico riferimento al D.P.R. 503/1996; altresì, regole cautelari del bonus pater familias avrebbero imposto al gestore di realizzare strumenti di controllo verso soggetti disabili, ovvero di vietarne l’ingresso, in assenza di strutture idonee. La causalità tra omissione del gestore e morte di Tizio sussiste, in quanto se fossero state rispettate le prescrizioni previste dal D.P.R citato Tizio, di certo, non sarebbe morto in quel modo; l’omissione ha causato la morte di Tizio e, laddove tale omissione non vi fosse stata, di certo, l’evento negativo non si sarebbe realizzato. Da questa angolazione prospettica, quindi, sembra sussistere una responsabilità per omicidio colposo del gestore della metro. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono. -Sussiste la responsabilità omissiva del gestore per avere omesso l'installazione dei percorsi tattili (loges) per i non vedenti. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 22 marzo 2007, n.11960 - Pres. Marini – est. De Grazia Osserva All’esito di indagini in relazione all’avvenuto decesso di Cassio Giampiero, disabile non vedente autosufficiente, travolto alle ore 8.35 del 15 luglio 2004 da un convoglio della metropolitana romana (stazione Roma Garbatella) veniva richiesto il rinvio a giudizio di M.A., C.A.e M. G., individuati quali responsabili dell’evento.La dinamica dell’infortunio veniva così ricostruita.Il Cassio, alla data e all’ora indicate, accedeva alla Stazione e, senza richiedere ausilio ai dipendenti in servizio, si portava sulla banchina in attesa del primo treno in transito, direzione Rebibbia.Giunto il convoglio, il Cassio allungava il bastone bianco di cui era provvisto per tastare il terreno e, trovando il vuoto ma credendo trattarsi del vano di una carrozza a seguito dell’apertura delle porte automatiche, si sporgeva verso i binari facendo per salire; infilatosi, invece, in uno degli spazi esistenti tra le carrozze, cadeva sulla massicciata finendo per essere dilaniato dal convoglio.Il M., il C.. e il M. erano chiamati a rispondere, sulle rispettive qualità di Presidente del Consiglio di amministrazione, di direttore generale e di direttore di esercizio della Spa Me.tro. che gestiva il servizio di trasporto metropolitano per conto dell’Atac, proprietaria del materiale rotabile, concesso in comodato gratuito alla Me.tro. proprio per lo svolgimento di detto servizio (v. copia contratto in allegato 2 al f. 343 fasc.).Si addebitava in particolare ai prevenuti la mancata predisposizione di interventi di natura prevenzionistica sulle stazioni della Me.tro. Spa e, quindi, nella stazione di Garbatella, malgrado la normativa imponesse gli interventi di adeguamento; omettendo, tra l’altro l’esame, l’esame anche di misure alternative a quanto espressamente citato negli articoli 1 e segg. Dpr 503/96 volte comunque alla sicurezza degli utenti prestatori di handicap; come ad esempio l’installazione di una membrana in gomma a soffietto tra una vettura e l’altra alle quali rimane ancorata con perni movibili per consentire anche la riduzione o l’aumento del numero di carrozze all’occorrenza; misura alternativa che avrebbe potuto impedire che una persona affetta da handicap inavvertitamente potesse precipitare nel vuoto sulle rotaie invece di accedere all’interno della vettura predisposta per il trasporto di utenti, come verificatosi per il Cassio.Con sentenza del 5 aprile 2006 il Gip del tribunale di Roma dichiarava non luogo a procedere nei confronti dei prevenuti in ordine al reato loro ascritto per non avere commesso il fatto.Avverso la sentenza Barbato Rita e Cassio Simone, costituitosi parti civili, a mezzo del loro 225 difensore, proponevano ricorso per cassazione, deducendo contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, evidenziando a tale riguardo, sulla base “di altri atti del processo” espressamente indicati, che se pure la Me.tro. della quale gli imputati erano a vario titolo rappresentanti, gestiva il servizio di trasporto metropolitano per conto dell’Atac e questa rimaneva la proprietaria del materiale rotabile, pure essa Me.tro. assumeva posizione di garanzia nei confronti degli utenti trasportati predisponendo interventi e accorgimenti che assicurassero la incolumità delle persone.Specie per i portatori di handicap e cioè, come nel caso in esame, i non vedenti.Con memoria, ritualmente depositata in cancelleria, la difesa degli imputati eccepiva la inammissibilità del ricorso per inoppugnabilità della sentenza di non luogo a procedere che non sia anche persona offesa del reato, ai sensi dell’articolo 428 Cpp novellato dalla legge 46/2006.Eccepiva, inoltre, la inammissibilità del ricorso dalla parte civile in quanto teso ad ottenere l’annullamento o la riforma delle statuizioni penali della sentenza di non luogo a procedere, ma privo di richieste in merito agli effetti civili di poi la inammissibilità perché trattatasi di censure di merito.Per ultimo, eccepiva la infondatezza nel merito del ricorso. In relazione alle prospettazioni contenute nel ricorso e in quelle di segno contrario contenute nella memoria della difesa dei prevenuti ritiene questo Collegio di dovere evidenziare gli argomenti desumibili da risultanze certe e come tali incidenti ai fini della decisione.L’evento di cui è giudizio si verificò perché il Cassio, non vedente, all’arrivo del convoglio finì nello spazio vuoto tra una vettura e l’altra e precipitò dalla banchina sulle rotaie.Tale vuoto per il non vedente costituiva oggettiva fonte di pericolo e alla quale necessariamente occorreva fare fronte da parte di chi gestiva il servizio di trasporto, nel caso in esame la Me.tro. rivestendo questa evidente posizione di garanzia in relazione ad eventi di certo prevedibili e che riguardavano la incolumità delle persone, in particolare i non vedenti.Né può sostenersi che in relazione alle misure da adottare, queste non avessero base normativa di riferimento nell’imputazione formulata dall’accusa all’esito delle espletate indagini.Se pure è vero che l’addebito non può riguardare l’omessa installazione di una membrana in gomma a soffietto tra una vettura e l’altra eliminando in tal modo il vuoto, operazione strutturalmente questa concernente il materiale rotabile, pure sarebbero state doverose misure alternative e ciò in applicazione del Dpr 503/96.Come, per altro indicato da consulenti tecnici, del Pm e delle parti civili, che hanno fatto riferimento per i non vedenti ai percorsi tattili (loges) per l’abbattimento delle barriere architettoniche. Invero, come suggerito dai consulenti ed evidenziato nel ricorso, per i non vedenti, una volta impostata una postazione fissa di fermata sarebbe stato possibile riuscire a fare aprire le porte in corrispondenza di aperture in barriere di protezione lasciando protetti i punti di caduta nell’intercapedine tra due carrozze.Situazione, questa, che, se introdotta, avrebbe impedito la caduta dell’utente Cassio e lo avrebbe salvato.Alla stregua dell’indicata circostanza appare logicamente individuabile la responsabilità dei prevenuti nella determinazione e ciò – è ovvio – vale ai soli effetti civili ai fini del richiesto risarcimento del danno, specificato nell’atto di citazione alla udienza preliminare, costituzione affatto contestata alla udienza in camera di consiglio davanti al Gip.Come per l’appunto emerge dal verbale della camera di consiglio.Rilevata la colpevolezza dei prevenuti consistente nella omessa realizzazione nella stazione ferroviaria della Garbatella di un percorso tattile, è evidente che – ripetesi – agli effetti civili – la sentenza di non luogo a procedere va annullata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello e ciò ai sensi dell’articolo 622 Cpp.Di poi è senza fondamento l’argomento difensivo della inammissibilità del ricorso, perché oggi consentito dall’articolo 428 Cpp, come riformato dall’articolo 4 legge 46/2006 (legge Pecorella), solamente, secondo la difesa, alla parte offesa e non anche ai danneggiati (Barbato Rita e Cassio Simone, rispettivamente moglie e figlio della persona deceduta).La interpretazione della difesa è del tutto illogica e si basa su argomento terminologico “parte offesa” che è assolutamente improprio ed è in chiaro contrasto con quanto disposto dall’articolo 74 Cpp in relazione a coloro che sono legittimati ad esercitare l’azione civile nel procedimento penale.Questi sono tutti coloro i quali dal reato hanno ricevuto un danno e precisamente “parte offesa” se resta in vita e dai suoi successori universali in caso contrario.E’ all’udienza preliminare come successori universali della vittima moglie e figlio si sono costituiti, senza alcuna opposizione – ripetesi – da 226 parte della difesa degli imputati.Alla stregua di quanto esposto il ricorso è ammissibile e va accolto, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.P.Q.M.La Corte di cassazione annulla la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello. -La causalità (omissiva) va vista attraverso una valutazione in concreto, verificando, cioè, l’applicabilità delle leggi di copertura al singolo caso concreto. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 2 febbraio 2007, n. 4177, n.4177 Pres. Coco – est. Piccialli Fatto e diritto Il Tribunale di Livorno, in composizione monocratica, con sentenza del 3 aprile 2003 dichiarava i dottori V. M., B. A. e G. G. colpevoli del reato di omicidio colposo in danno di S. F. e li condannava ciascuno, concesse le attenuanti generiche, alla pena di mesi sei di reclusione, oltre al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili. I sanitari sopra indicati erano stati chiamati a rispondere del reato in questione, in qualità di medici chirurghi in servizio al 60 reparto dell’Ospedale di Livorno, seconda unità operativa di chirurgia generale, ove il S. era stato sottoposto il lo giugno 1999, in regime di “day surgery”, ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra e testicolo ritenuto. Risulta inequivocabilmente accertato che nel S., dopo un periodo di convalescenza, emergevano complicanze post operatorie che lo conducevano al decesso avvenuto verso le ore 23, 45 del 25 giugno 1999, per scompenso cardio-circolatorio acuto a causa di shock settico (infezione da streptococco B emolitico di gruppo A localizzata al di sotto dei piani muscolo aponeurotici ed in vicinanza del peritoneo parietale, nella sede in cui era stato inserito il plug in polipropilene). A carico dei medici erano state formulate le seguenti imputazioni: di avere omesso una tempestiva ed adeguata valutazione del quadro clinico nella fase post operatoria e della sintomatologia manifestata con particolare riferimento al dolore segnalato dal paziente ed al siero nella ferita( quadro sintomatologico ben evidente già il 21.6. 1999); di avere omesso conseguentemente di adottare tempestivamente alcun provvedimento diagnostico adeguato ( puntura esplorativa e/ ecografia) limitandosi inizialmente ad una terapia antidolorifica; di avere omesso una adeguata e tempestiva terapia chirurgica e farmacologia, ritardando quindi i necessari interventi diagnostico/ terapeutici sino al 25.6.1999, giorno in cui alle ore 23, 45 si verificava il decesso del paziente, che alle prime ore di quella mattina, su richiesta del medico del Pronto Soccorso, era stato nuovamente ricoverato con diagnosi di ammissione infezione da ferita chirurgica” e poi sottoposto nuovamente ad intervento chirurgico “ in urgenza di toilette peritoneale.e drenaggio retroperitoneo”. La Corte di appello di Firenze, con la sentenza in data 9 maggio 2005, in parziale riforma della sentenza in primo grado, assolveva M. V. ed A. B. dal reato loro ascritto perché il fatto non sussiste e rideterminava la pena inflitta G. G. in mesi quattro di reclusione, tenuto conto che la condotta colposa ascrivibile allo stesso era da ritenersi inserita nel contesto dell’attività sanitaria non pienamente adeguata, la quale aveva evidentemente facilitato l’omessa percezione del decorso post operatorio, e che, in ogni caso, l’origine del processo infettivo, ossia la contaminazione batterica della protesi, non era ascrivibile all’imputato. La Corte di appello territoriale, per quanto qui rileva, escludeva la penale responsabilità del dott. B., con la formula perché il fatto non sussiste ex articolo 530 cpv.. Cpp. A tal fine, pur ritenendo 227 certamente colposo il comportamento del B., che aveva sottoposto a nuova medicazione il S. in data 23 giugno, ed assimilabile, sul piano della censurabilità a quello del G., richiamava il contenuto del paragrafo 3 della sentenza, con il quale era stato trattato lo specifico tema della probabilità di sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo. I giudici dell’appello escludevano, pertanto, la sussistenza del nesso eziologico tra tale condotta e la morte del paziente, collocandosi l’operato del B. al limite di una fase cronologica oltre la quale era stata esclusa la possibilità di un intervento terapeutico idoneo al fine dell’affermazione di colpevolezza. Nel confermare il giudizio di responsabilità del dott. G., la Corte di merito evidenziava, invece, che, in occasione della visita del 21 giugno, in conformità a quanto era emerso dall’interrogatorio dello stesso imputato e dal tenore letterale del certificato rilasciato, il dott. G. non aveva formulato alcuna compiuta ipotesi diagnostica e neppure si era attivato per consentirla in futuro, prescrivendo e/o richiedendo accertamenti e consulenze. In ordine alle censure di merito dedotte dall’appellante, secondo le quali non sarebbe stata sufficientemente raggiunta la prova della sua responsabilità, la Corte evidenziava, che non era addebitabile al G. l’omessa individuazione dello specifico batterio, bensì di avere sottovalutato un quadro clinico certamente idoneo a destare il concreto sospetto di un processo settico in atto (persistenza del dolore, rialzi febbrili, la fuoriuscita di siero dalla ferita, che alla data del 21 giugno, dopo che erano già stati tolti i punti di sutura, era stata riscontrata aperta), tale da indurre i sanitari ad attuare provvedimenti diagnostici e terapeutici, soprattutto tenuto conto che lo stesso era riferito a persona per il resto in condizioni di salute integra e di giovane età (37 anni). La descrizione di tale sintomatologia veniva fondata sulle dichiarazioni rese dalla moglie e dal padre del S. ed in parte su quelle rese dall’infermiera presente alla visita del 21 giugno, la quale aveva riferito che il S. lamentava dolore. L’indagine anamnestica avrebbe consentito, secondo la Corte, al dott. G. di accertare che il S. aveva subito ripetuti rialzi febbrili e che le sue condizioni generali erano scadute, così palesandosi un processo evolutivo della lesione chirurgica e delle condizioni generali del paziente da lasciare poco spazio per diagnosi differenziali, apparendo ragionevolmente praticabile quale unica ipotesi quella di un processo infettivo conseguente ad intervento chirurgico. La Corte di merito ha anche affrontato la questione relativa al c.d. giudizio controfattuale (il grado di probabilità della sopravvivenza del paziente nell’ipotesi di condotta esigibile dal sanitario), risolvendola in termini positivi. In tal senso ha evidenziato le dichiarazioni rese in dibattimento dal consulente del Pm, che, a specifica domanda, aveva affermato la certezza di “una discreta possibilità di salvare il S. con intervento chirurgico precoce del 21 ovvero del 22 giugno”, indicando successivamente nella stessa sede, sollecitato sul punto, come intervento chirurgico tempestivo quello che fosse stato eseguito il 22 o al massimo il 23 giugno. In conclusione, i giudici dell’appello hanno ritenuto di condividere le conclusioni dei consulenti medico legali, che, alla luce del quadro clinico, hanno sostenuto la sussistenza di una responsabilità professionale in termini di condotta colposa per imperizia e negligenza. Avverso la predetta decisione propongono ricorso per cassazione le costituite parti civili e G. G.. Le parti civili lamentano la manifesta illogicità della motivazione, con riferimento alla ritenuta insussistenza del nesso eziologico tra il comportamento del B. ed il tragico evento, laddove i giudici dell’appello, rinviando al paragrafo 3 della sentenza, avevano trattato lo specifico tema della probabilità di sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo. A tal fine evidenziavano le conclusioni cui erano pervenuti i giudici di secondo grado: 1) il comportamento certamente colposo del B., che aveva sottoposto a nuova medicazione il S. in data 23 giugno, assimilabile, sul piano della censurabilità, a quello del G.; 2) la ritenuta differenza tra le posizioni dei due medici, fondata esclusivamente sulla data in cui il dott. B. aveva sottoposto a visita il S. ( 23 giugno), corrispondente ad una fase cronologica in cui, secondo le conclusioni del consulente del Pm, condivise dai giudici di appello, era ormai da escludersi la possibilità di un intervento terapeutico idoneo al fine ad impedire l’evento mortale. 228 Tale ultima conclusione sarebbe contraddetta proprio dalle dichiarazioni del consulente riportate nella stessa sentenza, il quale avrebbe sempre riferito l’instaurazione di un processo settico irreversibile alle ultime ore del giorno 24 ed al giorno 25 e non anche al 23. Inoltre, a fronte di una sentenza di primo grado che, nell’affrontare il problema relativo al grado di probabilità logica con il quale i presidi terapeutici colposamente omessi avrebbero scongiurato l’evento, aveva concluso che il processo settico era divenuto ingovernabile dalle prime ore del 25 giugno o le ultime del 24, i giudici di secondo grado non avevano adeguatamente corrisposto all’onere motivazionale di confutare adeguatamente le ragioni posta a base della decisione riformata. Il dottor G. G. con il ricorso sottoscritto personalmente, lamenta la violazione di legge ed il difetto di motivazione con riferimento al ritenuto giudizio di responsabilità. Quanto alla contestata condotta omissiva, la sentenza, non conterrebbe alcun riferimento all’omessa valutazione del quadro clinico nella fase post operatoria; quanto all’omesso apprezzamento dei sintomi si sostiene che questi non fossero certi alla data del 21 giugno 1999; quanto alla omissione di diagnosi e di intervento terapeutico, la Corte di merito, nel disattendere le argomentazioni difensive, sottolineando che al prevenuto non si imputava la mancata individuazione del batterio ma la generica omissione di una tempestiva diagnosi, erroneamente ed illogicamente non avrebbe tenuto conto del carattere particolarmente subdolo dell’infezione e dell’incertezza non dissolta, né in sede in istruttoria né in sentenza, sul grado di probabilità che la puntura esplorativa o l’ecografia avessero una efficacia diagnostica contro il batterio che aveva causato il decesso del S.. Sotto questo profilo la sentenza impugnata non avrebbe fatto corretta applicazione dei principi fissati dalla nota sentenza delle Su 10 luglio 2002, Francese, in tema di causalità omissiva, limitandosi a riportare le conclusioni del consulente del Pm sulla “ discreta possibilità di salvare il S. con intervento chirurgico precoce del 21 ovvero del 22 giugno”, successivamente puntualizzate indicando come intervento chirurgico tempestivo quello che fosse stato eseguito il 22 o, al massimo, il 23 giugno. In tal modo i giudici di appello nella ricostruzione del nesso causale non avrebbero giustificato adeguatamente il giudizio espresso sul grado di alta probabilità logico razionale tra l’omessa diagnosi e l’evento, giacchè avrebbero omesso di considerare talune circostanze incontrovertibili in merito alle caratteristiche specifiche di quel processo infettivo (il decorso di oltre venti giorni dall’intervento, l’alto tasso di mortalità provocato da quel batterio, l’inesistenza di una cura antibiotica idonea, la divergenza di opinioni sulla efficacia di un intervento chirurgico).La censura si articola, in particolare, sulla parte della motivazione laddove i giudici di appello, riportando le conclusioni del perito del Pm, fanno riferimento ad una “discreta possibilità di salvare il S. in virtù dell’adozione delle opportune iniziative terapeutiche sino alla data limite del 23 giugno”. Tale giudizio, significando “un discreto numero di possibilità” non supportato dalla copertura di leggi scientifiche, secondo il ricorrente, reintrodurrebbe inammissibilmente il criterio statistico, ormai superato dopo l’arresto delle Su di questa Corte. Quanto all’elemento soggettivo, il ricorrente sostiene che, poiché ciò che rileva ai fini della responsabilità penale è la riconoscibilità dei sintomi con giudizio ex ante, la sentenza ometterebbe di considerare che nella fattispecie difetterebbe la certezza sulle manifestazioni esteriori che avrebbero dovuto allarmare il curante e che giustificherebbero il giudizio sulla sua negligenza: in tal senso, il dolore non rappresenterebbe un indice univoco di un processo infettivo in corso e non vi sarebbe prova che là ferita fosse secernente e maleodorante. Inoltre, la sentenza darebbe contraddittoriamente atto della carenza organizzativa del presidio ospedaliero ai solo fini del più mite trattamento sanzionatorio, trascurando che nella condotta del G. il quale aveva visitato il S. solo il 21 giugno 1999, nella qualità di medico di turno al reparto di chirurgia non poteva essere individuato alcun profilo di colpa né sotto il profilo dell’imprudenza, né sotto quello dell’imperizia (in quelle condizioni di tempo e di luogo non sarebbe ipotizzabile a carico del singolo medico un onere di individuare e curare una infezione mortale) né sotto quello della negligenza (alla luce della prudente e giustificata condotta “attendistica” e della medicazione adottata nell’occasione e delle altre prescritte). Infine, difetterebbe qualsiasi considerazione sul coefficiente psicologico caratterizzante la 229 contestata cooperazione colposa ex articolo 113 Cp. Con il ricorso proposto tramite difensore il G. articola due motivi. Con il primo censura la sentenza impugnata sotto il profilo della ritenuta responsabilità, assumendo l’erronea applicazione della normativa di settore e la manifesta illogicità della motivazione. Sul punto, la sentenza impugnata avrebbe erroneamente individuato la colpa per negligenza nella diagnosticabilità dell’infezione attraverso i sintomi esterni che sarebbero già stati presenti in data 21 giugno1999, in conformità a quanto dichiarato dalla moglie e dal padre del S.. Così motivando i giudici di secondo grado non avrebbero tenuto conto della certificazione emessa dallo stesso prevenuto (in cui si dava atto esclusivamente di “esiti di plastica erniaria” e venivano prescritte tre medicazioni) e delle dichiarazioni testimoniali rese dall’infermiera professionale, che aveva assistito alla visita; avrebbero ignorato che la patologia presentata dal paziente (infezione da streptococco beta emolitico di gruppo A, annidatasi a livello della protesi in poliprene inserita in occasione dell’ernia inguinale) secondo la letteratura medica e le conclusioni del consulenti è riconosciuta come rara, grave, di difficile diagnosticabilità, in quanto silente, resistente a qualsiasi terapia antibiotica, con un tasso di mortalità elevatissimo, anche se individuata precocemente e trattata con gli unici presidi attualmente indicati: ossigenoterapia iperbarica e bagno di antibiotici a larghissimo spettro, previa rimozione della protesi infettata. Alla luce di tali caratteristiche della malattia, sostiene il ricorrente, che i giudici di merito avrebbero errato nel ritenere la sussistenza di un quadro sintomatico allarmante ed univoco già al 21 giugno 1999, individuandolo attraverso elementi assolutamente non univoci: un dolore persistente, la secrezione del siero, l’arrossamento, la diastasi della ferita ed indimostrati episodi febbrili. Nello stesso senso, la Corte di merito avrebbe illogicamente riconosciuto la responsabilità del G. anche sotto il profilo della mancata raccolta anamnestica in sede di visita, pur avendo l’infermiera riferito in sede di testimonianza che il S. aveva parlato solo del dolore e non di altre sintomatologie quali il rialzo termico o lo spurgo della ferita. La sentenza meriterebbe censura, secondo il ricorrente, anche laddove individua la responsabilità del sanitario nell’atteggiamento “attendista”, senza tener conto che nella maggior parte dei casi le infezioni sono provocate da germi più comuni e non così pericolosi, e non richiedono, pertanto, l’immediata rimozione della protesi. In ogni caso, si sostiene, anche nell’ipotesi di precoce espianto del plug la probabilità di sopravvivenza non sarebbero elevate. Dall’eccezionalità della patologia deriverebbe la non prevedibilità della stessa e quindi l’assenza di rimproverabilità a carico del ricorrente dell’eventuale omessa diagnosi. La sentenza impugnata avrebbe inoltre erroneamente affermato che le circostanze di fatto ricavabili dalla istruttoria consentivano di affermare che una diagnosi precoce, accompagnata da presidi farmacologici o chirurgici, avrebbe avuto probabilità di successo, perché le circostanze del caso concreto, per quanto sopra esposto, non autorizzavano l’espianto del plug e gli altri rimedi o presentavano profili di pericolosità (l’ago aspirato) o erano inutili ( l’ecografia e l’esame ematico) o di esito incerto ( la terapia antibiotica). Con il secondo motivo censura la sentenza impugnata, sotto il profilo della ritenuta sussistenza del nesso eziologico tra il suo comportamento e l’evento letale, alla luce di quanto sopra esposto, che non consentirebbe il riconoscimento della responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò tenuto anche conto che i consulenti del Pm si erano espressi in termini di mera probabilità di sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo ed in termini di discreta possibilità di salvare il S.. Il ricorso delle parti civili è fondato. In via preliminare non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito. Ai sensi di quanto disposto dall’articolo 606, comma 1, lettera e), Cpp, il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne né la ricostruzione dei fatti né l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Con l’ulteriore precisazione che l’illogicità della 230 motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente (“manifesta illogicità” cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento (ex pluribus, Cassazione, Sezione prima, 26 settembre 2003, Castellana ed altri). In altri termini, l’illogicità della motivazione, censurabile a norma dell’articolo 