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la costanza degli istinti - Sito Personale rimosso

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la costanza degli istinti - Sito Personale rimosso
LA COSTANZA DEGLI ISTINTI
Frida Kahlo de Rivera,
Ciò che vedo nell'acqua e ciò che l'acqua mi dà
1938 - olio su tela - collezione N. Muray
CAPITOLO I
Si fermava spesso a chiedersi quando fosse iniziata quella serie matematica e costante
di eventi. Aveva trentotto anni e i lineamenti marcati di una donna del sud, sfocati da
un’impronta genetica nordica come in una pessima fotografia.
Quel giorno Laura si aggirava per le stanze della sua casa alla ricerca di una risposta,
come se questa potesse fuoriuscire dalle pareti che costituivano il suo universo già da
troppo tempo. Quello era il giorno in cui varcare la soglia della follia, era la fine e
l’inizio, era il liquido amniotico che la nutriva e che la annegava, era un giorno di
crudeltà come tanti altri.
Contava le mattonelline di cotto siciliano con i colori del sole; le aveva preservate
dall’usura del tempo come non era riuscita a fare con la propria mente, sentiva la
follia bussare alla porta in tutte le sue forme e desiderava aprirle, voleva sentirla
entrare in circolo ed invaderle i neurorecettori fino a farle credere che niente fosse
mai davvero iniziato, fino a fare tacere quella domanda, costante come un istinto di
morte.
Ogni cellula del suo corpo si ribellava alla vita, ogni singolo frammento del suo DNA
si srotolava al passaggio di quella domanda: Dov’era l’inizio?
Dov’era? Non poteva definirli ricordi, erano ologrammi dotati di vita propria che
sorgevano dal disegno delle pareti. Voleva cancellare la memoria, ma erano reali,
vivevano al di fuori della mente, le rubavano l’aria, la sfioravano al passaggio,
ripetevano quell’unica, ossessionante domanda: Dov’era iniziato?
Al centro del corridoio, in corrispondenza di quelle antiche lampade a parete, si
delineava l’immagine del padre seduto a quel tavolino di un bar coperto da
un’improbabile tovaglia plastificata sotto una gialla luce al neon.
Era iniziato lì?
Il padre era stato un bell’uomo, un camaleonte che mutava con il mutare delle
passioni. Lo ricordava nel massimo splendore di una maturità vissuta da giovane
hippy: una maglia esistenzialista marrone sotto una barba bionda si sovrapponeva
all’ologramma seduto al bar in giacca e cravatta.
La vita si presentava come la collezione di fotografie dentro l’armadio a muro nel
corridoio: l’anta un po’ staccata che cigolava all’apertura e gli album in ordine per
anno ad accompagnare il tempo che scorre.
Il padre non aveva un nome, era solo “il padre”, nonostante il fatto che sarebbe stato
più giusto definirlo per negazione “il non padre”.
Sul volto il tempo si era divertito a materializzarsi scavando in mezzo ai lineamenti
solchi conformi alla sua vita. Potevi leggere il suo viso come una chiromante legge la
mano, potevi conoscere il passato e predire il futuro, potevi riconoscere l’evoluzione
della specie vivendola al contrario nel suo lento passaggio dall’uomo all’animale.
Il timbro della sua voce si innalza mentre echeggia nel corridoio-bar, spalmandosi
sulla plastica della tovaglia, infilandosi dentro la tazza di camomilla ed esplodendo
all’interno del suo infelice whisky: I figli sono come i cani…
L’ologramma tace, si spegne nel mezzo della frase – non è stato quello l’inizio – una
voce dentro la scatola cranica rimbomba ossessiva: Non impazzire…non impazzire…
non impazzire.
Eccolo, a quattro piedi nella cucina, lo spettro della zia Teresa strofina il pavimento
per cancellare un anno di sporcizia. Così era vissuta e così era morta, accumulando
densi strati di untuosi ricordi e delusioni e cancellandoli tutti a quattro piedi come un
animale, rimovendo indiscriminatamente ogni cosa in quell’ammasso maleodorante.
Lei era bella, la sua genialità emanava una luce intorno al suo corpo e nascondeva le
brutture del suo egoismo. Lo sguardo era limpido e onesto, il vestire impeccabile, il
trucco perfetto. Una sola cosa tradiva all’esterno il denso stratificarsi delle delusioni:
le unghie un po’ mangiate, lunghe per volontà ma rosicchiate come da un tarlo
nervoso e sempre attivo.
Bionda per scelta da giovane, lo era rimasta fino alla morte per merito – o colpa? – di
chi la manteneva imbalsamata con la stessa apparenza di prima. Era stata lei a
insegnare a Laura a truccarsi, non sua madre, erano state molte le cose per cui sua
madre aveva delegato qualcun altro. Forse era quello l’inizio? Una delle tante
deleghe, uno dei tanti rifiuti inconsci di tutto ciò che non fosse espressamente un
dovere nei confronti dei figli?
Stranamente nessun ologramma della madre appariva nelle stanze, non riusciva a
materializzarsi in un’azione precisa, non viveva di vita propria come gli altri. Il
ricordo di sua madre era mutevole e sotto il controllo del cervello e delle emozioni di
Laura: a volte la ricordava sulla soglia con una minigonna anni ’70, un delizioso
vestito turchese con il colletto di perline. Quel giorno rideva, erano pochi i ricordi di
una madre sorridente e spensierata: per lo più sfoggiava il sorriso malinconico di chi
vive per dovere e non per desiderio. Altre volte la ricordava a letto, il volto pallido e
sconvolto, la voce flebile in una delle sue strane malattie: un po’ nevralgie, un po’
intossicazioni, un po’ crisi psicologiche, erano state da sempre un’arma impropria.
Ricordava di essere stata sempre condizionata in ogni sua azione dalla frase tu così
uccidi tua madre che aleggiava sulla bocca della madre e su quelle di tutti i parenti,
ben felici di approfittare di quell’arma sottile. Laura pensava che loro provocassero
intenzionalmente le crisi per esercitare un controllo sul suo nucleo familiare: non
aveva mai sentito nessuno consigliare alla madre di consultare uno psicologo né, a
pensarci bene, un medico.
Non credeva fosse iniziato da lì, ma da lì era sicuramente scaturita la sua ribellione
per ogni forma di coercizione psicologica e, al contempo, la sua attitudine a
ripercorrere con costanza la stessa strada di angoscia con tutti gli uomini che aveva
avuto.
L’inesorabile costanza degli istinti. Le ritornava spesso in mente quella frase letta in
una mail di un uomo che non era mai esistito; era apparso nella sua vita per
pronunciare quest’unica frase, per aprire nel suo universo un buco nero che stava
divorando lentamente ogni neurone e poi era scomparso dentro un essere
insignificante che ingoiava voracemente ogni cellula del corpo. Laura non aveva
reagito, si era prestata ad essere il pasto di quelle due bocche fameliche quasi fosse un
ineluttabile fato verso cui tutta la sua vita era stata diretta. Ma questa era la fine e lei,
invece, cercava l’inizio per tornare indietro nel tempo e bloccare la follia quando era
nata, quando le ruote celesti avevano preso a girare in modo da disegnare questo
destino.
Lo vedeva come una matassa che si srotolava, il filo delle Parche che non si spezzava
con la morte, ma con la follia. Quella strana voce dentro continuava a ripetere Non
impazzire… non impazzire… non impazzire…
Senza accorgersene si era alzata e si era versata un bicchiere di gin e coca: l’alcool
era sempre un buon rimedio contro gli ologrammi e contro le insidiose domande.
Si ricordava bene quando aveva iniziato a nascondersi dietro una bottiglia, era stato
quasi tredici anni prima, per fare sesso con l’uomo che amava.
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Sapeva di non piacergli, ma l’alcool confondeva i lineamenti di Andrea e lei poteva
fingere. Lo stratagemma aveva funzionato e l’unica cosa che alla fine li univa era
proprio quello.
Poi Laura ricordava di aver usato quel metodo a poco a poco per ogni cosa: un esame
all’università, una brutta giornata al lavoro, una prova difficile, un’occasione
mondana e, soprattutto, per districarsi nella foresta dei suoi pensieri.
Il dolore stava incominciando a placarsi, aveva sete, lentamente un sorriso si
disegnava sulle sue labbra e lei sentiva premere l’onda sotto cui era destinata a
soccombere.
La zia Teresa era tornata, stavolta in piedi, con un sorriso luminoso, i gioielli e la
pelliccia. Laura conosceva lo svolgersi della commedia: era venuta per farsi ammirare
prima di una delle sue comparse in società. Avrebbe reagito con un sorriso ai
complimenti, le avrebbe carezzato la guancia e le avrebbe promesso un bel vestitino
nuovo. Sua madre, quasi trasparente, osservava la scena sullo sfondo con il solito
sorriso malinconico: la sua presenza dimessa era l’affermazione della prepotente
immagine della zia Teresa più di qualsiasi complimento. A volte la zia portava con sé
la madre che rientrava a casa ogni volta più trasparente. Laura si immaginava che un
giorno l’avrebbe vista dissolversi. Invece, dopo la malattia della zia Teresa, la madre
aveva ripreso consistenza e, come una belva risvegliata da un lunghissimo letargo, si
era gettata affamata su chi le stava vicino. In lei agivano due anime: una piovra che
bloccava le sue vittime con ventose rese potenti da anni di allenamento silenzioso e
un attento ed immobile felino che attendeva il momento giusto per bloccare la preda
con la zampa, ferirla e poi liberarla per continuare a giocarci.
La voce era tornata, Non impazzire… non impazzire… non impazzire…, sentiva le
mascelle dei due uomini virtuali lavorare sul suo corpo e sgretolarla; tutto sarebbe
finito in quel buco nero.
Laura aveva pensato di uccidersi per farli smettere, ma doveva sapere quando era
iniziato, quando era stato deciso che lei dovesse essere distrutta quel giorno, qual era
stato l’attimo in cui avrebbe potuto prendere in mano il suo destino e non l’aveva
fatto.
Andrea era lì, in camera da letto, la viuzza dove si incontravano sullo sfondo, un
bidone della spazzatura, una faccia crudele. Laura era per terra con il suo bambino in
grembo, un paio di lividi sul corpo ed una mascella slogata. Qualche giorno dopo la
scena era la stessa, sull’altro lato della camera da letto, ma mancava il bambino. Era il
13 dicembre del 1990 quando la terra aveva tremato e Laura aveva sentito di essere
lei a muovere con l’odio tutto l’universo.
Laura credeva ancora dentro di sé che fosse l’amore a muovere il mondo, ma sapeva
che è solo l’odio a non poter essere fermato e lei aveva odiato quella volta soltanto,
poi non aveva più saputo farlo.
Non ne avevano più parlato lei e la madre, né una domanda né una risposta e Laura
non sapeva dire se fosse un bene o un male. Aveva vissuto da allora in uno spazio
virtuale all’interno della realtà: un sentimento simile al rimorso si era insediato come
un virus in ogni cellula ed il suo corpo aveva iniziato a vivere diversamente.
Laura si era spostata lentamente verso il salone, il mare era una cornice splendida
oggi. Si lasciò cadere sulla vecchia poltrona girata ad aspettare l’alba e si accorse che
erano spariti i soliti ologrammi: pensare al bambino cancellava sempre tutto il passato
e la riportava bruscamente alla vita. O alla morte? pensò Laura.
Il telefono squillava già da un po’: pronto – sì mamma – tutto bene, certo – sì, no, mi
fa piacere sentirti – d’accordo, ciao. Il tenore delle loro conversazioni, telefoniche e
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non, era ormai questo da tempo; ogni altro tentativo di dialogo nella sua famiglia si
risolveva in sofistiche dissertazioni sul sesso degli angeli che generavano settimane di
silenzio.
Laura rifletteva sul terrore di aver torto che contraddistingueva tutte le persone con
cui lei veniva in contatto: le apparivano davanti agli occhi, proiettate sullo scenario
blu del mare, caotiche scene di interminabili pranzi in famiglia in cui tutti i convitati
si aggrappavano ferocemente alle loro banali affermazioni, impelagandosi, per
difenderle a tutti i costi, in dimostrazioni per assurdo in cui perdevano per strada
assiomi e premesse e, attorcigliandosi nei loro stessi ragionamenti, finivano per
adoperare urla, strepiti, insulti personali ed ogni altro mezzo.
Ma neanche questo era l’inizio, solo uno dei sintomi.
Si mise la giacca, era irrequieta, controllò metodicamente che tutti gli infissi fossero
chiusi, prese le sigarette e le chiavi e uscì.
Aveva bisogno di un caffè e di vedere Esther. Mentre si fermava al bar, a compiere
uno dei mille riti quotidiani che scandivano il tempo della sua vita, pensava ad Esther:
ogni volta lei appariva all’orizzonte della sua mente come un sorriso.
Esther brillava di luce propria: possedeva una intensa luminosità interiore che, filtrata
da un corpo etereo, non abbagliava, ma si diffondeva intorno a lei stemperandosi nei
colori dell’arcobaleno. Portava con sé un male di vivere, inattaccabile e monolitico,
aggraziata come un ballerino che solleva la sua compagna in un passo a due: chi la
incontrava scivolare per la vita sentiva il proprio dolore danzare improvvisamente
leggero al ritmo della sua musica.
Esther era stata per Laura un’occasione e Laura la amava come si può amare un fiore
o la luce, per il solo fatto che rendono più bella l’esistenza. Laura aveva a lungo
pensato che la sensazione di benessere che provava fosse dovuta al fatto che Esther
non la giudicava, ma anche altre persone non lo facevano; poi aveva capito che era
l’insolita miscela fra la sua capacità di dare vita e la sua delicata disposizione
all’ascolto innocente a rendere Esther unica e indispensabile.
Laura sapeva che, solitamente, chi non giudicava gli altri lo faceva per evitare di
giudicare se stesso ed il proprio abbandono, mentre chi procedeva verso la vita lo
faceva con la spietatezza di chi solo è nel giusto. Per questo motivo, fino all’incontro
con Esther, chi non la giudicava la spegneva con il peso di un dolore immobilizzante
e chi la accendeva con la propria vitalità la uccideva con l’incomprensione delle mille
sfumature di cui Laura era fatta.
Sull’etereo corpo di Esther la realtà si rifletteva diffondendosi lieve senza distorcersi
e Laura sentiva di aver bisogno di lei in quel momento se non voleva impazzire.
Entrò in macchina con decisione ed accese una sigaretta, ma subito il pensiero di lui
ritornò a tormentarla; stavolta vinceva quella parte che le rosicchiava inesorabilmente
il corpo e Laura sentiva il lancinante desiderio di aderire a lui totalmente, centimetro
per centimetro.
Il braccio sinistro le faceva male, Laura sapeva che era l’inizio di una crisi di panico e
sperava di arrivare in ufficio in tempo, prima che arrivassero le scosse, ma non
riusciva a muoversi da lì e a girare la chiave nel quadro.
Forza, trova un pensiero che muova il tuo corpo e fermi il tarlo…Riprese da Esther,
lei era stata un’occasione: si ripeteva spesso questa frase come una musica
conosciuta che torna alla mente senza coordinate spazio-temporali, ma perché?
Nel frattempo la macchina era in moto e il braccio non dava segni di cedimento, ma
era meglio non pensarci.
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Perché Esther un’occasione? Non si frequentavano, non c’era niente di materiale fra
di loro, forse un che di fisico, una vicinanza familiare – loro si definivano sorelline
siamesi – ma non un’identità di bisogni primari e secondari. Ma Esther era la prima
persona nella sua vita che non avesse iniziato un rapporto con lei esaltando la sua
bellezza o l’intelligenza o la classe o la simpatia o qualsiasi altra cosa senza mai
realmente vederla. La colpa era di Laura, – che fosse iniziato lì? – aveva la capacità
del camaleonte ereditata dal padre e poteva assumere la forma voluta da chi la
circondava; non che lo facesse appositamente, ma c’era sempre qualcosa in lei che
poteva richiamare l’essere che gli altri volevano, qualche appiglio su cui attaccare le
loro raffigurazioni della donna ideale. Laura era abituata a salire e a scendere dai
piedistalli e aveva smesso di reagire. Loro costruivano lo scenario immaginario su cui
inserirla e inscenavano la rappresentazione teatrale ad uno, due, tre o infiniti atti; ma
nessuno vedeva davvero Laura a prescindere dallo sfondo che aveva creatoe quando
lei aveva tentato di uscire di scena per essere persona e non personaggio le
conseguenze erano state esiziali. Fuori dal personaggio lei non esisteva più.
Esther era la prima persona che le aveva permesso di vivere fuori dalla
rappresentazione, era il fascio di luce di un riflettore che la illuminava su uno sfondo
bianco che Laura stessa poteva dipingere. Esther le aveva permesso per la prima volta
di essere e non di essere qualcosa.
Ed a Laura era piaciuto. All’inizio era disorientata e non riusciva a costruire sopra
tutto quel bianco. Chi era? Si piaceva? Cosa desiderava? Qual era lo scopo di quella
rappresentazione? Era stato difficile: nell’inesorabile costanza degli istinti il cerchio
doveva essere chiuso come sempre, ma Esther le aveva aperto un cerchio con un
raggio infinito ed aveva rotto la catena.
Laura era nata adesso ed aveva sentito la leggerezza e il peso delle infinite possibilità,
l’ipertesto, la percezione di una vita unica costruita da lei in luogo delle mille vite
concatenate con le mille diapositive di una Laura sempre diversa.
Laura aveva recitato troppi ruoli ed aveva troppe scelte, sarebbe stato difficile anche
essere diversa da tutto ciò che era stata: non avrebbe saputo cosa inventare. Forse
doveva essere tutto, ma non era questa pretesa ad averla distrutta?
Poteva morirne, ma sarebbe stata felice di morire così, di essere lei a decidere di
cadere a terra sulla scena, regista di se stessa, piuttosto che morire di volta in volta
senza dignità, guidata da scadenti registi come un’attrice da quattro soldi.
Il semaforo all’incrocio con il viale le sparò addosso un’insopportabile luce gialla
lampeggiante: aveva sbagliato strada. Ritornò indietro verso l’ufficio, il braccio le
faceva di nuovo male, il tarlo rosicchiava ancora, il buco nero dentro di lei si ostinava
ad assorbire tutta l’energia che era riuscita a creare: la sceneggiatura che si era
costruita era finita lì dentro e Laura non credeva più di riuscire a riscrivere tutto, ma
non poteva più tornare alle sceneggiature altrui.
Il telefonino emise due bip ravvicinati. Laura lo osservò con attenzione, tenendolo in
mano con rispetto e paura, doveva premere solo un tasto per leggere quel messaggio.
E se non fosse lui? E se fosse lui?
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CAPITOLO II
Mauro aveva vent’anni, era altissimo, bruno, mani bellissime e affusolate e un grande
fascino da bambino precoce. Era diverso da tutti gli uomini che lei aveva conosciuto
– molti nonostante i suoi diciotto anni – possedeva un passato ed un futuro come
nessun altro della sua generazione, appiattita su un presente da benestanti figli di
papà. L’aveva attratta con quel fascino sottile dell’indipendenza e conquistata
facendola ridere.
Laura ricordava la prima volta che avevano fatto l’amore: la gioia di ridere e di
gustare golosamente ogni attimo. Lei non aveva mai vissuto il sesso in un modo così
spensierato: era sempre stato un tabù da esorcizzare con pratiche sempre più audaci,
una sfida a se stessi e alla società, un gioco contorto il cui godimento maggiore erano
i sensi di colpa.
Con Mauro il sesso era carne e sangue, era un risveglio dell’appetito, un gioco da
bambini, un’estasi fisica breve ed intensa contro la consueta, lunga e contorta
esaltazione psicologica dei sensi.
Mauro era stato, come Esther vent’anni dopo, un’occasione felice: aveva cambiato lo
scenario della sua vita ponendola davanti a molte forme di esistenza di cui lei non
aveva sospetto, l’aveva presa con sé senza chiedersi chi fosse e senza darle un ruolo,
per il puro piacere di averla.
Laura non l’aveva mai amato, né lui amato lei: non era necessario per assorbire l’uno
dall’altro la gioia dello stare insieme senza domande.
La prima volta che erano usciti assieme lui l’aveva portata nel quartiere popolare
dove era nato, orgoglioso di farle conoscere la strada che aveva percorso. Indossava
una giacca a quadri sportiva di dubbia qualità ma di grande gusto e si muoveva con
l’eleganza di un’antilope in tutti i posti più mondani della città.
Le aveva parlato di libri e di filosofia, della Svezia, delle infinite sfumature che
illuminavano le anime e dei colori infiniti che lui vedeva in lei. Mauro le aveva
tagliato il cordone ombelicale, le aveva nettato il corpo dai residui del liquido
amniotico e le aveva fatto emettere il primo respiro da adulta in quel letto senza
spalliera, dentro una stanza da single, in un’epoca ed in una città per cui l’essere
amorfo e conforme alla massa era la più grande aspirazione della nostra brillante
gioventù.
Mauro era senz’altro stato uno degli inizi e lei aveva avuto paura. La storia era finita
con un attacco di bulimia dietro il quale Laura si era nascosta per non vederlo mai
più. Venti chili in un mese, l’ago della bilancia impazzito come la sua bilancia
interiore: Laura aveva paura dell’ignoto che lui aveva tentato di portare alla luce
dentro di lei e, per la prima volta in un rapporto esterno alla famiglia, aveva scoperto
come fuggire per non dover ammettere il fatto che non poteva e non voleva
controllare ogni cosa della sua vita.
Si erano incontrati altre volte lei e Mauro: due anni dopo lei era stata persino nascosta
nel suo armadio – come nelle migliori commedie, all’arrivo della legittima fidanzata
– e, dopo, avevano fatto l’amore con la stessa gioia della prima volta; ma era una
gioia a termine, una rievocazione nostalgica, prima di continuare su strade complicate
e diverse.
L’ultima volta che si erano incontrati, dieci anni dopo, Laura aveva provato una
grande tenerezza ed una grande tristezza nei suoi confronti: lei era cresciuta, fra
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dolori ed esperienze, fra ricerche e rifiuti, senza mai arrendersi, seguendo la strada
che lui le aveva fatto intravedere e Mauro, invece, era lì, un bambino invecchiato in
cui la gioiosa libertà e l’orgogliosa autonomia si erano trasformate, secondo la
migliore tradizione siciliana, nell’ostentazione di una singletudine che si esauriva
nella briscola in cinque con gli amici al tavolino del lido.
Mauro si era arreso al mondo in cui era entrato con energia dirompente alla ricerca di
affermazione, aveva dimenticato la sua strada e la gioia di esistere e di pensare. La
sua energia era stata assorbita dal sistema, il suo pericolo era stato neutralizzato:
Mauro non avrebbe potuto procurare più nessun’altra perdita alla società come aveva
fatto rendendo Laura consapevole.
Nonostante ciò si stagliava spesso sullo sfondo dei pensieri di Laura come un leggera
scia ad indicarle la strada: Mauro conosceva la via, il non prenderla era stato solo
destino, o scelta, ma la via era lì, ricoperta da erbacce, ma salda sotto i piedi di Laura.
Si accorse di essere già sotto le finestre dell’ufficio, forse da un quarto d’ora, ma
ancora non voleva smettere di pensare. Aveva la sensazione di aver afferrato un filo
importante della matassa.
Esther aveva forse 34 anni – Laura non ricordava mai le età reali ma solo quelle che
lei assegnava alle persone – ma non si era ancora arresa. Forse le donne erano più
forti? O forse preferivano morire piuttosto che distruggere ciò che avevano edificato
con impegno?
Laura l’aveva recentemente soprannominata l’anarchica per descriverla all’uomo che
aveva scelto come cima a cui legarsi nella scalata intrapresa da qualche giorno.
Nicola era il prototipo del borghese con pretese di interiorità ed il termine anarchico
era per lui una definizione familiare e quasi rassicurante, visto il pericolo che Esther
costituiva per la sua visione della vita. Inquadrarla così gli permetteva di fotografarla
nella sua mente e presumere di averne il controllo attraverso l’incasellamento in una
definizione netta ed a lui conosciuta.
Laura aveva imparato da tempo a creare quelle istantanee esatte ma non esaustive per
rendere familiari ed accettabili le cose alle persone con cui dialogava.
Forse per questo motivo era una discreta insegnante – pensò mentre scendeva
dall’auto – forse tutti i cambi di scena e di regia avevano un fine ed una spiegazione
nella costruzione del suo presente.
Si trovò con una certa sensazione di disgusto davanti al portone dell’ufficio: lì dentro
la sceneggiatura prevedeva che lei diventasse efficiente e schematica come da libro di
testo in un corso di marketing avanzato. Laura aveva sempre temuto la
contaminazione ed, effettivamente, in alcuni aspetti c’era stata una perdita di isotopi
radioattivi che Laura stentava a neutralizzare.
Esther era lì, seduta al computer, alla scrivania che era stata quella di Laura. Laura le
aveva lasciato quasi tutto quello che aveva realizzato in quell’ufficio, persino il posto,
come non aveva mai pensato di fare con nessuno: aveva sempre prevalso in lei la
volontà di far sentire la sua mancanza sull’affetto per qualcuno dei suoi colleghi.
Ma Esther era diversa e rispettava la sua presenza: aveva una sensibilità delicata e
poco formale che rendeva la convivenza sempre possibile, nonostante il nervosismo
di Laura.
Adesso doveva parlarle. Era importante per lei raccontarle delle presenze che aveva
avvertito quel giorno e della presenza del buco nero che la stava divorando. Esther
avrebbe capito ed avrebbe rallentato tutti i fenomeni con la sua innegabile grazia.
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Il suo interno squillava ripetutamente, c’era molto lavoro arretrato; Laura decise di
rimandare la conversazione con Esther ad un momento più propizio e si mise
all’opera velocemente come al solito.
Era incredibile come il lavoro occupasse l’ottanta per cento della sua vita e fosse così
poco importante per lei. Forse per questo motivo non si era mai “realizzata” e aveva
cambiato decine di volte attività. Certo era brava e stimata e, come al solito, attenta a
non perdere mai il controllo della situazione, ma la parte che più la affascinava della
sua attività era quella iniziale, quando si doveva organizzare un sistema di lavoro,
comprendere i meccanismi occulti che spingevano il carrozzone del nuovo ufficio e
trovare il bandolo della matassa per iniziare a tessere la tela.
Insegnare le piaceva di più perché i ragazzi cambiavano continuamente: i sistemi
erano soggetti a mutamenti di ogni genere e Laura si riteneva il meccanismo
indispensabile per il mantenimento dell’entropia.
Tutti sono utili e nessuno è indispensabile disse la voce del padre dalla parete alla sua
destra. Laura si girò con ansia, era sola nella stanza e nessuno passava da lì. Il padre
brandiva il suo bicchiere di whisky come una granata pronta ad esplodere e la sua
voce era freddamente manageriale.
I figli sono come i cani…. Laura agguantò la cornetta del telefono e chiamò l’interno
di Esther; la voce del padre scomparve insieme alla sua immagine appena Esther
rispose.
C’era un messaggio nella sua casella di posta elettronica e la regola di smistamento di
Outlook la depositò nella cartella di Paolo. Laura sentiva il buco nero che accelerava
l’assorbimento della materia grigia: cosa poteva volere ancora da lei? Non aveva già
preso abbastanza?
Esther appena puoi passi da me?
Una sorda ribellione si impossessò di lei, sul suo viso si alternavano sorrisi e
contrazioni violente, il braccio le fece più male e un’ondata di calore salì lungo il
collo, si diffuse nella testa e le fece perdere la cognizione del luogo e del tempo in cui
si trovava.
Fuori era già buio ma Laura non aveva acceso le luci, lo schermo emanava radiazioni
azzurrine, Esther era di là e girava come una trottola impazzita – anche questa era
un’eredità di Laura – Laura si alzò dalla sedia e si trascinò fino al bagno.
Si sciacquò il viso e si esaminò freddamente allo specchio: non era più lei ma l’altra
Laura, quella che lei e Gina avevano soprannominato Morticia per diluire la sua
virulenza con un umorismo macabro da Famiglia Addams.
Morticia aveva un’aggressività incontrollabile e sostituiva Laura quando gli esseri
umani tentavano di impadronirsi della sua anima divorandola come belve feroci.
Morticia era tutto ciò che Laura non riusciva ad essere, era una spietata esecutrice
delle sentenze che Laura avrebbe desiderato emettere.
Morticia uscì dal bagno e si diresse verso il computer, si fermò un attimo, indecisa se
leggere la mail o cancellarla e optò per la prima soluzione. In ogni caso la sua risposta
sarebbe stata la stessa.
La mail conteneva l’ennesimo ripensamento e Morticia pensò che Paolo avesse uno
scadenziario con il calcolo dei tempi di ripresa di Laura e che inviasse dei messaggi,
confezionati e surgelati in precedenza, con lo scopo di interrompere il suo cammino e
riportarla indietro.
Decise di condannarlo a morte.
-8–
CAPITOLO III
Morticia si rese conto improvvisamente di aver manifestato una volontà propria: non
eseguiva un ordine di Laura, ma aveva preso il controllo della situazione ed era
diventata forte.
Il suo primo gesto da persona autonoma fu quello di cambiarsi il nome. L’avevano
mortificata con quel ridicolo nome da serie televisiva, quasi lei fosse una caricatura,
un personaggio comodo ma ininfluente nello svolgimento della storia, ma adesso lei
avrebbe cambiato la propria vita e quella di Laura secondo nuove regole, con un
nuovo nome ed un nuovo volto.
Ci vollero due ore per scegliere un nome adeguato a lei e, del resto, Morticia non era
ancora completamente consapevole di se stessa. Era stata Laura a preoccuparsi sino
ad ora di definirla e classificarla e Morticia aveva subito la cosa convinta che non ci
fosse altro modo di esistere se non attraverso Laura.
Le luci della sua stanza erano ancora spente quando Morticia scelse il suo nuovo
nome e, con esso, la strada che avrebbe percorso fra breve.
Grazie a Laura nessuno l’aveva disturbata entrando – le luci spente erano un chiaro
segnale per i colleghi – e Barbara nacque in quella penombra resa mistica dalla
fosforescente luce del video.
Barbara si alzò.
Sentiva la consapevolezza di sé crescere come un’onda violenta che modificava
anche la sua fisicità: i lineamenti del viso si alterarono in una smorfia dura e
sprezzante, il corpo era una corda di violino tesa e sensibile ad ogni spostamento
intorno a lei ed in lei, gli occhi si accesero di una luce impietosa.
Barbara si rendeva conto della prepotenza con cui la sua nascita spingeva Laura verso
l’oblio e provava un’incontenibile gioia accorgendosi che, con una certa
concentrazione, poteva relegarla in un angolo del cervello dove le sue grida di aiuto
non si udivano. Rifletteva sul fatto che a Laura ciò non era stato consentito perché
pesavano su di lei i condizionamenti dei sentimenti e della pietà e, quindi, non
avrebbe mai potuto metterla a tacere. Barbara provava una forte sensazione di
disprezzo nei confronti di Laura, odiava la debolezza e provava per il proprio corpo
un attaccamento feroce: Laura doveva essere punita perché non aveva rispettato se
stessa concedendo agli altri il lusso di divorarla.
Drizzò le spalle, alzò fieramente la testa e, con un passo elegante e deciso si diresse
verso la stanza di Esther.
Ho deciso di ucciderlo. Esther la osservò attonita e sentì profondamente il rancore di
Barbara. Non riconosco più Laura – pensò. E tu mi devi aiutare – continuò la voce di
Barbara – non è più come prima e tu devi sapere quello che succede.
Esther conosceva già lo sguardo di Laura quando la sua parte “cattiva” prendeva il
sopravvento ma stavolta sentiva che l’intera struttura di Laura era modificata, poteva
percepire la forza di un animalesco istinto di sopravvivenza che emanava dal suo
corpo.
Esther aveva già parlato con Laura di questo pericolo qualche settimana prima: i
segnali di una forte presenza erano più che evidenti e Laura stava forzando se stessa
ad accettare una realtà che la distruggeva. La sua parte occulta, un concentrato di
assenza di scrupoli, di desiderio di marcare il proprio territorio ed aggredire
qualunque invasore, si manifestava a sua insaputa e Laura sveniva sempre più
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frequentemente notando, al risveglio, indizi di una propria attività di cui non serbava
nessun ricordo.
Laura era convinta che l’avere soppresso per tanto tempo i suoi istinti di
sopravvivenza per non essere costretta ad interrompere la relazione con Paolo, avesse
provocato una scissione netta fra i due estremi della sua personalità. Nel tentativo di
non perderlo era sempre più arrendevole e afflitta da lancinanti dolori e da crisi di
panico che la terrorizzavano e Paolo approfittava di questa situazione pretendendo da
lei l’annullamento totale e continuando ad accusarla di ogni genere di atrocità.
Esther si rese conto che il punto di rottura era stato superato e che aveva davanti
l’altra parte di Laura. Chi sei? le chiese. Sono Barbara, ho bisogno del tuo aiuto per
distruggere chi ha tentato di uccidermi.
Esther rabbrividì, doveva riuscire a parlare ancora con Laura perché riemergesse e
fermare l’odio. Se non si fossero riunificate sarebbero morte entrambe perché Barbara
non conosceva gli effetti del contraccolpo dell’odio e non si rendeva conto del peso
che continuava ad avere Laura nelle sue capacità di sopravvivenza. Barbara era
convinta di averla eliminata, ma Laura continuava ad esistere e la sua sofferenza
poteva ancora distruggere tutto: se Barbara avesse davvero eliminato Paolo, Laura ne
sarebbe morta e con lei sarebbe morta anche Barbara.
Esther sorrise forzatamente e le chiese di spiegarle i suoi piani: in ogni caso il
pensiero di dare una lezione a quell’uomo non le dispiaceva: aveva a lungo sofferto
vedendo Laura consumarsi per una persona che la usava come cavia per i suoi
esperimenti.
Ho in mente qualcosa che gli distruggerà la vita per sempre. Non potrà più fare del
male a nessuno con il suo animalesco istinto di sopraffazione.
Le due donne sorrisero.
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CAPITOLO IV
Paolo era seduto davanti alla sua scrivania e osservava assente lo schermo del
computer. Pensava a Laura e la cosa lo infastidiva perché aveva molto da fare in
ufficio e non sopportava il fatto che lei riuscisse ad inserirsi in tutti i momenti della
giornata e si ostinasse a voler uscire fuori dagli spazi che le erano stati assegnati da
lui. Aveva tentato in tutti i modi di farla andare via per non dover fare i conti con
quella strana storia, ma Laura continuava a resistere nonostante tutto, nonostante lui
manifestasse senza ritegno il suo disinteresse, la sua disistima, la sua mancanza di
qualsiasi forma di affetto nei suoi confronti.
Non la vedeva da un mese, ma sapeva che alla prima occasione sarebbe bastato anche
un semplice sms per riavvicinarsi a lei.
Quando si erano incontrati lui era in una situazione psicologica difficile: 47 anni,
figli, un passato che si ostinava a volersi credere ancora presente, desiderava qualcosa
di più di quello che aveva faticosamente costruito fino a quel momento.
Aveva grandi ambizioni e, per sopravvivere, si era modellato negli anni un’immagine
di sé diversa da quella dello squallido uomo d’affari: avrebbe desiderato parlare di
arte, musica, libri, filosofia, ermeneutica e desiderava una donna con cui farlo, una
donna che gli desse lo slancio per fare il grande salto. Si sentiva chiuso in una gabbia
circolare in cui non c’erano porte e condannato al costante ripetersi degli eventi a
causa della sua incapacità di diventare realmente ciò che avrebbe voluto essere.
Laura era un soggetto ideale per stimolarlo e permettergli di costruirsi un’isola di
desiderio, fisico e intellettuale, all’interno della sua esistenza. Sembrava perfetta per
mantenere in lui l’illusione di essere “diverso”: la dipendenza psicologica che si era
creata gli permetteva di usarla come gli specchi deformanti di un luna park e Paolo, di
volta in volta, sceglieva come rappresentarsi e se rappresentarsi
Gli incontri con lei lo esaltavano a tal punto da aver provocato un evento imprevisto
in quella che lui chiamava la costanza degli istinti: l’incomprensibile fiducia di Laura
aveva allentato di qualche millimetro le sue catene e si era ritrovato ad essere – se
pure per brevi istanti – ciò che avrebbe sempre voluto.
Si era sorpreso a sentire la differenza fra l’essere qualcosa e l’immaginarsi di essere
qualcosa e la profondità e la vastità del cambiamento lo avevano attratto e spaventato:
si era sentito felice ed in pericolo, aveva intravisto un varco nella sua gabbia ma non
sapeva ancora come raggiungerlo e se raggiungerlo.
Paolo adesso lottava disperatamente per conquistare un equilibrio, per capire se
voleva davvero tirarsi fuori da quella gabbia che, in fondo, era stata la sua protezione
fino a quel momento. Conosceva già gli effetti della ribellione alla società e al proprio
destino e non era mai stato un uomo impavido: aveva sempre trovato surrogati che gli
permettessero di dipingere scenari da far scomparire al momento opportuno, ma
adesso erano insufficienti. Non era preparato a tutto ciò e nutriva per Laura un amore
ed un odio egualmente profondi.
Aveva commesso l’errore di lanciarsi nella nuova avventura come in un videogioco,
pensando che fosse possibile giocare senza impegno e ritornare indenni al primo
livello per ricominciare: aveva smantellato ad una ad una tutte le difese di Laura
promettendole amore eterno ed una vera vita assieme. Lo aveva fatto perché non
riusciva a sopportare che una parte di lei gli resistesse e sentiva di doverla totalmente
possedere per mantenere viva la sua illusione. Ma i risultati erano stati tragici perché
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il mondo di Laura era troppo complesso per lui e quello che era stato portato alla luce
dalla sua egoistica fame di conferme era un fiume in piena che li aveva sommersi con
un’acqua torbida e densa di malumori e lagrime.
Nella sua sete di conoscenze aveva letto diverse volte della sindrome da videogioco,
dello sfasamento fra la percezione dell’immaginato e il reale, ma, come tutti, si era
ritenuto immune: adesso era tardi, la realtà continuava e le ferite non erano scomparse
con il restart, il bivio era sempre lì ed ogni giorno la situazione era più complessa e la
sua capacità di resistenza inferiore.
Bisognava riconoscere che Laura gli concedeva sempre molte possibilità, ma anche
lei adesso era stanca e lui non riusciva ad accettare il suo cambiamento: a volte gli
appariva come una soffocante sabbia mobile che lo inghiottiva sempre di più.
Rilesse l’ultima mail che lei gli aveva scritto, le aspettative di Laura erano diventate
davvero troppe e, da specchio in cui rimirarsi, lei si era trasformata in una donna che
pretendeva amore in cambio di amore. La sensazione di fastidio cominciò ad
aumentare: Paolo non sopportava di perdere e lei doveva scomparire dalla sua vita
senza lasciare nessuna traccia se non quella di una romantica storia d’amore
tragicamente conclusa, un triste racconto con cui incantare altre donne.
Qualcosa non funziona – pensò Paolo – mi manca l’aria se penso di non vederla mai
più.
Il telefono squillava senza sosta e Paolo lo osservava con indifferenza; sentiva ancora
una volta salire dentro di sé l’acqua stagnante della depressione e si crogiolava dentro
il freddo involucro di gelatina che incominciava a ricoprigli la pelle e tutti gli organi
quasi a volerli preservare da ogni forma di vita e di sentimento.
Doveva combattere, doveva cercare quell’uscita che aveva intravisto nella gabbia,
doveva ritrovare il volto di Laura e togliere tutte le incrostazioni da dubbi , tutte le
piaghe da abbandono, doveva riaprire quegli occhi chiusi dal denso dolore e seguire
la luce del suo amore e della sua fiducia.
Ma come fare ormai? Non era così sicuro che fosse per colpa sua se lei ormai era
diversa e, anche se così fosse stato, chi gli garantiva che non sarebbe cambiata ancora
di più per la delusione di non trovarlo come aveva immaginato, forse abbagliata
dall’amore?
Doveva smettere di pensare, la gabbia si chiudeva sempre di più intorno a lui e si
stava facendo del male, non doveva permettere che risalisse quell’angosciante
sensazione di indifferenza infinita, quell’avvolgente e rassicurante istinto di morte.
Il telefono squillò ancora e Paolo vide il numero di Laura sul display; osservò
l’apparecchio a lungo, indeciso se rispondere o meno: sentiva di odiare Laura,
avvertiva crescere dentro di sé un astio bruciante nei suoi confronti per averlo messo
in quella situazione, per averlo costretto a guardarsi dentro e non più allo specchio.
Dall’altra parte del filo Barbara sorrideva senza nessuna emozione e si diceva: Non
rispondere caro, se non vuoi, dovrai farlo prima o poi.
Paolo sollevò la cornetta con astio.
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CAPITOLO V
Laura osservava Barbara comporre il numero e ne avvertiva chiaramente i pensieri e
le intenzioni. Decise in quello stesso attimo di disinteressarsene e di approfittare di
quella assurda situazione per continuare la sua ricerca.
Si guardò intorno: la sua era una posizione un po’ oscura, ma da lì aveva la visione
quasi completa di molti episodi della sua vita, anche di quelli che non ricordava
affatto fino al giorno prima. Si accorse che Barbara aveva collezionato istantanee dei
momenti eccessivamente infelici, ma anche di quelli eccessivamente felici, per
contrasto con Laura che aveva sempre ricondotto tutto alla normalità per non farsi
male, per non soffrire.
Il luogo che fino a quel giorno era stato di Barbara era affascinante nella sua caotica
sovrabbondanza: era evidente che Barbara non possedeva il senso della misura e che
gli oggetti erano adagiati su quelle circonvoluzioni grigiastre secondo nessi logici
improbabili.
Tuttavia lo scenario era affascinante: dalle foto con colori brillanti e violenti,
miracolosamente appese per un angolo ai cordoncini venosi che rivestivano la nuova
casa di Laura, si passava per una raccolta di nastri religiosamente archiviati ed,
evidentemente, continuamente spolverati e rivisti – Laura cominciò a sospettare che
Barbara avesse avuto già da tempo iniziative autonome e che le avesse inviato gli
ologrammi per indebolirla – alle ampolline da cui esalavano odori che Laura aveva
dimenticato e che la investirono con la forza di centomila elettroshock…
… L’odore dell’aria in quel pomeriggio d’autunno mentre lei parlava al suo bambino
e gli prometteva la vita, gli prometteva che anche lui avrebbe visto quelle nuvole
rosse, viola, rosa, che si inseguivano in un cielo terso e sprigionavano un magnifico
profumo, quel travolgente odore di Mediterraneo che si avvia verso l’inverno;
l’odore d’incenso nella chiesa alla morte del nonno; l’odore di morte dei corpi
giallastri che aveva salutato per l’ultima volta; l’odore di sapone nella casa dei
nonni; l’odore della terra bagnata nei giorni di ottobre ad Acitrezza, quando il padre
l’accompagnava a scuola con la cartella nuova; l’odore del mare in quel giorno
d’inverno, quando la morte sembrava camminare sulla cresta delle onde...
… Laura si tirò indietro e fece uno sforzo immenso per restituire al cuore il ritmo
giusto, aveva un’occasione unica di guardare dentro se stessa e non doveva
commettere errori.
Comprendeva profondamente Barbara e la sua rabbia ed era certa di non poter fare
nulla per fermarla se non costituire dal suo angolino un piccolo fastidio, se non essere
la voce di un grillo parlante che non puoi schiacciare. Adesso era lei a possedere le
chiavi della sua anima anche se era Barbara ad avere la libertà d’azione. Ma anche la
responsabilità – pensava Laura – mentre lei cercava il punto smagliato da cui partiva
la ferita profonda che lacerava la sua esistenza.
Probabilmente Barbara avrebbe davvero ucciso Paolo, ma Laura, dal suo angolino
umido e buio, era diventata fatalista e non aveva più nessun desiderio di assumersi
responsabilità che non le spettavano.
- 13 –
Si sedette un attimo a pensare da dove iniziare: la telefonata di Barbara a Paolo la
spingeva verso momenti più recenti della sua vita e – si disse – doveva calmare il
dolore attuale se desiderava davvero esplorare il passato in modo imparziale.
Paolo era stato per lei un’illuminazione. Ricordava ancora il giorno in cui l’aveva
visto per la prima volta: avevano un normale appuntamento di lavoro dopo lunghe
conversazioni telefoniche. Si era presentata nel suo ufficio completamente inzuppata
perché pioveva a dirotto, sciatta, qualche chilo di troppo, il trucco disfatto e nessun
interesse per eventuali incontri; era entrata nella stanza e due luci azzurre l’avevano
illuminata con attenzione e curiosità sconvenienti in un incontro formale. Aveva
sentito il sangue affluirle al viso, la testa confondersi ed era riuscita a balbettare
soltanto un paio di parole. Il rossore aumentava e lui continuava a fissarla quasi
divertito, le sue mani erano deliziosamente affusolate, lei ascoltava la sua voce e
pensava vorrei tornare a casa a cambiarmi, a truccarmi, vorrei tornare a casa. Era
andata via con la sensazione di un’occasione perduta e sicura che Paolo stesse
ridendo di lei e, a pensarci bene, già questo era strano perché a Laura non era mai
importato che si ridesse di lei quando non aveva scelto di esporsi.
Poi nella posta il suo nome e lì, come la sorpresa di un giorno di sole nel cuore
dell’inverno, una frase piccola su un fondo bianco: È stato un piacere conoscerla.
Laura era nuovamente arrossita ed aveva capito di non avere desiderato altro da
quando aveva lasciato quell’ufficio. Non era mai stata una persona romantica e non si
riteneva capace di provare devastanti sentimenti, ma quel giorno sentiva che c’era un
senso, un destino che l’aspettava e si sentiva attratta inesorabilmente verso quegli
occhi magnetici.
Ripensava ancora oggi a quel giorno che aveva cambiato il suo destino e quello di
Paolo, trasformando due esseri in cerca di se stessi in due bombe ad orologeria che
adesso dovevano essere disinnescate. La scelta era terribile per entrambi: tagliare il
filo giusto portava alla serena felicità che cercavano, quello sbagliato era la morte di
tutte le illusioni.
Laura riaprì gli occhi. La voce di Paolo al telefono con Barbara era sempre più
sprezzante e Laura si sentì felice di non essere lei alla cornetta. Ebbe per una attimo
paura che Barbara la rimandasse indietro nel mondo per non dover più ascoltare
Paolo, ma Barbara sembrava sopportare magnificamente quell’arroganza perché
faceva parte del suo piano far crescere la rabbia di Paolo fino a farlo soffocare.
Laura desiderava il silenzio e si addentrò sempre di più nel labirinto in cui si trovava.
Si accorse che i cunicoli si facevano sempre più stretti e bui e sulle pareti, sotto uno
spesso strato, si trovavano infiniti ritagli di fotografie con i bordi lacerati come se
Barbara avesse voluto creare un puzzle con la sua vita e avesse poi incollato tutti i
pezzi alla rinfusa per creare un caos da contrapporre al mondo schematico e razionale
di Laura.
Proseguì fino alla fine della caverna e vide sul fondo un paio di rigonfiamenti
accoglienti su cui potersi sedere; intorno c’era un silenzio rotto solo dal pulsare
ritmico del cuore e dalla volta pendevano lunghi e sottili negativi attorcigliati come
stelle filanti e alcuni rotolini di carta sottilissimi scritti con una calligrafia minuta e
appuntita.
Si lasciò cadere mollemente a terra e sentì ogni osso dolerle. Si chiese se Barbara
avesse sentito dolore anche lei: in fondo il corpo era un bene comune ad entrambe.
Comprese il potere che adesso aveva su Barbara e che Barbara aveva avuto su di lei:
poteva fermarla in un attimo e farle male attraverso il corpo. Si disse che doveva
ricordarlo nel momento in cui avesse desiderato di ritornare indietro.
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Allungò il braccio verso una stella filante, la strappò dal soffitto, la mise controluce e
si accinse a riprendere il suo viaggio nel passato.
La prima immagine non le diceva nulla: era una donna di mezza età, robusta ma non
grassa, con le fattezze di una tedesca; teneva in mano un bricco di porcellana bianco e
blu e si stagliava su uno sfondo di una casa dall’aspetto accogliente ma sconosciuta.
Passando alla seconda il negativo cambiò forma arrotolandosi come una pellicola e
incominciò a muoversi su un proiettore immaginario. Sulla parete della caverna
apparve la scena di un film.
Erano probabilmente in Austria, oppure in Jugoslavia – non ricordava bene – lei, il
padre, la madre e la sorella in una casa pensione e la signora era la proprietaria. In
quel momento versava il latte nelle loro tazze e sul tavolo troneggiavano vassoi con
fette biscottate, marmellata, burro e dolci simili a cornetti. Era stata felice in quei
giorni, aveva forse dieci anni e il viaggio era il momento più atteso dell’anno:
partivano in macchina e il padre guidava splendidamente, quasi un’unica forma con
l’auto che conduceva. La madre aveva, come sempre, l’espressione consona alla
situazione e, lontana dalla sua famiglia, era apparentemente un’altra: al di fuori del
momento della scelta obbligata dei regali, seguiva suo marito come lui aveva sempre
desiderato. Lei e sua sorella ripetevano ossessivamente le scritte sui cartelloni e, nei
paesi stranieri, i numeri delle targhe. Laura pensava che avrebbe potuto fermare il
mondo a quell’attimo: dopo non c’era stato niente se non una feroce scalata verso una
vetta inesistente. Forse tutto iniziava da quelle tazze di porcellana, l’ultimo momento
di pace, l’ultimo momento di gioiosa normalità.
Fece scorrere diverse volte la pellicola crogiolandosi nel dolore della perdita: per tutta
la sua vita, dopo quei giorni, non aveva compiuto altra azione se non quella di
elaborare il lutto. Anche nei momenti più felici aveva solo cercato il modo di perdere
per poter fare ciò in cui unicamente era sicura di riuscire: sopravvivere al dolore, al
distacco, alla privazione.
Persino oggi, se ne rendeva conto, si sforzava di dimostrare a se stessa che la sua
nuova casa era la migliore delle fortune perché aveva la possibilità di pensare, di
vivere senza responsabilità, senza dolore.
Ma davvero lei voleva vivere così?
Barbara aveva condannato a morte Paolo, ma era davvero un’idea sua? O era stata
Laura ad instillarla in lei nascostamente per poter piangere sulla sua ennesima perdita
piuttosto che compiere quel salto di qualità che porta dall’istinto di morte all’istinto di
vita?
C’era ancora molta strada da percorrere per Laura in quel mare di stalattiti che
pendevano dal soffitto e che reclamavano giustizia; c’erano percorsi infiniti di infinita
pazienza e solo la spinta che sentiva verso Paolo poteva darle la forza di continuare.
Rivide la stessa scena con la solita porcellana e notò alcuni nuovi particolari: le tazze
erano un po’ sbocconcellate sul bordo, la madre aveva, sotto il sorriso della
viaggiatrice, una piega amara agli angoli della bocca, il padre sembrava chiedersi
perché la madre non fosse mai contenta, la sorella piangeva a minuti alterni, quasi a
recitare un copione che prevedeva azioni di disturbo con cadenza regolare.
Lei odiava la marmellata e i cornetti e il caffè con latte.
La madre detestava la guida del padre e manifestava un evidente disprezzo per le sue
automobili nuove e per la sua disinvolta velocità.
Si dirigevano in quattro verso la fine della sceneggiatura con la piena e incosciente
volontà di aderire alla loro parte per semplificarsi la vita.
Ma Laura sapeva che questa era solo la pars destruens: resistette a lungo alla
tentazione di bruciare quella pellicola perché doveva costruire, doveva capire cosa per
- 15 –
lei era davvero importante in quel viaggio e comprese che era lo stesso viaggio, la
scoperta di quel sentiero lastricato di pietre che assumevano il colore del sole a
Dubrovnik, il divanetto rosso nell’ascensore in Austria, il Prater a Vienna con le
Montagne Russe dove lei non sarebbe mai potuta andare e dove il padre scendeva e
saliva con un’espressione estatica, il mare verde e azzurro della Jugoslavia, l’isola al
centro di Budapest, la fontana di mille colori, la Torre degli Asinelli, l’autostrada, il
padre che guidava felice.
Anche adesso Laura viaggiava nel tempo, indietro ed avanti, alla ricerca di qualcosa
ed era la ricerca che muoveva il suo mondo, era il piacere della scoperta, era un
raggio di sole che illuminava quegli antri bui dove ora si trovava e li colorava dei più
insoliti colori. Era l’ignoto a condurla verso la vita.
Laura era stanca, vide improvvisamente Paolo come il più entusiasmante dei viaggi,
ma era ancora troppo presto per loro e si addormentò stremata.
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CAPITOLO VI
Barbara abbassò la cornetta e si lasciò cadere sulla sedia. Le faceva male ogni singola
parte del corpo e sapeva che era colpa di Laura.
Molte volte aveva compiuto volontariamente queste azioni di disturbo, ma Laura era
ancora troppo inesperta per sapere come fare senza provocare veri danni.
Immaginava Laura all’interno di quello che era stato fino ad allora il suo mondo e
sperava che si sarebbe distratta in mezzo a tutti quei ricordi che lei aveva
immagazzinato sotto le forme più disparate. Le serviva tempo per il suo progetto di
vendetta.
Già da qualche anno, ricordava Barbara, la sua volontà cresceva e, più Laura si
ostinava a reprimere in sé ogni istinto vitale, più la forza di Barbara aumentava. C’era
stato un periodo della loro vita in cui erano state sempre in consonanza: non
esistevano Laura e Barbara, ma un’unica e completa entità in cui ogni parte era in
armonia, poi era successo qualcosa, lei non ricordava che cosa fosse ma doveva
essere sicuramente archiviato in mezzo a tutte quelle cianfrusaglie disposte
artisticamente per confondere Laura. Poi anche lei aveva finito per cadere nella sua
stessa trappola e non aveva più saputo ricomporre organicamente la sua vita. Non che
le interessasse in realtà, era Laura ad avere la mania dell’analisi, per lei era sufficiente
vivere pienamente ogni istante presente ed eliminare qualsiasi ostacolo alla sua
felicità. Laura rimuoveva e lei eliminava, ma fino a quando era stata Laura ad avere il
possesso della sua fisicità lei aveva dovuto sottostare alle sue regole; l’unico gioco
che le era permesso era confondere le acque, ritagliare i ricordi, mescolare odori,
immagini e suoni per farli riapparire all’insaputa di Laura, fino a farla cedere, fino a
farla impazzire, fino a condurla a scegliere la dimensione della coscienza e a lasciarle
quella della tanto agognata fisicità.
Poi si era aperto quell’enorme buco nero che stava risucchiando tutto il suo lavoro e
anche lei si era sentita trascinare nel vuoto, nell’assenza, nel nulla. Non poteva
permettere a Laura di farle questo, doveva agire adesso anche se non era pronta per
avere la certezza della vittoria perché Laura era ancora forte e già le stava creando
problemi: quando aveva sentito Paolo aveva avvertito in sé dei segni di cedimento
perchè la sua voce, per quanto arrogante e sgradevole, nascondeva un forte
sentimento e Barbara era irrimediabilmente attratta dalla forza.
Pensò agli occhi azzurri di Paolo che fissavano Laura in quel bar di fronte al mare e
desiderò di essere guardata allo stesso modo. Ma no, non doveva cedere, doveva
portare avanti il suo piano con determinazione, doveva far scomparire
quell’aberrazione spazio-temporale che stava inghiottendo lei e Laura. Non poteva
aspettare che Paolo scegliesse la strada che voleva percorrere.
La vendetta era l’unica soluzione: lo avrebbe portato con l’inganno a scegliere una
strada senza convinzione, gli avrebbe creato il vuoto intorno e poi lo avrebbe fatto
impazzire allo stesso modo in cui lui aveva fatto impazzire Laura, dopo averla resa
debole e sola. Era la legge del taglione, la più antica legge del mondo e Laura, con le
sue idee sulla qualità della natura umana e sulla coscienza, non avrebbe mai saputo
portare a termine la vendetta: Laura desiderava più di ogni altra cosa l’amore di
Paolo, mentre lei desiderava solo vendicarsi, anche a costo di perdere un’occasione
unica nel caso che Paolo avesse davvero deciso consapevolmente di optare per
l’amore, per la vita, per Laura.
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Sì, forse sarebbe stato il caso di unire le sue forze a quelle di Laura per non
distruggere tutto – pensava agli occhi di Paolo – ma Laura si era tanto staccata da lei
per paura di non essere all’altezza di controllare tutto, che non era più possibile
rischiare.
Pensò che Laura doveva essersi assopita, stanca di pensare, con quella sua assurda
mania di cercare sempre il perché, il filo rosso che segna un cammino, la visione
d’insieme, l’orizzonte di senso, la parola esatta che definisce e delimita la realtà. Sentì
il disprezzo farsi strada dentro di lei: provava un fastidio profondo e rabbioso nei
confronti di chi si complicava la vita credendo di comprendere verità sovraumane e
poi non si rendeva conto del significato di un semplice minuscolo gesto perché lo
affogava in un mare di significati esistenziali. Più di una volta Barbara era stata
costretta ad inviare a Laura messaggi chiarificatori attraverso i sogni, indicandole la
strada da percorrere prima che la filosofa – come spesso la definiva sprezzante –
potesse distruggere se stessa e lei con le sue perversioni mentali.
Barbara si spogliò, aprì il rubinetto della vasca e si mise sulla bilancia: tre chili in più
in un giorno, Laura riusciva ad autodistruggersi anche confinata nella parte più
recondita del cervello, stava tentando di impedirle la realizzazione del suo piano
rendendola nuovamente grassa e brutta. Barbara strinse le labbra in un accesso di
rabbia e desiderò farle del male, farla scomparire per sempre e far cessare la sua
orribile influenza, il suo insopprimibile istinto di morte, di autopunizione per chissà
quali peccati.
Si infilò nella vasca e azionò l’idromassaggio.
Paolo era ancora seduto alla scrivania e ripensava alla conversazione con Laura:
aveva la strana sensazione di aver parlato con un’altra persona che lo intrigava,
facendo venir meno il suo proposito di scomparire senza lasciare traccia. Laura lo
stupiva sempre con reazioni impreviste. Non riusciva a classificarla e la cosa
provocava in lui attrazione e repulsione.
