Identifico come talento solo colui che consegue effettivamente
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Identifico come talento solo colui che consegue effettivamente
Corso per Tecnico Nazionale PROJECT WORK Le componenti psicologiche di un atleta di alto livello Maestro Nazionale Alessandra Murialdo INDICE INTRODUZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 1 CAPITOLO 1 AUTOCONSAPEVOLEZZA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 3 Immagine del sé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ Stima di sé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ Vulnerabilità del sé . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 4 6 8 CAPITOLO 2 CREDERE in sé ( self efficacy ) . . . . . . Self efficacy e prestazione sportiva . . . . . . . . . . . “ . . . . . . . 15 “ 17 LOCUS OF CONTROL (attribuzione di casualità) . . . . . . . “ 22 CAPITOLO 3 CAPITOLO 4 MONITORARE LE SENSAZIONI . . . . . . . . . . . . . “ 28 CAPITOLO 5 PENSARE POSITIVO (self talk) . . . . . . . . . . . . . . “ 39 Controllo dei pensieri . . . . . . . . . . . . . . . . . Tecniche di controllo dei pensieri . . . . . . . . . . . . “ 40 “ 43 CAPITOLO 6 LA CONCENTRAZIONE . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 48 Prospettive teoriche . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 49 Allenamento alla concentrazione . . . . . . . . . . . . . . “ 55 CAPITOLO 7 CONTROLLO DELL’ATTIVAZIONE . . . . . . . . . . . . pag. 58 Arousal e prestazione . . . . . . . . . . Procedure di autoregolazione . . . . . . . Strategie di autoregolazione ( muscle-to-mind) Strategie di autoregolazione ( mind-to-muscle) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ “ “ “ 59 65 67 70 CAPITOLO 8 LE ABILITA’ IMMAGINATIVE . . . . . . . . . . . . . . “ 73 Ipotesi teoriche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Allenamento all’imagery . . . . . . . . . . . . . . . . Imagery e preparazione mentale . . . . . . . . . . . . “ 73 “ 79 “ 84 CAPITOLO 9 LA GESTIONE DELLO STRESS . . . . . . . . . . . . . . “ Concetti teorici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Manifestazioni dello stress . . . . . . . . . . . . . . . Gestione dello stress . . . . . . . . . . . . . . . . . 87 “ 88 “ 91 “ 93 CAPITOLO 10 IL GOAL SETTING . . . . . . . . . . . . . . . . . . . “ 106 Indicazioni metodologiche . . . . . . . . . . . . . . . “ 108 INTRODUZIONE Con questo mio lavoro voglio fornire ai Maestri alcune nozioni sulle componenti psicologiche che un giocatore di alto livello deve possedere. Queste abilità completano e ottimizzano il lavoro che noi Maestri svolgiamo sul campo. Devono, però, essere considerati due importanti aspetti : 1) l’atleta deve essere a conoscenza della necessità di possedere queste componenti per raggiungere grandi risultati 2) così come tutte le abilità, anche quelle psicologiche, devono essere allenate e programmate adeguatamente Identifico come talento solo colui che consegue effettivamente risultati elevati e non chi,inizialmente, sembra dotato, ma poi, per una varietà di ragioni, non arriva ad esprimere pienamente le proprie potenzialità. La principale difficoltà di identificare il talento nasce soprattutto dal fatto che la prestazione sportiva più semplice non è mai davvero semplice. Ogni prestazione infatti è influenzata da una molteplicità di fattori di varia natura, che, nella maggior parte dei casi, dipendono dall’interazione tra le riserve genetiche del potenziale di prestazione e gli effetti dell’adeguata e voluminosa pratica motoria negli anni più sensibili allo sviluppo motorio e poi, nel contesto di un sistema razionale di allenamento.Qualunque sia lo sport praticato non è possibile limitare il talento al semplice possesso di caratteristiche biologiche vantaggiose. La trasformazione del talento potenziale in talento attuale implica certamente almeno altri due livelli di requisiti: _ fattori psicologici e caratteriali (personalità, controllo emotivo, continuo supporto interno alla motivazione) _ fattori di sostegno (servizi medici,ortopedici, tecnologie, staff) Per talento sportivo deve essere quindi inteso normalmente quel soggetto che appare caratterizzato da presupposti di prestazioni adeguati, in rapporto al ventaglio di caratteristiche motorie e psicologiche che risultano significative per la pratica efficace di una determinata prestazione sportiva. Nella mia ricerca cercherò di sviluppare le componenti psicologiche che un atleta deve possedere e controllare per riuscire ad ottenere risultati eccellenti. Aspirare all’eccellenza richiede molti sforzi. Un impegno teso a fornire a qualunque costo prestazioni che mettano alla prova il potenziale dell’atleta. Significa non lasciare nulla di intentato. Mi concentrerò quindi sulle seguenti abilità mentali: - autoconsapevolezza - credere in sè - locus of control - monitorare le sensazioni - pensare positivo - concentrarsi - controllare l’attivazione - visualizzazione - gestione dello stress - goal setting CAPITOLO 1 AUTOCONSAPEVOLEZZA “La consapevolezza di sé è la cosa più importante per chi vuole diventare un campione” BILLIE JEAN KING In qualità di allenatore devo conoscere a fondo l’atleta perciò devo incoraggiarlo nello sviluppo della consapevolezza del Sé. Intendo il Sé come il sistema dei concetti di cui dispone un individuo per definire se stesso. Una persona tende continuamente a interpretare e reinterpretare nozioni, idee e immagini di sé attraverso le esperienze maturate nelle diverse occasioni. Così, da una parte un individuo può ritenersi capriccioso e altre volte calmo, oppure aggressivo quando compete, ma docile al di fuori della competizione. Tuttavia, malgrado queste oscillazioni, ci sono generalmente un nucleo e un senso stabile del Sé che si consolidano attraverso l’esperienza. Perciò una persona può considerarsi equilibrata, nonostante si percepisca talvolta aggressiva e talvolta docile. Questa concezione del Sé implica tre principi: - è possibile comprendere il Sé chiedendo alla persona di descriversi - il Sé è essenzialmente stabile - alcuni aspetti del Sé possono cambiare in circostanze diverse. Ciò suggerisce che il mondo “privato” dell’atleta può essere più “accessibile” a chi gli lavora accanto. Indica anche che una maggiore comprensione favorisce la relazione lavorativa fra di essi. Diverrà così più facile riconoscere quando è il caso di spingere, di incoraggiare, di essere direttivi oppure di blandire o lasciar riposare l’atleta. Implica inoltre una migliore accuratezza nel prevedere come l’atleta reagirà in varie circostanze. E’ utile approfondire tre aspetti del Sé: - immagine di Sé - stima di Sé - vulnerabilità del Sé Immagine di Sé Riguarda la visione che l’atleta ha di sé rispetto ai costrutti di cui dispone. Per sollecitare una descrizione dell’immagine di sé, il primo passo consiste nell’invitare l’atleta a descriversi, anche selezionando da una lista (tabella 1) quelle descrizioni che meglio rappresentano il modo in cui si vede. Il numero ottimale di descrizioni è fra otto e dieci. Queste descrizioni vengono poi trascritte su un profilo di autoconsapevolezza, secondo lo schema riportato in figura 1. Le descrizione devono essere mantenute così come sono date dall’atleta e non essere alterate. I passi successivi per la misura dell’immagine di sé sono: - riportare le descrizioni nella colonna di destra del profilo (fino a dodici) - chiarire con l’atleta ciò egli intende per ciascuna definizione - identificare il polo di “ contrasto” per ciascuna definizione e trascriverlo nell’apposita colonna di sinistra, utilizzando gli stessi termini dell’atleta.Per elicitare il polo di contrasto, talvolta è utile chiedere all’atleta di definire l’opposto della sua descrizione o di descrivere qualcuno che non è simile alla sua descrizione.Individuare i contrasti fornisce gli “assi di discriminazione”e aiuta a chiarire la descrizione dell’atleta. Ad esempio, “pigro”, come opposto di “ambizioso” suggerisce che l’ambizione ha a che vedere con lo sforzo, con il darsi da fare, mentre “modesto”, quale opposto di “ambizioso” implica che l’atleta interpreta l’ambizione in termini di vanità e presunzione. Pertanto, il polo di contrasto migliora e rafforza il significato. - invitare l’atleta ad attribuire un punteggio a ciascuna descrizione, rispetto a “come sono”, utilizzando una scala da 0 a 7, dove 7 significa essere uguale alla descrizione. Il punteggio viene riportato sul profilo, tratteggiando la casella corrispondente,come illustrato in figura 2. In questo modo si ha una rappresentazione visiva di come l’atleta si percepisce. - calcolare il punteggio relativo all’immagine di sé: sommare ciascun punteggio e dividere la somma per il numero delle descrizioni. Nell’esempio riportato nella figura 2, il punteggio 66 diviso per 11 descrizioni dà una media di 6,0. Il punteggio relativo all’immagine del Sé può essere analizzato in diversi modi.Lo illustriamo con riferimento all’atleta descritto in figura 2 - punteggio dell’immagine di sé: indica il grado di corrispondenza tra i punteggi dell’atleta e la sua descrizione. Nel caso riportato in figura 2, il punteggio è piuttosto elevato. Nel caso in cui fosse basso, significherebbe che l’atleta non ha fornito una descrizione di sé molto accurata. - descrizioni fondamentali del Sé : a queste descrizioni viene attribuito il punteggio massimo. L’atleta che stiamo considerando vede se stesso come affidabile, determinato, compiacevole e modesto. - un’ idea di come l’atleta vede se stesso : questo atleta sembra essere conscio di sé (non esuberante o vanitoso) e compiacente nelle relazioni interpersonali; si percepisce tuttavia qualcosa di poco amichevole, che è il risultato della sua cautela e della sensazione che troppa socialità potrebbe essere controproducente per le esigenze dello sport. E’ interessante notare come egli si veda anche come persona di cattivo umore. Rispetto alle caratteristiche considerate favorevoli nel contesto sportivo – determinato, disciplinato, affidabile, energico – l’atleta si attribuisce un punteggio molto alto. “Quando giochi a tennis esponi davvero la tua anima.” JOHN MCENROE Stima di sé Può essere definita come la valutazione di sé rispetto alla visione ideale del Sé. Una misura dell’autostima si ha chiedendo all’atleta di attribuire un punteggio a “come vorrei essere” (l’ideale) per ciascuna delle descrizioni e riportandolo successivamente sul profilo di autoconsapevolezza della figura 2. La discrepanza tra il punteggio “come sono” e “come vorrei essere” fornisce una valutazione dell’autostima. Ancora in riferimento alla figura 2, la stima di sé può essere analizzata in modi diversi: -punteggio di autostima. E’ la somma di tutte le differenze di valutazione fra “come sono” e “come vorrei essere”. Dalla figura 2 risulta una differenza di un punto a “energico”, 2 punti a “allegro”, 2 punti a “compiacente”, e così via.La somma delle differenze è 10. Un punteggio totale elevato indica bassa stima di sé, dal momento che l’atleta avverte una notevole distanza fra sé e l’ideale. Al contrario, un punteggio basso segnala elevata stima di sé, poiché l’atleta si ritiene molto vicino a come vorrebbe essere. -Direzione del cambiamento.In genere l’ideale viene percepito come vicino al lato della descrizione, come nel caso di “energico” “allegro” e “disciplinato”, ad indicare come l’atleta vorrebbe essere. Tuttavia, come nel caso di “compiacente” e “di cattivo umore”, l’ideale è collocato più vicino al polo di contrasto. Ciò non significa voler essere come descritto nel polo di contrasto, ma sicuramente segnala la necessità di una visione di sé più moderata in tali aree. Sulla scorta di tali informazioni, l’atleta può essere aiutato a migliorare la stima di sé rispetto a quelle aree che al momento egli percepisce come discrepanti rispetto all’ideale. Come? 1)Aiutando l’atleta a selezionare una descrizione alla quale lavorare per qualche tempo, che non sarà necessariamente quella che presenta la maggiore discrepanza tra “come sono” e l’ideale. 2)Discutendo su come il situarsi più vicino all’ideale potrebbe migliorare la prestazione. Si tratta di sollecitare l’atleta a descrivere i vantaggi che comporterebbe l’essere simile all’ideale. 3)Lavorando alle possibilità di cambiamento. Significa chiedere all’atleta di: -descrivere ciò a cui vorrebbe somigliare e come si sentirebbe se fosse di un punto più vicino all’ideale; - analizzare ciò che vorrebbe cambiare e ciò che rientra sotto il suo controllo nel percorso verso l’ideale; -definire in quali situazioni si senta più vicino all’ideale e in che modo sia possibile rimanerci stabilmente. 4)Concordando di lavorare insieme con una strategia che consenta di raggiungere l’ideale e monitorando regolarmente i progressi. Vulnerabilità del Sé Può essere definita come il concetto di sé in condizione di stress.E’ una modalità assai utile per comprendere il comportamento e l’atteggiamento degli atleti quando il percorso si fa più difficile. Le descrizioni del sé elicitate attraverso il profilo di autoconsapevolezza vengono trasferite nella colonna centrale della figura 3. L’atleta viene invitato a descrivere sia la situazione nella quale si percepisce come meno vicino alla descrizione, sia quella in cui si sente più vicino. La figura 4 fornisce un esempio che riguarda un atleta durante la preparazione per il campionato di eccellenza. Questo tipo di procedura fornisce un chiaro resoconto di ciò che allenatore e atleta dovrebbero evitare (se possibile) e di ciò che dovrebbero invece fare in modo che accada per far sì che l’atleta si avvicini alla gara in un clima di fiducia e libero da distrazioni. Il profilo può essere analizzato prestando attenzione alle tematiche proposte dalle risposte dell’atleta. Essere consapevoli di come l’atleta interpreta e valuta se stesso viene spesso ritenuto come una sorta di prodotto secondario del tempo passato dall’allenatore ad allenare l’atleta e ad osservarne le reazioni in differenti situazioni.Assai più agevole è invitare l’atleta a commentare alcuni aspetti del proprio Sé.Nello sport, gli aspetti del Sé che assumono maggiore rilevanza sono l’autoimmagine, l’autostima e la modalità di reazione in situazioni stressanti. L’allenatore che è in grado di conoscere questi aspetti può giocare un ruolo importante nell’assistere l’atleta a produrre il massimo rendimento. Inoltre, esplorando questi aspetti del Sé con la collaborazione dell’atleta, egli può anche migliorare la comprensione del proprio Sé. fig2 CAPITOLO 2 CREDERE IN SE’ (SELF EFFICACY) Uno dei fattori che influenza la prestazione è la fiducia che l’atleta ripone nelle proprie capacità di affrontare una specifica situazione competitiva.Può succede infatti che un soggetto, se pur in possesso di un adeguato livello di abilità e padronanza tecnica, in alcune situazioni dubiti delle proprie risorse; tali sensazioni soggettive di inadeguatezza sono in grado di condizionare negativamente una prestazione. Bandura ha introdotto il concetto di self-efficacy per definire la fiducia nelle capacità personali di eseguire un compito con esito positivo attraverso l’espressione di abilità. Le aspettative di efficacia sono distinte dalle aspettative di risultato, la convinzione cioè che un certo comportamento condurrà ad un certo esito. Una persona, infatti, può sapere che una particolare sequenza di azioni porta a specifiche conseguenze, ma se ritiene di non essere in grado di eseguire quanto necessario tali conoscenze non influenzano il suo comportamento. La self-efficacy rappresenta per Bandura il meccanismo cognitivo che media le informazioni sull’efficacia personale: le persone elaborano, valutano, integrano informazioni inerenti le loro capacità provenienti da diverse fonti ed agiscono di conseguenza, evitando situazioni che ritengono superiori alle loro forze; si impegnano con sicurezza in attività giudicate alla loro portata. Le aspettative di efficacia non solo condizionano la scelta di affrontare o meno una certa situazione, ma, una volta iniziata l’attività, determinano la quantità di sforzo profuso e la persistenza nell’impegno anche di fronte a difficoltà od esperienze negative; maggiore è la convinzione di poter agire con successo, maggiori sono impegno e costanza nel tentare di realizzare il compito richiesto. Naturalmente, le aspettative da sole non sono in grado di determinare la prestazione desiderata se mancano o sono carenti le capacità necessarie, oltre che l’interesse e la motivazione. Ma una volta presenti abilità adeguate e validi incentivi, le aspettative di efficacia sono decisive per la scelta di un’attività, lo sforzo speso e la persistenza anche di fronte a temporanei insuccessi. Quando un soggetto si trova ad affrontare una situazione complessa di presa di decisione, è necessaria un’efficace elaborazione di informazioni multimediali, che spesso contengono ambiguità ed incertezze: le conoscenze preesistenti vanno valutate ed integrate con gli elementi attuali per trarre regole predittive che consentano una soluzione adeguata. Ciò richiede un forte senso di efficacia per rimanere orientati sul compito anche di fronte alla paura di sbagliare. La self-efficacy influenza anche il tipo di pensiero anticipatorio. Chi possiede un alto senso di efficacia visualizza scene di successo, che forniscono una guida positiva per la prestazione, ed analizza mentalmente valide soluzioni agli eventuali problemi; chi si valuta incapace è più incline a visualizzare scenari di fallimento e a fissare il suo pensiero su aspetti negativi. Alcuni atleti, in effetti, affrontano le situazioni competitive già perdenti in partenza , poiché tendono a rimuginare su errori e sconfitte precedenti. Proprio in ambito sportivo diversi studi hanno evidenziato che visualizzare invece una propria esecuzione accurata migliora la successiva prestazione. Self-efficacy e prestazione sportiva La teoria di Bandura rappresenta una cornice teorica di riferimento per spiegare la relazione fra processi cognitivi e prestazione sportiva. Il ruolo dei fattori cognitivi è uno degli aspetti su cui la ricerca in psicologia dello sport ha rivolto l’attenzione, sia per indagare i meccanismi che si attivano di fronte a situazioni di problem-solving, fatica, disagio, rischio e a volte dolore fisico, sia per elaborare strategie che consentano agli atleti di affrontare con successo gli aspetti avversivi e stressanti della competizione. Diversi studiosi hanno analizzato la relazione tra self-efficacy e prestazione, e l’effetto di differenti modalità di intervento ai fini di un incremento delle aspettative individuali di efficacia.Tali aspettative derivano da processi cognitivi mediante i quali vengono elaborate informazioni relative alle capacità personali che provengono da alcune fonti principali: realizzazione di prestazioni, esperienze sostitutive, persuasione, arousal emozionale. Realizzazione di prestazioni. Dalla riuscita in un dato compito derivano le informazioni più significative, fondate su reali esperienze di abilità personali. Ovviamente, le esperienze vissute come successo aumentano le aspettative di efficacia, mentre quelle percepite come fallimento le abbassano. Il grado di influenza della realizzazione di prestazioni sulla self-efficacy dipende da una serie di fattori, quali difficoltà del compito, sforzo profuso , quantità di aiuto ricevuto, scansione