606, comma 1, lettera e), Cpp, è solo quella “evidente”, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali (cfr. Cassazione, Sezione quarta, 4 dicembre 2003, Cozzolino ed altri). Con l’ulteriore precisazione che il vizio della “manifesta illogicità” della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica 91rispetto a sé stessa”, cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica (Cassazione, Sezione quarta, 2 dicembre 2004, Grado ed altri). I termini della questione non paiono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’articolo 606, comma 1, lettera e), Cpp, intervenuta a seguito della legge 46/2006, laddove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia: a) sia “effettiva” e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non sia “manifestamente illogica”, in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non sia internamente “contraddittoria”, ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non risulti logicamente “incompatibile” con “altri atti del processo” (‘indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per cassazione) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli “atti del processo”, possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta tuttora preclusa in sede di controllo della motivazione la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto. La Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione. In questa prospettiva, il richiamo alla possibilità di apprezzarne i vizi anche attraverso gli “atti del processo” rappresenta null’altro che il riconoscimento normativo della possibilità di dedurre in sede di legittimità il cosìddetto “travisamento della prova” finora ammesso in via di interpretazione giurisprudenziale. È quel vizio in forza del quale la Corte, lungi dal procedere ad una (inammissibile) rivalutazione del fatto (e del contenuto delle prove), prende in esame gli elementi di prova risultanti dagli atti onde verificare se il relativo contenuto è stato veicolato o meno, senza travisamenti, all’interno della 231 decisione. In questa prospettiva, per chiarire, potendosi apprezzare il travisamento della prova nei casi in cui il giudice di merito abbia fondato il suo convincimento su una prova che non esiste (ad esempio, il testimone indicato in sentenza non esiste) o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale (ad esempio, il testimone ha dichiarato qualcosa di diverso da quello rappresentato in sentenza oppure nella ricognizione il soggetto ha “riconosciuto” persona diversa da quella indicata in sentenza) (per utili puntualizzazioni, ex pluribus, Cassazione, Sezione quarta, 25 gennaio 2005, Napoli; 9 giugno 2004, Proc. gen. App. Trento in proc. Sonazzi). Mentre, giova ribadirlo, non spetta comunque alla Corte di cassazione “rivalutare” il modo con cui quello specifico mezzo di prova è stato apprezzato dal giudice di merito, giacché attraverso la verifica del travisamento della prova il giudice di legittimità può e deve limitarsi a controllare se gli elementi di prova posti a fondamento della decisione esistano o, per converso, se ne esistano altri inopinatamente e ingiustamente trascurati o fraintesi. Per intenderci, non potrebbe esserci spazio per una rinnovata considerazione della valenza attribuita ad una determinata deposizione testimoniale, mentre potrebbero farsi valere la mancata considerazione di altra deposizione testimoniale di segno opposto esistente in atti ma non considerata dal giudice ovvero la valenza ingiustamente attribuita ad una deposizione testimoniale inesistente o presentante un contenuto diametralmente opposto a quello recepito dal giudicante. È ponendosi nella richiamata prospettiva ermeneutica che vanno apprezzate le doglianze dei ricorrenti. Or bene, proprio dalla lettura della motivazione della sentenza gravata paiono apprezzarsi gravi ed evidenti illogicità che ne vulnerano la tenuta complessiva. La Corte di merito argomenta la conclusione liberatoria a favore del dott. B., il cui comportamento, sotto il profilo della colpa, equipara a quello dell’odierno ricorrente, pur ritenendo certamente colposo il comportamento del primo, richiamando il contenuto del paragrafo 3 della stessa sentenza, con il quale era stato trattato lo specifico tema della probabilità di sopravvivenza nel caso di intervento tempestivo. In particolare la sentenza riporta dettagliatamente le dichiarazioni rese in dibattimento dal consulente del Pm, prof. Graev, che aveva indicato come intervento chirurgico tempestivo quello che fosse stato eseguito il 22 o al massimo il 23 giugno, ulteriormente specificando, sollecitato in tal senso, che tale poteva ritenersi anche quello eseguito alle ultime ore del giorno 24. 1 giudici dell’appello escludono la sussistenza del nesso eziologico tra tale condotta e la morte del paziente, collocandosi l’operato del B., il quale aveva sottoposto a visita il S. in data 23 giugno 2006 al limite di una fase cronologica oltre la quale era stata esclusa la possibilità di un intervento terapeutico idoneo al fine del l’affermazione di colpevolezza. In questa sede occorre, pertanto, verificare la logicità e coerenza delle argomentazioni liberatorie che ha fatto discendere il giudicante dalle dichiarazioni rese dal consulente. Caratteristiche all’evidenza insussistenti ove si consideri che il giudicante ha escluso la rilevanza causale del comportamento colposo del sanitario asserendo che era dubbia la tempestività e l’efficacia dell’intervento terapeutico alla data del 23 giugno. Tale ricostruzione non si concilia con le conclusioni motivate del consulente del Pm condivise anche dai giudici di appello, che le hanno trascritte integralmente nel paragrafo 3 della sentenza. Per l’effetto, è la stessa ricostruzione del giudice di appello che depone per la configurabilità della rilevanza causale del comportamento colposo contestato al sanitario, il quale, quindi, proprio a seguire la tesi del giudicante, alla data del 23 giugno, quando ancora non era instaurato un processo settico irreversibile, poteva ancora effettuare un intervento terapeutico al fine di impedire l’evento letale. D’altra parte, tale conclusione era già contenuta nella sentenza di primo grado che, nel definire con quale grado di probabilità logica e di credibilità razionale i presidi terapeutici colposamente omessi avrebbero scongiurato l’evento, aveva affermato, in conformità alle conclusioni delle consulenze in atti, l’ingovernabilità del processo settico dalle prime ore del 25 giugno o le ultime del 24. 232 In altri e decisivi termini, la illogicità della decisione impugnata risiede nell’avere escluso la rilevanza causale del comportamento omissivo posto in essere dal sanitario in data 23 giugno, pur dando atto che il processo settico era divenuto ingovernabile dalle prime ore del 25 giugno o le ultime del 24. li vizio logico irresolubile in cui è incorsa la Corte, in questa prospettiva è evidente, non potendosi condividere l’assunto dell’insussistenza del nesso eziologico tra la condotta del sanitario e la morte del paziente sul rilievo che a quella data non ara dubbia la tempestività ed efficacia dell’evento. Ciò soprattutto tenuto conto degli esiti dell’elaborato peritale, posti a fondamento della condanna in primo grado, che il giudicante di secondo grado, pur descrivendoli dettagliaata mente, ha obliterato ai fini della conclusione liberatoria. La sentenza va, pertanto, annullata con rinvio affinché il giudice competente per valore in grado di appello ex articolo 622 Cpp si attenga ai principi sopra indicati. La sentenza va, invece, confermata nella parte in cui afferma la penale responsabilità del dott. G., essendo il relativo ricorso infondato. I motivi di impugnazione consentono una trattazione unitaria vertendo, a ben vedere, tutti sulla ritenuta erroneità dell’affermato giudizio di responsabilità. In sintesi, il ricorrente sostiene, innanzitutto, un profilo di illogicità interna della sentenza, sotto il profilo della configurabilità della colpa, giacchè i giudici dell’impugnazione avrebbero omesso di considerare che nella fattispecie il quadro sintomatologico del paziente alla data del 21 giugno non era allarmante e, comunque, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte di merito, non vi sarebbe stato certezza sulle manifestazioni esteriori che avrebbero dovuto allarmare il curante e che giustificherebbero il giudizio sulla sua negligenza, fondato su di una colposa sottovalutazione della patologia infettiva, foriera dell’esito infausto per la salute del paziente. In tal senso, il dolore non rappresenterebbe un indice univoco di un processo infettivo in corso e non vi sarebbe la prova che la ferita fosse secernente e maleodorante. Inoltre, la sentenza darebbe contraddittoria mente atto della carenza organizzativa del presidio ospedaliero ai soli fini del più mite trattamento sanzionatorio, trascurando che nella condotta del G. che aveva visitato il S. solo il 12 giugno 1999, nella qualità di medico di turno al reparto di chirurgia non poteva essere individuato alcun profilo di colpa né sotto il profilo dell’imprudenza, né sotto quello dell’imperizia (in quelle condizioni di tempo e di luogo non sarebbe ipotizzabile a carico del singolo medico un onere di individuare e curare una infezione mortale) né sotto quello della negligenza (alla luce della prudente e giustificata condotta “attendistica” e della medicazione adottata nell’occasione e delle altre prescritte). Difetterebbe, infine, qualsiasi considerazione sul coefficiente psicologico caratterizzante la contestata cooperazione colposa ex articolo 113 Cp. Alla luce di questi elementi, non sarebbe, pertanto, addebitabile al sanitario la condotta attendista né la mancata prescrizione di esami, nei termini prospettati in sentenza. La sentenza sarebbe dunque errata per essersi posta in conflitto con i dati obiettivi emergenti dagli atti relativi alla sintomatologia del paziente e per avere effettuato una valutazione ex post del tutto illogica; soltanto a seguito dell’autopsia era stato possibile accertare che la causa della morte era da ascriversi ad una infezione da streptococco beta emolitico di gruppo A annidatasi a livello della protesi in prolipene inserita in occasione dell’ernia inguinale. L’inaccoglibilità di tali doglianze discende dal rilievo evidente che attraverso di esse, dietro l’apparente schermo dell’asserito vizio di motivazione, sono riproposte questioni sostanzialmente di fatto già dibattute nelle precedenti fasi del giudizio, tutte tese a dimostrare che il quadro probatorio esaminato dai giudici di merito non avrebbe fornito sufficiente prova della responsabilità del ricorrente. Ritiene infatti il Collegio che i vizi dedotti non sono riscontrabili nella sentenza impugnata con la quale la Corte di merito ha dimostrato di avere analizzato tutti gli aspetti essenziali della vicenda, pervenendo, all’esito di un approfondito vaglio di tutta la materia del giudizio, a conclusioni sorrette da argomentazioni logico giuridico. 233 I giudici del merito, difatti, hanno puntualmente evocato le circostanze fattuali del caso e da esse non illogicamente hanno desunto la colpa del ricorrente, avendo egli, in sostanza, omesso ogni dovuto accertamento al momento del ricorso del paziente alla struttura sanitaria, sottovalutando un quadro clinico certamente idoneo a destare il concreto sospetto di un processo settico in atto ed omettendo di disporre non solo gli opportuni accertamenti diagnostici, che avrebbero consentito un intervento tempestivo ed efficace, ma anche una doverosa ed agevole indagine anamnestica, dalla quale avrebbe rilevato i ripetuti rialzi febbrili subiti dal S. e lo scadimento delle condizioni generali dello stesso. In particolare, la Corte di merito, con l’ausilio delle prove testimoniali, diversamente da quanto prospettato dalla difesa, ha convincentemente e motivatamente individuato i sintomi già presenti nel S. in data 21 giugno, quando era stato sottoposto a visita da parte dell’odierno ricorrente: oltre i rialzi febbrili, la persistenza del dolore, la secrezione di siero dalla ferita, che, per ammissione dello stesso imputato, si presentava arrossata e con una parziale diastasi. La sentenza impugnata rileva che, pur in presenza di tale sintomatogia allarmante, il dott. G., non si era preoccupato che il quadro fosse significativo di una patologia né tantomeno si era attivato per svolgere gli esami e le analisi che il caso richiedeva. Tale motivazione (rinvenibile nel tessuto argomentativo di entrambe le sentenze) dà compiutamente conto delle ragioni dell’affermazione di sussistenza della colpa omissiva contestata al dott. G.. Trattasi di valutazione incensurabile in sede di legittimità perché logicamente attraverso il G. o alle deposizioni testimoniali, la cui attendibilità non è stata posta validamente in discussione ed alle conclusioni del consulente tecnico del Pm, adeguatamente apprezzate e valutate criticamente dai giudici del merito. Non potrebbe quindi il giudice di legittimità sostituirsi ai giudici di merito nella ricostruzione dei fatti e nella valutazione dei medesimi, non essendo la sentenza impugnata incorsa in alcun vizio logico. In proposito, non è inutile ricordare i rigorosi limiti del controllo di legittimità sulla sentenza di merito. In questa sede, non è possibile una rinnovata valutazione dei fatti e degli elementi di prova. È principio non controverso, infatti, che nel momento del controllo della motivazione, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una “plausibile opinabilità di apprezzamento”. Ciò in quanto l’articolo 606, comma 1, lettera e), del Cpp non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (ex multis, Cassazione, Sezione quinta, 13 maggio 2003, Pagano ed altri). In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell’osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, in particolare non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento di riscontro probatorio (Cassazione, Sezione sesta, 6 marzo 2003, Di Folco). Tenuta presente tale regola e ribadito che la motivazione resa in ordine alla ravvisata colpa dell’imputato è caratterizzata da un ragionamento coerente e logico, devono ritenersi privi di rilievo gli argomenti con i quali il ricorrente ripropone una diversa valutazione dei fatti. Quanto alla censura relativa alla mancanza di considerazione sul coefficiente psicologico caratterizzante la contestata cooperazione colposa ex articolo 113 Cp, trattasi di doglianza infondata. Sul punto va rilevato che la cooperazione nel delitto colposo, di cui all’articolo 113 Cp presuppone che più persone pongano in essere una autonoma condotta nella consapevolezza di contribuire all’azione od omissione altrui che sfocia nella produzione dell’evento non voluto, avendosi altrimenti concorso di cause indipendenti nella produzione dell’evento (cfr. Cassazione, Sezione quarta, 4 febbraio 2004, Caffaz e altri). Nella specie, per quanto sopra esposto, non appaiono certamente riscontrabili tali connotazioni di consapevolezza, in capo all’attuale ricorrente, della 234 concorrente condotta dei coimputati nella contribuzione alla produzione dell’evento. Ciò che rileva, comunque, ai fini della contestazione, oltre al nomen iuris del fatto esplicitato nel capo di imputazione, sono le condotte concretamente contestate e le circostanze fattuali al riguardo evidenziate, mentre è irrilevante sotto il profilo dell’articolo 521 Cpp, l’erroneo richiamo di una norma di legge (nella specie, l’articolo 113 Cp). Analoghe considerazioni vanno fatte per quanto riguarda l’esistenza del rapporto di causalità, la cui esistenza viene contestata dal ricorrente assumendo, in sostanza, che i giudici di merito non avrebbero fatto corretta applicazione dei principi fissati dalla sentenza delle Su 10 luglio 2002, F., in tema di causalità omissiva, limitandosi a riportare le conclusioni del Pm sulla “ discreta possibilità di salvare il S. con intervento chirurgico precoce del 21 ovvero del 22 giugno”, successivamente puntualizzate indicando come intervento chirurgico precoce quello che fosse stato eseguito il 22 o, al massimo, il 23 giugno. In tal modo i giudici di appello, nella ricostruzione del nesso causale, non avrebbero giustificato adeguatamente il giudizio espresso sull’alto grado di probabilità logico razionale tra l’omessa diagnosi e l’evento, giacchè avrebbero omesso di valutare talune circostanze incontrovertibili in merito alle caratteristiche specifiche di quel processo infettivo (il decorso di oltre venti giorni dall’intervento, l’alto tasso di mortalità provocato da quel batterio, l’inesistenza di una cura antibiotica idonea, la divergenza di opinioni nella scienza medica sulla efficacia di un intervento chirurgico). li problema che si pone, pertanto, nei presente giudizio è anche quello di verificare se i giudici di merito abbiano fornito di adeguata motivazione la valutazione sulla efficienza causale della condotta colposa ricollegandola all’evento in termini di “alto grado” di credibilità razionale, nel quale si sostanzia la certezza processuale, come affermato dalle Su, nella sentenza ricordata. La sentenza sembra aver rispettato il principio sopra ricordato, ritenendo che la condotta colposa costituisse condicio sine qua non del verificarsi dell’evento, che con una corretta e tempestiva diagnosi non si sarebbe verificato. Sul punto deve essere puntualizzato che, sul nesso di condizionamento, la dottrina e la giurisprudenza più convincenti sono unanimi nell’affermare che il giudizio sul nesso di causalità è giudizio da effettuarsi ex post, ad evento avvenuto e per il tramite del procedimento di eliminazione mentale (il c.d. giudizio controfattuale), per cui, eliminata mentalmente la condotta, viene meno o non viene meno anche l’evento con certezza e con alta probabilità scientifica. La sentenza impugnata nel richiamare la sentenza delle Su F. si sofferma esclusivamente sul principio secondo il quale nella ricostruzione del nesso eziologico non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, ma lo stesso deve essere accertato alla stregua di un giudizio di “alta probabilità logica”. Ciò significa che il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì esclusa l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica (v. Su F.). La corte di merito fa applicazione di questo principio laddove afferma in via generale che “certamente non pare possibile ritenere la sufficienza, ai fini dell’affermazione del nesso causale, di una probabilità di successo men che notevole giacché ciò equivarrebbe, in buona sostanza, ad addebitare l’evento proprio del reato contestato alla condotta omissiva individuata a fronte della mera possibilità di tale collegamento... e tuttavia, questa probabilità alta o notevole non pare possa essere ricondotta nell’ambito dei quasi certo ovvero del prossimo a cento, giacché con siffatto argomentare, in materia oggetto di prognosi incerta ed inevitabilmente aperta all’esito infausto come a quello infausto, si perverrebbe a svilire l’imponderabilità, se non la singolarità, propria alla fine di ciascun caso ed a deprimere, infine, l’elevata funzione e la responsabilità del medico, di fatto destinata ad essere esclusa per la sola difficoltà del caso e quali che siano i livelli di colpa.” Con riferimento alla fattispecie in esame, i giudici dell’appello, dopo aver richiamato la 235 dichiarazione resa dal consulente del Pm in merito alla “ discreta possibilità di salvare il S. in virtù dell’adozione delle opportune iniziative terapeutiche sino alla data limite del 23 giugno” ed il significato semantico del termine, riportando, a titolo di esempio, espressioni “quali discreto guadagno o discreto patrimonio”, concludono per la ricorrenza nella fattispecie di una “elevata o comunque notevole probabilità di esito positivo conseguente a corretta attivazione del dott. G. nel momento ( 21 giugno 1999) nel quale essa è stata ritenuta come possibile e doverosa”. A fondamento di tale conclusione vengono poste le conclusioni dei consulenti medico legali, i quali” pur fornendo indicazioni per l’abbinamento di terapia farmacologia (mediante antibiotici) e chirurgica, hanno posto in particolare rilievo l’importanza, ovvero la decisività di quest’ultima. Può, pertanto, osservarsi che i giudici di merito, recependo le risultanze delle espletate consulenze medico legali hanno correttamente appezzato il portato della pronuncia delle Su. In proposito, non può condividersi la censura della difesa che il ragionamento del giudice di merito avrebbe finito con il contrastare con i principi della sentenza F., laddove questa avrebbe imposto il superamento delle regole della probabilità statistica nella ricostruzione del nesso di condizionamento tra la condotta omissiva del sanitario e l’evento letale verificatosi per il paziente. Al riguardo, come puntualizzato anche in dottrina, bisogna partire dalla considerazione che la risposta sulla sussistenza o meno del nesso eziologico non può essere, in effetti, esaustivamente e semplicisticamente trovata, sempre e comunque, nelle leggi statistiche. È un assunto ormai non più dubitabile, dopo quanto ampiamente, ed esaustivamente, osservato proprio dalle Su, con la sentenza F.. Però, non può neppure affermarsi che le leggi statistiche, in precedenza considerate decisive, debbano essere completamente trascurate. Le leggi statistiche, in vero, sono solo uno degli elementi che il giudice può e deve considerare, unitamente a tutte le altre emergenze del caso concreto. Con la conseguenza che il giudizio positivo sulla sussistenza del nesso eziologico non si baserà più solo sul calcolo aritmeticolstatistico (quale che sia la percentuale rilevante), ma dovrà trovare il proprio supporto nel l’apprezzamento di tutti gli specifici fattori che hanno caratterizzato la vicenda concreta. Il giudice, in buona sostanza, potrà (anzi, dovrà) partire dalle leggi scientifiche di copertura e in primo luogo da quelle statistiche, che, quando esistano, costituiscono il punto di partenza dell’indagine giudiziaria. Però, dovrà poi verificare se tali leggi siano adattabili al caso esaminato, prendendo in esame tutte le caratteristiche specifiche che potrebbero minarne in un senso o nell’altro il valore di credibilità, e dovrà verificare, altresì, se queste leggi siano compatibili con l’età, il sesso, le condizioni generali del paziente, con la presenza o l’assenza di altri fenomeni morbosi interagenti, con la sensibilità individuale ad un determinato trattamento farmacologico e con tutte le altre condizioni, presenti nella persona nel cui confronti è stato omesso il trattamento richiesto, che appaiono idonee ad influenzare il giudizio di probabilità logica. In una tale prospettiva, il dato statistico, lungi dall’essere considerato ex se privo di qualsivoglia rilevanza, ben potrà essere apprezzato dal giudice, nel caso concreto, ai fini della sua decisione, se riconosciuto come esistente e rilevante, unitamente a tutte le altre emergenze fattuali della specifica vicenda sub iudice, apprezzando in proposito, laddove concretamente esistenti ed utilizzabili, oltre alle leggi statistiche, le “regole scientifiche” e quelle dettate dall’esperienza”. È ovvio poi che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà verificare l’eventuale emergenza di “fattori alternativi” che possano porsi come causa dell’evento lesivo, tali da non consentire di poter pervenire ad un giudizio di elevata credibilità razionale (“al di là di ogni ragionevole dubbio”) sulla riconducibilità di tale evento alla condotta omissiva del sanitario. Ed è altresì ovvio che, in questo giudizio complessivo, il giudice dovrà porsi anche il problema dell’ “interruzione del nesso causale”, per l’eventuale, possibile intervento nella fattispecie di una “causa eccezionale sopravvenuta” rispetto alla condotta sub iudice del medico idonea ad assurgere a sola causa dell’evento letale (articolo 41, comma 2, Cp). Nel rispetto di tale approccio metodologico, il giudizio finale, laddove di responsabilità a carico del sanitario, non potrà che essere un giudizio supportato da un “alto o elevato grado di credibilità 236 razionale” ovvero da quella “probabilità logica” pretesa dalle Su F.; mentre l’insufficienza, la contraddittorietà e/o l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale e, quindi, il ragionevole dubbio sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico, rispetto ad altri fattori interagenti o eccezionalmente sopravvenuti nella produzione dell’evento lesivo, non potrà che importare una conclusione liberatoria. Or bene, il giudice di merito si è mosso nel pieno rispetto di questi principi essendo pervenuto al giudizio di responsabilità esprimendo il proprio convincimento non solo e non tanto sul dato statistico percentuale (delle probabilità di salvezza), ma inserendo tale dato in un complessivo giudizio controfattuale che lo ha portato, in modo convincente e qui incensurabile, a fondare la responsabilità del sanitario per l’evento letale in modo “processualmente certo”. In altri termini, la sentenza impugnata, richiamando l’elevato grado di probabilità di sopravvivenza del paziente (che a seguito di intervento di ernia inguinale, presentava un processo infettivo da strepto cocco beta emolitico di gruppo A), in caso di intervento tempestivo, dopo avere esaminato tutte le circostanze del caso concreto ed aver effettuato il giudizio controfattuale, si è posta in linea con i principi consolidati della giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, come già evidenziato, il dato statistico deve ricevere conferma nell’apprezzamento di tutti gli elementi che hanno caratterizzato il caso concreto. In conclusione, le statuizioni dei giudici di merito risultano sostanzialmente rispondenti alle linee interpretative enunciate dalla Suprema Corte in tema di rapporto di causalità ed il giudizio espresso circa il positivo accertamento tra la condotta prevalentemente omissiva e la morte del paziente resta, pertanto, incensurabile in sede di legittimità con il conseguente rigetto del ricorso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione delle spese sostenute in questo grado di giudizio dalle parti civili, liquidate come in dispositivo. Come già precisato sopra la sentenza va, pertanto, annullata con rinvio limitatamente all’assoluzione pronunciata nei confronti del dr. B. Aldo con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, affinché si attenga ai principi sopra indicati. La liquidazione delle spese sostenute dalle parti civili in questo grado di giudizio si