Guardò attentamente le foto dei suoi figli per riportare se stesso alla sua realtà
precostituita, ma l’effetto non fu quello voluto. Ogni affetto era diventato per lui un
insopportabile peso, una catena opprimente e rumorosa che gli impediva qualsiasi
movimento. Scalciava come un cavallo in un recinto troppo stretto e colpiva
indiscriminatamente chiunque gli stesse accanto.
Riportò la sua attenzione alle carte davanti a lui e per cinque minuti finse di essere un
attento manager, fece due telefonate di lavoro e sfogò tutta la sua acredine sul
dipendente di turno, ma fu tutto inutile.
Paolo era solito scansare gli ostacoli e liberarsi di qualsiasi cosa potesse provocargli
fastidi o disagi materiali. Era una persona in cui la fisicità era preponderante, ma
qualcosa dentro di lui si era modificato: Laura aveva acceso il fuoco delle domande e
Paolo non riusciva più a spegnerlo, pur non essendo in grado di reggere
all’interrogatorio con se stesso.
Le stava facendo male, lo sapeva, ma in fondo Laura era adulta e si era
volontariamente inserita in una situazione difficile, anche se i presupposti di partenza
non erano quelli di oggi. E poi in lui c’era il corrosivo acido del dubbio: ma come
poteva lei amarlo così intensamente in così poco tempo? Forse lui era la sua ultima
spiaggia? Forse nessuno la voleva?
Del resto la storia di Laura era una storia di abbandoni e di delusioni ed era difficile
che una parte di colpa non fosse anche sua.
- 18 –
E quella mania di parlare, di scavare, di analizzare era davvero destabilizzante. Lui
aveva ben altro da fare nella vita ed una donna così complicata era un impegno
eccessivo per lui che non aveva il tempo e la voglia di pensare.
All’inizio era stato interessante parlare con lei, scriversi lunghe lettere che nutrivano
una parte prima disattivata in lui, aveva pensato di poterla gestire come un qualsiasi
affare e come aveva gestito il proprio destino fino a quel momento, usandola nei
momenti in cui desiderava essere migliore; ma qualcosa era andato storto e da quel
momento sembrava che la sua proverbiale fortuna fosse cambiata in tutti i campi della
sua vita.
Laura era innamorata e docile e Paolo oscillava fra la tenerezza e l’impulso alla
sopraffazione: avere una persona su cui provare il proprio potere senza limiti è
un’occasione unica nella vita di un uomo ed ogni volta Paolo si stupiva che lei
resistesse ancora. Aveva subito capito che doveva far leva sui sensi di colpa ed
inventava ogni giorno nuove ragioni per accusarla di essere la causa dei suoi
ripensamenti. Era interessante vedere Laura ribellarsi e ritornare indietro ogni volta
con il capo cosparso di cenere; riusciva sempre a trovargli una giustificazione, meglio
di quanto sapesse fare lui stesso, che già era un maestro in questa pratica.
Paolo sapeva di giocare con il fuoco, stava deliberatamente approfittando di un essere
umano che credeva in lui; l’aveva vista lentamente consumarsi, perdere allegria e
voglia di vivere, piangere, cadere in quelle assurde e incomprensibili crisi di panico –
come le chiamava lei – minacciare e chiedere perdono e adesso lui si era stancato di
quel gioco, aveva capito che stava perdendo qualcosa di introvabile e che forse era
già troppo tardi. Aveva messo in moto una macchina inarrestabile e non poteva più
tornare indietro: l’ultimo atto della tragedia da lui diretta prevedeva l’uscita definitiva
di Laura dalla scena, ma lui adesso non voleva più che questo accadesse, adesso lui la
voleva accanto perché, viste con i suoi occhi, le cose avevano colori diversi che lui
non aveva mai notato, perché lui stesso era profondamente diverso accanto a lei e la
sua anima aveva ripreso un volo intrapreso tanti anni prima e da cui era tornato con le
ali spezzate e con il fantasma della depressione perennemente dietro le spalle.
Laura aveva già capito tutto, lui lo sapeva perché in uno dei suoi momenti di
ribellione gli aveva scritto descrivendogli tutto quello che lui avrebbe fatto in seguito.
Poi si era pentita delle accuse forse ingiuste che gli faceva e aveva chiesto perdono,
ma Paolo sapeva che all’accadere degli eventi ormai scritti nel loro destino lui
l’avrebbe persa e aveva cercato di dimostrare a se stesso che Laura lo opprimeva con
un legame troppo stretto. Ma dopo la telefonata di oggi i suoi pensieri avevano
ripreso a muoversi vorticosamente e non riusciva a reggere più quella situazione.
Si alzò dalla sedia, indossò la giacca e, con uno dei suoi movimenti per cui Laura lo
definiva “incontenibile”, si diresse verso la porta e uscì diretto al porto per andare a
pensare sulla sua barca.
Barbara era ancora immersa nell’acqua e pensava a Paolo e all’amore per il mare che
accomunava lui, lei e Laura. Si sentiva elettrizzata al pensiero di andare da lui: fino al
momento del suo colpo di mano era stata Laura ad avere il contatto fisico con le cose
e Barbara ne aveva sentito solo il riflesso, adesso sarebbe stata lei a salire su quella
barca e a stringere il corpo di Paolo. Sicuramente non avrebbe messo su quelle
stupide scene di paura di Laura al momento di salire a bordo e non avrebbe rinunciato
a fare l’amore solo perché forse Paolo non l’amava abbastanza: Barbara non
comprendeva quelle sciocche autopunizioni e desiderava strappare ogni emozione
alla vita, indipendentemente dalle intenzioni altrui.
- 19 –
Per un attimo le attraversò la mente il pensiero che avrebbe potuto innamorarsi di
Paolo e cadere anche lei nella sua trappola, ma respinse questa ipotesi con una
sicurezza forse eccessiva.
Il profumo degli oli nella vasca era inebriante e Barbara pensò con piacere a ciò che
sarebbe accaduto nelle ore successive.
Era in quello stato di eccitazione quando arrivò la telefonata di Esther.
- 20 –
CAPITOLO VII
Laura si risvegliò con la voce di Esther, si guardò intorno con aria assonnata e, con
grande sorpresa, vide sul fondo della caverna una macchiolina nera che si contraeva e
si espandeva inghiottendo di volta in volta qualcuno degli arzigogoli grigiastri che
costituivano i muri, i soffitti ed i pavimenti della sua nuova casa.
Comprese immediatamente che durante il suo sonno Barbara doveva aver pensato a
Paolo senza rendersi conto del pericolo. Barbara non possedeva nessuna capacità di
prevedere cose che non fossero prettamente materiali; aveva uno sviluppatissimo
istinto di conservazione, ma ad un livello primordiale ed ignorava i pericoli di un
legame come quello che esisteva fra lei e Paolo.
Paolo poteva parlare ad entrambe con lo stesso fatale esito: possedeva la prorompente
ed animalesca fisicità di Barbara e le stesse potenzialità introspettive di Laura, ma lei
sapeva che Barbara non sarebbe stata in grado di arginare la piena del fiume ed
entrambe sarebbero state inghiottite da quella macchia nera che si espandeva
minacciosamente.
Non era quello che nel profondo desiderava? Scomparire nella follia? Perdersi dentro
incontrollabili emozioni? Morirne?
Non prima di essere arrivata alla meta del viaggio che aveva intrapreso. Esther
avrebbe frenato Barbara per un po’ e lei avrebbe avuto ancora il di tempo per
rimettere ordine in quello scombinato insieme in cui si trovava.
Laura strappò una delle lunghe striscette di carta che penzolavano dal soffitto e si
accorse con grande stupore che Barbara aveva riscritto, con la sua scrittura piccola e
appuntita, una mail mandata a Paolo qualche tempo prima
Non la ricordava bene – tanto ed inutilmente gli aveva scritto – Si mise in una
posizione più comoda e la rilesse con estrema attenzione.
Da quindici giorni non ci vediamo né ci sentiamo.
Io ti ho scritto un po’, continuando a cercare quel contatto che pensavo ci fosse nei
primi tempi e che, forse, ho solo sognato. Ho capito in questi giorni molte cose del
nostro rapporto (se così si può definire) e devo dire che sono abbastanza sicura che
si dovesse mettere la parola fine a questo punto.
Per dire la verità, la parola fine doveva rimanere quella del giorno 8 giugno ma, si
sa, non sempre gli esseri umani riescono a fare ciò che è razionale e logico.
Se dovessi definire il mio stato ad oggi potrei solo dire: “STO MALE!!!!”. Lo direi
gridando e piangendo e rompendo tutto quel che mi capita davanti; lo direi con
rabbia e con disperazione e con angoscia…
Ma non lo faccio…
Sono stata abituata fin da piccola a moderare le reazioni, a controllare gli istinti, a
sopprimere ogni forma di eccesso.
E poi quando sto male penso alla tua faccia dei giorni neri: all’espressione
arrogante, un misto fra fastidio e tracotanza,“volgare” e snob.
E mi chiedo chi ho amato, mi chiedo dov’è mai stato quell’essere con gli occhi
trasparenti e pieni di gioia di vivere e di amare, dov’è l’uomo che si rotolava sul mio
pavimento al suono delle note di Carmen Consoli.
Per dirla con le parole di una tua vecchia mail: “Dov’è, Paolo, dov’è?”.
Ascolto il nuovo Cd di Carmen Consoli e c’è una canzone che è la nostra canzone…
per sempre mi ricorderà te.
Avevo pensato di spedirtela in Mp3, ma poi ho pensato che non avresti capito, come
non hai mai capito nulla di me e di quello che cercavo di comunicarti. Probabilmente
è stata colpa mia: troppe persone non comprendono quello che io voglio dire o
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quello che sono per non credere che la colpa sia mia. Ma io cercavo un uomo non
standard e quell’uomo è scomparso per sempre dietro una volgare faccia arrogante.
Anche su questo non ci intendiamo… per te la volgarità sono le parole oscene, per
me la volgarità è la negazione della sensibilità umana. Punti di vista… superficialità
o profondità?
Guardo la luna che fino a poco tempo fa era la “nostra” luna ed era il mio punto di
contatto con te anche quando non c’eri, ma adesso capisco che non guardiamo la
stessa luna…
Mi dispiace, amore mio… mi dispiace di essere entrata in ufficio da te quel giorno…
Non ho mai rinnegato nulla della mia vita, ma rinnego te perché tu non sei la
persona che ho conosciuto tanto tempo fa.
Ti avrei dovuto lasciare, avrei dovuto dare ascolto al mio istinto, avrei dovuto capire
che ero attaccata ad una rappresentazione di ciò che volevi essere e non di ciò che
eri.
E mi manca quell’uomo, mi manca terribilmente, mi spezza le ossa questa assenza,
ma anche se tu tornassi non cambierebbe niente: tu non sei lui, se non per brevi
attimi che si pagano con un enorme dolore.
Non so come spiegarlo… quell’uomo occupa il mio pensiero ogni minuto della
giornata, ma quell’uomo, anche se ha il tuo corpo e la tua faccia, non sei tu.
Quindi, non so con chi sto parlando ora… sicuramente non con te.
Per questo che deve finire, perché io non stavo con te e non ti amavo, stavo con una
persona che non è reale e amavo un uomo che non c’era.
Devo confessare che sogno ancora che quell’uomo riappaia e che sia il vero te
stesso, ma adesso so che è un sogno: l’uomo che amavo non si sarebbe mai dissolto
nel silenzio.
Silenzio…. Silenzio…. Silenzio…
Perché mai Barbara aveva conservato proprio quella lettera? Forse perché lì c’erano
tutti gli elementi della sua storia con Paolo e c’era tutta la pacata rassegnazione di
Laura ad un destino inevitabile?
O l’aveva conservata perché lei potesse rileggerla e rendersi conto di quante volte
aveva ostinatamente ripetuto gli stessi errori?
Laura lesse attentamente più di una volta la lettera e si disse che lei e Paolo erano più
simili di quanto avesse mai pensato: in fondo la persona che lei aveva conosciuto
inizialmente era il suo compagno perfetto, con il suo amore per la parola, per il segno,
per la vita interiore, mentre l’altro era il compagno ideale di Barbara, con la sua
fisicità e con la pretesa di piegare ogni cosa o persona al proprio volere, al proprio
benessere.
Si chiedeva se Paolo avesse tutta la responsabilità di questa scissione o se non avesse
dovuto scindersi per avere sia lei sia Barbara. Non le sembrava che lo sdoppiamento
fosse originato da lui. Paolo era piuttosto imprevedibile e contorto, ma le sue
elucubrazioni poggiavano sempre su una forma unitaria e armoniosa. Probabilmente
la dicotomia che sin dal primo momento aveva notato in lei – e lei lo amava per
questa innata e poco analitica capacità di intuire l’essenza delle cose – lo aveva
costretto a dissociarsi aggravando una latente depressione.
Si chiedeva se la loro storia non si snodasse all’interno di un suo particolare percorso
di crescita con un fine ben preciso: il mostro a due teste che assorbiva la sua energia
da un lato e la corrodeva fisicamente dall’altro forse esisteva soltanto perché lei era
spezzata in due. Se lei e Barbara si fossero unite in una sola e completa persona, forse
l’amore di Paolo avrebbe perso la sua distruttività in un equilibrio di forze
intimamente connesso con il suo equilibrio di forze. Non era forse quello lo scopo
dell’amore: liberare l’energia in un sistema di autocontenimento? Tutta l’energia
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dell’universo in un equilibrio che crea e non distrugge, nessuna solitudine, nessun
dolore, felicità.
Ma Laura non poteva ancora, provava una diffidenza inspiegabile per Barbara e
desiderava capire perché: non poteva unirsi a lei in armonia nemmeno per amore di
Paolo se prima non avesse trovato l’origine del suo dolore, del suo radicale e
pericoloso rifiuto per la realtà materiale, fisica.
…I figli sono come i cani... Laura si alzò di scatto ondeggiando sul pavimento
molliccio ...sono belli e danno gioia ma se uno non li può tenere allora deve darli
via…. La voce del padre rimbombava su quelle pareti vive e pulsanti e scivolava con
un’eco spaventosa, assordante, interminabile. Non era possibile fermarla e Laura
desiderava andare via, fuggire, ma il buco nero aveva inghiottito l’ingresso della
caverna e lei era bloccata lì, l’eco aveva prodotto una valanga e tutto si sgretolava
intorno a lei. Si portò le mani alle orecchie disperata e si lasciò cadere sul suo
giaciglio con rassegnazione ...darli via ...via ...via...via...
L’eco finalmente cessò lasciando Laura sbigottita.
Lentamente si riprese e si forzò a pensare, ad analizzare questa ormai inevitabile
scena. Si guardò intorno e vide il capolavoro di Barbara distrutto: tutti gli oggetti
ancorati al soffitto erano caduti sul pavimento, le pareti vibravano ancora e in alcuni
punti si erano aperti dei piccoli varchi, delle fratture in corrispondenza di alcune zone
callose che sembravano cicatrici.
Adesso Laura ricordava quel giorno perfettamente: non era stato l’inizio, ma solo una
svolta a senso unico, un’ansa sulla circonferenza dentro cui stava viaggiando, un’ansa
così stretta da non poter più tornare indietro se non sospinta da una forza uguale a
quella che l’aveva portata avanti. Cis e trans. Non era mai stata brava in geografia e
non aveva mai capito la differenza: quel pezzo della sua vita era al di qua o al di là?
Questa era un’altra delle aberrazioni della sua vita, pensò Laura, essere costretta ad
insegnare qualcosa che odiava per poter insegnare le cose che amava; ma chi mai
poteva amare contemporaneamente la storia e la geografia? Ma non era questo il suo
problema principale adesso, le sembrò ridicola quella digressione del pensiero, quasi
la preoccupazione di un moribondo per un unghia incarnita.
Ripensò al padre. Dopo quella conversazione lei aveva totalmente rimosso la sua
figura per non dover accettare quella frase ed aveva spesso ripetuto ad alta voce e con
convinzione frasi fatte come Non è la proprietà dello spermatozoo a fare di un uomo
un padre, oppure Essere geneticamente padre non necessariamente significa essere
padre dopo che le primordiali cellule embrionali hanno incominciato a differenziarsi.
Aveva spesso fabbricato immagini in cui vedeva il padre moribondo a terra e lo
scavalcava senza soccorrerlo e senza un briciolo di dolore, si era spinta a non sentire
nessuna mancanza, nessun distacco, nessuna emozione e a trattarlo con una gentile
formalità come si fa con qualcuno che si sa di dover sopportare per poco. Ma,
evidentemente, non era riuscita a convincere Barbara. Il sangue, le cellule, il Dna, i
corpi che ti hanno scaldato, stretto, le cariche elettriche, il negativo e il positivo, il
flusso uguale dei liquidi, il flusso uguale delle emozioni, l’imprinting, i cromosomi,
l’uguaglianza genetica degli organi sensoriali, l’istinto e la ragione, l’ereditarietà e
l’educazione: Dio mio quante cose conoscevano nel ventunesimo secolo e di quante
travisavano l’essenza con l’assurda pretesa di interpretarle come si interpreta una
frase, una poesia, un romanzo.
Era mai possibile pensare che la forma delle sue mani, così simili a quelle del padre,
con gli stessi organi adibiti al tatto, non corrispondesse alla stessa percezione della
realtà?
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Era credibile che l’essere stata presa in braccio da quell’uomo e non da un’altro sulla
porta di casa non avesse influenzato ogni successivo contatto fisico? Ripensava a
Paolo, a quella volta che era entrato quasi con violenza a casa sua quando lei lo aveva
lasciato e l’aveva presa in braccio allo stesso modo davanti alla porta fino a quando
lei non si era arresa.
Il padre c’era e c’era stato, occorreva accettare questa commistione di carne e di
sangue che si trovava dentro ogni cellula del suo corpo racchiusa in frammenti
elicoidali di basi azotate. Doveva riconoscerla con gioia e soddisfazione se voleva
riconoscersi allo stesso modo.
Barbara le sembrò più vicina adesso e si sentì più forte. Adesso che percepiva il padre
più vicino doveva cercare di comprendere quella assurda frase che lei aveva sempre
accettato letteralmente per poter autopunirsi, privarsi di ogni cosa.
Si guardò nuovamente intorno e si accorse che la valanga aveva scombinato il gioco
di Barbara: tutti i frammenti spezzati delle foto alle pareti si erano sganciati ed erano
caduti al suolo ricomponendosi. Davanti a lei era una foto un po’ sbiadita: lei, la
madre, il padre, la sorella e un magnifico grande cane nero dagli occhi buoni
sorridevano accanto al divano bianco nel salotto del padre a Buenos Aires. Laura
ricordava bene l’ultimo momento di presunta unione della famiglia: dopo più di
vent’anni la madre era andata con loro a fare visita al padre manifestando così una
grande tolleranza ed una affettuosa amicizia. Laura riconosceva in lei la propria
attitudine alla perdita e al sacrificio, ma non era questa l’occasione in cui
l’atteggiamento della madre era stato fondamentale per il suo viaggio. Il cane era lì, lo
ricordava bene e poi era scomparso, inghiottito come un figlio nella voragine prodotta
da una relazione che si sfalda. Aveva viaggiato a lungo fra due case come un pacco
postale: conteso fra i due proprietari forse avrebbe voluto spezzarsi in due anche lui;
il padre per gli impegni lavorativi e per la sua personale concezione della signorilità si
era sentito costretto a cederlo alla contendente con i migliori requisiti di “mamma del
cane”. Doveva essere stato un enorme dolore per lui – Laura era riuscita in quei
giorni a vedere quanto lo amasse – e, si disse, forse il padre voleva alludere al suo
dolore e non alla facilità con cui ci si sbarazza di un essere ingombrante.
Non gli aveva mai dato la possibilità di spiegarsi, l’aveva condannato, condannando
anche se stessa. Era troppo presa a recitare la parte che le avevano assegnato per poter
uscire fuori dagli schemi, ma ora Esther l’aveva messa su quel fondo bianco, Barbara
l’aveva confinata in quell’antro zeppo di ricordi apparentemente gettati qua e là e
Laura non poteva fare a meno di vedere le cose come se fosse la prima volta.
La zia Teresa emerse da un angolino in una foto della cresima di Laura: aveva la
faccia insolitamente tonda e un caschetto di capelli da signora per bene; il trucco era
ben fatto ma con un’impronta da lady inglese e dagli occhi azzurri emanava la luce
della soddisfazione provata dopo un lauto banchetto; solo sul fondo della pupilla il
leggero bagliore di ironia dell’attrice che recita la sua parte con maestria e deride il
suo pubblico credulone.
La zia Teresa, la madre, il padre, qual era il contorto legame che li stringeva in un
gioco di predominio senza esclusione di colpi? Qual era la vittima della messa in
scena in cui ognuno di loro sfruttava l’altro per ottenere ciò che voleva?
La zia Teresa e il padre amavano il lusso e la grandezza e, non potendoseli
permettere, avevano scelto di viverli in comune trascinando dietro di loro una
recalcitrante sorella e moglie che li seguiva con un sorriso gioioso appiccicato sul
viso, nonostante il suo tentativo, non molto convinto, di farli desistere. Alla fine
aveva ceduto ben volentieri, declinando ogni responsabilità.
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Poi, com’era naturale, tutto era crollato e la zia Teresa aveva trovato un nuovo gioco
nel ruolo della perfetta mogliettina di un uomo socialmente più che accettabile. Da
quel momento aveva dismesso le vesti della zia amica ed aveva indossato i panni
della “vicemadre” nei confronti di Laura. Come al solito lei era una magnifica
interprete, sempre più vera anche del suo stesso personaggio ed aveva lentamente
esautorato la madre di Laura da qualsiasi funzione che a lei aggradasse, salvo poi
restituirle l’incarico non appena si fosse stancata. La madre aveva vissuto come la
sostituta della prima donna in uno spettacolo teatrale: la sua bravura e la sua costanza
erano innegabili, ma il pubblico reagiva sempre male all’assenza della star.
Laura era cresciuta in questo pericoloso gioco di potere e non era più riuscita a
distinguere fra sceneggiatura e realtà. Gli affetti le venivano concessi e sottratti
arbitrariamente e lei aveva cominciato ad estraniarsi, a scindersi lentamente, a
uniformare i suoi colori a quelli della scenografia, concedendosi solo alcune punte di
ribellione che erano solo eccezioni a conferma della regola.
Aveva imparato a recitare la sua parte e l’abilità nel farlo era divenuta più importante
della stessa realtà: la sua scelta era già la rinuncia perché la rinuncia dipendeva solo
da lei ed era gestibile con perizia di volta in volta maggiore.
Laura aveva sempre creduto, sulla scia dei racconti della madre, che la sua vita fosse
cambiata il giorno che il padre era andato via. Ricordava ancora quel giorno e lei
gettata a terra ai piedi del suo lettino, nella stanzetta di due metri per uno e mezzo,
che piangeva disperatamente. Aveva sempre pensato che il pianto fosse per il fatto
che il padre andava via da casa, ma, ricordava adesso Laura, il padre era già andato
via qualche tempo prima e lei era stata ugualmente felice nei giorni in cui lui passava
a prenderla e la portava in giro sulla sua Matra Simca Baghera. Laura non aveva
capito mai nulla di automobili, se non di quelle che erano state del padre e quella la
ricordava bene perché si sentiva felice con quel padre che, secondo lei, tutti le
dovevano invidiare. Cos’era allora che l’aveva spinta al pianto, alla sensazione del
rifiuto, dell’abbandono? Nel ricordo di quella scena, fino ad oggi, i riflettori erano
puntati tutti su di lei a terra, ma oggi il raggio di luce andava sul letto e scivolava
sulla figura della madre che, con parole rassicuranti, le annunciava che il padre
andava via ma che no, non doveva preoccuparsi perché lei sarebbe stata sempre sua
figlia, perché lui avrebbe continuato a volerle bene. Ma sul volto cereo della madre
pendeva la smorfia del mesto dolore, della situazione senza rimedio, l’atmosfera
densa di gravità de las cinco de la tarde.
In psicologia questo aveva un nome, ma Laura non lo ricordava, forse era il “doppio
messaggio”: nel segno globale l’espressione non coincideva con il contenuto. Laura
aveva imparato ad essere doppia, ad avere paura del non detto, a scrutare con ansia
l’espressione del volto di chi le parlava, a gestire con doverosa freddezza i più grandi
dolori, pena l’ostracismo, l’allontanamento, la solitudine, l’oblio.
Cercava il punto di partenza e , forse, l’aveva trovato, minacciata da un fenomeno
sconosciuto che stava per inghiottirla, sequestrata e odiata da una parte di sé, corrosa
nel corpo da un roditore instancabile; era troppo tardi?
Era stanca, avrebbe voluto una sigaretta ed un gin tonic per fermarsi un attimo fino a
quando l’alcool non avesse allentato la tensione; sapeva di aver trovato la frattura
spazio-temporale che aveva cambiato dimensione alla sua vita, ma come poteva
tornare indietro senza uccidersi, senza annullare tutto ciò che era diventata grazie a
quel giorno ormai così chiaro nella sua mente?
Pensava a Paolo, a come aveva saputo ripetere all’infinito il trauma fino a farla
dissociare totalmente da Barbara: vedeva adesso chiaramente la distanza fra i suoi
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comportamenti e le sue parole, una distanza voluta, cercata, come nella telefonata di
oggi.
Le aveva detto un giorno che amare qualcuno era come consegnargli in mano
un’arma carica: lei lo aveva fatto e lui aveva sparato senza pietà, con il gusto del
colpo che ti ferisce ma non ti uccide, assaporando il sale delle inevitabili lagrime di
coccodrillo che sempre seguono il misfatto.
Trovò immediatamente quello che cercava, ormai quella caverna non aveva segreti
per lei: l’aveva scritta dopo la perdita del bambino e si adattava perfettamente a
Paolo, visto che lei non aveva fatto altro che ripercorrere giorno per giorno la stessa
strada con scenografie sempre diverse attraverso cui aveva nascosto a se stessa ogni
verità, ogni paura, ogni sentimento:
Uomo
dai perfidi pensieri
dalle mani tese
solo per scavare
nelle mie ferite
e cogliere
il denso umore
della tua vittoria
e della mia sconfitta.
Belva
dagli artigli graffianti
in cerca della preda
da lacerare
squartare
e lasciare lì
in agonia,
per sentirla rantolare
in cerca di quell'attimo
di vita che sfugge.
Iena
mentre sento la tua risata
il ghigno feroce
del sadico artefice
della mia sofferenza.
Dio mio, che cosa aveva fatto a se stessa e a Barbara? Come aveva permesso a
quell’uomo di usare quell’arma senza pagarne il prezzo, come aveva potuto
dimenticarsi e perdersi nella sua fame di conferme?
E ancora l’amava. E ancora sperava che fermasse quel buco nero che inghiottiva tutto
e che le restituisse tutto ciò che aveva carpito con l’inganno; ma non l’avrebbe mai
fatto, come non l’aveva fatto sua madre che aveva spinto la sua sete di possesso fino a
limiti non consentiti, come non l’avrebbe fatto Barbara, né Andrea, né Nicola, né
Mauro, né tutti coloro che avevano desiderato possedere quell’arma ma non
l’avevano mai avuta.
Laura pianse a lungo mentre la stanza accanto a lei pulsava come una supernova,
mentre tutto intorno a lei sembrava pronunciare la parola fine. Pianse la sua vita così
scombinata alla ricerca di un perché che non serviva a nulla. Le aveva detto ti voglio
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bene ed era ancora una volta sparito con la canna della pistola fumante ed
un’espressione contrita sul volto.
Laura cadde sul pavimento a pochi centimetri dal buco nero e, prima di perdere
definitivamente i sensi, si augurò di scomparire lì dentro e di non dover sopportare
mai più la fatica di vivere.
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CAPITOLO VIII
Nicola sedeva composto al tavolino di un bar sul lungomare, il suo abbigliamento era,
come al solito, impeccabile, il suo fisico asciutto con i muscoli ancora scattanti sotto
la pelle. I capelli brizzolati gli conferivano un’aria di signorilità che era mancata
all’insieme durante la sua giovinezza.
Conosceva Laura da molto tempo e, diverse volte nell’arco degli anni, le loro vite si
erano incontrate anche solo per brevi, ma sempre intensi, attimi.
Solo qualche giorno prima Laura gli aveva detto, dopo il loro ultimo e fortuito
incontro, che la loro storia ormai ventennale era caratterizzata dalla loro capacità di
ritrovarsi sempre nel momento sbagliato per uno di loro. Nicola era totalmente
d’accordo con quell’analisi e adesso doveva essere il momento sbagliato per Laura,
visto che per lui molti ostacoli non esistevano più.
L’aveva trovata diversa, irriconoscibile: era sempre stata una donna dall’aria un po’
dimessa, le spalle volontariamente curve quasi a nascondere l’avvenenza, lo sguardo
sfuggente, gli occhi bassi, le mani che si intrecciavano nervosamente ed una capacità
di accendersi, ingigantirsi, espandersi con forza, insinuandosi in tutti gli anfratti, nel
momento in cui iniziava a parlare. Aveva sempre percepito in lei la volontà di
autopunirsi per un atavico peccato, di cadere sotto i colpi degli dei per scontare la
hybris – Nicola si lasciava spesso andare a citazioni erudite con la soddisfazione di
chi spiazza l’avversario con quattro colpi studiati e ben assestati – la tracotanza di chi
ha pensato di essere artefice del proprio destino, di chi sa di portare questo peccato
nel codice genetico come un marchio indelebile, come il peccato originale.
Era una costante di tutte le religioni – pensava Nicola – e, quindi, una costante
dell’umanità, la volontà di flagellarsi per le colpe ereditate dalla lunga e fortuita serie
di mitosi e meiosi, quasi a voler scaricare la responsabilità del proprio destino su
fenomeni indipendenti dalla propria volontà.
Ma Laura andava anche al di là di questa legge non scritta, Laura pensava di dover
pagare per ogni colpa dell’umanità e della natura, per ogni istinto e per ogni
ragionamento, per ogni alito di vento che soffiava sulla sua città ed in qualsiasi altra
parte del mondo.
L’aveva attratto in lei questa sorta di vulnerabilità unita ad una personale ed
innegabile forza ed aveva sposato una causa; non sapeva se fosse amore o meno – si
chiedeva spesso il significato della tanto abusata parola amore – ma sapeva che Laura
gli dava un ruolo, un significato che nessun’altra poteva dargli.
Aveva sempre saputo che lei non era consapevole di amarlo, ma che aveva bisogno di
lui per sopravvivere. E non poteva forse essere questo l’amore?
Ma adesso non la riconosceva più: ostentava una sicurezza di sé ed una padronanza
del proprio corpo che lo disarmavano. Era lei la donna con le spalle dritte, la
camminata ancheggiante ed una femminilità manifesta che si avvertiva a diversi metri
di distanza? L’aveva seguita fra gli scaffali di un supermercato senza nemmeno
riconoscerla ed ancora adesso stentava a credere che fosse lei.
C’era qualcosa in Laura che gli era sempre sfuggito, qualcosa di inafferrabile e
sempre diverso ogni volta che si erano incontrati, ma il tutto si era sempre risolto in
un appuntamento mancato, una promessa non mantenuta e, forse, anche questa volta
sarebbe stato così.
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Nicola accese distrattamente una sigaretta e scivolò leggermente sulla sedia. Pensava
all’espressione di Laura in quelle settimane ogni volta che si vedevano: Nicola
leggeva chiaramente nei suoi occhi e nell’espressione del suo viso che la mente era da
un’altra parte e, in determinati momenti, era come se lo fosse anche il corpo. Cercò di
definire meglio questa sensazione e pensò che poteva spiegarla con la presenza di un
tarlo nascosto, di qualcuno che fastidiosamente la rosicchiava dall’interno e il cui
rumore di affamate e robuste mascelle si avvertiva distintamente anche all’esterno.
Si chiese se dovesse agire in qualche modo, spingere Laura a parlare, ma concluse
che l’attesa era l’unica soluzione possibile: Laura avrebbe scelto ciò che la faceva
stare bene e chi la faceva stare bene era lui.
Prese il telefonino e compose il numero di Laura.
Barbara disse ad Esther che era arrivato il momento. Adesso dovevano agire per
distruggere Paolo, Esther aveva, nel piano di Barbara, una funzione di spalla: doveva
telefonare a Paolo ininterrottamente per motivi di lavoro in modo tale da controllare i
suoi movimenti e da riportare la sua attenzione su Barbara. Non era una parte difficile
ed Esther assecondava Barbara nella speranza che lei e Laura potessero liberarsi
definitivamente di quell’uomo che lei considerava “osceno”, come se la sua sola
presenza potesse sporcare il mondo. Non provava nessuna pietà per quell’essere che
tanto sembrava affascinare Laura e Barbara – anche se in modo diverso – e
desiderava che scomparisse presto perché nella sua musica lui era una nota stonata,
uno strumento pleonastico. Esther odiava tutto ciò che inutilmente appesantiva
l’esistere.
Quando squillò il telefono Barbara era immersa nell’attesa dell’ora stabilita con
Paolo; provava una strana eccitazione e, sconosciuta in lei, anche una punta sottile di
rimorso per le sue intenzioni. Rispose infastidita con un sì secco e professionale, ma
la sua voce divenne dolce al suono della voce di Nicola. Vuoi un caffè? – Sì, grazie –
Ti aspetto al tuo bar fra dieci minuti? – Mi metto qualcosa addosso e arrivo.
Mentre si vestiva Barbara ripensava all’incontro con Nicola: era la vigilia di Natale e
lei era passata al supermercato dieci minuti prima della chiusura per comprare un
regalo e qualche bottiglia per i giorni bui che la aspettavano. Era stata lei a fermare
Nicola ed ancora ripensava con un certo brivido di piacere al modo in cui lui l’aveva
guardata. Barbara era nata al mondo soltanto qualche ora prima e già aveva preso
possesso del guardaroba di Laura – da cui aveva tirato fuori vestiti lasciati nei cassetti
per anni – della casa di Laura, degli uomini di Laura, della vita di Laura.
Laura provava sempre un’indicibile vergogna di esistere e limitava l’esibizionismo di
Barbara in un modo insopportabile; ma adesso era finalmente rinchiusa in quella
gabbia molliccia e vischiosa dove lei era stata confinata per quasi trent’anni e,
finalmente, lei poteva esprimere tutta la sua fisicità e le sue emozioni senza remore.
Avrebbe sedotto Nicola, e Paolo, e chiunque altro le fosse garbato, senza paura del
peccato, senza paura delle conseguenze. Per un attimo la sua mente si fermò alla
parola “conseguenze”, ma la sua ristretta volontà di pensare passò al di là di quelle
immagini in bianco e nero e di quel cuore che pulsava.
Si cosparse di crema profumata, si gettò addosso un apparente abbigliamento per tutte
le occasioni ed uscì fuori da casa senza nemmeno pensare al cibo dei gatti, pronta a
possedere Nicola e poi Paolo per non essere mai realmente di nessuno.
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CAPITOLO IX
Laura aprì gli occhi improvvisamente in un’atmosfera surreale. Si era ormai abituata
alle variazioni dell’ambiente che la circondava, ma questa volta qualcosa era diverso:
una nebbiolina translucida si fermava sospesa a mezz’aria e il mondo non sembrava
avere contorni. Strie luminescenti attraversavano a tratti quella che solo per
consuetudine poteva definirsi aria ed ogni immagine sembrava rifrangersi sul prisma
postmoderno della crisi del Novecento.
In quello che forse avrebbe potuto definire un rigirarsi si accorse che una parte del
suo corpo era rimasta al di là. Ma al di là di cosa? Laura non avrebbe saputo dirlo, ma
le sembrava di essere passata attraverso uno specchio d’acqua: vedeva il mondo dal di
fuori e dal di fuori osservava la parte del corpo che restava saldamente ancorata
dall’altro lato.
Aveva desiderato cadere nella follia e sentiva che era finalmente successo, ma
qualcosa in lei la saldava al mondo reale: il nome Paolo le diceva qualcosa, portava il
suo corpo fra il fondo di quello che era fino ad ora il buco nero e l’ammasso di
neuroni inutili e dannosi che l’aveva ospitata fino a quel momento.
Dove la portava Paolo? Di qua o di là? Cis o trans, che fosse quello l’unico dilemma
della vita? Proprio l’unica cosa a cui lei non avrebbe mai saputo trovare una risposta.
Dov’era il limite? Quando una cosa era “troppo”? Quando il sentire era “eccessivo”,
“pesante”? Chi aveva stabilito quella linea di demarcazione su cui lei ora oscillava
felicemente e paurosamente?
Doveva decidere di saltare?
Saltò.
Repentinamente sganciò tutto il suo corpo dalla melma fisica e pesante e si ritrovò
sospesa in un etere presocratico, leggero e completo in ogni singola particella,
completo del tutto e nel tutto e galleggiò felice in quella sorta di follia senza tempo,
lontana da Barbara, da Paolo da Nicola, da Esther già così leggera ma anche lei
pesante in confronto a quella totale comprensione.
E lì lo vide, quasi dodicenne ormai, un’ombra di peluria sulle labbra ancora infantili,
un’espressione interrogativa sul volto, una fronte spaziosa ed una molle compostezza
nel poggiarsi su un piede nella plastica posa che lei aveva inconsciamente avuto per
tutta la vita.
Lo aveva cercato sempre nei volti dei bambini e, poi, in quelli dei suoi alunni; aveva
cercato il suo nome che non era stato mai deciso, il suo sguardo e, soprattutto, il suo
perdono ed ora era lì, a volte intero, a volte frantumato in milioni di particelle, filtrato
dai giochi di luce che sembravano essere l’unica dimensione del posto in cui ora si
trovava.
E vide, nello spazio che la separava da lui, la pochezza della razionalità,
l’insignificante presenza di Paolo, la nullità di Barbara, il proprio stupido affanno nel
tentare di conformare la realtà alla sua visione.
La realtà era un concetto, un nome astratto, la realtà della sua follia era esattamente
uguale alla realtà della pseudo-normalità di Barbara, l’unica cosa vera era il sentire,
era l’amare.
Amare... ricordava varie definizioni, ma l’amare cos’era? Kundera aveva scritto che
era “un continuo interrogare” e lei era stata irretita da questa ultima ed esaustiva
- 30 –
definizione, ma in realtà l’amare era forma costitutiva dell’essere: si smetteva di
essere quando si smetteva di amare e non si poteva essere se non per amore.
Laura si mosse verso di lui – se mai poteva definirsi muoversi quel passare da uno
stato mentale ad un altro. Dentro il buco nero in cui era stata inghiottita non c’era la
morte, la cancellazione, come Laura aveva pensato vedendolo avanzare
minacciosamente verso di lei: le cellule cambiavano stato diventando pura energia;
nella follia era la dimensione assoluta di Laura, c’era la perfetta coincidenza fra
pensiero e realtà. Non accadeva nulla lì dentro che Laura non avesse volontariamente
pensato – con Barbara in un’altra dimensione l’involontario non esisteva più – e solo
il suo pensiero era reale. Qui il figlio che aveva tanto cercato era nato e vissuto
felicemente, da qui nessuno poteva farla uscire senza la sua volontà, nessuno poteva
più rosicchiarla, divorarla, inghiottirla. Giustificava la reverente paura del mondo nei
confronti della follia perché un folle non è manipolabile, un folle giustifica la propria
follia con la stessa follia e non può essere accusato più di nulla, non può essere più
raggiunto da nessuno dei tentativi di coercizione implicita della società: un folle
viaggia sui binari privilegiati di una realtà diversa e non può essere toccato da nulla.
Si accorse che non le importava più di cosa stessero pensando dall’altro lato: se
davvero avessero desiderato di parlare con lei e di lei avrebbero dovuto raggiungerla
lì dentro con il suo assenso e, non potendo occupare nessuno spazio, perché spazio
non c’era, non avrebbero più potuto tentare di privarla dell’aria, di appiattirla su una
dimensione di “normalità”, parola che spesso nascondeva il vero significato di
controllo, assoggettamento, vessazione.
Il mondo le aveva fatto del male, l’aveva profondamente umiliata e offesa
smantellando con solerte dedizione la sua anima e il suo corpo e lei, dal suo nuovo
punto di osservazione, non riusciva a comprendere perché, se davvero avevano
pensato che lei fosse del tutto sbagliata, non fossero andati via invece di cercare di
possederla, di domarla, di amputare ad uno ad uno tutti i suoi pensieri per non dover
fare i conti con la sua esistenza.
Le sembrava di comprendere adesso che il mondo l’aveva sempre vista come la
vedeva Paolo: uno specchio che rifletteva come nessun altro le immagini desiderate,
ma che con il passare del tempo – come il ritratto di Dorian Gray – incominciava a
mostrare tutte le brutture fino ad allora celate con attenzione. Non andavano via
perché lasciare che quello specchio continuasse ad esistere significava essere
consapevoli dei propri lati oscuri, mentre rompere lo specchio dava loro l’illusione
che ciò che avevano visto non esisteva più.
Ora l’avrebbero lasciata in pace: poteva riflettere qualsiasi immagine perché era folle
ed un folle non è credibile anche se dice la verità; la loro coscienza autopurgante non
aveva più nulla da temere.
Con questa nuova consapevolezza Laura si abbandonò al piacere dell’inconsistente
peso dell’etere in cui era immersa e, senza più paura di impazzire – l’evento tanto
temuto e cercato si era già verificato – aprì il cassetto dei ricordi proibiti per
affrontarli con nuova forza e poter scegliere la sua prossima strada, libera da ogni
peso morto, da ogni zavorra.
L’immagine di Andrea si delineò accanto a quella di suo figlio senza provocarle
dolore.
- 31 –
CAPITOLO X
Barbara ebbe all’improvviso la sensazione di essere rimasta sola. Non sentiva più la
presenza di Laura, il rumore di sottofondo che le impediva di ascoltare con piacere la
musica della sua vendetta.
La sensazione che provava non era, però, quella sperata: aveva desiderato distruggere
Laura per sentirsi libera e senza sensi di colpa, ma adesso si trovava a far fronte ad
una situazione imprevista. Il fatto di avere una coscienza esterna le aveva consentito
fino a quel momento di non possederne una propria, ma ora sentiva crescere in lei un
piccolo fastidio, una piccola punta di quello che, forse, si sarebbe potuto chiamare
rimorso.
Così, mentre guidava per raggiungere Nicola, pensava che con le sue scelte avrebbe
potuto fare del male a lui ed a Paolo. Scacciò dalla mente questo pensiero e si guardò
nello specchietto retrovisore della macchina: era la stessa di sempre, lo sguardo
deciso e arrogante, ma ora mancava qualcosa al suo viso: sotto la trasparenza della
pelle la sensibilità di Laura aveva emanato luce, adesso Barbara si vide invecchiata, le
rughe scavate, l’espressione cinica e dura.
Non le piaceva ciò che vedeva e provava, ma non avrebbe saputo darsi spiegazioni,
non era abituata ad analizzare e Laura non c’era più per darle delle dritte.
Nicola era davvero bello seduto al tavolino del bar. “Che peccato non amarlo” pensò
Barbara e trasalì: aveva davvero parlato d’amore? Lei non aveva mai pensato
all’amore e per questo Paolo o Nicola erano in fondo la stessa cosa, ma adesso, ad un
passo dalla realizzazione dei suoi sogni, con Laura lontana, nel corso di una
magnifica e studiata vendetta, eccola cadere nel più stupido e distruttivo dei
sentimenti. Cosa doveva fare? Sarebbe diventato pericoloso per lei? Provava già la
dolcezza del crogiolarsi nelle malinconiche riflessioni su Paolo e questo la rendeva
troppo simile a Laura, proprio alla Laura che aveva tanto disprezzato e che aveva
confinato in una trappola in cui la scelta era perdersi nel passato o rifugiarsi nella
follia.
Barbara non aveva ancora la piena comprensione del fenomeno che stava vivendo:
come una stella marina stava rigenerando la parte amputata. Laura era scomparsa e lei
si stava sdoppiando ancora ricreando l’organo mancante.
Non aveva mai pensato che Laura fosse indispensabile alla sopravvivenza, credeva,
anzi, che lei fosse l’origine di tutti i mali. Aveva letto nello sguardo di Esther, nel
giorno del loro patto di sangue, la consapevolezza che la scissione definitiva avrebbe
provocato la morte di entrambe, ma l’aveva ritenuta un’ipotesi improbabile di una
ragazza ancora ingenua.
Ed eccola lì, invece, ad un appuntamento con un uomo bellissimo pronto ad
accoglierla, mentre è in atto una trasformazione profonda che la squarta dentro con
sentimenti sconosciuti e affilati come lame di un rasoio.
Barbara sedette al tavolino di Nicola cercando di mascherare la propria nuova
fragilità, ma lo sguardo attento, posato distrattamente su di lei, la spinse a credere che
Nicola avesse già capito tutto. Arrossì violentemente come mai avrebbe pensato di
fare.
Nicola l’aveva vista arrivare da lontano ed in quella persona apparentemente
conosciuta da tanti anni aveva riconosciuto un altro sostanziale ed impercettibile
mutamento. Si muoveva fra i tavolini decisa ed altera come l’ultima volta che si erano
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incontrati, ma in lei c’erano una femminilità ed una debolezza malcelata che
trasparivano dal flessuoso ondeggiare del corpo. Nicola comprese che l’aveva
nuovamente perduta e scambiò con lei qualche chiacchiera formale ed un paio di frasi
monche su possibili appuntamenti. La lasciò andare via con grazia ed un pizzico di
rimpianto. Dopo qualche secondo rifletteva sulla scaletta rigorosa della sua giornata:
16,30 ritirare i vestiti alla smacchiatoria, 17,00 appuntamento con il commercialista,
18,30 telefonata al suo amico, 19,00 ultimo orario con un margine di una mezz’ora
per ritirare quei documenti importanti, ore 21,00... constatò con disappunto che Laura
aveva lasciato un buco. Prese l’agendina dalla tasca della giacca e scorse la rubrica
alla ricerca di un nome da inserire in quello spazio imprevedibilmente vuoto.
- 33 –
CAPITOLO XI
Laura fluttuava nel tempo e nello spazio in una contemporaneità di eventi che non le
era estranea: nella sua vita normale aveva sempre vissuto su più dimensioni,
collegando sempre l’attuale al remoto e al prevedibile futuro, ma mai era stata così
drasticamente gettata nella continuità degli attimi, mai così consapevole dell’assoluta
arbitrarietà dei concetti di prima e dopo, di causa ed effetto. Lì, insieme ad un
adolescente mai nato, stavano contemporaneamente Andrea e Paolo e lei era
completamente indifferente ad entrambi perché nessuno di loro poteva andare o
venire nella sua vita, nessuno di loro poteva mutare una dimensione senza spazio e
senza tempo. Questa consapevolezza le consentì di fermarsi ad osservare senza
timore.
Andrea le sorrideva come sempre, con quel sorriso accattivante ed egoista di chi sta
cercando di ottenere qualcosa; lei lo osservò con attenzione per ritrovare quello che
aveva provato per lui.
Si sforzava di ricordare che cosa amasse di Andrea e la risposta le si presentò strana e
inaspettata: “i polsi”. I polsi forti e robusti di Andrea: quando non riusciva più a
tollerare la sua presenza Laura fissava i suoi polsi con decisione e perseveranza fino a
quando la sensazione di sicurezza che le davano non si estendeva a tutto il suo corpo
e lei poteva ritornare ad amarlo. Ma era amore? O era un’ossessione?
Andrea e Paolo: spesso aveva messo in relazione la sua percezione dei due uomini per
ricercare il nesso, la costante che manteneva ferma la rotta della sua vita. Ma, a parte
il fatto che entrambi l’avevano spesso fatta soffrire, non riusciva a trovare nessun
punto in comune fra i due.
Aveva voluto Andrea come si vuole un giocattolo. Lo vedeva ogni giorno in vetrina,
ma non era in vendita, era “merce in esposizione”. Lui non l’aveva mai guardata
come una donna e, a quei tempi, Laura non tollerava di essere invisibile per qualcuno.
Ricordava con disgusto i mesi in cui aveva portato a termine la sua operazione di
conquista in una battuta di caccia che era durata più di un anno: poteva attirarlo solo
con il corpo e lei odiava il suo corpo, odiava esporlo, mercificarlo, usarlo. Ma era
necessario con Andrea, lui sentiva solo la materia, era un essere carnivoro, attratto
solo dall’odore della preda.
Alla fine era riuscita nel suo intento e, come premio finale del safari, aveva riportato a
casa l’attitudine al bere per riuscire a gettare il suo corpo nella mischia dell’umanità
ed il profondo dolore della perdita di un figlio.
Era stata ossessionata da Andrea e l’aveva inseguito per quasi due anni
disprezzandolo come uomo e amandolo come “padre di suo figlio”: per Laura solo lui
avrebbe potuto risarcirla della perdita dandole un altro bambino.
Ma adesso era tutto risolto, adesso non c’era più la distanza incolmabile della morte
fra lei e quello splendido adolescente che non aveva mai visto, ma di cui conosceva
ogni singola piega della pelle, ogni neo, ogni espressione del viso, ogni pensiero.
Si accorse che non desiderava Andrea in quella scena, lo trovava volgare e la sua
fisicità, verso cui un tempo aveva avuto un sentimento dicotomico, la disgustava
profondamente. Lo vide trasformarsi davanti ai suoi occhi in un ammasso di
escrescenze carnose che fuoriuscivano da ogni parte del suo corpo; anche i polsi, quei
polsi forti che un tempo erano stati il punto di unione dei loro desideri, si riempivano
di rotolini che bucavano la compattezza della pelle e si estendevano in vomitevoli
arzigogoli.
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Laura si girò su se stessa piena di orrore e Andrea scomparve, finalmente, per sempre.
L’immagine di Paolo si materializzò con dolcezza davanti a lei. Come al solito,
all’apparire di un pensiero collegato a lui, un sorriso si distese sul viso di Laura ed i
muscoli del volto, sempre contratti in una smorfia dura, si sciolsero per la sensazione
di estremo benessere.
Paolo, tanto odiato da Barbara e osteggiato da Esther, Paolo buco nero, follia, Paolo
Giano bifronte rivolto verso i sensi e verso la mente di Laura, Paolo fragile, Paolo
duro e crudele, Paolo pratico e Paolo cerebrale, Paolo che era il pezzo mancante della
sua vita.
Le loro anime e i loro corpi combaciavano alla perfezione in quella dimensione aspaziale e a-temporale, ma nella dimensione della realtà le spesse croste che si erano
formate sulle loro anime impedivano loro di incontrarsi, anche solo di sfiorarsi.
Barbara lo odiava e lo avrebbe ferito, forse ucciso e da lì dentro Laura non poteva
sapere cosa stesse succedendo, ma non voleva andare via, voleva rimanere nella follia
più che in ogni altro luogo: lì Paolo era ciò che lei aveva intravisto il giorno del loro
incontro, lì era protetta da ogni dolore, lì era il segreto della vita, l’energia, l’amore.
Perché avrebbe dovuto andare via? Forse perché lì tutto era più che reale, tanto da
non esserlo affatto? Forse per salvare Paolo e se stessa? Forse per ricostruire tutti i
pezzi sparsi della sua vita, riappropriarsi di Barbara e vivere pienamente? Forse per
dipingere lo scenario bianco donatole da Esther finalmente con i colori scelti da lei?
E se fosse tornata e Paolo avesse scelto di vivere senza di lei come avrebbe potuto
superare ancora una volta l’assenza?
E dove avrebbe potuto trovare la forza per uscire da quel buco nero e poi dalla zona
oscura del suo cervello? L’amore – pensò – l’amore è la forza che spinge il mondo:
sarebbe tornata spinta dall’amore che adesso sapeva di provare per Paolo, un amore
non così struggente, ma molto più intenso, un amore che era vita, l’unica vita
possibile.
Aveva iniziato un viaggio ed era arrivata alla meta e la meta l’aveva inghiottita. Ma
era davvero quella la meta? O quello era solo l’inizio di un altro viaggio, il viaggio di
ritorno, la cui meta era sempre lei, ma una lei diversa, una lei per cui la vita sarebbe
ricominciata il giorno dell’arrivo.
Fece un paio di capriole nell’etere e si rannicchiò in posizione fetale per pensare.
Doveva approfittare del tempo che la situazione le concedeva per dipingere il suo
scenario e costruire la sua parte per il rientro, doveva ricordare e cancellare, doveva
fare pulizia ed affrontare il fatto che di se stessa conosceva poco e niente nonostante
tutte le sue capacità di analisi, nonostante tutta l’attenzione che aveva sempre
dedicato ad ogni suo movimento nel mondo.
Le sembrava che la sua vita fosse stata solo una preparazione a quel bivio: da una
parte l’inesorabile costanza degli istinti, l’abbandono, la privazione; dall’altra il
rischio, il rimettersi in gioco, il cambiare il corso degli eventi che la riguardavano.
Doveva attendere che Barbara rompesse la gabbia che divideva lei e Paolo; doveva
attendere di averlo lì, dall’altro lato del buco nero che era parte di lui; doveva
attendere che lui e Barbara la richiamassero indietro – nessuno esce solo dalla follia.
Probabilmente – si disse – avrebbe atteso invano.
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CAPITOLO XII
Paolo era rimasto a lungo sdraiato sulla barca e, nel frattempo, era scesa la sera
insieme ad una nebbiolina umida che si posava sulle cose imperlandole di salsedine.
Aveva pensato a lungo e senza sovrapporre al fluire dei pensieri un filtro di
razionalità. Aveva ripercorso la storia con Laura dal primo giorno del loro incontro,
anzi, da molto prima, dalla loro prima conversazione telefonica.
Aveva avuto già da allora la sensazione nettissima che si sarebbero conosciuti un
giorno ed aveva fantasticato su possibili scenari completando con l’immaginazione il
mosaico che si stava componendo davanti ai suoi occhi.
Non avrebbe saputo dire né ora né allora che cosa aveva reso quelle telefonate diverse
dalle tante altre sue telefonate di lavoro con il sesso femminile: la stessa galanteria
consuetudinaria, le stesse risatine di convenienza alle presunte battute di spirito, ma,
strisciante come un soldato che cerca di penetrare nel campo nemico, avanzava il
desiderio di ritrovare se stesso in una dimensione a cui aveva rinunciato da più di
dieci anni.
Quando l’aveva vista per la prima volta si era trovato catapultato dentro un vortice
che non comprendeva: era già geloso di lei e già avrebbe voluto possederla, entrare in
lei, appropriarsi del suo spazio ed occuparlo con lei, mentre osservava un inconsueto
rossore che si diffondeva lentamente e inspiegabilmente sul viso di Laura, sul suo
collo e, forse anche su tutto il corpo.
Era stato accecato da una luce troppo forte: non era la luce di Laura, ma quella che
era entrata dentro di lui appena aveva riaperto la porta che aveva blindato undici anni
prima. Laura era solo un mezzo? O senza di lei quella porta non avrebbe mai potuto
riaprirsi? Paolo aveva cominciato a porsi queste domande dopo qualche giorno di
insana passione. Si ricordava perfettamente di aver guardato Laura e di averla trovata
improvvisamente insignificante, una donnina innamorata come tante altre. All’inizio
lei era chiusa in un doloroso e misterioso isolamento e lui aveva desiderato scoprirla,
strapparle ogni segreto e nutrirsene. Ma lei gli si era affidata forse troppo presto e lui
aveva incominciato a credersi vittima di una truffa: forse aveva acquistato merce
scaduta di cui non sapeva più come sbarazzarsi.
Laura si era difesa con pazienza e perseveranza, aveva tollerato, urlato, pianto,
perdonato, blindato le sue porte, concesso la combinazione della sua cassaforte ed era
stata sul punto di impazzire.
E ad ogni gesto Paolo aveva provato pena e poi fastidio, fastidio per essere stato
ingannato, per la delusione di avere una donna normale invece che una folgorante
stella, fastidio per i suoi problemi, per i suoi vestiti sempre uguali, per la sua casa con
i vetri rotti, per la sua vita sempre in corsa, per la sua aria di perdente. E lui odiava i
perdenti.
Laura sentiva Paolo pensare. Scopriva lentamente le potenzialità del luogo in cui si
trovava ed uno dei vantaggi della follia era la capacità di comunione con l’universo.
Laura si immaginava come uno sciamano che penetrava la foresta dei pensieri di
Paolo percorrendola con la leggerezza e la silenziosità di una pantera.
Assorbiva i pensieri di Paolo e li fondeva con i suoi: ricordava con il distacco di chi
ha smesso di soffrire per gli accadimenti fortuiti ed è arrivato alla fine di un percorso.
Laura ricordava e Paolo improvvisamente sentiva Laura pensare dentro di sé.
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Paolo – pensava Laura – era stato più invasivo degli altri e l’aveva collocata su uno
scenario che non si poteva definire nemmeno teatrale: era l’Opera dei Pupi e
Angelica-Laura si poteva muovere avanti e indietro in un piccolissimo spazio, con lo
sguardo fisso del burattino ed i movimenti sempre uguali provocati dai fili che lui
muoveva a suo piacere. L’aveva privata anche del ruolo di attrice, di qualsiasi
possibilità di esprimersi realmente: non le aveva dato una parte, un copione da
recitare in cui lei avesse almeno la possibilità di interpretare, ma la muoveva lui di
volta in volta in modo estemporaneo e lei aveva perso tutto. L’unica possibilità che
aveva avuto, adesso lo sapeva, era stata quella di uscire fuori da ogni parte, da ogni
ruolo, da ogni teatrino, scena, commedia ed entrare in quelle sabbie mobili in cui ora
si trovava per farsi inghiottire e riprendere il possesso di sé.
Paolo ebbe un brivido di freddo. Aveva sentito qualcosa di strano dentro, si era per un
attimo guardato con gli occhi di Laura ed aveva provato orrore. Cancellò l’immagine
dalla mente e si coprì meglio: dovevano essere il freddo e la nebbia – pensò – ma non
voleva andare via, voleva rimanere a farsi cullare dal mare in mezzo a tutti i familiari
rumori del porto.
Osservò le luci della città, erano così diverse viste dal mare e avrebbe saputo dare un
nome ad ogni tetto che vedeva spiovere su un altro tetto in una catena infinita e
disordinata tipica di Catania. Era stato bello qualche volta contarli assieme a Laura,
lei era così insolitamente romantica ed allo stesso tempo rude, sarcastica nei confronti
della sua debolezza sentimentale. Era una donna ingombrante, un’antenna che
captava ogni segnale e lo amplificava fino a renderlo insopportabile ad un orecchio
umano. Era dolce e bella quando spegneva l’interruttore e smetteva di pensare, ma ciò
accadeva sempre più di rado. Paolo pensava di essere stato molto comprensivo e non
riusciva a perdonarle di averlo strappato ad una vita tranquilla e normale.