temporale di successo- insuccesso, attribuzione della riuscita alla abilità personale o a circostanze fortuite. Molte metodiche di allenamento sono fondate su espedienti che consentono all’atleta fin dall’inizio un’esecuzione approssimativa, semplificando i movimenti o utilizzando dei sussidi per assicurare possibilità di riuscita. La ricerca in ambito motorio e sportivo ha dimostrato che le tecniche basate sulla realizzazione determinano incrementi sia delle aspettative di efficacia che della prestazione. Un’adeguata formulazione di obiettivi ( goal setting) fornisce all’atleta gli standard con cui misurare la propria prestazione e rappresenta un forte fattore motivazionale; per l’incremento della self-efficacy sono significativi in particolare gli obiettivi a breve termine. Una volta stabiliti gli obiettivi, è anche importante fornire al soggetto feedback che gli consentano una valutazione dei progressi. Esperienze sostitutive Informazioni sull’efficacia personale derivano anche da processi di confronto sociale: vedere altri riuscire nell’esecuzione di una certa attività può determinare in chi osserva la convinzione di esserne anch’egli capace. Persuasione. Tecniche persuasive vengono spesso usate dagli allenatori per cercare di influenzare positivamente il comportamento degli atleti. Incitamenti ed incoraggiamenti verbali (“ Dai che puoi farcela”, “Sei il più forte “ ) hanno lo scopo di convincere l’atleta, attraverso la suggestione, di potersi impegnare con successo. La persuasione verbale è utile come stimolo iniziale, ma risulta valida se mantenuta all’interno di limiti realistici di prestazione. Dipende, inoltre, da credibilità, prestigio e fiducia di cui gode l’allenatore. Arousal emozionale. Anche il livello e la qualità di attivazione fisiologica forniscono indicazioni relative all’efficacia personale. Una situazione difficile o stressante, come una competizione, in genere elicita arousal emozionale che, a seconda delle circostanze, ha anche un valore informativo relativamente alla competenza. Le persone fanno in parte riferimento al grado di attivazione fisiologica per giudicare il proprio stato di ansia e difficoltà; poiché in genere un’eccessiva attivazione incide negativamente sulla prestazione, è probabile che un soggetto si senta più sicuro delle proprie capacità quando non si percepisce troppo teso ed agitato.Ansia e paura non sono caratteristiche fisse di eventi situazionali; derivano piuttosto dal divario che si percepisce fra potenziali aspetti avversativi dell’ambiente e proprie capacità di farvi fronte. Chi ritiene di poter padroneggiare quanto sta accadendo non vive sensazioni di apprensione,mentre chi pensa di non poter esercitare un adeguato controllo sperimenta alti livelli di attivazione vissuti come ansia. Il livello di arousal emozionale in situazioni stressanti è dunque influenzato non solo dalla percezione di efficacia relativa alle capacità di affrontare gli avvenimenti, ma anche dalla self-efficacy inerente le capacità di controllare le stesse sensazioni apprensive disfunzionali. La causa principale di tensione non è tanto la quantità di pensieri negativi e stressanti, quanto piuttosto la percezione della propria incapacità a modificarli. Quando l’aumento dell’arousal fisiologico viene interpretato come ansia o paura dell’insuccesso, tecniche di riduzione dell’arousal (ad es. attraverso rilassamento o biofeedback) influenzano positivamente la selfefficacy; risultati ancora migliori si ottengono utilizzando la persuasione verbale per convincere l’atleta che un abbassamento dell’arousal migliorerà la prestazione. Altre tecniche mirano invece ad una ristrutturazione cognitiva: se l’interpretazione dell’arousal come paura viene manipolata e modificata in un’ interpretazione di attivazione positiva, può di conseguenza aumentare il senso di efficacia personale. Considerata l’importanza che la self-efficacy riveste per la performance sportiva, è utile conoscere tecniche e strategie che la sviluppano e mantengano. Mahoney suggerisce di analizzare innanzi tutto le aspettative di efficacia personale dell’atleta, attraverso resoconti retrospettivi o interviste condotte nei momenti antecedenti la prestazione. Indica quindi alcune strategie per innalzare la self-efficacy: 1) uso di sussidi esterni per facilitare la prestazione; 2) ripetizione immaginativa della prestazione corretta; 3) incoraggiamento semplice e sincero che esprima fiducia nelle capacità dell’atleta; 4) osservazione di un’altra persona che esegue con successo la risposta desiderata (modeling); 5) controllo dei pensieri (ad es. avviando monologhi interiori di sicurezza ed efficacia prima della prestazione). Un’ulteriore strategia, da utilizzare però solo occasionalmente per superare barriere psichiche sulla prestazione, è il biofeedback errato: all’atleta si può far credere di aver superato un proprio limite quando in realtà vi si è solo avvicinato, o viceversa di essersi avvicinato ad un limite quando in effetti l’ha già superato. Mahoney raccomanda comunque un utilizzo moderato di queste procedure, limitato a situazioni eccezionali. Accanto alle metodiche attuabili direttamente dall’allenatore (gli espedienti didattici per garantire l’esecuzione, l’uso di dimostrazioni con modelli simili e diversificati, un’adeguata formulazione di obiettivi, le rassicurazioni e gli incoraggiamenti verbali) ve ne sono altre proponibili in modo specifico dallo psicologo dello sport (il self talk, la reinterpretazione dell’arousal, le visualizzazioni). CAPITOLO 3 LOCUS OF CONTROL (ATTRIBUZIONE DI CAUSALITA’) E’ possibile individuare due tipologie opposte di soggetti: quelli definiti come Dame e quelli definiti come Pedine. I primi si percepiscono come causa dei propri comportamenti. Sono alla ricerca di qualcosa che per loro abbia un significato personale > apprendere a distinguere le caratteristiche rilevanti proprie delle situazioni >sapere cosa fare > impegnarsi in attività appropiate > sentirsi causa delle proprie azioni. Le Pedine si ritengono mosse da altri, destinate all’insuccesso e prive di controllo sugli avvenimenti. La causalità personale si definisce col termine di locus di causalità. Si dice che un soggetto è Dama quando si considera causa dei suoi comportamenti, mentre è Pedina colui che ritiene che le proprie azioni siano causate da fattori esterni. Il fattore cruciale è la convinzione di poter scegliere. La dimensione del locus of control è un costrutto che prende in considerazione la percezione che una persona possiede del rapporto che intercorre tra il suo comportamento e la realizzazione (successo o insuccesso). Se ciò che accade viene percepito come conseguenza diretta delle proprie azioni, allora la persona viene definita in possesso di locus of control interno. In caso contrario, oppure quando viene percepita una scarsa relazione tra azioni ed avvenimenti, prevale un locus of control esterno. Molte ricerche indicano che gli “interni” tendono ad essere molto più produttivi degli “esterni”: per ottenere risultati, occorre impegnarsi e cogliere le relazioni di causalità: inevitabilmente ciò che viene fatto e come viene fatto influenzerà i risultati. Gli “esterni” tendono a considerare i fattori esterni come determinanti delle proprie capacità di realizzazione. E’ possibile attuare programmi mirati a modificare la prospettiva degli “esterni”, in modo tale da far assumere loro la responsabilità della propria condizione. Il rinforzo può contribuire a modellare il comportamento. Ad esempio, commentare il risultato mettendo in rilievo lo sforzo prodotto per ottenerlo, può far riflettere sulle cause delle azioni. Insegnando agli atleti ad attribuire il giusto valore dell’impegno, aumenta l’orgoglio verso i loro successi e ciò migliora la loro dedizione. Inoltre occorre assegnare maggiori responsabilità nell’identificare gli obiettivi e nel dedicare energie per ottenerli. Gli obiettivi che ognuno si pone personalmente, potrebbero essere più motivanti e significativi rispetto a quelli stabiliti da altri. E’ stato riscontrato che gli obiettivi scelti personalmente sono migliori predittori nelle prestazioni di quanto non lo sono quelli assegnati da altri. L’obiettivo è proporre esperienze di presa di decisione che responsabilizzino coloro che posseggono un locus of control esterno. Il risultato dovrebbe essere che impegnandosi più duramente, si otterranno migliori risultati. Essere “pedine” e avere un locus of control esterno sono entrambe caratteristiche inadeguate, ma non tali da essere immodificabili attraverso esperienze specifiche. Un allenamento diretto a rafforzare il senso di causalità personale può dare buoni risultati: genitori e allenatori potrebbero cercare di identificare coloro che, tendenzialmente, sono “pedine” e di conseguenza mettere in atto possibili strategie di rimodellamento. Consideriamo ora le ragioni che ciascuno di noi utilizza per spiegare i propri successi o insuccessi. E’ importante capire che insuccesso è solamente ciò che viene percepito come tale. Il miglioramento dovrebbe essere interpretato come un successo personale e l’impegno a migliorare dovrebbe essere rinforzato. Dweck ha identificato due stili diversi di coping, l’uno definito come orientamento alla padronanza, l’altro come incapacità appresa. Coloro che manifestano il primo stile, tendono ad attribuire gli insuccessi ad un impegno insufficiente. Il risultato è che lavorano ancora più duramente. L’atleta impara dalle esperienze precedenti che, normalmente, l’impegno intenso porta al successo. I soggetti che manifestano una incapacità appresa pensano che i propri insuccessi siamo dovuti alla mancanza di capacità, ed hanno la percezione che lavorare duramente non serve, perché non fa la differenza; non si può fare nulla contro capacità inadeguate. Per cui, generalmente, mostrano una scarsa motivazione, che riflette livelli di impegno insufficienti in attività che rappresentano una sfida e, ovviamente, prestazioni modeste. Paradossalmente, ogni successo è attribuito alla facilità del compito, sottostimando le proprie capacità o l’impegno dedicato ad esso. E’ necessario creare situazioni che aiutino gli atleti a superare la loro incapacità appresa e a modificare le attribuzioni che spiegano i successi e gli insuccessi. Gradualmente il successo o l’insuccesso vengono interiorizzati e attribuiti maggiormente all’impegno, dimostrando così che uno stile di coping orientato alla padronanza è migliore di quello improntato alla incapacità appresa. Un costrutto connesso allo stile di coping è lo stile di attribuzione. Quando si considera una prestazione, per un atleta è abbastanza tipico non solo valutare le sue qualità e la sua efficacia, ma anche realizzare una valutazione personale sui potenziali fattori atti a determinarla. Ciò avviene soprattutto quando il risultato è negativo, inaspettato e/o importante. Questi comportamenti o ragioni esplicative vengono definite attribuzioni. Come e perché si pensa a ciò che si è fatto? Le cause di attribuzione di successo o di insuccesso di un’ azione sono state descritte da Weiner in uno schema di classificazione a tre dimensione: - locus of control (interno vs. esterno) - stabilità (stabile vs. instabile) - controllabilità (controllabile vs. incontrollabile) Le attribuzioni all’abilità e all’impegno sono considerate interne, e, quindi, ricadono sotto il proprio controllo. Difficoltà del comportamento e fortuna, due altre possibili attribuzioni, sono sempre fattori esterni alla persona. Abilità personale e livello di difficoltà sono visti come fattori relativamente stabili e non cambiano di molto. Impegno e fortuna sono fattori relativamente instabili (fluttuanti). Possono differenziarsi in modo considerevole, a seconda delle circostanze. Quando si parla di attribuzioni e di modificazione delle valutazioni cognitive, è importante sottolineare le dimensioni piuttosto che le sole ragioni. Generalmente, possedendo certe informazioni relative, le persone formano attribuzioni sulle cause, che, a loro volta, possono influenzare il futuro livello di aspirazione. Probabilmente, ciò che differenzia un soggetto che presenta un elevato livello di achievement da uno che presenta un livello basso, è la diversa percezione di ciò a cui attribuire la responsabilità di un risultato. Gli high achievement generalmente credono che il successo sia dovuto sia alle capacità, sia all’impegno e che l’insuccesso sia il risultato della mancanza di impegno o di altre ragioni comunque controllabili (per es. strategie, tecnica). I low achievement non esprimono particolari preferenze nell’attribuire le cause del successo, mentre sono convinti che l’insuccesso sia sempre dovuto a scarsa capacità. Weiner ha suggerito che le attribuzioni possano sia accrescere sia inibire diversi parametri, quali aspettative, emozioni e tutti i comportamenti correlati al raggiungimento di uno scopo. Per esempio, coloro che usano attribuzioni personali (interne, controllabili, instabili) sembrano essere più perseveranti nel raggiungere lo scopo, anche dopo un insuccesso. Probabilmente, ciò è dovuto al fatto che ritengono di poter controllare le situazioni e di fatto agiscono in modo tale da favorire il successo. Ad esempio, una prestazione ottimale può essere attribuita all’abilità e all’impegno, il che aumenta il livello di aspettative di futuri successi in compiti simili. A sua volta, ciò produce un grado maggiore di perseveranza e di impegno. Perciò quando ci si confronta con una situazione competitiva,è probabile che si elevino le aspettative di successo immediato. Ciò avrà come esito la migliore prestazione possibile. I feed-back riguardanti una prestazione negativa possono incoraggiare o scoraggiare la prestazione successiva: tutto dipende da come viene interpretato l’insuccesso, cioè se viene considerato come necessità di maggior impegno, oppure come il risultato di limiti personali. Per riassumere il modello di Weiner suggerisce nel caso in cui l’insuccesso viene attribuito a ragioni interne, instabili e controllabili (ad es. la mancanza di impegno), le aspettative future di successo dovrebbero rimanere stabili. Inoltre si possono sperimentare emozioni negative come sentirsi in colpa per non essersi impegnati abbastanza e ciò può avere un’influenza motivante. In tal modo si produrrà, probabilmente, una continuità nel perseverare e nell’allenarsi con sempre maggior impegno. Di contro, se l’insuccesso viene attribuito a cause interne, stabili e incontrollabili (ad es. la capacità naturale) diminuiscono le aspettative di successo futuro e si cominciano a sperimentare emozioni negative come vergogna e umiliazione. Di conseguenza l’allenamento diventerà discontinuo dal momento che non si crede più che porterà al successo. Come si vede, il tipo di attribuzione che ogni persona produce diventa un elemento critico nel determinare la qualità della prestazione e la futura perseveranza in una data attività. Allenarsi ad acquisire uno stile di attribuzione più adeguato può essere utile per migliorare l’impegno ed innalzare il livello di achievement. CAPITOLO 4 MONITORARE LE SENSAZIONI Sembra scontato affermare che lo stato emotivo dell’atleta influenza la prestazione, sia in allenamento che in gara. Talvolta è difficile per gli atleti verbalizzare le loro sensazioni, dal momento che in genere si insegna a controllare le reazioni emotive come parte della preparazione alla gara. Inoltre alcuni atleti ritengono l’espressione dei loro sentimenti un segno di debolezza. Per superare il problema della verbalizzazione delle emozioni,sono state sviluppate una serie di scale che richiedono all’atleta di attribuire un punteggio al proprio umore. La scala più nota è il Profilo degli stati di umore (Profile of mood states, POMS),un elenco si 65 aggettivi che misurano sei aspetti delle emozioni – tensione, depressione, stanchezza, confusione, rabbia e vigore. Morgan è riuscito a dimostrare che una particolare configurazione di punteggi al POMS è risultata predittiva del successo alle qualificazioni olimpiche.Nota come “profilo ad iceberg”, tale configurazione è caratterizzata da bassi punteggi di tensione, depressione, stanchezza, confusione e rabbia, cui si contrappone un punteggio elevato di vigore. Più recentemente, in un contesto applicativo più significativo, Morgan e i suoi colleghi hanno scoperto che il POMS è sensibile ai cambiamenti emotivi che si accompagnano al variare dell’intensità dell’allenamento. La scala diventa così uno strumento possibile per il monitoraggio dell’overtraining, della stanchezza, dell’esaurimento delle riserve. Sono stati fatti degli sforzi per ridurre la lunghezza del POMS e renderlo di più rapida somministrazione, senza peraltro diminuire la sensibilità dello strumento. Il POMS è stato originariamente sviluppato per l’uso in ambito clinico, e, malgrado gli adattamenti realizzati per l’impiego nel contesto sportivo, è tuttora prevalente l’intento di misurare un disturbo psicologico. Nasce così la “Scala delle sensazioni” (fig.5) in ambito sportivo, tenendo presenti le seguenti esigenze: - velocità di somministrazione: la scala prevede 20 item - gli item , come nel POMS, sono rappresentati da aggettivi che, diversamente dal POMS, sono stati generati dagli atleti, non dagli psicologi. Essi, perciò, rappresentano descrizioni più significative dell’esperienza emotiva e di conseguenza risultano più accettabili per l’atleta - La scala presenta un equilibrio fra sensazioni “positive” e “negative” evitando in tal modo di focalizzare l’interesse sugli aggettivi negativi, cosa non necessaria e addirittura controproducente, dal momento che la scala può venire impiegata durante la prestazione dei tornei e in prossimità delle gare. - una volta compilata, la scala fornisce una rappresentazione visiva delle sensazioni dell’atleta che rende più agevole per l’allenatore la comprensione dello stato emotivo. - la Scala delle sensazioni ha come cornice di riferimento la teoria dei costrutti personali. Essa sostiene che le emozioni emergono quando il modo in cui una persona interpreta se stessa e gli eventi subisce un cambiamento oppure quando cerca di resistere al cambiamento.Le emozioni quindi riflettono la persona in transizione. La tabella 2 riporta un’interpretazione di ciascun item della Scala delle sensazioni. La somministrazione della scala è estremamente facile. L’atleta è invitato a fornire un punteggio per ciascun item a seconda di come si sente al momento.Come misura viene impegnata una scala di valutazione che va da 0 (per niente) a 10 (moltissimo). La valutazione dell’atleta viene riportata nella relativa colonna e offre all’allenatore una rappresentazione visiva immediata del modo in cui l’atleta si sente in quel momento. Questo l’andamento di alcuni profili tipici: - il profilo “a gradini”. Rappresenta lo stato ideale (fig.6 ), con punteggi elevati ai primi otto item “positivi”, cui si contrappongono decisamente i bassi punteggi ai rimanenti item “negativi”. Tale profilo suggerisce che l’atleta si trova in uno stato emozionale “di forma”. - il profilo a “sinusoide”. Illustrato in fig.7, questo profilo caratterizza gli atleti che vengono sottoposti ad un programma di condizionamento fisico. Esso registra la sensazione dell’atleta di venire prosciugato di energie. Somministrazioni ripetute fino all’avvicinarsi della competizione