rimette alla Corte di merito in sede di rinvio. P.Q.M. Rigetta il ricorso proposto da G. G. e lo condanna al pagamento delle spese processuali e di quelle in favore delle parti civili costituite, che liquida in complessivi euro 2375, di cui euro 400 per esborsi,oltre Iva e CPA; in accoglimento del ricorso proposto dalle parti civili annulla la sentenza impugnata nei confronti di B. Aldo con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, al quale rimette anche il regolamento delle relative spese sostenute dalle parti civili per il giudizio di cassazione. -In tema di causalità omissiva: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica — universale o statistica — si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta 237 doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative — la cd. giustificazione esterna — della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE SENTENZA 25.05.2005 – 12-07-05 n. 25233 (Pres. Giovanni Silvio Coco – Cons. est. Vincenzo Romis) SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Verso la metà del mese di dicembre del 1997 si verificavano casi di epatite B ad evoluzione grave tra i pazienti ricoverati nel reparto di ematologia dell’ospedale “San Salvatore” di Pesaro, con nove decessi per epatite fulminante su undici casi accertati: i primi sette pazienti erano stati ricoverati nel mese di ottobre (poi tutti deceduti); gli altri quattro erano stati ricoverati nel mese di dicembre 1997 (e due poi deceduti per epatite fulminante). Il primo caso di infezione da epatite B veniva evidenziato il 15 dicembre 1997 e riguardava la paziente G.F. la quale decedeva il 29 dicembre 1997. Al decesso della G. seguiva poi la morte del paziente P. M., ancora per epatite fulminate da virus B, e quindi, sempre per la medesima infezione, decedeva F.F. Dopo il terzo caso scattava l’allarme e, all’esito dei primi accertamenti, si appurava che i tre pazienti deceduti erano stati sottoposti all’aferesi delle cellule staminali: sul presupposto che tale procedura potesse essere stata la causa comune dell’infezione, venivano richiamati tutti i pazienti ai quali era stata praticata tale terapia, ma l’esame dei relativi prelievi risultava negativo, cosi come senza esito positivo restava l’esame del liquido di lavaggio della macchina. Frattanto cominciavano a positivizzarsi altri pazienti che non erano stati sottoposti a quell’intervento, per cui veniva disposto l’accertamento dello stato immunitario per il virus B di tutti gli operatori sanitari addetti al reparto di ematologia, e, poichè tutti i pazienti erano stati trasfusi, veniva attivato anche il controllo di tutti i donatori di sangue che dava esito negativo; si procedeva quindi all’esame del sangue dei pazienti per individuare le eventuali concordanze del genoma virale. All’esito di controlli ed ispezioni ambientali da parte di esperti nominati dai responsabili dell’ospedale, disposta ed eseguita la sanitificazione del reparto di ematologia, la Direzione Generale segnalava l’evento all’Autorità Giudiziaria, e la Procura Circondariale della Repubblica di Pesaro avviava immediatamente le indagini, ordinando l’esame autoptico delle persone decedute, il sequestro delle cartelle cliniche, l’ispezione dei luoghi, e nominando due collegi di consulenti 238 tecnici al fine di accertare l’eziopatogenesi del fenomeno infettivo. I sopralluoghi in ematologia, eseguiti da componenti del Comitato per le Infezioni Ospedaliere (il C.I.O.) consentivano di individuare, all’esito della verifica delle procedure e delle pratiche assistenziali, alcuni punti critici quali possibili fattori di rischio per la trasmissione di agenti infettivi per via ematica, e cioè: 1) la non corretta conservazione delle provette, contenenti il sangue di scarto dei prelievi effettuati dalle vene centrali, che erano poste in contenitori aperti sul piano di lavoro dove veniva preparata la terapia infusiva; 2) l'utilizzo di un sistema per i prelievi di sangue capillare comprendente una lancetta a perdere ed un supporto fisso portalancette che non veniva sostituito, né decontaminato, dopo ogni procedura; 3) l’utilizzo di flaconi multidose di eparina ed insulina; 4) il riutilizzo delle camicie usate per i prelievi di sangue con il sistema a vuoto vacutainer. Il consulente del P.M., incaricato di valutare gli aspetti medico-igienistici, evidenziava quanto segue: a) i protocolli di interesse igienistico, con riferimento alle procedure di decontaminazione, pulizia, disinfezione e sterilizzazione, erano risultati insufficienti e carenti; b) il Comitato per le Infezioni Ospedaliere — previsto dal D.M. Sanità il 13/9/1988 — era stato costituito tardivamente e riaggiornato solo il 30 dicembre 1997; c) vi era stato ritardo, ed in due casi omissione, della notifica all’Azienda Sanitaria della malattia infettiva, accertata o sospettata, da effettuarsi entro due giorni dalla osservazione del caso: in tal modo impedendo che potessero essere intraprese in tempo utile le dovute azioni profilattiche. Altro consulente del P.M., cui era stata affidata l’indagine virologica, accertava quanto segue: a) dallo studio del siero di fase acuta dei pazienti coinvolti, era emerso un grado di omologia con il genoma virale di C. P. oscillante dal 98 al 99,8%: il che indicava nel C. — il quale era stato anch’egli ricoverato nel reparto di ematologia di quell’ospedale - il caso indice e la fonte del contagio degli altri pazienti; b) sui residui di fondo del contenitore grande da criopreservazione era stata riscontrata la presenza di quantità estremamente ridotta di sequenze genomiche del virus B, mentre dal materiale del contenitore piccolo era stato possibile coltivare due ceppi battericidi. I consulenti tecnici del P.M., chiamati a comporre il collegio incaricato di seguire gli accertamenti sulle cause della morte dei pazienti deceduti, sulla fonte e sulle modalità del contagio, rassegnavano le seguenti conclusioni: a) G.F., P. M., F.F., A.L., F.S., A.M., R.A., B.P. e F.P. erano deceduti a causa di insufficienza epatica da necrosi epatica massiva da epatite B contratta durante la degenza presso il reparto di ematologia dell’ospedale di Pesaro; b) C. P., ricoverato nel settembre 1997, aveva presentato una riattivazione dell’epatite essendo risultato positivo ad un prelievo del 2 ottobre 1997; era stato quindi nuovamente ricoverato nel mese dì ottobre di quell’anno ed una biopsia epatica del 17 ottobre 1997 aveva documentato una epatite cronica attiva; il 13 novembre era stato ricoverato all’ospedale di Fano dove era poi deceduto il 17 dicembre 1997 per complicanze della patologia neoplastica da cui era affetto e non per l’epatite; c) la fonte del contagio era da individuarsi nel C. che era portatore dello specifico stipite virale che aveva prodotto l’infezione di tutti gli altri soggetti; d) non era stato possibile individuare in termini di certezza la via di trasmissione del contagio, ma il dato che non era emersa una singola pratica o procedura eseguita su tutti i soggetti, indicava che la diffusione del virus aveva seguito una via del tutto casuale; il che induceva a ritenere che il virus aveva contaminato casualmente i più vari strumenti e materiali, utilizzati in isolati ma ripetuti episodi di disattenzione nei confronti delle norme precauzionali universali; ciò era potuto derivare unicamente da una contaminazione ambientale che risultava attestata dalle seguenti circostanze: 1) la documentata inadeguatezza complessiva dei procedimenti di controllo e prevenzione delle infezioni; 2) i numerosi punti critici riscontrati; 3) la presenza di batteri e di una debole positività 239 per l’epatite B nei bidoni dell’azoto liquido, significativa per una carenza di adeguati provvedimenti igienici nel reparto; e) non erano stati adottati adeguati provvedimenti di isolamento sia nei confronti del C., altamente infettante durante il ricovero dell’ottobre 1997 sia nei confronti G.F. e P. M. nel dicembre 1997; f) sul piano cronologico il focolaio epidemico poteva essere distinto in due epoche: un primo focolaio era individuabile nel mese di ottobre 1997, in cui avevano contratto l’infezione sette dei pazienti poi deceduti, ed una seconda epoca riconducibile al dicembre 1997 in cui avevano contratto l’infezione gli altri quattro pazienti deceduti. I consulenti tecnici, nominati rispettivamente dagli indagati prof. L.G. — Responsabile dell’Unità Operativa di Ematologia presso l’ospedale “S. Salvatore” di Pesaro — e dottor Giovanni F. — Direttore Sanitario dell’Azienda Ospedaliera “Ospedale S. Salvatore” di Pesaro, nonché Direttore Sanitario di Presidio (anche solo di fatto) del detto nosocomio — con le loro conclusioni controbattevano le argomentazioni dei consulenti del P.M. e sottolineavano, in particolare, che: 1) erano risultate sostanzialmente corrette le procedure seguite dal personale sanitario operante nel reparto di ematologia dell’ospedale in questione, anche con riferimento alle modalità di preparazione e somministrazione dei farmaci per uso parenterale, nonché rispettate le norme di asepsi; 2) non erano emersi elementi tali da poter far ritenere avvenuta una contaminazione ambientale, dovendo considerarsi del tutto sicuri, sotto il profilo della idoneità ad impedire eventuali contagi, gli strumenti adoperati e le metodiche adottate per i prelievi; 3) il concetto di contaminazione ambientale non aveva comunque pratico significato nell’epatite B, non potendo l’infezione essere trasmessa dall’ambiente esterno; 4) il Comitato Infezioni Ospedaliere era stato costituito dalla USL di Pesaro sin dal 1989 ed aggiornato, quanto a composizione, nel 1993 ed in data 30/12/1997, quindi prima della conoscenza (7 gennaio 1998) - da parte dei vertici aziendali - dei casi di epatite virale nel reparto di ematologia; 5) nulla era stato trascurato per assicurare al personale sanitario una adeguata preparazione professionale ed un costante aggiornamento: 6) erano stati costantemente osservati i protocolli universalmente riconosciuti come efficaci per la prevenzione delle infezioni in ambiente ospedaliero; 7) la Direzione Sanitaria era venuta a conoscenza dell’insorgenza dei casi di epatite in data 7 gennaio 1998, allorché i contagi dei pazienti erano già avvenuti ed era stato attivato tutto quanto possibile per identificare la fonte e le modalità del contagio e per prevenire l’insorgenza di nuovi casi. Al termine delle indagini il Pubblico Ministero formulava la imputazione di omicidio colposo plurimo a carico del prof. L. e del dott. F., con la contestazione di plurime omissioni, tutte dettagliatamente descritte in un articolato capo di imputazione, e riconducibili, in gran parte, alla mancanza di controllo e vigilanza sulle modalità dei prelievi ematici dai pazienti, sulle procedure seguite e sugli strumenti adoperati per i prelievi stessi, sulla conservazione e sterilizzazione degli strumenti sanitari, sulle condizioni di degenza dei pazienti, anche per il mancato isolamento del paziente C. individuato quale fonte del contagio dei pazienti poi deceduti in conseguenza dell’infezione contratta nel reparto. Per i fatti dettagliatamente descritti nel capo di imputazione, e con la contestazione di omicidio colposo plurimo, il prof. L. ed il dottor F. venivano dunque tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Pesaro. A seguito dell’intervento risarcitorio della compagnia assicuratrice dell’Azienda Sanitaria Ospedale San Salvatore il processo si svolgeva con la sola costituzione della parte civile M. Giovanni e con la partecipazione della medesima Azienda in qualità di responsabile civile. Il processo veniva celebrato con rito abbreviato, con integrazione probatoria richiesta dagli imputati, ammissione della prova contraria richiesta dal Pubblico Ministero, istruttoria integrativa, disposta dal giudice ex art. 441 ,comma 5 cpp., per verificare la prospettata ipotesi di un “sabotaggio”, e consistita: a) nella trascrizione in forma peritale delle conversazioni telefoniche intercettate nell’ambito del procedimento n. 233/98 della Procura del Tribunale di Pesaro (Atti 240 relativi alle dichiarazioni dell’indagato L.) i cui brogliacci e le cui trascrizioni di polizia erano allegati agli atti; b) nell’acquisizione del fascicolo citato e di altri fascicoli concernenti G. Claudio (atti relativi al suicidio, al furto di provette e cartelle cliniche, peculato di medicinali); c) nell’ammissione di testi in relazione all’ipotesi del “sabotaggio”. L’ipotesi del “sabotaggio” era emersa dalle iniziali dichiarazioni del prof L. rese ai Carabinieri in occasione della notifica dell’informazione di garanzia e subito dopo al Pubblico Ministero; il L. aveva riferito, in proposito, quanto segue: dopo l’esame approfondito della vicenda, fatto con il personale medico e paramedico, sembrava impossibile che il focolaio infettivo fosse derivato da errori comportamentali del personale; l’unico comune denominatore terapeutico era da individuarsi nella somministrazione di soluzioni fisiologiche attraverso le fleboclisi; l’ipotesi che sembrava più plausibile era che il suo reparto fosse stato oggetto di un sabotaggio ad opera di persone ostili, attuato iniettando siero infetto nelle flebo somministrate ai pazienti;il siero si otteneva dalle provette inviate al laboratorio per l’analisi; all’epoca era ricoverato il paziente C. P., portatore sano di epatite riconosciuto positivo; i flaconi di soluzione fisiologica provenivano dalla farmacia dell’ospedale in cartoni da n. 25 boccette e addetto alla preparazione e alla consegna era G. Claudio, un portantino in servizio al reparto fino all’agosto 97 e poi trasferito dal reparto per screzi personali con colleghi di lavoro. Nel corso delle indagini sul punto, C. Paola, ausiliaria addetta alle pulizie, aveva riferito che il G. si muoveva molto liberamente nel reparto di ematologia e nutriva antipatia per il prof L.; lo aveva visto varie volte fotocopiare le cartelle cliniche dei pazienti; e una mattina, verso le ore 5,40, lo aveva incontrato nel reparto, ove era entrato scavalcando una finestra del tunnel di collegamento tra la scuola e il reparto, ed il G. le aveva fallo vedere una provetta contenente sangue e recante una etichetta con il nome di C. scritto a penna; in una successiva conversazione, allorché si era già diffusa la voce che un personaggio esterno avesse potuto inquinare le flebo, il G. aveva affermato che con un ago da insulina era possibile iniettare un liquido nelle flebo senza che nessuno se ne accorgesse, sollevando in maniera impercettibile il lembo di metallo fissato solo in quattro punti. Il G., dal canto suo, aveva ammesso di avere qualche volta fotocopiato cartelle cliniche sue o del figlio; aveva però negato di avere fotocopiato cartelle dei pazienti e di avere sottratto provette di sangue dal reparto di ematologia. Il G. era stato quindi convocato per il giorno 19.6.98 per essere sottoposto a confronto; ma alle ore 7,30 di quel giorno il suo cadavere era stato rinvenuto nel magazzino sito al piano interrato della farmacia interna dell’ospedale, appeso al soffitto con una corda al collo. In data 17.5.2001 il GIP aveva disposto l’archiviazione del procedimento relativo alle dichiarazioni del Prof. L. sull’ipotesi dell’intervento doloso. li Tribunale, nel procedere al vaglio della contestazione mossa agli imputati, anche per verificare se le risultanze acquisite consentissero di individuare in termini di ragionevolezza un processo causale diverso ed alternativo rispetto a quello delineato nelle imputazioni, evidenziava innanzi tutto che dovevano ritenersi provati i seguenti punti, sostanzialmente condivisi da tutti gli esperti; - i nove pazienti erano deceduti a causa di epatite virale fulminante; - tutti avevano subito il contagio durante il ricovero nel reparto di ematologia; - l’infezione era stata prodotta dallo stesso stipite virale in quanto dall’esame dei campioni biologici prelevati dai pazienti deceduti era stata accertata una fortissima omologia della sequenza del DNA virale; - la fonte del contagio, portatore dello stipite virale originario, si identificava in C. P.: - poiché il virus dell’epatite B si trasmette esclusivamente mediante contatto ematico, il contagio era necessariamente avvenuto mediante comportamenti concreti che avevano comportato il passaggio per via parenterale di sangue o siero del C. al sangue dei pazienti. Ciò posto, il Tribunale rilevava poi che, nonostante gli approfondimenti compiuti, non era stato individuato, invece, il veicolo attraverso cui, in concreto, la trasmissione del virus si era verificata; e sottolineava, quindi, che solo la individuazione dei comportamenti concreti dei soggetti che li avevano posti in essere, e delle relative circostanze, poteva consentire una valutazione in termini di responsabilità dei soggetti coinvolti: la mancata individuazione del veicolo del contagio escludeva la possibilità di qualsivoglia ulteriore ricerca in ordine alla sequenza causale da cui era derivato 241 l’evento. Il Tribunale osservava, ancora, che neppure era stata acquisita la prova della contaminazione ambientale, ipotizzata dall’accusa come una condizione generale del reparto provocata da condotte e pratiche scorrette su cui si sarebbero innestate ulteriori pratiche scorrette comportanti il finale contagio dei pazienti, ed indicata dai consulenti del Pubblico Ministero come la causa più probabile, più plausibile, del contagio. Il Tribunale motivava il proprio convincimento in proposito asserendo che la prospettata contaminazione ambientale era risultata sfornita di prove non tanto perché, in conseguenza dei casi di infezione da epatite B, il reparto, dal 13 al 19 gennaio 1998, era stato interamente “sanitizzato”, e neppure per le notevoli difficoltà nella ricostruzione dei fatti in relazione a condizioni ambientali mutate (dato il periodo di incubazione della infezione oscillante in concreto tra 55 e 77 giorni); ma perché tra i possibili fattori di rischio segnalati — singolarmente richiamati dal Tribunale - nessuno poteva ritenersi, di per sè, causa di contagio, e di contaminazione ambientale, posto che: - l’eparina in flacone multidose veniva utilizzata per lavare i cateteri a tre vie;l’uso del flacone multidose non era di per sé causa di contaminazione; e mancava la prova di una utilizzazione impropria del flacone (reintroduzione nel flacone di una siringa già utilizzata); - il protocollo per il lavaggio dei cateteri venosi centrali che era stato formato dal personale, ma non validato dalla Direzione Sanitaria, non costituiva causa di adozione di procedure scorrette in quanto era stato esaminato e ritenuto corretto e idoneo e neppure era stato modificato; - le provette contenenti il sangue di scarto erano di vetro infrangibile e chiuse ermeticamente e soltanto la rottura e l’apertura accidentali, delle quali non vi era prova, avrebbe potuto cagionare contaminazione; - le lancette pungidito (peraltro utilizzate in un solo caso) e il relativo supporto non costituivano alcuna contaminazione, possibile solo dall’uso scorretto del supporto se attinto dal sangue; - la riutilizzazione delle camicie utilizzate per il prelievo del sangue con il metodo “vacutainer” era operazione innocua e inidonea a provocare contaminazione perché la camicia non veniva attinta dal sangue; - analoghe considerazioni valevano riguardo alla utilizzazione della stessa stanza per il compimento di attività invasive sia sui pazienti positivi al virus HBV che su quelli negativi; - il rinvenimento di tracce di virus B in uno dei contenitori di azoto liquido per la criopreservazione installati nel laboratorio di ematologia doveva considerarsi assolutamente ininfluente in ordine alla configurazione di una contaminazione ambientale rilevante, mancando qualsiasi elemento per ricondurre quelle tracce al virus identificato come letale o a identificare l’epoca e le cause di tale presenza; - non esisteva un obbligo di isolamento del C. in senso materiale, mentre era stato realizzato pienamente il suo isolamento funzionale; - esattamente, pertanto, il Prof. De Fazio, c.t. del P.M., aveva concluso che la contaminazione ambientale era una ipotesi investigativa superata dalle acquisizioni processuali, una mera ipotesi non acclarata da alcun elemento di giudizio: - del resto correttamente questi comportamenti e pratiche erano da tutti definiti come “possibili” fattori di rischio e non come cause di contaminazione o contagio. Secondo il Tribunale, dalla mancata individuazione, sia del veicolo del contagio, sia delle condotte e delle procedure scorrette che avevano concretamente trasmesso il virus, nonché dei soggetti operatori, derivava la impossibilità di trarre utili elementi di valutazione in ordine all’accertamento della causa dell’evento; non essendo conosciuta la condotta scorretta posta in essere, che aveva cagionato l’evento, risultava impraticabile il ricorso al giudizio logico controfattuale che esigeva, sotto l’aspetto probatorio, la individuazione della condotta antidoverosa commessa e la sua sostituzione mentale con la condotta doverosa, al fine di riscontrare, in base a leggi scientifiche o statistiche, se posta in essere la condotta doverosa omessa, il prodursi dell’ evento si sarebbe evitato con un grado di sicurezza logica assai elevato, prossimo alla certezza. Conclusivamente, all’esito del percorso motivazionale seguito, il Tribunale affermava che la 242 mancanza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale comportava l’esito assolutorio del giudizio nei confronti degli imputati, anche perché non appariva priva di fondamento quella ipotesi del “sabotaggio” che era emersa sulla scorta delle dichiarazioni rese dal prof. L.; anzi le risultanze acquisite apparivano tali da far ritenere detta ipotesi ragionevolmente configurabile e, sotto il profilo probatorio, dotata addirittura di maggiori elementi a sostegno (personalità del G., conversazioni telefoniche intercettate e conseguente complessiva attendibilità della teste C., compatibilità dell’ipotesi dolosa con l’insorgenza del secondo focolaio ben potendo questo essere stato causato dall’utilizzo di flebo rimaste in giacenza dall’epoca del primo focolaio), e pertanto in concreto più probabile di quella colposa oggetto della imputazione. Avverso detta sentenza proponevano appello: il Procuratore della Repubblica di Pesaro con atto 15.6.02; il Procuratore Generale con atto 20.6.02; la parte civile M. Stefano con atto 18.6.02. I motivi di gravame addotti dagli appellanti possono riassumersi come segue. A) In primo luogo venivano impugnate le ordinanze dibattimentali con le quali il Tribunale aveva disposto d’ufficio la integrazione probatoria ai sensi dell’art. 441, co. 5, c.p.p., riguardante l’ipotesi del “sabotaggio”; per tale ipotesi dolosa era intervenuto in data 17.5.2001 decreto di archiviazione che aveva giudicato assolutamente insufficienti le affermazioni del prof. L. e le dichiarazioni della C. pervenendo ad una affermazione di sostanziale non plausibilità dell’ipotesi ricostruttiva dolosa: e il giudice del dibattimento, se poteva utilizzare tali atti, non poteva, neppure in via incidentale, compiere un accertamento sulla sussistenza del diverso reato per il quale era stata disposta l’archiviazione. L’esercizio del potere officioso di integrazione probatoria era stato, poi, esercitato fuori dai limiti previsti dagli artt. 438, co. 5, e 441, co 5, c.p.p., perché diretto a verificare ipotesi ricostruttive diverse e alternative a quelle contestate e , inoltre, di competenza di un giudice diverso. Quanto alla ordinanza del 5.11.2001, con la quale era stata disposta la trascrizione delle intercettazioni di conversazioni telefoniche eseguite nel procedimento N. 233/1998, si aggiungeva che i relativi risultati, ai sensi dell’art. 270 cpp, non potevano essere utilizzati. B) La tesi della volontaria diffusione dell’infezione appariva insostenibile anche storicamente per la insufficienza e inconsistenza degli elementi idonei a sostenerla: - non era stata verificata la possibilità di inserire un ago nel flacone ermeticamente chiuso; - non erano state verificate le conseguenze di ordine visivo che potevano derivare dalla introduzione di siero nella soluzione fisiologica, né era stato accertato quando e dove il G. avrebbe potuto procedere alla introduzione della sostanza contaminante in decine di flaconi che gli venivano consegnati in scatole confezionate ed alla presenza del conducente del furgone che lo aiutava nella distribuzione; - l’ipotesi era poi incompatibile con l’insorgere del secondo focolaio di contagio verificatosi nel periodo 15/20 dicembre 1997 in quanto la possibilità che fossero utilizzate flebo, rimaste in giacenza sin dal primo focolaio di due mesi prima, era stata smentita dalla caposala Vergoni Tiziana che aveva spiegato che le flebo venivano consegnate tutti i giorni dalla farmacia e che qualche rimanenza della giornata veniva utilizzata prima delle nuove; - ancora meno consistenti e affidabili erano le dichiarazioni della C.: dichiarazioni che erano sorte in una situazione di scarsa trasparenza, sembrando non spontanee ma maturate in una serie di incontri e riunioni tenuti presso lo studio del prof. L.: sospetto coincidente con quello del G. il quale in un passo della lettera da lui lasciata aveva detto che “le bugie andate a raccontare alla Magistratura sul suo conto erano state studiate a tavolino”; - le affermazioni della C. facevano poi ritenere che il G. fosse in possesso della provetta di sangue già alla ore 540, mentre i prelievi iniziavano alle 6: e tanto meno era possibile che la provetta fosse munita di una etichetta scritta a mano dato che era stato accertato che le etichette venivano stampate con il computer; - nessun serio argomento poteva trarsi dal suicidio del G.: semmai, sulla base dei dati disponibili, (contenuto della lettera e dichiarazioni della C. che bene lo conosceva e aveva detto di non aver mai creduto che fosse lui il presunto sabotatore), doveva interpretarsi come una protesta di innocenza e non come ammissione di colpevolezza. 