E tutte quelle lettere! – disse ad alta voce Paolo – Quella mania di scrivere, di
esporre, di scandagliare, di voler sapere a tutti i costi anche ciò che è meglio
nascondere fino a quando non ci si convince che non c’è mai stato. Lui era maestro in
questo, lo riconosceva, ma aveva imparato a sue spese che cosa significava
abbandonare la strada della normalità: si ritornava indietro con la coda fra le gambe e
stavolta non sarebbe successo. Era inutile interrogarsi in continuazione, nella vita
siamo tutti impreparati sul passato, sul presente e sul futuro: non c’è ricordo che non
sia distorto dalla nostra percezione attuale delle cose, non c’è azione che non risenta
delle nostre esperienze e delle nostre paure, non c’è speranza che non sia minata alla
base dalla pigrizia del quieto vivere.
Laura era destabilizzante. Questa definizione apparve improvvisamente alla mente di
Paolo come un’illuminazione, come un rifiuto definitivo, come una condanna a morte
senza appello. Laura era sempre “in cerca di”, Laura non conosceva la pace, il riposo
dell’accettazione incosciente della vita, Laura doveva sapere sempre, Laura preferiva
il dolore ad un finto piacere, Laura chiedeva, Laura indagava, Laura scavava, Laura
corrodeva e si corrodeva, Laura spingeva sempre avanti. E lui oggi voleva restare lì.
Voleva restare lì – questa frustata di verità lo colpì con una forza che lo sorprese –
voleva restare lì nella sua vita, nella sua barca, nel suo studio con il mappamondo ed i
libri di viaggio, nella sua casa su due livelli con i suoi affetti su due livelli, con la sua
depressione sotto controllo, con i suoi figli presentati lindi nel corpo e nell’anima da
una moglie asetticamente a prova di bomba nel suo ruolo.
E provava l’impulso di liberarsi di quel peso sul cuore e sullo stomaco, di quella voce
sempre presente nella sua mente, di quella donna che non si accontentava di vivere la
vita che le era concessa, ma inseguiva e seminava follia con le sue domande.
- 37 –
Laura-pantera-sciamano percorreva la strada dei pensieri di Paolo assieme a lui e il
volto della splendida foresta tropicale in cui entrambi si trovavano si modificava al
loro passaggio. Le piante verdissime dalle larghe foglie si aprivano mostrando fauci
affamate, lei si muoveva, affusolata e nera, senza toccare più il terreno che si
riempiva di grovigli di serpenti velenosi, secolari baobab mostravano alla radice segni
di marciume che facevano presagire un imminente crollo, alberi con le liane
intrecciate fino a formare un unico corpo esteso per tutta la foresta allungavano i rami
verso il basso e lateralmente a creare un invalicabile muro che li stringeva, che
uccideva ogni forma di vita non tollerata dal sistema. Il sistema aveva scelto: nessuna
velleità dell’anima avrebbe spezzato l’equilibrio, nessun pezzo sarebbe stato distrutto
o sottratto dalla presenza di Laura. L’amore non esiste – si ripeteva Paolo – e l’eco di
queste parole risuonava rimbalzando di tronco in tronco, di stelo in stelo, di fiore in
fiore, si insinuava fra le liane, in mezzo ai serpenti e inseguiva quell’ombra nera che
si era infiltrata nella sua testa spingendola fuori, per sempre fuori.
Laura con un balzo si levò al di sopra di quell’intrico e si ricongiunse al suo corpo
prima di essere ferita o uccisa all’interno di quella gabbia che Paolo aveva
nuovamente ricostruito e serrato con cieca volontà.
Paolo si alzò stremato. L’aveva sentita andare via e adesso avvertiva una sensazione
di calma e di vuoto che copriva di vernice nuova e brillante tutte le parti corrose
dall’angoscia provata fino a cinque minuti prima.
Scese in cabina e andò a guardarsi allo specchio: era abbronzato, piacevole
nell’aspetto, ricco, sufficientemente colto, apparentemente perfetto modello Briatore,
ma, fino a quel momento, con una luce negli occhi, segno della speranza di essere un
giorno qualcos’altro. Si osservò con attenzione per vedere se la sua scelta di oggi
avesse cambiato qualcosa in lui, se l’aver gettato fuori Laura e con lei tutte le
domande scomode, lo avesse per sempre confinato in quel ruolo. La luce negli occhi
si spegneva lentamente e Paolo pensò che si stava facendo influenzare dai pensieri di
Laura, ma allo specchio, sul fondo della sua pupilla, dietro la patina di benessere così
abilmente conservata a discapito di tutto e di tutti, vide chiudersi il varco che si era
aperto in quella gabbia circolare dentro cui girava da tanto tempo.
Provò sgomento per il futuro che aveva scelto e, allo stesso tempo, sollievo: nella
costanza degli istinti per lui non era più tempo – o non era ancora tempo? – per
vivere.
Si lasciò cadere sul divanetto e la sua barca gli sembrava piccola e povera, forse
troppo poco per rinunciare ad una vita diversa.
Rifletté a lungo su questo e decise che doveva comprarsene una più grande.
- 38 –
CAPITOLO XIII
Mentre Laura balzava fuori da Paolo e, ascoltando le sue ultime riflessioni, sorrideva
con un distacco simile alla pena, Barbara giungeva al porto con un quarto d’ora di
ritardo all’appuntamento.
Paolo l’attendeva sul pontile con aria arrogante e le fece immediatamente presente
che aveva solo pochi minuti e che, per favore, non facesse scenate.
Si preparava già ad una lite – sapeva che Laura detestava chi metteva vigliaccamente
le mani avanti – ma Laura lo stupì con un sorriso fra l’affascinante e il crudele.
Barbara alle parole di Paolo sentì svanire ogni forma di rimorso per i suoi propositi e
immaginò con gioia di riservargli un trattamento di pari crudeltà. Gli sorrise – e lei
sapeva che più che un sorriso era una miscela esplosiva fra un ghigno e una proposta
di sesso – e gli disse con voce calma e sensuale “Abbastanza per quello di cui
abbiamo bisogno stasera”.
Paolo rimase spiazzato, salì nuovamente sulla barca e fece salire lei che lo condusse
subito giù in cabina e, voracemente, sfogarono il loro desiderio di possesso l’uno
sull’altro.
Erano davvero passati pochi minuti e Barbara si rivestì velocemente dicendogli di
avere un appuntamento. Lo lasciò lì e, mentre saltava sul pontile, ebbe un momento di
rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e che non era stato. Scosse il capo e si
impose di proseguire nel suo piano: dentro di sé, poco prima, aveva sentito
l’avvertimento di Laura che, dal luogo in cui si trovava, tentava per la prima volta di
proteggerla manifestando un inaspettato affetto nei suoi confronti. Era bello
riavvicinarsi ancora a lei – si disse Barbara – ma non era ancora il loro tempo, né
come singole entità, né come unica e perfettamente fusa personalità.
Paolo rimase qualche minuto sdraiato. Le cose non erano andate come lui pensava e
quella Laura lo stupiva, gli sembrava innocua e perfettamente compatibile con il
modello di vita che aveva appena scelto. Ebbe un momento di rimpianto per l’amore
appassionato ed intensamente emotivo della Laura che aveva conosciuto fino ad oggi,
ma gettò via ogni ripensamento e si rimise a pensare alla nuova barca.
Barbara si allontanava dal luogo dell’appuntamento guidando velocemente, ancora
turbata da quell’incontro. Aveva sentito qualcosa mentre era con Paolo, uno
struggimento simile a chi si allontana per sempre dalla sua terra e ne respira gli odori
con la voluttà e la malinconia di chi sa che non li troverà mai più in altri luoghi.
Sapeva di aver commesso due stranezze quel giorno: aveva rinunciato a Nicola senza
motivo e aveva concesso una parte della sua anima a Paolo, all’uomo che lei odiava
più di ogni altro essere al mondo.
Forse erano segni di quei cambiamenti che si stavano verificando in lei dalla
scomparsa di Laura nel buco nero; anche l’avvicinamento a Laura era un segnale.
Inoltre sentiva la necessità di riflettere, di analizzare le situazioni in cui si trovava e le
emozioni che provava; l’istinto non era più sufficiente e spesso desiderava di potersi
riunire a Laura. Ma Laura era impegnata a svolgere un duro compito che le
riguardava entrambe: doveva ricostruire un’intera vita per loro due, doveva cercare le
origini, non più del male di vivere che le aveva separate, ma della loro essenza
- 39 –
costitutiva. Laura doveva ricomporre l’integrità della coscienza. Barbara aveva
comunicato con una Laura immersa nell’universo ed aveva compreso le proprie
responsabilità e la necessità di sopravvivere fino al suo rientro.
Per questo motivo era andata da Paolo: la vendetta era diventata secondaria per lei,
anche se continuava ad essere il motore che la spingeva, ma, in realtà, lei doveva
preoccuparsi di non lasciarlo andare via, di trattenerlo in attesa del momento in cui
solo lui avrebbe potuto far uscire Laura dalla dimensione in cui si trovava.
L’angoscia si impadronì di Barbara. Era per lei un sentimento sconosciuto e scoprì di
apprezzarlo come tale: era stata sempre certa della netta definizione degli eventi e non
credeva nel ruolo delle emozioni al momento delle scelte. Riteneva che fossero scuse
per i deboli ed aveva sempre ostacolato Laura instillandole innumerevoli sensi di
colpa.
Adesso provava qualcosa che si materializzava all’altezza del diaframma e pervadeva
la cassa toracica con la leggerezza di fumo d’incenso, qualcosa di indefinito e
struggente che sfumava la sua percezione degli eventi e rifrangeva la luce in miriadi
di goccioline simili alla nebbia di quella sera con Paolo. Si chiese che cos’altro avesse
perduto in quegli anni di separazione da Laura e provò molta pena per ciò che era
stato loro sottratto. Entrambe avevano una sensibilità estrema che avrebbe potuto
portarle ad una vita colma di emozioni complete ed insuperabili se non si fossero così
bruscamente separate. Barbara stava incominciando ad essere Laura e, forse, Laura in
quello spazio non definibile come spazio ed in quel tempo avulso da ogni tempo
sviluppava una Barbara dentro di sé.
Si sarebbero riunite, adesso Barbara ne aveva la certezza, con o senza Paolo
avrebbero continuato la vita insieme.
Laura era rimasta apparentemente sola ed ascoltava la voce di Barbara annuendo, ma
adesso doveva allontanarsi dal mondo reale, doveva portare la mente dalle foreste del
reale alle praterie dell’energia. Il passato era la chiave della sua esistenza, doveva
esaminare ogni cellula del suo corpo e trovare i segni di passaggi altrui, doveva
incamminarsi presto in quel viaggio per essere pronta all’appuntamento con il
destino.
Si insinuò con la mente all’interno di una rifrazione della luce e si trovò di fronte alla
zia Teresa. Non era come la ricordava in quella sera di marzo, composta nella morte e
spenta, priva della sua anima da tanto tempo da non averne più traccia sul viso come
nessun morto che lei aveva visto.
La morte non l’aveva mai spaventata, riusciva a scorgere tratti di vita nei visi ormai
freddi, poteva anche vedere un sorriso aleggiare sui volti, ma non sulla zia Teresa.
Non aveva nemmeno provato dolore, non riconosceva in quel corpo la donna che
aveva tanto preso a modello da bambina, da adolescente e, infine da giovane ragazza
in cerca di un’identità.
Aveva sempre ammirato una sua foto scattata intorno alla fine degli anni ’40 da cui
sorrideva una bellezza da diva hollywoodiana e si era spesso rimproverata di non
essere bella come lei.
La donna che aveva le fattezze delle zia Teresa era ferma all’età di quarantacinque
anni circa e la osservava con un’espressione di attesa disponibile. Ciò era già strano
perché, per quanto ricordasse Laura, tutto era stata meno che disponibile, ma Laura
accettò l’incongruenza storica come uno scarto della dimensione in cui si trovava
immersa.
Le chiese soltanto: Perché? E la zia le rispose: Perché ho sempre dovuto scegliere fra
me stessa e gli altri ed ho sempre scelto me.
- 40 –
Non era un linguaggio in codice e non riguardava nessun evento specifico della loro
vita, ma tutta la serie continuativa degli eventi che avevano costellato l’esistenza della
sua famiglia e che avevano come perno quella donna straordinariamente intelligente e
insoddisfatta.
Laura si accovacciò ai suoi piedi come faceva da bambina e alzò il viso verso di lei
aspettando ancora una sua parola, un suo sguardo di ammirazione, un cenno della sua
attenzione e del suo affetto.
La zia le accarezzò la testa e le disse: Quanto sei bella e alta! L’altezza di Laura era il
motivo per cui la zia l’aveva amata: l’alta statura era il tassello mancante al suo corpo
per rispettare il suo ideale di bellezza ed amava Laura perché sarebbe potuta diventare
un suo clone perfezionato con dei geni esterni.
Chissà quale delusione doveva essere stata Laura per la zia Teresa, chissà quanto
doveva averla odiata per questa mancanza nella continuazione del suo perfetto
modello.
Forse era stato per questo motivo che la zia l’aveva persa per strada prima di perdersi
lei stessa in quella che Laura temeva fosse la sua stessa genetica follia.
Solamente quell’incontro poteva darle spiegazioni, doveva cercare di farla parlare
senza porre domande che, inevitabilmente, l’avrebbero portata a dirle con intelligenza
ciò che lei voleva sentirsi dire o, peggio, le sue solite perfide menzogne.
La zia iniziò a parlare ininterrottamente, come era solita fare, con la sempre
splendente luce negli occhi. Iniziò a raccontarle dei suoi meravigliosi viaggi, proseguì
con gli aneddoti dell’infanzia e dell’adolescenza, ripercorse tutto il repertorio
dell’università e alla fine si spense. Non aveva mai avuto tanto tempo a disposizione
da restare senza affascinanti argomenti ed un luogo senza tempo sembrava più la
dimensione di Laura che la sua. Il suo sguardo si perse ad osservare il vuoto con un
comprensibile smarrimento e la consueta aria di sbigottimento che sfoderava nei
momenti di difficoltà. Gli occhi azzurri sgranati, aspettava una parola di Laura, un
segno di approvazione, la percezione di aver ancora una volta incantato
l’interlocutore. Ma in Laura non c’era nessun indizio della solita ammirazione, solo
un’aria di intensa noia e la zia Teresa fece vorticosamente lavorare i suoi brillanti
neuroni fino alla conclusione che era il momento di una delle sue scene madri da
grande star. Il tono della voce divenne appena stridulo e supponente, l’espressione
sprezzante e lo sguardo gelido e tagliente. Laura finse di non recepire il cambiamento
e la zia si ripiegò su se stessa attonita.
Comprese istintivamente la domanda di Laura, forse la conosceva già dall’inizio e
aveva confidato nella sua abilità di guitta da baraccone per aggirarla con due capriole
ad effetto ed una danza da Pulcinella, ma Laura era rimasta lì, salda come una roccia,
come mai era stata prima di allora.
- Vuoi sapere perché e come mi sono lasciata andare alla follia? Perché non ho
lottato per ritornare indietro come stai facendo tu?”
- Sì
- Non avevo nessuno ad aspettarmi dall’altra parte. Ero amata, ammirata,
intelligente e bella come nessun’altra, l’invidia di ogni uomo e donna che incontravo
anche per un attimo sulla mia strada, ma non ho mai seminato nulla, non ho mai dato
peso al loro amore, li ho sviliti e manipolati senza mai amare altro che me stessa.
Alla fine del cammino, quando le rughe segnavano anima e corpo, quando il male
livellava cellule neurali e connettivali, quando ogni cosa si sfaldava davanti ai miei
occhi, ho alzato lo sguardo dall’insopportabile vista di me stessa e non ho visto
nulla. Non c’era nessuno a rischiare di essere inghiottito in questo orribile e solitario
buco nero per salvarmi.
- 41 –
Lieta della sua ultima interpretazione la zia si rivolse verso Laura con la mossa
esperta dell’attrice che attende l’applauso, ma Laura sapeva che ancora un’ultima
confessione, un ultimo rantolo doveva venir fuori da quelle labbra ormai secche, da
quell’anima insoddisfatta e sola.
Attese.
- E quando ho compreso che ero sola per non aver mai rivolto un pensiero ai pensieri
degli altri era già troppo tardi per imparare ad amare. Nessuno, nemmeno io,
avrebbe mai saputo se la scelta di cambiare derivasse dalla necessità o dall’amore
che si era fatto strada dentro di me
E aggiunse:
- Per questo tu non sei uguale a me, per questo la follia è per te solo uno stadio, un
mezzo per raggiungere quella consapevolezza che hai sempre cercato, quella
comunione con il mondo che ti permetta di sopportare il peso della vita, il suono
delle mille voci che ti parlano dentro, il rumore delle anime che si scontrano e
soffrono e si dibattono urtando sulle sbarre delle loro gabbie, ferendosi nel tentativo
di abbattere muri. Tu non sei uguale a me, ma non perché non sei abbastanza, ma
perché hai scelto sempre di soffrire e di amare le persone che ti stanno accanto. Hai
compreso, attraverso la mia storia, che l’egoismo è l’illusione di poter vivere senza
gli altri, anzi, possedendo solamente gli altri senza mai entrare in contatto con loro.
Hai visto, attraverso la mia vita, che se non ci sono ricordi felici, se non c’è la
fusione con un’altra anima, almeno per un attimo della nostra esistenza, non c’è
futuro nella realtà, ma solo nella follia senza ritorno.
Si zittì un attimo, anche questa volta in una timida attesa dell’applauso, ma nemmeno
in quel momento vide in Laura l’intenzione di porre termine a quella tragedia.
Comprese che non era quello il finale che Laura aspettava, che, forse, quella nipote
tanto vicina e tanto distante sopperiva con la sensibilità allo scarto di intelligenza e si
accasciò, con la curva dei glutei sulle caviglie ed il busto ritto in una sorta di
preghiera laica.
Disse:
- Vuoi sapere, al di fuori della mia parte,che cosa mi ha portato a scegliere di
annullare le mie connessioni neurali in una sorta di limbo vegetativo? Vuoi sapere
perché sono rimasta con il mio corpo invece di decidere (quando ancora potevo) di
scomparire del tutto in una spettacolare uscita di scena? Vuoi sapere perché non
sono stata capace di rimanere fedele al copione che avevo scelto con tanta dedizione
e recitato per anni su tutti i palcoscenici della vita?
- Sì
- Tu che cosa avresti fatto al mio posto?
- Io non sarei mai stata al tuo posto.
E mentre lo diceva Laura capì che quella era la risposta a tutte le domande da porre
alla zia, che la zia le aveva donato, nell’unico impulso di altruismo, la domanda che
poneva fine alle domande. Laura comprese improvvisamente che le domande
contenevano già in sé tutte le risposte e che la sua vita non era stata una stupida serie
di inutili “perché?”, ma che in ogni domanda che lei aveva posto era già insita la
risposta e che lei non aveva mai alzato lo sguardo abbastanza da vedere al di là.
Al di là di se stessa, di Barbara, della zia, della madre, del padre, di Paolo, di quello
stesso fondo bianco che le aveva procurato Esther, al di là della distinzione fra chi
vince e chi perde, fra chi domanda e chi risponde, fra chi ama e chi si fa amare, fra
chi vive e chi si fa vivere, fra chi sceglie e chi si fa scegliere.
Al di là di ogni azione c’era la corrispondente reazione, già compresa, già implicita,
già decisa nell’atto di compiere, omettere, fermarsi.
- 42 –
Aveva atteso tutta la vita la risposta alle sue domande per proseguire, per dipingersi
degli stessi colori di uno scenario “giusto” e “vero”, quando le risposte erano già in
lei, nelle sue scelte, nel suo lasciarsi scegliere, nel suo fermare la vita come nel
fermo-immagine del suo video registratore e farla scorrere alla moviola fino a trovare
il punto migliore in cui reinserirsi per ricominciare alla giusta velocità.
Pensava a Paolo.
Gli aveva detto una volta, in un attimo di illuminazione e senza comprendere davvero
ciò che affermava, che l’unica scelta giusta è quella che facciamo, perché è l’unica
possibile per noi in quel dato momento. E non aveva capito che la scelta è già
compresa nell’occasione, che ogni cosa, come la vita, ha un suo inizio ed una sua fine
e che ogni tentativo di portare un evento ad essere altro è solo un anticipare la morte,
un chiudersi nel buco nero della follia.
Paolo era forse il suo destino? Non poteva saperlo, sapeva soltanto che Paolo era la
richiesta che lei poneva al suo destino e che nella sua stessa persona era contenuto il
destino che lei aveva scelto. Sapeva adesso che doveva vivere piuttosto che osservare,
che doveva alzare lo sguardo e vedere al di là. Cis o trans, avrebbe dovuto cercare di
capire adesso la differenza, avrebbe dovuto capire nella sua vita di adesso che cosa
era al di qua e cosa al di là e dirigersi senza timore verso le sue domande.
La zia le sorrise e le disse, per l’ultima volta, qualcosa che somigliava ad un velato
ordine: Io non ti ho lasciato nulla di me se non quello che tu da sola sei stata capace
di prendere: la tua vita sei tu, le risposte vengono da te, sono solo tue e valgono
soltanto per te. Non inseguire modelli di altre vite perché ciò che tu sei è unico e
irripetibile. Perdonami e lasciami andare via come farebbe una prima donna al
teatro, fra fiori ed applausi.
Laura applaudiva e sorrideva mentre la zia scompariva dentro il fondo nero di quel
già nero immenso stomaco dell’universo e, quando l’ultimo bagliore di luce
dell’anima della zia fu scomparso, rivolse lo sguardo a se stessa iniziando lentamente
dalla punta delle dita e percorrendosi totalmente per conoscersi finalmente senza
compararsi a nulla.
Solo lei in quell’abisso nero senza punti di riferimento, solo lei a decidere dove
andare, solo lei come fusione unica di patrimoni genetici, solo lei come vorace
predatore che aveva assorbito le domande e le risposte altrui, solo lei come pozzo a
cui avevano attinto molti per cogliere grappoli di risposte e di domande, solo lei come
orizzonte di senso della sua stessa vita, solo lei a decidere se avvicinarsi al fondo del
buco nero e seguire la zia o rivolgersi verso una domanda che la portasse fuori di lì.
Ma adesso aveva sonno, un sonno che le pesava sulle palpebre e la costringeva a
fermare il pensiero nella fissità della contemplazione.
Si lasciò coprire da quel velo leggero come la morte e pesante come la vita.
Dormiva già mentre Barbara componeva il numero di Esther.
- 43 –
CAPITOLO XIV
Il telefono di Esther squillava ininterrottamente da una settimana, ma lei aveva
deciso di non rispondere: aveva intuito il cambiamento di Barbara e, dopo aver
riflettuto a lungo, si era riproposta di non condizionare in alcun modo le sue scelte.
Era discretamente sicura della instabilità di Paolo e del fatto che lui avrebbe ancora
cercato di distruggere Laura o Barbara o chiunque gli si trovasse accanto, ma non
poteva e non doveva commettere l’errore che avevano fatto tutte le persone fin ad ora
vissute accanto a Laura.
Il non rispondere era un gesto di estremo rispetto che forse poche persone avrebbero
potuto comprendere – pensava Esther – ma lei lo doveva a Laura, anche se era
consapevole che la sua scelta avrebbe solo aggravato una situazione di per sé
esplosiva.
Provò una rabbia incontrollabile nei confronti di Paolo e avrebbe voluto ucciderlo con
le sue mani, avrebbe voluto sottrargli Laura, ma non poteva.
Doveva stare a guardare il compimento di quella morte annunciata: aveva visto Laura
dimagrire paurosamente, preda di una ricaduta nell’anoressia, l’aveva vista
riprendersi a poco a poco quando Paolo era tornato e poi era andato via di nuovo e,
adesso vedeva che si stava consumando nel tentativo di nascondere a se stessa che
stava male, che era infelice, che sentiva la precarietà del loro rapporto e che affidarsi
a Paolo significava decidere di morire.
Il telefono continuava a squillare, Esther attese che la suoneria tacesse, lo afferrò e lo
gettò a terra violentemente come se tentasse di colpire Paolo.
Barbara posò il cordless sulla scrivania e si rimise alla tastiera del computer. Fissava
lo schermo ma i suoi pensieri si muovevano vorticosamente in altre direzioni.
In quei giorni, con Laura ancora addormentata, Barbara aveva cominciato a pensare, a
valutare le conseguenze, a rafforzare quella parte di sé che avrebbe dovuto fare le
veci di Laura in sua assenza. Non era stato difficile come aveva pensato, le mancava
allenamento, ma l’aver sentito Laura per anni ragionare sviscerando ogni cosa le
rendeva più facile il compito.
Paolo era stato la terza occasione della loro vita ed era giunto in un momento in cui
ogni cosa sembrava cambiare posto come nelle case infestate dai fantasmi.
Improvvisamente tutti i punti fermi di Laura avevano iniziato ad danzare in aria
guidati da forze misteriose ed ancora oggi si stavano esibendo in figure ad incrocio
degne di danze settecentesche. Né Laura né Barbara sapevano dove sarebbero caduti
o posati, né se la loro resistenza fisica e mentale sarebbe stata sufficiente per giungere
sino al termine della musica.
Laura si era addormentata per permettere a Barbara di cogliere il mutamento di Paolo
ed assecondarlo senza essere eccessivamente gravata da paure più genetiche che
derivanti da reali esperienze di vita. Barbara non sapeva quanto sarebbe durato
l’impegno di Paolo e, in fondo, anche lei non si fidava della sua costanza nei
sentimenti, ma aveva, rispetto a Laura, un rapporto pieno con il presente: Barbara non
lo giudicava come un punto di raccordo fra passato e futuro, ma come una
dimensione unica di cui gustare la pienezza e l’irripetibilità. Il passato non era altro
che manipolazione mentale di quegli attimi vissuti ed il futuro non era ancora e
dipendeva da variabili che né lei, né Paolo, né qualsiasi altro essere al mondo,
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potevano prevedere e controllare, nemmeno con la metodica razionalizzazione dei
comportamenti che Laura aveva messo in atto dalla morte del figlio.
Laura aveva solo trovato dei surrogati alla padronanza totale della propria vita
controllando il proprio corpo e la propria mente per tentare di conoscere e riconoscere
tutta la gamma di possibilità degli eventi a venire. In realtà aveva soltanto compresso
la propria anima provocandosi una lenta morte fra crisi di panico, bulimia, anoressia,
sofferenza e ribellione di ogni singolo organo, di ogni singola cellula, di ogni singola
membrana, nucleo, mitocondrio, RNA, DNA, enzima, proteina, presenti nel suo
corpo.
Laura stava già morendo senza saperlo e, quando aveva conosciuto Paolo, un istinto
di vita si era insinuato nel suo corpo ingaggiando con la morte una lotta che durava
ormai da mesi e che aveva distrutto il suo organismo come avrebbe potuto fare
qualsiasi altra reazione immunitaria protratta per così tanto tempo.
Paolo era stato un’occasione – si ripeté Barbara – mentre distrattamente accendeva
una sigaretta e gli mandava un sms rassicurante ed amorevole – l’occasione che
chiudeva il cerchio del percorso di Laura e, come tutte le occasioni, poteva essere
letale se veniva ostacolata e gestita come i normali eventi conosciuti fino a quel
momento. Mauro aveva dato a Laura la percezione dei propri pensieri come forza
motrice del proprio universo, Esther le aveva donato lo scenario bianco su cui
proiettare la forza acquisita per costruire la propria esistenza autonomamente, Paolo
le aveva dato la consapevolezza che è possibile fondersi con un altro essere e passare
dal proprio universo all’universo intero con la forza dell’amore. Ma, come
istintivamente diceva Paolo – e Barbara era in grado adesso di comprenderlo
emotivamente e razionalmente – l’amore è forza libera, non soggetta ad alcuna
coercizione, non può essere compresso, instradato, bloccato su posizioni di sicurezza
e Laura si era dovuta abituare alla precarietà, al costante dolore della possibilità di
perderlo.
Ciò non era avvenuto in maniera indolore sia per Paolo sia per Laura e per entrambi
questa consapevolezza era arrivata con dubbi, ataviche paure, eventi incresciosi e
stavano ancora rischiando di perdere tutto.
Laura anche la vita.
Non c’era in ciò una responsabilità diretta di Paolo, lui era l’anello mancante della
catena, la scintilla, l’uomo che aveva scoperchiato il vaso di Pandora, Eva che aveva
colto la mela; ma non lo si poteva odiare per questo come non si poteva odiare Mauro
o Esther per esserci stati nel momento in cui Laura riteneva preferibile rischiare la
vita piuttosto che limitarsi a fingere di essere Uomo.
Barbara si era sempre appassionata alle letture di Laura perché la dimensione di
irrealtà della lettura rimuoveva la voluta separazione fra di loro ed entrambe
vivevano pienamente. Barbara amava soprattutto Calvino perché era in grado di
soddisfare la sua sete di realtà così come la tendenza di Laura a vivere nella
dimensione delle infinite possibilità. E ancora una volta constatava che Calvino aveva
già pensato tutto il pensabile e definito tutto il definibile: contrazione ed espansione,
l’universo che si espande o Tutto in un punto, il big bang provocato dall’amore di una
donna che desidera spazio per preparare la pasta alle persone che vivevano con lei
tutte in un punto.
Aveva sempre inteso l’odio come contrazione e l’amore come espansione e Laura era
finita in quel buco nero, in quella contrazione dell’universo perché non c’era amore
intorno a lei ed il suo desiderio di espandersi, di liberare l’energia era stato sempre
contrastato dalle forze oscure della stasi, del risentimento, dell’odio.
- 45 –
L’amore di Paolo sarebbe riuscito a far esplodere il suo universo in un big bang
creatore? Non era in gioco un sentimento di attrazione, ma un intero modo di vivere:
energie unite o gabbie separate, cellule pulsanti di uno stesso corpo o monadi senza
né porte né finestre? Tempo che si crea o tempo che si contrae?
Lei e Laura volevano vivere e non sopravvivere e la posta in gioco era alta: Paolo
poteva essere una sfida alla morte, un vivere ogni istante come se fosse eterno. Paolo
era l’occasione e Barbara sentiva che anche lui desiderava le stesse cose con la stessa
profonda determinazione.
Bisognava sopravvivere e rischiare. Non c’era altra scelta. Laura si doveva svegliare e
Barbara doveva fare in modo che Paolo riuscisse a comunicare anche con lei. Gli
inviò un sms: “Ti ho sempre amato”.
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CAPITOLO XV
Paolo rifletteva seduto alla scrivania con il telefonino in mano e il messaggio di Laura
sul display. Aveva uno sguardo nuovo ed un’espressione più dolce, la cappa vischiosa
della depressione si era rarefatta e provava un intenso senso di libertà in tutto il corpo
come da anni non gli succedeva.
Non riusciva davvero a capire cosa fosse successo negli ultimi dieci giorni: gli eventi
si erano accavallati e la Laura che conosceva sembrava assopita dentro un corpo che
trasmetteva segnali diversi da quelli captati sino ad ora.
Si era sentito libero.
E felice.
Felice di scegliere lei.
Forse era questa sensazione di libera scelta che faceva la differenza – pensava Paolo –
ma, ugualmente, non sapeva comprendere come questa sensazione lo avesse
improvvisamente pervaso senza una ragione.
Sapeva di desiderare da lunghi anni un’occasione che lo trasportasse via da quel
ripetersi costante degli stessi eventi, era cosciente di aver sentito in Laura la
caparbietà nella ricerca e comprendeva di essersi spesso messo sulla sua scia per
ottenere parte di quello che desiderava senza doversi mai sforzare.
Ma, adesso capiva: era stato come possedere una bottiglia di un magnifico e
profumato vino ed usarla per ubriacarsi dopo aver mangiato un hamburger.
Aveva consumato l’amore di Laura per ottenere ciò che poteva avere da qualsiasi
donna, ma Laura voleva di più del semplice amore, Laura voleva fondersi con un
altro essere umano per vivere in eterno.
Paolo l’aveva improvvisamente intuito quando lei lo aveva lasciato libero ed aveva
smesso di mettergli in testa le sue parole – questo era il difetto più grande di Laura,
diceva sempre tutto e troppe volte – e aveva deciso che valeva la pena di rischiare, di
lottare, di sovvertire l’ordine della sua esistenza non per amore di una donna, ma per
amore della vita.
Non sarebbe stato facile e a volte si ritrovava a pensare di aver sbagliato, di non
farcela, di essersi assunto un fardello troppo gravoso per un risultato privo di
qualsiasi certezza, ma quando era insieme a lei la vita gli andava incontro
inebriandolo con profumi mai sentiti e lui stesso avvertiva crescere in se capacità mai
avute di sentire ed amare le cose e le persone.
Ciò che lo rendeva più felice era il fatto che non era Laura a dargli tutto ciò – ed in
questo doveva riconoscerle il merito di avere sempre affermato che queste cose erano
in lui – ma era il loro stare insieme a catalizzare la reazione, era il prodotto di
un’unica energia in cui le loro energie non si sommavano semplicemente, ma si
fondevano attraverso l’amore. Amare Laura significava non poter fare a meno di
amare anche l’energia che attraversava il mondo.
Espansione, Laura gli aveva regalato un libro e lui sentiva l’eco di questa parola letta
da poco, si sentiva in espansione ed ogni cosa cercava e trovava spazio e si formava e
cresceva, mentre la sua vita fino a quel momento era stata contrazione, rientro del
tempo, percorso già vissuto, sensazioni morte prima ancora di essere vissute, gabbia
circolare in cui tutto si ripeteva sempre e monotonamente uguale.
Desiderò avere Laura accanto per dirglielo, per dirle che non gli importava più
dell’effetto su di lui delle sue crisi di panico, che le avrebbe dato la certezza del suo
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amore e che credeva, oggi, che quell’amore non avrebbe avuto fine perché era più che
amore, era condivisione di intenti, era stare abbracciati assieme in barca e guardare
assieme lo stesso orizzonte.
Laura lo aveva sempre amato così, adesso lui ne aveva quasi la certezza – per quanto
un essere umano possa essere certo di qualcosa – e non aveva mai mentito; lui adesso
la comprendeva profondamente, la sentiva dentro di sé e desiderava che lei rimanesse
annidata lì mentre lui era annidato dentro di lei. Desiderava il suo bene in modo tanto
profondo da comunicarglielo anche a chilometri di distanza, con forza, con decisione,
con determinazione assoluta.
Laura aprì gli occhi e seppe che era il momento di completare il suo viaggio e
strapparsi via da quel buco nero.
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CAPITOLO XVI
Si guardò intorno e vide che l’atmosfera era più buia, erano scomparsi i filamenti
iridescenti ed il gorgogliante fondo del buco nero che aveva inghiottito la zia Teresa
era minacciosamente oscuro.
Osservò il suo corpo e si accorse che durante il sonno migliaia di minuscoli filamenti
simili ad impalpabili radici l’avevano ricoperta e le erano penetrati sotto la pelle.
Scosse con violenza le braccia e le gambe e fu colpita da un dolore lancinante in ogni
punto del corpo, ma era riuscita a spezzare la maggior parte dei tentacoli che la
imprigionavano.
Rivolse il capo verso l’entrata del buco nero che continuava a produrre onde circolari
come uno specchio d’acqua colpito da un sassolino. Aveva una consistenza collosa
che non lasciava presagire un’uscita facile. Si disse che Paolo non avrebbe avuto la
forza sufficiente per tirarla fuori di lì, ma che senza di lui lei non sarebbe mai tornata
indietro da quel sonno che era prigione più della stessa morte.
Per la prima volta nella sua vita non aveva un progetto su come risolvere un
problema: Paolo non poteva salvarla perché, forse, non avrebbe saputo lottare
abbastanza, nonostante le sue intenzioni e il suo forte sentire di oggi, ma lei aveva il
presentimento che al momento opportuno qualcuno o qualcosa sarebbe intervenuto a
tirarla fuori da lì.
Adesso sapeva di avere un appuntamento che non poteva più essere rimandato: non
sarebbe mai uscita da lì se non avesse affrontato la madre, l’indefinibile e sfuggente
figura che aveva costituito la colonna sonora di tutta la sua vita senza che lei riuscisse
a comprenderne nemmeno una nota.
Pensò a come fosse davvero incredibile che la colonna sonora di un film condizioni la
percezione delle azioni: usciti dal cinema non si ricorda la scena o il viso dell’attore o
la magistrale regia, ma la ritmicità della musica, il crescendo del volume, la
malinconia delle note di un pianoforte.
E così per Laura, al momento di operare ogni scelta, più o meno importante, nella sua
vita, la colonna sonora della madre era stata sempre più presente del reale
svolgimento dell’azione.
Ad ogni azione era associato un drammatico ricordo musicale, collegato ad un viso
oscillante fra la delusione e il disprezzo, un rifiuto netto e arbitrario ed una
contrazione di fondo che impediva qualsiasi movimento dell’anima.
Non credeva che la madre fosse responsabile di ciò che aveva provocato in lei: era
stata talmente vessata da persone ed eventi da non conoscere nessuna possibilità al di
fuori di quella che viveva.
- Non sarà facile entrare in contatto con lei – pensò Laura – fra di noi non c’è
mai stato nessun vero rapporto, lei non mi ha mai sentito come una madre
normalmente sente una figlia ed io l’ho solo studiata razionalmente e
scientificamente come un entomologo potrebbe studiare un raro esemplare di
insetto tropicale.Non aveva una personalità netta e definibile, sembrava essersi formata per negazione
di qualcun’altro e la sua dimensione era quella della privazione, della contrazione.
Adottava nei confronti delle persone che la circondavano una sorta di resistenza
passiva che nascondeva un agguerrito istinto di sopraffazione: comprendendo di non
avere la forza sufficiente per vincere in una guerra aperta, assediava l’avversario
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circondandolo con un fossato in cui spargeva il nulla ed aspettava che alzasse
bandiera bianca per non dover morire di inedia.
Era lontanissima dalla acuta forma di ipersensibilità di sua figlia che continuava a
credere che, come per il principio dei vasi comunicanti, per ogni goccia della sua
anima che si versava in un altro essere, una goccia dell’universo rientrava. Il corpo di
Laura e la sua mente lavoravano come cellule in osmosi con il tutto e la sua
sensibilità consentiva all’involucro che la rivestiva di scambiare informazioni,
sostanze, emozioni con ciò che la circondava attraverso impercettibili modifiche della
polarità.
La madre, invece, aveva creato con il vuoto una sacca impermeabile ad ogni
movimento in entrata ed in uscita e il contatto con l’esterno avveniva solo attraverso
un fenomeno di compressione meccanica che non modificava nulla in lei e negli altri.
Laura si era sempre chiesta se potesse mai esistere amore senza osmosi e si era
risposta di no perché l’amore era osmosi, era crescita, acquisizione di nuovi spazi,
scambio di materia, di cellule, di sangue, di linfa. L’amore era fare spazio dentro di sé
all’altra persona, oggetto, animale per dargli nuova vita e poi scambiarne ancora una
parte con altri esseri, oggetti, animali perché anche loro lo facessero rivivere.
Per questo l’amore era vita eterna.
Laura era consapevole del fatto che ormai era troppo tardi per rompere la sacca di
impenetrabile vuoto che ricopriva la madre, ma desiderava comprendere quanto e
perché quella donna che l’aveva gettata nella vita dal nulla l’avesse a suo modo amata
e odiata.
Doveva liberarsi del peso del rifiuto, della paura di amare e di essere amata, della
paura di essere catturata e spenta dal contatto con il freddo nulla.
Non riusciva a ricordare quando aveva compreso per la prima volta che la madre non
l’aveva mai amata come persona, ma solo, doverosamente, come figlia. Forse era
stato un lento stillicidio, una lunga catena di frasi monche e di velati colpi bassi o
forse tutto era sempre stato chiaro e lei non aveva voluto vedere come adesso non
voleva vedere con Paolo.
Non aveva domande da porle e non attendeva più le risposte a quelle poste in passato:
l’anima della madre si era protetta dalla corrosione del dubbio con l’abilità
straordinaria di mentire a se stessa alterando il presente, il passato e le aspettative
future in sempre nuove ricostruzioni senza nessuna falla logica, senza nessuna
cicatrice da cui fosse possibile accorgersi dei numerosi interventi di chirurgia estetica.
I tentativi di dialogo fra di loro si erano sempre conclusi con la compressione
dell’energia di Laura: l’illogica caparbietà della madre nel proporle inammissibili
distorsioni della realtà e l’impossibilità di modificare in alcun modo il percorso che
lei aveva tracciato per la loro vita, ponevano Laura di fronte ad un drammatico aut
aut in cui la scelta era rinunciare all’idea di essere amata e di essere mai stata amata o
accettare di arrendersi alla ineluttabile contrazione dell’anima, al regresso,
all’impotenza della sua spinta vitale contro la forza disgregatrice del nulla.
Laura aveva presto compreso che non era possibile convincere la madre della propria
innocenza: era stata condannata in contumacia in un processo di cui non era al
corrente e, come nelle migliori tradizioni della giurisprudenza, non era importante
trovare la verità, ma dimostrare al mondo di non aver sbagliato nella condanna. Da
perfetto detective, avvocato e giudice ad interim la madre occultava o screditava le
prove a favore dell’imputata e proseguiva nell’esecuzione della pena con la coscienza
pulita di chi sa che l’importante è che esista un colpevole agli occhi del mondo perché
l’ordine è un surrogato della verità preferibile a questa in quanto molto più stabile e
controllabile.
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Trovare il colpevole... solo questo era stato importante, non risolvere i conflitti, non
amare, non utilizzare questo viaggio pericoloso nella vita per uscire dal dolore con
l’aiuto dell’altro. Trovare il colpevole e convincerlo di essere tale anche a costo di
comprimere la sua anima fino a farla lavorare come un motore impazzito in cui i
pistoni si alzano e si abbassano ad un ritmo insopportabile fino ad esplodere. E allora
si può dire: Vedi, avevo ragione, è pazza, è stata sua la colpa.
Laura sentì accelerare il battito cardiaco ancora una volta e, anche in quella
dimensione lontana dalla realtà, sentiva la paura prenderla alla gola facendola
soffocare, le braccia le facevano male, il sangue affluiva alla testa e la confusione
aumentava, si guardava intorno cercando la fuga, ma non c’era via d’uscita, non c’era
una soluzione in cui lei potesse sopravvivere senza riportare lesioni, l’unica via per
non provare dolore era tuffarsi nella pazzia, era entrare con forza dentro quel punto
nero di un nero mai visto dai saggi occhi umani di tutta quella gente che costruisce le
proprie certezze sulla pelle degli altri, di tutta quella gente che preferisce il nulla
dentro di sé al dolore di spostare di qualche micron le proprie cellule per far spazio a
quelle altrui.
Ancora una volta una scelta che non era scelta, l’amore inghiottito da voraci bocche
che lo masticavano e vomitavano privo di ogni forza. Ancora una volta la paura,
l’accusa, la colpa, la porta della pazzia aperta da sollecite mani alla ricerca del
perfetto capro espiatorio.
Anche con Andrea era stato così, così come con quasi tutte le persone con cui era
entrata in contatto anche solo per discutere di come si prepara il ragù: la sua energia li
spaventava ed innescava la reazione standard di ostruzionismo e resistenza; il
processo era sempre lo stesso e lei, ogni volta in modo maggiore, si prestava a
recitare la sua parte con stanchezza infinita perché il difendersi la uccideva, le
dimostrava di essere già stata condannata a prescindere dalle sue azioni.
Nel corso degli anni aveva sviluppato due vite e si era isolata sempre di più per
sfuggire a quelle inevitabili messe in scena, aveva coltivato se stessa e la propria
energia e si era limitata a sentire il brusio del mondo da lontano, a captare i segnali
delle persone senza dialogare, senza esporsi, come un bambino costretto a casa da una
malattia, che gioca a sintonizzarsi sulle varie frequenze di un baracchino per spiare la
vita degli altri e vivere attraverso l’immaginazione.
Quando aveva conosciuto Paolo aveva ancora una volta rischiato per amore, ma
l’eterno processo era ricominciato e lei ancora una volta era entrata in un tunnel senza
alcuna via d’uscita accettabile se non quella della follia, verso cui anche le amorevoli
braccia di Paolo la stavano spingendo.
Ma ora qualcosa era diverso: in questo processo alle intenzioni più che alle azioni
Laura non aveva la volontà di difendersi, né di partecipare. Aveva imparato nei
lunghi anni di osservazione che gli uomini chiamano follia tutto ciò che è diverso da
loro e dalle cose comprese nel loro raggio di azione.
Lei era cosciente di avere una sensibilità diversa da quella della maggior parte degli
esseri umani e che spesso chi le faceva del male non si rendeva nemmeno conto di
aver operato con la sua solita pressione su un oggetto fragile.
Laura era un bicchiere di cristallo che tutti usavano come un resistente bicchiere da
cucina e, quando il bicchiere si rompeva, si lamentavano della scarsa qualità del
vetro.
Si era sempre scontrata con l’immagine che gli altri avevano di lei: donna forte e
spietata, saccente manipolatrice, fredda pianificatrice, ma Laura non era nessuna di
queste cose. Agiva per istinto, guidata solo dall’amore e dalla percezione empatica
delle emozioni altrui, rispettava profondamente l’essere degli altri tanto da piegarsi e
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modellarsi alla loro immagine per non turbare il loro equilibrio, fino a quando, però,
non pretendevano di annullarla in loro. Allora si ergeva come una leonessa in difesa
della prole e aggrediva con rabbia per paura di soccombere sotto il peso del genetico
senso di colpa che provava per il solo fatto di esistere e di occupare lo spazio altrui.
Si sentiva responsabile sempre e dovunque per ogni sua piccola mancanza e aveva
dovuto isolarsi dal mondo perché il mondo non ne approfittasse. Anni di processi
avevano minato a fondo la capacità di pesare sulla bilancia le proprie azioni e il piatto
pendeva sempre dal lato del peccato.
Avrebbe desiderato che Paolo non la costringesse ad avere paura, a scappare via, a
lottare per sconfiggere il male di vivere che la coercizione psicologica le provocava.
Si sentiva violentata, offesa, tradita perché gli esseri che la amavano usavano i varchi
che lei apriva per loro nel solido muro costruito negli anni non per comprenderla e
sollevarla dal dolore, ma per usare le sue debolezze.
Impegnarsi ad amare. Lei si era sempre impegnata a non usare l’altro, a sollevarlo dal
peso delle sue paure ed era questa l’unica cosa che desiderava dal mondo e l’unica
cosa che forse non avrebbe mai avuto.
Ancora una volta le si poneva l’alternativa feroce: era troppo vulnerabile per il mondo
e doveva rinunciare all’amore, ai sogni, a tutto ciò che un essere come Paolo portava
chiuso dentro di sé o doveva lottare e rischiare di essere distrutta proprio dall’essere
che amava e che usava con lei lo stesso metro di valutazione che per gli altri bicchieri
di vetro, resistenti e funzionali molto più di lei?
Lei amava sua madre e aveva dovuto rinunciare all’idea di essere compresa e di
ricevere da lei forza nella simbiosi libera dell’amore. Avrebbe dovuto fare lo stesso
con Paolo? Nella risposta a questa domanda c’era il destino della sua vita, c’era una
scelta che andava al di là dell’occasione e lei non comprendeva ancora quale fosse la
decisione che il suo corpo e la sua anima le chiedevano.
Non avrebbe saputo dire quando le era accaduto di sganciarsi definitivamente dalla
madre, quando aveva smesso di cercarla e di crederle. Si era adattata per anni alla sua
realtà di depressioni e smarrimenti, aveva creduto di essere colpevole per non aver
saputo diventare la figlia che lei desiderava, avevano persino pianto insieme in modo
commosso giurandosi di essere felici e orgogliose l’una dell’altra, ma era stato tutto
inutile. Lo strappo era avvenuto quando lei per la prima volta le aveva veramente
chiesto aiuto, implorando, piangendo con un figlio dentro di sé che le faceva
comprendere cosa potesse significare essere madre. E lei era stata lì, di ghiaccio,
fredda ed evasiva, biascicando inutili parole sconnesse seguite da altre sillabe senza
senso. La voce della madre risuonava in quella camera da letto come un’eco lontana
mentre lei già aveva smesso di ascoltarla e pensava che forse era meglio così, che
almeno suo figlio non avrebbe mai conosciuto questa nausea che saliva per l’esofago.
Era responsabile del proprio patrimonio genetico? Portava anche lei il seme di quella
indifferenza al dolore altrui? La sindrome della madre era anche la sua? Anche lei
avrebbe scelto un giorno, non potendo essere la più brava, la più bella e la più felice,
di costruirsi un mondo fittizio di infelicità in cui la palma d’oro della sfortuna
guadagnata con anni di apparente remissività le avrebbe dato il diritto di non curarsi
delle sofferenze altrui perché le proprie erano sempre più grandi?
Ed il figlio, se fosse nato, quanto avrebbe dovuto pagare per questo?
Aveva acconsentito a pagare quest’ultimo tributo alla “normalità”, schiacciata dal
peso dell’ostracismo psicologico, ma nemmeno il sacrificio del figlio sull’altare della
famiglia era servito: il giorno dopo tutto era finito, dimenticato ed il 25 dicembre,
appena due settimane dopo, la voce – Tu uccidi tua madre – le era risuonata ancora
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nelle orecchie dopo il suo rifiuto a partecipare al rito massonico del pranzo di Natale
in cui, ogni anno, la famiglia intera – ormai decimata da defezioni, malattie e morti –
si schierava in un fronte compatto contro il resto del mondo.
A volte Laura pensava che sarebbe bastata una sua parola, un solo - come stai? - lieve
ed aperto a molteplici risposte. A volte Laura sognava il corpo leggero ed esile della
madre che le diceva ti voglio bene con una piccola e dolce carezza.
Ma non c’era mai stata quella carezza perché per la madre lei era un incomprensibile
rebus senza emozioni, senza debolezze. Per la madre lei era la rivale, l’essere con cui
entrare in competizione, il legame contorto in cui – mors tua vita mea – scagliarsi
senza pietà contro Laura era sopravvivere un giorno di più alla paura di non essere
all’altezza.
Laura non sentiva più dolore a ricordare il passato: non avrebbe voluto un’altra
madre, questa frase le risuonava chiara in testa. Nonostante tutto, in trentotto anni,
non aveva mai conosciuto una persona che avrebbe potuto sostituire quella contorta
figurina dalla camminata diritta e dall’orgoglio smisurato, quella delicata statuina il
cui involucro di freddo marmo ricopriva un nucleo incandescente di desideri
inappagati e di emozioni compresse fino al limite dell’esplosione.
Laura la amava, nonostante tutto, nonostante il dolore inarrestabile delle ferite sempre
aperte che rallentavano ogni suo passo nella vita. La amava perché sentiva che ogni
anfratto della sua anima nascondeva le tracce di lei.
Pace. La parola che le affiorava alle labbra da anni, adesso si faceva strada attraverso
il palato, i denti, i solchi delle piccole rughe che da mesi si stavano formando sul viso.
Pace, sinonimo di amore? Non più lotte per la supremazia, non più ricerche di un
colpevole predestinato, non più lunghi mesi di rancori sottesi, non più sguardi
dubbiosi alla ricerca del coltello fra le mani dell’interlocutore.
Pace, come in quel buco nero dove tutto procedeva al ritmo della pompa cardiaca,
dove il tempo fluiva insieme al sangue, dove lo spazio si adattava al corpo e non il
corpo allo spazio. Pace, come in quel silenzio di voci pacate dal passato, dal presente,
dal futuro. Pace nella follia. Come sarebbe stato bello abbandonarsi e ricoprirsi di
radici fondendosi con la terra e con l’universo intero. Pace, non dover lottare contro la
zavorra degli istinti, contro la resistenza delle anime infelici.
Paolo. Pace. Paolo. Dolore. Paolo. Energia. Paolo. Buco nero. Paolo. Necessità.
Paolo. Libertà. Paolo. Futuro. Paolo. Morte. Paolo. Inizio. Paolo. Epilogo. Paolo.
Padre. Paolo. Madre. Paolo. Paolo.
Paolo era lì, lontano ma lì, era arrivato fino a lei con amore e per amore, la mano tesa,
gli occhi intenti a scrutarla, l’ombra del dubbio ancora sul volto, ma lì, presente di
una presenza corposa e rassicurante, non un bastone, ma una linea tesa a segnare la
strada.
Nessuna fretta, pace. Lui sarebbe andato via, ma il percorso era ormai chiaro per
Laura, il cerchio si sarebbe chiuso quella notte, per sempre.
Si avvicinò con la mente a Barbara e i loro pensieri si fusero nuovamente come molti
anni prima. Barbara si infilò il giaccone, prese le chiavi della macchina, chiuse la
porta senza esitazioni e si diresse verso la casa della madre.
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CAPITOLO XVII
La madre aspettava con ansia l’ora dell’appuntamento con Laura: dovevano preparare
insieme qualcosa per il compleanno della sorella e lei si era sentita sollevata quando
sua figlia le aveva offerto la sua collaborazione.
Sollevata sì, ma anche un po’ indispettita dal fatto di essere spodestata dal suo ruolo
di madre. Le succedeva sempre di avere questo sentimento ambivalente quando
qualcuno la sollevava da un compito. Non era mai riuscita a frenare in sé l’idea di
dover essere capace quanto gli altri, ma non aveva mai provato nessun desiderio di
sforzarsi di esserlo.
Sua figlia la rimproverava sempre e le diceva che bisogna avere il coraggio di essere
se stessi, di dire no, non voglio, ma lei si vedeva con gli occhi degli altri e, nell’eterno
processo che era stata la sua vita, sentiva la giuria dichiararla colpevole.
Laura era sempre stata così forte ed indipendente fin da bambina ed anche
così”separata” da lei. Lei le aveva voluto bene fin dal primo istante perché realizzava
il suo sogno del distacco dall’oppressione familiare: nei suoi piani lei, il marito e la
figlia sarebbero andati via in altri luoghi lontani – e non era difficile pensarlo con
quel marito così poco convenzionale e miracolosamente gradito anche alla famiglia –
e lei avrebbe potuto spezzare la catena senza sensi di colpa. Tutto sarebbe rientrato
nella prassi comune e nella prossima udienza nessuno avrebbe potuto condannarla o
sospettare il suo rifiuto della parentela.
Ma non era andata così.
Nel gioco perverso della coercizione, le sorelle avevano catturato l’imprendibile
marito lusingandolo e offrendogli quello che desiderava: quasi un sultano in un
harem, il marito approfittava di quella situazione convinto di avere un forte
ascendente su di loro e, invece, intrappolava sempre di più se stesso, la moglie e la
figlia in una gabbia dorata dove venivano nutriti e ingrassati per essere divorati
avidamente al prossimo pranzo natalizio.
E così era stato. E lei si era trovata sola con il peso di una famiglia monca, legata a
doppio filo alle sorelle, piegata dal peso di un fallimento che troppo spesso veniva da
loro usato come mezzo per dimostrarle la sua colpa.
Ma aveva resistito, era stata brava e non aveva tralasciato nessun atto dovuto anche
se, spesso, non c’era davvero tempo per nient’altro che non fosse richiesto dal sistema
per catalogarla come madre esemplare.
Un leggero dubbio la sfiorò al pronunciare quest’ultima frase: sua figlia – pensò – le
diceva sempre che il non avere tempo era una scusa che lei sfoggiava per ogni
occasione, ma che era moneta falsa per gli invitati al suo discorso. Il tempo si cerca,
si trova, si sottrae, si ricicla.
Il tempo di una carezza è talmente piccolo...
Il citofono emise un suono gracchiante che la distolse appena in tempo da quei
pensieri corrosivi: sua figlia, con le sue discussioni arzigogolate riusciva sempre a
farla sentire in colpa, ma, grazie al cielo lei sapeva come aggirare l’ostacolo e
ristabilire il giusto senso della realtà.
Con un certo astio si diresse verso la porta, ma, alla vista di Barbara sfoderò un
malinconico sorriso e la accolse come doveva.
Hai trovato il posto? – Ho girato un po’, odio Catania – Adesso è diventata
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impossibile da quando ci sono i parcheggi a pagamento – Come ti senti? – Come al
solito, come vuoi che mi senta? – Hai comprato gli ingredienti? – Sì, spero vadano
bene – Li hai preparati? Non ho avuto il tempo – Ma lo sai che devo scappare subito
dopo! – Sei sempre nervosa – Va bene, non fa nulla – Sono stanca – Anche io, a
scuola una giornata infernale – Sempre meglio di quella che ho passato io – Sì, certo.
Barbara posò la borsa con rassegnazione al solito posto e comprese come mai Laura
non avesse mai potuto risolvere il rapporto con la madre: era come rimbalzare su un
muro di gomma, non c’era un punto che apparentemente non cedesse all’avversario,
ma, in realtà, si deformava solo per generare un’onda di forza uguale e contraria che
depositava il malcapitato sulla parete di fronte.
Si mise immediatamente al lavoro fingendo di non vedere la madre ostentare
un’espressione sarcastica che nascondeva la solita domanda: perché tanta fatica per
preparare qualcosa di cui non era per nulla certa la riuscita? Sua madre era così:
nessuna azione al di fuori di quelle strettamente necessarie di fronte al mondo,
nessuna azione per il proprio piacere, solo per rendere conto alla giuria. Per la madre
il piacere – pensò Barbara – era abbandonarsi al più completo nulla non appena il
mondo era girato dall’altra parte: nessuno doveva mai essere in grado di testimoniare
contro di lei.
La madre osservava Barbara perplessa: questa figlia così pratica e decisa le dava un
po’ sui nervi. Non lo avrebbe mai confessato a nessuno, ma era felice che se ne fosse
andata via di casa tanti anni prima: era stato un sollievo immenso potersi abbandonare
alla propria natura, ai propri ritmi, senza provare sensi di colpa o dover dare conto a
lei che la spronava sempre e che, con la sua sola presenza e iperattività, la metteva
sempre in imbarazzo.
Le voleva bene, certo, ma la sua esistenza accanto a lei era impossibile: Laura era un
agente irritante invasivo che le sconvolgeva il sistema immunitario e contro di lei non
c’erano vaccini.