potranno mettere in luce il cambiamento, con punteggi più elevati di energia e più bassi di stanchezza, in modo tale da avvicinarsi sempre più al profilo a “gradini”. - il profilo “a slalom”. La fig.8 illustra un tipico esempio che si riscontra durante la fase di preparazione alla competizione. Malgrado le sensazioni siano generalmente positive, l’atleta manifesta ansia di tipo somatico (tensione e nervosismo) e di tipo cognitivo (preoccupazione e sensazione di essere sotto pressione). - profilo “a picchi”. Occasionalmente il profilo può presentare un singolo item in cui viene attribuito un punteggio differente rispetto al solito. Può essere un indizio che l’atleta ha bisogno di aiuto. Talvolta rappresenta la contrarietà o la rabbia per un aspetto di cui l’allenatore non è consapevole, un senso di esclusione o di tristezza che riguarda un evento estraneo allo sport, o l’emergere della nostalgia. in tal modo i problemi possono venire utilmente messi in luce e affrontati prima che interferiscano pesantemente con il programma di allenamento. tipo il profilo “collassato”. Come si può dedurre dalla fig.9, questo di profilo deve immediatamente richiamare l’interesse dell’allenatore. L’atleta si sente stanco e stressato e, come già segnalato precedentemente, ciò lo rende particolarmente vulnerabile nei confronti degli infortuni. Il monitoraggio regolare degli atleti con la Scala delle sensazioni contribuisce ad evidenziare minimi cambiamenti che rappresentano campanelli di allarme dello stress.La rapida e agevole somministrazione della Scala delle sensazioni e l’utilità delle informazioni che è in grado di fornire sull’esperienza emozionale dell’atleta suggeriscono che essa può diventare uno strumento quasi quotidiano per monitorare i cambiamenti e i progressi. La valutazione, naturalmente, rappresenta solo un primo passo. Tuttavia quando allenatore e psicologo sono a conoscenza delle sensazioni e dei sentimenti dell’atleta,diventa più agevole sostenerlo nei migliori dei modi o adattare il programma di allenamento per far sì che corrisponda alle sue necessità. CAPITOLO 5 PENSARE POSITIVO (SELF TALK) Nella prestazione sportiva si riscontra una stretta relazione fra la fiducia che un atleta nutre nelle proprie capacità e il successo che ottiene. Soprattutto gli atleti di vertice manifestano un’elevata fiducia, avendo sperimentato di frequente nel corso della carriera sportiva esperienze gratificanti, a cui sono usualmente associati pensieri positivi. Ciò che i soggetti pensano o dicono, relativamente alla loro attività sportiva, è un elemento critico per la prestazione. Dal punto di vista cognitivocomportamentale si può affermare che vi è continuità fra i pensieri di una persona e il suo comportamento. Normalmente ogni individuo passa una grande quantità di tempo a parlare a se stesso. Non sempre vi è la consapevolezza di questo dialogo interiore molto personale (self talk) e del suo contenuto; ciononostante i pensieri sono in grado di influenzare direttamente le sensazioni, le azioni e più in generale il modo soggettivo di concepire e vedere il mondo. Ma se da un lato pensieri appropriati e positivi elicitano sentimenti di adeguatezza al compito e facilitano di conseguenza una buona prestazione, dall’altro pensieri inappropriati e negativi suscitano percezioni di inadeguatezza e apprensione che condizionano sfavorevolmente l’esito delle attività. Quasi tutti gli atleti sperimentano qualche volta durante la loro carriera dubbi sulle capacità personali, scarsa fiducia in se stessi e tensione; ma se questi stati d’animo tendono a ripetersi di frequente e a diventare cronici, allora impediscono l’espressione piena del proprio potenziale. Atleti fiduciosi, invece, riferiscono tipicamente dialoghi interni, fantasie e sogni in cui immaginano se stessi vincitori e capaci di raggiungere il successo. Controllo dei pensieri Dal punto di vista operativo è importante che l’atleta impari a controllare i pensieri e a usare in modo vantaggioso il self talk per conseguire diversi obiettivi: apprendimento di abilità, correzione degli errori, controllo dell’attenzione, elicitazione di emozioni positive, incremento della fiducia in se stesso. Apprendimento di abilità Il self talk, inizialmente suggerito attraverso parole stimolo (dallo psicologo dello sport o dall’allenatore), serve per ricordare e fissare aspetti chiave dell’esecuzione motoria; le parole possono descrivere particolari fasi del movimento o una determinata sequenza di azioni. Con tale finalità, il self talk dovrebbe essere quanto più essenziale possibile, poiché una eccessiva verbalizzazione tende a disorientare il soggetto e causare “ paralisi da analisi “. Al progredire delle acquisizioni il self talk dovrebbe mutare seguendo i progressi e adattandosi alle necessità emergenti; può cambiare anche per essere rivolto ad aspetti diversi della prestazione, quali strategie e sensazioni, piuttosto che alle problematiche tecniche come nella prima fase. Attraverso l’apprendimento si ricerca una riduzione del controllo volontario a vantaggio di un’ esecuzione automatica; se inizialmente l’attenzione è diretta alle caratteristiche rilevanti per l’esecuzione del gesto tecnico, quando il movimento è stato automatizzato va rivolta ad altri fattori, ad esempio gli aspetti tattici. Il self talk, attraverso una scelta adeguata di parole stimolo, aiuta l’atleta a focalizzare l’attenzione sugli elementi rilevanti per la prestazione. Correzione degli errori Nella correzione degli errori consolidati è necessario attivare intenzionalmente un controllo cosciente sulla precedente esecuzione automatica. In questa prospettiva il self talk è un mezzo efficace per “deautomatizzare” i movimenti e ricostruire nuove risposte; più drastico è il cambiamento da realizzare e più dettagliato dovrà essere il self talk nella fase di riapprendimento. Per essere realmente efficace è essenziale che il contenuto delle affermazioni sia diretto ai risultati desiderati piuttosto che agli errori da correggere od eliminare; in altre parole i soggetti dovrebbero imparare a dirigere i loro pensieri su ciò che desiderano che accada piuttosto su quello che vogliono evitare, rinforzando in tal modo l’abitudine a pensare in maniera positiva. Se si impara a mantenere un atteggiamento positivo e costruttivo nei confronti degli errori si ricavano informazioni essenziali per lo sviluppo delle abilità; tale processo è favorito da un appropriato dialogo interiore. L’atleta deve mutare la convinzione di non essere perfetto o invulnerabile, sapere che può commettere degli errori ma anche correggerli attraverso un impegno assiduo per l’acquisizione di competenze fisiche e psichiche. Controllo dell’attenzione Una delle abilità fondamentali che l’atleta deve acquisire è quella di dirigere e mantenere l’attenzione sugli elementi rilevanti del compito, escludendo stimoli irrilevanti o disturbanti. Nideffer distingue due dimensioni dell’attenzione, direzione e ampiezza, da cui derivano quattro tipi di focus attentivo: esterno-ampio, esterno-ristretto, interno-ampio, interno-ristretto. Spesso alcune discipline richiedono l’utilizzo di uno stile flessibile con rapide variazioni del focus attentivo: quando risultano fondamentali adattamenti repentini dell’attenzione,adeguate forme di self talk sono di aiuto. Elicitazione di emozioni positive Un altro effetto vantaggioso del self talk è collegato alla possibilità di associare parole stimolo a sensazioni o emozioni utili per la prestazione: ogni parola ha infatti una sua precisa tonalità emozionale, variabile soggettivamente, collegabile alla qualità e al contenuto del movimento. Incremento della fiducia Il self talk è impiegato per attivare una maggiore fiducia nelle potenzialità personali; infatti è più facile ottenere ciò che si ritiene di poter realmente conseguire. Frasi affermative credibili sono particolarmente utili per evocare stati d’animo positivi che a loro volta condizionano il comportamento; le frasi sono spesso spontanee, si collegano facilmente ad emozioni e sensazioni di una particolare esperienza di soddisfazione e successo. Il livello di fiducia che un atleta possiede dipende anche dal genere di informazioni che gli vengono fornite dall’allenatore e dalle esperienze vissute in allenamento. E’ quindi importante formulare obiettivi realistici e raggiungibili e strutturare condizioni che permettano, attraverso un ragionevole sforzo,di incrementare la prestazione; aspettative non realistiche tendono ad indebolire la fiducia del soggetto e a farne scendere il rendimento. Tecniche di controllo dei pensieri Molte sono le tecniche sviluppate per il controllo dei pensieri. Per poterle apprendere e impiegare efficacemente è innanzi tutto necessario che l’atleta prenda coscienza dei contenuti dei suoi dialoghi interni nelle diverse situazioni ; deve individuare accuratamente il modo in cui parla a se stesso, identificando i pensieri, e gli eventi ad essi associati, che aiutano la prestazione e quelli che invece la ostacolano. Il self talk può essere costituito da brevi parole stimolo, oppure da monologhi e frasi articolate e complesse di contenuto variabile. Riconoscere i pensieri e le sensazioni ad essi collegate che favoriscono la risoluzione dei problemi e la prestazione è già un primo passo per incrementare il rendimento sportivo. Arresto del pensiero Attraverso questa tecnica si mira a bloccare i pensieri negativi e di sfiducia nelle capacità personali, con lo scopo di interrompere l’influenza che stati d’animo negativi esercitano sul comportamento. La procedura richiede che l’atleta si eserciti a focalizzare brevemente l’attenzione su uno o più pensieri negativi e quindi ad utilizzare uno stimolo prestabilito (trigger) di arresto momentaneo del pensiero. Il trigger può essere costituito da una parola (“stop”, “basta”, ecc.) o da un’azione (schioccare le dita, battere le mani, ecc. ); scelto in conformità ad esigenze e preferenze individuali, va praticato costantemente, anche durante l’allenamento, allorché si manifestino pensieri disturbanti. Soprattutto nelle prime fasi di addestramento, gli atleti possono utilizzare in modo manifesto i loro trigger, ad esempio pronunciando la parola “stop” ad alta voce nel momento in cui si presenta un pensiero negativo. Ci si allena efficacemente anche in stato di rilassamento scegliendo il pensiero disturbante da eliminare, visualizzando vividamente la situazione specifica nella quale esso si manifesta, esercitando quindi l’interruzione del pensiero attraverso il trigger selezionato. Questa procedura va ripetuta finchè il dialogo negativo e le sensazioni disturbanti di ansia e preoccupazione sono completamente eliminati. Ristrutturazione dei pensieri Pensieri distorti ed irrazionali sono modificati prendendo in esame possibili differenti interpretazioni del loro significato, delle circostanze e del contesto in cui si sono manifestati; l’obiettivo è di creare “cornici” alternative di riferimento e modi diversi di percepire ed interpretare la situazione. Pensieri perfezionistici o, al contrario, catastrofici sono ridimensionati valutando in modo realistico la situazione e formulando obiettivi di prestazione appropriati. Un ulteriore problema è rappresentato, in alcuni atleti, dalla tendenza a considerare fatti e persone in termini assolutistici. Quel tipo di pensiero “tutto o niente” può portare a categorizzare gli eventi come successo o insuccesso, piuttosto che ricavare da esperienze e persone quanto di positivo offrono. La categorizzazione negativa è dannosa, poiché le “etichette” a fatti e individui tendono a cristallizzarsi, diventando poi molto difficili da cancellare. Concezione irrazionale è anche credere che il proprio valore come individuo dipenda esclusivamente dal risultato sportivo, personalizzando in maniera egocentrica molti eventi esterni e spesso non collegati al contesto reale. Riguardo all’esito della prestazione sportiva, è frequente che gli atleti tendano ad attribuire successo o insuccesso a fattori esterni che sfuggono al controllo soggettivo (la fortuna, l’arbitro, i compagni, gli avversari), piuttosto che analizzare i meriti e le responsabilità personali. E’ invece importante che l’atleta impari a privilegiare l’attribuzione interna per affrontare la situazione in modo più realistico e conseguire una padronanza maggiore degli eventi. In questo modo si cerca anche il controllo sul pensiero superstizioso, in particolare quando associato a valutazioni negative. Le superstizioni originano dal legame che si stabilisce tra una prestazione scadente, o un incidente, e qualsiasi altro fatto casuale in grado di attirare l’attenzione; il legame fra pensiero ed evento così formato può generalizzarsi poi a situazioni simili. Per smantellare le concezioni superstiziose è utile che l’atleta si eserciti proprio nelle situazioni temute, ovviamente con una certa gradualità, finchè riesce a realizzare anche in quel contesto una prestazione soddisfacente. Una modalità di ristrutturazione è costituita dalla trasformazione dei pensieri negativi in positivi. Le affermazioni negative o disturbanti vanno sistematicamente analizzate e sostituite con parole o frasi positive che consentano di recuperare il controllo della situazione. Questa procedura è efficacemente realizzata anche con l’aiuto di visualizzazioni,in stato di rilassamento, delle scene in cui i pensieri negativi si manifestano. Per modificare il contenuto dei pensieri, l’atleta va sollecitato a considerare fatti e ragioni per mettere in discussione e rifiutare convinzioni irrazionali e nocive. Dal punto di vista operativo, l’atleta va invitato ad analizzare e contestare in maniera logica e ragionevole i costrutti negativi, per poi identificare le affermazioni positive. Elaborazione di frasi affermative Frasi affermative personali sono molto utili per suscitare sentimenti di fiducia e di controllo sulle proprie capacità. Le affermazioni vanno formulate al tempo presente e orientate all’azione che si intende svolgere, evitando obiettivi estremamente difficili o impossibili da conseguire. Possono essere impiegate nei momenti critici della prestazione, quando la fatica aumenta, in situazioni di stress o durante un periodo di attività monotona. Le affermazioni positive sono distinte in : a) incoraggiamenti personali (“così va bene”, “è l’opportunità giusta” ); b) frasi per controllo dello sforzo (“ concentrati sulla fluidità del movimento”, “esegui la strategia “ ) ; c) frasi per il raggiungimento di obiettivi parziali della prestazione ( “ accelera “, “spingi di più” ); d) frasi positive generali ( “ ottimo lavoro”, “ ben fatto “ ). Una combinazione di self talk positivo e di pensieri specifici al compito incrementa la prestazione in misura maggiore rispetto ad ogni componente preso singolarmente. Scelta di parole con contenuto emozionale Le parole che attivano associazioni dirette con il movimento sono in grado di influenzare la prestazione. Sensazioni importanti e caratteristiche dell’azione, come velocità, forza, equilibrio, stabilità, potenza, vengono attivate da parole appropriate prima o durante l’attività. Un movimento automatizzato è in genere disturbato dall’intervento di pensieri coscienti di controllo durante l’esecuzione; questo non accade per le parole con contenuto emozionale, che non sono dirette al controllo esecutivo ma al potenziamento di caratteristiche dell’azione. Direzione del pensiero Durante l’attività sportiva i pensieri possono essere diretti verso contenuti non inerenti al compito (dissociativi) o, viceversa, a contenuti specifici (associativi). Pensieri dissociativi, impiegati più o meno consapevolmente o volontariamente, agiscono come distrattori per alleviare sensazioni di fatica, dolore o noia. Pensieri associativi, invece, sono diretti al monitoraggio delle sensazioni specifiche dell’attività motoria ed agli aspetti tecnici e tattici; sono in grado, almeno in certi momenti, di elevare notevolmente le potenzialità di prestazione. Piuttosto che propendere in maniera assoluta per una delle strategie è meglio considerare i vantaggi di entrambe. CAPITOLO 6 LA CONCENTRAZIONE La capacità di controllare i processi motori e di pensiero e di dirigere e mantenere l’attenzione su di un compito per una corretta esecuzione, in relazione alle richieste situazionali, sono riconosciute come importanti fattori per la prestazione sportiva. In particolare, per la gestione dei processi attentivi l’atleta deve imparare a: a) selezionare gli stimoli a cui rivolgere l’attenzione trascurandone altri non rilevanti, b) spostare l’attenzione al momento opportuno verso informazioni appropriate, c) mantenere l’attenzione sugli stimoli importanti. La concentrazione è sostanzialmente la capacità di focalizzare l’attenzione su di un compito per un certo periodo di tempo, senza essere disturbati o influenzati da stimoli esterni e interni non pertinenti. Una delle maggiori differenze fra lo sport di oggi e quello di un tempo sta, a livello cognitivo, nella complessità delle informazioni che l’atleta deve elaborare, in particolare negli sport di situazione. Rispetto ad un tempo sono aumentate molto le richieste elaborative a cui l’atleta deve rispondere. Le operazioni cognitive, in sintesi, sono costituite da: a) raccolta di informazioni esterne ed interne attraverso gli organi di senso (analizzatori) importanti per il movimento (visivo, uditivo, cinestesico, vestibolare e tattile); b) elaborazioni delle informazioni (confronto delle informazioni in entrata con quelle già depositate in memoria; attivazione di processi decisionali, scelta e programmazione della risposta); c) esecuzione e controllo della risposta. Atleti abili riescono senza sforzo, in maniera quasi passiva e automatica,a non essere distratti e a non reagire a stimoli irrilevanti. Prospettive teoriche Le connessioni fra attenzione e prestazione sono state studiate attraverso diverse prospettive; fra le più importanti vi sono quella cognitivista, con la teoria dell’elaborazione delle informazioni, e quella psicosociale. Ogni corrente teorica ha dato origine a ricerche tese a verificare aspetti particolari dei processi attentivi :la teoria dell’elaborazione delle informazioni si è rivolta allo studio delle caratteristiche cognitive dell’attenzione, quali la selettività, la capacità e l’automatismo; nella prospettiva psicosociale, invece, sono state studiate le influenze delle caratteristiche individuali e dell’ambiente sui processi attentivi. Ogni area di ricerca offre un contributo alla comprensione delle complesse relazioni fra processi attentivi e prestazione. Prospettiva cognitivista Un assunto basilare nella teoria dell’elaborazione delle informazioni è che fra stimoli recepiti attraverso gli organi di senso e risposte comportamentali vi sono stadi intermedi di trattamento (memoria sensoriale, a breve e a lungo termine; processi decisionali e programmazione della risposta). Nelle situazioni sportive l’organismo è bombardato costantemente da un enorme mole di stimoli, che però non possono essere elaborati tutti contemporaneamente dato che le capacità umane sono limitate: soltanto un ammontare circoscritto di informazioni viene considerato in un certo tempo ed è necessario allora selezionare gli stimoli. Attraverso la selettività solo certe informazioni, provenienti dall’interno o dall’esterno