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Botanica fantastica
Botanica fantastica Gli alberi e le essenze che la maggior parte degli uomini si ostina a definire favolosi o fantastici non appartengono ad una specie fissa e per questo non trovano posto nei tradizionali manuali di botanica. Essi sono mutevoli come i pensieri, incostanti come gli elementi che li compongono, indecifrabili come i sogni, perché la loro logica non è di questo mondo. Essi possono essere cesellati sulla spada di un guerriero celta nel periodo di La Téne, miniati a ornare i capilettera o i margini di un codice medievale, dipinti su un erbario rinascimentale o su un misterioso testo scritto in lingua sconosciuta, possono infine essere il frutto del talento umoristico o surreale di qualche artista contemporaneo. In ogni caso, per trovarli, classificarli, disegnarli occorre saper cogliere l’attimo in cui si presentano, occasione che non a tutti è data. L’Erbario alchemico Un esempio significativo di questa botanica fantastica è fornito dal naturalista bolognese Ulisse Aldrovandi (1522–1605). Tipico scienziato del ‘500, un’epoca piena di contraddizioni in cui la mentalità scientifica incominciava a farsi largo in un mondo ancora pieno di magia, l’Aldrovandi fondò l’Orto Botanico di Bologna e raccolse più di cinquemila campioni in un Erbario composto da diverse centinaia di fogli, sui quali sono incollate le piante (purtroppo senza alcun criterio classificatorio), uno dei più antichi giunti fino ai nostri giorni e uno dei più ampi di quel periodo. Egli commissionò anche ad artisti come Jacopo Ligozzi, Giovanni Neri e Cornelio Schwindt i 18 volumi di tavole di piante, fiori, frutta, animali, che costituiscono forse la più ricca pinacoteca tardo rinascimentale del mondo naturale mai realizzata. Composta da oltre 2900 dipinti, questa collezione doveva fornire un'accurata visualizzazione di quel teatro della natura che il naturalista bolognese aveva attentamente osservato per oltre cinque decenni. Accanto a questi sforzi di indagare il “grande libro della natura” egli fu anche l’artefice di un Erbario alchemico, che ad onta del nome, ha assai poco a che vedere con l’alchimia, ma piuttosto era destinato a illustrare e descrivere le piante maggiormente utilizzate nelle pratiche della medicina popolare. L’Erbario alchemico dell’Aldrovandi è un manoscritto composto da 26 fogli, in cui le essenze sono rappresentate in disegni a colori dall’aspetto decisamente surreale, forse per illustrarne meglio le supposte proprietà. Così le radici o le foglie delle piante officinali si popolano di figure antropomorfe o zoomorfe, in una commistione inquietante e suggestiva. Il manoscritto Voynich Nel 1912 il commerciante di libri antichi Wilfrid M. Voynich acquistò un certo numero di manoscritti medievali provenienti da una sconosciuta località europea. Tra questi c’era un codice su pergamena di 234 pagine, scritto in una lingua sconosciuta. Il manoscritto, riccamente illustrato con immagini di piante e altri soggetti, sembrava essere un’opera scientifica medievale, ma la lingua oscura del testo ne faceva un vero e proprio mistero. Voynich portò il manoscritto in America con l’obiettivo di farlo decifrare, ma, a cent’anni di distanza, esso rimane uno degli enigmi più elusivi del mondo della crittografia. Allegata al manoscritto era una lettera datata 1666 scritta in latino da Johannes Marcus Marci di Kronland, che era stato rettore dell’università di Praga, indirizzata all’erudito gesuita Athanasius Kircher a Roma, in cui gli chiedeva di provare a tradurre l’opera e lo informava che esso era stato comprato dall’imperatore Rodolfo II (1552–1612) per seicento ducati d’oro. Più oltre Johannes Marcus Marci segnalava che si riteneva che l’autore fosse il francescano inglese Ruggero Bacone (1214–1294). Le successive ricerche consentirono di ricostruire l’intera serie dei proprietari, dalla corte imperiale praghese fino alla Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University dove si trova tuttora registrato come MS 408, ma non la sua origine. I vari tentativi effettuati nel corso degli anni di decifrare il testo non hanno portato a risultati: si ignora se esso abbia una relazione con le immagini e c’è persino chi dubita che abbia un senso. D’altra parte gli esami effettuati sulla pergamena con il metodo del carbonio-14, che datano il supporto alla prima metà del XV secolo, tendono a escludere una burla attuata in tempi moderni. Anche l’ipotesi di un falso perpetrato ai tempi e ai danni dell’imperatore Rodolfo II è stata esclusa sulla base degli studi delle ricorrenze delle “parole” del manoscritto, che sembrano rispettare le frequenze dei linguaggi naturali e non potrebbero essere state