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La Valbrevenna, un mondo che vuole continuare a
La Valbrevenna, un mondo che vuole continuare a vivere di Giovanni Meriana TERRITORIO Tra le valli dell’entroterra genovese, la Valbrevenna è la più selvaggia e solitaria. Chiusa tra i crinali dei monti Liprando e Buio, che conducono alla montagna dove l’alpinismo genovese ha fatto le sue prime prove a metà Ottocento, l’Antola, la valle è oggi un piccolo mondo rimasto magicamente intatto. 19 TERRITORIO Casareggio vista da Tonno. 20 I l torrente da cui deriva il nome la percorre per una quindicina di chilometri dalle sorgenti ad Avosso, dove si immette nello Scrivia, scavandosi il letto tra i calcari e dando vita a un paesaggio fatto di anse e di forre, lungo le quali si può ancora sentire lo scroscio delle cascate e vedere il merlo acquaiolo tuffarsi e rimettersi in volo con la preda per i piccoli. Abitata da poco più di seicento residenti, contro i tremila degli anni anteguerra, ma ripopolata d’estate per la purezza dell’aria e la quiete tranquilla dei boschi, conta quaranta paesi, metà dei quali in fase di avanzato abbandono. Nell’età del Ferro alcune posizioni strategiche per la difesa e le prime forme di allevamento e pascolo furono occupate dalle popolazioni dei castellari. Una necropoli è venuta alla luce attorno al 1935, quando si costruì la strada carrabile nel fondovalle e nel paese di Cà si sono trovate tombe a cassetta con vasi di terracotta (oggi nel museo di Pegli) destinati all’incinerazione dei cadaveri. Il Centro di Studi Storici per l’Alta Valle Scrivia ha voluto ricordare l’antica consuetudine collocando nel punto del ritrovamento la ricostruzione pittorica del rituale funerario. Quando in epoca moderna siano stati costruiti i paesi della valle, non è dato di sapere con certezza. Sicuramente in periodi di “fame di terra” da parte di popolazioni profughe da altre regioni, che scelsero i versanti a solatio, più o meno sulle isoipse dai sei agli ottocento metri, per garantirsi la produzione dei cereali. Per far produrre la terra su pendici così dirupate e aspre, fu necessario terrazzarla con muri che sembrano costruiti da titani, tanto le pietre calcaree sono squadrate e di grande pezzatura. Ma l’immane fatica ha dato i suoi frutti e attorno ai villaggi le fasce hanno consentito la coltivazione del grano, mentre i terreni alle quote altimetriche più elevate, diventati col tempo comuni, le “comunaglie”, sono stati destinati alla produzione del fieno e al pascolo. Il paesaggio agricolo del Comune ha conservato intatti, fino agli anni dello spopolamento nel dopoguerra, i segni del secolare lavoro dell’uomo. Poi è cominciata la decadenza e il bosco, non più contenuto dal lavoro attento dei contadini, ha invaso i terreni su TERRITORIO fascia, cancellando le tracce della “cultura della fatica”. Si sono salvati i centri storici, almeno quelli ripopolati d’estate dal ritorno delle famiglie alle origini. Il paese di Pareto a ottocento m di altitudine era considerato il “granaio”della Valbrevenna per l’esposizione a solatio sulla costa di monte e l’estensione dei terreni a fascia. Ma vi si allevava anche bestiame e più in basso i castagneti assicuravano frutti abbondanti. In tempi recenti, sotto la casa canonica, il parroco don Giuseppe Borgatti ha ritrovato una stalla cinquecentesca ancora perfettamente conservata, che ripulita e valorizzata nel gioco degli archi e degli spazi minori, ha ospitato due anni fa le sagome di una Sacra Famiglia ad altezza naturale disegnate da Lele Luzzati per il presepio, inaugurato in una fredda domenica di dicembre con la presenza di Tonino Conte e di attori del teatro della Tosse. A Natale del 2003 Don Giuseppe e i suoi collaboratori hanno inventato un altro presepio, collocando le statue di Maria e Giuseppe ricavate da tavole di castagno nella stazione di arrivo della funivia che collegava Pareto col fondovalle, a pochi passi dal Santuario della Madonna dell’Acqua. Il Bambino Gesù è stato fatto col pane, per ricordare a quanti lo sprecano che altri ne soffre ogni giorno la privazione. Il presepe voleva anche testimoniare il legame storico tra la valle e il paese di Pareto, dove il grano abbondava e veniva macinato nei mulini oggi distrutti dall’abbandono o devastati dai vandali nella gola del torrente, mentre le tavole di castagno hanno richiamato alla memoria il ruolo della pianta che ha sfamato per secoli le popolazioni della valle. Due iniziative per ridare vita e speranza anche nei mesi invernali alla Valbrevenna, territorio impoverito oggi dall’abbandono, dove i soli problemi della viabilità continuamente disastrata da frane e smottamenti, assorbono l’80% del bilancio comunale. Eppure la valle ha bellezze paesistiche da vendere, a cominciare dal suo Santuario centro della vita religiosa del Comune, costruito in un punto dove la valle si stringe, tanto da lasciare spazio solo alla strada, che corre affiancata al torrente. La tradizione racconta che verso la fine del secolo XVI, mentre nella valle infuriava la peste, una giovane contadina Il caratteristico borgo di Mareta. 21 Il Santuario dell’Acqua. Tonno: antica casa in pietra. A fronte L’affresco dell’antica cappelletta di Mareta. Senarega: antico ponte e cappelletta. Il torrente Brevenna. 