dell’organismo, sono trattate a diversi livelli del sistema, mentre altre sono ignorate od eliminate. La difficoltà della situazione sportiva è stimata proprio in base all’ammontare di informazioni presenti e alla possibilità di risposta. Proprio il ritardo dei processi di risposta è un fattore critico nel determinare l’esito di molte azioni sportive. Ne deriva che negli sport di situazione l’atleta dovrebbe tendere, attraverso le sue azioni, ad aumentare la quantità di indizi da inviare all’avversario e contemporaneamente dovrebbe essere capace, a sua volta, di selezionare solo quelli importanti da sottoporre a processi elaborativi. La selettività dell’attenzione, ossia la capacità di ignorare le informazioni sensoriali marginali e di prestare attenzione solo a quelle importanti, è di estrema importanza; si tratta di un caratteristica cognitiva che contraddistingue l’atleta esperto dal principiante. Distrattori comunemente ritrovabili nelle situazioni sportive sono collegati sia a stati interni che ad eventi esterni: eccessivo controllo consapevole, autovalutazione minuziosa, dubbi sulle proprie potenzialità, percezione di fatica, dolore o ansia disturbano i processi attentivi prima o durante la prestazione, così come stimoli esterni improvvisi di tipo uditivo o visivo derivanti dal pubblico, avversario, ambiente, ecc. Un modo per analizzare i processi attentivi e capire il loro funzionamento è studiare i comportamenti di soggetti esperti mentre eseguono un compito, confrontandoli poi con quelli di principianti. Nell’esecuzione di abilità motorie ben apprese gli esperti utilizzano maggiormente processi di elaborazione automatizzati, piuttosto che controllati,che sono rapidi ed efficaci, si svolgono senza sforzo e consentono l’esecuzione di più attività contemporaneamente (in parallelo). Se però il compito è difficile o non familiare sono di solito attivati processi consapevoli di controllo, più lenti, dispendiosi e con caratteristiche esecutive seriali (uno o pochi compiti alla volta). Le differenze maggiori fra elaborazioni automatizzate e controllate riguardano dunque parametri di sforzo, rapidità e consapevolezza: le prime sono economiche, rapide, scarsamente coscienti ed operano in parallelo, mentre le seconde sono dispendiose, lente sotto il controllo consapevole ed operano in serie. Ogni sport richiede una combinazione di elaborazioni automatizzate e controllate . Operazioni controllate sono maggiormente presenti negli sport di situazione, nei quali all’esecuzione di abilità tecniche si aggiunge il problema di effettuare rapide scelte decisionali ed ampi aggiustamenti dell’azione; sono più importanti, inoltre, nelle prime fasi dell’apprendimento e nella gestione di informazioni nuove, mentre elaborazioni automatizzate dirigono abilità ben apprese. Le modalità di trattamento dell’informazioni sono considerate anche in termini di capienza o “spazio” di elaborazione; date le limitate capacità dei processi attentivi, la possibilità di svolgere più compiti contemporaneamente dipende da quanto spazio viene occupato da ogni singolo compito. In altre parole, si può prestare attenzione a più stimoli o effettuare più risposte contemporaneamente se ciò non eccede le risorse dei processi attentivi; se un compito da solo occupa tutto lo spazio disponibile, potrà essere svolta unicamente quello. Con l’apprendimento e l’automatizzazione del movimento le richieste attentive diminuiscono e l’attenzione può essere rivolta ad altri compiti. Atleti evoluti sono poi capaci di dirigere appropriatamente il focus attentivo, mantenerlo anche in presenza di distrazioni esterne e interne, rifocalizzare immediatamente l’attenzione sulle informazioni importanti se distratti. Le limitazioni delle capacità attentive sono dovute, oltre che ad aspetti funzionali, anche a fattori strutturali. Interferenze strutturali si verificano quando due compiti eseguiti contemporaneamente utilizzano gli stessi organi recettori od effettori. Prospettiva psicosociale L’interesse della psicologia sociale, per quando attiene ai processi attentivi, è rivolto allo studio dell’influenza sulla prestazione di fattori cognitivi disturbanti, quali la preoccupazione e l’eccessiva analisi, e delle caratteristiche individuali e ambientali. In abilità consolidate, tipicamente guidate da meccanismi elaborativi automatizzati, l’uso inappropriato di processi consapevoli produce effetti nocivi. Questi si evidenziano soprattutto in situazioni competitive se l’atleta, per effettuare un’esecuzione accurata, cerca di controllare consapevolmente la sua performance. Preoccupazione e paura dell’insuccesso sono fattori che tendono ad aumentare il desiderio soggettivo di porre sotto controllo la prestazione, ed agiscono in senso contrario alle aspettative di accuratezza del gesto. Timori eccessivi, inoltre, tendono a causare uno spostamento dell’attenzione verso pensieri negativi, che agiscono anch’essi come distrattori. Differenze individuali in modalità e stili attentivi influiscono sulle capacità di far fronte alle distrazioni e di passare in modo flessibile da elaborazioni controllate ad elaborazioni automatizzate, soprattutto in situazioni sportive altamente dinamiche. Secondo Nideffer, ogni persona possiede un particolare stile attentivo relativamente stabile nel tempo, poco modificabile, che può essere generalizzato a diverse situazioni; vi sono poi aspetti dell’attenzione che invece sono specifici alle situazioni sportive e maggiormente passabili di cambiamento. Nideffer individua due dimensioni dell’attenzione: a) l’ampiezza, che definisce l’attenzione lungo il continuum ampio ristretto, con possibili variazioni graduali fra i due poli; b) la direzione, che è invece solo interna o esterna, cioè rivolta verso il soggetto o l’ambiente, e quindi non graduabile. Da queste due dimensioni emergono quattro caratteristiche del focus attentivo: ampio-esterno, ampio-interno, ristretto-esterno, ristretto-interno. Differenti situazioni sportive richiedono impegni attentivi diversi e l’atleta deve essere capace di modificare l’attenzione per adattarsi flessibilmente alle circostanze. Molti sport richiedono comunque che l’atleta sia capace di modificare sovente il focus attentivo, anche in maniera repentina, in termini sia di ampiezza che di direzione. Modifiche incontrollate o inadeguate del focus attentivo conducono facilmente a decrementi della prestazione. Attraverso un allenamento appropriato e specifico si impara a controllare l’attenzione nelle sue dimensioni; l’allenatore può anche suggerire direttamente all’atleta come e dove essa vada diretta in una specifica circostanza. Esistono differenze individuali nelle capacità attentive non solo in funzione dell’apprendimento, ma anche di fattori biologici ereditari. Gli atleti presentano, infatti, predisposizioni diverse (componenti di tratto dell’attenzione), che interagiscono più o meno facilmente con le richieste situazionali (componenti di stato). L’atleta esperto sarà in grado di utilizzare le proprie riserve e di passare agevolmente da un focus attentivo ad un altro. L’attenzione è anche in collegamento diretto con il livello di aurousal dell’organismo: ad un basso livello di attivazione corrisponde un’attenzione ampia che lascia penetrare stimoli sia pertinenti che irrilevanti; all’aumentare dell’arousal l’attenzione comincia a restringersi, fino ad un punto ottimale di selettività percettiva per le informazioni importanti; un arousal troppo elevato, infine, determina un eccessivo restringimento del campo percettivo, con conseguente perdita di stimoli rilevanti, aumento della distraibilità e difficoltà a spostare l’attenzione da una dimensione ad un'altra. L’incremento dell’aurousal da basso a moderato si accompagna ad un incremento delle selettività percettiva, di conseguenza gli stimoli irrilevanti sono eliminati e la prestazione migliora. All’aumentare dell’aurousal al di là di un punto ottimale l’attenzione continua a restringersi (effetto tunnel), cosicché anche gli indizi rilevanti sono esclusi e la performance si deteriora. L’atleta con un basso livello di attivazione può prestare attenzione alla folla o pensare all’avversario piuttosto che concentrarsi sulla gara. Una situazione di stress tende invece a produrre un aumento eccessivo dell’arousal e, pertanto, un restringimento periferico dell’attenzione; l’atleta può anche essere distratto dai sintomi somatici dell’ansia che ne catturano l’attenzione dirigendola all’interno. All’aumentare dell’arousal fisiologico al di là di un punto soggettivo ottimale vi è la tendenza a far riferimento ai propri stili attentivi dominanti, anche se non adeguati. Ma se lo stato di attivazione psicofisiologica influenza l’attenzione, modifiche nel focus attentivo incidono a loro volta sull’arousal: agendo sulla concentrazione si può quindi influire sull’arousal. Allenamento della concentrazione Dai diversi approcci teorici emerge che l’attenzione è un fenomeno complesso, influenzato da molteplici fattori che condizionano la capacità di utilizzare processi elaborativi: differenze individuali, richieste specifiche della disciplina sportiva, livelli di apprendimento e performance, situazioni ambientali, stati di arousal e di ansia. Uno stato ottimale di attivazione è conseguito quando l’atleta è in grado di mantenere un adeguato equilibrio fra elaborazioni automatizzate e controllate, in rapporto alle richieste del compito. Disturbi nei processi attentivi si verificano quando fattori interni ed esterni determinano un disequilibrio fra i due tipi di elaborazione. L’obiettivo dell’allenamento delle abilità attentive è lo sviluppo di un’attenzione selettiva per gli stimoli rilevanti, capace di ignorare le informazioni di disturbo, adattare il focus (nelle dimensioni ampiezza e direzione) e passare agevolmente da elaborazioni controllate ad automatizzate (e viceversa) a seconda delle necessità. L’atleta deve anche imparare a rifocalizzare rapidamente l’attenzione quando necessario, evitando pensieri parassiti e distrazioni. Il rilassamento somatico è spesso ritenuto un prerequisito per l’utilizzo di tecniche immaginative e per l’incremento della concentrazione, dato che i fattori di disturbo sono ridotti. L’orientamento dell’attenzione sulle sensazioni corporee tende a sviluppare una certa sensibilità percettiva. La rappresentazione mentale della performance in maniera vivida e polisensoriale è tradizionalmente inserita in stato di rilassamento anche per l’allenamento alla concentrazione; le visualizzazioni tendono a canalizzare il focus attentivo su aspetti particolari della prestazione e su informazioni rilevanti. Una modalità per far fronte alla perdita di concentrazione dopo avere commesso un errore è l’immediata correzione immaginativa, trasformando mentalmente il fallimento in successo. In questo modo ci si concentra non solo sui singoli elementi esecutivi da modificare, ma più in generale su quello che deve essere fatto; vengono così ridotte le possibilità di “ruminare” mentalmente sugli errori, con i giudizi di svalutazione e biasimo che ne possono derivare. Ulteriori procedure di allenamento alla concentrazione derivano dall’impiego di tecniche di visualizzazione e rilassamento mediante le quali l’attenzione è diretta alle sensazioni corporee e alla produzione di immagini mentali. Anche le tecniche di biofeedback offrono un notevole contributo. L’introduzione di situazioni stressanti simili a quelle di gara aiuta l’atleta a controllare l’attenzione anche in condizioni di disturbo. Questo determina ripercussioni favorevoli nella gestione dello stress: se da una parte il controllo dello stress migliora l’attenzione, dall’altra l’incremento delle abilità attentive aiuta a ridurre lo stress. Rituali di gara, infine, sono impiegati da molti atleti per evocare sensazioni collegate alla prestazione ideale e per ottenere una buona prestazione. E’ importante inizialmente individuare questi comportamenti tipici, attraverso colloquio ed eventuale trascrizione; se poi risultano adatti vanno riprodotti in competizione al fine di aumentare la probabilità di risposte ottimali. CAPITOLO 7 CONTROLLO DELL’ ATTIVAZIONE Atleti e allenatori affermano che per affrontare adeguatamente una prestazione sportiva sia necessario incrementare il livello di attivazione dell’organismo, per ottenere soprattutto in gara, la “carica” indispensabile per rendere al massimo. L’attivazione psicofisiologica (arousal) viene considerata come una funzione che permette l’accesso alle risorse energetiche dell’organismo per prepararlo in maniera ottimale all’azione. In generale, durante un’azione sportiva, è necessario un livello di attivazione superiore a quello del normale stato di riposo, ma non eccessivamente alto. Le prime riflessioni teoriche riguardanti l’arousal erano centrate sull’idea di “mobilitazione di energia”, durante situazioni particolarmente stressanti o fortemente emotive, per difendere l’organismo attraverso la lotta o la fuga (la cosiddetta sindrome “fight or flight”). La massiccia reazione del sistema nervoso autonomo al pericolo percepito, che originariamente generava risposte per la sopravvivenza, può ancora risultare utile in situazioni di rischio o di emergenza. Ciò, però, non accade normalmente nel contesto sportivo: anche se la reazione di intensa attivazione è talvolta efficace in particolari momenti della gara, l’atleta ha normalmente bisogno di mantenere il controllo dell’arousal e delle proprie risposte. L’autoregolazione è appunto la capacità del soggetto di modulare in modo adeguato il livello di attivazione necessario per eseguire con successo una qualsiasi prestazione motoria e sportiva. Come ci si allena per incrementare le risorse energetiche dell’organismo, così ci si può allenare per migliorare le disponibilità mentali. L’energia fisica influenza quella psichica e viceversa: ad uno stato psicofisico ottimale corrisponderà un’elevata energia psichica (un atleta in forma sente meno non solo la fatica fisica, ma anche quella mentale). Va ricercato, dunque, il massimo incremento di questo fattore per il conseguimento degli obiettivi della prestazione. Il concetto di arousal va distinto da quello di ansia, anche se queste due dimensioni indipendenti interagiscono tra loro. L’ansia può essere considerata una dimensione cognitiva dello stato di attivazione: definisce la sensazione soggettiva di tensione e di apprensione che si accompagna ad un elevato arousal, con riferimento ad uno stato emotivo negativo. Particolari richieste situazionali percepite come eccessive e pericolose determinano reazioni emozionali negative, che si accompagnano o associano facilmente all’attivazione del sistema nervoso autonomo. L’ansia è considerata un costrutto multidimensionale con componenti cognitive (preoccupazioni, pensieri ed immagini spiacevoli, distrazioni attentive, ecc. ) e/o somatiche (collegate direttamente all’attivazione fisiologica). Arousal e prestazione Dal punto di vista operativo è molto importante identificare il livello di arousal ottimale richiesto per il massimo rendimento. Per comprendere la relazione arousal-prestazione sono state inizialmente proposte due teorie, la drive theory e la inverted-U theory. Drive theory. Questa teoria sostiene che la prestazione è prodotto dell’abitudine, intesa come rapporto di dominanza fra risposte corrette e scorrette, e dell’impulso.Nella teoria originale era suggerita una relazione lineare positiva fra arousal e prestazione, prevedendo ad ogni incremento dell’arousal un miglioramento proporzionale della prestazione. La teoria modificata, invece, assume che l’arousal aumenti la probabilità di comparsa della risposta dominante, indipendentemente dal fatto che essa sia adeguata o meno:se essa è corretta come in genere si realizza in compiti motori semplici o negli ultimi stadi di acquisizione di una abilità, allora l’innalzamento dell’arousal migliora la prestazione in maniera lineare; se però la risposta dominante è scorretta, come talvolta accade nell’esecuzione di abilità complesse o durante le prime fasi di apprendimento, l’incremento si rivela invece dannoso per la prestazione. In quest’ottica, l’esecuzione di pertanto, abilità un ben aumento dell’arousal padroneggiate, ma faciliterebbe danneggerebbe l’apprendimento, l’applicazione di nuove abilità e strategie, l’esecuzione di compiti complessi. Inverted-U theory. Questa teoria offre, secondo diversi autori, una spiegazione maggiormente plausibile per descrivere la relazione fra arousal e prestazione. Essa postula che in compiti motori complessi l’arousal vada mantenuto ad un livello ragionevolmente basso, mentre per attività più facili possa essere maggiore. All’aumentare dell’arousal vi è un progressivo incremento nella prestazione sino ad un punto ottimale, oltre il quale ulteriori aumenti producono un graduale scadimento della prestazione. L’esecuzione migliore si realizzerebbe, pertanto, ad un livello intermedio di arousal. Quando si devono effettuare compiti di coordinazione fine e abilità complesse o quando si imparano nuove abilità, i livelli di arousal dovrebbero essere mantenuti relativamente bassi. Per stabilire il grado ottimale di attivazione vanno esaminate le caratteristiche sia del compito che dell’individuo. In generale, attività complesse necessitano livelli di attivazione relativamente bassi; attività semplici, viceversa, non sono ostacolate da livelli più elevati. Ad ogni attività corrisponde un arousal ottimale per una prestazione elevata. Negli sport di situazione vi è l’esigenza di variare il grado di arousal, talvolta in maniera repentina, in conformità ai cambiamenti situazionali. Per quanto riguarda le relazioni con i processi attentivi, l’aumento dell’arousal, determina un restringimento del focus dell’attenzione. Ad un livello basso corrisponde una percezione ampia e poco selettiva, rispetto agli stimoli; ad un arousal maggiore, entro la gamma di attivazione ottimale,la selettività percettiva sugli indizi importanti aumenta, a vantaggio della prestazione, parallelamente all’esclusione degli stimoli irrilevanti; andando oltre una certa soglia si ha un ulteriore restringimento percettivo con l’esclusione sia di stimoli importanti che irrilevanti, e la prestazione diminuisce in accordo con quanto ipotizzato dalla teoria della U-inversa. Il restringimento dell’attenzione,è certamente dannoso negli sport di situazione, quando è fondamentale un’ampia analisi percettiva per decidere e reagire in modo rapido ed efficace. Ad un livello di arousal eccessivo aumenta anche la distraibilità: l’attenzione “salta” sporadicamente da uno stimolo all’altro, si rivolge a diverse sorgenti rendendo impossibile la discriminazione dei segnali importanti e produce così facilmente uno stato di confusione. Lo stato ottimale di arousal dipende, inoltre, dalle caratteristiche individuali. Va considerato il grado di abilità del soggetto, poiché per uno stesso compito il livello ottimale di arousal dei principianti è inferiore a quello degli esperti; è anche per tale ragione che questi ultimi tendono ad esprimersi meglio in gara, dove il livello di attivazione è generalmente elevato, rispetto ai principianti. Le persone differiscono non solo per qualità e quantità di esperienze specifiche, ma anche per fattori di personalità che determinano il livello di ansia. Di conseguenza, se un atleta