Barbara sentiva ogni parola del pensiero della madre: era una vecchia storia ormai, la
conosceva a memoria per averla vissuta attraverso i sensi di Laura innumerevoli
volte. Adesso nella madre si sarebbe generato un fastidio crescente, un senso di
inadeguatezza l’avrebbe avvolta in una spirale di denso fumo senza riuscire a
penetrarla e ad essere rielaborato e fuso con lei in una nuova consapevolezza. Il suo
sistema di difesa, lento e aggressivo come un mostro primordiale, si sarebbe scagliato
su di lei senza ferirla, stringendola come un boa fino a farla soffocare con
provocazioni sottili e sempre doppiamente interpretabili come manifestazioni di
affetto e, non appena lei si fosse arresa, sarebbe incominciato nuovamente il
dibattimento in aula. La madre, con la scaltrezza di un consumato avvocato l’avrebbe
resa inattendibile di fronte alla giuria sciorinando il rosario dei suoi innumerevoli
errori fino a portarla al silenzio o ad una crisi di irragionevole panico.
Poi si sarebbe seduta al tavolo dell’accusa con malcelata soddisfazione ad osservare i
prolungati effetti del suo interrogatorio e nell’arringa finale avrebbe ricordato alla
giuria che la testimonianza di Laura doveva essere cancellata dalle loro menti prima
della decisione perché era un evidente tentativo di distorcere la realtà. I fatti, solo i
fatti dovevano essere presi in considerazione e lei era stata moglie e madre esemplare
agli occhi di tutti: mai aveva perduto la calma nemmeno di fronte ai ripetuti e
ingiustificati attacchi della figlia, mai avrebbe voluto portarla lì se non fosse stato per
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il suo bene, perché bisognava reintegrarla nella società, farle comprendere i suoi
errori perché non continuasse a farsi del male e a farne agli altri.
E la giuria avrebbe fatto il suo dovere con la coscienza netta e sicura, con la
gradevole sensazione che ogni tanto il bene vince e il sistema giudiziario funziona.
La distorsione morale per cui poteva considerarsi giusto ciò che poteva essere
dimostrato come tale in tribunale stava per colpire ancora una volta madre e figlia.
La madre si sedette ad una distanza di circa un metro da Laura – nella sua esperienza
era la distanza esatta per intimorire l’avversario con la presenza fisica, ma non
rischiare che il contatto casuale potesse spezzare la sensazione di estraniamento che
l’attacco doveva provocare – e iniziò lentamente a parlare scegliendo le parole in
modo che nessuno in sede processuale potesse considerarle come offese. Conosceva i
punti deboli di sua figlia ed aveva una grande pratica maturata nel rapporto con le
sorelle. Con loro – pensò – era troppo facile e poco divertente perché anche loro
godevano del contorto gioco e non desideravano uscire da quel cerchio che costituiva
linfa vitale e schermo di protezione per non affrontare i perché della vita e le proprie
responsabilità. Con le sorelle non si arrivava mai in tribunale, il gioco si esauriva al
patteggiamento e non c’era mai un vero vincitore; con Laura le udienze erano sempre
gratificanti e il mondo poteva sempre conoscere l’immagine di sé che lei voleva
proiettare.
Iniziò con voce dimessa:
- Tutto bene? Qualche problema? La macchina come va?
- Bene, ma sta diventando difficile reggere il peso di tutto.
- Certo, ma del resto io te l’avevo detto che non avresti retto con la scuola e
tutto il resto. Tu non mi credevi quando ti dicevo che era pesante. Avresti
dovuto lasciare il lavoro.
- E come avrei potuto? Troppe scadenze, è difficile solo con la scuola.
- Vuol dire che hai fatto il passo più lungo della gamba, del resto sei sempre
stata così, come tuo padre, non ci sono soldi che bastano per voi. Dovresti
mettere un po’ a posto la tua vita altrimenti sarà sempre un fallimento. (La
madre modulò il tono di quello che sapeva essere un insulto sulle note della
accorata preoccupazione per la ricostruzione davanti alla giuria.)
- Più lungo della gamba? Dopo anni di freddo ho fatto mettere l’impianto di
riscaldamento e mi sono concessa un minimo di benessere. E la macchina mi
serve, adesso viaggio tranquilla, non ce l’avrei fatta senza questa macchina.
E poi sono io che pago.
- Allora non lamentarti del fatto che sei stanca, se no sono costretta a dirti la
verità.
- Non mi lamento, me l’hai chiesto tu ed io mi sfogo un po’, ma come vedi, vado
avanti. Ho solo qualche difficoltà e preoccupazione e non credo che tu abbia
il diritto di dirmi che la mia vita è un fallimento.
- Io non l’ho mai detto.
- L’hai detto un minuto fa.
- Stai sognando, lo sai che io sono orgogliosa di te. (La madre si disse che il
tono fra lo stupito ed il sinceramente ammirato, avrebbe fatto effetto in aula;
la figlia stava cadendo nella trappola e adesso con questa affermazione
contraria alla precedente sarebbe andata in tilt, il doppio messaggio
funzionava sempre per destabilizzarla.)
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-
Ma che stai dicendo? Se non mi hai mai appoggiata in nulla: anche per
preparare da mangiare come oggi devo lottare contro la tua resistenza.
(Barbara cercava di controllarsi, comprendeva di essere sul punto di cadere
nella trappola, ma il gioco era iniziato ormai.)
Ma se te l’ho chiesto io! È inutile, tu ce l’hai sempre con me, vieni qua per
attaccare. (Ci siamo quasi – pensò la madre – ci vorrebbe un pizzico in più di
dolore in questa frase e qualcosina per scatenare la collera di Laura.) Vieni qui
a chiedere pietà perché hai problemi e poi ti tieni quattro gatti da mantenere.
Prima commetti le follie e non mi ascolti e adesso cerchi di ferirmi perché ti
dico che hai sempre agito in modo irresponsabile. (Magistrale – pensò –
citare i gatti, adesso si sarebbe arrabbiata davvero e sarebbero subito passati al
processo. Stava diventando davvero troppo facile.)
Io davvero non ne posso più....
Laura urlò dal profondo di quel buco nero, urlò l’urlo dei sogni, senza suono, con la
voce che non supera il passo della gola, che si riflette all’interno e squarcia trachea,
bronchi, polmoni ed esplode nella cassa toracica come una vibrazione, una
deflagrazione atomica sotterranea. Urlò, urlò e continuò ad urlare fino a quando il
mondo esterno si fermò e Barbara e la madre si bloccarono, perfette statuine nel
girotondo dell’universo.
E Laura continuò ad urlare in silenzio, nel museo del suo intervallo spazio-temporale,
perfetta riproduzione del Grido di Munch e forse passarono minuti, forse ore, forse
settimane, forse mesi prima che l’urlo tacesse, prima che quella sorda e potente
vibrazione tornasse ad essere voce, parola, linguaggio, ragione, ordine.
Spossata Laura osservò le statuine fermate un secondo prima dell’olocausto, pronte a
ferirsi, a colpirsi con le croci che da tempo portavano sulla salita della vita. E disse
basta. E disse pace. E disse silenzio. E disse Amore.
Barbara si scosse insieme alla madre e tacquero. Ognuna ferma sulla sua opinione,
ognuna con la sua visione del mondo, ognuna con la sua percezione dell’altra.
Nessuna modifica in loro, nessun dolore, nessuna scelta, nessuna differenza. Tregua.
Fino alla morte tregua, pace, silenzio, Amore. Così com’erano, così come non
sarebbero mai state, così come avevano sperato di essere, così come si percepivano,
così come avevano percorso assieme la strada fino a quel punto.
Barbara riprese a preparare il suo piatto in silenzio, amandola come una madre ama
una figlia.
La madre iniziò ad aiutarla, amandola come una figlia ama una madre.
Laura pianse in silenzio lagrime stanche che cadevano sui cerchi all’entrata del buco
nero e muovevano l’acqua facendola gorgogliare.
Desiderò essere al di là, trans?
Vide la madre telefonare alla zia Lidia per raccontarle l’ultima malefatta della figlia,
Andrea inseguire se stesso, Nicola programmare la giornata, la zia aggiustarsi il
trucco e provare il sorriso ammaliante, il padre fare i conti con il passato e trovare la
felicità in un equilibrio mai sperato, Esther lottare per essere se stessa, Mauro giocare
a carte con il suo futuro, Paolo aspettarla con la mano tesa e con i muscoli del braccio
già pronti a tirarla indietro, Barbara mettersi in macchina e correre da lei, li vide tutti
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in se stessa, nel passato, nel presente e nel futuro e comprese che doveva riconoscersi
se voleva afferrare la mano di Paolo e unirsi a Barbara.
Fu allora che vide Gina e sorrise.
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CAPITOLO XVIII
Gina era lì.
Aveva seguito il suo viaggio un po’ in disparte con la riservatezza che le era propria,
aspettando il momento in cui sarebbe stata chiamata.
Sorrideva rassicurante con il suo sorriso triste e pensoso. Nessuna parola, dolore
impresso nei lineamenti senza ostentazione, sentimenti pacati e una determinazione
scolpita nel viso, nel corpo e nei movimenti che indicava quasi una missione accettata
per la vita.
Si erano conosciute per caso, riconosciute nel caos di una marmaglia alla ricerca di
qualche punto in una graduatoria, in un ambiente universitario senza valori e senza
entusiasmo, fra rivendicazioni legali e finti interessi culturali.
Non si erano più separate da quel primo giorno e non si erano mai oppresse con
pretese di appartenenza. Non erano mai passate per i gradini dell’amicizia, ma
avevano imboccato la strada della silenziosa partecipazione alla vita dell’altra.
Laura aveva per la prima volta espresso in parole il dolore per la perdita del figlio ed
era stato quasi come spiegarlo a se stessa; Gina le aveva parlato del fratello e di tutto
quello che, insieme a lui, la vita le aveva strappato.
In quei giorni entrambe si vergognavano di essere ancora vive, di avere un futuro e di
progettarlo, di svegliarsi in una mattina radiosa di luce e provare amore, gioia,
felicità, desiderio di portare il proprio ammasso di cellule in giro per la città a godere
del calore del sole.
Avevano imparato lentamente ad accettare che abbiamo in prestito un corpo per pochi
secondi in questo tempo infinito e che, attraverso l’amore, portiamo dentro di noi
coloro che abbiamo amato e che abbiamo perso, che la nostra vita è un nodo
ferroviario attraverso cui l’energia di chi ci attraversa si trasmette nel futuro e crea il
tempo, crea la successione degli eventi.
Non si può rinunciare alla propria vita se si ama: abbiamo un obbligo e dobbiamo
assolverlo con gioia, creando nuova energia, sforzandoci di trasmetterla intorno a noi,
lasciandola cadere come fiocchi di neve sulle mani avide dei bambini. Dobbiamo
lasciarla scorrere dentro di noi e moltiplicarla perché l’universo deve vivere, perché
l’amore deve vivere, perché ciò che fisicamente non è più deve trovare corpi
attraverso cui esprimersi.
Lei e Gina avevano una missione e avevano in comune la consapevolezza di ciò:
adesso Laura si era persa desiderando il nulla e Gina attendeva il momento giusto per
tirarla fuori.
Gina – pensava Laura – Gina che non era un’occasione, ma la personificazione stessa
della necessità di vivere al di sopra del dolore; Gina che era suo fratello con i capelli,
che portava dentro di sé i semi di lui e disseminava l’universo intero della sua essenza
per farlo vivere in eterno; Gina che aveva la sua personale missione; Gina che si
sarebbe sposata e avrebbe messo al mondo un figlio con il nome di suo fratello; Gina
che avrebbe seminato in suo figlio l’amore per la musica e l’avrebbe poi lasciato
libero di essere ciò che voleva perché non era importante ciò che si vedeva:
L’essenziale è invisibile agli occhi.
Era l’ultimo messaggio di suo fratello, apparso sul suo telefonino dopo la sua
scomparsa e riapparso in una piovosa e sfortunata mattina di ottobre, quando
sembrava che lei e la sua amica Laura dovessero soccombere sotto il peso di quaranta
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esseri senz’anima e senza amore, quaranta ammassi di materia informe in cui non
riuscivano a trovare un varco per far scorrere il flusso della loro energia. Quaranta
cuccioli di uomo che erano apparentemente un coagulo di sangue che bloccava
l’afflusso dell’ossigeno ai loro organi vitali – L’essenziale è invisibile agli occhi – ma
di cui avrebbero scoperto l’ingresso, la combinazione, la chiave nascosta con
impegno, con perseveranza, con dedizione alla loro missione, instillando in ognuno di
loro anche solo una piccola parte di sé e degli esseri che avevano amato.
Non avevano, lei e Gina, sentimenti altruistici ad oltranza, la loro non era una
missione umanitaria, non cercavano gloria e santità eterne, desideravano solo vivere e
non sopravvivere, desideravano che, attraverso loro, altri esseri potessero gioire e
soffrire con intensità, desideravano una pace che non fosse piatta come lo schermo di
una tv, ma densa di umori come la superficie del mare dopo e prima di una tempesta.
Gina aveva una fiducia smisurata in lei eppure era saldamente ancorata alla sua vita e
alle sue emozioni: non viveva una simbiosi parassitaria, le aveva soltanto aperto la
porta della sua anima con una naturalezza mai conosciuta da Laura. Gina le aveva
dato l’idea di essere credibile, di essere utile, di poter valere qualcosa per qualcuno
senza secondi fini, senza scenari né bianchi né colorati, aveva fiducia nella sua buona
fede, nella sua capacità di conoscere ed analizzare la realtà e la ascoltava senza paura
che ciò potesse modificare involontariamente la propria vita.
Gina era un’ancora di salvezza, era la persona che l’avrebbe guidata lungo la strada
dell’uscita perché la voleva nel mondo senza motivi personali, solo per amore, solo
perché riconosceva in lei qualcosa che meritava di vivere, solo perché non poteva più
tollerare di veder morire chi amava.
Gina era lì.
La scorgeva dietro l’entrata del buco nero, quella pozza d’acqua che ribolliva delle
loro emozioni; accanto a lei era Barbara e lateralmente, quasi nascosto, solo una lieve
presenza, era Paolo.
Laura comprese che sarebbe tornata indietro attraverso il dolore di Gina che si
fondeva con il suo e sentì una forza incominciare a trascinarla verso l’uscita.
Guardò suo figlio. Non ci sarebbe stato al di là di quella soglia, non avrebbe avuto un
volto, un corpo, una vita. Doveva dirgli addio per permettergli di vivere al di fuori di
quella dimensione in cui il nulla si reificava. Avrebbe dovuto affrontare nuovamente
il dolore della perdita, avrebbe dovuto rivivere il suo viaggio e affrontarne l’angoscia
nella realtà, avrebbe dovuto urlare e l’urlo avrebbe scosso i suoi affetti e scardinato
tutte le certezze lasciando in piedi solo ciò che era destinato a rimanere. Avrebbe
dovuto rimettersi in gioco e rischiare di rimanere sola.
Ma ci sarebbe stata Gina dall’altro lato, ci sarebbe stata la sua energia a sostenerla
nella perdita, ci sarebbe stato il suo dolore a dimostrarle che si può vivere anche
ricordando.
Gina la stava chiamando; salutò il figlio; Paolo era lì; Barbara, la sconosciuta parte di
sé, la attendeva.
Erano tutti su uno sfondo incerto, non riusciva a capire dove; si abbandonò alla
volontà di Gina e toccò la superficie dell’uscita con la punta delle dita.
Un freddo intenso la colpì, ma non ritrasse la mano; Gina era lì, la guardava negli
occhi e non le lasciava altra scelta. Si abbandonò definitivamente al flusso delle
volontà che la trascinavano fuori.
- 60 –
CONCLUSIONE
Laura chiuse gli occhi mentre lentamente attraversava la soglia del buco nero.
Avvertiva un forte attrito, una resistenza e, allo stesso tempo una forza di attrazione
crescente che la richiamava dall’altro lato.
La superficie increspata dell’uscita divideva una zona buia da una intensamente
luminosa e Laura, dopo mesi di oscurità, rimase per un attimo abbagliata dalla luce;
fece in tempo a vedere solo il corpo di Barbara, disteso, prima di ripiombare in un
buio diverso, interrotto da milioni di piccole scariche elettriche che illuminavano zone
dai colori forti e pulsanti di vita.
Comprese che stava tornando indietro entrando nel corpo di Barbara e provò una
sensazione di integrità, di appartenenza a se stessa.
Barbara era il suo perfetto specchio dall’altra parte e Laura adesso sentiva che, per
ogni cellula del suo corpo e di quello di Barbara, negativo e positivo di una si
fondevano con positivo e negativo dell’altra generando un’energia finalmente in
equilibrio nell’universo.
Il processo era lento ed avveniva in un liquido caldo di cui Laura riusciva ad avvertire
la carezza sul corpo a mano a mano che le sue cellule, uscendo dalla zona oscura, si
riunivano a quelle di Barbara. Laura ripercorse il suo cammino in questo nuovo
viaggio dentro se stessa.
Cis o trans, ancora una volta il perno su cui ruotava la sua esistenza era questo: molte
persone erano rimaste al di là di quella superficie acquosa che separava la realtà dalla
follia; le domande mai poste che la corrodevano erano state formulate e avevano
portato con sé le risposte; aveva scelto di vivere, di lottare per il suo diritto di essere
se stessa, di essere tramite dell’energia che fluiva dappertutto nel suo peculiare ed
unico modo di essere; aveva scelto di amare a testa alta, di sconfiggere la paura e
vivere assorbendo la realtà che la circondava, assecondando l’ascolto dei pensieri
altrui che, come onde radio, passavano attraverso di lei che era l’antenna che li
amplificava e li trasmetteva nell’universo.
Quel vocìo assordante di paure, emozioni, astio, amore, dolore che la colpiva ogni
volta che entrava in una stanza affollata l’aveva ferita e spaventata in passato e forse
oggi sarebbe stato lo stesso. Il lento lavorio del cervello che masticava, digeriva,
sintetizzava gli indistinti impulsi radio captati, trasformandoli in pensieri compiuti, in
domande e soluzioni, l’aveva tenuta sveglia per notti intere. Convertire il brusio di
sottofondo in distinte voci da ritrasmettere in chiaro, come un decoder, era stato in
passato un impulso insopprimibile per cui non aveva mai trovato una ragione, uno
scopo. Ora sapeva che il suo captare, sezionare, analizzare, decodificare,
comprendere, erano necessari per arrivare a sentire l’altro come parte di te, per unirti
empaticamente al mondo e comunicare al di là del linguaggio, fusi in un’unica
energia, in un unico amore.
Comunicare. Amare era comunicare e lei era stata sul punto di impazzire perché
nessuna delle persone che amava aveva mai comunicato con lei, l’aveva mai sentita
davvero, mentre lei sentiva profondamente tutti loro e non sapeva frenare la loro
pressione su di lei, non sapeva fermare l’onda di dolore che le trasmettevano, non
sapeva limitare la forza d’urto delle sue onde che rimbalzavano sugli altri
distorcendosi in figure contorte e paurose.
- 61 –
Aveva cercato di sfuggire a tutto ciò, ma Gina l’aveva riportata indietro e Barbara la
stava accogliendo dentro di sé: aveva iniziato il viaggio sicura di riuscire ad eliminare
il dolore, ad avere pace, a trovare un equilibrio definitivo, anche se nella follia.
Ma adesso, quando già la maggior parte delle sue cellule e di quelle di Barbara si
erano fuse, quando i due cuori avevano iniziato a battere all’unisono, quando i
neuroni dell’una si completavano con quelli dell’altra e gli occhi di entrambe
vedevano le stesse cose, quando osservava la superficie dell’uscita dal punto di vista
dell’entrata, già immersa nella luce del giorno, comprendeva che sarebbe sempre stata
lì a camminare come un funambolo su quella sottile linea di demarcazione fra il nulla
e il mondo, sulla soglia della follia.
Comprese che la vita era quella per lei e per tutti coloro che sceglievano di rimettersi
in gioco ogni volta, di affrontare il dolore dell’espansione, della pelle che si tende, dei
muscoli che si stirano, della testa che ti scoppia.
Per fare spazio.
Agli altri e a se stessi.
All’amore.
E, sotto il pelo dell’acqua, in quella vasca da bagno dove lei e Barbara erano
finalmente unite e dove forse aveva sognato per ore o forse mesi, vide tutto quello che
aveva lasciato dall’altra parte e che in ogni momento poteva risalire a galla se lei si
fosse concessa al fantasma della disperazione.
E, chiaramente come in una visione notturna, mentre il telefono squillava, la radio
suonava, un messaggio di Paolo arrivava sul cellulare e la vita ritornava da lei
prepotentemente, vide che il dolore l’avrebbe sempre accompagnata e che il dolore
era energia.
E vide che, sempre e per sempre, lei avrebbe saputo sottrarre al dolore più di quanto
lui potesse rubarle.
- 62 –
LA COSTANZA DEGLI ISTINTI
CAPITOLO I ...........................................1
CAPITOLO II..........................................6
CAPITOLO III.........................................9
CAPITOLO IV ......................................11
CAPITOLO V........................................13
CAPITOLO VI ......................................17
CAPITOLO VII .....................................21
CAPITOLO VIII....................................28
CAPITOLO IX ......................................30
CAPITOLO X........................................32
CAPITOLO XI ......................................34
CAPITOLO XII .....................................36
CAPITOLO XIII....................................39
CAPITOLO XIV ...................................44
CAPITOLO XV.....................................47
CAPITOLO XVI ...................................49
CAPITOLO XVII ..................................54
CAPITOLO XVIII.................................59
CONCLUSIONE ...................................61
- 63 –
IL PECCATO
Patricia Panebianco
Francisco Goya – Saturno che divora suo figlio
Museo del Prado – Madrid
CAPITOLO I
Le valigie erano già davanti alla porta. Diede un ultimo sguardo all’ingresso e notò ancora
una volta quella fastidiosa macchia di umido. Leggermente più in là giacevano alcuni oggetti
abbandonati durante il trasloco, ma non sufficientemente odiati da gettarli via.
Un capitolo si era chiuso quasi senza lasciare tracce: non c’erano morti, feriti o dispersi; il
telegiornale stasera non ne avrebbe parlato; lei stessa non riusciva a prevedere le reazioni che
avrebbe avuto appena uscita per l’ultima volta da quel portone.
Quella casa era stata per lei La Casa fino a quando aveva una vita, ora doveva affrontare
nuovamente il trauma della nascita portando con sé solo due piccole valigie ed una serie
insignificante di oggetti.
Fu tentata di rientrare ed affacciarsi per l’ultima volta a quella finestra davanti al mare, dove
aveva trascorso lunghe ore oscillando fra la meditazione e la pienezza del vissuto. Decise di
chiudersi la porta alle spalle senza pensare più a nulla, come sempre aveva fatto in passato.
La porta d’ingresso cigolò lentamente fino a compiere il fatidico ultimo scatto con un rumore
metallico conosciuto ed amico; Claudia si ritrovò fuori in un’aria gelida di febbraio con la
sensazione che la sua vita fosse un foglio assolutamente bianco su cui incominciare a scrivere
una storia.
Non aveva più una meta, un punto di riferimento, un passato a cui appigliarsi o un presente da
continuare a vivere, tutto era futuro, angosciante futuro senza previsioni, statistiche da
applicare, coordinate su cui muoversi. La rotta era più che incerta visto che incerta era la
meta.
Posò le valigie in macchina e respirò profondamente, l’aria si distribuì all’interno dei polmoni
con lentezza, quasi a volerle dare il tempo di pensare alla sua destinazione, ma non sarebbero
bastati anni perché Claudia non sapeva proprio dove andare.
La situazione era precipitata nell’ultimo mese: Giacomo rientrava la sera apparentemente
come al solito, ma lei si chiedeva sempre più spesso chi fosse in realtà quell’uomo che vestiva
i panni di suo marito.
Erano sposati da sedici anni e non avevano figli: Giacomo aveva sempre sostenuto di non
volerne perché diceva di considerare il loro rapporto un cerchio perfettamente chiuso e sentiva
che un figlio avrebbe distrutto la perfetta complicità fra di loro. Claudia si era adattata
malvolentieri a questa scelta: era convinta che non esistessero cerchi perfettamente chiusi e
spesso sentiva nel loro rapporto la mancanza di qualcosa che non avrebbe saputo definire.
Aveva spesso pensato in quegli anni, quando si svegliava la notte ed osservava quel corpo di
un estraneo accanto a lei, che se lui fosse stato il padre dei suoi figli questo gli avrebbe
conferito un’identità meno sfuggente di quella che aveva.
Era riuscita, fino all’ultimo mese, a celare abbastanza bene la sensazione di estraneità che
provava: Giacomo era orgoglioso di lei, donna indipendente, giornalista, fotografa, tutto il
giorno fuori di casa e la sera così interessante, con tante cose da dire, da raccontare.
Con Giacomo aveva sempre potuto essere se stessa ed essere anche donna. Lui non si era mai
sentito minacciato dalle sue capacità e dalla sua sicurezza e l’aveva sempre spronata verso
mete più alte. Claudia aveva sposato Giacomo per questo motivo: ai tempi del loro
matrimonio lei credeva che fosse diverso dagli altri uomini che erano passati per la sua vita
perché doveva avere una fortissima personalità che si nascondeva sotto un aspetto
apparentemente innocuo. Non aveva motivo di pensare altrimenti anche perché era un uomo
colto, sensibile, bello e con un’ottima posizione sociale. Solo una cosa l’aveva resa perplessa
in quei giorni: la presenza di un’imponente figura materna che sembrava sedere sempre alla
destra di Giacomo in ogni occasione, da un invito a cena ad una notte di sesso. Claudia aveva
presto rimosso questa sensazione sgradevole interpretando la cosa come un forte rispetto da
parte di Giacomo per le capacità del sesso femminile e per gli insegnamenti che dalla madre
aveva ricevuto.
Questa distorsione inconscia della realtà le aveva permesso di sposare Giacomo senza nessun
ripensamento e l’aveva gettata in una vita che era stata una trappola fin dal primo giorno di
matrimonio.
Non era stato difficile capire che Giacomo non possedeva una forte personalità e che il suo
compiacimento per le qualità di Claudia era solo paterno: lui l’aveva scelta come figlia e non
come moglie e questo era l’unico motivo per cui non si sentiva minacciato da lei, ma, anzi,
accresciuto da ogni suo progresso. Era stato gravoso per Claudia convivere con un padre per
sedici lunghi anni: i loro rapporti si erano fatti sempre più rari e funestati dal sospetto
dell’incesto, nessun figlio, nessuna tensione, nessuna emozione in lei.
Il peccato si era fatto strada dentro di lei come unica forma di sopravvivenza: la
disobbedienza, il tradimento, la perversione, l’incesto, la sua vita si svolgeva alla ricerca di
qualsiasi azione che disobbedisse al comandamento Onora il padre, solo questo le permetteva
di ritornare nella Casa ed essere ciò che Giacomo desiderava.
Nemmeno lei era immune da colpe: quando lo aveva incontrato aveva vent’anni e una tragica
storia d’amore alle spalle. Aveva trovato sicure le sue braccia e la sua compostezza nei
sentimenti e si era appoggiata completamente a lui per continuare a seguire la sua strada. A
quei tempi era solo un’aspirante giornalista come tante e la certezza di Giacomo che lei
sarebbe diventata una grande reporter l’aveva sorretta nel lungo e difficile cammino. Aveva
scoperto subito che non l’avrebbe mai amato e che, invece, il suo corpo e la sua mente
richiedevano questo sentimento per sopravvivere, ma aveva accettato un destino di tradimenti
e di rimorsi in cambio della sensazione di essere protetta e attribuendo a Giacomo la colpa,
dal momento che era incapace di amarla come lei desiderava.
La loro vita era trascorsa pacificamente e gli unici momenti di tensione derivavano da piccole
incomprensioni o dalla densa cappa di malumore di Claudia ogni qualvolta una delle sue
storie d’amore parallele si dissolveva in richieste di esclusività.
Poi il fatidico 1994, l’anno in cui Maurizio era entrato nella sua vita.
Erano passati già sette anni e Claudia aveva visto crollare l’illusione su cui era fondata la sua
esistenza.
Un uomo bussò al finestrino della macchina e Claudia si scosse. Aveva l’aspetto di un
vagabondo e non sembrava molto pulito mentre tendeva la mano con un gesto da mendicante.
Claudia scosse la testa in segno di rifiuto e controllò con lo sguardo che le sicure della
macchina fossero inserite. Osservò nuovamente l’uomo che continuava ad insistere battendo
leggermente il cristallo dell’auto con un gesto ritmico e martellante. Provò un enorme senso di
fastidio, come se quell’uomo cercasse di violentarla entrando in un momento decisivo della
sua vita con quei vestiti logori e gli occhi rossi dell’alcolizzato. Le sembrò di ricordare quei
lineamenti come se fossero familiari e pensò che tutti potevano incorrere in quel destino,
specialmente coloro per cui la vita era stata un perenne conflitto e, imprigionati dal cerchio
della società, decidevano di sparire dalla scena vivendo ai margini, ricomparendo
lateralmente, ombre di se stessi.
Si accorse di essere più che mai vicina a questa scelta, chiusa dentro una macchina e senza un
posto dove andare, senza una sola persona al mondo da raggiungere.
L’uomo si allontanò borbottando qualche insulto incomprensibile e Claudia riprese il filo dei
suoi pensieri.
Aveva avuto molti amanti durante il suo matrimonio, ma mai aveva pensato a rimettere in
discussione la sua vita perché nessuno era mai stato in grado di darle qualcosa che facesse
pendere il piatto della bilancia dalla sua parte. Nell’innumerevole serie dei tradimenti si
alternavano uomini dalla consistenza fumosa e esseri umani fragili e ricchi di insospettabili
pregi da cui Claudia aveva attinto a piene mani la forza per crescere, migliorarsi e diventare la
donna che Giacomo poi continuava a spingere verso le vette del potere.
-2-
Si era sorpresa più volte a rubare i pensieri e le parole di quei sempre più giovani trastulli del
suo tempo libero per poter riuscire a scrivere con ancora un po’ di sentimento, di passione, di
innocenza. Aveva visto troppo nei suoi lunghi anni di giornalismo ed era diventata come un
medico di lunga esperienza in una corsia di ospedale: nessuna partecipazione, nessuna
emozione, solo lucide analisi di avvenimenti che potevano riguardare un furto su una
bancarella come una strage in un mercato rionale. Gli esseri umani erano solo parole nere su
una pessima carta sporca di petrolio, erano cartelle, caratteri, un numero predefinito di lettere
da inserire in uno spazio predefinito, qualsiasi fosse il loro dolore, qualsiasi fosse la loro
storia.
Quando aveva incontrato Maurizio era disgustata di se stessa e desiderava sciogliersi da
quella schiavitù. Si trovavano in Bosnia e il dolore aleggiava nell’aria saturandola
completamente e premendo in modo insopportabile sulla sua anima, pure così avvezza alla
sofferenza altrui. Maurizio era un fotografo, prima che un giornalista e le aveva mostrato
come cogliere tutta la profondità delle umanità che descriveva attraverso le immagini. Non
c’erano limiti in un’immagine, solo la sensibilità di chi coglieva l’attimo, non c’erano spazi
che comprimessero l’intensità di uno sguardo, di una piccola macchia di sangue su un corpo
ormai immobile. La fotografia rivelava l’anima del fotografo e del fotografato, le univa in un
vincolo indissolubile e contraddiceva tutto ciò che la parola riusciva ad esprimere. La
fotografia era la pittura del nostro secolo, era l’anima catturata in un attimo irripetibile, era un
segnale inequivocabile per il mondo che Dio esisteva ancora, che non tutto era finito in quei
campi di prigionia, che c’era ancora una speranza di crescere, di non autodistruggersi
nell’indifferenza.
Claudia aveva appreso da lui l’amore per il mondo prima che l’amore per lui: era diventata
con pazienza una fotografa stimata e non esisteva nessun suo articolo a partire da quella data
che non fosse preceduto da una foto che lo superava, che lo smentiva, che gettava in faccia a
tutti gli acquirenti del suo stupido giornale la verità, l’angosciante e scomoda verità che la
guerra, a prescindere da ogni motivo politico, storico, sociale, economico, razziale, territoriale
era un crimine contro l’umanità, era un delitto perpetuato contro ogni singolo essere esistente,
contro ogni madre ed ogni figlio, contro ogni residuo di intelligenza in una popolazione
mondiale ottenebrata dal progresso fino a farlo diventare padrone del proprio destino e non
utile servo per la propria crescita morale.
Claudia esitava ad usare il termine morale, svilito dall’uso improprio delle tante religioni che
pretendevano l’esclusivo possesso della verità. Aveva fotografato uomini in preghiera di
fronte a divinità diverse e contrapposte in una lotta secolare e tutti avevano lo stesso sguardo,
tutti esprimevano una domanda che accompagnava l’umanità da secoli o millenni: dove
stiamo andando?
Ed ora lei si chiedeva, davanti al suo personale Dio dal volto incerto e dalle ferite profonde
quanto quelle di Cristo in croce – e forse era proprio lui, ma lei non poteva dirlo con certezza
– dove sto andando? con la stessa angoscia dei profughi che aveva visto camminare in fila per
le montagne sulle strade della Bosnia, con la stessa terribile sensazione di aver perso la
propria casa, la propria vita, il proprio destino così certo e così stabile fino a qualche giorno
prima.
Il destino di un uomo e il destino del mondo, nessuna differenza se non la scala di
rappresentazione, nessuna vergogna nel paragonarli: ogni uomo è l’intera umanità in una scala
più ridotta, ogni uomo è responsabile del destino del mondo, tutta l’umanità è responsabile del
destino di un uomo. Lei aveva mandato via quel vagabondo, forse un extra-comunitario, lo
aveva gettato nella disperazione, aveva accettato che morisse di fame sul ciglio di una
qualunque strada della sua città. Domani il figlio di questo povero essere senza meta l’avrebbe
odiata e, senza conoscere il suo volto, avrebbe vomitato su un altro essere come lei tutto
l’odio che riuscivano a produrre le sue cellule neurali. Lei aveva creato un solco, aveva
compiuto un gesto irreparabile con la stessa tranquillità con cui si era lavata i denti quella
mattina prima di uscire. E domani avrebbe fatto la stessa cosa perché guardando negli occhi
-3-
quell’uomo o qualsiasi altro uomo come lui avrebbe visto odio e rancore e insulsa
rappresaglia verso una rappresentante della razza che aveva umiliato o ucciso il padre o il
parente o l’amico più caro.
Claudia aveva spesso fotografato l’odio in quegli anni e, osservando i negativi delle sue foto,
aveva scelto con un certo compiacimento quelle che maggiormente potevano ferire e
impressionare gli inconsapevoli e distratti lettori del suo giornale. Aveva seminato scampoli
di rancore per il mondo accompagnandoli con razionali vivisezioni dei protagonisti
dell’evento. Aveva scandagliato, investigato, intervistato e riportato storiche frasi che
alimentavano la confusione fra realtà e interpretazione. Aveva seguito la strada indicata da
Giacomo e poi da Maurizio per la lotta al potere, la strada di chi sa di poter cogliere la totalità
della verità e trasmette solo ciò che gli altri vogliono vedere e sentire, di chi usa la parola per
manipolare, per dividere, per colpire.
Aveva scelto di parlare solo per chi era già in grado di comprendere e di lasciare che il resto
del mondo, per lei stupido e irrilevante, avallasse i crimini della parte da lei prescelta in
cambio di una fama e di una notorietà di cui non aveva ancora ben compreso l’utilità.
Era stata complice ed attiva ideatrice in una insolita associazione a delinquere formata dal trio
Claudia-Giacomo-Maurizio e aveva contribuito a creare un mondo in cui adesso lei era dalla
parte dei perdenti e pagava il fio delle sue colpe.
La situazione era cambiata, c’era qualcosa di nuovo in cui lei e Giacomo erano attori non
protagonisti e Maurizio era uscito di scena in un modo orribile, ma, forse, nell’unico modo in
cui una persona come lui potesse desiderare uscire di scena.
Maurizio era morto, lo testimoniava una delle sue ultime fotografie, un’irresistibile tentazione
di mostrare al pubblico una realtà crudele al di là dei propri sentimenti, forse cancellandoli.
Era morto colpito da una raffica di proiettili ad una decina di metri da lei, senza uno sguardo
d’amore, senza una parola, lontano da lei centomila miglia a causa della loro ultima
discussione a colazione, con uno sguardo interrogativo, con una domanda inespressa e per
sempre senza risposta: ne valeva la pena?
Nessuno avrebbe mai potuto rispondere a quella domanda, nemmeno il Dio che ognuno di noi
ritiene sia l’unico, nessuno avrebbe più potuto ridargli il futuro che gli era stato per sempre
sottratto, nessuno avrebbe mai più donato incertezze alla sua vita ormai piena dell’unica
certezza che abbiamo e che è la morte.
L’aveva fotografato ed aveva venduto il suo dolore al miglior offerente, era diventata la più
grande giornalista italiana, avrebbe potuto vendersi ad un prezzo altissimo se non fosse stata
così stupida da rovinare tutto con ripensamenti e rimorsi “postumi” con cui aveva reso inutile
il sacrificio. Maurizio da quella foto, con gli occhi ancora aperti, con tutto nello sguardo meno
che lei, aveva fatto il giro del mondo, perfetta vittima di uomini di seconda scelta, da
eliminare, da cancellare, da rimuovere. Maurizio era diventato il simbolo della verità, della
giustificazione per una guerra in cui non aveva mai creduto. Lei aveva ucciso Maurizio una
seconda volta in un modo più crudele e più subdolo di mille talebani convinti di essere guidati
da un Dio unico e giusto, né più e né meno di mille americani sicuri di servire un paese ed un
Dio unici e giusti.
Aveva vissuto con Giacomo troppi anni per non aver assorbito l’idea che l’apparenza
sostenuta con convinzione è più vera di qualsiasi realtà ed, in fondo, Maurizio non era poi
così diverso da suo marito se non per il fatto che lui agiva in prima persona mentre Giacomo
demandava a lei ogni azione, la guidava fino a farle compiere tutto ciò che lui riteneva
importante e che non era in grado di fare. Giacomo viveva attraverso di lei come spesso i
genitori vivono attraverso i figli: condizionandoli, dirigendoli, pilotandoli verso le loro mete,
convincendoli che sono mete giuste e comuni a tutta l’umanità.
Claudia non si riteneva innocente: aveva compreso da tempo gli intenti di Giacomo e li aveva
condivisi e adesso ne scontava il prezzo, adesso era dentro quella macchina con un segreto
dentro di sé e nessun posto che fosse libero dai fantasmi del passato, nessun posto dove
fermarsi a comprendere, nemmeno quel posto instabile, davanti al portone di casa, dove un
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vagabondo entrava nei suoi pensieri sconvolgendoli e dove, da un momento all’altro,
Giacomo sarebbe potuto arrivare a prendere le sue valigie, forse solo o forse in compagnia,
ma, comunque, lontano come mai lo era stato in quegli anni di evidente, ma occultata,
estraneità.
Claudia mise in moto la macchina con il gesto meccanico di chi ritira la mano di fronte al
calore del fuoco: non poteva rischiare di incontrarlo. Si diresse istintivamente verso la
spiaggia e si fermò solo quando davanti a lei la distesa viola del mare invernale occupò tutto
l’orizzonte.
Dopo la morte della madre Giacomo era cambiato: erano sposati già da sette-otto anni e, fino
ad allora, era stato un compagno perfetto. Non l’aveva mai spinta oltre la sua reale volontà di
crescita e l’aveva guidata dolcemente nei progressi della sua carriera. A volte aveva anche
usato la sua influenza per aprire qualche porta ostinatamente chiusa, ma era stata sempre lei a
farsi valere e non aveva mai accettato nessun compromesso.
Già alcuni giorni dopo il funerale Giacomo le era apparso pensieroso ed assorto: sembrava
che stesse facendo un bilancio della sua vita per giocare una nuova partita dopo un
rimescolamento di carte. La mattina sembrava osservarla con occhi nuovi e la notte, dopo
tanti anni di disinteresse, aveva più volte provato a fare l’amore con lei con una passione più
cercata che sentita. Claudia ricordava che le occasioni di sesso fino a quel momento erano
solo quelle che lei riusciva a rubargli con cattiveria e sadismo svegliandolo nel cuore della
notte e approfittando del suo stato di semi-incoscienza. Il risveglio completo di Giacomo dopo
quegli atti affrettati e animaleschi era sempre seguito da qualche giorno di malumore
derivante da un senso di colpa strisciante e al di là di ogni razionale comprensione.
Evidentemente Giacomo aveva cambiato pelle come un serpente dopo la scomparsa di quella
presenza costante accanto a lui ed aveva incominciato a riconsiderare il suo rapporto con
Claudia alla luce delle sue nuove esigenze. Claudia era sicura che, dopo qualche tentativo, si
fosse convinto di non poter più tornare indietro e modificare presupposti così radicati come
quelli del loro rapporto.
Da quel momento Giacomo, quasi a voler giustificare la sua rinuncia a qualsiasi
cambiamento, aveva spinto Claudia prepotentemente verso il successo ed in breve tempo lei
era diventata una stimatissima corrispondente di guerra.
Ma Claudia non era contenta del suo percorso, non lo sentiva più suo, avvertiva dietro le sue
azioni e le sue parole l’incombente presenza di Giacomo che, nel frattempo, si staccava
lentamente dal suo ruolo di pigmalione per prendere la forma di avido motore delle sue scelte.
Era stato allora che lei, entrata nell’Olimpo dei grandi giornalisti, aveva conosciuto Maurizio
e, per la prima volta, aveva celebrato un tradimento non per ritorsione contro la figura paterna
di Giacomo, ma per una sua esigenza personale, per una completa affermazione di se stessa di
fronte all’estraneità della vita che suo marito stava costruendo per lei.
Erano stati mesi difficili e Maurizio, sempre in giro per il mondo, le scriveva lunghe e
poetiche lettere che accompagnavano fotografie che la scuotevano profondamente.
Il peso di quella corrispondenza era ancora reale, l’unica realtà che rimaneva della loro
relazione: dentro una delle sue valigie le lettere, chiuse in una scatola di cartone bianco senza
identità, pulsavano ancora del lento e lungo battito che aveva avuto il cuore di Maurizio. Era
rimasta ad ascoltarlo per lunghe notti insonni come un amichevole ticchettio di un pendolo
che scandiva il tempo delle atrocità che si consumavano intorno a loro. Lo aveva sentito
rimbombare nelle orecchie dopo quella raffica che lo aveva colpito mentre, con la stessa
lentezza con cui lui cadeva al suolo, lei afferrava la macchina fotografica e scatto, dopo
scatto, dopo scatto, consumava il suo più grande peccato.
Finché era cessato.
-5-
CAPITOLO II
Giacomo sbucò come un ladro da una stradina a destra della casa. Aveva aspettato che
Claudia andasse via dopo essere arrivato con un anonimo taxi. Non desiderava vederla e
creare un spiacevole scena di commiato che lo avrebbe infastidito. Il termine “infastidito” lo
stupì: dopo anni di matrimonio e di vita insieme l’unica sensazione a rimanere costante era il
fastidio. Una nota sbagliata nell’interpretazione di una partitura, una chiusura non conforme
alla perfezione voluta che era stato il suo rapporto con Claudia. Giacomo aveva escluso subito
la possibilità di un sentimento dirompente e invasivo e per questo l’aveva scelta, quasi come
si sceglie una casa o una macchina: tenendo conto dei pregi e dei difetti e pesandoli
attentamente sul piatto della bilancia. Claudia non provava per lui un devastante e spiacevole
amore che lo potesse condizionare nella sua vita – ma lui aveva una sua vita? – e lo
gratificava perché aveva bisogno di lui per crescere. Non desiderava un finale che non fosse
consono alla sua costruzione della loro storia e non poteva incontrarla in quel momento,
sommersa dai sensi di colpa e instabile come una donnetta qualunque da comprare all’angolo
di una strada.
Claudia in quella versione lo atterriva e lo disgustava come i miserabili all’entrata della
metropolitana.
Era stata per lui un traguardo irraggiungibile: splendida dea dalle membra bianche e morbide,
era una creatura di cui vantarsi come se fosse fuoriuscita dal suo corpo, dalle sue cellule
seminali, dalla sua idea di figlia.
L’aveva amata profondamente più di quanto un uomo possa amare la propria donna, più di
quanto sia consentito ad un amante. L’aveva amata come si ama una figlia desiderata, come si
ama una parte di sé e non aveva mai smesso di amarla perché un amore di questo genere non
cessa con il tempo e con la stanchezza. Dopo sedici anni di matrimonio, dopo mille tradimenti
da parte di lei ed un solo sconvolgente tradimento da parte sua, lui poteva affermare con
assoluta certezza che ancora l’amava, ma che non poteva più vivere insieme a lei perché
voleva qualcosa di diverso, di meno forse, ma diverso.
Con il pensiero corse ad Anna, alla donna che gli avrebbe telefonato di lì a poco per portarlo
via da quella casa ed iniziare una nuova vita con lui: si chiese se lei era davvero ciò che
desiderava. L’aveva conosciuta ad una riunione dei colleghi di Claudia: era una giornalista
che muoveva i primi passi in un ambiente a lei sconosciuto e gli aveva ricordato la spontanea
innocenza di Claudia nei primi anni del loro fidanzamento e del matrimonio.
Circa otto anni prima, dopo la morte di sua madre, lui era alla ricerca di una sua identità che
fosse separata da quella di Claudia o di qualsiasi altro essere umano. Aveva amato, stimato e
rispettato profondamente la madre, si era modellato sulla sua visione del figlio perfetto ed era
riuscito a non deluderla mai perché viveva ogni attimo della sua vita considerandola presente
a giudicare le sue azioni. Conosceva perfettamente il suo modo di vedere le cose ed aveva
imparato ad applicarlo simultaneamente agli avvenimenti ancora prima di poter esprimere un
proprio pensiero. Come un emigrato apprende a pensare nella lingua del paese ospite, ma
continua ad avere la propria lingua di origine come lingua madre, così lui aveva appreso a
pensare con le strutture mentali della madre pur mantenendo intatta negli anni la sua propria e
parallela visione delle cose.
Non si poteva nemmeno dire che la madre lo avesse dominato perché la sua era stata una
sottomissione anticipata, una resa senza condizioni ad un nemico non ancora esistente.
Apparentemente comune, di media statura, un viso come milioni di altri, un incedere non
particolarmente dimesso né fiero, un vestire impeccabile ma modesto, la madre si era fatta
avanti nel mondo vivendo attraverso gli altri. Aveva subito compreso che il suo non comune
ingegno non era accompagnato da doti sufficienti per il successo e aveva vissuto prima
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attraverso il marito, trasformandolo da piccolo medico di provincia in stimato professore
universitario e, alla sua precoce morte, attraverso il figlio che aveva proseguito sulla strada
del padre.
Mai, né dai suoi atteggiamenti, né da allusioni, aveva fatto pesare il suo intervento sulla loro
vita: riusciva magistralmente a tirare ed allentare le redini in modo da condurli sulla strada da
lei segnata senza mai un colpo di frustino, senza mai un lampo di luce in quegli occhi
volutamente inespressivi.
Avida lettrice, si limitava a lasciare le riviste casualmente aperte sugli articoli che dovevano
essere letti; con tempismo perfetto conosceva al supermercato le mogli delle persone “giuste”
al momento giusto; riusciva, parlando di dolci e di frivole cose, a creare analogie che
indicavano, prima al marito e poi al figlio, la strada da seguire.
Nessuno dei due aveva mai avuto la possibilità di ribellarsi a questo strisciante indirizzamento
perché non era nemmeno lontanamente dimostrabile che provenisse da lei.
Giacomo aveva spesso pensato che la tentazione di Satana avrebbe potuto essere pienamente
rappresentata solo attraverso l’innocuo viso della madre.
Anche nella scelta della moglie Giacomo aveva seguito il silente comando materno:
perpetuare la specie, vivere in un altro ed aveva scelto Claudia.
Così capace e così priva di determinazione, così insicura e fragile sotto una scorza di
durissimo acciaio, Claudia era la perfetta figlia che la madre gli aveva silenziosamente
richiesto.
Giacomo non era riuscito ad obbedire a questo ultimo pressante ordine e, per eliminare ogni
tentazione di dare al frutto del suo seme il destino di una vita attraverso gli altri, aveva
silenziosamente effettuato già a diciotto anni un intervento di vasectomia. Claudia era il
miglior surrogato che lui potesse offrire alla madre e gli consentiva di prendere tempo con lei.
Quando era morta la madre Giacomo aveva sepolto con lei anche la tentazione – almeno così
credeva – ed aveva iniziato a pensare ad una sua vita, ma presto si era reso conto di non avere
la forza sufficiente per usare le proprie aspirazioni per se stesso. Non poteva essere più un
giornalista, come aveva sempre desiderato e, ormai, aveva spinto troppo esplicitamente
Claudia che si era risvegliata dal decennale incantesimo e che, probabilmente, era ormai
definitivamente uscita dalla sua sfera di azione.
In quel momento era entrata in gioco Anna. L’amica di Claudia, ferita dall’abbandono del suo
misterioso amante, che desiderava il successo di Claudia, la carriera di Claudia, la vita di
Claudia. E lui era stato lì, innocuo volto dello stesso Satana tentatore che aveva visto in sua
madre; l’aveva condotta per le strade di Claudia in modo impercettibile, senza sensi di colpa,
mantenendo immutato tutto l’esistere intorno a loro.
Erano passati sette anni ormai e Claudia aveva lentamente percorso una strada che a tratti si
inerpicava ed a tratti precipitava nell’abisso. Senza la sua silenziosa guida aveva proseguito
da sola nel cammino indicatole ed era riuscita, nel suo fallimento personale, a staccarsi da lui
e dal destino che lui le aveva assegnato.
Ma senza Claudia, pensò Giacomo, Anna non aveva più senso. L’aveva usata come ripiego,
come surrogato di Claudia in un momento di transizione in cui non sapeva staccarsi da lei e
voleva, allo stesso tempo, tagliare il cordone ombelicale che li legava. Anna era stata il suo
cerotto contro il fumo, la figlia adottiva con cui non era peccato il desiderio, era stata il rifugio
quando Claudia era lontana con la mente e con il corpo.
E adesso si trovava lì, ad aspettare un clone malriuscito di una donna che ormai non esisteva
più ed a chiedersi ancora una volta qual era la sua vita, qual era il suo destino al di là di quello
stabilito dalla madre, al di là del suo ruolo di anello nella catena dei peccatori contro l’umana
natura mortale.
Giacomo si sedette su quella che un tempo era stata la sedia di Claudia e che adesso era una
scatola di cartone contenente alcune delle cose che oggi lui avrebbe portato via.
Provò a pensare: cosa sarebbe successo se, invece di costringere la sua proiezione-moglie alla
scrittura, avesse preso lui una penna in mano ed avesse rischiato di essere se stesso e di fallire,
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come tutti gli altri esseri umani? Poteva essere ancora capace di trovare una sua dimensione
nel presente?
Provò a chiedersi: se, invece di seguire il richiamo delle tentazioni di sua madre, avesse
seguito il suo istinto, avrebbe mai potuto dimostrare a se stesso di riuscire a vivere nel
presente?
Guardò con attenzione il suo corpo e le sue mani e vide ciò che vedeva sua madre in se stessa:
un ammasso di cellule che potevano essere mosse solo dalla volontà altrui. Sentì il dolore
cocente dello scarto temporale esistente fra la sua vita interiore e il suo corpo: la sua mente
aveva vissuto nel corpo di Claudia ed ora di Anna e, se avesse abbandonato Anna, sarebbe
morta; il suo corpo viveva mosso dalla mente della madre che, anche adesso, continuava a
inviare ai suoi muscoli gli impulsi necessari al movimento.
Adesso sentiva che la madre conosceva il suo segreto, sentiva che rovistava fra i suoi organi
con impazienza e disappunto cercando di ricostruire il canale del seme per continuare a
vivere, sentiva l’alito caldo della tentazione assalirlo e spingerlo alla ricerca di una nuova e
giovane vittima da immolare sull’altare dell’eterna lotta fra il bene e il male, dell’eterna
battaglia fra la caducità delle cellule e l’immortalità della mente.
La sua storia e quella della madre e quella di tutti gli uomini e le donne che li avevano
preceduti era il tentativo della mente di non morire vivendo in un corpo altrui, era la versione
postmoderna della possessione, era la storia del pronipote di Satana che sfruttava le
conoscenze umane per vivere al di là del volere di Dio, era la versione cattolica della
reincarnazione.
Giacomo afferrò la penna che Claudia usava sempre e iniziò a scrivere senza sosta, senza
sapere nemmeno cosa. Scriveva fiumi di lettere che i suoi occhi vedevano singolarmente
come in un sussidiario delle elementari, scriveva senza conoscere e senza comprendere,
scriveva con la mente della madre, con il sangue della madre, con il ventre della madre, con la
voce della madre, con il respiro della madre. Scriveva sui fogli abbandonati da Claudia, sui
fogli che nemmeno Anna, la sua dolce, attraente e remissiva Anna, avrebbe mai voluto e che
sua madre stava appositamente sporcando per dirgli che voleva un erede, che voleva ciò che il
suo corpo non poteva più dare, che voleva un corpo in cui vivere per sempre… immortale…
come Dio.
E continuava a scrivere un nome… Viola… Viola… Viola… Solo la lettera maiuscola gli
diceva che si trattava di una persona, ma chi? Sua madre conosceva già il futuro e, prima di
lei, gli altri uomini e le donne che erano vissuti proiettati nei corpi altrui, che non avevano
trovato il coraggio di vivere nel presente e morire per sempre senza rimpianti, senza ricordi,
con le loro proteine, vitamine, enzimi e cellule macerate dal tempo.
Uomini e donne che avevano barattato la libertà con un surrogato della vita eterna e che
adesso premevano su di lui perché non spezzasse la catena … Viola …
Giacomo si alzò, era spossato e sentiva il suo corpo lacerato. La madre si era ancora una volta
imposta a lui proprio nel momento in cui lui cercava di riprendere la propria strada; ancora
una volta era intervenuta ad indirizzarlo, a correggere la traiettoria; ancora una volta aveva
guidato le sue azioni privandolo della libertà di vivere e di morire.
Cercò di dimenticare, come aveva sempre fatto, la sensazione di non appartenere a se stesso e
riprese a pensare alla sua vita con Anna.
Lei era di una bellezza discreta e rassicurante, attraente nei suoi tailleur classici, sempre
curata ma in modo naturale. Aveva un che di inglese nella sempre pacata manifestazione delle
emozioni e sembrava voler passare fra la gente senza farsi notare, senza nemmeno spostare
l’aria con la sua andatura leggera e aggraziata.
Anche nell’espressione delle opinioni, negli articoli, nelle interviste, si avvertiva la volontà di
evitare che le sue idee avessero un peso, una forza determinante nel direzionare le volontà
altrui: se Giacomo avesse saputo dipingere la forza del bene avrebbe avuto il volto di Anna.
Ma Giacomo sapeva di non poter restare ancora a lungo con lei: aveva deciso di spezzare la
catena e trovare una sua strada in questa vita ed Anna rappresentava una tentazione troppo
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forte per la sua debolissima volontà. Manovrarla, manipolare le sue scelte, offuscare con
l’oscurità del suo peccato il candore di quel volto era un gioco troppo allettante e Giacomo,
ancora scosso dalla fine – se pur voluta – del suo rapporto con Claudia, desiderava dare una
svolta alla sua vita e provare a dirigere il proprio destino verso le mete da lui scelte.
Provò a sedersi ancora davanti a quel foglio di carta… non poteva scrivere perché la sua mano
avrebbe seguito la mente della madre, ma poteva rifiutarsi di scrivere. Comprese che, ancora
una volta, come quando aveva scelto di non poter mai più procreare, l’unica forma di
ribellione al male che lo dominava era il rifiuto, la negazione di ogni azione.
Era ancora immobile davanti al foglio quando squillò il telefono.
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CAPITOLO III
Claudia entrò al giornale con passo deciso, pronta a lottare per l’idea che si accingeva a
proporre al direttore.
Aveva pensato a lungo davanti al mare e si era resa conto di non riuscire più a tollerare la sua
vita. Non poteva più rimanere in quella città, camminare lungo quelle strade, osservare i volti
inespressivi delle persone agli incroci. Da quando era stato ucciso Maurizio una parte del
mondo era morta con lui e, spesso, lei stessa si sentiva soffocare come se fosse stata sepolta
viva.
Anni di dipendenza psicologica da Giacomo le avevano rallentato i riflessi ed aveva a lungo
giocato con la sua sfortuna per compiangersi, ma, alla fine, la sua innata voglia di combattente
aveva preso il sopravvento su quella stagnante autocommiserazione ed aveva compreso che
doveva rimettersi in viaggio per ricostruire a suo modo ciò che della sua vita voleva ancora.
Non aveva un luogo dove andare? Questo era sicuramente vero perché, in realtà, lei aveva più
di un luogo dove andare per poter tornare se stessa, per poter accogliere dentro di sé Giacomo
e Maurizio, rielaborarli, filtrarli con la sua personalità e rimettersi al mondo.
Claudia sentiva di aver ceduto molte volte alle loro pressioni, ma credeva anche che, in fondo,
le sue azioni fossero dettate da esigenze e moti dell’anima propri: Giacomo era spesso
intervenuto per modificare i modi in cui lei operava sulle cose, ma mai sulla scelta delle cose
su cui operare.
Claudia amava scrivere, questa era oggi la sua unica certezza: Maurizio si era dissolto
nell’eternità della morte, Giacomo cercava di liberarsi dall’angoscia di una catena senza mai
fine, lei aveva un dono ed aveva un viaggio da intraprendere con le sue due valigie, qualche
ricordo, molti errori ed una decisione da prendere.
Ricordi... Claudia pensò che tutto ciò che lei era stata prima di conoscere Giacomo non
esisteva più da molti anni. Orfana, nessuna amica, nessun amore tanto forte da sopravvivere
alla corrosione del tempo, lei era stata la perfetta preda di Giacomo. Lui l’aveva rigenerata,
aveva cancellato il passato e costruito il futuro, aveva ricostruito minuziosamente la sua
memoria fino a quando Claudia non era stata più in grado di sentire come suoi i pochi ricordi
che ancora aveva.
Si sforzò di pensare alla scuola, ai primi ragazzi, ai suoi giocattoli, ai libri letti, ma erano stati
cancellati da Giacomo con la sua approvazione in cambio della cessazione del dolore.
Claudia aveva scelto di non soffrire e, quindi, di non vivere, ma di lasciarsi vivere, di non
agire, ma di “essere agita” e Giacomo si era impadronito di lei.