determinate dal caso. Coloro che si sono occupati del manoscritto più recentemente tendono a datarlo tra il 1450 e i primi decenni del ‘500, indicando il suo luogo d’origine l’Italia o l’Europa centrale. Le immagini del manoscritto Voynich sono assai singolari e costituiscono l’unica chiave per investigare sulla natura del volume, che su queste basi sembra essere un testo scientifico, in gran parte un erbario con sezioni minori dedicate all’astronomia e all’astrologia, alla biologia e, probabilmente, alla descrizione di ricette farmaceutiche. La parte dedicata alla botanica occupa circa la metà dell’opera e consiste di disegni di piante a tutta pagina con piccoli paragrafi di testo scritti negli spazi vuoti. In qualche caso sulla stessa pagina compaiono due immagini. Questa disposizione è simile a quella degli erbari medievali conosciuti. La maggior parte delle piante sembra non corrispondere ad alcuna specie reale. Nel 1944 il botanico americano Hugh O’Neill identificò diverse piante rappresentate nel manoscritto come specie originarie del Nuovo Mondo, in particolare un girasole americano e un peperoncino. Ciò avrebbe indicato nel 1492, data del primo viaggio di Cristoforo Colombo, un termine post-quem. Oggi tuttavia l’identificazione di O’Neill non sembra godere di grande consenso. La Nonsense Botany Di Edward Lear (1812–1888) ho parlato più volte in questo blog, perché è colui che ha in qualche modo codificato e diffuso il limerick come forma standard di poesia umoristica inglese e perché è, al pari di Lewis Carroll, un maestro del nonsense, termine da lui stesso inventato. Lear si guadagnava da vivere grazie al suo talento artistico, soprattutto come disegnatore naturalistico e reporter grafico dei suoi numerosi viaggi. Dopo il successo dei suoi libri di limerick, illustrati con uno stile inconfondibile, Lear pubblicò anche diversi libri disegnati di vario argomento, sempre contraddistinti dal suo ingegno brillante, tra i quali varie Nonsense Botany (1871–1877), con l’illustrazione di una botanica immaginaria, in cui l’elemento vegetale si mescola con oggetti quotidiani, animali o personaggi con un effetto comico esilarante, sottolineato dalla presa in giro della nomenclatura linneana, con nomi specifici quali Manypeeplia Upsidownia, Piggiwiggia Pyramidalis e Pollybirdia Singularis. Alcune delle sue invenzioni surreali avrebbero poi fatto scuola. La Botanica parallela. Leo Lionni (1910-1999) fu un artista poliedrico: pittore, grafico, scrittore e illustratore di libri per ragazzi. Nato a Amsterdam, dove suo padre faceva il tagliatore di diamanti, giunse in Italia nel 1929 per frequentare l’università, iniziando la carriera di pittore. Nel 1935 si laureò in economia a Genova e cominciò ad interessarsi al design, ma nel 1939 fu costretto a emigrare negli Stati Uniti a causa delle leggi razziali. Oltreoceano scelse di dedicarsi all'attività grafica e divenne art director per alcune campagne pubblicitarie e, in seguito, per l'importante rivista Fortune, collaborando con alcuni tra gli artisti americani più importanti. Nel 1962 tornò in Italia, dedicandosi alla scrittura e illustrazione di libri per bambini. Nel 1976 pubblicò per Adelphi La botanica parallela, trattato serioso e surreale sulle specie vegetali sconosciute agli stessi naturalisti. Le piante parallele si differenziano da quelle comuni per la loro “amatericità”, l’apparente assenza di strutture osservabili a livello molecolare e cellulare, alla quale ogni specie o varietà aggiunge altre proprietà più difficilmente definibili e spesso assai sconcertanti. L’amatericità è la conseguenza di un improvviso arresto del tempo, se non di un’anomalia dello spazio–tempo. Così ci sono piante fotografabili, ma invisibili all’occhio umano, mentre altre, come l’Anaclea taludensis, non sono sottoposte alle leggi della prospettiva, apparendo di grandezza inalterata a qualsiasi distanza le si osservi. Così Lionni descrive le Artisie: Le piante parallele che hanno sollevato più perplessità tra coloro che hanno seguito gli sviluppi della "botanica parallela" sono senza dubbio le Artisie. E ciò è comprensibile quando si pensi che delle due flore, quella comune e quella parallela, le artisie occupano un posto del tutto speciale, quanto mai ambiguo per l’aspetto abotanico, qualche volta addirittura anorganico, di probabile origine umana, che è il loro carattere dominante. Quando Chambanceau vide per la prima volta una artisia, esclamò estasiato: "Oh, enfin une fleur humaine!". Il noto botanico dilettante Theo van Schamen osservò: "Non è ancora chiaro se la pianta nella sua dicotomia artificio/natura, esprima l’influenza della natura sull’arte oppure quella dell’arte sulla natura". Sappiamo, beninteso, che la verità