prima di una gara è già in una condizione di elevata tensione emotiva, con intensa attivazione, anche un moderato aumento dell’arousal risulta eccessivo; se, viceversa, l’atleta è più tranquillo, sarà in grado di tollerare un più alto livello di arousal senza ricadute negative sulla prestazione. In generale, un moderato incremento dell’ansia di stato prima della gara, che innalzi l’arousal ad un punto ottimale, agevola la prestazione. Teoria della catastrofe. Anche questa teoria postula che incrementi dell’ansia di stato, e quindi dell’arousal che ad essa si accompagna,, facilitino la prestazione fino ad un punto ottimale. Rispetto a quanto avviene oltre a questo punto, mentre la teoria della U-inversa ipotizza un decremento della prestazione curvilineo e simmetrico, la teoria della catastrofe afferma invece che ciò che si verifica è un ampio e drammatico deterioramento della performance difficile per l’atleta da recuperare. L’aspetto innovativo di questa teoria è che essa pone in relazione ansia cognitiva, arousal fisiologico (collegabile almeno in parte all’ansia somatica) e prestazione in un rapporto tridimensionale. Gli effetti dell’arousal fisiologico sulla prestazione sarebbero mediati dall’ansia cognitiva: le conseguenze “ catastrofiche” si manifesterebbero ad elevati livelli di arousal combinati ad elevata ansia cognitiva. Reversal theory. La concezione di base di questa teoria è che la relazione fra arousal e stati emotivi dipenda dall’interpretazione cognitiva che un soggetto dà del proprio stato di attivazione. Elevata attivazione può essere interpretata come eccitazione piacevole oppure come ansia, mentre bassa attivazione può essere vissuta come rilassamento o noia. Kerr individua quattro stati derivanti dalla relazione tra le due dimensioni indipendenti stress e arousal: ansia, eccitazione, noia e rilassamento. Da questa prospettiva deriva che lo stato di attivazione è vissuto come piacevole o spiacevole in base all’interpretazione soggettiva. Lo stato psicofisico più gratificante e vantaggioso è ovviamente associato all’assenza di stress, o comunque ad un livello minimo, ed ad un elevato livello di arouasl. Nel quadro teorico della reversal theory emergono, dal punto di vista applicativo, quattro possibili strategie per modificare l’arousal negativo: 1) diminuzione dell’attivazione intensa vissuta come spiacevole (ad esempio, con tecniche di rilassamento); 2) reinterpretazione dello stato di arousal elevato (da ansia ad eccitazione, modificando i pensieri ); 3) incremento della scarsa attivazione percepita come sgradevole ( ad esempio, attraverso tecniche respiratorie e movimenti rapidi); 4) reinterpretazione dell’arousal basso ( da noia a rilassamento). La scelta dell’approccio adeguato va ovviamente effettuata dopo aver identificato le condizioni psicofisiche che consentono all’atleta di conseguire i massimi risultati. E’ più utile aiutare l’atleta a modificare le sue percezioni cognitive piuttosto che diminuire l’attivazione attraverso tecniche di rilassamento. Il cambiamento interpretativo che ne deriva non solo fa sentire meglio l’atleta, ma consente di mantenere un livello di arousal ottimale. Se elevato arousal vissuto come ansia può essere reinterpretato come eccitazione piacevole, uno stato di bassa attivazione vissuto come noia può essere trasformato in rilassamento gradevole; in entrambi i casi, sensazioni negative associate ad uno specifico stato di attivazione sono trasformate in vissuti positivi. Differenze di personalità individuali sono pure importanti: alcuni soggetti tendono di solito ad evitare alti livelli di arousal poiché associati a sensazioni spiacevoli di ansia, mentre altri percepiscono l’intensa attivazione come eccitante. Procedure di autoregolazione Per l’atleta è importante conoscere il proprio livello di arousal associato al rendimento ottimale e le sue fluttuazioni durante la prestazione. Questo si consegue con l’esperienza, le esercitazioni, l’identificazione di percezioni, emozioni e comportamenti associati alla prestazione ideale. E’ interessante confrontare le risposte soggettive in gara con quelle in situazioni non competitive e meno cariche dal punto di vista emotivo. L’atleta deve imparare a mantenere il controllo dei fattori cognitivi tendenzialmente fluttuanti, quale la presa di informazioni, la concentrazione, l’elaborazione degli stimoli rilevanti, la risoluzione dei problemi tecnici e tattici, il controllo dei pensieri. I segnali di elevato arousal associato ad ansia si riscontrano a diversi livelli: cognitivo, affettivo e comportamentale. Dal punto di vista cognitivo possono comparire, soprattutto in prossimità della gara, segni di diminuzione delle capacità attentive, tendenza alla distrazione e dubbi sulle capacità personali; sotto il profilo fisiologico si notano segni di reattività emozionale (volto arrossato, palme sudate, pupille dilatate, ecc. ), mentre a livello comportamentale si ha un decadimento della prestazione. E’ quindi importante che l’atleta sviluppi le abilità e le strategie necessarie per regolare le proprie reazioni psicofisiologiche. Il primo passo è riconoscere il grado soggettivo di attivazione ottimale associato alla massima prestazione. Varie procedure di regolazione dell’arousal vengono apprese in uno stato di distensione psicofisica. Tecniche di rilassamento si rivelano utili per prendere coscienza della tensione muscolare a riposo e in attività, a tutto vantaggio della prestazione; infatti, maggiore è la tensione muscolare non controllata e più difficile diventa l’esecuzione motoria coordinata. Nell’apprendere a decontrarre la muscolatura gli atleti sviluppano una maggiore sensibilità verso le loro sensazioni e risposte corporee. Va ricordato, inoltre, come le tecniche di rilassamento siano impiegate diffusamente dagli psicologi dello sport anche per facilitare il conseguimento degli altri obiettivi della prestazione mentale (miglioramento della concentrazione, sviluppo delle abilità immaginative, incremento della fiducia nelle capacità personali, ecc. ). Le tecniche di rilassamento dovrebbero essere apprese in un ambiente quieto, caldo e accogliente, seduti o distesi in una posizione confortevole che possa essere mantenuta per un tempo sufficientemente lungo da consentire lo svolgimento indisturbato delle esercitazioni. Nella posizione seduta il busto va mantenuto eretto, il dorso contro lo schienale, le gambe e le braccia non incrociate, le mani adagiate confortevolmente sulle cosce ed i piedi in appoggio piatto sul pavimento. In posizione supina, capo, collo e busto vanno mantenuti allineati, le gambe tese e leggermente scostate, le braccia disposte naturalmente lungo i fianchi. Dopo una prima fase di apprendimento in situazioni “protette”, il rilassamento va indotto in presenza di disturbi esterni e in situazioni anche stressanti. L’atleta deve gradualmente imparare ad avviare risposte di distensione in qualsiasi ambiente e circostanza; il rilassamento è anche utilizzabile in alcune fasi particolari della prestazione, quando l’atleta ha bisogno di “disattivarsi” momentaneamente, ritrovare la concentrazione ed eliminare aree di tensione muscolare. In generale, le tecniche di rilassamento sono suddivise in due categorie fondate entrambe sulla stretta interazione psicobiologica mente-corpo: 1) tecniche muscle-to-mind, che partono dal corpo per l’avvio e l’approfondimento di uno stato psicofisico di rilassamento. Un esempio classico è il rilassamento progressivo di Jacobson; 2) tecniche mind-to-muscle, che prevedono un approccio mentale e cognitivo. La meditazione, il training autogeno e le sue tecniche immaginative in genere sono esempi di questo tipo di approccio. Va sottolineato che nessuna singola strategia di autoregolazione da sola possa essere efficace per tutti. Per questo motivo è importante utilizzare diverse tecniche, incoraggiando nell’atleta l’identificazione e la pratica flessibile delle procedure che per lui sono più vantaggiose. Se poi nel tempo alcune strategie perdono la loro efficacia debbono essere prontamente ristrutturate o rimpiazzate da altre elaborate a misura. Strategie di autoregolazione muscle-to-mind Attraverso le tecniche muscle-to-mind si ricerca l’avvio e l’approfondimento di uno stato di rilassamento partendo da sensazioni corporee.Gli atleti, in genere, affrontano favorevolmente procedure di questo tipo, probabilmente per l’abitudine a lavorare attivamente con il proprio corpo. Esercizi respiratori. L’esecuzione di semplici atti respiratori lenti, completi e profondi di solito determina di per sé una risposta di rilassamento ed è alla base di molteplici altre esercitazioni. Nell’inspirazione diaframmatica, il diaframma si muove lentamente verso il basso, spingendo l’addome in fuori e creando in tal modo una differenza pressatoria che facilita l’entrata dell’aria nei polmoni. Un atto inspiratorio completo è eseguito concentrandosi sul riempimento della parte inferiore dei polmoni, poi della porzione mediale espandendo gradualmente il torace, ed infine delle zona superiore innalzando lentamente petto e spalle; i tre stadi dovrebbero essere eseguiti in maniera continua e fluida. Il respiro va trattenuto per alcuni secondi e nell’inspirazione successiva si ripercorrono le tappe precedenti svuotando i polmoni. Nell’espirazione lenta e completa il rilassamento è favorito prestando attenzione al gioco di tensionedistensione muscolare dell’addome e del torace. La respirazione controllata è utile anche per il recupero delle energie nei momenti di disimpegno dall’attività motoria e di pausa. Un altro esercizio respiratorio, finalizzato al rilassamento, prevede l’esecuzione di inspirazioni-espirazioni in rapporto 1 a 2; ci si aiuta contando mentalmente 4 tempi di inspirazione ed 8 di espirazione. Espedienti per facilitare la consapevolezza dell’atto respiratorio consistono nel vocalizzare o sospirare durante l’espirazione e focalizzare l’attenzione sul ritmo del respiro. Se una dinamica respiratoria lenta e profonda avvia il rilassamento, una respirazione deliberatamente accelerata tende ad incrementare il livello di attivazione. Un aumento dell’arousal si ottiene anche aumentando l’intensità dell’attività motoria, che a sua volta determina un incremento del ritmo respiratorio. Esercizi di rilassamento progressivo. La procedura classica sviluppata da Jacobson si basa sulla premessa che rilassamento e tensione (questa derivante dall’ansia) siano due stati contrapposti che non possono coesistere contemporaneamente. La tecnica consiste nella contrazione sistematica e gradualmente più intensa di specifici gruppi muscolari, mantenuti in tensione isometrica per alcuni secondi prima di essere rilasciati. Le contrazioni coinvolgono progressivamente ed in maniera analitica tutti i settori muscolari: braccia , gambe, busto, collo, capo. Con l’allenamento la procedura viene notevolmente abbreviata considerando solo i principali gruppi muscolari. Attraverso la contrazione volontaria si otttiene una maggiore consapevolezza e sensibilità agli stati tensivi; dopo la tensione la fase seguente di rilassamento è vissuta, per contrasto con maggiore intensità. Il gioco di tensione / rilassamento tende a focalizzare l’attenzione verso l’attività muscolare, contribuendo a sviluppare le capacità di contrazione. Con l’allenamento, alle sensazioni di rilassamento si accompagnano spesso percezioni di pesantezza e calore, favorite dalla distensione muscolare e dal flusso più libero del sangue. Per migliorare il rilassamento è utile l’aggancio a segnali stimolo costituiti da parole (come “calma” ) o persino da colori immaginati (blu o verde) associati all’atto espiratorio. Un corretto atteggiamento mentale è lasciare che tutto accada senza alcun sforzo, che, viceversa, tenderebbe a produrre tensione. Strategie di autoregolazione mind-to-muscle Le strategie di rilassamento mind-to-muscle richiedono un’attività mentale capace di avviare risposte psicobiologiche di rilassamento. Meditazione. Tali tipi di meditazione, derivati in genere da antiche pratiche orientali (meditazione Zen, Hata Yoga), richiedono perlomeno quattro componenti comuni: ambiente tranquillo, posizione confortevole, un “dispositivo mentale” ed un atteggiamento passivo. Il dispositivo mentale è costituito dalla ripetizione di una mantra (suono ritmico di una o due sillabe) o dalla fissazione dello sguardo di un oggetto; focalizzando così l’attenzione è favorito il passaggio da un orientamento esterno, sugli stimoli ambientali, ad uno interno, relativo al proprio corpo. Visualizzazioni. Le visualizzazioni sono di solito introdotte dopo che è stato avviato il rilassamento; si possono impiegare immagini di ambienti naturali e scene distensive, come l’essere stesi in spiaggia sentendo il calore del sole e il ritmico flusso delle onde, o il passeggiare in mezzo al verde in una giornata primaverile. Le immagini utilizzate devono essere gradite al soggetto e capaci di determinare sicure reazioni di rilassamento. Per ottenere uno stato di attivazione ottimale prima della prestazione è invece utile rievocare esperienze sportive positive, individuando dettagliatamente comportamenti, emozioni, atteggiamenti e tutto ciò che ha contribuito a determinare un arousal adeguato. Anche l’energia che origina da sentimenti di rabbia, aggressività, frustrazione, ed in genere da tutte le forti emozioni che tendono ad interferire con la prestazione, andrebbe convertita in una forza utile da impiegare per migliorare il rendimento sportivo. Rilassamento passivo. Al contrario di quello attivo, nel rilassamento passivo non si richiede alcuna tensione muscolare, ma la graduale concentrazione sui vari distretti corporei da rilassare. Durante il rilassamento è utile soffermarsi maggiormente sui gruppi muscolari nei quali si avverte un livello elevato di tensione; quando la contrazione diminuisce o scompare si prosegue con i restanti distretti corporei. Aree comunemente sede di tensione, soprattutto in atleti ansiosi, sono quelle del collo e delle spalle. Training Autogeno. Il training autogeno di Schultz è un metodo di autodistensione da concentrazione psichica per finalità psicoterapeutiche. Consiste in una serie di esercitazioni strutturate, autosuggestioni, al fine di controllare alcuni importanti processi psiofisilogici e sviluppare una serie di sensazioni partendo da quelle di calma, pesantezza e calore. L’attenzione, passiva e senza sforzo, è diretta alla produzione spontanea di cambiamenti nel tono muscolare, nelle funzioni cardiovascolari e respiratorie, nell’equilibrio neurovegetativo e nello stato di coscienza. Un vantaggio del TA è che esso tende a responsabilizzare il soggetto, enfatizzando la necessità dell’impegno sistematico personale per conseguire risultati; un operatore esterno è tuttavia necessario nelle prime fasi di apprendimento della tecnica. Il TA prevede 6 tappe consequenziali di allenamento (ciclo inferiore), caratterizzate dallo sviluppo di sensazioni e manifestazioni corporee, ognuna delle quali prepara la successiva: 1) pesantezza 2) calore 3) percezione e regolazione del ritmo cardiaco 4) regolazione del respiro 5) sviluppo di calore del plesso solare 6) sviluppo di freschezza alla fronte. Ogni esercizio deve essere ben acquisito fino ad ottenere facilmente i risultati desiderati; solo allora si passa all’esercizio successivo. A livello sportivo, quando gli esercizi standard del ciclo inferiore sono stati acquisiti, ed il soggetto è in grado di produrre i relativi fenomeni agevolmente ed in breve tempo, sono introdotte immagini specifiche rivolte agli obiettivi della preparazione mentale, inclusa la regolazione dell’arousal. Una volta appresa la tecnica di base essa viene applicata in situazioni di allenamento e di gara. CAPITOLO 8 LE ABILITA’ IMMAGINATIVE Molti atleti utilizzano le immagini mentali come aiuto per la prestazione sportiva, riscontrando spesso che i loro risultati migliori si verificano quando l’azione reale coincide esattamente con la relativa rappresentazione. Gli atleti utilizzano spesso e spontaneamente attività immaginative per anticipare, rivedere, correggere la prestazione e per prepararsi al meglio alla gara. Prima di una gara, l’atleta può raffigurarsi le difficoltà, le caratteristiche e le richieste del compito, ripetendo mentalmente tutte le fasi dell’azione; se poi la durata della prestazione, come nel tennis, è sufficientemente lunga, può concentrarsi su di uno stimolo specifico e ripensare ad una strategia anche durante l’esecuzione stessa. Al termine dell’azione, infine, le varie fasi del gesto possono essere vissute mentalmente, rilevando eventuali errori da correggere oppure ripetendo l’esecuzione esatta per rafforzarla in memoria a lungo termine. Ipotesi teoriche Rassegne estensive sugli effetti della pratica mentale sono state effettuate nel corso degli anni da vari autori. E’ stato riscontrato che la pratica mentale produce spesso, ma non sempre, un effetto benefico sulla prestazione. La maggior parte degli studi sperimentali è stata fatta confrontando, prima e dopo il trattamento, gruppi di soggetti sottoposti alle seguenti procedure: 1) solo pratica motoria 2) solo pratica mentale 3) combinazione di pratica motoria e mentale 4) assenza di qualsiasi forma di esercitazione sul compito. In genere si è visto che la pratica fisica determina incrementi superiori della prestazione rispetto alla sola pratica immaginativa, e che quest’ultima a sua volta conduce a risultati migliori rispetto all’assenza di pratica. La pratica mentale risulta maggiormente efficace se combinata ( o alternata ) con la pratica fisica; non sostituisce l’esercitazione concreta, poiché viene a mancare il feedback indispensabile per identificare e correggere in modo preciso gli errori, ma si combina ad essa validamente. Va certamente sottolineato un duplice ruolo cognitivo e motivazionale che l’immaginazione svolge nell’influenzare il comportamento. Dal punto di vista cognitivo l’imagery agisce sia su strategie di comportamento generali, sia su risposte specifiche; contribuisce a sviluppare la capacità di focalizzare l’attenzione su stimoli rilevanti della prestazione, prevenendo l’azione disturbante di pensieri o altri stimoli distraenti. L’immaginazione,in quest’ottica ,comprende la rappresentazione degli obiettivi e dei comportamenti per raggiungerli, con le relative conseguenze ed esperienze emozionali associate. Ciò determina un aumento della sensazione di controllo sulla situazione e di fiducia nelle capacità personali, interpretabili con riferimento alla self-efficacy: attraverso le immagini sono innalzate le aspettative di successo, che a loro volta tendono ad aumentare le probabilità reali di ottenere esiti positivi. Nell’applicare tecniche immaginative è però importante agire con una certa cautela, poiché alcuni risultati dimostrano che quello che i soggetti immaginano talvolta influenza la prestazione anche in senso negativo. Alcuni autori ipotizzano che le richieste immaginative portino a rivolgere l’attenzione sui processi motori, e che l’attenzione consapevole ad aspetti della prestazione possa ostacolare il flusso di operazioni automatiche, al di fuori del controllo cosciente, necessarie per l’esecuzione di attività motorie fini. La ripetizione immaginativa, inoltre, potrebbe causare un calo di attenzione per gli stimoli