243 C) L’infezione non aveva riguardato un solo paziente, bensì undici e la stessa si era diffusa tanto agli uomini quanto alle donne ospitati in camere diverse e, inoltre, vi erano stati due focolai di infezione a distanza di due mesi sicché era doveroso affermare, e non ipotizzare, che vi era stato un “veicolo” diffuso e costante che non poteva essere altro che la inosservanza frequente e generalizzata da parte di più soggetti delle norme universali di precauzione e delle procedure raccomandate, regole alla cui osservanza avrebbero dovuto, invece, vigilare in diverso modo gli imputati; e di tali comportamenti scorretti erano stati trovati puntuali riscontri nelle ispezioni, consulenze e deposizioni: G. Monica e P. Carlo avevano accertato e riferito che il prescritto uso dei guanti veniva disatteso dal personale; i protocolli di interesse igienistico adottati erano carenti e non conformi alle procedure raccomandate; le arcelle dove venivano poste le provette di sangue e le terapie da somministrare, dopo il loro utilizzo, non venivano disinfettate, ma semplicemente lavate, e lo stesso si verificava per i tavolinetti servi-pranzo. D) Dimostrata era la contaminazione ambientale del reparto, elemento cardine della catena causale e considerata quale fattore più importante della trasmissione del contagio: la presenza di materiale infettante sugli oggetti, sulle suppellettili e sulle superfici di lavoro aveva favorito la contaminazione dei farmaci, dei materiali e degli strumenti medicali. Ulteriori circostanze rivelatrici dell’avvenuta contaminazione ambientale e delle condizioni di carenza dal punto di vista igienico-sanitario nel reparto del prof. L. erano le seguenti: - rinvenimento nel crioconservatore di tracce di materiale antigenico del virus B; - conservazione delle provette contenenti il sangue dei prelievi in un contenitore aperto sul piano di lavoro dove veniva preparata la terapia infusiva; - porta lancette per i prelievi capillari che non veniva sostituito o decontaminato dopo ogni procedura; - presenza di flaconi multidose di eparina, momento di rischio potendo causare la contaminazione degli strumenti. E) Il mancato isolamento di C. P., che era stato alla base della diffusione del contagio e, poi, il tardivo isolamento dei pazienti P. e G., apparivano elementi costitutivi di una condotta medica impropria e negligente. Vi era stata, inoltre, l’omessa notifica di malattia infettiva che presentava il C.: una tempestiva comunicazione in proposito avrebbe consentito, agli organi preposti alla prevenzione delle infezioni ospedaliere, di mettere in atto gli accorgimenti necessari per evitare il pericolo di contagio nei confronti degli altri pazienti. Gli appellanti concludevano, quindi, nel senso che, dichiarate irrituali le ordinanze dibattimentali del 22.10.2001 e 5.11.2001 - con conseguente inutilizzabilità di tutti gli atti attraverso le stesse acquisiti e assunti - entrambi gli imputati fossero dichiarati colpevoli in ordine a quanto loro rispettivamente contestato. I difensori presentavano memorie a confutazione dei motivi di appello. L’Azienda Ospedaliera “San Salvatore” di Pesaro, responsabile civile, veniva estromessa dal giudizio a seguito della rinuncia all’appello della parte civile nel frattempo risarcita. La Corte d di Ancona, in accoglimento parziale delle censure degli appellanti, affermava la penale responsabilità del prof. L. — condannandolo, con il riconoscimento delle attenuanti generiche e la diminuzione per la scelta del rito, e con la concessione dei benefici di legge, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione — e confermava l’assoluzione del dottor F.. Quanto alla posizione del prof. L., la Corte distrettuale motivava il proprio convincimento con argomentazioni che possono riassumersi come segue. A) Le eccezioni di nullità delle ordinanze dibattimentali e della sentenza, sollevate dagli appellanti, non apparivano fondate. Nel giudizio abbreviato il giudice è titolare di un amplissimo potere istruttorio, per cui egli può assumere, anche d’ufficio, tutti i mezzi di prova che ritiene necessari per la sentenza di merito, quando ritenga di non essere in grado di decidere “allo stato degli atti”. Questo penetrante potere d’iniziativa probatoria — derivante dal combinato disposto degli artt. 441 e 422 c.p.p. — era stato legittimamente esercitato dal primo giudice che, contrariamente a quanto 244 sostenuto dagli appellanti, non aveva modificato la imputazione, non aveva formulato imputazioni a carico di terzi estranei al processo (il G., del resto, era già deceduto), ma aveva cercato, correttamente e doverosamente, di risolvere il problema fondamentale del nesso causale tra la condotta contestata e gli eventi mortali. Parimenti infondata sembrava l’eccezione di inutilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni di conversazioni telefoniche. Dette intercettazioni erano state legittimamente disposte nel corso delle indagini, i relativi atti facevano parte del fascicolo del Pubblico Ministero ed il Tribunale si era limitato a disporre la relativa trascrizione: dunque le parti non avrebbero potuto dedurre nel corso del giudizio abbreviato eccezioni riguardanti la validità e la utilizzabilità degli elementi acquisiti mediante tale mezzo di prova nelle indagini preliminari, non vertendosi in ipotesi di inutilizzabilità cd. patologica concernente esclusivamente atti probatori assunti “contra legem”. Destituita di fondamento era poi la tesi, sostenuta dalla difesa in sede di conclusioni, circa l’asserita inammissibilità dell’appello proposto dal Procuratore della Repubblica per aver questi precedentemente già presentato ricorso per cassazione. Osservava la Corte territoriale, in proposito, che detto gravame era stato dalla Suprema Corte convertito in appello con ordinanza del 21/11/2003 ed inoltre presentava lo stesso contenuto e le medesime conclusioni del secondo atto di impugnazione, onde doveva comunque essere preso in esame dalla Corte d’Appello. Sotto altro aspetto doveva, ancora, rilevarsi che: il dispositivo della sentenza aveva indicato chiaramente il termine di novanta giorni per la stesura della motivazione; la sentenza era stata depositata entro detto termine scadente il 6.5.2002; l’appello era stato tempestivamente presentato il 15/6/2002, dunque entro i successivi quarantacinque giorni previsti dall’art. 565, comma 1, lett.C, del codice di rito; anche la seconda impugnazione risultava pertanto tempestiva ed ammissibile in virtù dei principio secondo cui, mentre continua a decorrere il termine per impugnare, il potere di impugnazione continua a sussistere fino allo scadere del termine, onde la presentazione di un ricorso (valido o invalido) non pregiudica il successivo appello presentato ancora tempestivamente B) Passando al merito, la Corte d’Appello riteneva non condivisibile l’assunto del primo giudice secondo cui l’ipotesi dolosa del “sabotaggio” sarebbe risultata ragionevolmente configurabile ed addirittura dotata di maggiori elementi a sostegno sotto il profilo probatorio. A prescindere da qualsiasi valutazione circa l’attendibilità delle deposizioni testimoniali, la tesi accreditata dal Tribunale appariva incontrovertibilmente smentita dalla circostanza che l’insorgenza del secondo focolaio infettivo si era verificata verso la metà del mese di dicembre, cori l’identico ceppo del C. ma quando ormai quest’ultimo non figurava più tra i pazienti degenti nell’ospedale San Salvatore di Pesaro, essendo stato ricoverato sin dal 13 novembre 1997 presso l’ospedale di Fano dove era poi deceduto il 7 dicembre 1997; né era ipotizzabile che nel reparto di ematologia fosse residuata, perché non utilizzata, qualche flebo risalente all’ottobre precedente (epoca del primo focolaio) avendo la capo-sala Vergoni Tiziana chiarito che il rifornimento dalla farmacia era quotidiano e che eventuali rimanenze venivano consumate prima di utilizzare le nuove. In definitiva era da escludere in assoluto, in termini di certezza, che nel dicembre 1997 nel reparto di ematologia di quell’ospedale potesse essere disponibile sangue del C. da usare per l’inquinamento di ulteriori flebo: l’ipotesi del sabotaggio rimaneva una mera congettura del prof. L., processualmente insostenibile. E l’errore di giudizio del Tribunale — nel ritenere possibile e plausibile l’ipotesi dolosa — aveva finito con il viziare e condizionare irrimediabilmente il ragionamento giudiziario del Tribunale stesso, unitamente alla convinzione, parimenti fallace, che solo la individuazione diretta e concreta del veicolo contaminato, che aveva provocato il contatto ematico tra la fonte ed il soggetto ricevente, avrebbe potuto legittimare un giudizio di colpevolezza nei confronti di colui il quale rivestiva una posizione di garanzia nell’ambito del reparto: ed invero, sottolineava la Corte distrettuale, la dimostrazione della sussistenza di un fatto, non raggiungibile mediante la prova storica, ben avrebbe potuto essere ottenuta mediante la prova logica ai sensi del secondo comma dell’art. 192 del codice di rito. Nella concreta fattispecie, la ricerca della prova storica e diretta degli elementi di fatto indicati dal Tribunale era destinata a rimanere, come in effetti era rimasta, in gran parte vana. Le indagini, 245 invero, erano iniziate allorché il reparto di ematologia era stato interamente sanitizzato e le sue condizioni ambientali erano del tutto mutate; a causa del lungo periodo di incubazione dell’infezione e delle caratteristiche del reparto ove giornalmente venivano praticati innumerevoli interventi terapeutici, assistenziali e invasivi su innumerevoli pazienti e da innumerevoli operatori, insormontabile era stata la impossibilità di individuare i singoli e specifici comportamenti e le modalità operative, i singoli soggetti operanti, i singoli strumenti e presidi contaminati, ormai tutti eliminati. Si trattava di circostanze fattuali rimaste ignote, ma la cui esistenza poteva e doveva essere dimostrata con certezza mediante il procedimento logico disciplinato dal menzionato art. 192, comma 2, c.p.p. sulla base degli elementi che risultavano accertati sulla scorta delle altre acquisizioni probatorie. Sulla base degli accertamenti svolti e delle opinioni di autorevoli esperti la sentenza di primo grado aveva correttamente ritenuto acclarato le seguenti circostanze: i nove pazienti erano deceduti a causa di epatite virale fulminante contratta durante il periodo di ricovero nel reparto di ematologia; poiché il virus dell’epatite B si trasmette esclusivamente mediante contatto ematico, il contagio era necessariamente avvenuto mediante comportamenti concreti che avevano causato il passaggio per via ematica di sangue infetto ai pazienti contagiati Secondo la Corte d’Appello, uno soltanto poteva essere stato il meccanismo che aveva causato il contagio: vale a dire l’uso di veicoli contaminati per inosservanza delle precauzioni universali, solo questa e null’altro rendendola possibile (come si legge a pag. 33 della sentenza della Corte d’Appello). A tale conclusione inducevano le seguenti considerazioni: 1) non poteva prescindersi dalla legge scientifica, riferita da tutti gli esperti, secondo cui l’infezione ospedaliera da virus B avviene esclusivamente per via ematica, attraverso un veicolo contaminato e tale trasmissione è validamente evitata dalla osservanza delle prescritte e note precauzioni universali: 2) doveva escludersi, per il luogo in cui il contagio era avvenuto, che l’infezione potesse essere stata causata dall’uso di stupefacenti oppure da rapporti sessuali; 3) tutti i donatori di sangue erano stati controllati con esito negativo. E se solo detta inosservanza aveva reso possibile il contagio, bisognava ammettere, per deduzione logica certa - per come si legge testualmente nella sentenza della Corte d’Appello (pag. 34) – “l’esistenza di queste inosservanze da parte del personale del reparto di ematologia nello svolgimento delle pratiche assistenziali e terapeutiche dei pazienti: inosservanza che, per il suo carattere non occasionale ma frequente, ripetuto nel tempo e generalizzato verso innumerevoli pazienti, non doveva essere tollerata e doveva essere impedita dall’opera di vigilanza e controllo cui era tenuto per legge il responsabile del reparto”. Stando così le cose, appariva indubitabile la sussistenza del nesso causale in quanto dal giudizio controfattuale emergeva con chiarezza che, eliminate mentalmente le addebitate antidoverose omissioni, e supposta attuata la doverosa condotta di vigilanza e di controllo sull’osservanza, da parte del personale, delle prescritte precauzioni universali, con elevata credibilità e probabilità logica le ripetute e innumerevoli condotte operative scorrette non si sarebbero certamente verificate, l’infezione non sarebbe stata cagionata e gli eventi letali non si sarebbero prodotti. La Corte territoriale sottolineava, infine, che la ricostruzione del nesso causale, tra la condotta omissiva addebitata al prof. L. e l’evento, e la sua ritenuta sussistenza, trovavano conforto anche nel dato statistico. Precisava infatti in proposito la Corte d’Appello che gli autorevoli esperti della difesa avevano riferito che nei più qualificati reparti mondiali di ematologia il rischio fisso-inevitabile di contagio nosocomiale con HBV risulterebbe in genere attestato sull’ 1-2%; mentre il tasso di contagio negli ultimi cinque anni nel reparto di ematologia dell’Ospedale di Pesaro era stato dello 0,09%. Orbene, sottolineava quindi la Corte, tra l’agosto 97 e il gennaio 1998 in tale reparto erano stati ricoverati n. 104 pazienti suscettibili al virus dell’epatite B e si erano avute undici infezioni, con un tasso di contagio pari al 10,6%: la differenza tra il tasso fisso (0,09 ) e il tasso di contagio verificatosi (10,6), rappresentava dunque il coefficiente di aumento del rischio di infezione da attribuire - esclusa l’incidenza di fattori causali alternativi - alla condotta antidoverosa del responsabile del reparto per 246 la omessa vigilanza sulla negligente operatività del reparto stesso Avverso detta sentenza ricorre per cassazione, tramite il difensore, il prof L., deducendo, sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, e con articolate e diffuse argomentazioni, censure che possono riassumersi come segue. In rito, sulla scorta delle considerazioni già svolte dalla difesa in relazione all’appello presentato dal P.M. contro la sentenza assolutoria di primo grado, e disattese dalla Corte distrettuale con le considerazioni sopra ricordate, si ripropone l’eccezione di inammissibilità di detta impugnazione. I profili di violazione di legge e vizio motivazionale vengono dal ricorrente ravvisati nel percorso argomentativo seguito dalla Corte territoriale, sull’asserito rilievo che la Corte stessa, pur avendo dato atto di un assoluto deficit probatorio nella ricostruzione della vicenda in questione, ha poi tuttavia ritenuto di poter ugualmente addivenire alla pronuncia della penale responsabilità in capo al prof. L., in tal modo esprimendo un giudizio frutto di un evidente fraintendimento di principi logico-giuridici che governano la materia del nesso di causalità e fortemente ribaditi nelle statuizioni della Suprema Corte; in proposito il ricorrente ricorda in particolare la sentenza a Sezioni Unite, Franzese, osservando chi i criteri in essa indicati sarebbero stati disattesi dalla Corte distrettuale. Con il ricorso, attraverso un analitico richiamo delle risultanze acquisite, si deduce altresì la violazione dell’art. 192 deI codice di rito, atteso che la Corte d’Appello avrebbe fatto malgoverno delle regole di valutazione probatoria dettate da tale norma, avendo attribuito dignità di prova, all’esito di un processo asseritamente logico-deduttivo, ad un quadro indiziario caratterizzato da evidenti connotazioni di equivocità, incompletezza e superficialità, e quindi assolutamente privo dei necessari presupposti della gravità, concordanza e precisione richiesti per legittimare una pronuncia di condanna; e la fragilità dell’apparato motivazionale adottato dalla Corte territoriale troverebbe ulteriore conferma, secondo quanto sostenuto nel ricorso, nello stridente contrasto tra la condanna del prof. L. e l’assoluzione del dott. F.: sostanzialmente la Corte di merito avrebbe basato la sentenza di condanna a carico del prof L. su una imputazione riconducibile ad una mera responsabilità oggettiva del tutto estranea ai principi giuridici che costituiscono i cardini del nostro diritto penale. Con l’atto di gravame vengono infine mosse censure anche alla dosimetria della pena, ritenuta ingiustamente ed immotivatamente eccessiva, posto che la Corte d’Appello non avrebbe attribuito il dovuto rilievo alla eccezionalità dell’evento ed alla assoluta peculiarità dello svolgimento dei fatti, ed avrebbe nel contempo trascurato la personalità del prof L., da sempre impegnato con dedizione nella cura ed assistenza dei pazienti, ed insignito nel 2003 della medaglia d’oro conferitagli dal Presidente della Repubblica per i risultati conseguiti in campo scientifico e terapeutico. MOTIVI DELLA DECISIONE Per prima, in ordine logico, deve essere esaminata la censura concernente la questione circa l’ammissibilità dell’appello del Procuratore delta Repubblica avverso la sentenza di primo grado con la quale il prof. L. era stato assolto. La doglianza è priva di fondamenta come precisato dalla Corte d’Appello, allorquando il Procuratore della Repubblica (il quale inizialmente aveva presentato ricorso per cassazione) propose appello, non era ancora decorso il termine per proporre una valida impugnazione. Orbene, in ordine alla possibilità di proporre impugnazione valida (comprensiva anche dell’enunciazione dei motivi) da parte del soggetto legittimato, dopo un primo atto di gravame, nonché di presentare distintamente ed in momenti successivi la dichiarazione di impugnazione ed i motivi a sostegno del gravame — ovviamente a condizione che non sia decorso il termine stabilito per l’impugnazione, e che non sia nel frattempo intervenuta una decisione di merito sull’impugnazione stessa (cfr., a tale ultimo riguardo, Sez. 5, n. 1638/92, Caporaso, RV. 192336) — si è ripetutamente pronunciata in senso positivo questa Corte dando vita ad un indirizzo interpretativo che può ormai definirsi assolutamente consolidato; quali sentenze conformi a tale orientamento si segnalano, “ex plurimis”, ed a titolo esemplificativo, le seguenti: Sez. 1, n. 6029/00, Creanza, RV. 215328; Sez. 3, n. 7162/93, Freschi, RV 195151, secondo cui “è ammissibile l’impugnazione (nella specie ricorso per 247 cassazione), quando, pur essendo stata presentata la sola dichiarazione di gravame senza motivi, l’atto venga rinnovato nei termini integralmente attraverso il deposito di un documento unico, contenente sia la parte dichiarativa, che quella argomentativa”; Sez. 4, n. 2759/93, Giannoccaro, RV. 194098, secondo cui mentre continua a decorrere il termine per impugnare, la presentazione di un ricorso (invalido) non esaurisce il potere di impugnazione, che continua fino allo scadere del termine”. D’altra parte, in virtù del principio della conservazione degli atti e di quello di conversione dell’impugnazione (l’uno e l’altro più volte affermati in giurisprudenza ed avallati anche dall’autorevole intervento delle Sezioni Unite di questa Corte, con la decisone n. 45371/01, Bonaventura, RV. 220221) l’iniziale ricorso del P.M. avrebbe comunque comportato la conversione del gravame in appello: il che è puntualmente avvenuto, avendo questa Corte, con ordinanza del 21/1/2003, disposto appunto la conversione del gravame in appello. Fondati risultano invece, nei termini che di seguito saranno precisati, gli ulteriori motivi di ricorso che, sul piano metodologico, ben possono formare oggetto di una globale valutazione, attenendo gli stessi sostanzialmente, e sia pure nella loro singola formulazione, alla denuncia di profili di violazione di legge e vizio motivazionale con riferimento, per un verso, alla individuazione della causa che determinò il diffondersi dell’epatite B tra i pazienti ricoverati nel reparto diretto dal prof. L., e, per altro verso - avuto riguardo alle condotte addebitate allo stesso prof. L. — alla riconducibilità dell’evento almeno ad una di tali condotte. Per un corretto inquadramento della problematica posta con il ricorso, appare indispensabile soffermarsi preliminarmente sull’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in tema di nesso di causalità con specifico riferimento alla condotta omissiva in materia di colpa professionale medica. In epoca meno recente è stato talora affermato che a far ritenere la sussistenza del rapporto causale, “quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo..., sono sufficienti” (Sez. 4, n. 4320/83); in altra occasione si è specificato che, pur nel contesto di una “probabilità anche limitata”, deve trattarsi di serie ed apprezzabili possibilità di successo” (considerandosi rilevante, alla stregua di tale parametro, una possibilità di successo del 30 %: Sez. 4, n. 371/92); altra volta, ancora, non aveva mancato la Suprema Corte di affermare che “in tema di responsabilità per colpa professionale del medico, se può essere consentito il ricorso ad un giudizio di probabilità in ordine alla prognosi sugli effetti che avrebbe potuto avere, se tenuta, la condotta dovuta. ., è necessario che l’esistenza del nesso causale venga riscontrata con sufficiente grado di certezza, se non assoluta.. almeno con un grado tale da fondare su basi solide un’affermazione di responsabilità, non essendo sufficiente a tal fine un giudizio di mera verosimiglianza” (Sez. 4, n. 10437/93). In tempi meno remoti la prevalente giurisprudenza di questa Corte ha costantemente posto l’accento sulle “serie e rilevanti (o apprezzabili) possibilità di successo”, sull’ “alto grado di possibilità”, ed espressioni simili (così, Sez. 4, n. 1126/2000: nella circostanza è stata apprezzata, a tali fini, una percentuale del 75 % di probabilità di sopravvivenza della vittima, ove fossero intervenute una diagnosi corretta e cure tempestive). Alla fine dell’anno 2000 la Suprema Corte in due occasioni (Sez. 4, 28 settembre 2000, Musto, e Sez. 4, 29 novembre 2000, Baltrocchi) ha poi sostanzialmente rivisto “ex novo” la tematica in questione procedendo ad ulteriori puntualizzazioni. In tali occasioni è stato invero rilevato che “il problema del significato da attribuire alla espressione «con alto grado di probabilità».... non può essere risolto se non attribuendo all’espressione il valore, il significato, appunto, che le attribuisce la scienza e, prima ancora, la logica cui la scienza si ispira, e che non può non attribuirgli il diritto”; ed è stato quindi affermato che “per la scienza” non v’è alcun dubbio che dire «alto grado di probabilità», «altissima percentuale», «numero sufficientemente alto di casi», voglia dire che, in tanto il giudice può affermare che una azione o omissione sono state causa di un evento, in quanto possa effettuare il giudizio controfattuale avvalendosi di una legge o proposizione scientifica che «enuncia una connessione tra eventi in una percentuale vicina a cento»....”, questa in sostanza realizzando quella “probabilità vicina alla certezza”. Successivamente (Sez. 4, 231112002, dep. 1O/6 Orlando) è stata sottolineata la distinzione tra la probabilità statistica e la probabilità logica, ed è stato evidenziato come una percentuale statistica pur alta possa non avere alcun valore eziologico 248 effettivo quando risulti che, in realtà, un certo evento è stato cagionato da una diversa condizione; e come, al contrario, una percentuale statistica medio-bassa potrebbe invece risultare positivamente suffragata in concreto dalla verifica della insussistenza di altre possibili cause esclusive dell’evento, di cui si sia potuto escludere l’interferenza. E’ stato dunque richiesto l’intervento delle Sezioni Unite in presenza del radicale contrasto che nel tempo si era determinato all’interno della giurisprudenza di legittimità tra due contrapposti indirizzi interpretativi in ordine alla ricostruzione del nesso causale tra condotta omissiva ed evento, con particolare riguardo alla materia della responsabilità professionale del medico-chirurgo: secondo talune decisioni, che hanno dato vita all’orientamento delineatosi più recentemente, sarebbe necessaria la prova che un diverso comportamento dell’agente avrebbe impedito l’evento con un elevato grado di probabilità “prossimo alla certezza”, e cioè in una percentuale di casi prossima a cento”; secondo altre decisioni sarebbero invece sufficienti “serie ed apprezzabili probabilità di successo” per l’impedimento dell’evento. Le Sezioni Unite si sono quindi pronunciate con la sentenza Franzese già sopra citata, con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che appare opportuno qui sinteticamente ricordare: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica — universale o statistica — si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” 3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative — la cd. giustificazione esterna — della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi sopra ricordati, maggiormente verso quello delineatosi in tempi più recenti. L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce tuttavia a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale “condicio sine qua non” di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale) in termini di certezza, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sè altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla “certezza processuale” che, in quanto tale, non 249 può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: “certezza” che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico - analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’art. 192 del codice di procedura penale - che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva “al di là di ogni ragionevole dubbio” (vale a dire, con “alto o elevato grado di credibilità razionale o logica”) Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare «giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica”» Ciò detto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne occupa, l’<> argomentativo seguito dai giudici di seconda istanza — posto a fondamento del convincimento della responsabilità del prof. L. - sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle Sezioni Unite. La risposta è negativa li primo punto fermo che le Sezioni Unite hanno inteso ribadire — che peraltro ha rappresentato sempre, a prescindere dall’indirizzo interpretativo di volta in volta seguito, il necessario presupposto fattuale di partenza, ai finii dell’accertamento della penale responsabilità del medico per colpa omissiva — è che, nella ricostruzione del nesso eziologico, non può assolutamente prescindersi dall’individuazione di tutti gli elementi concernenti la causa dell’evento: solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Orbene, al riguardo la sentenza impugnata — all’esame retrospettivo demandato a questa Corte circa la logicità