22 della borgata scomparsa di Ravin, sentì risuonare nel bosco dove oggi sorge la chiesa la voce Salus infirmorum ora pro nobis. Vi andò e trovò una vena d’acqua sorgiva, ne bevve e fu guarita. Oggi alla Madonna dell’Acqua si ritrovano ogni anno per il giorno della festa tutti gli abitanti della Valbrevenna e quelli che sono emigrati altrove. E siccome la valle all’emigrazione nelle Americhe nell’Ottocento e nella città in tempi più recenti, ha pagato un tributo altissimo, il Santuario può considerarsi il luogo di culto di tutti coloro che per necessità hanno dovuto abbandonare il paese, ma vi ritornano per ritrovarvi lo spirito delle comuni origini. Arrivare al Santuario d’estate, quando in città avvampa la calura, e immergersi nel silenzio e nel refrigerio del luogo, è come entrare in un mondo lontano anni luce da quello cittadino. Oltre il Santuario la valle continua a restringersi e la strada a salire fino ai più lontani paesi di Tonno e Casareggio, Piancassina e Lavazzuoli, a oltre mille m s.l.m. Quest’ultimo, privo di strada carrabile e già abbandonato, è fatto rivivere oggi da due coraggiosi che allevano bestiame e producono formaggio. Lungo la salita si incontra sul versante sinistro Mareta, dove c’è una cappelletta campestre costruita nel 1573 e fatta affrescare tre anni dopo da tale Pasqalino di Mareta “Per divozione a Santo Jaccomo mio patrono”. L’ignoto artista ha raffigurato nella parete di fondo la Madonna col Bimbo in trono e ai lati i Santi Giacomo e Giovanni Battista. Nella lunetta l’Annunciazione e nella volta il Padreterno. La rappresentazione nella sua ingenua freschezza ha qualcosa di toccante e il visitatore si chiede chi poteva essere il generoso committente dell’ex voto ricordato nel cartiglio: un contadino del luogo, un mulattiere, il membro di una famiglia emergente, un emissario della famiglia Fieschi che nella Valbrevenna prolungava i suoi domini di Savignone? Risalendo ancora si arriva al bivio per Tonno e poco dopo c’è la località Fullo, il cui none è indicativo della presenza di un mulino per la follatura dei panni. E a proposito di mulini va ricordato che in Valbrevenna ne sono stati costruiti quindici, tutti nelle anse del torrente, per poter catturare più facilmente l’acqua indispensabile al loro funzionamento. Uno solo, l’unico che si è conservato, è stato costruito su una fascia a quasi ottocento metri di altitudine. E’ quello di Porcile. Veniva alimentato con l’acqua di un laghetto pensile, servito da una sorgente, e macinava fin tanto che l’acqua del lago non era esaurita. Il segnale che il mulino entrava in funzione veniva dato con un corno, almeno così raccontano gli ultimi testimoni. Poi bisognava aspettare che la riserva d’acqua si riformas- se. Presto quel mulino, restaurato per iniziativa del Centro di Studi Storici, tornerà a macinare cereali e castagne e potrà essere visitato assieme alla fornace di calce, ritrovata quasi intatta, con la quale gli abitanti di Porcile con il calcare dell’Antola fabbricavano il legante necessario a tenere assieme le pietre delle loro case. Era un’economia autarchica quella della Valbrevenna, nel senso che gli abitanti ricavavano dalla terra tutto ciò che serviva a sopravvivere, comprando fuori del paese soltanto lo stretto indispensabile. Oltre il Fullo c’è Senarega, paese feudale dominato dal castello dei Fieschi che avevano case di caccia disseminate in tutti i paesi. Il ponte per accedervi è costruito a unica arcata su una cascata del Brevenna e di fianco c’è la chiesa votiva della Madonna del Ponte. Più oltre è come ritrovarsi all’improvviso in un angolo di Medioevo: sotto un voltino si vedono ancora le attrezzature del maniscalco e del forno comune, mentre la monumentale chiesa del Seicento si affaccia su un piazzale che ha attorno un unico sedile in pietra, dove la domenica i paesani sostavano per scambiarsi opinioni sui raccolti, praticare la compravendita di vitelli e di terreni e riuscire a far vivere quel piccolo mondo così aspro e difficile, ma anche protettivo e familiare. Uno spaccato della vita agreste della Valbrevenna si trova a pochi passi da questo piazzale sotto la casa canonica. E’ la sezione etnologica del Museo Storico dedicata alla stalla. Il visitatore troverà in una stalla autentica del Cinquecento, la descrizione fatta con le parole dei pochi superstiti raccolte anni fa da Paolo Giardelli, di che cos’era la stalla, come veniva accudita, quali attrezzi la occupavano e vi si costruivano nei lunghi inverni, a quali indotti dava vita, dalla fienagione alla produzione dei derivati del latte, dall’alpeggio ai “casoni” nei mesi estivi, fino alla produzione dello stallatico per concimare i campi. Un museo da vedere e su cui meditare per conoscere un mondo sconosciuto ai più, mirabilmente raccontato da Armanda Navone Paganelli, una scrittrice purtroppo dimenticata, in due romanzi fiume, Maito e La luce sorge al tramonto, oggi introvabili, dove la storia di una famiglia si dipana dal movimento cospirativo dell’Ottocento fino alla Resistenza e offre all’autrice l’occasione per indagare consuetudini di vita e di lavoro dei campi fino al momento in cui la Valbrevenna, dopo le prime emigrazioni stagionali nelle città della pianura padana, nelle risaie del vercellese o nelle tonnare della Sardegna si spopola una prima volta con l’emigrazione nelle Americhe, dove interi paesi si trasferiscono tra la fine dell’Ottocento e i primi del nuovo secolo. Poi verrà la seconda emigrazione nella vicina città dopo la fine del secondo conflitto mondiale e sarà il colpo di grazia per un Comune che non si rassegna a essere dimenticato e vuole continuare a vivere.