rilevanti del compito. L’immaginazione, quindi, può agire negativamente sulla prestazione in due modi: ostacolando i processi automatici di controllo dei movimenti e facendo dirigere l’attenzione verso stimoli non importanti. Nello spiegare gli effetti positivi del mental imagery in ambito sportivo sono state avanzate alcune ipotesi, fra le quali le più accreditate sono la teoria psiconeuromuscolare e la teoria dell’apprendimento simbolico. Teoria psiconeuromuscolare. Essa deriva dalla constatazione che durante il movimento immaginato si verifichino deboli pattern efferenti neuromuscolari simili a quelli generati durante l’azione. Attività motorie immaginate vividamente producono impercettibili stimolazioni nervose ai muscoli coinvolti nell’attività ed altre risposte viscerali, ad esempio a livello cardiocircolatorio e respiratorio, simili a quelli dell’esecuzione reale. Questi minuscoli impulsi consoliderebbero la traccia di memoria del movimento determinando un transfert positivo alle situazioni pratiche. Perciò sembra che compiere realmente il movimento o solo immaginarlo determini l’attivazione degli stessi sentieri nervosi che portano il messaggio alla muscolatura. Migliore è la rappresentazione mentale, più attivato sarà il programma motorio corrispondente e quindi più faticoso sembrerà il compito simulato (con livelli di fatica probabilmente simili al compito reale). Il sistema sensomotorio, specializzato nella generazione di impulsi motori,sarebbe stimolato da attività immaginative e la rappresentazione mentale conterrebbe una stima dello sforzo e dell’energia necessari per raggiungere l’obiettivo. Teoria dell’apprendimento simbolico. Secondo questa teoria, alternativa alla precedente,la funzione principale della pratica mentale è di rafforzare gli aspetti simbolici e/o cognitivi del movimento. L’immaginazione agisce come un sistema di codifica per comprendere e acquisire i pattern di movimento; aiuta il soggetto ad esaminare e capire meglio la propria prestazione, ed a modificarla appropriatamente quando necessario. Possono essere ripetuti mentalmente gli aspetti sequenziali del compito, considerate le caratteristiche spaziali dell’abilità, chiariti gli obiettivi, identificati potenziali problemi e pianificate procedure efficaci di esecuzione. L’attività viene così preparata, compresa, codificata, programmata e quindi svolta in modo sempre più familiare e automatico. La sua efficacia sarebbe in funzione di quantità e importanza delle componenti cognitive presenti: nel continuum cognitivo-motorio le attività che si collocano verso l’estremità cognitiva beneficherebbero maggiormente della pratica mentale rispetto ad attività prevalentemente motorie. A livello sportivo elevate richieste cognitive si ritrovano in molteplici circostanze (risoluzione di problemi, scelta di strategie, tattiche di gara). Ad esempio, è probabile che gli atleti si anticipino mentalmente tutta una serie di situazioni che potrebbero accadere in partita, e per ognuna cerchino di trovare adeguate soluzioni; su queste abilità è dunque opportuno un allenamento mentale sistematico. Anche le ricerche sugli effetti del transfert bilaterale forniscono sostegno alla teoria dell’apprendimento simbolico. In un compito da eseguire con la mano sinistra, i soggetti che si erano esercitati mentalmente con la mano destra operavano allo stesso modo, o anche meglio, di chi si era esercitato fisicamente. Questo sembra indicare che responsabili degli effetti positivi della pratica mentale siano meccanismi nervosi centrali (cognitivi), piuttosto che meccanismi nervosi periferici (quale il feedback cinestesico del movimento immaginato). Attività motorie e sportive prevalentemente cognitive sarebbero apprese più rapidamente, attraverso la pratica mentale, rispetto ad attività a carattere motorio-condizionale. Gli elementi cognitivi del compito vengono acquisiti (oltre che mediante l’esercitazione pratica) anche attraverso istruzioni fornite dall’esterno e apprendimento osservativi (modeling). I risultati degli studi sul modeling sono in linea con l’ipotesi dell’apprendimento simbolico ed in quest’ottica il mental rehearsal potrebbe essere interpretato come un “modelig-covert”, ovvero come una ripetizione mentale di comportamenti derivanti dall’osservazione di altre persone. Più accurata è la rappresentazione cognitiva delle caratteristiche dell’azione da imitare e migliore è la riproduzione susseguente. Teoria bioinformazionale. Accanto alle teorie psiconeuromuscolare e dell’apprendimento simbolico, vengono considerate di rilievo altre teorie, derivanti dall’ambito clinico e descritte come integrative in quanto al loro interno sono aggregati risultati di studi che seguono diverse metodologie di ricerca. Una di esse è la teoria bioinformazionale. Questa suggerisce che le emozioni, e le relative immagini mentali, coinvolgano una rete di strutture definite preposizionali, codificate e immaginate in memoria a lungo termine, contenenti informazioni sulle caratteristiche stimolo della situazione immaginata e sulle risposte fisiologiche e comportamentali. IL Visual behavior rehearsal (VMBR), programma di preparazione mentale sviluppato da Suinn indipendentemente dal modello precedente, si fonda anch’esso su un processo immaginativo olistico, che considera un’integrazione totale dell’esperienza includendo sensazioni visive, uditive, tattili, cinestesiche ed emozionali. Triple-Code Model: ISM. Un secondo modello integrativo, che pure riconosce l’importanza fondamentale dei fattori fisiologici nei processi immaginativi, è stato proposto da Ahsen. Acconto agli stimoli e alle risposte è considerato un ulteriore importante elemento: il significato personale che le immagini rivestono per l’individuo. Ogni immagine ha infatti un significato soggettivo particolare e ciascuno proietta le sue esperienze all’interno del processo immaginativo, cosicché le medesime istruzioni non produrranno mai vissuti identici in soggetti diversi. Le immagini emozionali sono in grado sia di migliorare che di peggiorare la prestazione: il loro impatto è in funzione anche di reazioni determinate da caratteristiche di personalità individuali. Per un proficuo lavoro con le immagini bisogna allora considerare attentamente il significato che queste presentano per il singolo. L’imagery differisce fortemente per ogni persona, potendo sia innalzare che degradare la prestazione: un’immagine che produce effetti positivi per un soggetto può non avere nessun effetto per un altro o addirittura essere nociva. Nell’impiegare le tecniche immaginative, quindi, è importante considerare i significati che le immagini acquisiscono individualmente e le emozioni che ne derivano. Allenamento all’imagery Sono state individuate alcune specifiche condizioni che facilitano l’allenamento all’imagery e rendono possibile un buon uso delle visualizzazioni nello sport. Esse sono la vividezza e controllabilità delle immagini, correttezza delle immagini tecniche, allenamento sistematico, atteggiamento ed aspettative, esperienza precedente sul compito, attenzione ricettiva, direzione dell’immaginazione. Nello strutturare programmi di allenamento mentale bisognerà considerare tali variabili, assieme ad altre, quali età, capacità intellettive, personalità, motivazioni, che coagiscono nello sviluppo delle abilità immaginative. Vividezza e controllabilità delle immagini. La vividezza è un aspetto fenomenologico delle immagini, una caratteristica che rende possibile la loro ispezione consapevole. La capacità di generare immagini chiare può essere considerata un prerequisito per utilizzarle al meglio, per controllarle consapevolmente, mantenerle stabili e trasformarle a piacere. Il coinvolgimento dei vari canali sensoriali ed una certa pratica fisica sul compito contribuiscono a rendere le immagini più vivide e dettagliate, attivando anche le relative emozioni. La capacità di formare immagini dipende , fra gli altri fattori, anche dall’abilità soggettiva e dall’esperienza specifica precedente. Un requisito importante perché le immagini risultino efficaci è la loro polisensorialità. Esse devono coinvolgere tutti i sensi per creare o ricreare nella mente un’esperienza quanto più ricca possibile; non solo sensazioni visive, ma anche cinestesiche, tattili,uditive, vestibolari. Se a livello percettivo la similarità qualitativa delle immagini all’esperienza reale è elevata, per la mente può risultare difficile distinguere fra realtà percepita e realtà rappresentata. Immagini motorie realistiche, specifiche e precise forniscono sensazioni che possiedono elementi percettivi comuni alle esperienze di movimento; quanto immaginato vieni allora trasferito più facilmente alla situazione concreta (principio della specificità dell’apprendimento). Le visualizzazioni devono comprendere, inoltre le caratteristiche emozionali delle situazioni, poiché sono proprio tali aspetti che aiutano a controllare stati emotivi, quali ansia, paura, rabbia, che influenzano, a volte in modo determinante, la prestazione. Martens consiglia, come primo passo per rendere le immagini più vivide, di prendere coscienza delle emozioni e delle diverse sensazioni percettive derivanti dai vari organi sensoriali durante l’esperienza motoria e sportiva. Più l’atleta sente, vede percepisce e si rende conto delle sue emozioni, tanto più sarà in grado di crearsi immagini vivide di queste esperienze. Deve, inoltre, acquisire la capacità di controllare le immagini, in funzione delle esigenze e delle richieste del compito. In contrario con i sogni, l’attività immaginativa può essere sottoposta a controllo volontario. Immagini non controllate, viceversa, tendono a distrarre la persona dal compito o ad introdurre errori esecutivi. Il visualizzare un evento di successo tende a determinare l’attesa di una prestazione simile, creando condizioni favorevoli al suo verificarsi. Correttezza delle immagini tecniche. Nella pratica mentale bisogna porre attenzione alla correttezza delle immagini, in quanto se sono rappresentati risposte sbagliate o esiti negativi del movimento la prestazione scade.Esercitazioni reali e immaginative hanno effetti simili sia positivi facilitanti l’acquisizione di abilità motorie, sia negativi, di ostacolo all’apprendimento. Soggetti esperti hanno una rappresentazione mentale precisa del movimento, realizzando un’elevata corrispondenza fra immagine e attività reale nei parametri motori. Per aiutare un soggetto a formare immagini appropriate possono essere fornite istruzioni verbali dettagliate, adattate alle capacità di comprensione individuali, e modelli fotografie,filmati grafici). Allenamento sistematico. esecutivi tramite osservazione diretta ( Ogni persona possiede la capacità di utilizzare l’immaginazione, ma come vanno costantemente allenate le abilità motorie, così anche le abilità ad usare le immagini richiedono una pratica sistematica. Ripetizioni mentali brevi, frequenti e svolte sistematicamente, inoltre, sembrano più efficaci rispetto a visualizzazioni lunghe e saltuarie. Atteggiamento ed aspettative. L’imagery produce i risultati migliori se l’atleta è motivato e crede profondamente in quanto sta facendo (come per lo sviluppo di tutte le altre capacità di prestazione!) e se si considera capace di utilizzare adeguatamente le immagini; il potere dell’imagery, viceversa, viene sostanzialmente perduto se non si crede alla sua efficacia. E’ importante accordare all’imagery il giusto valore chiarendo che essa, come ogni altra procedura di mental training, non può sostituirsi alla preparazione fisica e tecnica, ma va a questa integrata sviluppandola gradualmente e sistematicamente. Vi è generale accordo sul fatto che l’imagery da sola sia preferibile all’assenza di pratica, ma che comunque, a parità di tempi di esercitazione, non sia così efficace quanto l’allenamento concreto. Alla pratica mentale viene a mancare il feedback dell’azione necessario per rilevare e correggere gli errori eseguiti. La combinazione pratica e fisica garantisce i risultati migliori; l’imagery deve essere concepita come complementare all’allenamento senza sostituirsi ad esso. Va ricordato che la pratica mentale può essere utilizzata non solo con obiettivi di apprendimento o perfezionamento tecnico, ma anche con finalità motivazionali: l’atleta capace che visualizza se stesso sul podio prima della gara, o che si immagina mentre supera l’avversario, innalza il suo desiderio di successo e si impegna più assiduamente per conseguirlo. Esperienza precedente sul compito. Gli atleti esperti sono maggiormente avvantaggiati dall’allenamento immaginativo rispetto ai principianti; infatti, avendo già acquisito e automatizzato abilità ad un livello elevato, possono attraverso l’imagery allenare fattori diversi del gesto tecnico: la gestione dello stress competitivo, la modulazione del livello dell’arousal, il miglioramento della concentrazione, l’allenamento della fiducia nelle proprie possibilità. Attenzione ricettiva. Molto spesso prima delle visualizzazioni sono utilizzate procedure di rilassamento, con l’obiettivo di ottenere uno stato mentale di attenzione ricettiva proficuo per la creazione di immagini vivide e controllabili. Martens raccomanda di conseguire, prima dell’allenamento immaginativo, un buon livello di distensione attraverso il quale diminuire l’attività dell’emisfero sinistro, sede del pensiero logico-verbale, a favore di un incremento dell’attività dell’emisfero destro, sede del pensiero per immagini. Direzione dell’immaginazione. Un altro importante aspetto da considerare nella pratica mentale è la direzione dell’immaginazione; vi è una generale tendenza a considerare la ripetizione “interna” (il soggetto che si vede eseguire il movimento da una prospettiva interna, in prima persona) come più efficace rispetto alla ripetizione “esterna” (il soggetto che si vede come in un filmato). Questa concezione deriva dall’assunto che attraverso l’immaginazione interna si attivino sensazioni sia visive che cinestesiche e dalla constatazione che tale prospettiva si avvicini maggiormente a quella durante l’esecuzione reale. L’immaginazione esterna, inoltre, potrebbe condurre il soggetto a focalizzare l’attenzione su aspetti del compito irrilevanti o distraesti. Imagery e preparazione mentale Programmi di allenamento mentale fondati sull’utilizzo delle immagini mirano a diverse finalità. Apprendimento e perfezionamento di abilità motorie e sportive. L’atleta esperto può utilizzare le visualizzazioni per esaminare criticamente tutti gli aspetti della prestazione, scoprire le cause di eventuali errori e problemi, anticipare possibili soluzioni. Incremento delle capacità percettive. L’immaginazione aiuta gli atleti a prestare attenzione agli stimoli sensoriali importanti della situazione sportiva, ad escludere le informazioni irrilevanti e, in definitiva, a diventare maggiormente consapevoli di quanto sta accadendo, per rispondere in maniera sempre più adeguata alle circostanze. Elaborazione e ripetizione di strategie di gara. Possono essere visualizzate situazioni competitive, elaborate ed analizzate soluzioni di tipo tattico. Ripetere mentalmente le strategie di gara aiuta a rinforzarle e a consolidarle in memoria, rendendole più efficacemente e rapidamente disponibili in situazione reale. Controllo delle risposte fisiologiche. Attraverso un allenamento immaginativo adeguato vengono regolate funzioni corporee normalmente involontarie, come il battito cardiaco, la pressione del sangue e la temperatura della pelle.Il controllo di alcuni di questi parametri fisiologici serve per modulare lo stato di attivazione prima e nel corso della prestazione. Il controllo delle risposte fisiologiche favorisce, inoltre, il recupero di energie e capacità di prestazione dopo affaticamento fisico. Allenamento di abilità mentali. Controllo dell’attenzione, gestione dello stress, modulazione dello stato di attivazione, goal setting sono esempi di abilità esercitabili con l’immaginazione. Effetti motivazionali, inoltre, sono ottenuti attraverso scene di successo, nelle quali l’atleta immagina vividamente se stesso eseguire in maniera ottimale e conseguire gli obiettivi. Attraverso l’anticipazione mentale è possibile prepararsi a qualsiasi evento, anche inatteso o non familiare. Recupero degli infortuni. L’immaginazione può essere utilizzata per controllare le sensazioni dolorose causate da un infortunio, nonché per accelerare i tempi del recupero e per mantenere le abilità tecnico-motorie fino al momento in cui si riprende l’attività. Come si è visto, la pratica fisica è sicuramente più efficace rispetto alla sola pratica immaginativa, ma quest’ultima determina risultati migliori rispetto all’assenza di pratica. Quando le possibilità di allenarsi sono limitate, è dunque vantaggioso continuare a farlo almeno a livello immaginativo. CAPITOLO 9 LA GESTIONE DELLO STRESS Il termine stress è generalmente impiegato in riferimento a fattori che suscitano reazioni soggettive di ansia o tensione; stimoli stressanti (stressor) producono risposte a livello fisiologico, comportamentale e cognitivo. Non è necessariamente l’intensità dello stressor che determina la reazione, quanto piuttosto la percezione personale, ovvero l’interpretazione cognitiva degli eventi. Il modo in cui l’atleta percepisce la situazione e le proprie capacità di affrontare le richieste, accanto all’anticipazione delle conseguenze (successo o fallimento), influenzano pesantemente le risposte dell’organismo. Chi nutre fiducia in sé e ritiene di poter padroneggiare la situazione (elevata self-efficacy) non vive,in genere, uno stato eccessivo di apprensione, mentre chi pensa di non poter esercitare un adeguato controllo sugli eventi (bassa self-efficacy) sperimenta alti livelli di attivazione vissuti come ansia. Per questo ciò che è molto stressante per una persona può non esserlo per un'altra. La presenza di un elevato livello di ansia è nociva per la prestazione e crea vissuti negativi di inadeguatezza e sfiducia nelle capacità personali. La teoria della self-efficacy postula che per giudicare il proprio stato di ansia e difficoltà le persone si basino anche sul grado di attivazione fisiologica, che quando eccessivo può essere interpretato come segnale di scarsa efficacia. Una certa stabilità emotiva, con un livello relativamente basso di ansia e tensione, è una caratteristica che in generale contraddistingue gli atleti di successo. Un livello moderato di ansia può anche tradursi in un’attivazione psicofisiologica con effetti energizzanti a volte utili per la prestazione. In un programma generale di mental training, l’abilità a controllare e utilizzare in modo vantaggioso gli stimoli stressanti va sviluppata in sintonia con gli altri aspetti della preparazione,in quanto ad essi collegata. Lo stress, ad esempio, agisce in modo negativo sull’attenzione, causando restringimento del focus attentivo e passaggio ad un focus interno rivolto ai pensieri ed alle sensazioni corporee. Concetti teorici Nella psicologia dello sport, inizialmente, i termini di ansia, arousal e stress furono spesso usati come sinonimi. Negli ultimi anni, però, col progredire della ricerca si è venuta a delineare anche una maggiore chiarezza terminologica e concettuale. Una discussione sullo stress e sui concetti ad esso collegati richiede dunque una definizione dei