La segretaria del direttore le disse di accomodarsi: il direttore la stava aspettando ma stava
ultimando un colloquio. Claudia ebbe appena il tempo di sedersi e vide Anna uscire dalla
stanza con una serie di fascicoli che riconobbe subito come il materiale di cui si era occupata
lei fino alla scorsa settimana. C’era riuscita – pensò e sorrise – aveva preso possesso di tutto
ciò che lei aveva perso, si era vendicata della perdita di Maurizio aggredendo lentamente tutte
le sue conquiste, smantellandole e sostituendosi a lei in tutto. Ma non le interessava più e,
inoltre, sapeva che dentro la mente di Anna ancora sopravviveva la certezza che nulla avrebbe
mai potuto riempire il vuoto lasciato da Maurizio.
Si salutarono con una certa freddezza, ognuna frenata più dai sensi di colpa che dall’astio nei
confronti dell’altra e Claudia entrò nella stanza del direttore che la attendeva con
un’espressione sul viso che era un misto fra la pena ed il fastidio.
Era stato persino innamorato di lei, l’aveva desiderata come forse ora desiderava Anna,
amandola come si ama tutto ciò che è irraggiungibile, come si amano i vincenti. Ora, quasi
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una vendetta per essersi sentito inferiore, godeva della sua caduta e ne approfittava per
svalutare tutto il suo passato alla luce dei risultati attuali.
Claudia conosceva perfettamente il meccanismo con cui si cancellavano gli uomini e le donne
dalla storia: solo i vincenti, coloro che resistevano fino alla fine, anche a discapito della
propria integrità morale, conquistavano l’immortalità. Gli altri, coloro che sceglievano di
perdere per non tradire se stessi venivano rimossi con gioia, attaccati e divorati fino alle ossa
dalle iene e dagli avvoltoi, dagli uomini senza forma che aspettavano con pazienza infinita il
momento della caduta per nutrirsi della sconfitta di chi avevano osannato fino ad un attimo
prima.
Claudia sapeva e aveva deciso di sopportare tutto questo per portare avanti il suo progetto: lo
riteneva più importante dell’orgoglio che la spingeva verso il rifiuto e la solitudine.
Si fece coraggio e parlò: un reportage sui luoghi di guerra... le conseguenze... la rinascita dei
popoli... il ricordo... la ricostruzione... i governi... l’oblio... il disinteresse dei paesi “civili”
dopo la fine del conflitto...
Claudia parlava a ruota libera con un uomo che non la ascoltava e lei ne era consapevole:
recitavano entrambi la loro parte con grande abilità e nelle loro menti tutto era già deciso. Il
direttore desiderava liberarsi di lei e le avrebbe dato quell’ultima possibilità per allontanarla
mentre la sostituiva con Anna; lei desiderava compiere il suo viaggio, il suo pellegrinaggio
sui luoghi dell’amore con Maurizio per rivivere i giorni passati con la consapevolezza di oggi,
per dare un senso a quello che ormai sapeva essere il suo futuro.
Lui chinò la testa leggermente a sinistra, fingendo di riflettere sulla sua proposta e di
valutarne la fattibilità, lei desiderò alzarsi e dirgli quanto lo ritenesse un idiota seduto su
quella sedia grazie ad amicizie umanamente insignificanti quanto lui, entrambi si sorrisero e
finsero di gioire del ritorno all’azione sinergica, alle idee travolgenti, alla collaborazione con
un membro della squadra che aveva avuto qualche attimo di sbandamento.
Il direttore si alzò e le disse, prendendole una mano fra le sue con un fare fra l’affettuoso ed il
paterno, che aveva sempre saputo che sarebbe ritornata quella di un tempo; Claudia soffocò il
disgusto per quel serpente strisciante più del serpente dell’Eden e gli disse che avrebbe detto
alla sua collaboratrice, Anna, di organizzare il viaggio, comprare i biglietti, prenotare gli
alberghi, contattare le persone da intervistare.
Fu il suo ultimo gesto di vendetta: sapeva che Anna aveva già preso il suo posto e che avrebbe
considerato un’umiliazione un lavoro da assistente e sapeva anche che quel viscido rettile di
fronte a lei non avrebbe mai trovato il coraggio di dirle adesso che lei era stata sostituita e che
Anna non era più una segretaria. Assaporò con gusto l’ultimo gesto della donna che era stata e
uscì dalla stanza scrollandosi di dosso tutti quegli anni, pronta a ricominciare ripercorrendo la
sua vita a modo suo, finalmente libera.
Passò davanti alla scrivania di Anna e le diede qualche veloce ordine, fissandola negli occhi
con decisione e nutrendosi della rabbia che lei non osava esternare, poi entrò nel suo ufficio,
chiuse la porta e, seduta davanti a quelli che erano stati a lungo gli elementi costitutivi della
sua vita, pianse lungamente la fine di un mondo.
Anna osservava quella porta chiusa e la odiava e odiava quel suo ultimo gesto di disprezzo; ne
comprendeva la voluta forza offensiva e non era sufficiente pensare che presto lei avrebbe
assorbito ogni cosa della vita di Claudia lasciandola vuota e sola. Il male instillato da
Giacomo aveva prodotto il suo effetto: non c’era più in lei alcuna traccia di quello che era
stata, il suo passato era stato cancellato e la sua innocenza corrotta dal lento insinuarsi di una
volontà potente e disperatamente attaccata alla vita. Giacomo era entrato nelle sue cellule
approfittando del suo dolore per l’abbandono di Maurizio e l’aveva cambiata per sempre,
l’aveva condotta all’odio: Anna voleva cancellare Claudia e con lei il ricordo del dolore.
Claudia percepì il suo odio attraverso la sottile parete di cartongesso che spesso aveva fatto
soffrire Anna quando lei e Maurizio parlavano al telefono; avvertì in lei le sensazioni che
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erano state le sue fino a qualche settimana prima e rabbrividì: conosceva bene Giacomo e
sapeva che Anna era stata solo un giocattolo per lui, un attrezzo della palestra con cui
esercitarsi mentre ricostruiva la sua vita. Ebbe pietà di quella donna innocente, vittima del
dolore. La ricordava al colloquio di lavoro: timida, ingenua, un’espressione ammirata di
fronte al suo ideale da raggiungere. Claudia l’aveva assunta subito nonostante ci fossero molte
aspiranti giornaliste con più referenze di lei. Adesso Claudia si chiedeva se anche quella volta
non avesse fatto il gioco di Giacomo, procurandogli lei stessa il successivo anello della
perversa catena del male.
Raccolse le sue cose in una scatola e pensò che adesso erano tre i bagagli che avrebbe portato
nella sua nuova vita; si soffermò a lungo su una fotografia in cui lei e Maurizio erano in
Bosnia e cercò di far rivivere in lei le emozioni che la sua presenza le dava. Non provò nulla,
se non una strana sensazione di estraneità: doveva ammettere che la loro storia era già finita
quando lui era morto e che il distacco da lui si era consumato la notte precedente alla tragedia.
Aveva sempre pensato che una storia d’amore dovesse finire con strascichi lunghissimi e,
invece, gli amori si consumano lentamente ma muoiono subito come le candele: fanno luce
fino al momento in cui, improvvisamente, la cera finisce e la fiamma si spegne. Ed è buio.
Non sono gli amori ad avere lunghe agonie, ma le abitudini, le cose in comune, ciò che si è
condiviso per lungo tempo e che solo lentamente si divide, si scioglie in nuove abitudini, in
vite separate ogni giorno di più.
Lei e Maurizio non avevano vissuto nulla in comune, non avevano abitudini, non avevano
condiviso né costruito nulla: spenta la fiamma era sceso il buio e di loro restava solo la nuova
vita di Claudia, la sua ribellione al destino che Giacomo le aveva imposto e qualcosa a cui
Claudia ora non voleva pensare.
Anna entrò nella stanza con fare altezzoso e con un tono di voce tagliente le sottopose
l’itinerario che aveva progettato; Claudia posò distrattamente il foglio in borsa – il come non
le interessava – e la salutò freddamente.
Si diresse alla macchina e unì alle sue due valigie la scatola con la sua vita al giornale, aprì lo
sportello, mise la chiave nel quadro e si allontanò velocemente senza voltarsi indietro. Si
fermò solo davanti all’hotel e chiese una singola con vista sul mare: aveva una notte per
pensare e per riflettere sul da farsi.
Claudia si preparava ad una vita da nomade già nella sua città perché, in fondo, non c’era un
luogo che potesse definirsi “suo”: adesso lei era un’estranea in ogni luogo e,
contemporaneamente, ogni luogo era suo più che di ogni altro essere. Ora desiderava solo un
bagno caldo dopo una faticosa traversata nel deserto delle anime che aveva incontrato,
desiderava purificarsi dalla viscida stretta di mano del direttore, dalla tagliente voce di Anna,
dalla morbida pelle della poltrona nel suo ufficio. Desiderava dimenticare, cancellare per
sempre la vista della sua casa vuota, con basse e tozze scatole al posto dei mobili e dei ricordi,
con i luoghi contaminati dall’astio, dalla coercizione, dal rancore. Desiderava immergersi in
un confortevole e rassicurante liquido caldo, lasciarsi coprire dal velo dell’acqua e sentire il
rumore del mondo come una voce ovattata attraverso un mezzo che non fosse l’aria, quell’aria
che è vita, ma che non è sufficiente per vivere.
Indossò un costume da bagno olimpionico e notò che il suo corpo cominciava leggermente a
sformarsi sul ventre; fu lieta di non doversene più preoccupare: né Giacomo né Maurizio
l’avrebbero umiliata facendole notare quell’imperfezione nell’immagine che loro avevano di
lei. Indossò con una sensazione di voluttuoso piacere un morbido accappatoio di spugna e si
diresse verso la piscina coperta che aveva notato appena arrivata alla reception.
Nello stesso istante Giacomo, nella loro ex casa, sollevava la cornetta e ascoltava la voce
irritante dell’Anna che lui stesso aveva creato, biascicare frasi indistinte contro Claudia e,
alla fine, dirgli che sarebbe andata a prenderlo entro un’ora. In mezzo ai borbottii comprese
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che Claudia stava andando via e ne fu scosso. Mentre Claudia, tolto l’accappatoio, si tuffava
in piscina ed i suoi muscoli si arrendevano al calore dell’acqua liberandosi da ogni residuo del
passato, Giacomo avvertì dentro di sé un vuoto simile alla morte ed ebbe paura. Vivere in
eterno, forse sua madre aveva ragione, come accettare la morte? Come sopportare quel vuoto
delle proprie cellule che si spengono ad una ad una e lasciano la mente errare libera
nell’universo senza più un posto dove concretizzarsi, in cui avere la potenza della materia,
l’autonomia del sangue che circola, dei polmoni che si riempiono di ossigeno, dei muscoli che
guizzano ad un semplice impulso elettrico? La materia è nulla senza la mente e la mente è
nulla senza la materia, Dio e Satana vivono attraverso gli uomini ed il peccato dell’Uomo era
quello di permettere che si perpetuasse il circolo demoniaco di una vita infinita, della catena
di cui lui stesso faceva parte e da cui Claudia si era staccata. Spezzare la catena? Avvertire
ancora quell’enorme dolore dentro di sé? Lo voleva davvero? Dentro di lui la voce della
madre risuonava con acuti spaventosi e lo richiamava a sé. Giacomo osservò il foglio che
aveva davanti e rilesse il nome... Viola... Strappò accuratamente la carta in milioni di
pezzettini, ma ormai era dentro di lui, scolpito nella corteccia cerebrale, pulsante e
misterioso... Viola... La curiosità era l’origine del peccato e lui sentiva di voler conoscere il
suo destino... Viola...
Claudia sentì il suo corpo fendere l’acqua in un tuffo perfetto e i muscoli tendersi e liberarsi
da ogni contrattura. Immergendosi la sua mente riprendeva il controllo del corpo che già
tagliava l’acqua con lunghe e potenti bracciate. Una, due, dieci vasche senza riprendere fiato
fino a ristabilire l’armonia fra la volontà e l’azione; poi si fermò, immobile, il volto verso il
tetto basso della piscina, la pelle madida di goccioline miste di sudore ed acqua clorata e
respirò, per la prima volta da anni, profondamente, autonomamente, con pienezza e
soddisfazione, avvertendo i messaggi di ogni cellula, vaso sanguigno, tessuto, arto. Era di
nuovo in possesso di sé, la sua vita era nuovamente rientrata sui binari del tempo concessole,
il dolore ritornava insieme all’acido lattico che già riempiva le fibre muscolari, la vita e la
morte camminavano insieme seguendo la stessa lancetta sull’orologio del mondo.
Claudia si sentì felice, felice di essere vita e di dare vita e rimase lì, in quel calore avvolgente
come un grembo materno, ad immaginare il suo futuro e progettarlo, con la responsabilità che
ogni essere umano ha nel vivere la propria vita e costruire il futuro per chi verrà dopo di lui.
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CAPITOLO IV
Anna abbassò la cornetta del telefono con la sgradevole sensazione di aver perso una mano
del gioco che stava conducendo. Giacomo le era sembrato alquanto distratto e interessato più
ai dettagli della stupida ed inutile partenza di Claudia che non alle sue rivendicazioni.
Riprese in mano il piano di viaggio che Claudia aveva distrattamente posato in borsa senza
nemmeno degnarlo di uno sguardo e si disse che doveva ancora essere svolto parecchio lavoro
per perfezionarlo. Considerava del tutto inutile la messa in scena del direttore per liquidare
Claudia in modo apparentemente amichevole e paternalistico e, inoltre, per quella stupida
inchiesta di nessun interesse si sarebbe rallentata la sua scalata al posto di Claudia, posto che
– si disse con convinzione – le spettava sia per il merito, sia per la pazienza dimostrata in
quegli ultimi anni in cui aveva svolto quasi tutto il lavoro senza ricevere mai nemmeno un
grazie.
Ricordava il giorno in cui era stata assunta come se fosse accaduto ad un’altra: non si
riconosceva in quella ragazzina che osservava Claudia con adorazione, desiderando di essere
come lei, di essere al suo posto e pensando che lo scarto fra quella geniale giornalista e lei non
avrebbe mai permesso che il suo sogno si avverasse.
Vedeva la scena come in una pellicola rovinata dal tempo e si rendeva conto che, da quando
conosceva Giacomo, ciò che lei era stata era divenuto un evanescente fantasma di una vita
vissuta da un’altra. Doveva a lui tutto ciò che lei era e, al contrario di Claudia, gli era
profondamente riconoscente per aver cancellato quella ragazzina troppo buona per esistere in
un mondo così competitivo e agguerrito. Non rimpiangeva nulla della perdita e si sentiva
intimamente modificata: era accaduto qualcosa per cui lei si era lentamente adeguata
all’organismo di Giacomo e ne aveva acquisito il patrimonio genetico fondendolo con il suo.
Giacomo viveva ancora in lei, ma non sarebbe durato a lungo: lei oggi aveva il suo stesso
bisogno di possedere un altro essere umano e di vivere in lui proiettando nel futuro la nuova
Anna. L’indecisione di Giacomo aveva creato due aberrazioni nella secolare storia della lotta
fra il bene e il male: Claudia, la prima vittima non predestinata, si era ribellata rifiutandosi di
partecipare al gioco perverso del male e si stava scrollando di dosso tutti i residui della viscida
collosità con cui il male ti copre lentamente; Anna, invece, aveva compreso il gioco fino in
fondo e vi si era riconosciuta rinnegando coscientemente ciò che era stata prima e, adesso,
voleva essere non più vittima, ma carnefice, voleva essere lei a creare un suo ramo nella
catena e portare se stessa a vivere in eterno.
Anna si immaginava capostipite di una nuova stirpe in grado di sopravvivere in questo mondo
che, innegabilmente, era un orribile coacervo di insulsi esseri senza meta e con la pretesa di
avere la forza per dominare il male e il bene. Anna, che era stata quasi un simbolo del bene, si
rappresentava emula di Lucifero, il più bello fra gli angeli, che aveva scelto la caduta in
cambio del potere: ne avrebbe avuto la potenza e la perizia nel trasmettersi attraverso le
generazioni. Dopo lo shock subito per l’abbandono dell’uomo a cui lei si era donata senza
riserve e con l’innocenza di una sprovveduta, aveva giurato a se stessa che mai più qualcuno
avrebbe riso di lei. Era stato allora che il male, con il volto piacevole e rassicurante di
Giacomo, aveva scavato le sue trincee.
Anna smise di fantasticare. C’era tempo per portare a termine il suo piano: ancora c’era da
risolvere il problema di Claudia e di Giacomo e poi c’era quel maledetto posto che ancora,
nonostante i suoi sforzi, non era suo.
Lei doveva sedersi su quella poltrona ed ultimare la conquista del regno di Claudia: le restava
la parte più rilevante non solo per il valore intrinseco, ma perché le avrebbe permesso di
comunicare ciò che desiderava attraverso i suoi articoli ai milioni di pecore belanti, che lei
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ormai considerava come suo parco giochi personale. Il potere e il male, si disse, un connubio
indissolubile e lei si apprestava ad avere il controllo di entrambi.
Per un attimo, confusamente, ritornò indietro a Maurizio; una punta di dolce struggimento si
fece strada fra i pensieri induriti. Anna vide scorrere davanti a sé le immagini della loro breve
storia, si vide davanti a quel volto acceso dall’emozione nel raccontarle fantastiche avventure,
seduta ai suoi piedi, colma di timidi sentimenti che non avrebbe mai più provato. Un odio
bruciante, strisciante, invasivo, la pervase: una lenta combustione come una lunga miccia che
si accende e, alla fine, esplode. Odiava Claudia, odiava il mondo, odiava l’umanità intera e
desiderava che pagassero, che scontassero i peccati di quella donna che aveva ucciso in lei
l’amore, l’innocenza, la bontà.
Aprì violentemente il cassetto e afferrò a caso due pillole per far tacere la crisi. Lentamente il
battito ritornò normale e Anna ricominciò a lavorare al piano di viaggio di Claudia.
Che idea stupida, pensava, un servizio sugli strascichi della guerra, sul disinteresse delle
nazioni per la ricostruzione dopo aver contribuito alla distruzione. La gente voleva vedere
sangue, carni a brandelli, bombardamenti, stragi. Si affollavano tutti davanti alla loro scatola
sul mondo cambiando canale fino a trovare l’immagine desiderata per rabbrividire, per sentire
qualcosa in un mondo in cui provare emozioni era sempre più difficile.
E i giornalisti accompagnavano la sequenza di immagini tragiche con accorati commenti e
generando aspettative per le azioni future: la bomba potrebbe aver colpito un ospedale,
centinaia di morti, attendiamo conferma, è probabile che…, no, ancora no, ma il
bombardamento continua…Nella voce dei commentatori l’attesa per l’occasione che li
renderà famosi, per l’annuncio in diretta di una strage; ma della guerra, della sua atrocità, del
vero dolore di chi vede distrutta la propria vita e che, forse, preferirebbe esser morto, nessuna
traccia.
Anna aveva sempre pensato che in Italia tutto fosse iniziato con la tragedia di Alfredino:
ricordava ancora con disgusto la diretta televisiva con i commenti del giornalista che, con una
maestria da attore consumato, alterava il tono della voce …lo stanno afferrando… eccoli… il
bambino non si muove… si teme che… niente… non riescono… il freddo… potrebbe… Anna
ripensava ancora a quella notte e a quella tragedia commentata come una partita di calcio in
attesa del gol risolutivo: da allora la morbosità di un popolo che si ferma sbirciando con
malsana curiosità davanti ai blocchi per i gravi incidenti stradali, si era concentrata sulla
scatola magica che permetteva di scrutare tutta la terra in cerca dell’immagine voluta. E loro, i
giornalisti in carriera, i fotografi, gli assistenti in cerca di un’occasione, li accontentavano con
gioia, quasi che l’attenzione al diritto dell’uomo di conoscere la verità alleggerisse il peso di
quello che vedevano accadere sotto i loro occhi sempre più assuefatti al male.
E poi la verità! Ma quale delle tante che le loro abili menti costruivano con immagini e parole
per pilotare e dirigere l’opinione pubblica verso il potente di turno? Un uomo solo poteva
diventare il padrone del mondo con l’assenso di una stampa compiacente: vivevano
nell’epoca dell’eterno presente in cui la memoria era solo uno stupido crogiolarsi in dolori
ormai passati, non un mezzo per riconoscere la verità dalla menzogna, per evitare di ricadere
sempre negli stessi disastrosi errori.
Anche i ragazzi ormai conoscevano solo le coniugazioni dei verbi al presente e futuro e, come
massimo salto indietro, al passato prossimo. Non ne avevano bisogno: il passato non esisteva,
la memoria si cancellava come la RAM di un computer appena un altro evento sostituiva il
precedente. Il Grande Fratello, predetto da Orwell nel 1948, era arrivato e oggi proclamava
l’Austrasia alleata dopo averle fatto guerra fino ad ieri e nessuno si alzava in piedi per dire
Non è possibile! Ieri era nostra nemica. Anche se qualcuno l’avesse fatto, pensò Anna,
sarebbe stato messo a tacere, sarebbe stato attaccato, screditato, colpito dal fulmine potente
del nuovo dio, dal giornalista che non può creare, ma ha il migliore dei surrogati della
creazione: la capacità di costruire un passato ed un presente, manipolandolo, cambiando
forma ad uomini e cose, creando ciò che si vede della realtà e che è per gli uomini più vero
della realtà stessa.
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L’eterno presente, l’assenza della memoria: non era questo il male? L’inferno non era l’attimo
attuale in eterno? E la terra non era già diventata un inferno anch’essa?
E quella stupida Claudia, dopo aver venduto le foto di Maurizio – quelle foto da cui i suoi
magnifici occhi ormai la fissavano per sempre senza amore, senza vita – aveva commesso
l’atto più inutile dell’Uomo: recedere dal male dopo averne toccato in nucleo. Claudia non
sarebbe riuscita ad espiare il suo peccato, non avrebbe detto al mondo parole che potessero
sconfiggere il dilagare del nulla, avrebbe visto cadere nel vuoto ogni lettera dei suoi articoli
fino a quando il direttore non l’avrebbe richiamata indietro e licenziata.
Claudia cercava un ritorno della memoria, ma era troppo tardi: a nessuno occorreva ricordare,
a nessuno era gradito il riflettere; il corso di tutte le vite era segnato da chi si era impadronito
del tempo volgendolo a favore del proprio potere: anche Claudia, senza accorgersene,
nonostante le sue recalcitranti ribellioni, navigava su un fiume che sarebbe sfociato sempre lì,
dove era necessità che fosse.
Osservò per qualche secondo il quadrante dell’orologio senza vederlo, c’erano quegli occhi da
cerbiatto sperduto che la fissavano ancora. Si accorse di odiare Claudia e di considerarla
responsabile della morte di Maurizio: lui era svanito dalla sua vita molti anni prima e lei ne
aveva serbato il ricordo – l’unico ricordo, anche se un po’ sbiadito, che lei avesse ancora – ed
era Claudia ad averlo ucciso scattando quelle fotografie, costruendo l’evento, vendendo quegli
occhi a milioni di belve assetate di morte. Senza quelle foto per lei Maurizio sarebbe stato
ancora sulla terra, sulle rive di un fiume in un paese lontano o sulle Ande a catturare la
purezza rarefatta dell’aria o libero di volare ovunque la sua macchina fotografica lo
conducesse. Lei lo aveva davvero amato. Il dolore la assalì come una morsa all’altezza del
cardias e risalì per i vasi sanguigni, attraverso la carotide, fino al cervello, fino a farlo
squarciare in una deflagrazione interna simile allo scoppio di mille bombe. Anna conosceva i
sintomi e prese a respirare con attenzione e regolarità fino a quando non le fu possibile
accasciarsi sulla sedia ed emettere un profondo sospiro seguito da lagrime corrosive sulla
pelle come l’acqua santa sul corpo degli indemoniati.
Si sollevò di scatto, aprì il cassetto ed estrasse la cipria ed il rossetto per cancellare ogni
traccia di debolezza: non c’era posto per i fragili tentativi del bene, non c’era un luogo su
questa terra dove un debole potesse piangere senza essere divorato.
Era stata ed era ancora una donna misurata nelle reazioni e nei comportamenti: i suoi accessi
di collera erano brevissimi e avvenivano solo quando era sola e questo l’aveva molto aiutata a
nascondere a Giacomo la sua trasformazione di quegli anni. Le serviva restare con lui e
controllare da vicino la vita privata di Claudia per poter agire al momento opportuno. Fingere
non era stato difficile: ormai sapeva che spesso gli uomini non vedono al di là dell’apparenza,
anche se tutto ciò che sta intorno e sotto di questa è contraddittorio e inspiegabile.
Giacomo si accontentava della sua accondiscendenza che lo tranquillizzava e non si
accorgeva che lei si stava lentamente impadronendo della sua essenza fino ad oltrepassarlo e
condurlo dove lei desiderava. Aveva preso il posto di sua madre nella sua vita, ma Giacomo
ne era assolutamente inconsapevole ed era ancora convinto che lei fosse un angelo che lui
manovrava, che lei fosse ancora la brutta copia di Claudia, un surrogato della moglie che,
nella sua perenne indecisione, aveva lasciato andare via mollando o stringendo la presa nei
momenti sbagliati.
Claudia e Giacomo, ricordava il suo modo di osservarli alle feste o alle cene: una coppia
perfetta in simbiosi completa, un unico organismo che agiva dentro e contro il mondo. Ne
aveva scoperto presto i punti deboli ed era stato a sue spese, quando aveva fatto incontrare
Maurizio e Claudia mentre la guerra impazzava in Jugoslavia ed in quell’attimo erano stati
decisi i destini di quattro persone e, forse, di molti altri esseri che avrebbero pagato le
conseguenze della sua rabbia.
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Adesso si trovava di fronte ad un dilemma: cosa farne di Giacomo? In realtà l’aveva già
lasciato andare via avallando la sua convinzione che lei potesse essere solo complementare a
Claudia, ma ancora ne aveva bisogno perché la pratica di distruzione della vita di Claudia non
era terminata e Giacomo poteva avere ancora un ruolo nei suoi piani. Certo, adesso avrebbe
dovuto sopportarlo in una vita assieme, con la colazione la mattina, la biancheria sporca, i
film da vedere la sera, qualcosa da raccontarsi necessariamente. La sua abilità nel fingersi
ancora ciò che non era più da molto tempo si sarebbe dovuta affinare, oppure avrebbe potuto
scegliere di impossessarsi di lui – sentiva di averne già la forza – ma Giacomo sarebbe stato
un freno per il suo grande progetto di vita: lei avrebbe catturato nella sua ragnatela un uomo
molto potente e ne avrebbe fatto uno statista dietro cui regnare e dominare il mondo.
Conosceva ogni tecnica di persuasione – specialmente quelle occulte – e avrebbe portato a
termine la sua scalata al potere senza ripensamenti e rimorsi, in nome del male che aveva
ricevuto e che era riuscita a trasformare in dono.
Si disse che avrebbe aspettato un paio di giorni per rendersi conto se la presenza di Giacomo
era tollerabile e poi avrebbe deciso il da farsi. Intanto doveva liberarsi di Claudia al più presto
possibile e spedirla nella sua amata Bosnia.
Iniziò a lavorare con celerità e dopo mezz’ora si alzò con noncuranza, infilò il cappotto e uscì
dall’ufficio diretta verso la casa di Giacomo.
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CAPITOLO V
Claudia uscì dalla piscina come un baco che avesse completato la sua metamorfosi in farfalla.
Era già intimamente pronta per scrollarsi di dosso il bozzolo che la ricopriva e che le
impediva qualsiasi movimento dell’anima e l’immersione in quell’acqua calda e accogliente,
in un luogo per lei asettico e privo di ogni aggancio con la sua vita, le aveva le permesso di
oltrepassare una linea di confine da cui non era più possibile il ritorno in patria.
Adesso era davvero un’esule – pensò Claudia – un’esule senza la speranza, o il timore, di
rivedere il suolo natio, colma di aspettative per il nuovo mondo che la stava accogliendo.
Purtroppo Claudia conosceva molto bene la carità pelosa di coloro che accolgono gli esuli ed
era consapevole che avrebbe potuto contare solo su se stessa contro tutti, ma sapeva anche che
avrebbe finalmente goduto delle bellezze della terra, del sapore di un cielo azzurro, dell’odore
di un improvviso soffio di vento sulle montagne, del suono di un paesaggio attraversato da un
debole arcobaleno. Claudia aveva amato il mondo prima di conoscere Giacomo e ciò che più
l’aveva legata a Maurizio era il riscoprire insieme a lui questo amore e la possibilità di fissare
su una pellicola con esatta precisione il sentimento da lei provato. Avrebbe proseguito su
quella strada, adesso che nulla più la ancorava alla sua vecchia vita, avrebbe vissuto come
desiderava, forse ridicola agli occhi del mondo, ma orgogliosa di sé.
Avvertì il suo corpo compiere con cognizione di sé anche i più innocenti movimenti, indossò
l’accappatoio, picchiettò leggermente la pelle con la spugna, infilò le scarpe e si diresse verso
l’uscita provando un intimo piacere ad eseguire quei gesti come se fosse rinata, come se fosse
riemersa da un lungo coma durato quasi vent’anni.
Salì nella sua stanza e, dopo aver osservato con attenzione l’apparecchio del telefono con la
perplessità di un soggetto colpito da amnesia che si sofferma di fronte a qualcosa con la
sensazione che sia conosciuto e che ti chieda di essere usato, scrollò la testa, mise su
rapidamente un paio di jeans ed un maglione e si diresse verso il ristorante.
Si augurò di non trovarvi nessuno conosciuto – sapeva che con il suo mestiere era facile
incontrare colleghi in ogni parte del mondo – nonostante avesse sempre considerato il
mangiare da soli al ristorante un evento squallido. Nei suoi viaggi di lavoro aveva sempre
evitato di trovarsi da sola ad un tavolo di fronte ad un’oliera e ad un menù: considerava il cibo
un elemento complementare al godimento di una piacevole compagnia e non un nutrimento
del corpo.
Ma oggi non aveva più bisogno di una compagnia per godere del cibo, perché aveva con se
stessa un affascinante dialogo aperto che la fortificava a tal punto da superare anche quei
pochi luoghi comuni che le erano rimasti nonostante la palestra degli anni.
Oggi sarebbe riuscita anche ad andare a cinema da sola – pensò divertita – e a testa alta, senza
chiedersi cosa potessero pensare gli altri.
Ordinò un carpaccio e un buon vino rosso e, per tutto il tempo della cena, pensò confusamente
a futili cose, concedendosi il piacere di staccare la spina, di ascoltare i messaggi delle sue
papille gustative a contatto con il cibo, di godere del leggero stato di euforia provocato da un
corposo vino dopo un bagno caldo.
Si accorse di aver passato anni a rincorrere qualcosa, persino se stessa e di non essersi mai
fermata a godere dell’attimo presente, del sottile gusto di ciò che sta accadendo e che non ha
agganci nel passato, né cime gettate sul futuro. Si rese conto che il suo peccato, al contrario di
quello del mondo circostante, che viveva in un eterno presente, era stato quello di vivere nel
passato e nel futuro senza dare importanza all’oggi. Il tempo degli uomini doveva essere
scandito dalla memoria e dalle aspettative, ma il luogo dove esse dovevano svolgersi, la causa
per cui dovevano esistere avrebbe dovuto essere il presente e solo il presente.
Pensò, masticando l’ultimo boccone con voluttà, che forse non era troppo tardi.
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Fumò una sigaretta e salì nella sua stanza: aveva del lavoro da fare, doveva predisporre la
cornice per la sua storia e stabilire il modo in cui avrebbe presentato gli argomenti.
Si sdraiò sul letto ed accese il suo portatile continuando meccanicamente ad aspirare qualche
tiro dalla sigaretta, poi la spense con cura, iniziò a fissare lo schermo e appoggiò le mani sulla
tastiera come se fosse già pronta a scrivere.
Si accorse ben presto di non avere nulla da dire ed ebbe paura: anni di scrittura su
commissione, di pezzi che dovevano seguire un modello, di articoli costruiti sopra una tesi da
dimostrare e non su fatti che dimostrassero una tesi, l’avevano forse privata della capacità di
scrivere per comunicare veramente?
Fino a quel momento aveva messo in discussione ogni cosa della sua vita, meno che la sua
volontà di scrivere. Si considerava un’eletta: aveva ricevuto in dono l’abilità di saper
rappresentare ogni pensiero attraverso il codice linguistico e non aveva remore nel farlo. Ma
oggi qualcosa era andato in tilt nel cervello, un fusibile o un’intera scheda? Come fare per
ripararlo? Iniziò a giocherellare con mouse e tastiera esplorando i file memorizzati alla ricerca
di qualcosa già detto che le potesse dare la spinta che cercava e ogni nome di cartella o di file
le richiamava alla mente un episodio della sua vita, un’emozione, un amore e la confondeva
sempre di più.
Giocando con lo scroll del mouse a far correre su e giù per lo schermo tutti quei nomi rifletté
sul fatto che dentro quella insulsa macchina c’erano diciotto anni della sua vita. La sua tesi di
laurea, i primi articoli, gli acerbi tentativi di poesia, il primo ed ultimo capitolo del suo primo
ed ultimo tentativo di scrivere un romanzo, la corrispondenza scambiata con Giacomo, con gli
innumerevoli amori giocattolo ed, infine, con Maurizio, il file della posta elettronica che era
un documento della sua vita privata allacciata strettamente alla storia del mondo. Tutto era lì
dentro e premeva talmente forte in quel momento da non lasciare altro spazio alla scrittura.
Claudia aveva paura di scoperchiare pericolose arche da cui potessero fuoriuscire agguerriti
spiriti a distruggere lei e il mondo: la memoria era memoria, ma leggere una lettera scritta in
un momento specifico, in preda ad un’emozione appartenente a quel preciso momento era un
tributo alla necessità della memoria o era un far rivivere il passato nel presente come in
un’anomalia temporale? Qual era lo spazio mentale, temporale o fisico che consentiva ad
un’emozione incontrollata di diventare asettica fonte storica? Quante volte se l’era domandato
anche nello scrivere un articolo o realizzare un’intervista, quante volte si era posta il problema
quando le avevano chiesto di collaborare all’aggiornamento dei libri di storia curando gli
avvenimenti degli ultimi anni: poteva essere storia? Potevano già esistere documenti storici?
Un dubbio iniziò ad insinuarsi nella sua mente: anche questo viaggio aveva poi un senso? Era
possibile parlare di un dopoguerra quando ancora la guerra abbracciava ogni luogo con i suoi
tentacoli? E chi desiderava questa meditazione, ammesso che fosse possibile?
Accese un’altra sigaretta e un vago senso di nausea si impadronì di lei mentre immaginava il
sarcastico volto di Anna che esprimeva il suo stesso dubbio a Giacomo, al direttore e a tutti i
colleghi.
Decise di non aprire nessun vecchio file, di non scrivere nulla, di non pensare a nulla,
schiacciò la sigaretta nel posacenere, si infilò sotto le coperte ancora vestita e spense la luce.
Anna scese dalla macchina con classe dondolando sui tacchi e citofonò a Giacomo. Attese
qualche secondo con impazienza e, quando stava per premere nuovamente il campanello,
Giacomo le rispose con una voce tetra che sarebbe sceso immediatamente.
Tornando verso la macchina si chiese se attenderlo appoggiata in piedi per poterlo
abbracciare, oppure seduta tranquillamente al posto di guida come se niente fosse; il freddo la
fece optare per la seconda soluzione.
Giacomo si allontanò dal citofono con tristezza e raccolse le scatole piene di cose che avrebbe
dovuto portare via – Per metterle dove? Si chiese – e con lo stesso gesto di Claudia fece
scattare la serratura della porta con lentezza, quasi a volerne sentire la voce amica prima della
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lunga traversata che lo aspettava con quella donna che sentiva ad ogni secondo più estranea,
più lontana anche dalla stessa idea che aveva di lei.
Con questa sensazione inespressa in gola si avvicinò all’automobile e le fece cenno di aprire il
portabagagli. Riversò, borbottando qualcosa sulla piccolezza del vano, tutto lì dentro, chiuse il
portello ed entrò in macchina. Anna gli si avvicinò per il canonico bacio, incurante della sua
insofferenza e fermamente decisa a comportarsi come se non si fosse accorta di nulla – sapeva
che questo avrebbe acuito il malumore di Giacomo e che, però, lui non avrebbe trovato il
coraggio di esprimerlo apertamente – e gli fece qualche sciocca domanda sul suo stato
d’animo.
Prima ancora che in mezzo ai borbottii di Giacomo potesse nascere un pensiero distinto, Anna
iniziò un fitto e veloce racconto su come era stata sistemata la sua casa per accoglierlo, sulla
spesa che aveva fatto, sulla cena della serata, sui mobili e gli accessori che aveva acquistato
per vivere in due in una casa fino ad allora da single.
Era una tecnica meravigliosa – pensò – adottata da milioni di donne nel corso dei secoli per
impedire ai loro indecisi uomini di raccogliere gli slegati frammenti dei loro pensieri in un
discorso durante i rari momenti di coraggio: passato il momento cruciale avrebbero taciuto per
mesi, forse anni e il tempo avrebbe fatto il suo corso.
Osservando ancora il viso scuro e teso di Giacomo completò l’opera con una raffica di
domande: Cosa mangi a colazione? Ti piace il latte? E la verdura? La pasta fatta come? E la
sera? I sughi piuttosto elaborati? I dolci?
Fino a quando gli striminziti sì o no cedettero il passo a risposte più complesse ed Anna
comprese che il pericolo era scongiurato, che la mano del gioco persa al telefono poco prima
era stata recuperata e che il vantaggio era di nuovo suo.
Lungo il tragitto continuò con qualche osservazione a cadenze sempre più distanziate fino a
quando arrivarono a casa ed Anna, dopo averlo aiutato a sistemare il suo passato dentro gli
armadi della nuova casa, lo infilò quasi a forza dentro la vasca ad idromassaggio con il timer
impostato su trenta minuti.
Uscendo dalla stanza da bagno respirò profondamente, in uno di quegli attimi di beata
solitudine che d’ora in poi sarebbero stati sempre più rari, si sfilò le scarpe e, a piedi scalzi,
raggiunse la cucina.
Con un’attenzione meticolosa individuò il bicchiere adeguato, aprì il frigorifero, scelse con
altrettanta cura una bottiglia di prosecco e la stappò. Versò il vino, prese il bicchiere e uscì
sulla terrazzina. Un piccolo tavolo con due sedie era rivolto verso un panorama notturno che
differiva da quello newyorkese solo per l’altezza degli edifici: file di macchine con i fari
accesi sfrecciavano lungo le arterie principali e sfilavano lentamente nelle stradine più piccole
come un enorme e sinuoso boa che avvolgeva tutta la città in un abbraccio mortale; palazzi
moderni e antichi si confondevano nella notte e mostravano solo centinaia di occhi luminosi
aperti sulla strada; cartelloni illuminati splendevano fra statiche luci con le immagini che
ruotavano lentamente formandosi e trasformandosi con tempi sempre uguali.
La posizione geografica della casa di Anna, un po’ più in alto del centro, faceva sì che tutto
ciò avvenisse in un confortevole silenzio da notte nel deserto e Anna sorseggiò il suo vino con
lo stesso senso di potere con cui un imperatore romano avrebbe guardato la sua Roma
dall’alto.
Più a sinistra la luna si rifletteva sul mare formando luccicanti disegni che le barche dei
pescatori attraversavano lentamente mentre Anna udiva con disappunto il suono del timer che
la distoglieva dalla sua contemplazione.
Rientrò rapidamente, posò il bicchiere e si apprestò ad accudire Giacomo: gli porse un
accappatoio nuovo, pantofole nuove ed un pigiama appositamente scelto per lui nel migliore
negozio. Lo lasciò un attimo solo e riapparve con due bicchieri colmi di vino che gli disse di
aver stappato per l’occasione.
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Giacomo pensò che in fondo la situazione non era così come l’aveva vista quel pomeriggio,
che forse Anna non era poi un surrogato di Claudia, ma, vista nella sua complessità, poteva
essere uno splendido originale e si rilassò completamente.
Anna avvertì il cambiamento e fece a se stessa la solita domanda: come potevano essere così
superficiali gli uomini? Lei adorava davvero Maurizio e avrebbe camminato sul fuoco per lui,
ma lui non l’aveva mai capito e ora Giacomo credeva ad una così plateale messa in scena.
Il mondo aveva davvero bisogno del male perché non avrebbe mai saputo riconoscere il bene.
Mentre Giacomo si aggirava per le stanze come un animale che esplora un luogo sconosciuto,
prendendo in mano alcuni oggetti con apparente curiosità, ma in realtà compiendo
inconsciamente il rito di marcare il territorio con il proprio odore sulle cose, Anna disponeva
alcune fette di prosciutto su un vassoio, qualche formaggio, alcune fettine di tacchino in
gelatina pensando fra sé e sé che probabilmente l’errore fondamentale dei grandi signori del
male che erano passati sulla terra, così come dei grandi signori del bene, era stato il fatto di
trascurare le cose banali, futili. Gli uomini dovevano essere curati, nel male e nel bene, fin
dalla soddisfazione della più piccola pulsione, altrimenti i palazzi costruiti si sarebbero
rivelati privi di fondamenta.
Come una buona teoria scientifica richiedeva lo studio accurato anche delle variabili più
insignificanti o un piano di guerra, per essere vincente, necessitava della previsione di ogni
minimo ostacolo, così nella lotta fra bene e male non doveva essere trascurato nemmeno un
dettaglio, per quanto il generale di turno lo considerasse insignificante e sciocco rispetto a
tutto il resto. Probabilmente santi e geni del male avevano pagato lo scotto di essere per lo più
uomini e di non comprendere che, anche in presenza di grandezze enormi, l’occhio si deve
affinare a cogliere il particolare ed esaltarlo allo stesso modo della magnifica visione
d’insieme, anche a costo di spendere tempo ed energie sproporzionate rispetto all’effettivo
valore dell’obiettivo.
Gli uomini erano strani esseri – pensò Anna – teatro di inconsapevoli battaglie fra forze per
loro incomprensibili e che ritenevano di saper controllare: erano capaci di rinunciare ad
enormi poteri per un malumore o per una parola mancata. Ma lei era una donna, era stata
regina nel bene ed ora lo sarebbe stata nel male più di qualsiasi altra persona mai esistita,
perché lei sapeva, perché lei si era posta in ascolto, perché in lei la sterile molla della vendetta
si era fusa con l’intelligenza del male in un corpo unico e poderoso.
Certo, non poteva negare di provare una rabbia sprezzante nei confronti di Giacomo e della
sua superficialità, ma non avrebbe commesso l’errore di sottovalutarlo per questo: l’ignoranza
e la stupidità sono i più pericolosi nemici di chi sa e comprende. La stupidità non ha regole,
né logica, né codici di comportamento. Ricordava che quando, prima di iniziare la carriera di
giornalista, aveva insegnato per qualche mese, si era subito resa conto che non erano i bulli o
gli indisciplinati o i ribelli a crearle problemi, ma gli stupidi, perché con loro era impossibile
qualunque accordo. Gli stupidi rispondono sempre in un modo improprio che impedisce di
proseguire qualsiasi dialogo e continuano senza ragione su strade senza sbocco; gli esseri
dotati di raziocinio usano le domande per imparare e, anche quando non danno le risposte, il
dialogo continua, sotterraneo, con ogni gesto e allusione, più proficuo che un’aperta
discussione.
Giacomo interruppe il corso dei suoi pensieri afferrando una fetta di prosciutto e dichiarando
di avere una fame da lupi; Anna gli sorrise con grazia e sedette a tavola come se non avesse
aspettato altro per tutta la giornata. Questo è possibile con lui perché non lo amo – si disse –
l’amore è il più grande nemico del male perché non consente strategie, l’amore deve essere
svilito e distrutto in tutti gli esseri per potere vincere la guerra. E iniziò a parlare del più e del
meno con quell’uomo che, invece, avrebbe voluto spegnere con un interruttore per
riaccenderlo l’indomani mattina, già pronto per andare al lavoro.
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Claudia si svegliò verso le 11,00 della notte. Le ci vollero un paio di minuti per rendersi conto
di essere nel letto di una stanza d’albergo, vestita e con il computer ancora acceso accanto.
Si mise a sedere, completamente lucida e senza nessuna traccia del vuoto provato fino ad
un’ora prima, un vago senso di nausea la disturbava e l’idea di accendere una sigaretta la
sfiorò appena, ma fu subito respinta.
Come se avesse sentito il pensiero di Anna trasmettersi attraverso l’aria gonfia di umidità
della notte, comprese che i suoi dubbi e la sensazione di inutilità del viaggio che si proponeva
– viaggio nel proprio dolore vissuto attraverso il dolore dei popoli – era dovuta al fatto che
non c’era amore che lo giustificasse, che non c’era un destinatario se non lei stessa e
chiunque, per scrivere o comunicare in qualsiasi forma, ha bisogno di oltrepassare il proprio
cieco egoismo ed essere per qualcuno, anche per qualcuno che non conosciamo, ma che ci
rappresentiamo come un simbolo dell’altro da noi a cui vogliamo dare parte del nostro mondo
interiore.
Claudia comprese che quello che lei aveva fino ad ora considerato lo scopo del viaggio ne era,
in realtà, la ragione unica: lei non andava in pellegrinaggio per sapere cosa fare di quell’essere
che si stava nutrendo di lei, ma per dargli un orizzonte d’amore su cui costruire la propria vita
e quella delle persone che avrebbe incontrato sul difficile cammino che è l’esistenza.
Spense nuovamente la luce e si addormentò con il sorriso sulle labbra.
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CAPITOLO VI
Il risveglio fu traumatico per Giacomo ed Anna: avevano dormito assieme diverse volte
durante i viaggi di lavoro di Anna, ma sempre con la percezione della transitorietà. Quella
mattina lo spettro della parola “sempre” si agitava al di sopra dei loro corpi ancora intorpiditi,
costringendoli a gettarsi giù dal letto fingendo una gioiosa frenesia, un’iperattività che li
spingeva verso la giornata lavorativa come i biscotti energetici della pubblicità. In effetti
questo sembravano: una coppia uscita appena da uno spot pubblicitario con sorrisi a trentadue
denti, educati movimenti nel porgersi le fette biscottate o cedersi il turno del bagno, una casa
accogliente con un bel letto disfatto. Ma dietro il superficiale velo rosa della sceneggiatura i
loro cervelli maturavano scuse per ritornare il più tardi possibile quella sera: Anna cedeva il
suo turno per la doccia con il solo pensiero di rifare quel caldo letto e stirare maniacalmente il
lenzuolo fino ad eliminare ogni piega, ogni traccia dei loro corpi, mentre Giacomo, sotto
l’acqua bollente, pensava già agli indumenti da indossare velocemente per poter uscire
quando Anna si sarebbe trovata sotto la doccia e cavarsela così con un ciao amore gridato con
tono felice da dietro la porta.
E così fece, mentre Anna sotto il getto dell’acqua bollente si diceva che quella stessa sera
Claudia sarebbe dovuta partire se lei non voleva impazzire con quell’uomo dentro casa.
Si vestì, raggiunse rapidamente l’ufficio senza nemmeno fermarsi a prendere il caffè, fece
ritirare i biglietti d’aereo acquistati la sera prima, confermò le prenotazioni agli hotel, ultimò
le procedure burocratiche. Prima ancora di mezzogiorno Claudia ricevette il plico con tutto
ciò che le occorreva per il viaggio: trattata come un pacco postale urgente, sarebbe stata
spedita a Sarajevo alle ore 17,00 di quello stesso giorno.
Claudia ne fu felice: non aveva problemi per i bagagli perché tutto ciò che aveva era ancora
impacchettato e desiderava andar via immediatamente per evitare di perdere, con il passare
dei giorni, quel sottile filo della memoria che la stava guidando verso l’uscita del labirinto.
Scelse rapidamente un paio di jeans larghi, un maglione, una calda giacca a vento ed un paio
di scarponcini dalla valigia, li indossò, posò i vestiti del giorno prima, richiuse in fretta i
bagagli e scese nella hall. Pagò il conto, avvisò che avrebbe lasciato la camera verso le 14:00
e si diresse verso la terrazza coperta per concedersi un momento di riflessione di fronte al
mare.
L’acqua, sotto qualsiasi forma, generava in lei emozioni simili al gorgogliare di una sorgente
montana, sia per la riottosità con cui i pensieri si muovevano evitando accuratamente di essere
catturati, sia per la purezza, l’immediatezza della riflessione che si generava da quel moto
vorticoso.
Pensare era spesso per Claudia un piacere fine a se stesso e non avrebbe saputo dire se questo
fosse un pregio o un difetto. Raccogliere i pensieri dagli angoli in cui si nascondevano, unire
le parole con un filo rosso, sostituire i termini inadeguati, cercare un lemma consono al nuovo
organismo – così Claudia percepiva ogni nuova idea – che prendeva forma e, mentre lei lo
creava dagli stessi materiali che possedeva, questo le donava nuovi modi di intendere la vita,
nuove emozioni perfettamente cesellate che giocavano con le precedenti fresche e grezze
sensazioni.
Amava la solitudine, ma non quella dell’eremita, lontana dalle cose: Claudia cercava
l’isolamento del pensiero ripiegato su se stesso in mezzo al brusio di molti altri pensieri,
desiderava far partire un capo dei fili rossi che legavano le idee da un lampo negli occhi di un
bambino come da un paesaggio intravisto fra i rami di due alberi.
La natura era per lei anche l’Uomo, ma spogliato dal suono delle centinaia di parole inutili
che ogni giorno l’apparato fonatorio emetteva per il solo motivo di mantenersi in allenamento;
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la natura era tutta, indistintamente, energia vitale il cui suono si trasmetteva ovattato
attraverso un liquido che garantiva la comunicazione fra il suo corpo e l’altro da sé. Per
questo motivo cercava l’acqua ovunque si trovasse.
Si era frequentemente trovata in contrasto con il mondo degli uomini che percorrevano
indaffarati e veloci le strade, con i cervelli vuoti e le bocche piene: aveva sempre pensato che
qualsiasi vuoto è destinato ad essere riempito rapidamente proprio da ciò che non si vorrebbe
mai e considerava questi uomini veicolo privilegiato del male.
Si disse che forse lei aveva sempre resistito, pur percorrendo la strada a braccetto con il
peccato, perché non aveva mai smesso di rovistare dentro se stessa alla ricerca di nessi, di
motivazioni, di sensi nascosti. Forse per questo oggi poteva essere libera, forse per il
movimento continuo dei suoi pensieri si era potuta affrancare dal giogo satanico del potere.
Si sedette ad un tavolino proprio accanto alla ringhiera, in un angolino dove un tiepido sole
riscaldava la sedia e le ossa ed iniziò a scorrere il menù alla ricerca di qualcosa da ricordare
quando si fosse trovata in un paese straniero.
Le piaceva portarsi dentro i gusti del proprio paese e dei luoghi che visitava, le sembrava di
interiorizzare il mondo che la circondava assimilandolo con il cibo e caratterizzandolo con la
memoria dei sapori. Così era anche per le epoche della sua vita: ad ogni ricordo era associata
una rappresentazione mediata dal gusto e, spesso, anche dall’olfatto.
Ordinò una fetta moka. In nessun posto del mondo aveva mangiato gelati buoni come in
Sicilia, ma forse, si disse, li avvertiva così proprio perché erano i sapori dell’infanzia.
A volte le riflessioni sulla vita la portavano a credere che ogni pensiero è un cane che si
morde la coda: è nato prima l’uovo o la gallina? Nascono nella mia mente alcune idee perché
io sono la persona che sono o io divento ciò che sono perché nascono in me determinati
pensieri e non altri?
Penso perché possiedo gli strumenti linguistici per pensare o invento nuovi strumenti
linguistici per dare voce allo srotolarsi dei pensieri?
Ma, in fondo, si disse Claudia ponendosi in ascolto del rumore dell’onda sulla scogliera,
aveva davvero importanza? C’era davvero un prima e un dopo o nella mente era tutto
simultaneo ed erano, quindi, vere entrambe le ipotesi?
Non aveva più un pressante impulso che la spingesse a compiere quel lungo pellegrinaggio
che si era imposta, non riusciva più a trovare dentro di sé la necessità di recarsi in quei luoghi
per ritrovare tutto ciò che possedeva già dentro di sé, ma sapeva che una volta giunta a
destinazione avrebbe trovato non ciò che era andata a ripescare dal passato, ma un nuovo
futuro, una nuova dimensione, un nuovo modo di vivere le stesse emozioni.
Non sentiva più l’angoscia della rinascita, non temeva più per il suo futuro: di fronte a quella
distesa di acqua dalle mille tonalità del blu Claudia sentiva la piccolezza del suo essere di
fronte all’eternità. Lei non era altro che una minuscola frazione del tempo, era uno scontro di
atomi, era un fortuito rimescolarsi di molecole; ma era anche la sola che potesse percepire il
mondo come lei lo comprendeva, era la sola persona per cui le cose avessero l’aspetto che
assumevano nella sua mente: dentro di lei e solo per lei qualsiasi essere o qualsiasi materia
assumevano una connotazione che mai, in tutta l’eternità, avrebbero assunto più.
Il cameriere interruppe le sue riflessioni poggiando sgarbatamente sul tavolo il semifreddo
ordinato ed uno scontrino vistosamente esibito al lato del piattino. Si fermò immobile ad
aspettare il pagamento e Claudia provò il malvagio desiderio di far finta di non capire e
lasciarlo lì fino a quando non avesse avuto il coraggio di dirle qualcosa, ma desistette perché
aveva la necessità di vivere quelle ore che le rimanevano prima della partenza in modo sereno
e senza disturbi sulle frequenze del suo cervello. Pagò il conto velocemente, immerse il
cucchiaino in quella massa cremosa e, allo stesso tempo, solida, avendo cura di catturare
anche un pezzo del bordo di cioccolata e lasciò che il boccone si sciogliesse lentamente sul
palato mentre ogni pensiero sfavorevole si disperdeva nella dolcezza del cibo.
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Siamo esseri strani – pensò – un’irrilevante sensazione del nostro misero e mortale corpo
modifica il corso di un’intera esistenza come un lancinante dolore o un evento intensamente
felice.
Siamo esseri umani – ripeté a se stessa questa verità banale, ma spesso volutamente ignorata –
ed adeguarsi a questa semplice ed evidente realtà significherebbe già accettare il nostro essere
mortali e rispettare il nostro limitato tempo e quello degli altri.
Rubare il tempo altrui era il peccato originale – sentì che un filo rosso si annodava ad un
pensiero ed incominciava a ricamare un nuovo disegno – rubare il tempo togliendo la vita con
l’omicidio, con la guerra; rubare il tempo con un furto che ti costringe a ricostruire; rubare il
tempo con un amore che sai già che finirà o per cui non ti poni il problema della fine; rubare il
tempo con il disinteresse per chi ti sta accanto. Rallentiamo la vita degli altri e la nostra senza
pensare che il nostro tempo non è eterno, rubiamo il respiro a chi ci sta intorno: ecco il grande
peccato di chi desidera tanto l’eternità da accecare la propria mente fino a non vedere più che
il tempo scorre sui nostri dubbi, sulle nostre perplessità, sulle nostre paure e che fermandoci
non lo arrestiamo, lo sprechiamo soltanto.
Si chiese cosa fosse a provocare nel cervello umano, così palesemente finito, la sensazione
dell’infinità. Forse era il fatto di non avere una scadenza? Forse era la sensazione di avere un
tempo indefinito che faceva sempre pensare che saremmo potuti morire il giorno dopo, ma
non che dovevamo morire? Forse era per questo che pochi facevano testamento e che
procrastinavano le loro azioni ad un futuro indefinito come il tempo a disposizione? Forse era
una distorsione linguistica prodotta dall’eliminazione di una piccola sillaba? Indefinito e
infinito: riusciva un essere per cui l’infinito non era immaginabile a percepire la differenza?
Se ciascuno di noi avesse saputo di avere a disposizione ancora quarant’anni, dieci mesi,
cinque giorni, tre ore, venticinque minuti e una manciata di secondi non avrebbe forse fruito
della sua vita rimpiangendo ogni attimo sprecato di quel tempo? Avrebbe forse avuto il tempo
di rubare vita agli altri o sarebbe stato troppo occupato a riempire la propria?
E mentre le Parche tessevano senza sosta e recidevano senza pietà – si disse Claudia – gli
uomini imbrogliavano se stessi tentando di confondere le matasse, unendo i propri fili con
quelli altrui, provando a vivere nella storia, nella letteratura, nella vita della propria
discendenza, invece di usare la propria matassa per tessere tele variopinte e soffici su cui
adagiarsi felici al momento dell’inevitabile colpo di forbici.
Un freddo improvviso la distolse da quella morbida e malinconica immagine: il sole si era
allontanato dall’angolino in cui si era rifugiata, il suo gelato era finito e nel piattino rimaneva
solo qualche striatura liquida che – pensò con ironia – sarebbe stato divertente leggere come i
fondi del caffè. Erano quasi le due e l’aereo non l’avrebbe aspettata; afferrò rapidamente la
borsa, gli occhiali e le sigarette e si diresse verso l’albergo per ritirare i bagagli.
Giacomo sedeva alla scrivania del suo studio al policlinico. La mattinata era trascorsa con una
teoria interminabile di studenti che gli avevano posto mille domande distraendolo dalle mille
domande che aveva deciso di porre a se stesso in quello strano giorno. Dopo l’uscita
dell’ultimo studente – un talento brillante ma noioso e poco tagliato per il successo – era
rimasto immobile senza rendersene conto, inseguendo pensieri senza nessun legame fra di
loro che si affastellavano nella sua mente già confusa.