e razionalità delle argomentazioni giustificative addotte dalla Corte d’Appello di Pesaro a fondamento della propria statuizione — si presenta frammentaria, incoerente, nonché illogica anche con riferimento a quel dato statistico che la Corte stessa ha inteso interpretare e valutare come elemento probatorio a carico dell’imputato e di cui appresso specificamente si dirà. Ciò che inficia in radice il ragionamento seguito dai giudici dell’appello è proprio la mancata individuazione delle modalità della trasmissione del virus dell’epatite B ai pazienti ricoverati nel reparto del prof. L.: quale fu il mezzo o lo strumento di trasmissione del virus? Quale fu la specifica condotta sanitaria che determinò il contagio? Trasfusione? Somministrazione di terapia? Prelievo di sangue? A tali interrogativi i giudici di appello non hanno fornito alcuna risposta, né hanno approfondito l’indagine al riguardo - sulla scorta delle risultanze documentali, scientifiche e testimoniali acquisite - ma hanno ritenuto appagante, sul piano della ricostruzione del nesso eziologico ed ai fini dell’attribuibilità dell’evento alla penale responsabilità del prof. L., l’elemento probatorio costituito dai residui ematici rinvenuti “in loco” (anche in contenitori) in quanto rivelatori di una prassi scorretta determinatasi nel reparto di ematologia ed addebitabile all’omessa vigilanza da parte del responsabile del reparto stesso. Non è condivisibile sul piano metodologico — e nel rispetto dei principi enunciati nella sentenza Franzese, che, peraltro, come si vedrà, la stessa Corte di merito non ha mancato di evocare — l’affermazione dei giudici di secondo grado laddove hanno ritenuto erroneo il convincimento del primo giudice nella parte in cui questi ha sottolineato sia la necessità della individuazione diretta e concreta del veicolo contaminato, che aveva provocato il contatto ematico tra fonte ed ospite, sia la necessità, conseguentemente, della individuazione delle circostanze e modalità dei comportamenti assistenziali e terapeutici scorretti sui pazienti contagiati (nonché dei soggetti che tali comportamenti avevano posto in essere): al contrario, e come evidenziato nella sentenza di primo grado, l’accertamento di tali circostanze costituisce proprio la base fattuale necessaria da cui muovere per una corretta e compiuta valutazione della condotta del prof. L., cui è stato mosso l’addebito di omicidio colposo plurimo con una contestazione di condotta omissiva che, 250 sostanzialmente, sarebbe risultata connotata, per quanto si rileva dalla motivazione della Corte distrettuale, principalmente da uno dei profili di colpa contestati con il capo di imputazione: vale a dire, la omessa vigilanza che avrebbe favorito l’ instaurarsi di una prassi scorretta nell’andamento del reparto ed il verificarsi di una contaminazione ambientale. E se così è, appare evidente che soltanto individuando il veicolo dei contagio (o comunque le concrete modalità con le quali il contagio è avvenuto) è possibile dare un contenuto fattuale alla enunciata omessa vigilanza, tenendo comunque sempre presente che il responsabile di un reparto ben può fare affidamento sulla diligenza e professionalità dei suoi collaboratori (cfr., in proposito, Sez. 4, n. 1095/96, RV. 205212) ove non vi siano motivi per nutrire dubbi sulla diligenza e sulle capacità professionali di costoro (e, sulla scorta delle sentenze di primo e secondo grado, non risulta accertata la presenza, nel reparto del prof. L., e nel periodo relativo agli avvenimenti in oggetto, di personale inaffidabile); non può invero richiedersi al primario — pur attribuendo a costui l’ari 63 del D.P.R. 20 dicembre 1979 n 761 il potere-dovere di “impartire istruzioni e direttive ed esercitare la verifica inerente all’attuazione di esse” - di essere costantemente al fianco di ogni singolo operatore sanitario del suo reparto, ed in occasione di ogni singolo contatto tra l’operatore ed il paziente. Non essendo consentita nel nostro ordinamento un’imputazione a titolo di responsabilità penale oggettiva solo l’accertamento della condotta in concreto posta in essere da un operatore di un reparto può consentire di stabilire se detta condotta possa essere o meno imputabile al primario del reparto sono il profilo della violazione dell’obbligo di vigilanza o della erroneità delle direttive impartite. Ciò posto, e ritornando all’esame della concreta fattispecie “de qua”, ne deriva che i giudici di merito avrebbero dovuto individuare e specificare l’obbligo di vigilanza in concreto violato dal prof. L.: sulla condotta del personale paramedico, e di chi in particolare? sulla condotta dei medici del reparto, e di quale medico in particolare? sulle condizioni di sterilizzazione degli specifici strumenti adoperati di volta in volta nei confronti dei pazienti contagiati? La Corte d’Appello, da un lato, ha censurato il ragionamento del primo giudice il quale aveva ritenuto di non poter pervenire ad un’affermazione di colpevolezza del L. in mancanza dell’accertamento dei dati di fatto appena ricordati, ma poi, per altro verso (non mancando di evidenziare le ragioni che rendevano comunque arduo dello accertamento), ha dimostrato di avvertire la necessità della individuazione di tali circostanze fattuali, laddove (pag. 33 della sentenza) ha affermato testualmente che la esistenza di elementi di fatto rimasti ignoti “poteva e doveva essere dimostrata con certezza mediante il procedimento logico disciplinato dall’art. 192. secondo comma, del codice di procedura penale. “sulla base dei fatti che risultavano accertati dalle altre acquisizioni probatorie”. Orbene, anche ai fini della ricostruzione del nesso di causalità in ipotesi di reato colposo per condotta omissiva è certamente corretto, come prima detto, il ricorso allo strumento di cui al secondo comma dell’art. 192 del codice di rito (ed in tal senso si è pronunciata questa Corte già in altre occasioni), ma detto procedimento richiede massima cautela e particolare rigore (trattandosi comunque di ragionamento induttivo) e deve avere come obiettivo proprio l’accertamento di quei fatti che possono poi condurre all’individuazione in concreto di una condotta colposa omissiva, in relazione alla quale sia quindi possibile procedere al giudizio controfattuale, e legittimare quindi un’affermazione di penale responsabilità che abbia un fondamento probatorio, relativamente alla ritenuta sussistenza del nesso causale, in termini di certezza, intesa, quest’ultima, come innanzi ricordato, nel significato di certezza processuale Dunque la Corte d’Appello ha affermato che era possibile pervenire all’individuazione di fatti ignoti (perché evidentemente considerati indispensabili ai fini della valutazione della posizione del prof. L.), utilizzando lo strumento probatorio previsto dal secondo comma dell’art. 192 c.p., “sulla base dei fatti che risultavano accertati dalle altre acquisizioni probatorie” (per come si legge testualmente a pag. 33 della sentenza impugnata) La Corte di merito ha quindi elencato le circostanze fattuali ritenute pacificamente acquisite, ed in particolare: a) nove pazienti erano deceduti a causa di epatite virale fulminante contratta durante il periodo di ricovero nel reparto del 251 prof. L.; b) il contagio era avvenuto necessariamente mediante comportamenti concreti che avevano comportato il passaggio per via ematica di sangue infetto ai pazienti contagiati, posto che il virus dell’epatite B si trasmette mediante contatto ematico o per via sessuale, e dovendosi escludere questa seconda ipotesi tenuto conto della situazione ambientale in cui il fatto era avvenuto; c) doveva escludersi la contaminazione delle flebo perché tutti i donatori di sangue erano stati controllati con esito negativo. Muovendo da tali premesse fattuali, la Corte d’Appello ha ritenuto di poter poi trarre le seguenti conclusioni: 1) non essendo pensabili vari e molteplici meccanismi dell’infezione, un solo meccanismo poteva averla causata: l’uso di veicoli contaminati per l’inosservanza delle precauzioni universali, “solo questo e null’altro rendendola possibile”; 2) sì doveva dunque ammettere per “deduzione logica certa” l’esistenza di questa inosservanza da parte del personale del reparto di ematologia nelle pratiche assistenziali e terapeutiche dei pazienti, inosservanza che per il suo carattere non occasionale ma frequente, ripetuta nel tempo e generalizzata verso innumerevoli pazienti, “non doveva essere tollerata e doveva essere impedita dall’opera di vigilanza e di controllo cui era tenuto per legge il responsabile del reparto” (pag. 34 della sentenza). Il percorso argomentativo seguito dalla Corte distrettuale presenta evidenti connotazioni di contraddittorietà ed illogicità, posto che le conclusioni cui la stessa è pervenuta non appaiono in sintonia con le premesse. Ed invero, all’esito del procedimento di valutazione probatoria, condotto per affermazione della stessa Corte — alla stregua dei criteri di cui al secondo comma dell’ad. 192 c.p.p., non pare possano dirsi accertati quegli elementi fattuali che il primo giudice aveva ritenuto non individuabili (in particolare, condotte di operatori sanitari del reparto e/o strumenti quali possibili occasioni o veicoli di trasmissione del virus, etc.) e la cui esistenza, ad avviso della Corte di merito, sarebbe stato invece possibile accertare. La Corte d’Appello è pervenuta alla affermazione della colpevolezza del prof. L. basandosi essenzialmente su quelle che notoriamente, sulla scorta delle nozioni scientifiche acquisite nel patrimonio conoscitivo della scienza medica, sono le condizioni che, in generale, rendono possibile un contagio da virus dell’epatite B: contatto ematico e, quindi, inosservanza di precauzioni e cautele nelle manovre che comportano l’utilizzo del sangue; condizioni che la Corte stessa ha ritenuto essersi verificate nel reparto del prof. L. a causa della inosservanza delle dette cautele e precauzioni - inosservanza non occasionale ma frequente e ripetuta nel tempo — da parte del personale sanitario in attività in quel reparto. Ma ciò non può essere ritenuto sufficiente - alla luce dei principi da osservare in tema di ricostruzione del nesso causale in ipotesi di condotta colposa omissiva - per ricondurre i decessi, verificatisi nel reparto diretto dal prof L., ad omissioni di quest’ultimo, se non viene innanzi tutto individuata, all’esito di un approfondito esame del materiale probatorio acquisito (ed ovviamente ove possibile), la causa mater del contagio: elemento che rappresenta il dato fondamentale ed indispensabile per poter prima individuare in concreto l’omissione in cui i! prof. L. sarebbe incorso e poi procedere al giudizio controfattuale e verificare se ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento “hic et nunc”, questo non si sarebbe verificato. E vi è di più. Nel procedere all’accertamento della sussistenza del nesso di causalità, il giudice è chiamato — come precisato anche dalle Sezioni Unite nella sentenza Franzese più volte richiamata — a verificare anche che non vi sia stata l’interferenza di fattori alternativi a quella causa dell’evento ipotizzata come riconducibile alla condotta colposa addebitata all’agente. Nella concreta fattispecie, il primo giudice (la cui sentenza assolutoria, anche perché riformata in secondo grado, ben può essere oggetto di esame da parte di questo Collegio in relazione ai motivi di censura dedotti dal ricorrente) aveva motivatamente ritenuto non del tutto infondata - considerandola ipotesi ragionevole, pur se priva di adeguato conforto probatorio - la tesi del sabotaggio, prospettata dallo stesso prof. L. nella fase delle indagini preliminari (ed oggetto di attività investigativa, poi rimasta peraltro senza sbocchi positivi appunto per la mancanza di concreti ed inequivoci elementi probatori cui poter ancorare tale ipotesi); ed il Tribunale aveva dato conto del proprio convincimento al 252 riguardo richiamando analiticamente e specificamente deposizioni testimoniali (addirittura riportandone parzialmente il contenuto), dati cronologici ed ulteriori risultanze processuali anche con riferimento a perquisizione eseguita presso l’abitazione di Claudio G. (un portantino già allontanato dal reparto, e sospettato quale possibile autore dell’ipotizzato sabotaggio e poi suicidatosi), non mancando di sottolineare altresì il collegamento tra la convocazione del G., per essere posto a confronto con persone già esaminate, ed il suo suicidio, nonché l’atteggiamento, rivelatore di preoccupazione e mutamento di umore, assunto dal G. stesso dopo aver ricevuto la notifica dell’avviso di quella convocazione (pag. 87 della sentenza di primo grado). Ebbene, al riguardo la Corte d’Appello ha omesso di confutare le specifiche argomentazioni addotte dal primo giudice e di neutralizzare analiticamente quegli elementi (privi, si, di connotazioni di significativo spessore probatorio, ma pur sempre indiziari e deduttivi) che il Tribunale aveva tratto dalle risultanze processuali utilizzandoli per corroborare il proprio percorso motivazionale. La Corte territoriale ha ritenuto priva di fondamento la tesi del sabotaggio, argomentando sulla scorta di dati che scaturiscono però da circostanze fattuali e temporali riconducibili a condizioni di normalità circa l’attività del reparto, vale a dire: a) sarebbe inverosimile che il G. potesse avere tra le mani una provetta riferibile al C. con il nome di costui scritto a penna, perché le etichette con i nominativi venivano stampate a computer; b) sarebbe da escludere che il G. potesse essere in possesso di detta provetta alle ore 5,40 perché i prelievi non iniziavano prima delle 6; c) sarebbe impossibile che quella provetta potesse essere riferibile ai prelievi del giorno precedente, tenuto conto che le provette dei prelievi, se non richieste dal laboratorio di analisi, venivano eliminate entro le ore 11,30 dello stesso giorno: d) l’insorgenza del secondo focolaio si era verificata verso la metà del mese di dicembre, allorquando il C. non era più ricoverato in quell’ospedale, essendo stato ricoverato sin dal 13 novembre 1997 all’ospedale di Fano dove era poi deceduto il 7 dicembre 1997; e) non era possibile che nel reparto di ematologia fosse residuata qualche flebo non utilizzata risalente all’ottobre precedente (epoca del primo focolaio) avendo la capo-sala chiarito che il reparto veniva rifornito ogni giorno dalla farmacia delle flebo occorrenti e che eventuali rimanenze potevano permanere in reparto solo pochissimi giorni. Orbene, non sembra che tali circostanze (singolarmente o globalmente considerate), indicate dalla Corte distrettuale come idonee a smentire l’ipotesi dolosa di un sabotaggio, rivestano quell’assoluta efficacia probatoria tale da indurre ad escludere che sangue infetto, una volta acquisito, possa essere stato custodito al di fuori dell’ambiente ospedaliero per essere poi di volta in volta utilizzato per gli atti di sabotaggio da compiere; d’altra parte atti dolosi di sabotaggio non potevano certo essere compiuti se non al di fuori dell’osservanza del corretto protocollo di comportamento. Di tal che, le diffuse argomentazioni del primo giudice, relativamente all’ipotesi del sabotaggio, non risultano adeguatamente contrastate e neutralizzate dalla motivazione adottata dalla Corte d’Appello in proposito. E trattasi di questione che riveste non poca importanza, vertendosi in tema di ricostruzione del nesso di causalità in presenza di reato colposo contestato su presupposto di una condotta omissiva. Infatti, come innanzi ricordato nel richiamare i principi enunciati da questa Corte in materia (in particolare dalle Sezioni Unite), il giudice del merito deve verificare la validità dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito dei ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con “alto o elevato grado di credibilità razionale” o “probabilità logica” con la conseguenza che l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio. E giova sottolineare che il Tribunale, dopo aver ritenuto sfornito di prova il modello ricostruttivo proposto dai consulenti tecnici del Pubblico Ministero, e nel rimandare ad un momento successivo del suo percorso motivazionale l’esame dell’ipotesi del 253 sabotaggio (poi, come sopra detto, dettagliatamente analizzata), aveva sottolineato che detto modello non appariva comunque idoneo “ad escludere ipotesi diverse ed altrettanto ragionevoli quale ad esempio quella di comportamenti posti in essere da un singolo operatore, o da singoli operatori in dispregio delle precauzioni elementari, quelle note a tutti perché costituiscono l’A.B.C. della professione sanitaria, quali l’utilizzo di siringhe monouso o il cambio dei guanti da paziente a paziente, a prescindere da qualsiasi ulteriore istruzione o protocollo, o comunque in dispregio delle istruzioni dei medici o della caposala”, aggiungendo poi che “il già rilevato carattere eccezionale degli accadimenti oggetto del processo rispetto ad una normale e non contaminata vita del reparto, non soltanto dopo la sanitizzazione ma anche negli anni precedenti, rende plausibile anche questa seconda ipotesi interpretativa” (così testualmente si legge a pag. 56 della sentenza di primo grado). Come già accennato, ulteriori connotazioni di illogicità, e contraddittorietà, presenta l’impugnata sentenza nella parte relativa alla valutazione del dato statistico concernente il tasso di contagio nel reparto di ematologia dell’ospedale di Pesaro. La Corte d’Appello ha richiamato i dati forniti dalla difesa secondo cui negli ultimi cinque anni (prima del 1997), il rischio fisso-inevitabile di contagio nosocomiale con epatite B, nei più qualificati reparti mondiali di ematologia, era risultato dell’12%, a fronte dello 0,09% registrato nello stesso periodo nel reparto di ematologia dell’ospedale di Pesaro. La Corte d’Appello, dopo aver evidenziato che nel breve periodo dall’agosto 1997 aI gennaio 1998 erano stati registrati undici casi di infezione, con un tasso di contagio pari al 10,6% (essendo stati ricoverati 104 pazienti suscettibili all’HBV), ha ritenuto, considerando evidentemente attendibili e condivisibili i dati forniti dalla difesa, che la differenza tra il tasso fisso (0,09%) ed il tasso di contagio verificatosi (10,6%), pari al 10,5%, fosse riconducibile alla condotta antidoverosa del responsabile del reparto (per la omessa vigilanza sulla negligente operatività del reparto stesso) ed offrisse dunque la verifica aggiuntiva della sussistenza del nesso causale omissivo. Orbene, appare contraddittorio il ragionamento della Corte territoriale, laddove attribuisce la responsabilità al L. di fatti verificatisi in un breve arco temporale (agosto i 997-gennaio 1998), dopo aver precedentemente affermato che la colpa del L. era ravvisabile nella omessa vigilanza su condotte scorrette del personale medico e paramedico del reparto caratterizzate dall’inosservanza di doverose precauzioni e cautele, inosservanza non occasionale ma frequente e ripetuta nel tempo: affermazione quest’ultima assolutamente contraddittoria con il dato statistico (accettato dalla Corte di merito) secondo cui addirittura in un significativo arco di tempo, pari ad un quinquennio, nel reparto di ematologia dell’ospedale di Pesaro era stato registrato un tasso di contagio per l’epatite B inferiore persino ai più qualificati reparti mondiali di ematologia. Proprio il dato statistico evidenziato dalla Corte distrettuale avrebbe dovuto indurre ad un esame particolarmente approfondito alla ricerca di quel “quid” che aveva improvvisamente determinato un innalzamento del tasso di contagio nel reparto, assolutamente al di fuori dell’ordinario standard che per anni si era mantenuto costante ed in linea con i più qualificati ospedali del mondo. Da ultimo, va sottolineato che il ricorrente, nel contesto delle sue articolate censure mosse alla sentenza di secondo grado, ha esaminato, allo scopo di dimostrarne l’insussistenza secondo l’ottica difensiva, anche gli ulteriori profili di colpa, addebitati al prof. L. con il capo di imputazione e richiamati dal Pubblico Ministero con l’atto di appello, vale a dire l’asserito mancato isolamento funzionale del paziente C. (fonte del contagio) e le condotte omissive successive al contagio (contestate ai capi e e k del capo di imputazione) ivi compresa la mancata notifica dell’insorgenza della malattia infettiva. Su tali punti non ha mancato di soffermarsi specificamente e diffusamente il Tribunale il quale, in ordine alla prima questione, ha escluso che potesse considerarsi acquisita la prova di un mancato isolamento funzionale del C. (non essendo prescritto l’isolamento fisico), e, quanto alle condotte successive all’avvenuto contagio, ha precisato, in particolare, che gli stessi consulenti tecnici nominati dal Pubblico Ministero avevano precisato che ritardi e carenze — sia sul piano terapeutico che sanitario — non avevano assunto rilevanza causale in ordine al decesso dei pazienti, non essendo possibile sostenere che una diagnosi più tempestiva, l’adozione di immunoprofilassi attiva e passiva, l’adozione di terapie anche nuove, avrebbero evitato la morte dei pazienti contagiati. Orbene. questi peculiari elementi di colpa risultano trascurati nel percorso 254 motivazionale seguito dalla Corte distrettuale che ha ritenuto, per dar conto del suo convincimento di colpevolezza del prof. L., dì soffermarsi esclusivamente sulla (addebitata) omessa vigilanza, da parte del prof. L. stesso, sull’attività del personale medico e paramedico presente nel reparto, nonché sulle condizioni del reparto, ritenendo provata tale condotta omissiva, e considerandola quale causa dell’evento in base alle argomentazioni innanzi ampiamente ricordate e ritenute da questo Collegio inficiate dai vizi motivazionali quali sopra evidenziati. Ne deriva che qualsiasi esame, in ordine a profili di colpa non valutati dalla Corte distrettuale, è in questa sede superfluo, non essendo state specificamente contrastate, con la sentenza di secondo grado, le considerazioni in chiave assolutoria svolte in proposito dal Tribunale (pur oggetto di censura nell’atto di appello del P.M.. come peraltro ricordato anche dalla Corte territoriale nella parte descrittiva dello “svolgimento del processo”). Alla stregua di tutte le suesposte considerazioni, l’impugnata sentenza deve essere annullata, con rinvio, per nuovo esame, alla Corte d’Appello di Perugia (essendo la Corte d’Appello di Ancona composta da un’unica sezione penale) che terrà conto dei principi di diritto e dei rilievi motivazionali di cui sopra. Resta ovviamente assorbita la doglianza del ricorrente in ordine al trattamento sanzionatorio P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte Roma, 25 maggio 2005 Depositata in cancelleria il 12 luglio 2005. -Datore di lavoro ed infortunio sul luogo di lavoro: perché l’agente possa essere ritenuto colpevole non è sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma è necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell’evento. Se dunque quella conseguenza dell’azione non è stata prevista perchè non era prevedibile non vi è responsabilità per colpa. E’ sempre necessaria una prevedibilità in concreto dell’evento negativo. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 23 marzo 2007, n.12246 - Presidente Marzano ¨C Relatore Brusco La Corte osserva: 1) Il tribunale di Palmi, sez. dist. di Cinquefrondi, con sentenza 8 giugno 2005, ha assolto Scarf¨° Giuseppe dai reati di cui agli articoli 11 comma 1 e 389 lett. b del Dpr 547/55 e 589 Cp in danno di Napoli Massimo. I fatti che hanno dato origine al processo sono avvenuti in Taurianova il 3 maggio 2002. La Srl Cannat¨¤ Vincenzo aveva appaltato alla ditta Italsud di cui era titolare l¡¯ odierno imputato Scarf¨° Giuseppe i lavori di costruzione di un muro di recinzione di un capannone che doveva avvenire mediante l¡¯ assemblamento di blocchi di cemento prefabbricati. Mentre erano in corso i lavori di costruzione del muro, si legge nella sentenza impugnata, ¡°una folata di vento provocava il crollo di un pannello, eretto qualche giorno prima, addosso all¡¯ operaio di 2¡ã livello Napoli Massimo che, schiacciato dal peso dei blocchi di cemento, nonostante il pronto intervento dei colleghi di lavoro, della Polizia e del 118, giungeva all¡¯ Ospedale cadavere.¡± La sentenza impugnata riferisce che il perito nominato dal Gip aveva concluso nel senso che la metodologia ottimale per la costruzione sarebbe stata quella di realizzare prima i pilastri per ridurre il rischio di crollo dei pannelli. In ogni caso, poich¨¦ si era scelto di realizzare preliminarmente la struttura costituita dai pannelli, sarebbe stato necessario, fino alla realizzazione dei pilastri irrigidenti in cemento armato e fino alla completa maturazione della malta cementizia (che non poteva avvenire prima del quarto quinto giorno) allestire opere provvisionali di sostegno dei pannelli. 255 La sentenza peraltro rileva che il Pm ha contestato soltanto la violazione della seconda regola cautelare (mancato allestimento delle opere provvisionali di sostegno) e non anche la scelta di realizzare prima i pannelli e poi i pilastri di sostegno. Il giudice rileva comunque che, poich¨¦ il ribaltamento dei pannelli ¨¨ stato reso possibile dalla mancata completa maturazione della malta, non ¨¨ possibile affermare, al di l¨¤ di ogni ragionevole dubbio, che, se anche fossero stati realizzati prima i pilastri, si sarebbe evitato il ribaltamento del muro. Ci¨° premesso, la sentenza si pone il problema se possa applicarsi al caso in esame il contestato articolo 11 del Dpr 547/55 e lo risolve nel senso che pur ammettendone l¡¯ applicabilit¨¤ con un¡¯ interpretazione estensiva ovvero in virt¨´ ¡°delle generali norme di diligenza, prudenza e perizia¡± le caratteristiche dell¡¯ opera non imponessero l¡¯ adoz¨ªone di opere provvisionali in considerazione della semplicit¨¤ della struttura e facilit¨¤ della sua realizzazione, della rapidit¨¤ dei tempi di solidificazione, delle ridotte dimensioni dell¡¯ opera (i pannelli misuravano mt. 1,90 x 2,70), dell¡¯ assenza, ¡°in base ad un legittimo giudizio prognostico, di condizioni atmosferiche locali avverse o pericolose¡±. Con una valutazione ex ante le opere provvisionali non erano dunque richieste e il loro approntamento era ¡°assolutamente spropositato¡± r¨spetto alle dimensioni dell¡¯ opera. Vista la natura e le caratteristiche dell¡¯ opera la sentenza si chiede poi se incombesse su Scarf¨° l¡¯ obbligo di vigilare nel cantiere per evitare, nel caso si fosse alzato un forte vento, che qualcuno operasse in prossimit¨¤ della struttura ancora instabile. E afferma che, in assenza di Scarf¨° (cosa che avveniva frequentemente) il preposto era la persona offesa che dunque o avrebbe operato imprudentemente presso la struttura malgrado il forte vento ovvero (come rit¨ene pi¨´ probabile il giudice anche sulla base delle testimonianze di cui riporta la sintesi) la folata che ha provocato il crollo della struttura ¨¨ stata tanto violenta quanto improvvisa. In conclusione la sentenza impugnata ritiene che la folata di vento che ha provocato la caduta della struttura vada giuridicamente inquadrata nel caso fortuito trattandosi di ¡°un avvenimento imprevisto ed imprevedibile che si inserisce improvvisamente nell¡¯ azione del soggetto e che non pu¨° farsi risalire all¡¯ attivit¨¤ psichica dell¡¯ agente, neppure a titolo di colpa. Si tratta dunque di un fattore causale sopravvenuto, concomitante o preesistente alla condotta dell¡¯ agente ed indipendente dalla condotta medesima¡±. In conclusione il giudice ha ritenuto che la provata esistenza del caso fortuito escludesse la colpevolezza e ha assolto l¡¯ imputato dal reato ascrittogli (in realt¨¤ la decisione ¨¨ da riferire ad entrambi i reati) perch¨¦ il fatto non costituisce reato. 