termini principali, per consentire un’efficace comprensione del significato dei diversi fenomeni e delle loro interazioni. Il termine arousal viene utilizzato per definire l’attivazione dell’organismo senza riferimento agli stati emotivi; indica una condizione “neutrale” che riflette solo l’intensità delle risposte automatiche. Il termine ansia esprime invece il vissuto soggettivo di agitazione e di apprensione che si può accompagnare ad un grado elevato di arousal associato ad uno stato d’animo negativo. Una prima importante distinzione è quella fra ansia di stato e ansia di tratto: - l’ansia di stato è concettualizzata come una condizione dell’organismo transitoria, fluttuante nel tempo e specifica, che si riferisce ai vissuti soggettivi di inquietudine, paura e tensione, accompagnati da arousal fisiologico, in un particolare momento. - l’ansia di tratto è vissuta invece come una caratteristica relativamente stabile e duratura di personalità, una predisposizione generale a reagire a molte situazioni con un alto livello di ansia di stato.Persone con elevata ansia di stato percepiscono una grande varietà di situazioni come paurose e vi reagiscono con livelli di ansia di stato eccessivi; sono quindi più vulnerabili allo stress, e sperimentano più di frequente e con elevata intensità reazioni di ansia di stato. Nello sport l’ansia competitiva di tratto è stata definita da Martens la tendenza a percepire le situazioni agonistiche come pericolose e a rispondervi, di conseguenza, con sentimenti di tensione e apprensione. Una seconda distinzione terminologica deriva dalle manifestazioni soggettive degli stati ansiosi. Sono infatti identificate componenti cognitive e somatiche, entrambe riferibili all’ansia sia di stato che di tratto. - L’ansia cognitiva è la componente mentale, che origina da attese negative sulla prestazione, paura delle conseguenze del fallimento e scarsa fiducia nelle possibilità personali; si manifesta attraverso preoccupazioni, pensieri e immagini spiacevoli, distrazioni attentive, aspettative di insuccesso e svalutazione di se stessi, - L’ansia somatica è la componente collegata all’attivazione dell’organismo, in grado di determinare risposte fisiologiche quali incremento della frequenza cardiaca, dispnea, sudorazione, tensione muscolare; essa riflette la percezione della risposta fisiologica allo stress psichico. Lo stress è definito come il processo complessivo che conduce allo sviluppo di ansia di stato. E’ determinato dalla percezione di un sostanziale disequilibrio fra le richieste ambientali e le capacità personali di risposta, in particolare quando il soggetto ha l’impressione che il fallimento porti a conseguenze rilevanti. Incertezza del risultato e importanza del risultato sono due costrutti considerati determinanti per spiegare come situazioni competitive possano indurre ansia di stato. L’incertezza di un risultato prima di una gara è inevitabile, nonostante possibili previsioni più o meno accurate. Essa può essere fonte di timore, ma anche costituire una sfida stimolante ed avvincente:che l’incertezza sia fattore positivo di sfida piacevole, o negativo e fonte di eccessivo timore, dipende dalla percezione soggettiva della situazione specifica. IL secondo costrutto, importanza del risultato, è valutabile secondo parametri estrinseci (la vincita di una medaglia, l’approvazione dei compagni) od intrinseci (il senso di competenza personale, l’incremento dell’autostima). Lo stress è il processo associato all’emergere dell’ansia di stato e si verifica quando l’atleta percepisce che vi è un sostanziale disequilibrio fra le richieste situazionali e le sue capacità di risposta, in circostanze vissute soggettivamente come incerte ed importanti. Maggiori sono l’incertezza e l’importanza del risultato e più elevata sarà la paura che ne deriva, anche in relazione alle caratteristiche di personalità individuali (ansia di tratto) ed alle esperienze precedenti. Persone con elevati livelli di ansia competitiva di tratto tendono ad avere paura in situazioni agonistiche e a rispondere, quindi, con elevati livelli di ansia di tratto. In sintesi, l’atleta considera le situazioni oggettive come più o meno temibili in funzione di una valutazione soggettiva della situazione e del ruolo dell’ansia di tratto nelle sua personalità; atleti con elevata ansia di tratto tendono a rispondere a situazioni stressanti con alti livelli di ansia di stato. Manifestazioni dello stress Lo stress si manifesta spesso con sintomi che incidono negativamente sulla prestazione sportiva: scadimento delle abilità motorie, grado eccessivo di arousal precompetitivo, sensazioni di inadeguatezza al compito, diminuzione delle capacità di concentrazione. I sintomi dello stress si manifestano, a seconda delle circostanze e delle caratteristiche dell’individuo, su uno o più versanti fisiologico, comportamentale e cognitivo. A livello fisiologico, i segnali dello stress, e l’eccessivo aumento dell’arousal, determinano aumenti in parametri quali frequenza cardiaca, sudorazione, ritmo respiratorio, pressione del sangue, flusso di adrenalina, accanto a sintomi di disagio psicofisico come difficoltà ad addormentarsi, sonno irregolare, cefalee tensive, perdita di appetito, problemi digestivi e affaticamento. Sul piano comportamentale, nella muscolatura si manifestano tensioni, rigidità, crampi, dolori, con conseguente rischio di infortuni oltre che perdita delle coordinazioni fini e diminuzione della fluidità del movimento. A livello cognitivo si riscontrano disturbi dell’attenzione e della concentrazione (distraibilità e incapacità a sostenere un adeguato focus attentivo), e invasione di pensieri interferenti, catastrofici e di fallimento; l’atleta si dimostra eccessivamente preoccupato per gli esiti della gara o per le valutazioni negative che possono scaturire dalla sua prestazione. L’attivazione di un sistema di pensiero disfunzionale provoca una distorsione nella codifica e valutazione degli stimoli interni ed esterni. L’atleta tende a pensare al peggio, ignorare gli eventi positivi, arrivare a conclusioni in assenza dei fatti, accrescere o minimizzare il significato di un evento, generare stabili attribuzioni interne di fallimento accanto ad instabili attribuzioni esterne di successo; può trasformare situazioni momentanee (“ in questa partita non sono riuscito a picchiare”) in decisioni categoriche (“ non sono capace di tirare forte”). Questo sistema disfunzionale di pensiero conduce a risposte inadeguate sotto il profilo non solo prettamente cognitivo ( scarsa concentrazione, indecisione, basso autocontrollo), ma anche fisiologico e comportamentale. Le diverse modalità di reazione, combinate alle differenze individuali nella reattività del sistema fisiologico, rendono difficile una valutazione unidirezionale dell’ansia con sole misurazioni fisiologiche (ad esempio, per mezzo di strumentazioni per rilevare il ritmo cardiaco o la sudorazione) o cognitivo-comportamentali (check list di osservazione, questionari di indagine). Per questo motivo vengono attualmente sempre più sviluppati ed impiegati strumenti di rilevamenti multidimensionali che considerino le diverse aree di reattività individuale. Molti questionari sono stati strutturati per registrare sia le forme di stato che di tratto dell’ansia. Gestione dello stress La programmazione di un training di gestione dello stress, come del resto avviene per lo sviluppo di tutte le abilità mentali, parte da un’accurata analisi dell’atleta e della sua prestazione. Secondo Suinn, vi sono in particolare due situazioni che rendono auspicabile l’intervento: - quando la storia dell’atleta dimostra che l’ansia non è solo presente ma anche dannosa per la prestazione - quando l’ansia non è dannosa per la prestazione ma l’atleta si sente a disagio per la sua presenza e, di conseguenza, desidera esercitare un controllo maggiore sulle proprie reazioni emotive L’allenamento alla gestione dello stress è allora usato per rimuovere l’ansia che ostacola la performance, oppure per incrementare il livello di benessere indipendentemente dal risultato sportivo (non è detto che ad una diminuzione dell’ansia si accompagni automaticamente un miglioramento della prestazione). Varie procedure sono utilizzate per ridurre, od anche eliminare, gli effetti delimitanti dell’ansia e dello stress; molte sono le stesse finalizzate a modulare il livello di arousal dell’organismo. Nel corso degli anni sono state sviluppate e messe a punto numerose procedure di controllo dello stress, molte delle quali si basano ampiamente su tecniche di rilassamento. Non sempre, però, le tecniche di rilassamento sono in grado da sole di determinare effetti positivi. Le risposte alle procedure di gestione dello stress dipendono, infatti, dalle reazioni soggettive agli stimoli stressanti..Un’atleta può manifestare i segnali dello stress in prevalenza su uno dei versanti fisiologico, comportamentale o cognitivo.L’ instaurarsi di pensieri negativi tende a determinare specifiche risposte fisiologiche e comportamentali e, viceversa, le risposte somatiche si riflettono nei contenuti dei pensieri e nei comportamenti. L’identificazione delle modalità caratteristiche di risposta è importante per determinare la procedura più appropriata. Se le reazioni si manifestano prevalentemente a livello fisiologico o comportamentale saranno maggiormente indicate tecniche somatiche, mentre se la reazione si riscontra nei contenuti dei pensieri sarà più appropriato un approccio cognitivo. Il controllo dell’ansia somatica viene conseguito efficacemente attraverso tecniche quali il rilassamento progressivo e il biofeedback; il controllo dell’ansia cognitiva è invece realizzato adeguatamente per mezzo di strategie di self talk. Alcune delle più importanti metodiche di intervento impiegano rilassamento e visualizzazioni. Flooding Nel modello di estinzione, derivato dalle teorie dell’apprendimento, l’ansia è concettualizzata come una risposta emozionale condizionata. Il flooding è una procedura che fa riferimento al modello generale di estinzione. Con questa modalità si espone il soggetto agli stimoli ansiogeni in maniera diretta e, contemporaneamente, si impediscono le risposte di evitamento. L’assunto di questa procedura è che l’esposizione prolungata agli stimoli che evocano ansia in assenza di risposte di evitamento conduca all’estinzione dell’ansia per quegli stimoli specifici. Affinché la tecnica immaginativa sia efficace, ogni scena deve essere presentata nei dettagli, con immagini vivide e polisensoriali; per aumentare il coinvolgimento soggettivo è inoltre consigliabile incoraggiare le verbalizzazioni dell’atleta mentre vive l’esperienza. Attraverso il flooding sono attivate forti emozioni spiacevoli e, pertanto, molti psicologi tendono ad impiegare questo approccio quando altri si sono rilevati insoddisfacenti. Desensibilizzazione sistematica Alternativo all’estinzione è il modello di controcondizionamento. Attraverso le procedure derivanti da questo modello si ricerca il condizionamento di una risposta incompatibile con l’ansia o con gli stimoli che la provocano. L’obiettivo del condizionamento è rimpiazzare l’eccitazione derivante dal sistema nervoso simpatico con l’azione antagonista del sistema parasimpatico. Una procedura molto conosciuta, basata su questi principi, è la desensibilizzazione sistematica. Questa tecnica prevede il graduale controcondizionamento dell’ansia, e delle relative risposte di tensione, impiegando il rilassamento muscolare profondo e consapevole. Il soggetto viene allenato al rilassamento muscolare profondo attraverso la procedura classica di Jacobson richiedendo la tensione volontaria e il rilassamento dei maggiori gruppi muscolari. Contemporaneamente viene stabilita, in base alle indicazioni del soggetto, una gerarchia di stimoli che consiste in 10/15 scene ordinate in modo gradualmente crescente per intensità di ansia che elicitano. In stato di rilassamento profondo viene poi richiesto di immaginare per qualche istante, in maniera più vivida possibile, la scena meno ansiogena della gerarchia. Se l’esperienza suscita tensione il soggetto lo segnala (ad esempio sollevando l’indice della mano); la visualizzazione viene immediatamente sospesa e reinstaurato il rilassamento. Se la gerarchia è ben strutturata, il rilassamento dovrebbe contrastare l’ansia. Ogni scena è rappresentata per un intervallo di tempo progressivamente più lungo ( da 3 a , 10, 15 sec.) Si ottiene così un decondizionamento, che va esteso gradualmente contrapponendo sempre alle immagini ansiogene il rilassamento. In questo modo si procede verso l’alto della scala per arrivare a controllare anche le situazioni più tensive. Un fattore importante che determina l’efficacia della procedura è la costruzione di una appropriata gerarchia di stimoli. La desensibilizzazione è utile per aiutare gli atleti a superare efficacemente paure specifiche e circoscritte. Ristrutturazione cognitiva Quando l’ansia si manifesta prevalentemente sul versante mentale, attraverso pensieri irrazionali e negativi, allora è importante modificare le cognizioni che spesso suscitano, mantengono e rinforzano le emozioni disturbanti. Ciò può essere conseguito attraverso la ristrutturazione cognitiva dei pensieri. Gli interventi individualizzati, diretti alla modifica degli aspetti che suscitano emozioni negative, coinvolgono quattro stadi: - far comprendere al soggetto come le cognizioni medino l’attivazione emozionale. Le cognizioni sono tipicamente automatizzate, modi abituali dl pensiero appresi che tendono a manifestarsi al di fuori della consapevolezza; - identificare i flussi del pensiero irrazionali e limitanti; - attaccare direttamente le idee irrazionali e rimpiazzarle con altre che prevengano o riducano l’ansia; - ripetere e stabilizzare il nuovo modo di pensare applicandolo nelle circostanze importanti.La modifica delle convinzioni irrazionali e delle affermazioni valorizzanti dovrebbe generalizzarsi alle diverse situazioni che evocano l’ansia. Mentre nelle procedure di estinzione o controcondizionamento il soggetto ha un ruolo relativamente passivo, con lo psicologo che propone le esperienze, nell’approccio di ristrutturazione cognitiva l’atleta gioca un ruolo molto più attivo e assume maggiore responsabilità nello sviluppo e nell’applicazione dei nuovi modelli di pensiero. Stress Inoculation Training (SIT) di Meichenbaum. Una partecipazione più diretta del soggetto è ricercata anche attraverso tecniche che richiedono l’acquisizione di molteplici abilità per affrontare lo stress. Una di queste è lo Stress Inoculation Training. E’ un programma di apprendimento di abilità cognitive e di controllo fisiologico per affrontare lo stress. La procedura globale comprende tre fasi: - fase istrutiva o di concettualizzazione. Sono fornite informazioni per la formazione della natura delle risposte soggettive agli eventi stressanti e dei presupposti del trattamento. L’atleta impara a riconoscere ed esprimere le sensazioni, le paure e gli effetti che lo stress produce nella prestazione sportiva e nella vita quotidiana; - fase di acquisizione di abilità di coping. Vengono insegnate una serie di tecniche specifiche per affrontare gli eventi stressanti (strategie cognitive, problem-solving, rilassamento, affermazioni positive). Situazioni stressanti sono presentate attraverso immaginazione, filmati, role playning, modeling, esposizione graduale in vivo; - fase di applicazione. L’atletica applica le abilità acquisite affrontando nella realtà eventi stressanti. Il soggetto è esposto a livelli graduali di stress che possano essere affrontati con successo, spesso utilizzando gerarchie di stimoli simili a quelle impiegate nella desensibilizzazione sistematica; man mano che l’atleta impara ad affrontare le situazioni, sono considerati eventi via via più ansiogeni. La gradualità degli stimoli stressanti è paragonabile alla somministrazione, in ambito medico, di piccole dosi di vaccino, con il sistema immunitario del paziente che ha poi il compito di sviluppare le difese (gli anticorpi) per combattere la malattia. Stress Management Training (SMT) di Smith. Anche lo Stress Management Training sviluppato da Smith, è un programma multimodale che comprende acquisizione e applicazione di abilità cognitive e di rilassamento. A differenza del SIT, però, l’applicazione delle abilità acquisite alle situazioni reali non avviene in maniera graduale; le emozioni, infatti, sono sperimentate in tutta la loro portata e talvolta anche esasperate in intensità. Il rilassamento è ricercato attraverso il metodo di Jacobson o con una procedura cognitiva. Le abilità cognitive sono sviluppate abbinando la ristrutturazione delle idee irrazionali con l’allenamento alle istruzioni positive (autoaffermazioni). Inizialmente rilassamento e autoaffermazioni sono appresi separatamente, per poi essere combinati in una risposta integrale da collegare al ciclo respiratorio: durante l’inspirazione si ripetono mentalmente frasi affermative di riduzione dello stress, mentre nell’espirazione lenta ci si concentra sul rilassamento somatico. Una volta acquisite le abilità per affrontare le situazioni stressanti si ricerca un’attivazione emozionale elevata (a differenza del SIT in cui si procede da un livello di ansia basso a livelli gradualmente crescenti); in uno stato di alta attivazione si richiede al soggetto di mantenere la concentrazione sulla situazione ansiogena immaginata e sulle sensazioni che ne derivano. Sono inoltre fornite suggestioni per identificare le emozioni, accompagnate da rinforzi verbali all’aumentare dell’attivazione emozionale. Raggiunto un alto grado di arousal, anche molto più intenso di quello normalmente incontrato, è richiesto l’utilizzo delle abilità di gestione dello stress precedentemente acquisite (immagini, affermazioni, rilassamento). L’intensità emozionale evocata con l’ SMT è simile a quella suscitata dal flooding, mentre nel SIT i livelli di ansia sono più vicini a quelli osservati nella desensibilizzazione sistematica. Un’assunzione fondamentale dell’ SMT è che l’apprendimento a gestire alti livelli emozionali assicura il controllo ad intensità più moderate, mentre non è detto che avvenga l’inverso. Le strategie di gestione dello stress offrono, secondo Smith, due potenziali vantaggi rispetto all’approccio di estinzione e di controcondizionamento. Il primo è costituito dall’assunzione di una maggiore responsabilità da parte dell’atleta, con la conseguente attribuzione dei progressi agli sforzi personali piuttosto che a fattori esterni. Il secondo vantaggio è collegato allo sviluppo delle abilità generali e versatili per affrontare lo stress applicabili ad una varietà di situazioni. La generalizzazione delle strategie apprese non si verifica con il flooding o la desensibilizzazione sistematica. Allenamento multimediale alla gestione dello stress di Burton Una procedura multimediale di gestione dello stress derivante da un modello psicofisiologico è stata elaborata da Burton, con quattro tipi di approccio a seconda delle relazioni fra ansia cognitiva e somatica e delle differenze funzionali degli emisferi cerebrali. Per la maggior parte dei soggetti destrimani l’emisfero sinistro è specializzato in elaborazioni analitiche e sequenziali guidate principalmente da pensieri specifici e verbalizzazioni