Aveva la sensazione che, più che pensare a Claudia, lui stesse pensando insieme a lei:
avevano vissuto tanto tempo insieme e spesso lui era stato tutt’uno con la volontà di lei,
troppo spesso perché ora il legame potesse essere interrotto da una separazione spaziale. Nelle
ultime due ore aveva avvertito la spiacevole sensazione che i giovani che entravano ed
uscivano dalla sua stanza senza sosta stessero rubando attimi preziosi della sua esistenza; dal
momento in cui aveva deciso di percorrere la propria strada – anche senza sapere quale in
realtà fosse – il tempo aveva assunto un valore che lui non gli aveva mai attribuito. Si trovava
come tanti uomini di mezza età ad un bivio: una strada lo avrebbe condotto verso l’ignoto e
l’altra lo avrebbe bloccato in un girotondo infinito su se stesso. La scelta – ma poteva
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chiamarsi scelta o era solo un tirare ai dadi con la propria vita? – non era semplice né
scontata: accettare l’ignoto non era forse dichiararsi umano, diverso dai superiori esseri
immortali di cui tutti si convincono di aver carpito l’essenza e per i quali tutto è noto? Optare
per l’incertezza, per una rivoluzione che, come tutte le rivoluzioni, sarebbe potuta degenerare
in una fatale sconfitta, era una scelta o un atto di incoscienza? Claudia si era lanciata in un
volo verso se stessa e lui sentiva la portata di quel gesto e la invidiava profondamente per la
leggerezza di un corpo e di una mente che si libravano sulla paura di vivere che era morte più
della morte. Avrebbe voluto carpirle il segreto che le permetteva di lanciare in aria i dadi ed
aspettare che cadessero a formare nuovi numeri, forse perdenti. Avrebbe voluto alleviare
l’angoscia di quella pesantissima notte con gli occhi aperti nel buio a controllare il respiro per
non svegliare Anna. Avrebbe voluto prendere in prestito la forza vitale di quella donna che
aveva camminato insieme a lui per tanto tempo ed era rimasta una sconosciuta perché lui si
era preoccupato più di possederla che di comprenderla.
Fu in quel momento che bussarono alla porta del suo studio e, mentre le Parche, le stesse
Parche contro cui sua madre e lui e molti prima di loro avevano lottato, tessevano un nuovo
disegno sulla sua tela, Marta irruppe nella stanza trafelata, con una dozzina di libri sotto il
braccio che sembravano voler fuggire in tutte le direzioni, il volto arrossato dal freddo di
febbraio ed uno sguardo acceso e vitale come Giacomo non ne aveva mai visti.
Anna, liberata dal peso di Claudia, era scivolata sulla sua poltroncina e osservava la scrivania
con un sorriso compiaciuto quando squillò il telefono con il segnale delle comunicazioni
interne.
Rispose distrattamente e udì la voce melliflua del direttore che la invitava a salire nel suo
ufficio. Chiese dieci minuti per ultimare un lavoro e si adagiò nuovamente sullo schienale
provando a studiare velocemente un atteggiamento consono alla nuova situazione. Claudia era
andata via e adesso lei doveva eliminare Giacomo: la sensazione di pesantezza che l’aveva
assalita durante la notte precedente al sentire il calore soffocante del corpo di Giacomo
accanto a lei non si sarebbe dovuta ripetere mai più: quella notte doveva trovare il modo di
dormire fuori e Giacomo avrebbe capito – non era uno stupido anche se come tale si
comportava – e sarebbe andato via.
Erano ancora le due e aveva tempo per trovare una qualsiasi ragione per non ritornare a casa
quella sera, adesso doveva andare a quella immotivata convocazione del direttore e calarsi nei
panni della giornalista rampante ma accondiscendente, per continuare la sua scalata al potere.
Infilò le scarpe che, coperta dalla scrivania, aveva abbandonato sul pavimento, passò le mani
fra i capelli per renderli più vaporosi e si diresse verso l’ascensore con un’aria discretamente
sensuale ed, entrando, notò immediatamente un uomo sulla cinquantina con un’abbronzatura
da ricco sportivo in un’impeccabile abbigliamento casual ma elegante. Arrivata al piano vide
con la coda dell’occhio che anche lui era uscito dalla cabina e la seguiva ad un paio di metri di
distanza con un’andatura disinvolta; entrarono insieme nell’anticamera dell’ufficio del
direttore e la segretaria si precipitò ad accogliere lo sconosciuto con urletti di benvenuto e
manifestazioni di disappunto per i pochi secondi che avrebbe dovuto fargli perdere per
annunciarlo. L’uomo entrò immediatamente e qualche attimo dopo l’interno della segretaria
squillò e Anna fu introdotta a sua volta nella stanza.
L’uomo era in piedi davanti alla foto scattata per Natale a tutti i collaboratori durante la
piccola riunione che ogni anno funestava l’inizio delle festività e si girò appena al suo
ingresso.
Il direttore, sempre più viscidamente strisciante, la presentò a quello che si rivelò essere il
nuovo editore e proprietario assoluto della testata. Anna comprese immediatamente la portata
di quella riunione in cui lei era stata eletta interfaccia per le comunicazioni con la proprietà: il
direttore aveva furbescamente scelto la persona che pensava di poter manovrare più
facilmente perché non ancora integrata nella struttura del giornale e l’aspetto apparentemente
dimesso di Anna lo aveva tratto in inganno. Lei si vide già seduta, insperatamente, sulla
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poltrona di quell’ imbelle pseudo giornalista e riuscì a malapena a mantenere il controllo della
risata che nasceva dalle sue viscere e che diabolicamente voleva esplodere nella stanza.
Abbozzò un sorriso timido e forzò il suo corpo a trasmettere la sensazione di un dolce
modellarsi al corpo dell’editore mentre la sua voce, in aperto contrasto, suonava decisa nel
presentarsi.
Si accorse subito di aver sortito l’effetto desiderato perché la postura dell’uomo cambiò e la
sua nuova vittima inconsapevole girò di quarantacinque gradi fino a trovarsi a pochi
centimetri da lei ad osservarla incuriosito.
Anna non smise di fissarlo diritto negli occhi mentre il direttore sciorinava inutili frasi di
prammatica e l’uomo, incurante di quello che era solo un rumore di sottofondo alla musica
che li stava avvolgendo, la invitò senza preamboli a discutere della linea editoriale a pranzo,
considerata l’ora. L’editore si rivolse verso il direttore che stava già per accogliere la proposta
emettendo altri pleonastici suoni e gli disse che comprendeva la sua impossibilità a
partecipare, visti gli obblighi della sua mansione.
Il direttore sembrò accartocciarsi a quelle parole, fissò Anna con un’espressione dubbiosa, ma
il dolce sorriso della sua impiegata lo convinse che non aveva nulla da temere e chinò
malvolentieri la testa confermando la tesi del suo nuovo superiore che già non lo ascoltava più
mentre accompagnava con il movimento del braccio Anna verso l’uscita ed osservava il suo
corpo che si spostava docile come se l’impulso provenisse da lui.
Senza spiegazioni entrarono nell’ascensore ed uscirono al piano di Anna perché lei potesse
prendere cappotto e borsa e, mentre era lei che in realtà guidava i loro spostamenti, l’uomo
aveva la sensazione di dirigerla con la mente verso la direzione da lui prescelta.
In cinque minuti erano già usciti dall’edificio ed entrati nella macchina sportiva di lui; dopo
dieci minuti percorrevano le strade della città come se si conoscessero da anni e stessero
andando a pranzo al loro ristorante preferito.
Claudia aspettava l’ora dell’imbarco ignara delle trame che il destino stava tessendo,
preoccupandosi solo di non riuscire più a trovare le parole per descrivere ciò che i suoi occhi e
la sua mente avrebbero visto. La valigetta con la macchina fotografica e quella con il portatile,
inseparabili compagne da anni, avevano un aspetto minaccioso come ogni oggetto che non
sappiamo usare. In altri tempi avrebbe approfittato della lunga attesa per estrarre il computer
dalla borsa ed iniziare a scrivere. In altri tempi le parole sgorgavano dalla punta delle dita
come nella scrittura delle medium, comparendo misteriosamente sullo schermo come
minuscole formiche nere su sabbia bianca. Le lettere si sciorinavano una ad una formando
lemmi, frasi, periodi complessi, articoli. In altri tempi Claudia credeva talmente nella forza
delle parole da evocarle con la semplice volontà di dire al mondo qualcosa, di comunicare.
Non credo più – pensò all’improvviso – Non credo più nella potenza del linguaggio.
Eppure non riusciva a non pensare, a non porsi domande e rispondersi. Eppure non poteva
ancora oggi fare a meno della chiarificazione del magma dei pensieri attraverso l’ordinamento
sintattico delle emozioni.
Ma forse non credo più in chi ascolta, – si disse – forse mi manca la fede nell’Uomo e non
nella parola.
Doveva tornare a credere nei suoi interlocutori o trovarne di nuovi, era indispensabile per
continuare a vivere come era sempre vissuta, con il desiderio di condividere se stessa con gli
altri.
Sentì quell’entità ancora sconosciuta che era dentro di lei comunicarle empaticamente
qualcosa e comprese che l’unico essere in cui oggi potesse avere fiducia era quello.
Aprì la borsa, estrasse il portatile, lo accese ed iniziò a scrivere:
Caro bambino,
mi accingo a compiere un lungo viaggio da cui mi aspetto una nuova strada da poter
percorrere con te e per te. Una via che si inoltri nella pace e nella comprensione
dell’altro, una via che conduca all’amore e non all’odio perché tu e tutti noi possiamo
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vivere immersi in acque calme e, allo stesso tempo, brulicanti di magnifiche forme di vita.
Caro piccolo sconosciuto scoprirai che iniziare un viaggio è ritornare a nascere, ma come
spiegarlo a te che ancora non conosci l’effetto dell’aria che ti spalanca improvvisamente i
polmoni, del freddo o del caldo che modificano l’aspetto della tua pelle e dei tuoi pensieri?
Ho sempre pensato che l’essere nata e l’aver vissuto in un luogo caldo e umido come
quello in cui anche tu, probabilmente, vivrai abbia condizionato la mia visione del mondo
più dell’ambiente familiare, delle amicizie, degli amori e forse anche tu, quando sarai in
un’età di riepiloghi come la mia, farai le stesse considerazioni.
Per pensare ho dovuto confrontarmi spesso con le opinioni di estranei che scrivevano se
stessi in romanzi, saggi, liriche, ma tu potrai leggere ciò che io ti scrivo e trovare nelle mie
parole qualcuna delle domande e delle risposte che urgono nella mente delle persone in
possesso di una coscienza e non solo di un corpo.
Forse la vicinanza genetica con chi scrive ti farà sembrare meno duro il travagliato
percorso che compie la mente per trovare una ragione nell’esistenza. Forse un giorno
anche tu, seduto (o seduta?) su una rigida sedia di una sala d’attesa, come me in questo
momento, sentirai meno pesante il cammino sapendo che qualcuno che per te è anche
carne, sangue e ossa e non solo una montagna di carta segnata dall’inchiostro, ha vissuto
prima di te le stesse cose con la stessa passione.
Caro bambino, ora devo lasciarti perché i passeggeri sono saliti quasi tutti a bordo ed
anche io devo andare se non voglio che questo viaggio termini prima ancora di iniziare.
Ti scriverò presto, ti scriverò perché tu possa ritrovarmi domani con i pensieri che ci
hanno accompagnato durante questo cammino in cui la tua presenza è testimoniata solo
da un vago senso di nausea.
A presto
.
Claudia posò in fretta il portatile, raccolse gli oggetti che aveva sparso sulle sedie vicine e si
avvio verso la hostess che stava effettuando gli imbarchi.
Giacomo sedeva ancora alla scrivania mentre Anna sorseggiava un magnifico vino rosso
d’annata e Claudia allacciava le cinture di sicurezza.
Era solo, un angelo era uscito qualche minuto prima dalla sua stanza – pensava Giacomo – e
gli aveva lasciato addosso la sensazione di un tuffo nell’acqua gelata di un lago: sentiva il suo
corpo tonificato e pieno di una strana energia; provava l’inconsueto desiderio di scrollarsi di
dosso tutti gli orpelli inutili della vita che si era costruito.
Un nome davanti ad ogni altro – Anna – ricorreva nei pensieri come simbolo della pesantezza,
adesso che esisteva un confronto, un metro di paragone: quella splendida creatura che aveva
abitato la sua stanza per quasi due ore, sprigionando ad ogni movimento un’impalpabile
flusso di frizzante energia che ancora si posava sugli oggetti rendendoli nuovi agli occhi di
Giacomo.
E nuovo si sentiva lui: adolescente come non era mai stato, avvertiva al solo pensiero di quel
viso una vampata salire prepotente dal centro del corpo fino alla radice dei capelli e
desiderava soltanto trovarsi di nuovo accanto a lei per non perdere la percezione della
giovinezza che non aveva mai conosciuto.
Comprendeva adesso di essere stato vecchio già da bambino: si presentava distintamente ai
suoi occhi la proiezione di ciò che sarebbe potuta essere la sua vita e di ciò che adesso – non
era ancora troppo tardi, si disse, non poteva essere troppo tardi – lui avrebbe inseguito con
tutte le sue forze mentre correva nella scia di quell’essere etereo e luccicante di cui fino a due
ore prima non conosceva l’esistenza e senza cui ora non riusciva a concepire il mondo.
Arrossì ancora una volta pensando al suo comportamento: l’aveva invitata a cena con un
atteggiamento poco professionale che avrebbe criticato in chiunque e lei aveva accettato con
una grazia ed una leggerezza che avevano privato di ogni possibile connotazione maliziosa il
suo gesto apparentemente poco corretto.
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Marta era una ricercatrice e si era appena trasferita da un’altra università per seguire le
ricerche che lo staff di Giacomo stava svolgendo da un paio d’anni. Era arrivata quel giorno e
si era presentata nel suo studio per farsi assegnare un ruolo e parlargli delle sue idee a
proposito della ricerca. Giacomo aveva capito subito, a prescindere dalle emozioni che
provava, che era una mente brillantissima ed alcune intuizioni che lei gli esponeva lo fecero
sorridere come le scoperte di un bambino prodigio.
Non aveva mai amato il suo lavoro, lo aveva svolto dignitosamente come ognuna delle cose
verso cui si era dovuto dirigere spinto dalla necessità, ma oggi, per la prima volta, quella
creatura gli aveva mostrato la bellezza di ciò che aveva sempre vissuto come un pesante
fardello. Giacomo si chiese perché mai dovesse essere necessario cercare altrove una vita
autonoma quando nelle stesse cose che lui conosceva c’erano aspetti così affascinanti che le
potevano rendere diverse. Tutto ciò di cui Marta aveva parlato quel giorno era stato la sua vita
fino ad allora e lui l’aveva sempre sentita estranea al suo profondo modo di essere, ma,
mentre lei gli presentava le sue idee ad una ad una, distintamente, con passione, lui sentiva per
ognuna di esse che avrebbe potuto sceglierla autonomamente se sua madre non l’avesse
anticipato costringendolo a farlo.
In due ore un angelo era entrato nella sua esistenza e l’aveva cambiata senza stravolgerla:
Marta gli aveva portato in dono non una nuova vita, ma il fascino di quella che aveva vissuto.
Non avrebbe lanciato i dadi in aria per cercare un numero vincente: i dadi erano già a terra ed
era stato lui a non capire di avere vinto: esisteva una certezza più importante di quella?
Doveva essere rapido – pensò – agire subito per non perdere quell’occasione: si levò il
camice, mise il cappotto, velocemente fu in strada e, poi, alla guida della sua macchina verso
casa di Anna. Salì le scale quasi correndo, gettò dentro le valigie tutto ciò che la sera
precedente aveva tirato fuori, lasciò un messaggio sul mobile all’ingresso in cui avvisava
Anna di un’importante convegno a cui aveva deciso di partecipare, posò la copia delle chiavi
che lei gli aveva consegnato e si chiuse la porta alle spalle con un sospiro di sollievo.
Anna sorrideva all’uomo seduto di fronte a lei tenendo in mano una flute di un meraviglioso
cristallo e pensando che tutto si svolgeva meglio di come avrebbe potuto progettarlo lei. Era
stata brava, aveva colto l’occasione al volo e fra qualche ora sarebbe stata con lui in Toscana
a trascorrere due giorni nel suo casale vicino a Firenze.
Non aveva esitato un attimo a dirgli di sì: l’avrebbe fatto in ogni caso, ma il pensiero di non
dover vedere Giacomo quella sera era una molla di per sé sufficiente. Lo aveva guardato un
attimo con un’espressione smarrita per fargli credere che la stava spingendo con il suo fascino
a fare una scelta difficile e, dopo qualche secondo, aveva pronunciato un timido sì. Lui si era
sentito in dovere di rassicurarla diventando più galante di prima, come per farle credere che
non sarebbe cambiato una volta ottenuto ciò che desiderava e lei aveva continuato a sorridere
dolcemente.
Qualche minuto dopo erano in viaggio verso l’aeroporto e in macchina lui le spiegava che non
avrebbero avuto il tempo di preparare le valigie e che avrebbero rimediato il giorno dopo a
Firenze comprando qualcosa, se necessario. Arrivati all’aeroporto, mentre lui contattava il
pilota, Anna lasciò un breve messaggio sulla sua segreteria telefonica per avvertire Giacomo
di un’improvvisa partenza per motivi di lavoro.
Posò il telefonino e, alzando lo sguardo, lo vide avvicinarsi verso di lei e pensò che era
davvero bello: non ne aveva mai dubitato, ma adesso era sicura che avrebbe vinto lei e che
sarebbe successo molto presto.
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CAPITOLO VII
Claudia aprì gli occhi in una stanza sconosciuta immersa nel buio. Il display della sua sveglia
segnava le sei e trentadue del mattino ed erano già le sei e trentacinque quando riuscì a
rendersi conto di dove si trovava. La sera precedente era arrivata in una Sarejevo notturna che
non riconosceva e, appena preso possesso della stanza in hotel, era piombata in un sonno
profondo e senza sogni.
Si alzò dal letto e si accorse di avere gli arti inferiori intorpiditi ed un forte senso di nausea; si
affacciò alla finestra e respirò con forza. Era ancora buio, anche se il chiarore dell’alba si
intuiva dietro le nuvole. Non aveva molto tempo per svolgere il suo lavoro: Anna era stata
piuttosto tirchia con le risorse economiche del giornale ed aveva organizzato il tutto in modo
da farle fare un tour de force inutile per lo scopo della sua partenza. Si vestì velocemente per
guadagnare qualche minuto e scese al ristorante per la prima colazione. Seduta al tavolino
dell’hotel, mentre beveva un caffè con latte disgustoso come tutti quelli delle prime colazioni
negli hotel, si chiedeva cosa fare: da corrispondente di guerra aveva un ruolo ben definito e
sapeva quello di cui avrebbe dovuto parlare e cosa cercare; adesso, in tempo di pace, doveva
inventare lei la notizia e non sapeva come procedere. Continuava a pensare alla
corrispondenza che aveva iniziato con un bambino che era il futuro e che poteva solamente
assorbire il suo passato, ma non lo avrebbe mai vissuto: il passato di Claudia sarebbe sempre
stato storia per la sua creatura, mai vita. Quelle lettere dovevano servire a questo, a fare
rivivere la sua esistenza… fino a quando poteva.
Un’idea improvvisa le attraversò la mente e Claudia si pose in ascolto: avrebbe dato ai suoi
articoli il taglio di una storia fatta da chi la viveva ed ogni giorno la sua versione delle cose
sarebbe stata patrimonio di tutti attraverso le parole che lei stava rivolgendo al suo bambino.
Avrebbe intitolato la serie “Perché ci sia un futuro” e avrebbe parlato al mondo come si parla
ad un figlio, con il solo interesse per una verità che lo renda libero.
Soddisfatta per aver risolto un fastidio – non considerava più il lavoro un vero problema e
questo era già un importante traguardo – si lasciò completamente possedere dalla situazione in
cui si trovava, chiuse gli occhi e da lì iniziò veramente il suo viaggio.
Uscita dall’albergo si trovò davanti ad una città senza nome e senza volto: lo spettro
dell’angoscia non aleggiava più sui volti dei passanti, ma non era ancora stato sostituito da
nulla. Era come se il solo fatto di non temere il fischio di una pallottola e il buio istantaneo
della morte fosse già più che sufficiente per quegli uomini e quelle donne. Claudia li vedeva
camminare davanti a sé e si chiedeva chi di quelle donne fosse stata vittima di uno stupro
etnico – orribile parola creata da uomini per gli uomini come se lo stupro potesse essere
suddiviso in classificazioni: come pensare che dicendo morte bellica la morte potesse
cambiare il suo volto – o chi fra quei bambini avesse visto morire un suo amichetto accanto a
lui, squarciato da un colpo di fucile sparato con precisione da un professionista seminatore di
morte.
Si fermò un attimo – lo stava facendo di nuovo, si disse quasi urlando – stava di nuovo
sovrapponendo alla realtà ciò che lei riteneva che la realtà dovesse essere. Non doveva
applicare alle cose quella pellicola sottile della “presunzione” che le soffocava fino al punto di
non poter più mostrare nulla della loro essenza. Doveva porsi in ascolto innocente, non era a
Sarajevo, i resti miseri degli edifici squarciati non erano per chi passava da lì ogni giorno un
ricordo di una guerra, ma solo brutture, come quei palazzi bombardati nel cuore della vecchia
Palermo, davanti ai quali nessuno si sognava di far volare un pensiero alle vittime della
guerra.
Doveva solo camminare come tanti altri e vivere, vivere come avevano fatto quelle persone
anche durante gli anni della guerra civile: senza lasciare che la violenza mutasse la loro vita –
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almeno in apparenza – perché la guerra potesse uccidere sì i loro corpi, ma non le loro anime.
E lei non poteva sovrapporre la sua visione delle cose alla loro volontà perché sarebbe stato
come salire all’ultimo piano di uno di quegli orribili edifici, imbracciare il fucile e sparare
mirando al cuore.
Fu con questa consapevolezza che si accinse ad affrontare il duro compito di scavare fra le
rovine per far scoprire al mondo ciò che poteva emergere e che nessuno si preoccupava di
tirar fuori, dopo aver ingaggiato un presunto duello fra il bene e il male con la scusa di
difendere la giustizia.
Anna si svegliò in una penombra che mostrava un ambiente rustico e caldo con pareti in pietra
grezza e mobili in legno che emanavano un calore antico. Il suo corpo era percorso da un
gradevole formicolio di soddisfazione e le sue labbra si modellavano sul sorriso come se un
piacere profondo agisse in background, sotto la coltre dei piani che si sviluppavano nel suo
cervello rapidamente mentre guardava l’uomo addormentato accanto a lei. La notte era
trascorsa in un attimo sui loro corpi fusi e sudati e lei, pur rendendosi conto di essere
assolutamente nel posto “giusto”, aveva continuato a guardare la scena al di fuori di questa:
come seduta su un angolo di quel letto osservava le reazioni di lui con il solo intento di
comprendere la velocità e la rotta che avrebbe potuto tenere nei giorni successivi per
raggiungere il suo obiettivo. Si chiese, mentre scivolava silenziosamente fuori dalle soffici
coperte in piuma leggerissima, se il male non fosse questa incapacità di godere il presente per
essere sempre un passo più avanti verso un nuovo potere che era solo in embrione nell’oggi.
Vivere in eterno era vivere o il prezzo da pagare? Il procrastinare la felicità in eterno impediva
di fatto lo svolgersi della vita umana? Distolse la mente da quei pensieri con un salto nel suo
passato, nel dolore che sempre era seguito ai pochi attimi di felicità vissuta: forse era vero che
il male impediva la vita, ma se la vita era quel dolore sordo ed insopportabile che oscurava
ogni cosa, allora lei continuava a preferire ciò che aveva scelto.
Giacomo non aveva dormito per tutta la notte: nella stanza una luce soffusa si irradiava da un
piccolo lume coperto da un telo ricamato e lui aveva trascorso la notte ad osservare gli oggetti
sconosciuti che emergevano dall’oscurità.
Il corpo di Marta, sottile e bianco, disegnava una linea morbida sotto le lenzuola e si muoveva
a tratti, probabilmente seguendo lo svolgersi dei sogni. Per terra qualche pupazzo di peluche
lasciava trasparire la calda innocenza dell’abitante di quella stanza e sulla piccola scrivania
color albicocca decine di libri e di quaderni erano ammucchiati alla rinfusa e sembravano
avere il ruolo di fermacarte per altrettanti fogli sfusi. La lampada che stava illuminando la
scena era posta su una montagnetta di libri e proiettava la sua luce su una piccola libreria
zeppa di volumi che, a giudicare dal formato, dovevano essere di varia natura.
Giacomo aveva sempre ritenuto che il carattere e l’essenza di una persona si manifestassero
nella scelta dei libri ed era curioso di scoprire chi realmente fosse quel delicato esserino che
respirava regolarmente il pesante respiro del sonno accanto a lui.
Fare l’amore con lei era stato dolce e coinvolgente come mai nella sua vita e lei aveva
dischiuso i suoi petali alle sue carezze emanando un sottile profumo di incontaminata felicità.
Giacomo si sentiva a casa, come se la sua vita, dall’infanzia ad oggi, si fosse svolta sempre in
quella stanza che era l’unica dell’appartamento e che, come Marta, sembrava modificarsi in
relazione a quello che veniva richiesto da chi si trovava ad entrare dentro di lei.
Le prime luci dell’alba filtravano dalle persiane quando Giacomo si addormentò con una
struggente sensazione di appartenere completamente a quella donna e al suo mondo.
Claudia ritornò all’hotel dopo aver trascorso la giornata ad intervistare persone – scelte
arbitrariamente solo in base alla percezione di un feeling fra lei e loro – e a scattare fotografie.
Alle 18,00 era nella sua stanza e riempiva la vasca per concedersi qualche attimo di serenità
prima di iniziare a scrivere.
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Ancora avvolta nell’accappatoio accese il computer, collegò la macchina fotografica digitale e
scaricò tutte le immagini che aveva catturato quel giorno. Come faceva ormai da anni,
visualizzò la presentazione delle immagini sullo schermo e iniziò a concentrarsi per ricreare
dentro di sé ciò che aveva provato quando aveva deciso di scattare la fotografia. Spesso, negli
anni passati, da quando aveva iniziato a scrivere senza convinzione, di fronte alle immagini
scelte per accompagnare gli articoli lei, per non deludere il suo pubblico, aveva cercato dentro
di sé ciò che sarebbe stato giusto provare e non le sue percezioni reali, ma oggi non era più
disposta ad accettare compromessi con se stessa.
Che differenza esisteva fra il fingere di essere ciò che non si è di fronte a tutto il mondo e il
non essere mai realmente esistita per nessuno? Claudia adesso sapeva di dover esistere per
suo figlio e comprendeva l’importanza di indicargli una strada diversa da quella che aveva
seguito lei fino ad allora.
Smise di pensare: doveva scrivere o nulla sarebbe rimasto di ciò che la sua mente aveva
compreso in quei giorni. Aveva la sensazione di essere arrivata ad una consapevolezza che
aveva sempre associato all’istante prima della morte. Si era sempre immaginata che in quel
momento – troppo tardi per vivere – si dovesse avere la certezza di aver risolto il rebus
dell’esistenza e che tutto ciò che era stato oscuro e angosciante in vita si presentasse
improvvisamente chiaro come l’incastro dei pezzi una volta risolto un puzzle.
Per questo ora sentiva, come mai era successo prima, la possibilità che la scadenza del suo
tempo fosse più vicina di quanto le statistiche sulla vita media potessero prevedere. Per questo
adesso le sembrava prezioso ogni piccolo istante e avvertiva chiara la necessità di realizzare
soltanto ciò che davvero riteneva importante.
Amare un figlio come il mondo e amare il mondo come un figlio, questo era il significato
delle sue lettere con duplice destinatario: nessuno poteva amare davvero se amava
parzialmente, se l’amore non investiva ogni aspetto della propria vita. Aprì un nuovo file e
iniziò a scrivere.
Caro figlio mio,
ti sento crescere dentro di me ogni giorno e ascolto le tue mille domande anche se ancora
non conosco il tuo sesso, il tuo volto ed il tuo nome come non conosco quelli delle persone
a cui questa lettera giungerà prima che a te.
Molte sono le ragioni che mi hanno spinto a raccontarti quello che ho visto del mondo e
quello che ho sempre taciuto in nome dell’ordine che desideravo fosse mantenuto. Come
molti altri con qualche conoscenza ed un minimo di comprensione logica delle cose, mi
sono arrogata il diritto di decidere, al posto dei milioni di persone coinvolte, ciò che fosse
bene divulgare e ciò che si dovesse tenere occultato solo per i “migliori”, per coloro che
avevano i mezzi per fare le “giuste” scelte.
L’andamento della mia vita e di quella della Terra mi ha insegnato che i nostri fallimenti –
che, naturalmente, attribuiamo al caso – sono, in realtà, la dimostrazione del fatto che tutti
noi siamo incompetenti per quanto riguarda il senso della vita e la distinzione fra il bene e
il male.
È così sottile la linea di demarcazione fra il giusto e l’ingiusto, così pronta a spostarsi in
un istante di centinaia di chilometri in seguito all’intervento di nuove variabili, che credo
nessuno abbia il diritto di decidere per la vita degli altri. La tentazione sarà forte, figlio
mio, spesso sentirai salire dentro di te una rabbia bruciante come il fuoco di mille incendi
quando vedrai sul volto del tuo interlocutore l’incomprensione di ciò che a te sembra
elementare, ma non cedere all’arroganza di chi crede di conoscere la verità. Dopo
qualche anno e, a volte, anche dopo pochi minuti, i tuoi occhi e la tua mente vedranno altri
scenari che renderanno sciocco ciò che avevi scambiato per il vero. Ciò che mangerai, il
letto su cui dormirai, i paesaggi che accompagneranno le tue passeggiate, l’aver
conosciuto alcuni uomini e donne invece che altri, sovvertiranno il significato che davi
alla verità fino ad un attimo prima. Tu e tutti gli altri dovete ascoltare ciò che io vedo, non
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perché è la verità, ma per comprendere anche altre verità oltre la vostra e decidere della
vostra vita senza pretendere di farlo anche per quella altrui solo perché vi ritenete nel
giusto.
Oggi, in questa terra dimenticata, ognuno di voi potrebbe vedere con i suoi occhi lo
scempio operato da chi viene per salvare e sostituisce ad un male un altro male solo
perché, nel suo modo di vedere le cose, è minore.
Personalmente credo che preferirei subire le conseguenze di una mia scelta sbagliata che
non quelle della scelta di un altro sulla mia pelle. Non amo i cavalieri che si lanciano in
mia difesa roteando la spada nel mucchio e rischiando di ferire anche me.
Ho sempre pensato che i pompieri che intervengono con i teloni durante un incendio ed
esortano le persone intrappolate a gettarsi dalle finestre abbiano, quanto meno, il dovere
di restare lì sotto fino a quando tutti non siano in salvo. So che sembra logico e che forse
riderai, ma noi salvatori di questo splendido paese lo abbiamo fatto?
A volte basterebbe farsi queste piccole e stupide domande per comprendere che anche
quello che non è immediatamente assurdo per la mente, lo diventa se sottoposto ad un
esame logico più attento.
Fallo sempre figlio mio, non ascoltare senza pensare, sottoponiti sempre al tormento dei
“perché”: una tua disattenzione può essere fatale per una o per mille persone e dopo,
forse, non ti sarà più possibile rimediare.
Leggerai nelle pagine della storia che i coraggiosi cavalieri della democrazia sono scesi
in campo per sconfiggere il male e la tirannia; leggerai che lo hanno fatto per le donne
violentate, per i bambini uccisi, per riportare l’ordine e la pace. Ma dovrai sapere che
nessuno dei soldati che hanno combattuto in nome della libertà ha agito per questi motivi,
ma solo per obbedire ad un ordine. Dovrai sapere che tutti coloro che sganciavano bombe
sopra le città spente sapevano che donne, bambini ed uomini morivano sotto di loro.
Dovrai sapere che al potere che ordinava l’attacco interessava solo il proprio tornaconto,
perché il potere non pensa ad un uomo, pensa solo al proprio accrescimento, alla propria
stabilità.
Sono cose, figlio mio, che tutti sappiamo quando osserviamo gli eventi dall’esterno, senza
esserne in alcun modo coinvolti, ma che, improvvisamente, non riconosciamo quando le
azioni sono le nostre, quando siamo noi a decidere il bene e il male di un altro.
Una volta ho letto da qualche parte che una delle cose che differenziano l’ “animale
uomo” dagli altri animali è la capacità di riconoscersi allo specchio: improvvisamente il
bambino scopre la distinzione fra sé e il mondo e sa che è il suo corpo quello che appare
nell’immagine riflessa.
Da quel momento ho pensato che l’Uomo si distingua dall’ “animale uomo” per la
capacità di riconoscere nello specchio delle azioni altrui l’immagine delle proprie.
Solo nel momento in cui riuscirai a ravvisare nello specchio degli altri uomini le tue
manchevolezze, i tuoi peccati e i tuoi meriti, tu sarai capace di essere cauto nel giudicare,
di essere onesto nell’agire, di essere Uomo senza la pretesa di essere Dio.
Camminando in questa città dal volto ancora offuscato dalla memoria, ci si rende conto
del fatto che dirigere la vita degli altri, anche portandola verso quello che per noi è un
miglioramento, fa degli uomini soltanto corpi in cerca di un’identità. Ognuno di noi si
costruisce la propria vita lottando per ciò in cui crede ed ognuno di noi non è altro che il
frutto di questa lotta: non è il risultato ad essere importante, ma il cammino percorso per
ottenerlo. Questi uomini hanno avuto, forse, un aiuto dalle popolazioni “civili”, ma il
principio di autodeterminazione, valido per gli uomini come per i popoli è stato leso
irrimediabilmente e noi ne siamo responsabili quanto chi ha ordinato l’azione.
È ancora guerra oggi in questo paese, è guerra in altri paesi, è guerra nelle nostre città e
nelle nostre case, è guerra dentro tutti noi perché la pretesa di conoscere ciò che non ci è
dato sapere ci porta ogni attimo ad interferire nella vita degli altri, a dirigerla senza che
ci rendiamo conto di farlo. Eppure vediamo chiaramente quando qualcuno lo fa con noi,
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eppure dovremmo riconoscere nello specchio altrui il nostro peccato. Ma non tutti sono
Uomini, figlio mio, e questo è bene che tu lo sappia da subito perché la tua vita sia un
cammino verso l’Umanità e non una stasi nella pozzanghera della presunzione.
Apri gli occhi sul mondo: l’unico modo per sconfiggere il male è accettare la sua esistenza
anche dentro di noi ed agire solo nel proprio spazio e nel proprio tempo.
La guerra non ha ragioni figlio mio, la guerra è solo un furto di vite umane, la guerra è
solo una scusa per possedere ciò che si è salvato, per calpestare ciò che, in apparenza, si è
difeso.
Claudia distolse gli occhi dallo schermo del computer e guardò l’orologio: erano le nove
passate e lei aveva fame. Non aveva voglia di sedersi ad un tavolo e, allo stesso tempo, non
desiderava restare a mangiare da sola in quella camera; decise di andare al bar dell’albergo e
mangiare qualcosa di leggero al banco.
Indossò un pullover ed un paio di jeans molto rapidamente e con noncuranza, infilò un paio di
scarpe comode e uscì dalla camera.
Anna era dentro la doccia quando Alberto bussò alla porta della stanza da bagno. Si era alzata
silenziosamente ed aveva percorso il lungo corridoio su cui si affacciavano misteriose porte in
legno massiccio. Aveva a stento resistito alla tentazione di entrare nelle stanze, sentendosi
quasi come l’ultima moglie di Barbablù. In effetti – si era detta – si era avventurata con un
uomo sconosciuto in un posto lontano da casa e senza dire a nessuno dove andava; non era
stata una scelta prudente, ma era necessaria: sarebbe stata disposta a tutto pur di ottenere ciò
che voleva. Aveva aperto la porta del bagno e si era rilassata immediatamente alla vista di
quel lusso così abilmente mimetizzato dentro uno stile rustico; era entrata in quell’enorme
doccia dai vetri trasparenti ed aveva azionato l’idromassaggio. Il corso dei suoi pensieri
sembrava fluire potente come il getto dell’acqua che la investiva sciogliendole i muscoli
quando Alberto bussò.
Gli disse di entrare e, quando lui si infilò sotto la doccia con lei, Anna provò un prepotente
desiderio di possederlo e, per la prima volta nella sua vita, tutto il suo corpo fu mosso da un
unico istinto: quello della procreazione. Generare la propria eternità – pensava ossessivamente
Anna – catturare l’infinita serie degli attimi, e, intanto, legava a sé con un inspiegabile ed
ancestrale vincolo quell’uomo appena entrato nella sua vita e ne condizionava i pensieri ed i
movimenti con il suo desiderio.
La libertà non esisteva – pensava confusamente Anna mentre secoli di istinti si
impadronivano di lei e di lui – ogni nostra azione è frutto di ataviche pulsioni ed ogni nostro
rapporto è coercizione implicita attraverso la forza del corpo, dei movimenti, degli odori che
dirigono la mente altrui, agendo al di sotto della razionalità umana su quella parte primordiale
di noi che è incontrollata e incontrollabile. Il potere, l’amore, l’odio, l’istinto, il sesso, la
guerra, l’avidità con cui ci impadroniamo senza remore di ciò che vogliamo sono inevitabili e
solo gli sciocchi possono tentare di resistere, solo gli sciocchi – come lei era stata – possono
farsi distruggere nel tentativo di creare una presunta Umanità monda dal peccato.
Smise di pensare mentre tutto il suo essere sentiva il momento dell’inseminazione ed ogni
cellula, fino a quel momento in tensione per il raggiungimento dell’obiettivo, si rilassava in
un piacere che era più grande di ogni altro piacere: la soddisfazione animalesca di un istinto
primario. Anna e Alberto sotto il getto dell’acqua bollente si erano uniti in modo indissolubile
al di là della ragione, in un territorio dove nessuno dei due poteva più entrare per spezzare il
legame. Anna sorrideva ancora con un sorriso che anche lei – potendosi osservare – avrebbe
definito satanico.
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi –pensò il mellifluo direttore del giornale mentre
leggeva l’insolito articolo di Claudia, arrivato il quel momento per posta elettronica – Anna se
n’era andata con il proprietario tagliandolo fuori da ogni possibilità di carriera e, dopo aver
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mirato al posto di Claudia, ora mirava al suo, ma adesso lui aveva un’arma in mano. Non era
mai stato molto intelligente il direttore, ma aveva quella salutare furbizia che gli aveva
permesso di sopravvivere in mezzo ai lupi per tanto tempo e che gli aveva consentito di
arrivare dov’era.
L’articolo che aveva davanti era qualcosa di più del lavoro di una giornalista e, sistemato in
una cornice corretta, sarebbe stato un eccellente richiamo per gli acquirenti. Non era
sicuramente nelle intenzioni di Claudia, ma, ad un primo livello di lettura, la lettera era
perfetta per soddisfare la propensione del pubblico per le storie sentimentali. La cosa positiva
della vita – pensò il direttore – è che anche la migliore delle manifestazioni umane può essere
usata dai più furbi per ottenere ciò che l’autore dell’azione non avrebbe mai voluto.
Se Anna fosse stata lì lui avrebbe dovuto scegliere di cestinare l’articolo per il tacito patto fra
loro due, ma Anna aveva tradito la sua fiducia e adesso Claudia lo stava inconsapevolmente
salvando: sarebbe andato via da giornale con un curriculum degno di rispetto perché – la sua
esperienza glielo diceva – la tiratura si sarebbe triplicata in quei giorni. Il diavolo fa le pentole
ma non i coperchi, ripeté fra sé e sé con lo stesso sorriso di Anna.
Giacomo si aggirava da solo per la stanza, Marta era uscita a comprare qualcosa da mangiare
e lui continuava a cercare tracce di lei in ogni oggetto, in ogni libro, persino in ogni insolito
accoppiamento di colori. Non sentiva più alcun peso gravargli sul corpo e sulla mente, non
avvertiva più il rumore prodotto dalla madre che rovistava dentro di lui. Sentiva che la catena
era stata spezzata e, adesso, la paura che tutto ritornasse come prima gli opprimeva l’anima. È
possibile che il prezzo della libertà debba essere l’angoscia della responsabilità? – si chiese
Giacomo – È vero che “la morte si sconta vivendo”? La sua scelta di rinunciare all’illusione
dell’eternità, di morire per vivere l’istante attuale, doveva necessariamente avere quel prezzo?
Avvertiva distintamente che le colpe individuali, prima distribuite sull’intera catena di cui
faceva parte, cadevano esclusivamente sulle sue spalle ed iniziava a provare vergogna per
ogni assenso che aveva dato e per ogni dissenso che non aveva espresso.
Marta era dolce e delicata e amava la vita nei limiti che questa le poneva dinnanzi; Marta non
meritava – e forse nessuno davvero lo meritava – di porre la propria vita sotto il controllo di
un altro essere. Giacomo percepiva il proprio cambiamento, ma quanto sarebbe durato?
Claudia sedeva al bancone del bar da più di un’ora ormai. Un pianista suonava senza troppa
convinzione un jazz privo di energia; il cameriere sembrava sonnecchiare in piedi e reggeva
tutto il suo peso su un gomito appoggiato allo spigolo della cassa, assumendo un’improbabile
angolazione con il pavimento; una donna, con evidente intenzione di vendere il proprio corpo
al più presto, sedeva su uno sgabello come il suo facendo estrema attenzione a che la gonna
non si spostasse a coprire la giarrettiera rossa che le segnava la coscia. Tutto intorno un
arredamento originariamente anni ’60, successivamente alleggerito con scarsi risultati,
attirava il suo sguardo su un tappeto optical la cui spirale sembrava risucchiarla al centro della
terra.
Claudia andava e veniva dentro quell’avvolgimento movendo impercettibilmente la testa e
ritornando all’inizio con uno scatto: sembrava leggere un misterioso contenuto in quel
ghirigoro, come una puntina di un vecchio impianto stereo sul vinile nero di un LP.
Prima di uscire aveva inviato il suo singolare articolo al direttore, anticipando l’inevitabile
pentimento di chi sta per compiere un’azione rischiosa e non riesce a cogliere il momento in
cui la spinta interiore ha una forza propulsiva superiore ai dubbi. Non riusciva a prevedere
quanto la sua scelta di vita potesse influenzare le sue azioni e temeva di essere richiamata e di
dover tornare alla sua esistenza prima di aver chiuso il cerchio della propria identità.
Lo sgabello della vistosa donna accanto a lei si spostò rumorosamente e Claudia trasalì
mentre la vedeva allontanarsi barcollante sui tacchi a braccetto di un corpulento e bassino
signore di mezza età. Si ricordò di non aver mangiato, ordinò un toast ed una birra, ingoiò
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rapidamente tutto quello che le avevano servito e salì in camera con il desiderio di scrivere
ancora per suo figlio, solo per lui.
Appena entrata nella stanza, una crisi di pianto la scosse violentemente e, fra i singhiozzi,
comprese che l’apparente calma con cui aveva affrontato gli ultimi eventi celava una paura
folle, intimamente connessa alla consapevolezza dell’ignoto che stendeva un velo sulla sua
vita.
Accese nuovamente il computer e riprese a scrivere.
Piccolo figlio o figlia mia,
questa lettera è solo per te. Ci sono cose che saranno solo fra di noi perché investono
sentimenti e ricordi che devono essere protetti da chi interpreta le parole altrui attraverso
il filtro della propria aridità e pochezza.
Ti voglio parlare di tuo padre perché tu non lo conoscerai mai e, mentre ti parlerò di lui,
tu scoprirai anche qualcosa di me. Forse tu già avverti indistintamente tutti i miei pensieri
e, forse, questi resteranno dentro di te per tutta la vita come base inconscia per ogni tua
azione. Non mi addentro nei meandri di queste ipotesi sulle percezioni del feto – anche se
ci credo istintivamente da quando tu, dentro di me, prepari il tuo corpo alla vita – ma,
comunque, desidero che tu conosca tuo padre attraverso il racconto di una persona che
l’ha amato e non attraverso quello della storia.
Non so come sarai tu, ma – non ti offendere se non sarai come ora ti scrivo – io ti
immagino donna e sul tuo viso vedo gli occhi meravigliosamente profondi di tuo padre,
occhi che ho visto spegnersi a pochi metri da me ed in cui, in quell’attimo fatale, non sono
riuscita a ritrovarmi.
Non so davvero perché ti immagino così, forse perché ho sempre avuto un rispetto
maggiore per le donne che per gli uomini, forse perché credo che avrai bisogno di molta
forza per costruire la tua esistenza in funzione di quello che sento sarà il tuo destino. Gli
uomini sono più forti solo in apparenza perché la loro è una forza in movimento: possono
sollevare pesi maggiori dei nostri in un attimo, ma non riescono a sopportare il carico
pesante e perpetuo dei fardelli che, volontariamente, noi donne portiamo sulla testa con il
capo alto e l’andatura diritta contro il destino – emule delle nostre antenate siciliane con
la “truscia” – per chilometri e chilometri. La forza dell’uomo è la guerra, l’azione chiara
e veloce all’assalto della preda, quella della donna è la costruzione lenta e stabile della
propria esistenza e di quella altrui.
Ai tempi della caccia alle streghe, i rappresentanti del nostro clero sostenevano che la
donna è preda inconsapevole del demonio perché debole, io – figlio mio – ho sempre
ritenuto che solo l’uomo, con la sua incapacità di ben tollerare il dolore, possa essere
capace di dividere nettamente il mondo in bene e in male e che lo faccia perché traccia
una linea netta, come per un riflesso condizionato, fra ciò che gli fa male e ciò che gli fa
bene. La donna, se mai si indirizza verso il male, è perché lo sceglie, consapevole di tutte
le conseguenze.
Sono generalizzazioni pericolose, come ogni generalizzazione e ti prego di non usare mai
questi pensieri per dividere anche tu il mondo in buoni e cattivi come sulla lavagna a
scuola: non si giudica per il sesso come non si condanna per la razza o per la religione o
per ogni altra cosa che ci è stata data alla nascita e di cui non siamo direttamente
responsabili. In ogni uomo c’è una donna ed in ogni donna c’è un uomo e sta a noi fare
emergere la parte nascosta per acquisire completezza: se devi giudicare, allora fallo
esclusivamente in base a questo criterio, alla valutazione dello sforzo che l’uomo o la
donna che hai davanti hanno compiuto per avvicinarsi all’altra faccia dell’umanità.
Io, comunque, preferisco immaginarti donna perché ti sarà più facile acquisire le qualità
degli uomini senza incorrere nell’ostracismo da parte della nostra società. Dalle donne si
pretende ogni cosa, anche che sostituiscano gli uomini quando questi cedono, ma che lo
facciano senza dare troppo disturbo, senza sconvolgere gli equilibri precari di altri
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uomini: altrimenti questi si sentirebbero minacciati e, sulla loro lavagna, sposterebbero il
nome della malcapitata dalla parte dei cattivi.
Da un uomo, invece, la società pretende una perfetta coerenza con se stesso, un’identità
definita e forte che non ceda alla tentazione del dubbio. Il dubbio sembra distruggere gli
uomini e, invece, è il pane quotidiano di ogni donna.
Il mondo sta lentamente cambiando ed io mi auguro che, quando tu sarai grande, le cose
saranno più semplici per entrambi i sessi. Tuttavia sono abbastanza pessimista. Io credo
nell’entropia, credo che un sistema tenda sempre a mantenere il suo equilibrio e che così –
come per tutte le azioni umane che abbiamo visto e che, in nome della civiltà, hanno
distrutto secoli di duro cammino verso il rispetto dell’Uomo – fra qualche giorno o fra
qualche secolo (sempre un istante per l’eternità), un colpo di mano di chi si sente
minacciato distruggerà con un atto di forza bruta ciò che la ragione e il sentimento hanno
creato.
Ma torniamo a tuo padre, ai suoi occhi, al suo peculiare modo di essere uomo. Nemmeno
lui sfuggiva alla regola, ma in un modo del tutto diverso: lui aborriva la forza. Non era un
predatore, non ingaggiava lotte né per attacco né per difesa e non aveva ancora maturato
la più femminile e dirompente forza della resistenza passiva; lui era una splendida
gazzella e sfuggiva al male correndo, volando il più lontano possibile con il corpo e con il
cuore. Si immergeva nella sua arte – nella fotografia – e incamerava l’anima di uomini e
cose fino a spegnere la fiamma del male. Non era ancora arrivato al punto di elaborare
ciò che aveva catturato per acquisire la solidità e la duttilità dell’oro, ma io sono certa
che ci sarebbe riuscito se il tempo non fosse cessato per lui.
Abbiamo troppo a lungo camminato per i boschi di questa nazione sventrata e squartata
perché io non sappia quanto di meraviglioso sprigionasse la sua anima nei momenti in cui
si sentiva in pace con l’universo. Abbiamo visto troppi corpi riversi in mezzo a bellissime e
rigogliose vegetazioni e a zampillanti e riottosi corsi d’acqua. Abbiamo visto la mano di
Dio – di qualunque Dio stiamo parlando non importa – e la mano dell’Uomo mescolarsi
sulla stessa strada in uno stridente contrasto e abbiamo continuato a camminare
gravandoci di nuovi pesi, perché la vita continua, perché “the show must go on”.
Un giorno stenderai davanti a te su una scrivania o su un pavimento le foto di tuo padre e
le mie: osservale attentamente, penetra dentro le immagini perché in ognuna di quelle c’è
la nostra anima, c’è un pezzo che si aggiungeva ai nostri pezzi e formava ogni volta un
uomo ed una donna nuovi.
Siamo cambiati, figlio mio, negli anni e nei giorni, ci siamo trasformati assieme e da soli;
per qualche tempo i nostri corpi e le nostre anime sono stati fusi in un’unica struggente
felicità. Nel riflesso degli occhi ognuno aveva solo l’altro e nell’altro trovava la sua parte
mancante e provava a ricrearla dentro di sé. Poi un giorno tuo padre è fuggito con la sua
elegante corsa di gazzella ed io non l’ho inseguito. Non so spiegarti perché. Mi sono detta
che, forse, noi donne siamo talmente abituate alla necessità dei pesi che non riusciamo a
vedere quando è il momento di sganciarli per rincorrere la felicità o che, forse, sappiamo
per esperienza che la corsa di chi fugge inseguito dalle proprie paure non si può
eguagliare. Ti auguro comunque, uomo o donna che tu sia, di provare anche per un solo
attimo la percezione della pienezza, della perfezione che hanno provato i tuoi genitori in
un mondo in subbuglio, in uno spazio ed in un tempo feroci.
Sono stanca adesso. Qualcuno ha scritto, forse io stessa in altri tempi ed in altri luoghi:
“Nella mia vita spenta
La memoria di luce
È una lurida beffa.”
Proverai, a volte, la mia stessa stanchezza, ma non perdere mai la memoria: noi siamo
anche le beffe che il destino si fa di noi. Perché ci sia un futuro, amore mio, deve esserci
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un passato e per questo io ti scrivo, per darti un passato da cui incominciare.
A presto
Tua madre
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CAPITOLO VIII
Anna era seduta sotto un magnifico ulivo al centro di un grande piazzale, indossava un
comodo completo in cachemire che aveva scelto insieme ad Alberto in una viuzza del centro
di Firenze la mattina precedente e sorseggiava un succo d’arancia. La tavola era apparecchiata
come per un ricevimento e il cameriere in livrea sembrava uscito da un romanzo di Liala.
Alberto era in casa a fare qualche telefonata e sarebbe arrivato di lì a poco; su un vassoio
d’argento troneggiavano sei o sette quotidiani che lei non aveva nessun desiderio di leggere.
Si sentiva trasportata all’interno di una favola e non voleva spezzare l’incantesimo compiendo
un’azione che era un contatto con la realtà. Dopo qualche minuto il pensiero di Claudia
cominciò ad assillarla e, con apparente noncuranza, rovistò alla ricerca della sua testata. In
prima pagina non c’era nulla e la tensione calò, diresse la sua attenzione verso i croissant che
avevano un magnifico aspetto, ma non riuscì a cancellare dalla mente la spiacevole
sensazione di una brutta sorpresa. Afferrò il giornale, lo sfogliò con trepidazione ed eccolo lì,
in uno spazio appositamente costruito, con il titolo Figli della guerra, seguito da; Dalla
nostra migliore giornalista ecco le parole che hanno commosso migliaia di cuori: scrive al
figlio per tornare a vivere dopo che la guerra le ha strappato l’amore.
Anna fu colta da un incontrollabile accesso d’ira e imprecò contro lo spregevole direttore che
aveva evidentemente voluto agire contro di lei. I suoi accordi con lui erano stati altrettanto
chiari quanto impliciti, ma quel viscido uomo, che lei aveva reputato di nessuna intelligenza,
doveva aver compreso la sua strategia per occupare il suo posto.
Vide Alberto avvicinarsi mollemente lungo il vialetto e cercò di ricomporre la dura e
malvagia espressione nel sorriso dolce e pacato che indossava da due giorni. Quando fu
arrivato accanto a lei lo baciò teneramente e gli versò con grazia un bicchiere di succo
d’arancia. Il giornale era aperto ancora sulla lettera di Claudia e Alberto le disse
distrattamente, ignaro dei retroscena, che riteneva interessantissima la novità. Anna cambiò
immediatamente strategia: conosceva molto bene l’universo maschile e sapeva che tentare di
ostacolare la pubblicazione delle altre lettere avrebbe solo infastidito Alberto e insinuato nel
suo cervello dei dubbi su di lei. Sorrise ancora più dolcemente forzandosi a rilassare
completamente i muscoli del viso, modulò interiormente la voce e, con un effetto di innocente
e modesta soddisfazione disse ad Alberto che lei e Claudia avevano lavorato per anni assieme
e che avevano studiato con cura l’idea del viaggio-pellegrinaggio in nome del nascituro. Poi si
interruppe, contenere la rabbia le era quasi impossibile continuando a pensare a Claudia, con
delicatezza modificò ancora il tono della voce, piegò il giornale riservandosi di raccogliere in
altro momento ciò che aveva seminato e gli disse con dolcezza che non era mai stata così
felice.
Alberto sorrise. La stava studiando attentamente da due giorni ed era convinto che lei non
potesse accorgersi dei suoi sguardi indagatori. Con la soddisfazione di un animale in gabbia
che osserva il suo carceriere con la convinzione che sia lui a trovarsi dietro le sbarre, riteneva
di aver catturato una donna dalle qualità straordinarie che continuava a superare con
naturalezza tutti i test a cui lui la sottoponeva. Era divorziato ed aveva due figlie ormai grandi,
si era sposato giovane e ancora povero. Aveva lottato a lungo per costruire la sua ricchezza; la
sua determinazione, unita ad una serie di fortunate circostanze, gli aveva permesso di crearsi
un impero ed un’immagine corrispondente ai suoi desideri da ragazzo. Raggiunto il successo
aveva abbandonato la famiglia che lo aveva sorretto fino a quel momento perché negli occhi
di sua moglie e dei suoi figli vedeva riflessa non la sua realtà attuale, ma ciò che era stato e
che ora voleva dimenticare. Anna, fra tutte le donne che da allora aveva conosciuto, era quella
che più lo aveva guardato come lui desiderava. La sua dolcezza, la sua capacità di modellarsi
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e muoversi ai suoi ritmi, la rapidità con cui il suo corpo sembrava modificarsi in relazione ai
cambiamenti in lui, soddisfacevano pienamente la sua vanità e rafforzavano la convinzione
che il mondo fosse stato creato per lui e che tutto si muovesse per portare il suo nome e la sua
persona verso traguardi sempre più alti.
Il giorno precedente, in quella doccia, aveva sentito prepotente un istinto di “duplicazione”:
aveva già due figli e non credeva, fino a quel momento, di volerne altri, ma, vicino a quel
corpo che lo attirava a sé con la forza di milioni di anni di evoluzione naturale, aveva sentito
la necessità che il nuovo se stesso creasse la propria estensione nel tempo.
Ed aveva in un attimo scelto, a suo parere anche per Anna che, incredibilmente, sembrava
modellarsi su di lui anche in questo, che lei era la donna che avrebbe cancellato per sempre i
residui del suo passato e che lo avrebbe accompagnato nel suo futuro. Aveva deciso di
affidare a lei il suo seme perché lei avrebbe messo al mondo il figlio che lui adesso sapeva di
volere assolutamente e lo avrebbe condotto nella vita come lui desiderava.
La osservò ancora, mentre silenziosa sembrava rispettare il corso dei suoi pensieri, elegante,
bella di una bellezza discreta, intelligente e determinata in modo femminile. Pensò che gli
sarebbe stata di aiuto per raggiungere il traguardo successivo verso cui stava correndo da un
paio d’anni.
Anna, sotto un impassibile e delicato sorriso, ribolliva interiormente al pensiero della stupidità
che contraddistingueva il maschio della sua specie. Si chiedeva come potesse quell’uomo, che
pure aveva riscosso tanti successi in un mondo di uomini, non capire che lei sapeva, che lei
era perfettamente in grado di scegliere per sé, che era lei a condurre il gioco dal primo istante.
Conosceva quasi a memoria, ancor prima che gli affiorassero nella mente, i suoi pensieri, le
sue idee fondate su stupidi luoghi comuni: sapeva che stava valutando positivamente il suo
modo femminile di possedere qualità per lui maschili. Come potevano pensare gli uomini che
una donna potesse essere intelligente e poi non usare la propria intelligenza se non negli
ambiti a lei concessi? Come potevano non rendersi conto che il loro concetto di femminilità
era solo una dichiarazione di incapacità nel comprendere che ogni cosa ha le sue logiche ed
inevitabili conseguenze e che gli stereotipi sono solo patrimonio degli sciocchi?
Provava un forte disprezzo per un universo maschile di cui non riusciva a comprendere la
cecità di fronte alla vita. Suo padre, povero contadino, le avrebbe detto, con il suo linguaggio
realistico, che stava sputando nel piatto in cui mangiava: se Alberto non fosse rientrato nello
standard del suo sesso, infatti, lei non avrebbe potuto condurlo fino a quel punto e così
facilmente. Doveva scacciare dalla mente quel sottile e sotterraneo desiderio di avere un
uomo diverso, per riuscire ad amare lui quel tanto che bastava a poterlo soddisfare
completamente. Il riscatto sarebbe stato suo figlio: lui sarebbe stato un uomo nuovo, avrebbe
avuto il potere, la determinazione, la consapevolezza e l’astuzia. Lui avrebbe dominato su
tutte le cose che Anna aveva dovuto sopportare per vincere.
Sapeva con certezza, quando ancora non avrebbe nemmeno dovuto sapere che esisteva, che
suo figlio sarebbe stato un maschio, così come sapeva molte altre cose che sarebbero dovute
accadere. Si era detta spesso, da quando aveva scelto la strada del male, che a questa era
associato il dono della preveggenza: era come se il distendersi lungo la linea temporale al di là
della propria esistenza desse la stessa capacità anche alla facoltà di visione della mente.