non è né l’una né l’altra e che, a parte il suo parallelismo, l’artisia è tutta natura. Ma come spiegare il mistero delle sue forme, così ovviamente "artistiche" che in alcuni esemplari sembrano addirittura artefatte, copiate dai ghirigori decorativi del 700? Vi è chi ha descritto il fenomeno come "la natura imita l’arte". A dire il vero le artisie da noi osservate se non fosse stato per le radici ben visibili, non ci sarebbero sembrate piante ma piuttosto frammenti logori di candelabri o di cornici settecentesche, racimolati, forse, al marchè aux puces. Esse rappresentano senza dubbio un fenomeno sconcertante che, nella nostra ignoranza, abbiamo attribuito ad un "folle impulso della natura ad imitare l’arte". (…) La botanica parallela divide le specie in due gruppi. Quelle del primo gruppo (gruppo Alpha o Parealòdoni) sono percepibili dai nostri sensi e dagli strumenti di osservazione e misura, anche se sono “ferme nel tempo”, mentre quelle del secondo gruppo (gruppo Beta o Irrealòdoni) giungono alla nostra conoscenza solo indirettamente, attraverso segni verbali o iconografici o altre tracce che possono indicarne la presenza. Nelle sue 32 tavole in bianco e nero, Lionni si occupa di 12 specie di piante parallele, delle quali fornisce un’ampia descrizione, accompagnata da uno o più disegni. Il trattato dell’artista fornisce anche le biografie particolareggiate degli scienziati che le hanno studiate, cita testi scientifici praticamente sconosciuti, relazionando persino sui lavori del primo Congresso di botanica parallela tenutosi ad Anversa nel 1968. Il Codex Seraphinianus Sicuramente ispirato dal manoscritto di Voynich è il Codex Seraphinianus scritto e illustrato in trenta mesi tra il 1976 e il 1978 da Luigi Serafini (1949), artista, architetto e designer industriale. Il libro, di circa 360 pagine a seconda dell’edizione, è concepito come un’enciclopedia di un mondo sconosciuto (come non ricordare il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius di Borges?), scritta in una delle sue lingue con una scrittura alfabetica tuttora indecifrata, e corredata da un migliaio di illustrazioni surreali. La scrittura utilizzata, molto curvilinea come il corsivo georgiano, appare modellata sui sistemi di scrittura occidentali: righe compilate da sinistra a destra, presenza di maiuscole e minuscole, lettere talvolta doppie. Essa ha sfidato l’analisi dei linguisti che hanno cercato di carpirne il segreto. Lo stesso Serafini, in una conferenza tenuta ad Oxford nel maggio dello scorso anno, ha voluto confortare gli studiosi affermando che la scrittura del Codex è asemica, del tutto priva di senso, nasce da un’esperienza simile alla scrittura automatica dei surrealisti e ha lo scopo di far provare al “lettore” la stessa sensazione che provano i bambini di fronte ai libri che ancora non possono capire, sebbene siano consapevoli che quei segni hanno un senso per gli adulti. Il sistema utilizzato per numerare le pagine è stato invece interpretato, rivelandosi una variante del sistema di numerazione con base 21. Il primo degli undici capitoli di questo libro bellissimo, divenuto ormai leggendario (la prima edizione, introdotta da Italo Calvino e pubblicata da Franco Maria Ricci in due volumi nel 1981, ha prezzi inavvicinabili), è dedicata a una botanica chimerica, con fiori stranissimi, alberi che si sradicano da soli e incominciano a nuotare, rami luminosi, e così via, in un delirio visionario supportato da un’abilità tecnica sopraffina. Le illustrazioni, colorate vivacemente e ricche di particolari, sembrano spesso parodie surreali del mondo reale, altre volte sono completamente immaginarie o astratte. Talvolta la stranezza del libro può sconcertare, perché dà la sensazione di celebrare il caos e l’incomprensibilità: tutto sembra scorrere, trasformarsi, mutare continuamente, perdere identità e sfidare le normali leggi del mondo. Alcuni l’hanno visto come allucinatorio e kitsch. Al contrario, Calvino nel 1994 (in Collezione di Sabbia, Mondadori) sosteneva che “come l’Ovidio delle Metamorfosi, Serafini crede nella contiguità e permeabilità d’ogni territorio dell’esistenza (…) L’uomo e il vegetale si completano (…) Come certi animali assumono la forma d’altre specie che vivono nello stesso habitat, così gli esseri viventi sono contagiate dalle forme degli oggetti che li circondano”. Secondo me, il Codex Seraphinianus possiede una sua sublime bellezza esotica, e, se vogliamo, una sua logica provocatoria e surreale. Un nuova edizione più accessibile, in un solo volume, con qualche illustrazione aggiuntiva e una “prefazione” dell’autore, è stata curata da Rizzoli nel 2006. Chi fosse interessato può comunque trovare in rete il pdf dell’edizione americana del 1983.