interiori. Una predominanza emisferica sinistra si ha, nello sport, quando l’atleta utilizza abilità cognitive logiche e di risoluzione di problemi (apprendimento di nuove abilità, modifica di abilità preesistenti, sviluppo di strategie competitive). L’emisfero destro, invece, è specializzato in elaborazioni in parallelo guidate da processi visuospaziali che integrano simultaneamente diversi tipi di input (attività intuitive, creative e di orientamento spazio-temporale, emozioni, esecuzione di abilità automatizzate). Nell’acquisizione di una abilità l’emisfero sinistro, con la mediazione di operazioni verbali, controlla la costruzione mentale di una copia dell’azione da svolgere (quali muscoli contrarre, in quale ordine, con quale velocità) ; l’esercitazione rende poi possibile il consolidarsi degli apprendimenti e la correzione degli errori, con la creazione di un riferimento mentale sempre più raffinato. Quando l’atleta ha imparato ad eseguire un’abilità correttamente, il controllo per un’esecuzione automatica può passare all’emisfero destro, che integra in un’immagine complessa le informazioni analitiche del sinistro. L’emisfero destro, dunque, dirige l’esecuzione di abilità automatizzate. L’ansia somatica quando si manifesta in relazione all’emisfero sinistro, ad esempio con tensioni muscolari locali prima della gara, è controllabile attraverso tecniche di rilassamento corporeo, biofeedback elettromiografico, ipnosi (nelle sue componenti di rilassamento), esercizio fisico e stretching; quando in relazione all’emisfero destro, con attivazione generale dell’organismo, può invece essere gestita attraverso training autogeno, biofeedbak (temperatura e conduttanza della pelle), respirazione Yoga, tecniche di meditazione ed esercitazioni motorie intense. L’ansia cognitiva collegata all’emisfero sinistro, determinata da pensieri negativi e sovranalisi del comportamento, viene ridotta attraverso un corretto goal setting e tecniche di gestione dello stress quali la meditazione trascendentale, il controllo dei pensieri, l’impiego di parole o frasi stimolo ed affermazioni positive, la ristrutturazione cognitiva, l’ipnosi (nelle sue componenti suggestive); quella collegata all’emisfero destro, che si manifesta ad esempio attraverso immagini disastrose, realistiche e vivide, relative alla propria prestazione, va gestita con tecniche di ristrutturazione cognitiva finalizzate al cambiamento dell’immagine di sé, e con ipnosi nelle sue componenti immaginative. In situazioni pratiche, comunque, i quattro tipi di ansia sono difficilmente separabili e distinguibili, in quanto medesimi stimoli situazionali sono in grado di determinare più tipi di risposte. Ad esempio, reazioni somatiche condizionate a stimoli specifici, quali la presenza del pubblico e la visione degli avversari, potranno suscitare nell’atleta preoccupazione per i sintomi; viceversa, immagini e pensieri negativi sono in grado di provocare risposte somatiche (tensione muscolare, orinazione frequente, problemi gastrointestinali). Se quindi la riduzione dell’ansia cognitiva incide positivamente su aspettative di successo, controllo dei pensieri negativi e distraenti, prevenzione dell’analisi e della valutazione eccessiva della prestazione, è parimenti necessario diminuire l’ansia somatica vissuta e valutata negativamente. Inoltre, è difficile ridurre l’ansia cognitiva fintanto che l’ansia somatica non sia stata attenuata al punto da permettere l’utilizzo di tecniche cognitive di gestione dello stress. In un’ottica di intervento multimediale, l’ansia è quindi considerata nei suoi risvolti cognitivi e somatici, ed affrontata nelle sue molteplici espressioni soggettive. Gli atleti vanno aiutati a sviluppare un programma personalizzato di gestione dello stress; va loro insegnato come modificare in modo rapido ed efficace tensione muscolare, livello di arousal, dialogo interno, immagini competitive ed obiettivi, in accordo con le richieste della situazione. Le procedure disattivanti suggerite da Burton comprendono rilassamento somatico combinato a tecniche respiratorie yoga. Ottenuto il rilassamento l’atleta associa ad ogni espirazione una parola stimolo (ad esempio “calma”) concentrandosi sulle sensazioni di distensione che si sviluppano a livello corporeo. Procedure energizzanti prevedono invece respirazioni frequenti e immagini adeguate; allo stato di attivazione è poi associata una parola stimolo ( ad esempio “potenza”, “forza”) ogni tre respirazioni. Le procedure di disattivazione vanno praticate la sera prima di addormentarsi, mentre quelle di attivazione al risveglio. Dopo alcune settimane di pratica costante, le parole stimolo diventeranno capaci di suscitare le risposte psiofisiologiche corrispondenti nell’arco di pochi istanti. Biofeedback Il biofeedback è stato spesso impiegato per il conseguimento degli obiettivi del mental training, fra i quali, appunto, il controllo dello stress. E’ un monitoraggio delle funzioni biologiche mediante strumentazioni che avvertono immediatamente il soggetto, attraverso segnali uditivi o visivi, dei cambiamenti in atto in parametri fisiologici quali ritmo cardiaco, tensione muscolare, temperatura e conduttanza cutanea. L’atleta interagisce direttamente con un dispositivo sensibile che lo informa in tempi virtualmente reali dei suoi cambiamenti nelle funzioni biologiche, anche quelle regolate dal sistema nervoso autonomo. Con tentativi successivi, sostenuti dal rinforzo strumentale, l’atleta apprende a controllare i suoi parametri fisiologici, normalmente inconsapevoli, e a modificarli. Attraverso il biofeedback è emerso chiaramente che processi organici ritenuti in passato al di fuori della regolazione volontaria sono invece, entro certi limiti, modulabili coscientemente. Ad esempio l’atleta rilevando il proprio battito cardiaco può imparare a diminuire la frequenza attraverso strategie cognitive; quando le sensazioni associate al controllo cardiaco sono ben riconosciute e padroneggiate, la strumentazione viene rimossa e il soggetto si esercita a regolare il ritmo cardiaco autonomamente. Altre modalità di intervento Nella gestione dello stress, alcune ulteriori modalità prevedono la simulazione di situazioni competitive che replichino le condizioni tecniche, tattiche psicologiche, sociali e situazionali della gara. Gli effetti dello stress sono specifici alla situazione; ne deriva che gli atleti dovrebbero sperimentare frequentemente in allenamento le situazione di stress, che più li mettono in difficoltà, simili a quelle che poi saranno poi vissute in gara. Il modeling covert è un’altra procedura che, nella sua forma essenziale, prevede l’apprendimento di nuovi comportamenti, o la modifica di quelli esistenti, visualizzando scene in cui altre persone (modelli) agisco in modo efficace. Gradualmente le scene sono modificate e l’atleta immagina se stesso nella situazione difficoltosa o temuta. Nella fase finale i comportamenti desiderati sono messi in atto in situazioni reali. Tecniche di controllo dello stress possono essere attivate anche durante la gara quando i sintomi della fatica o una sequenza di errori scatenano facilmente reazioni stressanti. Un’ulteriore modalità proficuamente impiegata per la gestione dello stress è l’ipnosi. CAPITOLO 10 IL GOAL SETTING La formulazione di obiettivi, o goal setting, rappresenta un momento fondamentale di ogni programmazione. Il goal setting è uno strumento efficace per l’incremento della prestazione. Gli effetti positivi derivanti dal goal setting vengono attribuiti a diversi fattori. Gli obiettivi influenzano la prestazione: - dirigendo l’attenzione e l’azione su aspetti importanti del compito; - aiutando ad attivare e modulare un impegno adeguato; - agendo non solo sullo sforzo immediato, ma anche sulla persistenza; - sollecitando spesso lo sviluppo e l’impiego di nuove strategie di apprendimento e/o di risoluzioni del compito. Il fatto che obiettivi specifici e ragionevolmente difficili, vissuti come una sfida stimolante, siano in grado di determinare una prestazione più elevata rispetto alla mancanza di obiettivi o a una loro formulazione generica trova una spiegazione anche in termini motivazionali: obiettivi difficili inducono maggiori sforzi, e la loro specificità assicura che lo sforzo sia indirizzato appropriatamente. Viene così attivata una relazione ciclica fra processi cognitivi e motivazionali: gli obiettivi, dirigendo l’attenzione su un compito preciso, tendono ad aumentare la motivazione, che stimola lo sviluppo di strategie cognitive per la ricerca di soluzioni, le quali a loro volta sostengono l’impegno e la persistenza nello sforzo. Un modello di strategia specifica considera il rapporto fra processi cognitivi e sforzo mentale nella soluzione di un compito gradualmente più difficile: al livello più basso, a strategie immediatamente identificabili e disponibili corrispondono livelli limitati di sforzo e i processi cognitivi operano in maniera automatica; all’aumentare della difficoltà del compito, le strategie possono essere identificate dopo riflessione, attivando il pensiero creativo e la ricerca di informazioni esterne, mentre i processi cognitivi diventano meno automatici e più deliberativi, con un costo mentale più elevato.Il goal setting, pertanto, può stimolare un incremento nello sforzo cognitivo ed espandere i processi di ricerca di strategie efficaci e specifiche. Anche la percezione di efficacia personale rappresenta un aspetto importante del goal setting: le persone che nutrono fiducia nelle proprie capacità tendono a perseguire con maggiore tenacia i propri obiettivi, anche di fronte ad ostacoli, inconvenienti e delusioni. La self-efficacy, assieme alle capacità personali e all’esperienza, rappresentano uno dei fattori determinanti per la scelta degli obiettivi. Il sentirsi in grado di realizzare un certo compito stimola il soggetto a porsi traguardi più elevati e rafforza l’impegno per il loro conseguimento; nello stesso tempo, il fatto di stabilire obiettivi adeguati influenza direttamente la fiducia nelle capacità personali, poiché si fonda su aspettative realistiche di successo. Nel goal setting sono individuati quattro aspetti che influenzano positivamente la prestazione: 1) obiettivi difficili si dimostrano più efficaci rispetto ad obiettivi facili. Il grado di difficoltà deve essere mantenuto entro limiti ragionevoli e realistici. Gli obiettivi e le attività proposte devono essere strettamente individualizzati; 2) obiettivi specificati dettagliatamente e formulati in maniera chiara e comprensibile determinano una migliore prestazione rispetto alla mancanza di obiettivi o ad una loro vaga formulazione; 3) gli effetti positivi del goal setting vengono potenziati fornendo al soggetto feedback sul risultato conseguito. Anche il coinvolgimento dei soggetti nel riconoscimento, nella valutazione e nella correzione dell’errore è un espediente efficace per l’incremento della prestazione; 4) la partecipazione attiva del soggetto alla scelta degli obiettivi conduce a risultati migliori. Quando un persona viene coinvolta nella scelta dei propri obiettivi, tende tipicamente a sceglierli più ambiziosi rispetto a quando essi sono assegnati da qualcun altro. L’efficacia del goal setting è in stretta relazione con l’accettazione degli obiettivi da parte di chi deve conseguirli: se questi sono imposti dall’esterno e non realmente accettati dal soggetto non potranno, mancando l’interesse, agire efficacemente nei loro effetti motivazionali. Indicazioni metodologiche Individualizzare gli obiettivi. Gli obiettivi vanno innanzi tutto formulati in accordo con le caratteristiche soggettive. Esperienze passate, personalità, capacità individuali, ritmi di acquisizione ed incrementi della prestazione sono strettamente collegati fra loro, rendendo ogni persona diversa dalle altre. Identificare obiettivi significativi per il soggetto. Gli obiettivi devono essere accettati dall’atleta e ciò è facilitato coinvolgendo quest’ultimo nella procedura di goal setting. Dal punto di vista cognitivo, gli atleti acquisiscono una comprensione più chiara e dettagliata del compito e di quanto debbono conseguire; dal punto di vista motivazionale,gli obiettivi stabiliti con il coinvolgimento personale sono in genere più facilmente accettati e più stimolanti rispetto a quelli imposti dall’esterno. Partecipare alla scelta dei propri traguardi evita alle persone con bassa autostima di vivere un senso di frustrazione di fronte all’eventuale fallimento in compiti difficili stabiliti da qualcun altro. E’ importante programmare con una certa flessibilità, ricercando obiettivi più o meno impegnativi e stimolanti, non solo per rendere più rapidi i progressi, ma anche per far fronte e superare eventuali momenti di stasi o regressi temporanei. Stabilire obiettivi specifici e misurabili. Obiettivi specifici, espliciti e numerici sono più efficaci nello stimolare cambiamenti e nel dirigere il comportamento in modo preciso rispetto alla mancanza di obiettivi o ad esortazioni generiche a fare del proprio meglio. La conoscenza del fine agisce come elemento motivante. Individuare obiettivi difficili ma realistici. Più elevato è l’obiettivo e più il soggetto potrà essere stimolato a raggiungerlo. Stabilire obiettivi difficili incrementa la motivazione intrinseca e migliora la prestazione. Obiettivi facili, al contrario, determinano decrementi nella prestazione. In genere si ritiene che le difficoltà dell’obiettivo debbano essere mantenute entro limiti realistici, che non superino cioè le effettive capacità individuali, poiché mete irrealistiche producono fallimento e frustrazione e l’abbandono degli sforzi per il loro conseguimento. Vanno però tenute in considerazione le caratteristiche e le modalità individuali di reagire di fronte alle difficoltà e all’insuccesso: in tali situazioni, infatti, alcune persone continuano a credere nelle proprie capacità e a perseverare nel compito, mentre altre perdono fiducia e diventano meno sicure di se stesse. Per alcuni, obiettivi molto difficili risultano estremamente motivanti. Anche il fatto di scegliere obiettivi più o meno difficili è in funzione di caratteristiche individuali: soggetti dotate di buone capacità e motivati al successo, con alta self-efficacy, tendono a scegliere obiettivi elevati e stimolanti, mentre soggetti meno capaci o poco fiduciosi nelle proprie capacità selezionano obiettivi più limitati, che garantiscono maggiore probabilità di evitare il fallimento. Inoltre chi ha esperienze passate di successo tende a perseguire obiettivi difficili, al contrario di chi ha sperimentato frequenti situazioni di insuccesso. Va comunque tenuto presente che al progredire degli apprendimenti, e più in generale del livello di prestazione, per ottenere anche piccoli miglioramenti sono necessari sforzi ed impegno molto maggiori di quelli richiesti nelle fasi iniziali. Gli obiettivi dovrebbero essere sì sufficientemente difficili da costruire una sfida, ma, quando necessario, dovrebbero venire ridimensionati ed adattati costantemente alle capacità ed ai progressi reali. Con atleti orientati al fallimento può invece risultare opportuno stabilire obiettivi abbastanza facili o molto difficili. Con compiti facili viene fornita la possibilità di sperimentare situazioni di successo o di incrementare il senso di competenza personale; con compiti difficili viene invece dato il pretesto per giustificare il fallimento, ma nello stesso tempo, l’impegno profuso contribuisce ad elevare il livello di abilità. Identificare obiettivi a breve, a medio e a lungo termine. E’ importante delineare dei termini temporali per consentire gli obiettivi e stabilire un loro ordine sequenziale. Traguardi a breve e a media scadenza sono importanti perché consentono incrementi ragionevolmente rapidi nella prestazione, aumentando di conseguenza self-efficacy e motivazione individuale a persistere nel compito e migliorare. In assenza di obiettivi a breve scadenza gli atleti spesso perdono di vista gli obiettivi a lungo termine. Privilegiare obiettivi di prestazione. Stabilire obiettivi di risultato, come “vincere una gara”, non rappresenta una modalità adeguata di goal setting. Gli atleti, infatti, hanno solo un controllo parziale sul risultato finale di una competizione, poiché entrano in gioco anche numerosi elementi esterni (abilità degli avversari, fattori ambientali). Formulare gli obiettivi in termini positivi. Quando possibile vanno identificati comportamenti da acquisire piuttosto che comportamenti da estinguere. La formulazione positiva aiuta gli atleti a pensare in termini di successo invece che di fallimento e crea corrette aspettative. Progettare strategie di raggiungimento degli obiettivi. In presenza di molteplici obiettivi, questi vanno gerarchizzati in ordine di importanza e conseguiti gradualmente a partire da quelli più importanti. Fornire una valutazione degli obiettivi. Un goal setting efficace deve essere accompagnato da costanti e precise informazioni sulla prestazione. Attraverso statistiche, percentuali, punteggi sono fornite informazioni oggettive sulla prestazione. Martens consiglia di utilizzare grafici che contengano tre tipi di informazioni: - il livello iniziale - i progressi rispetto al punto di partenza - gli obiettivi da raggiungere. Le migliori prestazioni sono conseguite quando goal setting e feedback sono abbinati. Risulta particolarmente utile la registrazione in forma scritta degli obiettivi fissati e conseguiti, che aiuta a ricordare quanto stabilito e a rinnovare l’impegno. Sostenere l’atleta nel conseguimento degli obiettivi. L’atleta deve essere coinvolto attivamente nella procedura di goal setting, poiché questo incide positivamente sull’impegno e sul senso di responsabilità personali, e dà la sensazione di poter controllare direttamente le proprie azioni. Le interazioni che il tecnico stabilisce e l’attenzione per l’atleta come individuo costituiscono un potente stimolo all’impegno, anche di fronte alla fatica e alle difficoltà. Va però messo in evidenza come non tutti gli atleti dimostrino interesse per il goal setting e qualcuno possa anche avere atteggiamenti negativi. Queste considerazioni, comunque, sono valide in riferimento a tutte le procedure di allenamento mentale che, per essere veramente efficaci, richiedono come prerequisito indispensabile la partecipazione attiva e il coinvolgimento dell’atleta. BIBLIOGRAFIA Richard J. Butler. Psicologia e attività Sportiva. Guida pratica per migliorare la prestazione. Daniel Goleman. Intelligenza emotiva. Che cos’è. Perché può renderci felici. Claudio Robazza-Laura Bortoli-Gianfranco Gramaccioni. La preparazione mentale nello sport. SDS Scuola dello sport. Rivista di cultura sportiva. - Castello, U.-Umiltà, C. Attenzione e sport 1986 - Castello, U.-Umiltà,C. Attenzione e tennis 1988 - Cei, A. L’allenamento psicologico 1987 - Cei, A.-Bergerone, C.-Ruggieri, V. Anticipazione e stile attentivo 1986 - Cei, A.-Manili, U.-Taddei, F.-Buonamano, R. Valutazione degli stati dell’umore negli atleti italiani di alto livello 1994 - Delfini, P. La determinazione: aspetti cognitivi 1991 - Frester, R. L’allenamento ideomotorio 1985 - Kratzer, H. Psicologia pratica per lo sport: indicazioni e consigli per una efficace impostazione dell’allenamento e delle gare 1998 - Marciano, G. Movimento ed emozioni 1989