Conoscere il futuro, del resto, doveva essere necessariamente connesso al male perché
impediva di vivere le cose nel tempo in cui si attuavano, sia perché si erano già vissute nella
preveggenza, sia perché altri avvenimenti futuri si affollavano a coprire quelli presenti.
A volte si sorprendeva a rimpiangere la donna che era stata e l’ingenuità con cui aveva
affrontato ogni cosa vivendola con ansia, dolore, amore. A volte non riusciva a riconoscersi
nell’immagine che lo specchio le rimandava e si chiedeva, anche se per pochi secondi, quale
sarebbe stato il suo destino senza l’irruzione di Claudia nella sua vita ed in quella di Maurizio.
Ma non esisteva mai pentimento in lei, né indecisione, né desiderio di ritornare quella che era:
aveva mangiato la mela della conoscenza, la mela del peccato e non possedeva più occhi
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innocenti con cui guardare la vita. Dietro ogni volto leggeva le bassezze, le immoralità, le
cattiverie che avevano costellato il cammino della persona che le stava di fronte; dietro ogni
sorriso leggeva il reale pensiero delle menti sempre pronte alla prevaricazione,
all’ottenimento delle proprie soddisfazioni corporali. No, non sarebbe più riuscita a tornare
indietro e a credere nella forza del bene: il bene non ha una forza, la stessa parola forza è già
patrimonio del male.
Sedeva silenziosa di fronte a quell’uomo che le professava amore senza avere alcun rispetto
per lei, che la studiava e la metteva alla prova come una cavia in un esperimento e rideva
dell’illusione di lui di averla sotto controllo, della la sua stolta idea che il suo silenzio fosse un
pregio, quando era il sintomo assoluto del disprezzo che lei provava. Rideva, sotto
quell’albero d’ulivo, simbolo della pace, per quanto fosse facile manovrare le persone e
prendersi gioco di loro. Senza rimorsi, senza cedimenti, perché se non sei carnefice sei vittima
e lei non voleva più esserlo.
Alberto continuava ad osservarla contento di sé e della fortuna che ancora una volta gli era
venuta incontro. Si alzò di scatto, le diede un bacio e le disse che più tardi sarebbero andati
fuori a pranzo e che lui aveva bisogno di un paio d’ore per alcune questioni urgenti. Anna
rispose con affetto al bacio e gli disse che avrebbe letto volentieri qualcosa in quella
magnifica pace e che lo avrebbe aspettato lì.
Rimasta sola afferrò nuovamente il giornale lasciando che i muscoli tornassero a contrarsi in
una smorfia di rabbia. Lesse e rilesse l’introduzione alla lettera e, poi, la lettera stessa fino a
comprendere che Claudia non era uscita vincente in quella pubblicazione, che era stata anche
lei vittima di quello stupido uomo sottovalutato da entrambe. Rilesse un’ultima volta e, dopo
aver chiuso il giornale, chiese al cameriere di procurarle carta e penna.
Inconsciamente Claudia stava mettendo al mondo ed educando sin dalla gestazione un essere
che poteva ostacolare i suoi piani. Erano pochi nella storia recente gli uomini che avevano
mostrato la strada del bene senza passare dalla pretesa di santità e tutti erano morti di morte
violenta, schiacciati dal male che combattevano attraverso la scelta di non usare i suoi stessi
mezzi.
Ma Claudia avrebbe generato una donna e non sarebbe stata una visionaria come Giovanna
D’Arco, non sarebbe morta sul rogo, ma al bivio a cui l’umanità sarebbe arrivata fra qualche
anno, avrebbe potuto condurre molte persone sulla strada del bene.
Anna doveva preparare suo figlio come stava facendo Claudia: lui si doveva nutrire della sua
visione della realtà per poter combattere con armi affilate pronte a uccidere, a non lasciare
superstiti sul campo. La mano iniziò a scorrere sul foglio impugnando la penna come un
pugnale:
Figlio mio,
oggi è il tuo secondo giorno sulla terra e già, attraverso me, hai sentito le parole che
faranno da sfondo a tutte le tue azioni, pronunciate da uomini e donne che non hanno il
coraggio di agire, di assumere il proprio ruolo in seno alla razza umana e che, per non
sentirsi in colpa, cercheranno di fermarti, instillando una visione distorta delle cose dentro
di te e dentro altri esseri deboli.
Tu sei destinato ad essere forte, il tuo ruolo sarà quello del capo-branco, il tuo compito
quello di condurre verso il futuro coloro che, altrimenti, sarebbero già morti prima ancora
di aver iniziato la loro vita. Non lasciarti colpevolizzare da chi ti vorrebbe dimostrare che
l’anarchia è preferibile all’ordine, in nome di un non meglio precisato concetto del bene.
In nessun attimo della storia l’anarchia è stata positiva per l’umanità. Nessun uomo è mai
stato capace, nell’uso della propria libertà, di non sconfinare in quella altrui, di non
esercitare in qualche modo un’attività coercitiva nei confronti di un altro. Porteranno
davanti a te, agitandolo come una bandiera, il loro concetto di amore per convincerti a
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lasciarli liberi di autodeterminarsi – parola già stupida nella sua costruzione, come se
fosse possibile gestire il proprio corpo in un mondo in cui persino la pressione atmosferica
può influenzare il tuo destino – ma non ascoltarli: opponi alla loro visione la certezza che
una madre, simbolo sicuramente dell’amore, lascia i figli liberi solo in relazione alla loro
reale capacità di agire.
Così è per la razza umana e così è per ogni altra specie animale e non cedere alla vera
superbia che è quella di ritenere che il destino dell’Uomo sia diverso da quello di ogni
altro abitante di questa terra. Questa convinzione, vessillo di tutti coloro che si ritengono
portatori del bene, è la vera forma di alienazione dell’Uomo, è la vera pretesa di essere
Dio. Siamo fatti di cellule uguali a quelle di ogni altro essere vivente ed anche i tanto
esaltati neuroni non sono altro che agglomerati di composti chimici. Abbiamo il dono
della parola così come gli uccelli hanno ossa cave e leggere che consentono loro il volo,
abbiamo la capacità di riflettere, conoscere, tramandare le nostre conoscenze così come i
pipistrelli hanno un radar per volare nel buio. Gli organi peculiari della razza umana
servono per la conoscenza e per estendere i risultati della propria mente al futuro tramite
le proprie azioni e coercizioni, tramite la forma, l’impronta che lasciamo nella mente di un
altro che continuerà a vivere dopo di noi. Nessuno è esente da questa forma di tensione
verso l’eternità e il nome “male” che le viene dato non ha alcuna ragione di essere
utilizzato con accezione negativa. Nella nostra “civiltà” occidentale il male è stato sempre
visto come negazione del bene, come il nulla, come inazione, annientamento della forza del
bene. Studia figlio mio, ma fallo solo per comprendere ciò che verrà usato contro di te
quando tu porterai avanti quella che è la vita per cui sei destinato; non cedere alla forza
persuasiva che le parole hanno in maniera inversamente proporzionale alla quantità di
verità contenuta in esse. Non cadere nella trappola di chi ti dice che non esiste una verità
assoluta e che ogni verità ha la sua ragione tranne, guarda caso, la tua. Credo che
Heidegger – e doveva essere lui viste le sue scelte nella vita – dicesse che l’Essere è ogni
cosa e che nel tempo si realizzerà, di volta in volta, in ogni manifestazione possibile. Non
esiste, quindi, una forma di esistenza che sia negazione del bene, nulla: tutto è
insindacabile e volontaria scelta dell’Essere e, quindi, rispettabile come ogni altra
elezione.
A quelli che vorrebbero giudicare negative e, quindi, maligne le tue azioni, opponiti fermo
e intransigente: nessuna azione, in quanto tale, anche da un punto di vista linguistico, può
essere negazione. Chi si addossa la responsabilità di guidare gli altri verso ciò che ritiene
più giusto opera per un fine, afferma se stesso ed una delle facce della verità. La
negazione è proprio in chi, invece, si nasconde dietro le infinite verità e il rispetto della
libertà altrui per non dover pensare, per non dover pagare in caso di errore.
Qualcuno verrà da te, stordito da difficili discussioni filosofiche, a dirti che dobbiamo
osservare la natura per comprendere ciò che è bene e ciò che è male. Guardati da questa
che è la peggior specie: incapaci anche di elaborare pensieri logicamente compiuti,
pretenderebbero di avere la facoltà di scelta quando non riescono nemmeno a proporti un
modello senza contraddirsi. Oscilleranno fra il “bisogna seguire la natura” e il “l’Uomo è
superiore agli animali e deve agire in modo diverso”; in ogni caso i loro esempi saranno
con molta probabilità luoghi comuni che, proprio per la loro facilità di comprensione,
faranno molta presa sulla moltitudine di uomini che ti servirà per completare il tuo
destino. Inizieranno, pieni di tracotanza per la loro approfondita indagine etologica, in
una esaltazione naturalistica, dicendoti che la razza umana è l’unica in cui gli esemplari
della specie si rivoltano contro i propri simili. E le lotte di ogni specie per la conquista del
territorio e della femmina? Glisseranno su questa tua domanda e ti diranno che l’Uomo ha
in dono la ragione e deve utilizzare quella per la lotta, mentre passano senza battere
ciglio, dalla convinzione della natura benigna ad un pessimismo cosmico. Ma perché mai
l’Uomo non dovrebbe usare tutti i mezzi a sua disposizione, ma solo quelli che loro
ritengono idonei? Se qualcuno, prendendoli in parola, pretendesse da loro di portare alla
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bocca il cibo con la forza del pensiero e non usando mani e braccia, sopravvivrebbero?
Confusi balbetteranno che, contro natura, l’Uomo uccide anche per motivi che non siano
la fame o la conquista del territorio: per cancellare il diverso da sé o anche solo per il
gusto di uccidere. E le madri di ogni specie che uccidono i figli appena nati perché sono
diversi? E le femmine che uccidono gli aspiranti inseminatori perché i loro movimenti
nell’accoppiamento non sono quelli istintivamente corretti? E le tigri che assalgono per il
puro gusto di uccidere? E la mantide religiosa che uccide il compagno dopo
l’accoppiamento solo per il piacere provocato dal movimento convulso del corpo
morente?
No, figlio mio, i concetti di bene e male sono creati dagli uomini; il peccato non è altro che
il dubbio che ti assale quando vedi le cose positive dell’altra faccia della medaglia e ti
fermi perdendo ogni cosa. Il peccato è cogliere la mela della conoscenza e dare solo il
primo morso pensando di non essere notato; il peccato è ogni forma di incertezza che
impedisce al mondo, inevitabilmente influenzato dalle nostre azioni, di proseguire nel suo
cammino, qualunque esso sia.
La realtà delle cose è che il mondo corre da millenni verso un bivio che è quello fra due
modi di intendere la vita umana che, solo arbitrariamente e per convenzione, continuerò a
chiamare “bene” e “male”. Fino ad oggi nessun essere esistente aveva racchiuso in sé le
capacità dei due sessi e la determinazione nel proseguire sulla propria strada; tu avrai
questa determinazione e comprenderai istintivamente e razionalmente ogni cosa, ma
dovrai prepararti ad una dura lotta quando arriverai al bivio: un’altra persona, una
donna con le tue stesse capacità lotterà per il bene con mezzi diversi dai tuoi, senza cadere
mai in contraddizione, senza fermarsi.
Da te o da lei, a seconda del modo in cui tutta l’umanità reagirà, seguendo o scegliendo,
nascerà un mondo nuovo: sarà la fine di un percorso e l’eternità per quanti hanno creduto
nel vincitore.
Io sono qui, figlio mio, sarò con te lungo il tuo cammino passo per passo, allenatrice per il
tuo incontro, solido appoggio per i tuoi mancamenti; questo sarà un vantaggio per te
perché correrai più veloce, ma, d’altra parte, forse, non saprai mai valutare correttamente
le tue forze. Anche la mia è una scelta e me ne assumo le responsabilità.
È inutile dirti che ti amo, credo che tu senta la ferocia dell’attaccamento che già provo per
te; noi cammineremo insieme finché il mio tempo sarà scaduto e, dopo, continueremo ad
essere uniti perché io vivrò dentro di te.
Anna levò gli occhi dal foglio con un’espressione spaventosamente ferina, vide avvicinarsi
Alberto, piegò il foglio velocemente e lo infilò nella borsa, ricompose il viso nella maschera
abituale e si preparò al prossimo passo.
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CAPITOLO IX
Ciao piccola mia,
adesso so che sei una bambina e che le tue manine delicate stanno crescendo bene dentro
di me.
Siamo in un ospedale di questa città che sembra essere ogni volta un punto di snodo del
mio destino. È già pomeriggio inoltrato e la giornata è trascorsa fra analisi, ecografie,
visite e facce compunte di medici che aggiungono alla normale incomunicabilità legata
alla professione anche quella linguistica.
Ci siamo compresi in un bilaterale stentato inglese e di quello che è venuto fuori dovremo
parlare a lungo.
Stanotte, dopo aver finito di parlare con te, mi sono addormentata come in una delle solite
notti della mia vita, senza sapere che al risveglio, nel cuore della notte, avrei visto il volto
di una delle Parche scrutarmi, quasi a voler conoscere la vita legata al filo che a breve
dovrà tagliare. Un’ambulanza è venuta a prenderci con inutili sirene spiegate e, allo
stesso modo, ci ha portato qui.
La stridula e infastidita voce di dottori e infermiere disturbati nel sonno ha funestato il
nostro pacifico arrivo e ha gettato le fondamenta per la ferale notizia che ci è stata
comunicata da pochi minuti.
Sarai una donna speciale, ma pur sempre una donna e comprenderai cosa si prova ad
abdicare al proprio sognato ruolo di madre per assumere quello di un’incubatrice mal
funzionante che si spegnerà appena assolto il suo compito. Non preoccuparti piccola, non
c’è un bivio davanti a cui scegliere con dolore una delle vie, non ci sono dubbi nella mia
mente, tu nascerai perché, a prescindere dalla mia certezza immotivata che la tua vita sarà
importante per il mondo, tu sei, al contrario di me, una vita nuova, monda dal peccato,
con tutte le strade davanti ed intatto il desiderio di percorrerle.
Non ti conoscerò mai, non vedrò il tuo viso ed i tuoi occhi, non sarò mai con te durante le
tue gioie o i tuoi dolori, ma lo saranno le parole che ti lascio, questi vuoti segni che solo
l’amore riesce a riempire di vita.
Vita per vita, è questo il prezzo per aver tentato di aggirare il destino. Mi chiedo, in questa
umana e ridotta visione delle forze che muovono l’universo, quale sia la verità: ho sfidato
il destino sette anni fa percorrendo una strada che mi avrebbe portato in quest’ospedale o
il destino aveva già in serbo questo per me? La prima soluzione mi rende libera al prezzo
della vita, la seconda mi rende strumento della storia e rassegnata ad una
predeterminazione che non ho mai accettato. Mi chiedo anche che senso abbia porsi
questa domanda quando oggi, in ogni caso, ogni strada è preclusa dall’impossibilità della
mia anima di accettare altra scelta che non sia la tua vita. Forse mi piacerebbe pensare di
essere una grande donna nel donare la mia esistenza in cambio della tua, piuttosto che
lasciare al destino anche questa soddisfazione, ma, infine, non credo che tu voglia queste
conferme del mio amore, né di averne bisogno io.
Cinque mesi di tempo non mi consentono di perdermi in queste elucubrazioni: ci sono
troppe cose con cui riempirli, troppe incombenze che esulano dal mio ruolo di incubatrice,
ma che ritengo di avere il dovere di compiere in nome della madre che sarei stata.
Cominciamo dal tuo nome, piccola. Il nome è importante, nel tuo nome troverai
l’immagine che ho di te, di come sarai, il tuo nome ti presenterà al tuo prossimo e farà sì
che ti abbia in simpatia al primo impatto, il tuo nome striderà con il tuo aspetto o sarà
perfettamente modellato su di esso, sarà storpiato o pronunciato con dolcezza, lo sentirai,
a volte, nella notte, sussurrato distintamente da voci sconosciute per cui ti sveglierai di
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soprassalto.
Ho pensato a lungo in questo lettino di un grigio ospedale, ho pensato guardando fuori un
cielo pomeridiano che si avvia alla sera, ho pensato cercando dentro di me colori, suoni,
immagini, ho pensato ed un solo nome affiora dai reconditi meandri della mia psiche:
Viola.
Sarai il colore del cielo quando la tempesta è appena passata ed il sole fa capolino dalle
nubi creando l’arcobaleno; sarai un fiore dai petali vellutati, delicato e imponente come il
pensiero; sarai le lettere di un verbo che indicherà il tuo destino: forzare le porte dei limiti
umani conosciuti ed attraversare le colonne d’Ercole della mente.
Eccoci qui: Claudia, una madre che, come prevedeva il suo nome, ha camminato
zoppicando nella vita fino a giungere a questo giorno in cui il suo destino si è disvelato e
Viola, una figlia non ancora nata e già capace di far giungere il suo pensiero al mio e
liberarlo da ogni turbamento e costrizione, renderlo libero di volare a cavallo
dell’arcobaleno.
Questo sarà il tuo destino, mia piccola Viola, tu non sceglierai al posto di chi ti seguirà, tu
non indicherai strade, non ucciderai per difesa, non lotterai contro chi ingaggerà con te la
battaglia più antica del mondo fra bene e male; tu libererai le menti di chi ti sta di fronte
perché sia in loro chiara la propria forza, il proprio destino.
Ho sempre letto che il cervello umano viene usato al dieci per cento delle sue possibilità e
che molte sono le cose che forse potremmo fare, ma che ci inibiamo con le nostre
sconsiderate scelte e con i nostri dubbi. Ho letto tanti storici e filosofi che hanno
dimostrato progressi, regressi e cicli nella storia dell’umanità, ma adesso è chiara per me
una cosa: l’unico elemento che in tutta la nostra evoluzione mantiene un costante
progresso è la potenza delle nostre capacità intellettive. Le connessioni neurali create da
chi ci ha preceduto si tramandano con un’ereditarietà che va al di là della naturale
trasmissione di DNA, attraverso la parola scritta, attraverso la ricostruzione del passato.
Ancora una volta il tempo sembra essere la chiave di tutto, ancora una volta nel tempo,
attraverso le generazioni, sembra che un qualcosa che unisce tutti gli uomini compia la
sua evoluzione, usando i corpi senza importanza e le menti singolarmente uniche e
necessarie di ogni uomo vissuto.
Credo che la nostra specie non uccida il diverso o il menomato alla nascita non per una
sovrapposizione della ragione all’istinto della selezione naturale, ma perché ogni singolo
neurone, unico e irriproducibile, ha la sua importanza nel cammino che stiamo compiendo
e di cui tu, forse, scoprirai il punto di arrivo che a me non è dato vedere.
Credo che l’uomo dovrebbe vivere in pace ed usare la ragione e non la forza, proprio
perché è questa Ragione Unica, che ci permea in modo diverso e che cresce come un
bambino nel corso dei secoli, ad essere la peculiarità ed al contempo il fine della razza
umana. Non ci sono, è vero, verità assolute che ti permettano di stabilire quale sia la
strada del bene o quella del male, l’unica cosa che potrai notare sulla terra è che ogni
specie, animale o vegetale, tende alla sua conservazione in ogni caso e tende al
miglioramento delle sue qualità precipue.
Se è vero tutto ciò, allora è vero che ciò che privilegia la crescita delle nostre capacità
mentali è il bene e ciò che ne provoca la stasi, il soffocamento, è il male.
Ti potranno rispondere, nel lungo e tormentato cammino che ti aspetta, che è proprio per
questo motivo che bisogna che solo i migliori sopravvivano e che quelle che volgarmente
chiamiamo pecore soccombano, per creare una hitleriana razza migliore: di’ loro che la
ragione si nutre dell’apporto di ogni essere, dei miliardi di verità che si scontrano nella
vita quotidiana e che ognuno di noi, pecora o lupo che sia, ha un suo magnifico modo di
guardare l’acqua del mare che si increspa accarezzata dalla brezza della sera.
Scelto il nome, figlia mia, ho davanti a me un deserto per quello che riguarda le persone a
cui affidarti e non perché ritenga, come quasi ogni madre, che solo io ti potrei guidarti con
mano ferma verso la maturità. Penso che il destino, in qualsiasi forma, abbia deciso di
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levarmi a te per una ragione: forse avrei esercitato su di te la pressione del mio corpo,
abbandonando il proposito di farti crescere solo attraverso il dialogo, qualora tu avessi
dimostrato opinioni e intenzioni diverse dalle mie. Il mio carattere mi fa pensare che
sarebbe senz’altro stato così. È proprio da questa convinzione che nasce il mio problema:
non conosco nessuno al mondo che possa farti crescere senza portarti sulla sua strada e tu
hai bisogno di espandere con libertà le tue facoltà. Sarà, probabilmente, una dura ricerca
in questi mesi e ti chiedo di aiutarmi a comprendere quale sia la via da percorrere perché
il compito che il destino mi ha imposto è al di là delle mie possibilità.
Avevo pensato a Giacomo – tu non lo conosci, ma è stato e forse è il mio unico grande
amico – perché è sufficientemente debole per non crearti alcun problema, ma, allo stesso
tempo, possiede una ferrea determinazione nel perseguire i pochi obiettivi che si prefigge.
Purtroppo con lui c’è Anna che, come me, è una donna che ha cambiato strada con una
drastica scelta e che, quindi, deve forzarsi su una visione delle cose per non perdere la
direzione.
Non so, Viola, dovrò lasciare che il tempo scorra ancora per trovare una soluzione a
questo problema.
Dovrò anche insegnarti, in questo poco tempo che ci rimane, quello che so, quello che
sono riuscita a vedere della vita ed il mio modo di interpretarlo. Non è granché, io sono
appena al di sopra delle pecore di cui parlavamo, ma sono stata testimone di intere pagine
di storia ed ho conosciuto uomini e donne che hanno scritto i capitoli più importanti del
nostro destino. Da loro ho appreso la fermezza, la determinazione, la volontà di cercare e
sperare ancora quando tutto crollava. A volte, anche oggi, mi chiedo se sia stupido
credere ancora in un’Umanità che sembra priva di volto, ma, nel loro ricordo, mi impongo
di pensare che se io riesco ad immaginare un’Umanità diversa, allora questa deve avere
la possibilità di esistere.
Sì, Viola, so che è un passaggio dal piano logico al piano ontologico, ma io non trovo altri
mezzi per sopravvivere fino alla tua nascita: sono consapevole dell’illusione, ma ne
accetto i limiti per raggiungere l’unico obiettivo che mi è rimasto, la tua vita.
Sai, piccola, mi ha sempre affascinato questa dimostrazione della impossibilità di provare
l’esistenza di Dio ed ho visto, dietro di questa, tutti i salti fra realtà e costruzione della
mente che hanno provocato i più grandi errori della storia, gli stermini e gli eccidi in
nome di una divinità o di un ideale, ma anche l’origine dei piccoli errori, delle piccole
battaglie che hanno distrutto i rapporti quotidiani fra i sessi, fra le generazioni, fra le
razze e che, uniti insieme sotto la cosciente o inconsapevole guida di un leader, hanno
portato l’umanità indietro di secoli in un solo attimo. Mi ha sempre incuriosito – come
spesso mi incuriosisce il modo in cui ogni cosa che mi appare evidente possa non essere
visibile a tutti gli altri – come l’Uomo non si renda conto di questo errore allo stesso
modo in cui vecchi, bambini ed animali confondono, al risveglio, il sogno con la realtà.
Forse anche a questo tu saprai dare una risposta, forse c’è una piccola zona nel nostro
cervello che ci permette di realizzare immediatamente le connessioni logiche ed occorre
qualcuno che la attivi, come tu attiverai altre zone di cui io non riesco nemmeno ad
immaginare l’esistenza.
Ho sempre sostenuto, sbagliando, che nessuno può comprendere ciò che non ha già
dentro, anche se solo in forma inespressa. Mi è capitato spesso di rileggere un libro e
notare cose che avevo giudicato ridondanti in una prima lettura e questo pensavo
avvalorasse la mia ipotesi. Adesso, forse perché i miei cambiamenti sono stati tanto rapidi
negli ultimi mesi da non poter pensare di avere acquisito tutte le cose che oggi comprendo
e che ieri non vedevo, penso che esista una gradualità nella comprensione, una serie di
scalini da salire uno per uno e tanto alti da non consentire di saltarne alcuno.
Questo, mia piccola Viola, mi ha portato, mio malgrado, a provare rispetto anche per gli
uomini-pecora: se ieri, infatti, pensavo che non potessero cambiare ed avere dentro ciò
che già non possedevano “in nuce”, oggi so che dentro di loro c’è tutto quello che
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posseggo io e che ciò che cambia solo il numero di scalini che hanno avuto la fortuna di
salire. Penso spesso ai miei passi nella vita e comprendo ora il ruolo di tutti quelli che mi
hanno dato il braccio per arrampicarmi sulla scala della mente e so, oggi, che qualsiasi
essere, a qualsiasi età può crescere e mutare purché sia solo aiutato a compiere i passi
difficili e non, per disprezzo o tracotanza di chi insegna, lasciato ad imparare a memoria
sul proprio gradino le lezioni preconfezionate che portano il marchio DOC della giustizia.
È questo, piccola mia, che mi aiuta ad avere fiducia in un’Umanità che tanti altri
disprezzano con le parole e con i fatti; è questo, figlia mia, che mi spinge a credere che il
solo modo di insegnare è mostrare il cammino che abbiamo percorso e sorreggere quelli
che vogliono imboccare la nostra strada senza spingere chi non è pronto. A nessuno di noi
è dato sapere quale sia il gradino a cui un altro è giunto, né se il nostro è più in basso o
più in alto, a nessuno di noi è dato il diritto di decidere perché nessuno conosce il punto di
arrivo e le infinite rotte per raggiungerlo.
Tu, forse, lo saprai e ti troverai, ancora più di tanti altri, di fronte al dilemma che spezza
l’Umanità in due: portare tutti con la forza verso quello che è il loro destino o sorreggerli
con dolcezza illuminandoli con frasi e gesti che solo chi è arrivato in cima può conoscere.
Ti auguro e mi auguro, piccola Viola, che la tua scelta sia saggia: se sceglierai la
coercizione per combattere e vincere al più presto la guerra contro il male, usando le sue
stesse armi, la razza umana sarà finita, solo tu sarai arrivata alla meta e gli altri
piomberanno nell’inferno dell’immobilità. Se, invece, vorrai inventare nuovi modi per
parlare all’Uomo, molti ti seguiranno per scelta ed il loro cammino sarà fermo e continuo
come il tuo.
Il futuro non è deciso: chi è dedito al male pensa di avere il dono della preveggenza, in
realtà vede solo una delle tante possibilità che si creano lungo l’asse degli istanti che si
formano uno dietro l’altro.
Non sentirti mai sconfitta in partenza, anche le Parche accettano di scambiare le matasse
se vedono l’amore e il bene in chi lo chiede.
A dopo piccola mia, adesso sono stanca.
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CAPITOLO X
Claudia viaggiava a bordo di una macchina noleggiata quella stessa mattina all’aeroporto.
Appena uscita dall’ospedale aveva pensato di riprendere immediatamente il tour impostole da
Anna, ma qualcosa l’aveva bloccata.
Non le restava molto tempo e non voleva sprecarlo vagando come una turista da pacchetto
preconfezionato: desiderava pensare insieme a sua figlia, cercava un luogo dove fermarsi fino
al momento in cui sarebbe stato necessario ritornare a casa. La parola casa le sembrò ridicola:
non esistevano case, la casa erano le persone e non gli oggetti, la casa era una spalla su cui
appoggiarsi, un saluto affrettato al mattino che conteneva la promessa di rivedersi, un grembo
in cui essere accolti. Lei era una casa per sua figlia, Giacomo era stato una casa per lei,
Maurizio, nonostante il forte sentimento che li aveva uniti, non era mai stato un luogo sicuro.
Si chiedeva quale potesse essere ora la sua casa e dalla risposta a quella domanda sarebbe
stato chiaro anche il futuro di sua figlia, ma adesso non c’erano risposte.
Dalla nebbia delle sue riflessioni emerse un magnifico ventaglio di colori che la velocità
dell’auto sfumava in un’indistinta macchia verde. Fermò la macchina sul ciglio della strada ed
osservò con attenzione il bosco in cui si trovava. Non c’erano solo milioni di tonalità di verde
– dove aveva letto che non esisteva una foglia identica all’altra? – ma, ai piedi degli alberi, un
tappeto scricchiolante si muoveva sotto i suoi passi rivelando infinite sfumature di marroni e
di gialli. Viola non poteva vedere con gli occhi – ma si vede davvero usando la vista? O è ciò
che la mente elabora che è la vera visione? – ma attraverso quella sorta di comunicazione
empatica che c’è fra madre e figlia. Si sarebbe sdraiata in quel bosco ad aspettare la fine del
mondo, del suo mondo, ma necessità più grandi, anche se ancora oscuramente indistinte,
premevano perché lei continuasse a vivere, perché non decidesse di tagliare il filo beffando il
destino con l’unica vera decisione che l’Uomo può forse prendere: spegnersi prima di essere
spento.
Risalì sull’auto senza esitare e si diresse verso la sua meta: la Palestina. Sentiva di dover
trasmettere alla sua Viola le sofferenze che il mondo viveva a causa dell’insana abitudine di
appropriarsi di tutto ciò che si desidera, usando qualsiasi scusa. Sentiva che le sue lettere non
potevano essere sufficienti, che solo la reale percezione del dolore poteva insegnare qualcosa.
Lei era una fotografa, conosceva ed amava la possibilità di rendere le emozioni attraverso le
immagini, ma era consapevole del fatto che erano pur sempre fredde imitazioni della realtà,
sapeva che ciò che si avverte attraverso la fotografia non è il reale sentire, ma ciò che noi
immaginiamo abbia potuto sentire la persona che ha scattato la foto o quella che è stata
fotografata. Interpretazione, ermeneutica, tutti noi pensiamo di interpretare, di comprendere,
di creare nessi, ma forse dovremmo sentire empaticamente, entrare in contatto con l’altro da
noi, mischiare le nostre lagrime con le sue. L’era dell’interpretazione, la ragione che
sostituisce il contatto con le cose e con le persone, che oscura la comprensione immediata, la
conoscenza di ciò che è in quanto è, in quanto si manifesta evidente davanti a noi con la
potenza del primitivo big bang. Interpretazione, mediazione, tentativo di corrompere la realtà
per modificarla a nostro piacere con la scusa che non possiamo mai escludere che ciò che
sentiamo sia interpretazione, mentre in noi – e tutti l’abbiamo provato se ci siamo mai
davvero messi in ascolto – la percezione immediata del dolore altrui è devastante quanto
quella del nostro dolore. Interpretare per non soffrire, per operare una catarsi, per non cadere
nelle ancestrali paure che sono il campanello d’allarme del male in agguato, che sono i primi
sintomi che permettono di aggredire una malattia prima che sia letale.
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Forse per questo – pensò Claudia – il mondo oggi era sempre più preda del male,
l’antidolorifico dell’ermeneutica non permetteva più a nessuno di riconoscere il male se non
quando già si era insediato profondamente ed irrimediabilmente.
Anche lei stessa non era più in grado di sfuggire alla condanna della propria incapacità di
filtrare tutto attraverso il linguaggio o l’immagine, ma Viola sarebbe stata diversa, Viola
avrebbe sentito e visto con immediatezza ed avrebbe avuto la capacità di discernere le proprie
emozioni da quelle altrui come si distinguono gli strumenti nell’unità di un’orchestra, ognuno
con la sua voce, ognuno con il suo patrimonio di suoni, ma tutti insieme in un unico tempo e
in un unico ritmo.
Così avrebbe dovuto essere l’umanità, come una grande orchestra in cui nessuno strumento
tentasse mai di coprire la voce dell’altro perché senza la voce di uno scompare l’armonia delle
voci di tutti. Ritornò a pensare ciò che sempre diceva a se stessa e ciò che adesso ripeteva
ostinatamente alla figlia: ogni uomo è responsabile del destino del mondo, tutta l’umanità è
responsabile del destino di un uomo.
La strada da percorrere era molta e lei voleva vedere il mare, si concentrò sulla guida e
accelerò.
Anna sedeva alla scrivania che era stata di quel viscido direttore. In un mese era cambiata
radicalmente la situazione in tutte le sfere della sua vita ed i suoi progetti sembravano
realizzarsi con una facilità che sembrava essere caratteristica solo delle azioni volte al male.
Le tracce di Claudia si erano perse nel nulla dopo un ricovero in ospedale di cui la redazione
aveva avuto poche e confuse notizie: sembrava essere sparita su un’auto a noleggio e non
aveva comunicato a nessuno la sua meta; Giacomo era scomparso per sempre, lasciando di sé
solo un biglietto scritto affrettatamente ed un inconsistente e nebuloso ricordo; Alberto,
appena appresa la notizia della sua gravidanza, l’aveva in un batter d’occhio sposata e
sistemata sulla poltrona dell’uomo ritenuto responsabile del flop editoriale seguito alla
scomparsa di Claudia e, quindi, degli articoli che erano stati promessi al pubblico.
Sentiva la vita crescere dentro di sé e, mentre il mondo sembrava plasmarsi alla sua volontà,
non provava nessuna gioia.
Si chiedeva, seduta sulla poltrona che aveva tanto desiderato, di fronte alla distesa di tetti e
finestre che si delineavano dietro gli immensi vetri del suo ufficio, se il male contenesse in sé
l’assenza di ogni sentimento, di ogni passione che non fosse la rabbia cieca e sorda che
l’aveva sorretta fino a quel momento.
Si chiedeva dove fosse Claudia, l’altra metà di sé che portava dentro l’altra metà di suo figlio:
non tenerla sotto controllo significava aver perso le chiavi del futuro che aveva in mente per
l’essere che stava crescendo dentro di lei e per la vendetta che aveva in serbo nei confronti
dell’umanità intera.
Alberto si era candidato alle elezioni come premier ed i sondaggi lo davano vincente, ma
questo non le sembrava sufficiente: vivevano in una piccola nazione senza nessuna
importanza e lei desiderava un potere maggiore: il potere occulto di chi ha in mano
l’economia e l’informazione di tutte le nazioni, di chi con un solo gesto della mano può
cancellare tradizioni, culture, etnie. Lei desiderava per suo figlio il potere assoluto, il controllo
sulla vita e sulla morte dei popoli.
Premeva sulla sua coscienza la sete di rivalsa, l’ansia di giustificare il proprio passaggio sulla
Terra attraverso l’immortalità tutta umana della memoria storica: il male, tessuto canceroso
all’interno del suo cervello, si moltiplicava invadendo i tessuti sani, sostituendoli,
comprimendoli e provocandole atroci dolori ad ogni intoppo nel suo diabolico ed
apparentemente perfetto piano. Anche la preveggenza, di cui lei si era ritenuta dotata,
dimostrava i suoi limiti in assenza di coordinate su cui costruire tridimensionali visioni del
futuro: non sapere nulla di Claudia e di sua figlia la riempiva di un’angoscia che la disgustava,
in quanto sintomo di una caducità che non tollerava più.
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Fece girare la poltrona un paio di volte su se stessa e la inclinò indietro: i legami segreti che
lei ed Alberto avevano instaurato avrebbero permesso l’acquisizione di una percentuale,
anche minima, in tutte le strategiche attività economiche mondiali; suo figlio avrebbe portato
a termine il compito. La visione che si era costruita le diede un attimo di sollievo, ma non era
sufficiente: Claudia doveva essere rintracciata perché lei potesse sentire dentro di sé i suoi
piani come certezze e non come stupidi sogni di una normale Umanità.
Giacomo sedeva alla scrivania del suo studio quando squillò il telefono. Era passato un mese
dall’incontro con Marta e, nella sua mente, si erano cancellati anni ed anni di impotenza e di
frustrazione.
Non aveva più sentito dentro di sé la voce della madre e la parte della sua vita che aveva
preceduto la comparsa di Marta sembrava inghiottita da una voragine senza fondo. Non aveva
avuto più notizie di Anna e di Claudia e, spesso, incredulo di fronte alla nuova perfetta e
libera percezione di sé, si chiedeva quando il passato si sarebbe ripresentato a chiedergli di
pagare il conto.
Il peccato deve essere scontato – pensava deglutendo in preda ad un vago senso di nausea – il
male era troppo potente per non insinuarsi nelle pieghe nascoste della felicità e scavare
caverne come un tarlo nascosto.
Spesso le nuvole del malessere erano spazzate via dal ricordo del viso di Marta che appariva
alla sua memoria come un raggio di luce intensa e rilassante: anche il bene aveva una sua
forza immensa – si diceva – se nei secoli aveva continuato la sua lotta con il male senza
soccombere.
Lo squillo insistente del telefono lo distolse dai suoi pensieri e sollevò la cornetta. La voce di
Claudia si fuse con le sue riflessioni precedenti e la sua immagine, fino ad un secondo prima
indistinta nella memoria, gli si presentò davanti agli occhi reale quanto le sue parole al
telefono.
Puoi riportarmi a casa? – Claudia aveva un timbro di voce differente da quello che lui
ricordava e manifestava un’urgenza per lui incomprensibile, ma che gli diede l’assoluta
certezza di non poter rifiutare. Sì, ma dove sei? Cosa sta succedendo?
Claudia gli rispose con poche e confuse parole che si trovava a Gerusalemme senza denaro e
senza un posto dove rifugiarsi, senza una vera casa e che gli avrebbe spiegato tutto. Ora aveva
bisogno di lui, aveva atteso molto prima di chiamarlo, ma oggi aveva sentito che lui sarebbe
stato la chiave di tutto, la soluzione, la svolta necessaria perché si compisse il destino.
Giacomo le diede qualche indicazione pratica e chiuse il telefono chiedendosi come pochi
minuti prima – come ogni volta che il passato bussa alla porta – se fosse tornato per fargli
saldare il suo debito o perché lui potesse riscattarsi definitivamente e vivere la nuova vita che
Marta gli aveva donato.
Chiamò l’agenzia, prenotò il volo per il pomeriggio e andò a cercare Marta che doveva
sicuramente essere in laboratorio.
Non la conosceva abbastanza da prevedere la reazione che avrebbe avuto e avrebbe dovuto
anche spiegarle che Claudia non poteva essere lasciata sola: se si era rivolta a lui doveva
esserci una vera necessità e lui, dopo tanti anni assieme, non avrebbe mai potuto
abbandonarla. Non sapeva ancora quali avrebbero potuto essere gli sviluppi di quella
telefonata e doveva essere certo che Marta fosse pronta insieme a lui a condividere anche i
costi del suo passato.
Era già in debito con lei perché non poteva darle un figlio: Marta aveva accolto la notizia con
dispiacere, ma senza esitazioni gli aveva detto che sarebbe rimasta accanto a lui. Avrebbe
anche potuto tollerare il fantasma della sua ex moglie che si materializzava fra di loro
improvvisamente?
Marta era seduta davanti ad un microscopio e all’ingresso di Giacomo nella stanza avvertì
subito che qualcosa offuscava il suo sguardo.
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Marta possedeva il pregio dell’innocenza non perché era rimasta bambina, come pensava
Giacomo, ma perché aveva mantenuto l’entusiasmo nei confronti della vita in ogni sua
manifestazione, nonostante lo scontro con la realtà.
Quando era entrata nella stanza di Giacomo per la prima volta aveva immediatamente
percepito che l’uomo seduto dietro alla scrivania aveva un disperato bisogno di qualcuno che
lo facesse sentire se stesso senza giudicarlo, indirizzarlo, condizionarlo. Aveva compreso che
era giunto autonomamente ad uno stadio in cui si acquisisce il rispetto per la vera libertà – che
sia propria o altrui – e che non avrebbe mai tentato di spegnere in lei, come ogni altra persona
che aveva incontrato, il desiderio di vivere la vita scorrendole dentro e godendo di ogni cosa.
Marta non tollerava la coercizione, né subìta né imposta ed aveva amato Giacomo così come
era perché lui l’aveva amata così come era. Non c’era stata una passione fra di loro, ma un
immediato stato di benessere che li radicava in ogni momento che vivevano assieme senza
che si dovesse sempre rimettere in gioco il passato o il futuro. Non era l’eterno presente: in
ogni attimo, come nello scorrere di un fiume, erano passato, presente e futuro vissuti con gioia
nella loro immediatezza.
Pur possedendo un’indole poco incline alla riflessione, Marta, dopo innumerevoli delusioni e
crisi, si era posta il problema dello scontro esistente fra la sua concezione della realtà e quella
degli esseri che l’avevano sfiorata fino ad allora. Aveva dovuto ammettere che l’ostinato
tentativo di cambiarla, di spegnere il suo amore per la vita e per ogni persona, doveva essere
fondato sull’esistenza del male. Non le piaceva doverlo pensare, la intristiva come la
intristivano i gatti investiti sulla strada da camionisti annoiati che li abbagliavano e li
centravano per tenersi svegli durante la notte, come la intristivano i cacciatori, i pettegoli, i
maligni. Non era un genere di male che potesse provocare una reazione di orrore come la
guerra o la pedofilia, ma solo una leggera sensazione di impotenza di fronte ad uomini che
non riuscivano a fare a meno di distruggere anche nelle piccole e futili cose, senza guadagno,
senza motivo, quasi come alcolizzati che devono una birra pur di avvertire il sapore
dell’alcool sulle loro papille gustative e sentire scendere giù per la gola il surrogato di un
prossimo e reale piacere.
Si era dovuta interrogare, suo malgrado, perché era necessario affrontare il problema per
riuscire a gestire la propria vita in modo da non essere più toccata dal disgusto verso esseri
troppo vigliacchi per osare nel male e troppo assuefatti a seguire quello altrui solo per
comodità e per autogiustificarsi.
Lei era un ostacolo nel percorso della loro codarda vita: lei era l’esempio che dimostrava
l’esistenza di un’altra strada, della possibilità di un rapporto di contiguità senza la necessità
del compromesso o della sopraffazione. Chi la incontrava sentiva il dovere di dimostrare che
anche lei era destinata a cedere e che le era mancata solo l’occasione; era necessario perché
non si sentissero colpevoli per le loro scelte.
Ho visto ergersi fiori nel deserto
e crudeltà tagliarli con la falce
per dimostrare che la sabbia è dura.
Aveva scelto di vivere sorvolando il capo di quegli esserini minuscoli così avulsi dalla vita da
essere miseramente ridicoli e di continuare a vivere nel suo stato di grazia. Non avrebbe
accettato di essere spenta e di spegnere, lei avrebbe vissuto. Non si poneva il problema di
appurare se la sua decisione implicasse la scelta del bene, era solo il rifiuto del male in ogni
sua forma, era una ribellione contro ogni atto compiuto contro un altro essere umano per
modificarlo, pressarlo, oscurare il cielo di sogni che costituivano la sua essenza, la sua
diversità e complementarietà con ogni altro essere umano.
Marta aveva scelto ed aveva smesso di pensare, aveva incominciato a percorrere la sua
esistenza con una consapevolezza interiore immediata e questo le rendeva la vita ancora più
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degna di essere vissuta: nella sua attuale ed imprevista unione con Giacomo lei non aveva la
necessità di nascondere nulla a se stessa e a Giacomo, né Giacomo a lei.
Distolse lo sguardo dalla coltura batterica che stava osservando e gli chiese pacatamente quale
fosse il motivo dell’ansia che avvertiva in lui. Appena Giacomo ebbe terminato il racconto
della telefonata di Claudia, Marta lo rassicurò con uno sguardo affettuoso e, rapidamente, gli
disse che non lo avrebbe accompagnato a Gerusalemme perché Claudia aveva bisogno di
parlargli, ma che li avrebbe aspettati al ritorno nell’appartamento in cui erano andati ad
abitare due settimane prima e che era abbastanza grande per ospitare Claudia fino a quando ne
avesse avuto bisogno.
Claudia, secondo le istruzioni di Giacomo, si era fermata nella casa dove era stata ospite
nell’ultima settimana e dove aveva compreso che era giunto il momento di progettare un
futuro stabile per sua figlia.
Aveva saputo del brillante matrimonio di Anna ed aveva compreso che era giunto il momento
di rivolgersi a Giacomo per affidargli Viola e per trascorrere serenamente gli ultimi giorni che
le restavano.
L’ultimo mese l’aveva stancata: di fronte alla consapevolezza della morte imminente non era
stata capace di trovare un senso negli avvenimenti di cui era stata partecipe. La lotta eterna fra
due popoli che si contendevano una minuscola striscia di terra le sembrava priva di tutti i
significati che lei aveva voluto ravvisare negli eventi degli ultimi anni.
Non aveva, come sperato, condotto Viola a conoscere la sofferenza umana, ma solo l’odio che
si concretizzava in una nebbia perenne che oscurava la vista degli uomini coinvolti.
Paura. Aveva avvertito solo il terrore nei volti delle due fazioni troppo impegnate a
giustificare anni di lotte e di perdite umane con una ricompensa sufficientemente grande.
Nessun accordo, il risultato doveva valere il prezzo pagato in vite umane. Il male aveva
scavato solchi profondi e vi si era incanalato scorrendo impetuosamente anche in chi era
originariamente vittima.
Viola aveva conosciuto il rancore sordo e profondo di genitori privati dei figli, aveva visto
insieme a lei il muro del pianto ed aveva assistito alla mutazione genetica di un intero popolo
che pretendeva il risarcimento per millenni di esilio da un altro popolo che non aveva
responsabilità alcuna se non quella di appartenere alla specie umana.
Un'altra spartizione a tavolino come quella della Jugoslavia, come quella dell’Africa; un altro
gesto paterno di saggezza da parte delle grandi potenze, dei papà del mondo, dei precursori
della globalizzazione.
Non c’era un significato nascosto, non c’era nulla di quello che Claudia aveva creduto di
comprendere quando era stata lì, inviata speciale, pronta a fissare le coordinate in cui
inquadrare i buoni ed i cattivi, pronta a fornire all’occidente altri buoni motivi per intervenire
paternamente a dirimere una questione che ormai non esisteva più. Gli originari motivi erano
passati in secondo piano: il male li usava ora dall’una, ora dall’altra parte per continuare a
scavare, per raccogliere nuovi adepti, per confinare il bene nelle poche e nere lettere di
qualche scritto sempre più raro, sempre più estraneo alla vita delle persone coinvolte ed alla
percezione di un’umanità brulicante nei centri commerciali dei paesi padroni del mondo.
Claudia sentì improvvisamente il peso di una morte annunciata: le ore trascorrevano lente ed
immobili, ma un mese era passato in un lampo. Accarezzava l’idea del nulla in cui sarebbe
piombata e cercava di figurarselo: poteva esistere il nulla assoluto in un universo in cui tutto
era energia? Avrebbe visto crescere sua figlia da una dimensione che adesso non riusciva
nemmeno ad immaginare? Ripensò a qualcosa che aveva letto molto tempo prima: i topi
avevano una visione bidimensionale e, sicuramente, la visione tridimensionale era per loro
inimmaginabile. La morte era forse questo per un essere umano? Il passaggio ad una o più
dimensioni ora incomprensibili? Conosciamo e viviamo il tempo come una sequenza ordinata
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e lineare nella nostra tridimensionalità, ma è davvero una sequenza lineare o ogni attimo è
simultaneo agli altri in una ipotetica quarta dimensione?
Le sovvenne alla mente il tanto dibattuto problema della predestinazione: forse in una visione
quadridimensionale la predestinazione era solo un nome che si dava alla simultaneità degli
eventi. Forse altri esseri superiori, forse le stesse anime dei morti, senza più la limitazione dei
sensi umani, conoscevano il futuro perché il futuro non esisteva, il tempo non esisteva come
per i topi non esisteva la profondità.
Viola conosceva già la verità? Se lo chiese con un pizzico di invidia per una figlia che non
avrebbe sentito l’angosciante paura della fine che adesso l’attanagliava senza pietà.
Morire.
Vivere.
Non c’era una scelta, o meglio, la scelta era lì, ogni giorno davanti a lei, ma impraticabile
come una strada inondata dalla piena di un fiume ed il fiume era la vita, la piccola porzione di
tempo a disposizione dei corpi che deambulano sulla Terra in attesa di una risposta che non
possono avere.
Claudia era stanca. Avvertiva il peso degli anni e della custodia di quell’essere nel suo
grembo e provava la sensazione della finitezza. Sentiva il ticchettio di un timer che effettuava
un conto alla rovescia prima dell’esplosione finale: era un congegno fatale che lei non
desiderava disinnescare perché la consapevolezza del tramandare una parte di sé oltre il tempo
a lei concesso la rendeva parte attiva del ciclo vitale.
Aveva un età in cui il desiderio di maternità diventa pressante anche nelle donne immuni da
questa malattia e adesso comprendeva il motivo per cui ciò avveniva. La morte fisica è un
desiderio spesso presente nella mente delle persone che soffrono un soggiorno terreno senza
sbocchi, ma l’idea di generare equivale a trasferire se stessi nel tempo. Si chiese se nella
visione di una dimensione di simultaneità temporale i figli potessero essere visti come le
normali variazioni di crescita degli individui, anzi di più individui. Forse in lei erano presenti
in parte tutti gli individui che avevano contribuito alla sua genesi; forse il Dio che tutti
desideriamo che esista riusciva a distinguere nella sua totalità il peso di chi aveva contribuito
al suo patrimonio genetico ed i tentacoli che si protendevano verso una nuova forma portando
con sé tutta la schiera dei progenitori.
Aveva accettato la morte? Riusciva a perdonare la sua bambina con un destino così
importante che comprendeva implicitamente la sua fine, il suo passaggio ad uno stadio
affascinante ma sconosciuto?
Avrebbe dovuto scriverle – pensò – esternare le sue riflessioni di quel momento, ma non ne
aveva voglia. Il mondo che la circondava era intriso del peccato mortale: della pretesa di
unicità, di eccezionalità. Il peso della presunzione di non essere un ingranaggio, ma il motore
unico del mondo gravava su di lei e su sua figlia.
Fu contenta di aver chiamato Giacomo: sentiva che la soluzione alle sue domande sarebbe
venuta da quell’uomo che le era stato così vicino e così totalmente estraneo in quegli anni.
Si appisolò senza accorgersene mentre sentiva Viola scalciare e dirle qualcosa in un
linguaggio a lei incomprensibile.
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CAPITOLO XI
Le restavano quattro mesi. Centoventitre giorni. Duemilanovecentocinquantadue ore.
Centosettantasettemilacentoventi minuti. Diecimilioni seicentoventisettemila duecento
secondi. Claudia non sapeva cosa farne di quel tempo misurato con il contagocce da un Dio
sconosciuto e, forse, malvagio. Una bomba ad orologeria vagava per il mondo con la
consapevolezza di esserlo. In fondo tutti gli uomini erano congegni a tempo, ma il destino
riservava loro la fortuna di non visualizzare il timer che li regolava.
Si chiedeva chi avesse deciso che il prezzo della vita di Viola erano le vite dei suoi genitori;
provava un odio selvaggio nei confronti dell’Entità che aveva in mano il suo destino e lo
aveva disegnato monco come un romanzo incompiuto.
Si consolò: i più bei romanzi che lei aveva letto erano incompiuti. Forse il concetto di fine era
un concetto così terreno che la letteratura lo oltrepassava, lo inglobava in una molteplicità di
finali possibili. Forse la vita terrena era priva di ogni interesse per un uomo o una donna che
volessero provare ad andare al di là del visto, al di là del detto, al di là del pensato.
Attendeva l’arrivo di Giacomo, l’uomo che l’aveva indotta a perseguire il successo a discapito
di qualsiasi moto dell’anima, l’uomo che l’aveva accudita, protetta, ma mai davvero amata in
questo tempo ed in questo luogo. Luogo così caduco, così poco importante in vista di
un’eternità di cui lei aveva il sentore, ma non la percezione concreta.
Apparentemente Viola era la sua morte, ma era la verità? O Viola le avrebbe permesso di
riscattare la sua inconcludente vita?
Claudia era confusa. I primi giorni erano stati semplici: un’idea netta, sicura aveva
attraversato la sua mente, ma ad ogni istante che la avvicinava alla morte prendeva piede una
inspiegabile forza che la dirottava verso altri pensieri, verso la vita, verso l’omicidio, verso la
tentazione di svendere la vita della sua bambina in cambio di quel surrogato che era stata la
sua esistenza fino ad allora e che sarebbe stata la sua sorte nel caso di una scelta così drastica,
così limitata dall’attaccamento a cellule finite, mortali, condannate, come le cellule di
qualsiasi essere umano.
Decise di resistere. Fu una decisione ragionata, al di là del bene e del male, al di là della sua
stessa piccola vita, al di là dello scenario che riusciva a figurarsi da quel ristretto spazio e
tempo in cui era confinata. Era una scommessa su sua figlia, sul suo sangue che si duplicava,
moltiplicava arricchiva nella nascita. Era una scommessa che aveva come posta in gioco una
sopravvivenza diversa da quella che lei riusciva ad immaginare. Era una scommessa con il
futuro. Era la scommessa più grande che un essere umano potesse fare.
Viola continuava a farsi sentire con piccoli calcetti ben assestati. Durante il primo periodo
della gravidanza lei l’aveva compresa meglio e non sapeva se questo fosse dovuto alla sua
stanchezza attuale o al fatto che l’impossibilità di un’azione fisica rendesse gli embrioni
naturalmente dotati di una più spiccata capacità di comunicazione empatica.
Forse – si disse – non era vera nessuna delle due ipotesi: forse sua figlia incominciava ad
avere pensieri più elaborati e lei non riusciva a starle dietro. Sicuramente Viola correva verso
un destino differente dal suo, con percezioni e sentimenti diversi nella qualità e nella quantità
o, forse, a prescindere dal destino di entrambe, sua figlia stava diventando una persona
staccata da lei come qualsiasi altro essere e, quindi, su di loro iniziava a gravare
l’incomunicabilità che caratterizza i rapporti fra gli uomini.
Sentiva pesare le gambe, ma più ancora la testa. Percepiva i ricordi come immagini sfocate di
una vita altrui e non riusciva da giorni a provare un desiderio, un impulso verso la vita, verso
le cose che avevano fino a quel momento arricchito la sua realtà.
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Anche la macchina fotografica ed il computer giacevano dimenticati da un paio di giorni e,
con loro, il proposito di costruire un mondo di ricordi per sua figlia.
Aveva tentato di convincersi che la causa della sua apatia erano i normali squilibri ormonali
della gravidanza, ma dentro di sé sapeva che il lento scemare della spinta alla vita andava di
pari passo con il procedere del conto alla rovescia che scandiva le sue giornate lento,
monotono, costante, mai silente.
La uccideva, prima ancora che si esaurisse il tempo già breve che le era stato assegnato,
l’impossibilità di progettarsi, di porsi un obiettivo, di programmare un futuro verso cui
dirigersi con tutta la forza e rapidità possibili e che sul suo percorso portasse nuove emozioni,
nuove immagini, nuove parole.
Non aveva coordinate per tracciare la sua rotta: intorno a lei e di fronte a lei tutto era
sconosciuto, inimmaginabile, angosciante come un triplo salto mortale ad occhi bendati. E
non ci sarebbe stata una rete a fermare la sua caduta.
Il suo mondo si era deteriorato in immagini velate dalla tristezza di una pioggia sottile in un
giorno di fine autunno; interminabile era il numero di battiti cardiaci che sembrava separarla
dal punto di svolta, da quella che ormai vedeva come l’unica soluzione alla monotonia della
lenta deriva di una nave senza più strumenti di bordo, sotto un cielo plumbeo, privo di stelle.
In questa situazione era emerso dal passato Giacomo, un unico punto di riferimento e lei vi si
era aggrappata. Per se stessa. E per Viola.
Mentre Giacomo saliva sull’aereo Anna veniva scossa da un sussulto. La sensazione
opprimente di un evento ignoto destinato a compiersi la pervase, ancor più acuito dalla sua
attitudine alla preveggenza.
Era inutile cercare di comprenderne l’origine, non riusciva a mettere a fuoco l’immagine
indistinta e cupamente nebulosa che si affacciava a tratti alla sua mente. Ebbe un crampo e
temette per suo figlio. Il crampo cessò, forse – pensò – era solo un tentativo del bambino di
comunicarle ciò che stava accadendo. La paura di perderlo non la abbandonava: esistevano
molti modi di perdere qualcosa e la morte era forse quello più accettabile in quanto già
compresa nell’atto stesso del vivere. Il fallimento dei progetti, la stasi, la sensazione di avere
perso un treno che il destino aveva fatto passare dalla nostra stazione e per cui non era
previsto un passaggio di ritorno, questo era forse più terribile, era una morte interiore.
Sentì il peso dei pensieri di Claudia nell’aria intorno a lei addensarsi come una cappa di fumo
asfissiante e, sopra di quella, dentro quella, intorno a quella, la forza di una volontà
sconosciuta e vitale. Ne percepiva la potenza con terrore. Viola. Un nome? Un colore? Un
simbolo? Una metafora del destino?
Sentiva la sua forza e quella di suo figlio venire meno mentre il presentimento sempre più
privo di contorni si solidificava dentro i loro corpi in simbiosi.
Anna scagliò violentemente il suo fermacarte di pietra contro la nube di fumo e lo specchio di
fronte alla sua scrivania si frantumò in grandi ed affilate schegge in cui si scomponevano
visioni indistinte del futuro.
Giacomo rifletteva mentre l’aereo decollava. Fino ad un mese prima era stato solo un uomo,
ma cos’era oggi? La sensazione che provava non aveva bisogno di contorte spiegazioni
razionali, era immediata nella sua coscienza, ma lui sapeva che per continuare nel percorso
intrapreso doveva riuscire a trasporre indistinte sensazioni in pensieri e da questi sarebbero
scaturiti nuovi sentimenti, nuove emozioni che lo avrebbero ulteriormente modificato. Non
riusciva a stabilire quando questa consapevolezza fosse diventata parte di lui: ricordava il
giorno in cui era andato via da una casa per essere trasportato in un’altra, senza convinzione,
senza ragione, senza la capacità di esprimere il suo dissenso, il suo desiderio di possedere una
vita in cui la scelta e non il destino fosse il filo conduttore, la molla di ogni gesto se pur
piccolo ed insignificante.
Si vergognava.