2) Contro questa sentenza ha proposto appello (dichiarato inammissibile dalla Corte d¡¯ Appello di Reggio Calabria) e, successivamente, ricorso in cassazione, ai sensi dell¡¯ articolo 10 legge 46/2006, il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d¡¯ Appello d¨ Reggio Calabria che ha dedotto i vizi di manifesta illogicit¨¤ della motivazione e violazione dell¡¯ articolo 45 Cp. Sotto il primo profilo (viz¨o di motivazione) il ricorrente si duole dell¡¯ affermazione (ritenuta illogica e contradditoria), contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui le opere provvisionali non erano necessarie fino all¡¯ irrigidimento della struttura per la completa maturazione della malta cementizia in contrasto con gli esiti della perizia d¡¯ ufficio. Il ricorrente contesta poi l¡¯ affermazione sull¡¯ esistenza del caso fortuito da ravvisarsi, secondo la sua opinione, in un avvenimento eccezionale ¡°del tutto improvviso, imprevisto e imprevedibile che esula dalla volont¨¤ dell¡¯ agente e che non pu¨° in nessun modo, nemmeno a titolo di colpa, essere fatto risalire all¡¯ attivit¨¤ psichica dello stesso.¡± Alla luce di questi principi nel ricorso si sottolinea che la struttura realizzata era ¡°instabile e staticamente insicura fino alla maturazione della malta cementizia e alla realizzazione degli elementi irrigidenti tanto ¨¨ vero che ¨¨ crollata per il vento e non in conseguenza di un urto con altra struttura. Sussiste dunque, secondo il ricorrente, l¡¯ elemento della colpa ed in particolare la prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento proprio per l¡¯ instabilit¨¤ derivante dalla circostanza della non avvenuta maturazione della malta cementizia. Ai motivi di ricorso del Procuratore generale ha replicato il difensore di Scarf¨° Giuseppe con una 256 memoria con la quale si chiede la dichiarazione di inammissibilit¨¤ del ricorso (che si risolverebbe in una richiesta di rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione di merito) e comunque il rigetto per infondatezza essendo adeguatamente motivata l¡¯ affermazione che l¡¯ evento si ¨¨ verificato per un fatto configurabile come caso fortuito. 3) La soluzione dei temi proposti con il ricorso richiede alcune considerazioni preliminari sul concetto di ¡°caso fortuito¡± su cui il giudice di merito ha fondato la sua decisione. Del caso fortuito non ¨¨ facile neppure dare una definizione perch¨¦, a seconda dell¡¯ inquadramento teorico che ne viene dato, muta anche la definizione. Si spiega cos¨ che dai pi¨´ autorevoli studiosi di diritto penale venga, di volta in volta, definito il caso fortuito come il caso in cui ¡°nell¡¯ operato dell¡¯ agente non pu¨° ravvisarsi n¨¦ dolo, n¨¦ colpa, non avendo egli voluto l¡¯ evento, n¨¦ avendolo causato per negligenza o imprudenza¡± mentre altri lo riconducono a ¡°tutti quel fattori causali, non solo sopravvenuti ma anche preesistenti o concomitanti, che hanno reso eccezionalmente possibile il verificarsi di un evento che si presenta come conseguenza del tutto improbabile secondo la miglior scienza ed esperienza¡±. La diversit¨¤ nelle definizioni proposte individua con immediatezza la ragione della diversa impostazione teorica che caratterizza i diversi orientamenti: il primo lo riconduce alla colpa il secondo alla causalit¨¤. Ma non manca neppure chi ritiene che l¡¯ istituto sia ¡°dogmaticamente ¡®polivalente¡±, come pure si ¨¨ sostenuto in dottrina, e che sia necessario, nei singoli casi concreti, verificare se il caso fortuito valga ad escludere la colpa o la causalit¨¤. Queste divergenze si riflettono puntualmente negli orientamenti giurisprudenziali che si sono formati su questo tema ai quali si ¨¨ aggiunto anche un diverso orientamento, quello che sostiene che il caso fortuito sia idoneo ad escludere la coscienza e volont¨¤ nel soggetto agente. La sentenza impugnata non elude questo tema, riporta i termini del dibattito e propende per la soluzione che fa riferimento alla mancanza di colpa di cui ¨¨ espressione la formula di assoluzione adottata anche se in alcuni passaggi della motivazione sembra invece riferirsi alla teoria che inquadra il caso fortuito nella causalit¨¤ quando parla di ¡°un fattore causale sopravvenuto, concomitante o prees¨ªstente alla condotta dell¡¯ agente ed indipendente dalla condotta medesima¡± (p. 13 della sentenza). 4) Non ¨¨ certo questa la sede per risolvere il problema prospettato su cui dottrina e giurisprudenza da vari decenni esprimono i contrastanti orientamenti prima sintetizzati. E del resto ci¨° non ¨¨ neppure necessario nel caso in esame nel quale il caso fortuito, secondo la ricostruzione di fatto operata dal giudice di merito e che in questa sede ¨¨ incensurabile non ¨¨ astrattamente ipotizzabile qualunque sia l¡¯ inquadramento teorico accolto. Prima di affrontare il tema proposto con il ricorso va per¨° subito detto che non sono condivisibili i dubbi espressi nella sentenza impugnata sull¡¯ applicabilit¨¤ dell¡¯ articolo 11 del Dpr 547/55 al caso in esame. Questa norma ha infatti carattere generalissimo ed ¨¨ diretta ad evitare che i lavoratori subiscano danni per la caduta o l¡¯ investimento di materiali in dipendenza dell¡¯ attivit¨¤ lavorativa senza operare alcuna distinzione tra la caduta di materiali dall¡¯ alto e quella delle strutture laterali e costituisce un¡¯ inammissibile lettura riduttiva dell¡¯ ambito di applicazione della norma operare questa distinzione. Anzi l¡¯ uso del termine ¡°investimento¡± convalida proprio una lettura omnicomprensiva della norma perch¨¦ l¡¯ investimento, a differenza della presuppone proprio che i materiali non cadano dall¡¯ alto. Sulle valutazioni di merito, contenute nella sentenza impugnata e relative alla necessit¨¤ o meno di predisporre l¡¯ installazione delle opere provvisionali, in parte non pu¨° che rilevarsene l¡¯ insindacabilit¨¤ nel giudizio di legittimit¨¤ (la semplicit¨¤ della struttura e la complessiva facilit¨¤ della sua realizzazione). Per altre valutazioni deve invece condividersi il giudizio di manifesta illogicit¨¤ espresso dal ricorrente: ci¨° per quanto riguarda la rapidit¨¤ dei tempi di solidificazione (nella medesima sentenza si afferma che questi tempi potevano durare fino a cinque giorni l¡¯ evento si ¨¨ verificato prima: semmai era proprio la durata della stabilizzazione del manufatto che imponeva l¡¯ adozione delle necessarie cautele). 257 Parimenti illogico ¨¨ il giudizio sulle ridotte dimensioni dei pannelli: senza sovrapporre a quelle utilizzate dal giudice di merito massime di esperienza elaborate dal giudice di legittimit¨¤ una valutazione come quella indicata secondo cui pannelli di cemento delle dimensioni gi¨¤ ricordate (mt. 2,90 x 2,70) possano essere considerati di ridotte dimensioni andava effettuata in relazione alle loro caratteristiche, al loro peso e stabilit¨¤ nonch¨¦ alla loro potenzialit¨¤ lesiva e non apoditticamente come ha fatto il giudice di merito. 5) L¡¯ astratta ravvisabilit¨¤ della violazione della regola cautelare prevista dall¡¯ articolo 11 del Dpr 547 nel duplice senso di aver consentito ai dipendenti di lavorare nell¡¯ ambito della zona di possibile caduta delle strutture in via di consolidamento ma non ancora consolidate e nell¡¯ aver omesso di adottare le strutture provvisionali cui si ¨¨ in precedenza fatto riferimento potrebbero gi¨¤ condurre ad escludere l¡¯ esistenza del caso fortuito. Secondo l¡¯ orientamento seguito da numerosi precedenti giurisprudenziali di legittimit¨¤ non ¨¨ infatti configurabile il caso fortuito quando la violazione della regola cautelare abbia avuto efficacia causale sul verificarsi dell¡¯ evento (si vedano sul tema, anche se da diverse prospettive, Cassazione, Sezione terza, 1814/97, Rosati, rv. 209868; Sezione terza, 6954/96, Paggiu, rv. 205721; Sezione quarta, 2983/92, Deodori, rv. 189647; Sezione quarta, 4220/88, Savelli, rv. 180850). Ma, indipendentemente dall¡¯ accoglimento di questa soluzione, si osserva che in ogni caso, qualunque teoria sul concetto di caso fortuito si accolga, la soluzione accolta dal giudice di merito non pu¨° essere condivisa. Se si inquadra il problema del caso fortuito all¡¯ interno della colpevolezza il criterio cui occorre fare riferimento ¨¨ quello della prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento. La prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento ¨¨ riferibile all¡¯ elemento soggettivo, la colpa, perch¨¦ attiene al processo cognitivo dell¡¯ agente (ma non nel senso meramente psicologico) che ¨¨ tenuto a prendere in considerazione le conseguenze della sua condotta. Naturalmente, da questo angolo visuale, l¡¯ agente sar¨¤ ritenuto in colpa solo se non ha tenuto conto delle conseguenze della sua condotta che conosceva o era tenuto a conoscere in base alla sua professione e alla sua condizione (eiusdem condicionis et professionis). Il fondamento della prevedibilit¨¤ sotto il profilo soggettivo risiede nella necessit¨¤ di evitare forme di responsabilit¨¤ oggettiva. Se il risultato della condotta non poteva neppure essere immaginato dall¡¯ agente, pur con l¡¯ adozione delle necessarie cautele, sembra evidente che il risultato non possa essergli addebitato sotto il profilo della colpevolezza. Perch¨¦ l¡¯ agente possa essere ritenuto colpevole non ¨¨ sufficiente che abbia agito in violazione di una regola cautelare ma ¨¨ necessario che non abbia previsto che quella violazione avrebbe avuto come conseguenza il verificarsi dell¡¯ evento. Se dunque quella conseguenza dell¡¯ azione non ¨¨ stata prevista perch¨¦ non era prevedibile non v¡¯ ¨¨ responsabilit¨¤ per colpa. Ma qual¡¯ ¨¨ il parametro cui occorre rifarsi per valutare la prevedibilit¨¤ (o, come taluni si esprimono in dottrina, il dovere di riconoscere) ? E¡¯ evidente che se si adottasse un criterio che fa riferimento all¡¯ agente concreto si ricadrebbe negli orientamenti che riferiscono la colpa all¡¯ elemento psicologico; e infatti dottrina e giurisprudenza seguono comunemente il criterio della prevedibilit¨¤ da parte dell¡¯ homo ejusdem professionis et condicionis non diversamente da quanto avviene per l¡¯ individuazione dei criteri per accertare il rispetto delle regole cautelari. Sull¡¯ esistenza della prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento dal punto di vista soggettivo va osservato che il caso descritto nella sentenza impugnata, per poterne affermare l¡¯ esistenza, avrebbe dovuto accertare che l¡¯ evento atmosferico ricordato aveva avuto caratteristiche di assoluta eccezionalit¨¤ tale da impedire ogni difesa anche con l¡¯ apposizione delle strutture di protezione. Anche nella logica soggettiva del caso fortuito l¡¯ uscita dall¡¯ ambito della possibilit¨¤ di previsione deve infatti assumere un carattere di straordinariet¨¤ tale da rendere l¡¯ evento assolutamente imprevedibile. Insomma il caso fortuito deve avere caratteristiche tali da fuoriuscire totalmente dalla possibilit¨¤ di previsione dell¡¯ agente proprio per le caratteristiche di straordinariet¨¤ che lo caratterizzano. Anzi pu¨° affermarsi che non in tutti i casi in cui difetta la prevedibilit¨¤ dell¡¯ evento ci si trova in presenza di un caso fortuito perch¨¦ l¡¯ evento deve essere completamente avulso dalle possibilit¨¤ 258 conoscitive dell¡¯ agente (caso fortuito ¨¨ l¡¯ investimento di una persona caduta dalla finestra non l¡¯ investimento del ciclista autore di un¡¯ imprevedibile deviazione). Orbene come ¨¨ possibile inquadrare nel caso fortuito l¡¯ aver consentito che una struttura insicura, perch¨¦ formata da grandi pannelli di cemento non ancora interamente saldati tra di loro, possa crollare per le pi¨´ svariate ragioni quali un forte urto con un veicolo o con un¡¯ altra struttura, un evento atmosferico di particolare violenza ecc.) ? E, al di l¨¤ dell¡¯ obbligo di sostenere altrimenti la struttura, non ¨¨ astrattamente prevedibile che una struttura di tal fatta possa crollare con la conseguente insorgenza dell¡¯ obbligo di evitare, ove si scelga di non costruire strutture provvisorie, che i lavoratori operino nell¡¯ ambito che potrebbe essere colpito dalla caduta del manufatto fino a che il medesimo non acquisisca carattere di stabilit¨¤ ? 6) Ma la prevedibilit¨¤ ha anche un risvolto oggettivo che attiene alla causalit¨¤: secondo la teoria della causalit¨¤ umana, le cause sopravvenute cui fanno espresso riferimento le teorie che inquadrano il caso fortuito nella causalit¨¤ con la precisazione che in questo caso vengono ricomprese in questo istituto anche le cause preesistenti e quelle concomitanti sono infatti idonee ad escludere il rapporto di causalit¨¤ (articolo 41 comma 2, Cpp) solo quando abbiano carattere di eccezionalit¨¤ ed imprevedibilit¨¤. Naturalmente, sotto questo profilo, trattandosi dell¡¯ elemento oggettivo, l¡¯ accertamento deve essere condotto con criteri ex post (e tenendo anche conto delle conoscenze non disponibili all¡¯ epoca della condotta) a differenza della prevedibilit¨¤ che riguarda l¡¯ elemento soggettivo la cui esistenza va invece accertata con criteri ex ante non potendo essere addebitato all¡¯ agente di non aver previsto un evento che, in base alle conoscenze che aveva o che avrebbe dovuto avere, non poteva prevedere. Orbene anche da questo punto di vista ex post le conclusioni non possono essere diverse perch¨¦ le caratteristiche della struttura causa preesistente rendevano oggettivamente prevedibile un evento di caduta della medesima che dunque non potevano essere ritenute avere carattere di straordinariet¨¤, eccezionalit¨¤ ed imprevedibilit¨¤ tali da interrompere il rapporto di causalit¨¤. Qualunque sia l¡¯ inquadramento teorico sul caso fortuito va dunque affermato che il caso incensurabilmente accertato in fatto dal giudice di merito non pu¨° essere ascritto all¡¯ istituto del caso fortuito. 7) Consegue alle considerazioni svolte l¡¯ annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice competente per l¡¯ appello ai sensi dell¡¯ articolo 569 comma Cpp dovendosi equiparare il caso in esame a quello del ricorso diretto in cassazione ai sensi del lo comma del medesimo articolo 569. P.Q.M. La Corte suprema di Cassazione, Sezione quarta penale, annulla la sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame,alla Corte d¡¯ appello di Reggio Calabria. DIRETTORI DI LAVORI, DIPENDENTI E RESPONSABILITÀ TRACCIA: Francesco, direttore dei lavori, faceva costruire ai propri dipendenti, tra cui Marcello e Sandro, un immobile in prossimità del mare, nelle vicinanze di Porto Rotondo in Sardegna. Marcello e Sandro eseguivano i lavori senza informarsi in alcun modo di eventuali concessioni o titoli abilitativi. Successivamente, Francesco veniva coinvolto in un processo penale per aver compiuto alcuni reati edilizi. 259 Il candidato prenda in esame la posizione giuridica di Marcello e Sandro in relazione al caso ipotizzato, soffermandosi anche sulla loro posizione nel diverso caso di difformità dell’opera realizzata rispetto al titolo abilitativo. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA: In premessa era utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente era necessario individuare la normativa relativa all’edilizia ed urbanistica (D.P.R. 380/2001), da leggere in combinato disposto con gli artt. 110 c.p. e 40 c.p.. Marcello e Sandro, risponderanno in concorso con Francesco? In linea generale, è possibile dare risposta positiva, in quanto anche i dipendenti di un’azienda laddove agiscono per realizzare un’opera (an) devono essere informati sulla legittimità della loro condotta, oltre al fatto che era facilmente ipotizzabile l’illegittimità della realizzazione di un immobile in prossimità del mare; diversamente, se viene realizzata un’opera diversa parzialmente dal progetto, ne risponderà il solo direttore dei lavori, essendo quest’ultimo deputato a tale controllo. Si consiglia di leggere con molta attenzione la sentenza che segue, la quale ricalca il caso assegnato. In tema di reati edilizi, gli esecutori materiali dei lavori, che prestano la loro attività alle dipendenze del costruttore: -possono concorrere, per colpa, nella commissione dell’illecito nell’ipotesi di assenza di permesso di costruire o titolo abilitativi (che attengono all’an) -non possono concorrere nell’illecito in caso di difformità dell’opera rispetto al titolo (la responsabilità, in questo caso, è solo del direttore dei lavori) -non possono concorrere nell’illecito nell’ipotesi di mancato rispetto di norme urbanistiche generali ( che attengono, in concreto, al quommodo). CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. III PENALE - SENTENZA 28 febbraio 2007, n.8407 - Pres. G. De Maio-est. FialeSVOLGIMENTO DEL PROCESSOLa Cotte di Appello di Lecce, con sentenza del 29.12006, confermava la sentenza 19.5.2005 del Tribunale di Lecce - Sezione distaccata di Tricase, che aveva affermato la penale responsabilità penale di R.B., L. U. e P. D. N. in ordine ai reati di cui:» all'art. 44, lett. e), D.P.R. n. 380/2001 (per avere - nella qualità di esecutori dei lavori ed in concorso con la committente degli stessi - realizzato, in zona costiera assoggettata a vincolo paesaggistico poiché situata entro i trecento metri dalla linea di battigia, in assenza del prescritto permesso di costruire, la costruzione di un fabbricato e di un terrazzamento - acc. in Corsano, il 30.6.2002);- all'art. 163 D.Lgs. n. 490/1999 (per avere eseguito le opere anzidette in assènza della prescritta autorizzazione paesistica) e, riconosciute a tutti circostanze attenuanti generiche, unificati i reati nel vincolo della continuazione ex art. 81 cpv. cod. pen., aveva condannato ciascuno alla pena complessiva -condizionalmente sospesa - di mesi uno di arresto ed euro 13.000,00 di ammenda, ordinando la demolizione delle opere abusive e la rimessione in pristino dello stato originario dei luoghi,Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso gli imputati, i quali - sotto i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione - hanno eccepito:- che essi "sono semplici manovali avventizi con la qualifica di operaio generico" e che, nella specie, la loro corresponsabilità nell'esecuzione totale delle opere edilizie abusive era stata incongruamente affermata in base alla sola circostanza che "erano stati trovati intenti ad eseguire opere di rivestimento in pietra dell'immobile", sul presupposto che avrebbero dovuto preventivamente accertarsi della esistenza, in capo al proprietario, del titolo abilitativo per la realizzazione dell'intero fabbricato.Il toro intervento si era limitato alla sola fase del rivestimento in pietrame locale e, con indebita supposizione, priva di qualsiasi riscontro probatorio, era stato considerato esteso invece "a 260 tutte le fasi della costruzione" medesima e pure ad attività di completamento degli impianti non rientranti nella loro competenza specifica.I giudici del merito, inoltre, non avevano adeguatamente valutato la questione della sussistenza "della loro piena consapevolezza dell'abusività dei lavori".MOTIVI DELLA DECISIONEIl ricorso è fondato e deve essere accolto.1. Esso si connette alla dibattuta questione della individuazione della natura "propria" o "comune" delle contravvenzioni edilizie previste dall'art. 44, lett. b) e e), del DPR. n. 380/2001 (ad eccezione del reato di lottizzazione abusiva, che pone problematiche diverse quanto ai soggetti che possono rendersene responsabili).Questa Sezione, con la sentenza 26.8.2004, n. 35084, Barreca - ha affermato che "il carattere proprio dei reati di violazione della legge edilizia non impedisce che, oltre ai soggetti individuati dall'art. 6 della legge n. 47/1985 (ed attualmente dall'art. 29, 1° comma, del T.U. n. 380/2001), persone diverse si inseriscano, con la loro condotta, nella consumazione dei reati stessi, svolgendo un'attività che comunque contribuisca a dare vita al fatto di costruzione abusiva.L'esecutore dei lavori, pertanto, anche se muratore od operaio, ben può rispondere - in applicazione degli ordinari criteri del concorso di persona ex art. 110 cod. pen. ed anche a tìtolo di colpa quanto alla consapevolezza dell'abusività dei lavori - delle contravvenzioni di cui all'art. 44, leti, b) e e), del T.U. n. 380/2001, qualora sia accertata la sua materiale collaborazione alla realizzazione dell"illecito"'.Tale principio si conforma all'indirizzo prevalente di questa Corte Suprema (vedi Cass., Sez. HI: 14.6.1999, n. 7626, Iacovelli; 12.3.1999, n. 201, Quaranta; 24.8.1988, n. 9053, Di Santo; 27.3.1980, n. 4216, Tibollo) ed in particolare questa III Sezione - con la sentenza 15.10.1988, n. 9961, Maglione - ha affermato che "sussiste una stretta correlazione tra l'obbligo di condotta imposto dall'art. 6 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 ai soggetti in esso indicati e le sanzioni di cui all'art. 20 sì da configurare il reato di costruzione senza la concessione edilizia» o in contrasto con le prescrizioni urbanistiche o edilizie, come reato "proprio"; invero il precetto penale è diretto non a "chiunque", ma soltanto a coloro che, in relazione all'attività edilizia, rivestono una determinata posizione giuridica o di fatto. Tale figura di reato non esclude il concorso di soggetti diversi dai destinatari degli obblighi previsti dall'art. 6 compreso il sindaco che con la concessione illegittima abbia posto in essere la condizione operativa della violazione di quegli obblighi".Diverso orientamento risulta espresso, invece, in una isolata sentenza (Cass., Sez. IH, 1.7.1983, n. 6181, Tornabene) ove è stato affermato che "in tema di destinatari del precetto di cui all'art. 17, lett. b), della legge 28 gennaio 1977, n. 10, sull'edificabilità dei suoli, la norma predetta incrimina "i casi di esecuzione dei lavori in totale difformità o in assenza della concessione edilizia", senza apposita qualificazione dell'agente. Pertanto deve essere compreso nella sfera dei destinatari qualunque operatore che comunque esplichi una condotta causalmente rilevante nella modificazione della realtà proibita dalla norma, con la consapevolezza della mancanza o della difformità del titolo legittimativo o con colpevole omissione del relativo accertamento".2. Trattasi di problematica che impone un più ampio approfondimento.2.1 "Reato proprio" è quello per la cui sussistenza la legge esige una determinataposizione giuridica o di fatto dell'agente: esso, pertanto, non può essere commesso da qualùnquesoggetto, ma soltanto da determinate persone, che rivestano una data qualità o si trovino in unacerta situazione.Autorevole dottrina rileva, al riguardo, che "il reato proprio trova la propria ragione politica in una struttura sociale evoluta, in cui siano differenziate le funzioni spettanti ai singoli e, quindi, attribuiti particolari doveri e responsabilità. In base alla sua qualifica il soggetto viene posto in un particolare rapporto con il bene giuridico tutelato, che gli consente di arrecare adesso offesa, onde la norma si rivolge non più a tutti i consociati, ma soltanto alle persone che rivestono tale qualifica".2.2 La teoria che riconosce alle contravvenzioni edilizie la natura di "reati propri" ponele previsioni sanzionatone dell'art. 44 dei T.U. n. 380/2001 (ma già degli artt: 41 della leggen. 1150/1942, 17 della legge n. 10/1977, 20 della legge n. 47/1985) in stretta connessione conla disposizione dell'art. 29 dello stesso T.U. (già degli artt.: 31, ultimo comma, della legge n.1150/1942 e 6 della legge n. 47/1985), che individua nel titolare del permesso di costruire^ nelcommittente, nel costruttore e nel direttore dei lavori (con peculiari specificazioni in relazione atale ultima figura) i soggetti responsabili della conformità delle opere alla normativa urbanistica,alle previsioni di piano, al permesso di costruire ed alle 261 modalità esecutive da esso stabilite.Solo tali soggetti, individuati per il possesso di particolare qualità, potrebbero rispondere penalmente dell'esecuzione di un'opera non conforme alla disciplina urbanistico-edilizia, salvo l'eventuale concorso di altre persone secondo i principi che regolano la partecipazione dell'extraneus al reato proprio commesso da chi riveste la qualifica richiesta dalla norma incriminatrice.Gli argomenti principali posti a sostegno di tale tesi:a) si incentrano anzitutto sul presupposto che l'oggetto giuridico tutelato dai reati edilizi sarebbe da individuarsi nell’interesse formale della pubblica amministrazione al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio. I reati medesimi, dunque, integrerebbero fattispecie incriminatrici di comportamenti inosservanti di obblighi amministrativi e, poiché i soggetti costituiti dal legislatore "garanti" del rispetto delle modalità di esercizio dell'attività edilizia sarebbero quelli indicati nell'art. 29 del T.U. dell'edilizia, solamente questi potrebbero essere considerati soggetti attivi delle contravvenzioni previste dall'art. 44, lett. a) e b), dello stesso testo unico;b) si riferiscono, inoltre, alla stessa dogmatica del reato proprio, rilevando che in esso la norma incriminatrice, attraverso il riferimento al soggetto qualificato, attribuisce rilevanza ad una situazione che mette detto soggetto nelle condizioni di aggredire il bene Melato in modo particolarmente intenso ovvero secondo modalità che ad altri soggetti non sono accessibili. In particolare, per le contravvenzioni edilizie, sì assume che "il riferimento alla particolare qualità soggettiva sembra rispondere all'esigenza di individuare un centro di imputazione di obblighi" finalizzati alla tutela dell'interesse protetto. Il legislatore sarebbe così pervenuto alla delimitazione dì specifici soggetti dotati dei poteri necessari ad assicurare detta tutela effettiva.Sì afferma, altresì, che "il principio di personalità della responsabilità penale, previsto dall'art. 27 della Costituzione, verrebbe seriamente compromesso qualora tali obblighi di tutela venissero imposti a chiunque, a prescindere dalla disponibilità degli effettivi poteri di tutela",2.J Trattasi di argomentazioni che questo Collegio non condivide, rilevando che i reati edilizi attualmente previsti dall'art. 44, lett. b) e e), del T.U. n. 380/2001 (il cui regime era anteriormente posto dall'art. 20 della legge n. 47/1985, dall'art. 17 della legge n. 10/1977 e dall'art. 41 della legge n. 1150/1942) sono per lo più reati comuni - con le eccezioni di seguito indicate – e in quanto tali, possono essere commessi da qualsiasi soggetto.a) Significativo è, anzitutto, lo stesso testo delle norme incriminatrici, formulatoimpersonalmente, ma (non essendo sufficiente arrestarsi alla espressione della legge) anche unaccurato esame del complessivo sistema sanzionatone penale porta ad escludere unageneralizzata configurazione quali "reati propri" delle contravvenzioni in esame. Si pensi, adesempio, che non può essere considerato "committente" né "costruttore" colui che eseguapersonalmente i lavori abusivi (realizzazione monosoggettiva dell'illecito nei casi di più modestetrasformazioni urbanistiche).b) Deve rilevarsi, poi, che l'attuale formulazione dell'art. 29 del T.U. n. 380/2001, purindividuando nel titolare del permesso di costruire, nel committente e nel costruttore i soggetti"responsabili... della conformità delle opere alla normativa urbanistica, alle previsioni di piano..." e, unitamente al direttore dei lavori, alle previsioni "del permesso di costruire e alle modalitàesecutive stabilite dal medesimo" - limita comunque l'ambito della loro responsabilità "ai fini eper gli effetti delle norme contenute nel presente capo''' (il capo I del tìtolo TV), dove non èprevista la disciplina penale, che è collocata, invece, nel capo II.e) L'oggetto della tutela penale apprestata dalle norme incriminatrici in esame, infine, non va individuato esclusivamente nell'interesse strumentale della P. A. al controllo delle attività che comportano trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, bensì e principalmente nella "salvaguardia degli usi pubblici e sociali del territorio" medesimo, e tale bene giuridico può essere indifferentemente offéso da chiunque compia attività siffatte e non soltanto da determinati soggetti che si trovino in possesso delle particolari qualità soggettive indicate dall'art. 29 del T.U. dell'edilizia.2.4 La natura di "reati propri" (ovvero di "reati a soggettività ristretta", secondo unaprospettazione dottrinaria) non può escludersi, invece:— per alcune delle molteplici possibili violazioni riconducibili alle previsioni della lettera a) dell'art. 44 del T.U. n. 380/2001;— per la contravvenzione di inottemperanza all'ordine di sospensione dei lavori, di cui alla lèttera b), ultima previsione, dell'art. 44 del T.U. n. 380/2001, che può essere commessa soltanto da colui o da coloro cui il 262 provvedimento amministrativo è rivolto (con eventuale possibilità di concorso ed applicazione dei principi di cui all'art. 117 cod. pen.);— per le violazioni ascrivibili al direttore dei lavori, la cui responsabilità è limitata alle sole difformità fra l'opera eseguita e le previsioni e le modalità esecutive stabilite dal permesso di costruire e per il quale la legge ritiene pienamente scriminante l'effettivo recesso tempestivo e formalmente comunicato.2.5 Ritiene, inoltre, il Collegio che non possa giungersi ad affermare che la previsionedell'art. 29 del T.U. n. 380/2001 addirittura estenda l'ambito dei possibili responsabili dei reatiedilizi, configurando, pei: i soggetti qualificati ivi indicati, l'obbligo di intervenire quali garantidel bene tutelato e, conseguentemente, una autonoma forma di responsabilità colposa per omessoimpedimento dei comportamenti descritti nelle fattispecie incriminatrici, fino a giungere aravvisare, per essi, un reato omissivo improprio colposo anche quando non siano consapevoli diconcorrere con la propria condotta omissiva alla condotta altrui integrante gli estremi di unacontravvenzione edilizia.Al riguardo non può mancarsi di rilevare che la giurisprudenza ormai assolutamente prevalente di questa Corte Suprema è orientata nel senso che il semplice fatto di essere proprietario o comproprietario del terreno (o comunque della superficie) sul quale vengono svolti lavori illeciti di edificazione, pur potendo costituire un indizio grave, non è sufficiente da solo ad affermare la responsabilità penale, nemmeno qualora il soggetto che riveste tali qualità sia a conoscenza che altri eseguano opere abusive sul suo fondo, essendo necessario, a tal fine, rinvenire altri elementi in base ai quali possa ragionevolmente presumersi che egli abbia in qualche modo concorso, anche solo moralmente, con il committente o l'esecutore dei lavori abusivi.Occorre considerare, in sostanza, la situazione concreta in cui si è svolta l'attività incriminata, tenendo conto non soltanto della piena disponibilità, giuridica e di fatto, della superficie edificata e dell'interesse specifico ad effettuare la nuova costruzione (principio del "cui prodesf) bensì pure: dei rapporti di parentela o di affinità tra l'esecutore dell'opera abusiva ed il proprietario; dell'eventuale presenza "in loco" di quest'ultimo durante l'effettuazione dei lavori; dello svolgimento di attività di materiale vigilanza sull'esecuzione dei lavori; della richiesta di provvedimenti abilitativi anche in sanatoria; del regime patrimoniale fra coniugi o comproprietari e, in definitiva, di tutte quelle situazioni e quei comportamenti, positivi o negativi, da cui possano trarsi elementi integrativi della colpa e prove circa la compartecipazione, anche morale, all'esecuzione delle opere, tenendo presente pure la destinazione finale delle stesse [vedi, tra le decisioni più recenti, Cass., Sez. Ili: 27.9.2000, n. 10284, Cutaia ed altro; 3.5.2001, n. 17752, Zorzi ed altri; 10.8.2001, n. 31130, Gagliardi; 18.4.2003, n. 18756, Capasso ed altro; 2.3.2004, n. 9536, Mancuso ed altro; 28.5.2004, n. 24319, Rizzuto ed altro; 12.1.2005, n. 216, Fucciolo; 15.7.2005, n. 26121, Rosato; 2.9.2005, n. 32856, Farzone].3. Nel contesto dianzi delineato va esaminata la condotta degli esecutori materiali dei lavori: quei soggetti, cioè, la cui attività si svolga alle dipendenze dell'imprenditore che abbia assunto la qualifica di costruttore.Al riguardo deve osservarsi che se l'atteggiamento psichico di coloro che collaborano alla realizzazione dell'illecito, fornendo un contributo morale o materiale alla costruzione abusiva siapure nella mera qualità di dipendenti, consiste nella volontà di commettere un abuso edilizio, stante la consapevolezza che l'attività posta in essere viene effettuata in assenza o in difformità dal prescritto titolo abilitativo, ciascuno debba rispondere, a titolo di dolo, della relativa contravvenzione, ricorrendo tutti gli estremi (oggettivi e soggettivi) del concorso di persone nel reato.In questo Caso neppure può valere ad escludere la responsabilità dei meri prestatori d'opera il fatto che essi abbiano realizzato la condotta illecita per ottemperare alle disposizioni impartite dal datore di lavoro, in quanto l'efficacia scriminante riconducibile alle previsioni dell'art. 51 cod. pen. non afferisce a rapporti, sia pure gerarchici, di natura privatistica.Più delicata è la questione se l'omesso, negligente accertamento dell'esistenza del provvedimento edilizio abilitante, anche da parte degli esecutori materiali dell'opera Che non rivestono la qualifica di costruttore, integri gli estremi della colpa e possa configurare un'ipotesi di concorso colposo nell'illecito urbanistico.Rileva al riguardo il Collegio che la giurisprudenza pressoché unanime considera configurabile il concorso colposo nelle contravvenzioni e - stabilendo l'art. 42, 4° comma, cod. pen. la loro punibilità indifferentemente a titolo di dolo o di colpa [si ricordi che dottrina e giurisprudenza considerano altresì ammissibile, in 263 linea di principio, pure il concorso dell'estraneo nel reato proprio] - deve ammettersi che più persone possano partecipare alla commissione di una contravvenzione anche se la loro condotta è sorretta da atteggiamenti psichici eterogenei.In caso di mancanza del permesso di costruire, pertanto ** a giudizio del Collegio - anche i meri esecutori materiali possono rispondere direttamente per colpa con riferimento alla disciplina posta dall'art. 110 cod. pen. (salvi i casi di erroneo convincimento scusabile), dovendo essi sottostare all'onere di accertare l'intervenuto rilascio del provvedimento abilitante, onere che - come si detto - non incombe soltanto sui soggetti indicati dall'art. 29 del TU. n. 380/2001. Non è in questione, pertanto, la individuazione della sussistenza di un obbligo giuridico di impedimento dei reati ai sensi dell'art. 40 cpv. cod. pen..Per i lavori eseguiti in difformità dal titolo, invece, deve rilevarsi che la legge ha attribuito espressamente ài direttore dei lavori l'obbligo dì Curare la corrispondenza dell'Opera al progetto, sicché la diligenza richiesta agli operai non può estendersi alla verifica dell'osservanza puntuale delle previsioni e prescrizioni assentite (fatti salvi i casi di realizzazione dì piani ulteriori o parti aggiuntive rilevanti, nonché quelli di opere assolutamente non riferibili a quelle assentite).Deve escludersi, infine, la responsabilità degli esecutori materiali per il mancato rispetto colposo delle norme urbanistiche e di piano, laddove si consideri che da tale responsabilità è esonerato già il direttore dei lavori, che è organo tecnico ben più qualificato.4. Alla strégua dei principi dianzi enunciati va rilevato che, nella fattispecie in esame, gli attuali ricorrenti sono stati condannati perché sorpresi ad occuparsi del mero "rivestimento in pietra locale" del manufatto abusivo e che i giudici del merito, con argomentazioni puramente ipotetiche e suppositive, non ancorate ad alcun elemento probatorio, hanno individuato in essi coloro che avrebbero proseguito l'attività di ultimazione dell'immobile (consistita nella messa in opera del pavimento ma anche in interventi normalmente non rientranti nella competenza dei muratori quali l'apposizione degli infissi e l'ultimazione dell'impianto elettrico) anche dopo il controllo effettuato dai Carabinieri il 26.6.2002 evidenziarne l'abusività della costruzione in atto.Per la solo attività effettivamente constatata (di carattere estremamente circoscritto e meramente frammentaria del fatto illecito tipico) non è configurabile, invece, la violazione di alcun obbligo di diligenza - anche in relazione alla verifica della sussistenza dell'autorizzazione paesaggistica - e non può sicuramente configurarsi il ravvisato concorso nella complessiva attività di edificazione abusiva.La sentenza impugnata, conseguentemente, deve essere annullata senza rinvio perché gli imputati non hanno commesso i fatti ad essi contestati.P.Q.M.la Corte Suprema di Cassazione,visti gli àrtt. 607, 615 e 620 c.p.p.,annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché gli imputati non hanno commesso il fatto. DELEGA DI FUNZIONI ED APPALTO TRACCIA: Tizio è medico e direttore generale di una clinica privata, di ampie dimensioni, denominata Lavitabella. Caio, lavoratore dipendente presso la Italca, veniva ricoverato d’urgenza presso Lavitabella; Caio veniva operato d’urgenza con esito positivo. Durante la fase post-operatoria, tuttavia, Caio moriva improvvisamente a causa del cibo che veniva fornito presso la clinica privata, contaminato da sostanze tossiche. Tizio si recava da un legale, facendo presente di aver appaltato il servizio di ristorazione interamente alla società MangiarBene s.r.l. e di non aver mai controllato in concreto il suo operato. Il candidato rediga motivato parere sulla questione giuridica posta alla sua attenzione, redigendo parere favorevole a Tizio. POSSIBILE SCHEMA DI SOLUZIONE: 264 In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, il problema posto dalla traccia andava inquadrato nell’ambito della delega di funzioni: è responsabile Tizio per l’operato della società MangiarBene s.r.l.? Al quesito posto era fondamentale dare risposta negativa (il parere doveva essere redatto in modo favorevole a Tizio). In particolare, Tizio non potrebbe rispondere della morte di Caio, sub specie di omicidio colposo, perché aveva appaltato il servizio di ristorazione, con conseguente trasferimento della responsabilità correlata all’attività di ristorazione, tanto più che lo stesso Tizio svolgeva la propria attività in una clinica di ampie dimensioni rivestendo la qualifica di medico; né sarebbe ipotizzabile una responsabilità a titolo di culpa in vigilando, in quanto le dimensioni ampie della clinica rendevano impossibile una vigilanza costante. Diversamente argomentando, si individuerebbe un vulnus all’art. 27 Cost., con conseguente attribuzione di responsabilità in capo a Tizio a titolo di responsabilità oggettiva (non ammessa, secondo l’impostazione prevalente, nel nostro ordinamento). Da questa angolazione prospettica, Tizio non può essere ritenuto responsabile, a titolo di omicidio colposo, di quanto accaduto a Caio. Per approfondimenti sul problema si consiglia di leggere: -Gullo, La delega di funzioni in diritto penale: brevi note a margine di un problema irrisolto, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 1999, pag. 1508 ; -Gutierrez, Le deleghe di poteri, Giuffrè, 2004. - La problematica della delega di funzioni può essere riassunta nei termini che seguono: -secondo un primo orientamento, noto come funzionalistico (oppure della delega in concreto), il responsabile di un evento negativo va individuato in base alla funzione di fatto esercitata all'interno dell'impresa, in omaggio al principio della corrispondenza tra poteri e funzioni e fra obblighi e responsabilità; tale tesi è criticata perché privilegiare le funzioni di fatto rispetto alle qualifiche formali, se può giustificare esigenze repressive non trascurabili, rischia di porsi in conflitto col principio di legalità; inoltre, se così fosse si correrebbe il rischio che l’istituto della delega sia strumentalizzato dall'imprenditore per liberarsi delle sue responsabilità trasferendole su soggetti sprovvisti di effettivi poteri e di sufficienti risorse; -secondo un secondo orientamento (formale), delega non libera il delegante da ogni responsabilità, perché quest’ultimo manterrebbe un generale obbligo di vigilanza sull'adempimento delle incombenze affidate al delegato, con la conseguenza che, in caso di inadempimento del soggetto delegato, il delegante continua a rispondere, eventualmente in concorso, sotto forma di mancato impedimento del reato ex art. 40 C.p., purché l'adempimento dell'obbligo di vigilanza risulti esigibile sulla base dei criteri che guidano l'imputazione colposa; questo secondo orientamento è criticato perché si espone a rischi opposti rispetto a quelli tipici della teoria funzionalistica, giacché potrebbe condurre alla concentrazione della responsabilità verso i vertici aziendali pur in presenza di delega, sulla base di posizioni di garanzia inderogabili e obblighi di vigilanza assoluti, con conseguente rischio di addebitare una responsabilità ai vertici aziendali a titolo di responsabilità oggettiva, in contrasto con l’art. 27 Cost. e la ratio sottesa. Si consiglia di leggere le sentenze che seguono, seppur non riguardanti la problematica posta dalla traccia. 265 -La delega delle funzioni non solleva da responsabilità il datore di lavoro se questi non conferisce l’incarico a persona idonea, non gli fornisce i mezzi per approntare e attuare il piano di sicurezza e non sorvegli che ciò sia predisposto. CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. IV PENALE - SENTENZA 21 dicembre 2006, n. 41943, n.41943 - Pres. ed est. Lionello(A) e (B), la prima in qualità di legale rappresentante della (C) di Barletta, ed il secondo quale responsabile della sicurezza del cantiere di lavoro della predetta società ex artt. 4 ed 8 D.L.vo 626/94, venivano tratti a giudizio avanti il Tribunale di Bari per rispondere di varie contravvenzioni alle norme antinfortunistiche e di omicidio colposo in danno di (D), dipendente della (C).Nel procedimento si costituivano parti civili la moglie e le figlie della vittima.Con sentenza datata 21 gennaio 2004 le contravvenzioni venivano dichiarate prescritte, mentre per il delitto entrambi gli imputati venivano condannati alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione con la concessione delle attenuanti generiche, nonché al risarcimento del danno alle parti civili cui veniva concessa una provvisionale di € 15.000 per ciascuna di esse.Proposto appello, la Corte di Bari confermava la condanna e riduceva la pena a mesi dieci di reclusione per ciascun imputato che veniva dichiarato tenuto anche al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili.Il giudice d’appello individuava tre temi di discussione:l’inquadramento giuridico degli eventi nei paradigmi di colpa dell’art. 589 c.p. ascrivibile ai due imputati;la individuazione dei soggetti responsabili;la sovrapposizione del separato giudizio a carico di alcuni medici per la medesima ipotesi di omicidio colposo in termini di interruzione del nesso di causa tra la loro condotta e l’evento morte, addebitabile all’imperizia e negligenza dei medici intervenuti nelle cure della vittima.In ordine alle modalità del fatto la corte precisava che esso era molto lineare e non lasciava margini di dubbio sulla sua ricostruzione: il giorno 31/8/98 il (D), autista, si trovava con la propria squadra nel cantiere sito in Triggiano, dove era in atto l’attività di posa di cavi elettrici in uno scavo della lunghezza di circa 400 metri, recintato con una retina sostenuta da bacchette di ferro; scendendo dal camion per fumare una sigaretta perdeva l’equilibrio e finiva con le parti basse del corpo su uno di questi tondini che si infiggeva nella zona perineale, ferendolo.Ricoverato all’Ospedale di Triggiano, gli veniva praticata una sutura e veniva dimesso con una prognosi di otto giorni. Nonostante le cure con cortisonici e tachipirina (solo dal giorno 2 al giorno 4 settembre gli erano stati somministrati antibiotici), il giorno otto, all’altezza del ginocchio destro comparivano delle bolle gassose, per cui veniva inviato al Policlinico di Bari, ove una terapia d’urto a base di ossigeno iperbarico non riusciva ad impedire il suo decesso, avvenuto il giorno 14 settembre.Secondo la corte costituiva colpa l’avere posto in opera una recinzione dello scavo tanto pericolosa, dato che la reticella era sorretta da tondini alti circa un metro, normalmente utilizzati per armare il cemento, mancavano di protezione a tappo ed erano in parte arrugginiti: essi costituivano dei veri e propri offendicula sia per i lavoratori che per i terzi.Quanto al secondo punto, vale a dire la riconducibilità della colpa agli imputati, la corte affermava che il datore di lavoro che sceglie un professionista e lo designa come responsabile della sicurezza non si libera dalle conseguenze connesse alla sua posizione di garanzia se non sceglie un professionista idoneo, non elabora assieme a questi un piano di sicurezza, non gli mette a disposizione i mezzi necessari per attuarlo, non vigila su tale attuazione.Specularmente il rappresentante del servizio di prevenzione deve essere capace, deve predisporre il piano di sicurezza, deve richiedere ed ottenere dall’imprenditore i mezzi per attuarlo, non deve mettere in atto condotte elusive, impedendo la vigilanza del titolare delegante.Ciò non era avvenuto nel caso di specie perché la (A) si era preoccupata di comunicare all’ispettorato dell’ASL il nome del delegato alla sicurezza del quale trasmetteva il curriculum in cui questi si dichiarava esperto in materia di prevenzione nell’ambiente di lavoro ed affermava di occuparsi di tale settore presso la (C), ma non curava affatto l’aspetto attuativo della prevenzione omettendo di richiedere la predisposizione del relativo piano e del pari (B) forniva il curriculum e non apprestava la sua opera per assolvere tali compiti.Quanto al terzo aspetto innanzi elencato, relativo alla sovrapposizione della responsabilità dei medici che ebbero in cura il (D) che vennero dapprima 266 prosciolti e dopo l’appello del Procuratore Generale rinviati a giudizio, la corte concorda con la decisione del primo giudice che ha negato il lungo rinvio richiesto per celebrare un processo unitario, rilevando che la colpa addebitata ai medici non configura una causa sopravvenuta idonea ad interrompere l’efficienza causale delle condotte precedenti in ordine all’evento morte.Avverso detta decisione entrambi gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione.La (A) con il primo motivo deduce la non corretta applicazione della normativa antinfortunistica e contesta che l’art. 68 DPR 164/56 sia riferibile ai mezzi di tutela del cunicolo di scavo presente nel cantiere, perché la norma riguarda una tipologia di costruzioni in quota, mentre gli operai lavoravano ad un livello inferiore rispetto a quello della strada, all’interno dello stesso cunicolo e non sopra di esso. Si doveva perciò escludere che esistesse un pericolo di caduta ed era forviante la prospettiva accusatoria che pretendeva l’uso di un parapetto.Inoltre questo sarebbe stato di intralcio al lavoro che prevedeva il contestuale avanzamento del camion avvolgicavo con il lavoro di scavo che era destinato all’alloggio di cavidotteria.Le caratteristiche del cantiere, insistente su manto stradale, imponevano, invece, un altro tipo di protezione diretta a segnalarne la presenza in ossequio al disposto dell’art. 32 CdS. a tutela degli utenti, cosa cui la (A) aveva provveduto con la posa della reticella arancione.Con il secondo motivo la ricorrente deduce illogicità della motivazione perché da una parte la corte d’appello riconosceva che essa imputata aveva delegato (B) al compito di responsabile della sicurezza e su tale presupposto affermava la colpevolezza di quest’ultimo e dall’altra non sollevava il datore di lavoro dalle responsabilità inerenti alla sua posizione di garanzia.Con il terzo motivo la (A) denuncia erronea applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione in ordine al nesso di causa.Anzitutto la ricorrente contesta che siano state chiarite le dinamiche dell’infortunio, non essendo state rinvenute tracce di sangue in loco e mancando testi oculari del fatto; in secondo luogo sostiene che il lavoratore aveva dimesso le sue mansioni lavorative perché si stava accendendo una sigaretta e quindi il suo comportamento esonerava il datore di lavoro da ogni responsabilità, dovendosi ritenere diretto al compimento di un’attività autonoma estranea al lavoro e comunque abnorme.Infine, richiamando la più recente giurisprudenza di questa Corte in tema di causalità sostiene che il dubbio sussiste non solo in ordine all’antigiuridicità del suo comportamento, ma anche in ordine alla sussistenza del nesso causale.Addebita alla corte territoriale la contraddittorietà della motivazione perché da una parte il giudice d’appello riconosce la responsabilità del delegato alla sicurezza e l’imperizia dei medici e dall’altra considera come causa dell’evento anche la condotta della datrice di lavoro, mentre si potrebbe ravvisare solo - al più - il reato di lesioni colpose, essendo interrotto il nesso di causa con l’evento morte.Con i motivi aggiunti approfondisce il tema della incompatibilità tra la ritenuta responsabilità del (B), delegato alla sicurezza, ed il permanere della sua responsabilità, nonché il tema della interruzione del nesso di causa.(B) contesta di avere assunto la posizione di delegato alla sicurezza, non essendogli mai stato comunicato tale incarico.A sua volta sostiene che non era applicabile la normativa antinfortunistica richiamata dal capo di imputazione, mentre andava fatto riferimento all’art. 32 CDS in base alla quale norma la recinzione adottata era perfettamente regolare, né poteva essere ritenuta pericolosa per gli addetti ai lavori.Denuncia inoltre la manifesta illogicità della motivazione sul punto, anche perché la stessa non tiene conto che esisteva un piano di sicurezza dell’(X) che non prevedeva misure di recinzione diverse da quella posta in opera.Sostiene che non vi era la prova dell’esistenza di ruggine sui paletti perché il teste (Y) aveva affermato che solo qualcuno di quelli adoperati poteva essere arrugginito.Infine deduce la violazione degli artt. 521 e 522 c.p.p. per il passaggio dalla contestazione di colpa specifica a quella di colpa generica, nonché dell’art. 41 secondo comma c.p. assumendo che la condotta contestata e la lesione riportata rimane nell’ambito della semplice occasione, inidonea a determinare l’evento letale, mentre l’incuria dei medici avrebbe da sola prodotto la morte per l’errore riconosciuto dal prof. (E) della mancata somministrazione di antibiotici.Con memoria aggiuntiva (B) ammette di avere firmato il curriculum (circostanza negata in ricorso), ma afferma di avere sconosciuto la circostanza che lo stesso sarebbe servito alla società per designarlo come responsabile della prevenzione e che pertanto la firma apposta non corrispondeva alla coscienza e volontà di accettare 267 tale ruolo.Il procuratore Generale ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi.Risulta dalle dichiarazioni delle parti che i medici sono stati prosciolti per prescrizione, mentre il reato contestato ai ricorrenti non risulta prescritto, nemmeno tenendo conto delle attenuanti generiche concesse con conteggio della pena con giudizio di prevalenza perché si deve tenere conto del periodo di sospensione dichiarato dalla corte d’appello di mesi sette e giorni otto (dal 21/4 al 29/11/05) che si deve aggiungere al termine massimo di anni sette e mesi sei decorrenti dal fatto scadente al 14/3/06.I ricorrenti sostengono che non sono stati chiariti i termini dell’infortunio, ma dalla sentenza si apprende che certamente il (D) si ferì scendendo dal cassone dal camion e precipitando su uno dei tondini che reggevano la rete che delimitava lo scavo.Dalla sentenza di primo grado si apprende che la vittima si trovava sul cassone del camion perché doveva aiutare a svolgere la bobina, mentre il teste (J) si trovava sul piano della strada a tirare il cavo. Giunti alla punta dello stesso il teste aveva invitato il collega a scendere dal cassone e a portarsi nella cabina del camion perché era necessario metterlo in moto e partire per svolgere l’altra metà. Fu poco dopo che il (D) si diresse verso detto teste affermando che si «era rotto l’ano», presentando i pantaloni inzuppati di sangue.Pertanto non vi è dubbio che la vittima stava svolgendo un lavoro cui era stata preposta e si adeguava alle richieste del collega con il quale era addetto allo svolgimento del cavo che doveva essere posizionato nello scavo.Sia in primo che in secondo grado si è discusso in ordine alle cautele che la ditta doveva adottare per proteggere i lavoratori nel cantiere in cui operavano e la stessa questione viene riproposta in questa sede attraverso la contestazione del dovere di posizionare un parapetto come previsto nelle norme antinfortunistiche citate nel capo di imputazione.Dalle indagini dell’Ispettore della Direzione Generale del Lavoro risulta che sul luogo del fatto era stato realizzato uno scavo profondo m 50, largo m 1,20 e lungo m 400 che veniva richiuso mano a mano che la collocazione dei cavi elettrici procedeva.La profondità dello scavo richiedeva una protezione per il rischio di caduta.Sul punto la ricorrente (A) afferma che gli operai lavoravano all’interno dello scavo per cui non correvano tale pericolo, ma questo ragionamento non è fondato perché vi erano operai come il (D) che non entravano nello scavo e comunque, i lavoratori, prima di scendere al suo interno, erano esposti alla caduta, provenendo necessariamente dal piano stradale posto ad un metro e mezzo sopra il fondo della trincea.La protezione apprestata non serviva a tale scopo, ma solo a delimitare l’area e a rendere visibile il cantiere a terzi utenti della strada, mentre per l’altezza insufficiente dei tondini, per le loro dimensioni, per la punta lasciata libera, per essere alcuni arrugginiti la rete non funzionava da barriera atta ad evitare il rischio di caduta all’interno della buca e nello stesso tempo presentava per le sue caratteristiche un pericolo imminente.Il tribunale ha distinto le tutele a favore degli utenti della strada, posto che il cantiere insisteva sulla sede stradale, da quelle a favore dei lavori e per queste ultime ha richiamato la normativa del DPR 164/56 e quella di cui al D.L.vo 626/94, di attuazione delle direttive CEE riguardanti il miglioramento della sicurezza dei lavoratori che impone al datore di lavoro di valutare i rischi a cui sono esposti i suoi subordinati, di individuare le misure di prevenzione e predisporre il programma per attuarle, designando il tecnico responsabile del servizio di prevenzione e protezione nominativo che va comunicato all’Ispettorato del Lavoro ed alle unità sanitarie competenti per territorio.Entrambe le normative trovano applicazione per i lavori effettuati in cantieri temporanei o mobili, come quello in esame. La relativa disciplina è contenuta nel D.L.vo 494/96.I ricorrenti sostengono che esisteva il piano di sicurezza dell’(X), ma questo piano prendeva in considerazione i rischi per gli utenti della strada e non quelli afferenti l’organizzazione del cantiere, essendo questo un aspetto che riguardava espressamente l’impresa esecutrice dei lavori cui venivano rimesse le specifiche prescrizioni.L’art. 68 del DPR 164/56 imponeva l’adozione di opere protettive per il pericolo di caduta rispetto ad una profondità superiore a 0,50 cm, mentre lo scavo arrivava anche ad un metro e mezzo e le opere dovevano essere eseguite con buon materiale ed a regola d’arte.Pertanto, anche a tenere conto che il lavoratore non si fece male perché non venne protetto dalla caduta, il tribunale sottolinea che se la protezione fosse stata eseguita a regola d’arte e soprattutto se non fosse stato utilizzato materiale arrugginito ed appuntito, l’incidente non si sarebbe verificato e che pertanto era questa presenza pericolosa, inidonea ad ogni effetto ed insidiosa, che radicava la responsabilità del datore di lavoro 268 e del preposto alla sicurezza.La corte d’appello non abbandona tale ragionamento ed anzi richiama i doveri di predisporre il piano di sicurezza, giungendo ad affermare che in ogni caso la rete posta a delimitazione dello scavo era assolutamente inidonea ed essa stessa un grave pericolo presentando dei tondini «rizzati come tante baionette».Con ciò il giudice d’appello non intende abbandonare il tema della colpa specifica per addebitare solo quella generica in quanto è sempre in base ai doveri dettati dalle citate norme antinfortunistiche che discende l’inadempimento e la grave imprudenza dei ricorrenti affermati a chiare lettere. Quanto all’esonero da responsabilità del datore di lavoro, una volta che vi sia stata la nomina della persona designata per la sicurezza gli argomenti esposti dalla corte non sono viziati da illogicità. Correttamente e secondo i principi più volte affermati da questa Corte entrambi i giudici di merito hanno affermato che la delega delle funzioni non solleva da responsabilità il datore di lavoro se questi non conferisce l’incarico a persona idonea, non gli fornisce i mezzi per approntare e attuare il piano di sicurezza e non sorvegli che ciò sia predisposto.Dalla sentenza risulta che la (A) con dichiarazione in data 24/11/95 comunicò a norma dell’art. 8 c. 11 D.Lvo 626/94 all’Ispettorato del Lavoro ed alla ASL competente per territorio la nomina del (B), soggetto in possesso dei requisiti necessari, allegando il curriculum firmato dal tecnico.Nonostante le diverse affermazioni del predetto, l’apprestamento di tale documento e la sottoscrizione non poteva che significare l’accettazione dell’incarico.Peraltro nello stesso curriculum (B) dichiarava di svolgere già per la (C) il compito di addetto alla sicurezza, ma non poteva sfuggire alla titolare della società che tale delega non era stata utilizzata per predisporre alcun piano di sicurezza e avrebbe dovuto richiamarlo all’esercizio di tale dovere al quale era stato espressamente delegato.Ne discende che entrambi gli imputati rispondono delle omissioni loro contestate che non hanno consentito di rendere sicuro il cantiere ove il (D) lavorava.Quanto al fatto che questi stesse compiendo attività diverse da quella lavorativa, si apprestasse a fumare una sigaretta e quindi avesse compiuto un atto abnorme, risulta che egli era stato invitato dal collega di lavoro a scendere dal cassone del camion per spostarlo in avanti onde consentire lo srotolamento del cavo, per cui non è ravvisabile alcuna attività estranea al rapporto di lavoro che esuli dal diritto alla tutela antinfortunistica.In relazione al terzo tema di indagine riproposto da entrambi i ricorrenti, vale a dire la sussistenza del nesso di causa tra la condotta loro contestata ed il verificarsi dell’evento morte, nonostante le espressioni utilizzate dalla corte d’appello a riguardo dell’imperizia e negligenza di alcuni medici, si osserva che riconosciuta l’inosservanza delle disposizioni antinfortunistiche come causa delle lesioni per il principio dell’equivalenza delle condizioni e quindi dell’efficienza causale di ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento, il nesso eziologico viene meno solo se è interrotto da un fattore sufficiente a produrre da solo l’evento.In particolare nel caso di lesioni personali cui sia seguito il decesso della vittima la colpa dei medici, anche se grave, non può ritenersi causa autonoma ed indipendente rispetto al comportamento dell’agente perché questi provocando tale evento (le lesioni) ha reso necessario l’intervento dei sanitari, la cui imperizia o negligenza non costituisce un fatto imprevedibile ed atipico, ma un’ipotesi che si inserisce nello sviluppo della serie causale.Inoltre, mentre è possibile escludere il nesso di causa in situazioni di colpa commissiva, nel caso di omissioni di terapie che dovevano essere applicate per impedire le complicanze, l’errore del medico non può prescindere dall’evento che ha fatto sorgere la necessità della prestazione sanitaria, per cui la catena causale resta integra.Nel caso in esame risulta che il (D) riportò una ferita penetrante alla natica sinistra in regione perianale e che causa della morte fu un’infezione gangrenosa dell’arto inferiore destro con fascite necrotizzante.Il Prof. (E), consulente del PM, ha affermato che non vi è contrasto tra la localizzazione della ferita a sinistra ed il manifestarsi della gangrena a destra, perché non esistono barriere difensive tra le due regioni del corpo, tenuto conto della ristrettezza della zona interessata dalla ferita. Pertanto fu certamente questa a produrre la patologia letale, la quale è compatibile con la presenza di ruggine nel tondino e secondo il predetto consulente che si espresse in ordine anche all’imperizia dei medici, la somministrazione dell’antibiotico, che in ogni caso andava prescritto, non avrebbe con certezza evitato la morte del paziente, in considerazione del fatto che la terapia iperbarica, ritenuta specifica per la patologia in atto, non portò alcun miglioramento.La corte 269 d’appello nel riferire le conclusioni del prof. (E) correttamente ritiene che la catena causale non sia stata interrotta dalla cattiva pratica terapeutica e che resterebbe del tutto ipotetica una valutazione di efficienza causale esclusiva di quest’ultima.Ciò premesso non essendo, ravvisabili né i dedotti errori di applicazione di norme penali, né alcuna carenza o illogicità della sentenza, né mancanza di correlazione tra il contestato ed il ritenuto a sostegno della colpa, i ricorsi vanno rigettati con la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali e di quelle sostenute dalle parti civili, liquidate come da dispositivo.P.Q.M.Rigetta i ricorsi. - La responsabilità del medico si estende alla fase post-operatoria Cassazione penale , sez. IV, sentenza 08.02.2005 n° 12275 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. COCO Giovanni Silvio – PresidenteDott. TUCCIO Giuseppe – ConsigliereDott. MARINI Lionello – ConsigliereDott. CHILIBERTI Alfonso - Consigliere Dott. PICCIALLI Patrizia - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA 30-03-2005 n. 12275 Svolgimento del processo - Motivi della decisione Con separati atti Francesco A., Giacomo C. e Benedetto Z. hanno proposto a mezzo dei rispettivi difensori ricorso avverso la sentenza in data 13.12.2002 della Corte d'appello di Catania, che ha confermato la sentenza 10.7.2001 del Tribunale di Siracusa, sezione distaccata di Lentini, con la quale ciascuno è stato condannato con le attenuanti generiche alla pena di un anno di reclusione per il reato di cui agli artt. 40 cpv. e 589 c.p., commesso il 4.10.1995. Gli imputati, costituenti l'equipe chirurgica che effettuò l'intervento operatorio su Bordarmi Eugenio il 2.10.1995, sono statiritenuti responsabili del detto reato per aver omesso di effettuare su di un soggetto con fratture costali multiple e doppie l'intervento di stabilizzazione di dette fratture o di applicargli un tubo oro- tracheale allo scopo di ovviare all'insufficienza respiratoria, per averlo fatto rientrare al reparto dopo l'intervento anzichè sottoporlo a terapia intensiva, e per aver sottovalutato elementi significativi che rendevano prevedibile un'insufficienza respiratoria, quali l'incremento progressivo della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, provocando così la morte del paziente per insufficienza respiratoria acuta. La corte di merito non dava rilievo ad una discrasia tra cartella clinica e cartellino anestesiologico, che non parlavano d'intervento di osteosintesi, e registro di sala operatoria, che ne attestava l'esecuzione, sul rilievo che era senz'altro da escludersi che vi fosse stata un'osteosintesi completa, relativa a tutte le 24 fratture costali, mache non poteva escludersi che l'intervento avesse interessato le costole prossime alla ferita chirurgica, sì che ben poteva esservi stata un'osteosintesi parziale. Rilevava invece come la ventilazione forzata cui si era fatto ricorso durante l'intervento operatorio era stata interrotta dopo l'esecuzione di questo e nulla era stato fatto per consentire la respirazione del paziente, e ravvisava la responsabilità di tutti detti medici, che avevano partecipato o assistito all'intervento e che erano o dovevano essere a conoscenza delle condizioni del ricoverato, e quindi avevano l'obbligo giuridico, sulla scorta dei 270 D.P.R. 761/79 e 128/69 (che comporta che primari, aiuti ed assistenti assumono tutti e per intero, salve le eccezioni che non sono qui ravvisabili, la responsabilità del caso concreto) di impedire l'evento indicando, promovendo, imponendo odoperando direttamente i necessari presidi, accertamenti ed interventi. All'udienza del 17.3.2004 si celebrava il giudizio di Cassazione a carico dell'A. e del C., e veniva straciata per difetto di notifica la posizione dello Z., il giudizio nei cui confronti si è celebrato in data odierna. Osserva questa Corte che il reato è prescritto: il termine di prescrizione, infatti, per effetto delle attenuanti generiche e compresa l'interruzione, è di anni sette e mesi sei, per cui - pur tenendosi conto della sospensione per mesi 11 e gg. 25 - esso si è interamente consumato. Lamenta il ricorrente vizi che non sono idonei a far apparire evidente che il fatto non sussiste, che l'imputato non l'ha commesso, che il fatto non è preveduto dalla legge come reato, si che non è consentito un proscioglimento ai sensi dell'art. 129, co. 2^, c.p.p.La stessa esclusione del reato di falso ideologico, dimostrata dalla sentenza 7.2.2003 esibita, non dimostra che vi è stata un'osteosintesi completa, e prevalentemente i motivi si fondano su risultanze processuali che non emergono dal testo della sentenza impugnata, nè si può dubitare del fatto che, se l'intervento operatorio in senso stretto può ritenersi concluso con l'uscita del paziente dalla camera operatoria, sul sanitario grava comunque un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato anche nella fase post-operatoria; tale obbligo, rientrante tra quelli di garanzia, discende non solo da norme, scritte e non, ma anche dal contratto d'opera professionale, di tal che la violazione dell'obbligo comporta responsabilità civile e penale per un evento casualmente connesso ad un comportamento omissivo ex art. 40, co. 2 c.p. (cfr. Cass. 3492/02). L'impugnata sentenza va dunque annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata per essere il reato estinto per prescrizione. Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2005. Depositato in Cancelleria il 30 marzo 2005. ASSOCIAZIONE CON FINALITÀ DI TERRORISMO: TRACCIA: MaziOmar è membro di un’associazione che si prefigge lo scopo formale di diffondere il Corano in tutto il mondo. Caia fa parte della stessa associazione di MaziOmar, insieme al marito Pino. Un giorno, MaziOmar, di comune accordo con gli altri associati (tra cui Caia e Pino), si faceva esplodere nei pressi di una base militare italiana, in Roma, causando vari feriti. Il candidato affronti la questione giuridica posta, con riferimento all’applicabilità dell’art. 270bis c.p. nel caso di specie. POSSIBILE SOLUZIONE SCHEMATICA: In premessa poteva essere utile ricostruire sinteticamente il fatto. Successivamente, era fondamentale prendere in esame la lettera dell’art. 270bis c.p., con particolare riferimento all’inciso “finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”. Tale finalità può dirsi sussistente nel caso di specie, dove vi è, nella sostanza, un atto di violenza diretto verso una base militare? Premesso che lo scopo reale dell’associazione di cui fanno parte Caia e Pino non è semplicemente quello formale di diffondere il Corano, perché tale associazione ha promosso condotte violente, è 271 compatibile il concetto di finalità di terrorismo o eversione con un attacco ad una base militare? Al quesito posto bisognerebbe dare risposta positiva, perché qualsiasi attacco, ex se, fatto con violenza, soprattutto se in una città che non è in guerra (come nel caso di specie), è atto che può essere finalizzato al terrorismo o eversione. Vi può essere anche terrorismo verso basi militari e non solo verso civili, come chiarito dalla giurisprudenza più recente. In questo senso, allora, ben potrebbero Caia e Pino rispondere del reato associativo, ex art. 270 bis c.p. Si consiglia di leggere attentamente la sentenza che segue. -E’ atto terroristico anche quello contro un obiettivo militare quando le peculiari e concrete situazioni fattuali facciano apparire certe ed inevitabili le gravi conseguenze in danno della vita e dell’incolumità fisica della popolazione civile, contribuendo a diffondere nella collettività paura e panico (in specie, azioni suicide dei c.d. kamikaze compiute contro obiettivi militari). CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. I PENALE - SENTENZA 17 gennaio 2007, n. 1072, n.1072 Pres. Torquato – est. Silvestri Svolgimento del processo Con sentenza del 24.1.2005, all’esito di giudizio abbreviato il GUP del Tribunale di Milano assolveva Bouyahia Maher Ben Abdelaziz, Toumi Ali Ben Sassi e Daki Moliamed dalla imputazione di partecipazione ad associazione con finalità di terrorismo internazionale di cui al capo 1 con la formula “perché il fatto non sussiste” e dichiarava gli stessi imputati responsabili dei delitti, uniti dal vincolo della continuazione, contestati al capo 2 (ricettazione di documenti di identità falsi) e al capo 3 (atti, a fine di profitto, diretti a procurare l’ingresso illegale nel territorio dello Stato italiano o di altri Stati), esclusa l’aggravante della finalità di terrorismo prevista dall’articolo 1 della legge 15/1980. In data 28.11.2005,, a seguito di appello del Pm e degli imputati, la Corte di Assise di Appello di Milano, in parziale riforma della decisione di primo grado, assolveva Daki Mobamed da tutti i delitti a lui ascritti: inoltre, dall’imputazione di ricettazione di cui al capo 2 venivano assolti anche il Bouyahia e il Toumi, i quali venivano, invece, condannati per il delitto di cui all’articolo 416 Cp così modificato il capo 1 della rubrica per avere fatto parte di un’associazione finalizzata al compimento di delitti di falsificazione di documenti d’identità e di procurato ingresso illegale in Stati europei ed extraeuropei, con la conferma nel resto dell’impugnata sentenza. Dopo avere ricostruito gli antefatti e le vicende del processo ed avere esaminato in generale il fenomeno del terrorismo di matrice islamica, la Corte territoriale riteneva che, nell’ottica della contestazione del reato associativo ex articolo 270bis Cp, l’oggetto dell’indagine non fosse costituito dall’attività asseritamente di appoggio al terrorismo internazionale realizzata a Milano e in altre città a partire dal 1999, ma dalle specifiche condotte poste in essere dagli imputati, dalle 272 finalità da loro perseguite e dal programma dagli stessi condiviso, tenendo presente che nel capo 1 dell’imputazione risulta delineata una struttura associativa sopranazionale operante in Italia e all’estero sotto l’egida di varie sigle, delle quali non erano, tuttavia, accertabili, alla stregua delle risultanze processuali, né la natura unitaria né l’esistenza di un unico centro decisionale. Espressa l’esigenza di definire la nozione di terrorismo alla luce dei principi costituzionali di legalità e di determinatezza della legge penale, la Corte di merito riteneva applicabile la disposizione di cui all’articolo 270sexies Cp, inserita dall’articolo 15, comma 1, del Dl 144/05, convertito nella legge 155/05, recante la definizione delle condotte con finalità di terrorismo”, in quanto, pur essendo entrata in vigore dopo i fatti di causa, detta disposizione era priva di contenuto sanzionatorio e precisava in senso restrittivo il concetto di terrorismo. La Corte, poi, esaminava il contenuto delle convenzioni internazionali vincolanti per l’Italia in materia di terrorismo, passando in rassegna l’articolo 2 lettera b) della Convenzione per la repressione del finanziamento del terrorismo, adottata dall’Assemblea Generale dell’Onu il 9.12.1999 e resa esecutiva con legge 7/2003, la Decisione quadro del Consiglio dell’Unione Europea del 13.6.2002, concernente l’attività di terrorismo in tempo di pace, e le quattro Convenzioni di Ginevra del 128.1949, rese esecutive con legge 1739/51, con i due Protocolli aggiuntivi, resi esecutivi con legge 762/85, le cui disposizioni, facenti parte del diritto internazionale umanitario, contengono la definizione di conflitto armato e degli obblighi dei combattenti anche se non inquadrati in truppe regolari, nonché il divieto di colpire intenzionalmente la popolazione civile e di dirigere attacchi militari contro obiettivi civili. A giudizio della Corte, dalle fonti normative internazionali inequivocamente emerge che un atto può definirsi terroristico quando sia costituito da un determinato fatto delittuoso capace di diffondere terrore nella popolazione e di provocare un grave danno ad uno Stato o ad un’organizzazione internazionale, sempreché sia diretto contro un obiettivo civile, sia stato commesso nel corso di un conflitto armato o di una situazione equiparata, quale l’occupazione militare ad opera di uno Stato straniero, e sia qualificato da una finalità politica o ideologica. Ciò posto, nella sentenza impugnata veniva accertato che i fatti oggetto del processo si erano svolti prevalentemente nei mesi di febbraio e di marzo 2003 quando era in preparazione l’intervento degli Stati Uniti in Iraq, avvenuto il 20.3.2003, e che all’inizio, fino ai primi di agosto 2003, l’azione di kamikaze aveva avuto esclusivamente obiettivi militari, estendendosi solo successivamente a tale epoca contro la popolazione civile. La Corte territoriale passava, quindi, ad esaminare il ruolo svolto da Mera’j (El Ayashi Radi Abd El Samie), arrestato in data 1.4.2003 ed estraneo al presente processo, che, in collegamento con il Mullah Fouad del gruppo Ansar Al Islam, era stato il principale referente delle attività contestate agli imputati nel reclutamento e nell’invio di volontari in campi di addestramento siriani prima di essere trasferiti in Iraq per combattere contro gli americani e i loro alleati. In particolare, veniva rilevato che queste attività risultavano chiaramente dalle intercettazioni telefoniche; che in una delle conversazioni si accennava alla ricerca di kamikaze, impiegati in quel periodo, però, soltanto contro obiettivi militari; che era giustificato ritenere che Mera’j appartenesse all’area del fondamentalismo islamico e che, tuttavia, mancava qualsiasi concreto elemento di prova per affermare che egli fosse coinvolto in un programma di azioni terroristiche nel senso sopra specificato. La Corte reputava, poi, di scarsa consistenza gli elementi di prova a carico di Daki Mohamed, incaricato di procurare un passaporto falso a Ciise Maxamed Cabdullaak, dovendosi quest’ultimo recare in Iraq per combattere contro gli americani, osservando che le intercettazioni offrivano elementi comprovanti l’estraneità del Daki al gruppo che aveva richiesto il suo intervento a favore del Ciise e che indizi a carico dell’imputato non potevano trarsi né dalle informative della polizia giudiziaria tedesca né dai documenti sequestrati a seguito di perquisizione nella sua abitazione. Quanto alla posizione di Bouyahia Maher, premesso che questi era rimasto in Italia dall’aprile all’ottobre 2002 e che gli erano stati sequestrati un manuale intitolato “Elementi di base per la preparazione della Jihad per la causa di Allah”, un permesso di soggiorno francese falso, foto tessere tra cui quella di F’radi il libico, la somma di 8.625 euro e numerose musicassette contenenti preghiere arabe, la Corte osservava che nella predetta pubblicazione non si faceva riferimento al 273 compimento di azioni terroristiche in senso proprio e che dal complesso delle emergenze probatorie poteva ricavarsi la conclusione che Bouyahia, nel periodo in considerazione, aveva collaborato con Mera’j nel procurare documenti falsi destinati ai volontari diretti in Iraq per combattere contro gli americani e non per compiere attentati terroristici contro la popolazione civile, il cui inizio doveva farsi risalire a parecchi mesi dopo l’intervento degli Stati Uniti in quel Paese. Riguardo alla posizione di Toumi Ali, la Corte distrettuale riteneva accertati i suoi rapporti con Mera’j e con Maher e lo svolgimento di attività illecite nel rilascio, attraverso la cooperativa di cui era presidente, di false attestazioni di lavoro a extracomunitari che cercavano di ottenere il permesso di soggiorno in Italia, non potendosi attribuire al Toumi Ali, sulla base dalle numerose conversazioni telefoniche intercettate e dalle restanti risultanze probatorie, condotte riconducibili alla nozione di terrorismo in senso proprio. Infine, nella sentenza impugnata veniva escluso che gli imputati potessero considerarsi responsabili del delitto associativo contestato al capo 1 a causa dell’assenza di attività riconducibili nella nozione di terrorismo e, comunque, della mancanza di prove della consapevolezza di tale finalità, tanto più che, per quanto concerne Daki Mohamed, questi risultava coinvolto nel fatti di causa unicamente per l’episodio della cessione, poi non avvenuta, del suo passaporto al Ciise, intenzionato ad andare a combattere in Iraq. La Corte riteneva che i fatti indicati dal Pm risultassero irrilevanti in ordine alla prova della partecipazione degli imputati ad una associazione terroristica e che nessun utile argomento potesse trarsi dagli elementi acquisiti sul gruppo Ansar Al Islam perché riferiti a contesti geografici, temporali e politici del tutto differenti da quelli del presente processo, essendo rimasta sfornita di prova la tesi della Pubblica Accusa relativa all’esistenza di attività terroristiche parallele a quella di reclutamento e di addestramento di volontari per combattere contro gli americani. La Corte di merito concludeva ritenendo che il Daki dovesse essere assolto da tutti i delitti ascrittigli e che il Bouyahia e il Toumi dovessero essere dichiarati responsabili del delitto di associazione per delinquere di cui all’articolo 416 Cp, così modificata l’imputazione al capo 1, nonché del delitto al capo 3 per avere favorito l’ingresso illegale e il passaggio di stranieri extracomunitari munendoli di documenti d’identità falsi, mentre l’assol