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Per la prima volta nella sua vita non erano la paura, il rimorso, la compiacenza, il desiderio
del quieto vivere a muovere le sue azioni, ma un sentimento sconosciuto e privato: la
vergogna di fronte ad un se stesso che si rifletteva nello specchio degli occhi altrui, il pudore
delle proprie azioni, del proprio operato fino a quel giorno. Un filosofo diceva che era il
pudore e non la parola o l’intelligenza a distinguere l’uomo dall’animale ed oggi lui sentiva la
portata di quell’intuizione. Era un campanello d’allarme la vergogna e nascondere la testa
sotto la sabbia non era sufficiente a smorzare la invasiva forza di quel sentimento.
Si vergognava. Quante volte aveva pensato che avrebbe dovuto farlo per la sua incapacità di
ribellarsi al destino che gli era stato assegnato pur comprendendo la sua estraneità alle
aspirazioni materne. Ma non aveva mai davvero sentito la vergogna. Oggi, padrone delle sue
azioni, capace di scelte precise, consapevole della facilità con cui ogni scelta comportava
l’altra, sentiva veramente la vergogna per ciò che era stato, per non aver mai compiuto il
primo passo verso la libertà, verso il rispetto per la sua umanità e per quella altrui. Oggi era
uomo e, mentre osservava il vuoto al di fuori del finestrino, si sentiva costretto a preoccuparsi
di tutte le conseguenze di questa affermazione.
Non gli era più consentito aggrapparsi alla scusa della debolezza: non era il risultato
dell’azione a provocare la vergogna, ma l’intenzione e lui non riusciva più a nascondere a se
stesso le proprie intenzioni.
Né era sufficiente nasconderle agli altri: avrebbe evitato la punizione, ma non la vergogna.
Forse per questo – pensò – il concetto di peccato è così diverso da popolo a popolo, perché si
cerca di imbrigliare un sentimento privato come la vergogna in una serie di leggi pratiche, in
codici che definiscano in modo standard il giusto e permettano di punire rapidamente l’errore.
Quando l’errore si scopre, naturalmente. Altrimenti non c’è peccato.
L’intenzione è una cosa diversa: un uomo può camminare nudo in Polinesia senza che questo
sia peccato, perché la sua intenzione non è provocare disagio nelle altre persone, ma non può
farlo in un aeroporto in Italia.
Pensò che questo approccio al concetto di male e di peccato sarebbe stato la morte di tutte le
Chiese e di tutti coloro che si ritenevano i detentori della moralità. Il male ed il bene
sarebbero stati regolati da un rapporto fra la coscienza del singolo e l’Umanità di cui faceva
parte.
Pensò a tutte le volte che aveva detto non era mia intenzione farti del male e sentì di
vergognarsi profondamente per aver finto di non vedere, per non aver ragionato sulla portata
delle sue azioni, su quelle che effettivamente sarebbero state le conseguenze. Era stato
assolto, ma adesso sapeva e adesso doveva affrontare il peso, superarlo e far sì che la
consapevolezza raggiunta gli permettesse di usare la sua ragione non per continuare ad
autoassolversi, ma per impedirgli di commettere gli stessi errori.
Probabilmente – si disse – ognuno di noi è una cellula del tutto ed ha un compito nello
svolgimento delle umane vicende: la vergogna lo avrebbe aiutato a svolgere il suo. Non
doveva averne paura, non era una punizione, non lo avrebbe schiacciato.
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CAPITOLO XII
Seduta, con lo sguardo fisso nel vuoto, Claudia osservava la scatola con le lettere di Maurizio.
Erano state solo sue, ma adesso avevano una funzione più importante, erano l’eredità di un
padre ad una figlia di cui non aveva mai sospettato la possibile esistenza.
Claudia osservava la scatola e sapeva che c’era ancora qualcosa in sospeso fra lei e il passato:
una busta ancora chiusa – trovata fra le sue cose il giorno della morte di Maurizio – e che lei
non aveva mai avuto il coraggio di aprire. Aveva temuto che fosse un addio, che contenesse
parole che avrebbero potuto ferirla per sempre, che anche Maurizio avesse provato, come lei,
la sensazione della fine di un amore.
Non l’aveva forse mai amata come lei desiderava, ma l’amore non era mai stato in
discussione fra di loro e quella lettera poteva distruggere tutto più della morte stessa. Aveva
rimandato ad un altro momento la lettura e poi, come in un pozzo la catena del secchio si
srotola cigolando a velocità vertiginosa, così nella sua vita gli eventi erano precipitati. La
fama, la fine del matrimonio, la scoperta della presenza di Viola, la fine della sua brillante
carriera, la solitudine, la partenza, la morte in agguato.
Oggi aveva sentito la necessità di leggerla, forse perché la morte le era così vicina e la
stringeva a Maurizio in un nuovo abbraccio o, forse, perché la vita premeva dentro di lei
attraverso il corpo di Viola e Viola era verità e desiderava la verità. Claudia osservava
quell’anonima scatola e conosceva bene i lenti passi necessari: svolgere lo spago intorno,
aprire il coperchio, essere investita dall’odore della carta misto agli odori dei loro corpi, delle
loro mani, toccare la busta ancora chiusa e cercare di sentirne il “peso” attraverso le dita. Si
era sempre fermata qui, ma oggi avrebbe trovato la forza di proseguire perché aveva scelto di
andare avanti verso la morte e di non aspettarla immobile regalandole anche gli ultimi istanti.
Claudia,
il tuo nome ha occupato un posto importante nel mio cervello durante tutti questi anni.
Non sono bravo con le parole come lo sei sempre stata tu: io ti ho insegnato a
fotografare, ma non ho imparato da te a scrivere e a ricondurre il pensiero all’interno
del limitato numero di segni a nostra disposizione.
Nonostante ciò devo scriverti perché so parlare ancor meno di quanto io sappia
scrivere e perché, come spesso so che tu hai intuito, allontanarmi da ciò che non
riesco a dominare o a comprendere è l’unica strada che io sia in grado di percorrere.
Anche la fotografia, in fondo, non è altro che un allontanarmi: mettere fra me e il
mondo un vetro di protezione, un filtro che io riesco a controllare per evidenziare ciò
che io ritengo opportuno e, attraverso l’immagine ottenuta, allontanare il ricordo
della realtà in movimento, incontenibile. Per sempre ciò che ho vissuto è fissato nelle
mie fotografie e non nella memoria.
Ma il sentimento che provo ed ho provato nei tuoi confronti non può essere
fotografato, fissato, spiegato, reso distante e, quindi, il mio allontanamento da te è
stato sempre fisico ed anche oggi lo sarà. Con una piccola differenza: il distacco che
ho sentito stanotte in te. Oggi non mi allontanerò da te, ma dalla tua stessa
lontananza ed il percorso sarà senza ritorno perché per quanto io possa desiderare di
tornare non riuscirò mai a colmare lo spazio che tu hai percorso.
Forse ti devo delle spiegazioni o forse sono solo io a volerle dare a te e a me stesso
per non sentirmi responsabile di quello che ho perso, che abbiamo perduto.
Tu mi sottraevi qualcosa. So che è ingiusto, non era tua intenzione, ma la mia vita
cambiava, i miei desideri si modificavano, i miei occhi non desideravano più guardare
la realtà e la varietà delle cose ma soltanto te. Mi sentivo in gabbia e avrei dovuto
scegliere ciò che in quel momento volevo, cioè te, perché questa viene chiamata
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libertà. Ma era davvero ciò che volevo? Esiste una libertà di volere o la vera libertà è
solo il non volere e, quindi, il poter avere tutto quello che il destino ci mette davanti?
È libertà lo scegliere o l’essere scelti senza responsabilità e poter sempre
abbandonare tutto?
Ti ho sempre detto, quando mi travestivo da maestro per regalarti l’unica cosa che
possiedo, la vista attraverso un obiettivo, che non devi scegliere l’immagine, ma è lei
che deve scegliere te perché tu non la possa sporcare con le tue prevenzioni,
presunzioni, aspettative e che poi devi lasciarla andare perché non è più tua, perché
altrimenti strapperesti la fotografia perché non abbastanza adeguata alla realtà.
Per me è stata così anche la vita e tu la stavi cambiando. Stavo perdendo me stesso
per trovare te.
Era paura? Forse, non lo so, non l’ho mai voluto sapere perché non avrebbe fatto
nessuna differenza. Io mi avviavo a non essere più me stesso e non c’era un
compromesso da fare, un punto di mediazione, un modo di non scegliere qualsiasi
cosa ed essere entrambi felici.
Non ho mai voluto decidere e sono sempre andato via e tu, sempre ostinata, mi sei
rimasta accanto anche da lontano. Forse avrei voluto che tu scegliessi al mio posto
anche se sono stato sempre felice di ritrovarti, di sapere che c’eri ancora come le
montagne, come il mare, come una solida roccia che non si muove perché io vado via
e che mi riappare al ritorno sempre uguale eppure impercettibilmente modificata,
corrosa, con nuovi strati di incredibile ed insospettabile bellezza.
Ma stanotte ho sentito la tua decisione e mi sono sentito solo e, allo stesso tempo,
libero. Libero di essere me stesso senza la paura di cedere ed ho cercato dentro di me
la prossima cosa che mi chiamava da lei e non l’ho trovata. Ho cercato, quindi, fra
ciò che mi aveva chiamato un tempo ed ho provato un pizzico di gioia pensando di
decidere di tornare in alcuni luoghi. È stato allora che ho compreso che da oggi in poi
avrei lo stesso dovuto scegliere perché senza di te nulla mi avrebbe più chiamato.
La mia libertà era finita, io ero finito e non era più possibile tornare indietro.
Ci sono eventi a cui non si sfugge, ci sono scelte che è necessario fare una volta che
qualcosa accade dentro di noi e ci spinge prepotentemente. Non siamo statici esseri
che non cambiano, dobbiamo modificarci in base alla realtà, ma io non ho mai voluto
usare la mia vista e la mia libertà perché non ho mai voluto la responsabilità della
mia vita e di quella altrui.
In ogni caso stanotte Maurizio è morto, anche la mia stessa solita fuga non è più
definibile come tale.
Sappi, per quanto oggi possa sembrare ridicolo ed inadeguato anche a me, che ti ho
sempre amato e che spero che dentro di te qualcosa di me continui a vivere per
potermi illudere che ancora ci muoviamo insieme, come la roccia e le orme dell’uomo
che l’ha scalata.
Addio
Maurizio
Claudia ripiegò accuratamente la lettera, la infilò nella busta, richiuse la scatola con lo spago,
la sollevò con cura e la ripose nel luogo dove era stata fino a quel momento. Il tutto avveniva
con gesti controllati, pacati, meccanici ed era un modo per generare un’onda contraria a quella
dell’emozione che dilagava nel suo cervello e nel suo corpo generando un calore
insopportabile. Ancora come in preda ad un fenomeno di trance ipnotica riprese il suo posto
sulla sedia, mise una mano sulla pancia, quasi a voler cercare l’aiuto di sua figlia, chinò la
testa all’indietro ed iniziò a piangere sulla vita che finiva e su quella che stava per iniziare.
Non era che un misero essere umano – pensava – a cui era stato affidato un destino
ingombrante e che non sapeva gestire. Forse aveva avuto un ruolo nella vita di molti, ma non
era stata in grado di comprenderlo; forse, nei pochi giorni che ancora dovevano scorrere sulla
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sua pelle e sul suo sangue, aveva un compito che non riusciva nemmeno ad immaginare, che
non credeva di saper portare a termine perché non era nemmeno in grado di comprenderlo.
Viola era l’orma di Maurizio sulla sua roccia e forse lei e lui avrebbero continuato a muoversi
insieme attraverso le sue cellule, attraverso il suo respiro. Aveva respinto quella lettera con
paura, con ansia, con dolore perché, pur amandolo, non era mai riuscita davvero a
comprendere l’uomo che le stava vicino. O non si era mai fatto afferrare da lei perché lei
potesse guardargli dentro? Era troppo tardi ormai per quelle domande, era troppo tardi per
ogni domanda: adesso era il tempo dell’azione, l’ultimo spazio possibile per trasformare un
ammasso di insignificanti gesti in una compiuta trama.
Come nella scrittura milioni di idee slegate viaggiano nella mente senza meta ed,
improvvisamente, si ricompongono in un disegno unico in cui ogni parte si incastra nell’altra
e la richiama, così doveva essere anche la vita. Ogni vita.
Non c’è mai un indizio che possa far intendere quale sarà il prodotto finale di eventi e pensieri
che si succedono, si intersecano, si sovrappongono nello spazio e nel tempo e così non c’era
un modo di comprendere la direzione verso cui agire. Doveva solo fermarsi, arginare il flusso
delle emozioni, fermare il battito del cuore ed esaminare tutto ciò che era stato senza
connettere gli avvenimenti, senza dare un senso a priori. Improvvisamente un pezzo si
sarebbe legato ad un altro e poi tutti insieme indissolubilmente e lei si sarebbe chiesta come
aveva fatto a non vedere prima.
Si rannicchiò sulla sedia e chiuse gli occhi.
Anna, di fronte ai frammenti dello specchio, iniziò a tremare. Non era mai riuscita a
cancellare completamente ciò che era stata e sentiva il male provenire dal figlio che aveva in
grembo. Lo amava in un modo viscerale e quasi animalesco, ma, come essere umano, sentiva
improvvisamente di disprezzarlo, odiarlo. Non riusciva a comunicare con lui con il pensiero,
ma solo attraverso i fluidi corporei che transitavano attraverso la placenta. Aveva – si disse –
un rapporto ormonale con lui, non c’erano mediazioni del pensiero, non c’era amore nel senso
umano del termine. Sentiva di averlo generato, nutrito e protetto per uno scopo che in realtà la
cancellava e la distruggeva come essere umano. Era il prezzo della vendetta? Lo sentiva quasi
come un mostro attaccato alle sue viscere che la risucchiava e la consumava, divorava quella
parte di lei che era rimasta assopita nel fondo dell’inconscio, quella Anna che aveva provato
amore, compassione, gioia, emozione per le piccole cose, per un bimbo che piangeva, per un
fiore che faceva capolino dopo una giornata di pioggia.
Suo figlio non avrebbe mai conosciuto questi sentimenti, suo figlio sarebbe stato crudele,
impassibile, mai in preda al dubbio che ti spinge a guardare dentro gli altri per cercare te
stesso e ti permette di scoprire nuovi mondi, nuovi modi di essere, nuove emozioni e
sentimenti. Forse non avrebbe avuto mai sentimenti, ma solo istinti di sopravvivenza e di
potere.
Lo squillo del telefono la distolse da quello stato di angoscia. La voce dell’investigatore
privato che aveva assoldato per avere notizie di Claudia le riferì che Giacomo era partito
precipitosamente per Gerusalemme dopo una misteriosa telefonata ed aveva prenotato il
rientro per due persone.
Anna abbassò la cornetta e sorrise. Presto il sorriso si tramutò in una risata isterica e secca
mentre lei si diceva che era solo un essere imperfetto, che suo figlio non avrebbe avuto le sue
sciocche esitazioni e che lei non avrebbe mai più dovuto perdere la cognizione di quello che
era il vero obiettivo della sua vita, vincere attraverso suo figlio, e che la maternità non era
fatta di sentimenti ma del proprio genoma tramandato e nutrito attraverso le proprie cellule.
Alberto la chiamava sulla linea privata, si ricompose in un atteggiamento appropriato e
rispose con la solita voce ferma e dolce.
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CAPITOLO XIII
Quando Giacomo bussò alla porta, Claudia era ancora immersa nello scorrere libero degli
eventi della sua vita. Il suono del campanello la distolse, spezzando il filo della sua volontà
che pur sempre continuava a legare i ricordi fra di loro con nessi conosciuti e Claudia ebbe
per un attimo la visione disordinata e perfetta di un’altra aggregazione degli eventi, della
formazione di un nuovo disegno nel caleidoscopio che stava osservando e che, fino a quel
momento, aveva sempre mosso lei, fermandolo sulle figure che riteneva più belle e
ragionevoli.
Si alzò a fatica dalla sedia – era sola a casa – e si diresse lentamente verso la porta con
apprensione. Non vedeva Giacomo da molto tempo ed i loro rapporti negli ultimi tempi,
prima della separazione, non erano stati eccellenti. Ricordava perfettamente lo sguardo con
cui Giacomo l’aveva osservata, infastidito dalla sua caparbia volontà di porre fine alla carriera
che lui le aveva così abilmente costruito. Adesso lei era disfatta, appesantita da una
gravidanza già evidente, preda di un destino che aveva segnato la sua ora ed, inoltre, aveva
bisogno di lui per un compito non facile: la cura di un figlio che Giacomo non aveva mai
voluto e che non era nemmeno suo.
Appena aprì la porta percepì il cambiamento nell’uomo che aveva avuto accanto per sedici
anni: non sentiva più l’ingombrante presenza della madre ed, inoltre, Giacomo aveva
un’espressione serena e disponibile all’aiuto, non alla spinta. Ringraziò in silenzio Viola per
averle indicato la strada con i suoi apparentemente incomprensibili e casuali calcettini e si
lasciò accogliere dalle braccia di quello che – ormai ne era certa – sarebbe stato il padre di sua
figlia. Gli espose in maniera affrettata quello che le era successo, con una sorta di pudore nel
manifestare i sentimenti collegati ai nudi fatti di cui stava parlando e Giacomo la assecondò
con un ascolto attento e asettico quanto il racconto. Alla fine informò Claudia con una voce
ferma e dolce che il loro volo sarebbe partito fra due ore e l’accompagnò nella stanza per
aiutarla a fare velocemente i bagagli.
Quando furono sull’aereo Claudia si assopì e Giacomo – che aveva fermato il corso dei suoi
pensieri per non spezzare la nuova intimità che si era creata fra loro due – si volse ad
osservarla con attenzione come ci si osserva dinanzi allo specchio per cogliere i segni del
passare del tempo.
Il suo volto era cambiato: l’espressione vitale e sensuale della donna che conosceva era
scomparsa, cedendo il passo ad una pensierosa profondità che, però, non aveva nessuna
venatura di tristezza o di malinconia. Sembrava determinata. Non come era stata in passato, in
corsa verso un successo voluto senza esitazioni, ma saldamente avviata per un calmo e sereno
sentiero di cui comprendeva la necessità, ma non ancora il punto d’arrivo. Era certo di non
provare per lei né amore, né fastidio, ma soltanto una comprensione illimitata come se, in
qualche modo, lei facesse parte di lui.
Viola. Aveva ascoltato il nome che Claudia pronunciava senza batter ciglio, frenando il
terrore che il passato ritornasse da lui con l’avverarsi delle previsioni e della volontà della
madre. Aveva ripensato per un attimo a quel giorno che ormai riteneva lontanissimo ed aveva
sentito sul collo ancora una volta l’alito di chi lo spingeva verso un destino predeterminato.
Adesso, con calma, accanto a Claudia su un aereo che lo stava riportando a casa da Marta,
comprendeva di essere libero: sua madre aveva previsto il futuro e l’esistenza di Viola, ma
non poteva condizionare le sue azioni, non poteva spezzare il processo di affrancamento che
lo aveva liberato per sempre dalla catena e Viola non sarebbe stata un nuovo anello, ma una
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creatura libera di agire e di essere se stessa.
Aveva già da tempo smesso di sentire la presenza della madre, ma ne aveva sempre temuto il
ritorno. Il sintomo più grave di un legame ancora esistente fra di loro era stato l’assenza di
una percezione piacevole di lei nei ricordi. Adesso ripensava a lei e riviveva le sue carezze:
non le sentiva più come un tempo, come una lenta e pesante pressione sul proprio capo, ma
come un tocco leggero e dolce. Ogni ricordo si era liberato dal senso di oppressione non
appena questo era scomparso dalla sua vita attuale. Aveva letto qualcosa del genere in un
libro di psicanalisi. Effetto farfalla: il camice bianco di Marta aveva sfiorato la sua vita quel
giorno, leggero come il batter d’ali di una farfalla ed aveva smosso il primo granello di
un’altissima montagna. Da lì era partita la frana che lo aveva affrancato dal giogo per sempre:
lui non aveva dovuto scalare la montagna e superare il passato – sapeva di non averne la forza
– era stata la montagna a dissolversi e a sciogliere anche il passato dal peso della coercizione.
La sua vita era rimasta intatta, ma adesso era lui a sceglierla e Marta era accanto a lui, leggera,
vicina, luminosa come i nuovi colori di cui aveva riempito il tempo, passato, presente e
futuro.
Si sentiva pronto ad accogliere Viola. Non conosceva i dettagli della storia di Claudia, non
comprendeva ancora bene il suo ruolo e quello di Marta in quello che percepiva essere un
disegno del destino, ma ora aveva l’assoluta certezza che, in ogni caso, all’interno delle
possibilità e degli incontri che rientrano nella necessità delle cose, ognuno è libero di scrivere
la propria storia e lui e Marta avrebbero scritto la loro. Insieme a Claudia, fino a quando non
sarebbe stato per lei il momento di lasciare questa vita.
Il pensiero della morte tornò ad assalirlo. La sua scelta, come quella di Claudia, comportava la
perdita dell’illusione di permanere in questa vita. Si accorse di non avere più paura, di non
cedere più con la mente al pensiero di non conoscere quello che li aspettava, se fosse il nulla o
altre dimensioni o la trasformazione in pura energia, non aveva più importanza perché lo
spazio di vita di cui erano consapevoli era già più che appagante per loro che avevano scelto
di viverlo liberamente.
Adesso doveva riposare – pensò – attendere il ritorno a casa per rivedere Marta ed entrare
veramente in contatto con Claudia. Inclinò il sedile, girò leggermente il capo e si addormentò.
Claudia sognava. Le immagini che aveva appena intravisto qualche ora prima continuavano a
comporsi nella mente formando una trama sempre più nitida. Lei, Giacomo, Anna, Maurizio,
Alberto e Marta che ancora non conosceva, Viola, la guerra, il male, il dolore, il bene,
l’amore: tutto si incastrava in un quadro ad ogni istante più comprensibile. Ogni volto trovava
la collocazione in un punto preciso della scena e la sua morte aveva un senso, come aveva un
senso l’incontro di Anna con Alberto. Viola aveva bisogno di crescere assistendo alla potenza
dell’amore e Giacomo e Marta erano l’esempio della forza con cui l’amore scioglie ogni
catena. Lei aveva già compiuto il suo cammino quando era morto Maurizio e – adesso se ne
rendeva conto – sentiva di non avere nessun desiderio se non quello di ripercorrere le stesse
strade alla ricerca di improbabili sensi. Anche Maurizio era morto così – dopo aver letto la sua
lettera ne aveva la certezza – quando aveva compreso che ciò che era stato non era più e che il
desiderio era finito per lui. Maurizio era morto perché la sua essenza si era spenta e non aveva
più nessun compito da portare a termine per conto del destino, lei aveva dovuto attendere
ancora perché ancora aveva una ragione di vita, aveva un motivo per non lasciarsi morire.
Non riusciva, però, a comprendere alcuni frammenti delle immagini, mancavano dei tasselli al
puzzle che si stava formando, ma ciò che riguardava lei, Viola, Giacomo e Marta le era
finalmente chiaro e, soprattutto, non si sentiva più una vittima, ma comprendeva che Viola le
aveva regalato altri nove mesi ed una ragione per viverli.
Altri sogni sostituirono le immagini e sul volto di Claudia si dipinse un sorriso. Maurizio le
era nuovamente vicino. La sua ultima lettera aveva spazzato via la montagna di
incomprensioni che aveva distrutto la loro storia. Granello per granello si era disgregata
quando la carta stropicciata aveva liberato nuovamente il Maurizio che lei aveva amato, il
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Maurizio che era leggero e fresco come un soffio di vento primaverile, il Maurizio che aveva
la velocità della gazzella e che lei adesso avrebbe inseguito, per sempre.
Alberto sedeva sull’accogliente poltrona in pelle nella biblioteca della sua dimora. La stanza,
perfettamente inglese e maschile nella struttura, si apriva sulla vista della scalinata in legno
che portava ai piani superiori, destinati alle camere da letto. Doveva recarsi con Anna ad una
cena che avrebbe mutato il loro destino e quello di molti altri uomini e voleva vederla
scendere e godere della sua presenza, del suo discreto ed elegante fascino, della visione di
quella che fin dal primo giorno gli era sembrata l’incarnazione degli obiettivi che lo avevano
spinto per tutta la vita. Quando Anna apparve in cima alla scala senza sospettare la presenza
di Alberto, lui ebbe la strana e rabbrividente sensazione di vedere un ghigno rabbioso sul
volto che gli si era sempre presentato come dolce, remissivo e forte allo stesso tempo. Fu un
attimo. Anna lo vide e trasformò immediatamente il viso sorridendogli raggiante. Alberto si
rasserenò, ma dentro di lui rimase una irrazionale percezione di pericolo. Era la forma
inconscia ed istintiva che lo aveva spesso salvato e che lo aveva portato in alto. Anna ebbe un
vago sentore dell’accaduto, ma, scrutando Alberto non si avvide di nessuna differenza nel suo
comportamento e distolse l’attenzione da lui per dedicarla alle importanti decisioni che
avrebbero completato l’attuazione dei suoi piani. In realtà Alberto non aveva deciso di
diffidare di lei – gli era troppo utile per quella che era diventata la sua vita – ma aveva solo
pensato di guardarsi le spalle nel caso di un errore di valutazione. Fino a quel momento non
aveva considerato la possibilità che Anna potesse fingere, si riteneva un grande conoscitore
della psiche umana, ma quella visione improvvisa durata meno di un attimo lo aveva scosso e
la posta in gioco era troppo alta.
Il giorno dopo uscì di casa comportandosi allo stesso modo di sempre ma, appena svoltato
l’angolo, cambiò direzione di marcia e raggiunse rapidamente lo studio del suo notaio di
fiducia. Intestò ogni cosa al nascituro, si nominò suo tutore ed amministratore e stabilì i nomi
di tre persone che avrebbero dovuto congiuntamente sostituirlo nel caso lui fosse
prematuramente scomparso. Nel testamento stabilì con cura le parti di legittima che sarebbero
spettate agli altri aventi diritto in modo che questo non potesse essere impugnato. Sorrise
quando il notaio gli fece presenti alcuni aspetti ancora legalmente ambigui: fra poco sarebbe
stato lui ad avere il potere e se per le persone normali le leggi erano fatte per essere aggirate,
per lui sarebbe stato un gioco modificarle a suo piacere senza che nessuno opponesse
resistenza. In fondo gli interessi che avrebbe dovuto toccare riguardavano ben poche persone
al mondo e sarebbe stato facile trovare una contropartita da offrire in cambio del silenzio.
Quando uscì dallo studio del notaio si rese conto che il suo cammino era compiuto e che ora si
trattava solo di mantenere quello che aveva conquistato, compresa Anna. Non era interessato
a sapere se avesse recitato o se fosse realmente la donna meravigliosa che lui aveva cercato:
ciò che era importante era che con la sua scaltrezza, in ogni caso superiore a quella di Anna,
la aveva per sempre incastrata nella sua parte. I risultati erano l’unica realtà: le intenzioni, la
verità, la moralità erano secondari. L’unica cosa veramente importante era la sua volontà di
avere ciò per cui aveva pagato, in un modo o nell’altro.
Anna, rimasta sola, si crogiolò nelle visioni di una piena realizzazione delle sue trame.
L’investigatore le aveva riferito che Claudia e Giacomo erano ritornati insieme da
Gerusalemme e lei sentiva di avere nuovamente il futuro sotto controllo. Poteva rilassarsi
adesso – si disse – tutto era compiuto. Entrò nella vasca da bagno e fu colta da uno strano
brivido, come un ammonimento, un presentimento. Sciocchezze – disse – e scrollò le spalle
con una sicurezza che spesso il male ha troppo presto.
Claudia, Giacomo e Marta parlarono a lungo il giorno seguente e decisero di evitare che la
loro vita e quella di Viola fossero distrutte dal fuoco delle domande sul destino. Avrebbero
vissuto tranquillamente l’attesa insieme ed avrebbero serenamente scelto giorno per giorno le
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strade che era opportuno seguire. Nessuno dei tre desiderava imporsi amicizie forzate e affetti
in previsione del futuro. La loro vita si sarebbe svolta come al solito, anche se con la
consapevolezza di ciò che era accaduto, di ciò che doveva ancora accadere e del ruolo che,
secondo le sensazioni di Claudia, avrebbero avuto.
Marta, dopo aver parlato ancora qualche attimo da sola con Claudia uscì dalla stanza ancora
più leggera del solito. Aveva sentito distintamente il pensiero di Viola attraverso il corpo di
Claudia ed era felice. Neanche con Giacomo aveva avuto la così completa e assoluta
percezione della libertà e della comprensione. Quando Giacomo le aveva detto di non poter
avere figli lei aveva per un attimo respirato di sollievo: desiderava un figlio, ma era atterrita
dal rapporto di esclusività e di controllo bilaterale che madre e figlio generano. Viola era un
respiro ampio nell’aria pura e lei felice del dono inaspettato che le aveva fatto il destino.
Giacomo osservò il volto raggiante di Marta che usciva dalla stanza di Claudia e sentì ancora
una volta di amarla profondamente e di essersi mescolato con lei senza che lei lo avesse
privato di nulla. Ma era di più, lei gli aveva restituito la percezione di ogni parte di sé.
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CAPITOLO XIV
Cara Viola,
siamo arrivati alla conclusione del nostro viaggio insieme. Domani mattina mi porteranno
in sala operatoria perché hanno deciso di effettuare un parto cesareo nel disperato
tentativo di salvarmi. Contro una piccola possibilità di vivere si profila all’orizzonte lo
spettro di un lungo coma senza ritorno. Ho cercato di dissuaderli, ma, come ho imparato
dagli eventi della mia vita, è inutile porre resistenza al destino per qualcosa che non ti
interessa. Morire o lasciare che solo il corpo sopravviva non fa nessuna differenza per me
e, forse, anche questo potrebbe avere un senso nel percorso che ti attende. Forse fra tre
mesi o un anno o più, quando finalmente il mio corpo lascerà questa terra, tu sarai
abbastanza grande per far sì che qualcosa avvenga.
Ma non desidero perdere questo breve tempo che abbiamo ancora a disposizione per
parlare di cose che non mi è dato conoscere e che dipenderanno dalle mille variabili
derivanti da ogni scelta che chi entrerà nel tuo futuro compirà da oggi in avanti.
Non ti ho scritto in questi mesi, abbiamo a lungo parlato, ci siamo conosciute meglio e ti
ho sentito in quella che è la tua “versione definitiva” di essere umano. Cambierai,
crescerai, gli eventi e la tua volontà ti porteranno in posti che non posso prevedere, ma il
tuo nucleo centrale di persona rimarrà ciò che oggi è ed io sono orgogliosa di te.
Non ho voluto parlarti di quelli che saranno i tuoi genitori perché desidero che tu li
conosca attraverso la tua vita e non con i miei occhi e, per quanto riguarda me e tuo
padre, le nostre lettere ed i lunghi colloqui fra me e te in questi nove mesi, possono dirti
tutto ciò che è necessario.
Quello che voglio mostrarti oggi è il punto d’arrivo di tua madre, la risposta finale che ho
dato alle domande che ti ho posto in questi mesi, l’immagine finale su cui si è fermato il
caleidoscopio che ho continuato a far girare infinitamente nel mio cervello.
In questi ultimi mesi, in casa di quelli che saranno tuo padre e tua madre, ho vissuto
nell’amore. Non passione, amore. Non avevo mai percepito la sua forza, la perfezione
divina di questo sentimento che è pur sempre un prodotto umano. Ho avuto tempo per
riflettere, ho avuto tempo per cercare una mia visione delle cose. Non più per darmi un
futuro al di là del tempo, ma per approfittare dei mesi che mi sono stati donati per
compiere un passo in più in quello che ora considero il fine dell’Umanità.
Sono partita dal male e dall’eterna contrapposizione con il bene. Ho girato un po’ il
caleidoscopio ed ho visto improvvisamente che in realtà non esistono due entità diverse,
ma che male e bene sono degenerazioni in un senso o nell’altro di un equilibrio che è lo
scopo ultimo della natura. Il cieco egoismo e l’altruismo ad oltranza comportano il
mancato raggiungimento di quello che è l’obiettivo della vita: la sopravvivenza con la
massima soddisfazione possibile di se stessi, della propria specie e di tutto ciò che esiste
nello spazio e nel tempo.
La vita si è evoluta, perfezionata, ha creato meccanismi di trasmissione delle nuove forme
che aveva creato per mantenere l’equilibrio. Ho letto che il meccanismo degli istinti ha
radici che affondano nell’origine stessa della vita, mentre la nostra tappa evolutiva è
troppo recente e, quindi, non abbastanza perfezionata. Ti ho scritto mesi fa di quella che io
ritenevo essere la Ragione Unica che si evolveva nel corso del tempo con l’apporto di ogni
essere umano ed oggi il mio pensiero non è molto diverso, ma ora credo che sia la vita
stessa ad evolversi e a perfezionarsi e che la ragione, così come i sentimenti o gli istinti,
siano solo mezzi sempre più evoluti di cui la natura si serve per raggiungere il suo
obiettivo, il raggiungimento della massima perfezione di se stessa. Anche i meccanismi di
trasmissione sono diversi e sempre più evoluti: i mezzi primitivi si trasmettono attraverso
il patrimonio genetico e riguardano singoli individui – se pure nell’ambito di una specie –
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i più evoluti si trasmettono attraverso la creazione di interazioni sociali che proseguono
evolvendosi. Certo, anche questo meccanismo di trasmissione è ancora imperfetto e, a
volte, ci sono mutazioni genetiche non previste nel corso del tempo, ma io sono
fermamente convinta che il meccanismo si migliori sempre di più e ad ogni passaggio ad
un nuovo stadio evolutivo nulla possa più tornare come prima.
Mi viene improvvisamente alla mente un film che ho amato molto, 2001 – Odissea nello
spazio: ricordo bene di aver percepito allora la volontà di proporre l’idea di
un’evoluzione della società umana come di un organismo che nasce quando gli viene
donata la scintilla dell’intelligenza, che vive il suo percorso predeterminato e che muore
quando si affida alle macchine. In quello che è stato un angosciante ed incomprensibile
finale per molti, l’unico uomo che sopravvive e torna indietro perché ha mantenuto la sua
scintilla intatta, costituisce il seme di una nuova specie che è destinata a percorrere lo
stesso cammino. Nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e morte di una specie e della sua
società. In un certo senso la mia visione della vita che si manifesta e si evolve è molto
simile, ma con la differenza che io non condivido la visione ciclica delle cose. Per me nulla
si ripete mai in modo identico e vedo la vita come una spirale che si allunga sempre di più
perfezionandosi per proseguire, forse infinitamente, verso la massima espressione di sé.
Per questo oggi non sono più pessimista e non credo più nella aberrazione del male. Il
male opera contro la vita, che è equilibrio, e conquista gli uomini pian piano, con piccoli
gesti di cui essi non riescono a vedere le conseguenze perché non ricadono
immediatamente su di loro. Poi cresce a dismisura fino a soffocare la vita di tutti fino a
creare l’orrore e il disgusto che ognuno di noi prova quando percepisce qualcosa che gli
ruba lo spazio, il tempo, la vita. Così è successo nella storia, fino alla tragedia
dell’Olocausto e nulla è mai stato uguale a prima, anche se il male ha ricominciato ad
agire lentamente. Ma ogni volta la soglia di percezione del male è inferiore a quella dei
secoli precedenti, ogni volta qualcosa di diverso permette che la spirale continui ad
avvolgersi affinando i suoi meccanismi di mantenimento dell’equilibrio.
Sento che succederanno ancora cose gravissime bambina mia, ma non voglio spaventarti.
Il mondo ha bisogno di arrivare al disgusto per creare nuovi meccanismi di contenimento.
La natura ha i suoi mezzi per arrivare allo scopo e, forse, agisce come i genitori quando
permettono che i figli facciano esperienze dolorose sotto il loro controllo, perché possano
crescere senza soccombere.
Io non prevedo il futuro, ma credo che grandi eventi dimostreranno all’umanità i risultati
che le piccole concessioni al male – apparentemente altrui – producono sull’intera
umanità, sull’intero mondo che noi conosciamo.
Vivendo nella nostra ultima casa ho pensato che sono i sentimenti, più che la ragione –
anche se necessaria a rielaborarli – a costituire l’ultimo mezzo evolutivo escogitato dalla
vita. E al di sopra di ogni altro sentimento è l’amore, il grado massimo di benessere, di
equilibrio fra egoismo e altruismo, fra bene e male, fra uomo e donna, fra singolo e specie,
fra specie e mondo, fra mondo e vita.
Non so che ruolo avrai tu negli eventi che occorreranno quando io non sarò più e non so
nemmeno se esisteranno altri gradini evolutivi dopo il raggiungimento della perfezione di
questo, ma credo fermamente che la spirale non abbia un punto di arrivo, né un percorso
predefinito e che la vita abbia molte più risorse di quelle legate alla nostra dimensione
delle cose. Forse un giorno l’umanità arriverà ad essere pura energia e a non avere la
necessità di un corpo per mantenere l’individualità all’interno del tutto – proprio come
nell’amore, sarà per questo che lo penso? – oppure altre risorse per me inimmaginabili si
formeranno per caso durante il percorso nel tempo, non so, ma questo è il punto a cui
sono giunta figlia mia, questa è l’eredità che ti lascio, la mia personale risposta alle
domande.
Ti amo.
Tua madre
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EPILOGO
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Viola era una bambina allegra, si diceva Marta tenendola in braccio mentre accompagnavano
Claudia per l’ultima volta, uscendo dalla Chiesa.
Erano passati tre mesi da quando era nata e Claudia era uscita dalla sala operatoria in un coma
che era durato fino a due giorni prima. Marta portava ogni giorno la bambina da lei e, spesso,
aveva la sensazione di vedere un sorriso sul volto ormai immobile, ma i medici sostenevano
che si trattava solo di riflessi muscolari. A Marta non interessava la loro opinione e desiderava
che Viola vedesse sua madre fino a quando era possibile. Giacomo si era preso cura di
Claudia che era stata trasferita in una clinica dove il suo corpo veniva curato, protetto, mosso,
come se lei potesse davvero risvegliarsi. Ma tutti loro sapevano che non sarebbe mai successo
e che ancora una volta non riuscivano a comprendere il senso di quello che accadeva, ma
dovevano solo viverlo compiendo le loro scelte.
Viola era una bambina allegra, si ripeteva Marta osservando la folla dai volti annoiati o
fintamente compunti che gremiva la chiesa.
Il giornale per cui aveva lavorato Claudia, ormai diretto da Anna, aveva organizzato un
funerale pubblico all’interno della cerimonia strettamente privata che lei e Giacomo avrebbero
desiderato. Anna, pensava Marta, aveva odiato Claudia ed ora la usava per richiamare ancora
una volta su di sé l’attenzione. Giacomo era stato con lei diversi anni, ma Marta non riusciva a
provare gelosia per quella donna così evidentemente artefatta, con un’espressione tronfia resa
ancora più marcata dall’orgoglio per una gravidanza ormai evidente, anche se ben portata
sotto vestiti d’alta sartoria.
Viola stava calma e composta, perfettamente sveglia, all’interno del marsupio con cui Marta
la trasportava da due mesi in ogni luogo. Così era rimasta per tutta la cerimonia, come se
comprendesse, come se attendesse un evento. Marta smise di pensare quando la bara fu
fermata al centro della chiesa ed una folla di gente ansiosa di far ricordare la propria presenza
all’evento, si riversò su lei e Giacomo per compiere il rito delle condoglianze.
Fu allora che avvenne. Anna si avvicinò a Marta per baciarla e il suo corpo toccò quello di
Viola che le pose una mano sulla pancia.
Ed Anna comprese, in una visione unica e perfettamente nitida, quello che avrebbe mutato i
loro destini quando sentì suo figlio muoversi, ribellandosi a lei e porgendo la mano a Viola,
mentre creavano un legame che lei non avrebbe potuto spezzare nemmeno portandolo nel più
sperduto angolo della terra. Seppe il disgusto che avrebbe provato il figlio all’accadere degli
eventi che lei stessa aveva provocato per donargli il potere assoluto del male e vide la catena
che aveva creato – lei che si era creduta Lucifero – spezzarsi al primo anello. Sentì l’amore
che nasceva in questi due esseri generati da madri che avevano conosciuto gli estremi delle
aberrazioni del bene e del male, l’equilibrio formarsi in loro, la consapevolezza, la fusione
delle loro parti di uomo e donna. Vide che l’enorme potere creato da lei per il figlio, sarebbe
stato usato da quella coppia che era amore perfetto, risultato di equilibri ottenuti unendo il
massimo delle imperfezioni in una perfezione unica.
Provò l’angoscia di conoscere la sua distruzione, di non potere più intervenire, di essersi
intrappolata nella parte che pensava dovesse essere quella definitiva per la vittoria.
Comprese che – come aveva sognato Claudia, mentre apprendeva l’amore e la fiducia con
Viola in grembo – più il male cercava di accrescere la sua potenza, più decretava
irrevocabilmente la sua fine.
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CAPITOLO I......................................... 1
CAPITOLO II ....................................... 6
CAPITOLO III ................................... 10
CAPITOLO IV.................................... 14
CAPITOLO V ..................................... 18
CAPITOLO VI.................................... 23
CAPITOLO VII .................................. 30
CAPITOLO VIII................................. 39
CAPITOLO IX.................................... 44
CAPITOLO X ..................................... 48
CAPITOLO XI.................................... 54
CAPITOLO XII .................................. 57
CAPITOLO XIII................................. 60
CAPITOLO XIV................................. 64
EPILOGO............................................ 66
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RIFLESSI DI UN SOGNO
Patricia Panebianco
Modigliani – Nudo Dolente
ca 1908 – Collezione privata
CAPITOLO I
Sono sdraiata sotto un tiepido sole di maggio quando accade. Lei avanza lentamente sulla
spiaggia con un lento vestito bianco, lungo fino ai piedi, nudi. L’orlo dell’abito sfiora a tratti
l’acqua e si appesantisce, aderisce trasparente alle caviglie mentre lei procede verso di me.
Tiene il capo in una posizione insolita: il viso rivolto verso il calore del sole e leggermente
inclinato a destra. I lunghi capelli spiovono su una spalla e si aprono a coprire la metà del suo
corpo, fino alla vita.
Più si avvicina e più rifiuto quello che vedo. Sono io a camminare. Il suo volto è il mio,
riconosco il mio corpo sotto la stoffa impalpabile che riflette i raggi del sole abbagliandomi.
Ma il modo di muoversi non è il mio: io sono ridicola, a volte, nella mia goffaggine e lei è
leggera e plastica come una donna di Modigliani.
Ancora non si è accorta di me. Forse mi vede come un’ombra al margine del campo visivo,
ma presto le sbarrerò la strada con il mio corpo abbandonato sulla sabbia e dovrà osservarmi
per aggirarmi e proseguire.
Sono ansiosa di conoscere l’espressione del suo volto mentre incrocia il mio sguardo: non ho
altro modo di comprendere se sono vittima di un’allucinazione o se entrambe ci stiamo
osservando in uno specchio che possiede una vita propria.
Quando arriva di fronte a me riporta il capo in posizione eretta, mi osserva, sorride con un
movimento del labbro superiore e dell’angolo esterno degli occhi, flette leggermente il corpo
verso la mia pesantezza poggiata sulla riva. Mi dice: Si avanza con lenti passi, fendendo le
onde della vita, sfiorando appena i fallimenti, il viso rivolto verso il tempo che scorre ed il
passato che aderisce trasparente alle gambe. Domani avrai ancora un futuro e sarà il tuo
stesso avvenire a dirtelo.
Mi scavalca, si gira verso di me, reclina il capo nuovamente e mi dedica un gesto affettuoso
con la mano, muovendo leggermente le dita come un ventaglio che si chiude lentamente con
una mossa da ballerina di flamenco.
È in quel momento che ogni volta mi sveglio. Succede sempre quando un ciclo della mia vita
è finito ed io sento il vuoto intorno a me.
Stanotte, dopo undici anni, lei è apparsa di nuovo di fronte a me. Mi sono svegliata, ho
allungato la mano alla mia destra e non ho trovato il corpo di Stefano. Lui non c’è. Mi sono
addormentata per dimenticare la sua assenza e lei è venuta a ricordarmi che il romanzo è
finito, che devo trovare un’idea per una nuova storia che, come ogni volta, inglobi le
precedenti. Fino a quando? Lei non l’ha mai detto, ma il solo fatto che sia venuta da me
significa che ancora c’è lo spazio per un altro racconto nella mia vita.
Alla nascita mi è stato affidato il pesante fardello del nome Cassandra, che – come nei sogni e
nei romanzi che si rispettino, in cui tutto ha una ragione – ha portato con sé accadimenti futuri
consoni al mito. Pochi intimi amici e molti estranei, incontrati fuggevolmente lungo le
interminabili file agli uffici, conoscono il mio vero nome perché, sin da neonata, sono sempre
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stata apostrofata come Sandra. Non posso nemmeno credere che sia stato per seguire le teorie
educative di Massimo Troisi, perché le sue geniali battute sono senz’altro posteriori alla mia
comparsa su questa terra. In ogni caso aveva ragione perché sono cresciuta bene, molto
educata, rispettosa delle forme e delle apparenze ed ho sempre risposto alle richieste del
piccolo mondo sociale in cui ho vissuto fino all’età di dieci anni.
Nel frattempo il mio vero nome agiva sotto la maschera di normalità del primo ed io,
inconsapevolmente, avevo visioni di realtà nascoste che procedevano parallelamente alle
apparenze e portavano a conclusioni da me intraviste e dagli altri respinte come ridicole, in
cui la mia percezione e gli eventi si ricongiungevano.
Ho imparato presto a celare ciò che vedevo in controluce, così come celavo il mio sfortunato
– per i più, non per me – nome e mi sono adattata a vivere gli eventi “normalmente”, senza
tenere conto di ciò che conoscevo, perché questo mi rendeva possibile un’esistenza uguale a
quella degli altri. L’obiettivo della mia vita, dall’età di undici anni in poi, è stato conformarsi.
Non sempre sono riuscita a controllare le mie manifestazioni, specialmente di fronte a
situazioni in cui cercavo di usare quello che mi ostino, nonostante tutto, a credere un dono,
per tentare di modificare il futuro. Infatti, ho sempre creduto che il futuro non sia scritto, ma,
forse tardi, ho compreso che non sono gli eventi ad essere inevitabili, ma sono le persone ad
essere suscettibili di cambiamento solo in relazione agli eventi e non alla loro possibilità di
accadimento.
Spesso mi sono chiesta, vedendo avanzare la mia sosia sulla spiaggia, se fosse davvero lei il
sogno ed io la realtà, oppure fosse lei a procedere nella vita ed io costituissi solo un riflesso,
un ostacolo pesante da aggirare ad ogni suo momento difficile, uno specchio attraverso cui
dire a se stessa, nel sogno, le parole necessarie per continuare a muovere i propri passi.
Non è soltanto un’idea pellegrina la mia, sono gli eventi della mia vita a portarmi a queste
considerazioni: la mia esistenza sembra costituita da racconti che si concludono e che non
hanno ripercussioni sul futuro, proprio come i sogni e, come nella realtà onirica, solo alcuni
elementi caratterizzanti restano uguali e tutto ciò che fa da contorno cambia, senza alcuna
attinenza con il sogno precedente.
Anche ora, quando allungo la mano e non trovo Stefano, la cosa mi appare stranamente
normale e la casa mi sembra diversa. I mobili, la disposizione delle stanze rispetto ai ricordi,
gli oggetti che il mio sguardo incontra quando mi alzo dal letto e mi aggiro per cercarlo
ancora una volta, quasi che evocandolo potesse comparirmi dinnanzi, dimostrarmi che sono
Sandra e non Cassandra, che sono l’originale e non il riflesso.
Altre cose mi condizionano in quella che sta diventando un’ossessione che, prima o poi, mi
staccherà definitivamente dalla realtà – ammesso che io ne faccia parte – ma la strada del
racconto è lunga e tortuosa. Io, appena reduce dalla constatazione dell’ennesima assenza di
ciò che ritenevo ormai dimostrazione di una continuità e, quindi, di una mia realtà, devo
procedere passo per passo a legare ciò che accadrà con ciò che è accaduto e con ciò che ho il
sospetto che sia un riflesso del sogno.
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CAPITOLO II
Stefano diventa un’ombra sempre di più. Non riesco a ricordare il suo volto e sono passati
appena pochi giorni da quando ha sbattuto la porta come tante altre volte, ma non è più
tornato indietro. Casualmente, dopo un paio d’ore, ho aperto l’armadio per cercare un
maglione più pesante e lo spazio inaspettatamente vuoto mi ha dato la prima percezione
tangibile della sua assenza. Aveva organizzato tutto con cura per non dover discutere,
vigliaccamente come al solito, inscenando una lite comune per poi non tornare mai più. Ho
provato ad immaginarlo mentre si aggirava per la casa in cerca delle tracce di sé da asportare
chirurgicamente in modo netto, preciso, chiudendo la ferita con il filo che si riassorbe, per non
dover tornare indietro. Ho ripercorso il suo cammino, spalancando gli stessi cassetti, gli stessi
armadi ed ho rinnovato ogni volta la consapevolezza del vuoto che è rimasto al suo posto.
Non riesco ad immaginarlo mentre piega le camicie appese ed accuratamente stirate come lui
desidera, mentre prepara metodicamente e velocemente – il tutto non dev’essere durato più di
due ore, il tempo in cui io sono andata al supermercato e dal fruttivendolo a cercare la qualità
delle pere che lui ama tanto – le valigie, mentre spalanca i cassetti della cucina e ruba il suo
adorato set tascabile di apribottiglie-apriscatole-coltellino che gli ho regalato il Natale scorso
e da cui non si separa mai durante i viaggi, le gite in barca, le passeggiate mattutine in
montagna. Non può averlo fatto da solo.
Percepisco la presenza di lei nella casa. Forse, se non fossi perennemente in preda ad una
feroce allergia, potrei avvertirne il sottile profumo – lui non ne sopporterebbe uno intenso –
forse lo stesso che uso io e che lui, così morbosamente abitudinario, le avrà regalato qualche
giorno dopo il loro incontro.
Non sono gelosa della sua presenza in quella che è stata la nostra casa per lunghi mesi. Riesco
a stento a ritrovare dentro di me i motivi per cui io e Stefano un giorno, per me lontano secoli,
decidemmo di condividere lo stesso spazio e la presenza di una terza anima a spezzare
l’incantesimo – o dovrei definirlo stregoneria – non mi dispiace per nulla.
La nostra vita insieme è stata costellata da tanti piccoli desideri che si realizzavano
giornalmente senza nessuna presunzione di eternità. Come ho già detto, ho vissuto la mia
esistenza come la protagonista di romanzi in serie, una Miss Marple provvista di coordinate
fisse entro cui muoversi, ma che viene proiettata di volta in volta in avventure diverse che
iniziano e terminano nello spazio di quelle pagine e che non hanno nessuna attinenza con il
passato e con il futuro.
Forse per questo Stefano è già un’ombra. Di lui rimane solamente qualche fotografia che io
osservo come un dislessico legge una pagina di giornale, sui cuscini del divano qualche
capello resistente all’aspirapolvere, nell’armadietto piccolo del bagno una confezione di talco
da barba sfuggita al veloce, ma organizzato ed efficiente, saccheggio.
Mi sono sempre immaginata, in situazioni analoghe a questa, che il mio originale conservi
nella memoria il raccordo fra i vari episodi che mi permette di vivere nel sogno. Ho provato a
figurarmi come potrebbe essere lo strascico di un amore, il permanere di un’amicizia, gli
auguri di Natale con affettuose domande e commoventi momenti di nostalgia da ricondurre
immediatamente nell’impianto di una conversazione formale, un’incontro casuale per la
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strada. Ma non ci riesco. Tutto ciò che ho vissuto si è troncato bruscamente: vivo in una
piccola città, ma, dopo quasi vent’anni, non ho mai incontrato Flavio, il mio primo vero
amore. A volte mi capita di sognarlo e, in questa perversa idea di essere solo un riflesso, mi
immagino che il mio sogno corrisponda ad un incontro reale di quella donna con la lunga
veste bianca.
Stanotte ho sognato che Stefano bussava alla mia porta. Io aprivo e lo trovavo nel pianerottolo
in compagnia di lei, della donna che è stata qui a raccogliere i cocci della nostra storia. Non
ho nemmeno il tempo di proferire parola e mi spiega che si trovavano a passare da queste
parti perché andavano a pranzo dalla sorella di lei e che a lui era sembrata una buona
occasione per riprendersi il talco che aveva dimenticato. Lei ha un viso a cui non riesco a dare
contorni precisi e, come immaginavo, porta il mio profumo. Lui è sfocato anche nella
dimensione del sogno. Mi sono svegliata in un bagno di sudore e con un senso d’angoscia
profonda per ciò che è stata la mia vita con lui. Probabilmente, ho pensato, sarebbe capace
benissimo di fare un gesto così apparentemente assurdo per chi non lo conosce, per chi non sa
quanto è morbosamente attaccato ai suoi oggetti, per quanto piccoli e deperibili. Ho
ringraziato il cielo per il mio destino che non mi consente di vivere al di fuori dell’episodio in
cui mi trovo se non con il sogno o con flashback consentiti dalla trama attuale.
Mentre mi aggiro per la casa e compio gli stessi gesti di sempre, domandandomi cosa prevede
per me l’autore in quest’ultimo episodio, ripenso al sogno e al senso di leggerezza che provo
da quando Stefano non vive più qui.
La sua presenza era pesante: irritabile, scontroso, a volte maleducato, malsanamente attaccato
alle abitudini e, allo stesso tempo, pretendeva di essere giudicato imprevedibile e un po’ folle.
Probabilmente folle lo era, ma non nel senso che attribuiva lui alla parola.
I primi tempi lo assecondavo, non mi costava nulla e le sue piccole manie variavano solo
leggermente la mia qualità di vita. Poi, poco a poco, lo spazio ed il tempo si sono affollati di
divieti ed era sempre più arduo sopravvivere nella giungla delle sue fissazioni. Non svegliarlo
nemmeno per fare l’amore, non baciarlo al rientro perché era sintomo di abitudine, non darsi
una mano nella vita quotidiana altrimenti non era l’amore a farci stare insieme ma la
convenienza, non telefonare, non toccare i suoi asciugamani, non bere dal suo bicchiere, non
toccargli il viso, non dormire nudi perché le lenzuola potevano essere sporche ed essere
veicolo di infezioni. Negli ultimi tempi, le rare volte in cui facevamo l’amore, non ci si
spogliava nemmeno più.
Oggi, affrancata dalla schiavitù della sua presenza, mi chiedo come ho potuto resistere nella
selva delle sue restrizioni e l’unica spiegazione che riesco a darmi è che lo amavo ed avrei
fatto qualsiasi cosa per averlo ancora accanto.
Ho desiderato con tutte le mie forze che la serie degli episodi fosse finita e di poterlo tenere
accanto a me mentre il mio personaggio si ritirava a vita privata, ma, Cassandra di nome e di
fatto, ho sempre visto il modo in cui sarebbe finita. Forse per questo sono riuscita a non
morire di fronte al vuoto dell’armadio, un mese fa.
La capacità di riuscire a prevedere i comportamenti altrui mi ha sempre accompagnato. Nei
momenti di grande lucidità, quando riuscivo a dimenticare l’idea di far parte di un sogno
altrui, attribuivo questo presunto potere a motivi assolutamente razionali. Avevo sviluppato
una teoria che anche oggi ritengo valida: come un detective ricostruisce i fatti, io prevedevo le
azioni delle persone movendo da piccoli indizi, spesso invisibili agli occhi degli altri.
Ritenevo di avere la dote di accorgermi di un impercettibile corrugarsi di sopracciglia, di una
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variazione infinitesimale del tono di voce al momento di una bugia, di un’incongruenza nella
spiegazione degli eventi. Poi, spesso aiutata dai sogni in cui tutto si dipanava in una trama
evidente, mi sforzavo di trovare la spiegazione in cui tutti i fatti avessero il loro posto.
Ho abbandonato presto l’idea di far comprendere questo agli amici o agli amori della mia vita.
Nella migliore delle ipotesi mi affibbiavano la qualifica di strana, nella peggiore di pazza,
passando attraverso i più disparati insulti fra cui iettatrice, presuntuosa e via seguitando.
Stefano ha raggiunto la vetta più alta, come in ogni aspetto, nel bene e nel male, dicendomi
che ero io a provocare gli eventi per dimostrare che avevo ragione.
Il tarlo del dubbio continua a lavorare nel mio cervello da allora e, ormai quasi da un anno, la
mia occupazione principale è quella di ripassare tutti gli episodi della mia vita per verificare
se ci sia una base di verità nella sentenza di Stefano. Devo dire che riscontrare la determinante
della mia volontà nel succedersi degli eventi non mi dispiacerebbe affatto: potrei eliminare
l’ipotesi di essere un riflesso della vita di un’altra o liberarmi dal peso di una pre-conoscenza
che mi ha sempre impedito di vivere con gioia, ignara del futuro.
Purtroppo, però, nonostante io compia questa rivisitazione costantemente e più di una volta
sui vari episodi – questo per non rischiare di tralasciare dettagli importanti con superficialità –
non riesco a trovare traccia della mia volontà negli accadimenti relativi ai miei rapporti con
gli altri esseri umani. La mia volontà entra in gioco solo all’inizio di un nuovo episodio –
come anche ora sta avvenendo – quando, dopo il sogno della me stessa che tiene il collo così
stranamente, cerco di integrarmi nel nuovo inizio, di comprendere cosa vuole adesso da me
l’autore – che l’autore sia la vita stessa o la ragazza vestita di bianco o un Dio sconosciuto, ha
per me poca importanza – di calarmi con entusiasmo nella storia che procede e che non so
ancora dove mi porterà. Poi, una volta che tutte le carte sono ormai in tavola ed i colpi di
scena sono terminati, uso la volontà per fingere di non conoscere la conclusione, per
continuare a vivere con entusiasmo, per credere ancora che questa volta ci sarà l’addio alle
scene.
È stato proprio mentre rivisitavo la mia vita in seguito alle sue parole, che Stefano, in barba a
quanto da lui stesso affermato, ha messo in atto tutto ciò che io avevo previsto che facesse. Lo
avevo pregato di stare attento, di fermarsi prima, gli avevo fatto notare quei piccoli indizi che,
trascurati, portano inevitabilmente ad una conclusione. È stato per questo che mi ha depistato
e distratto con la sua teoria, non voleva sentire la verità. Ho immaginato spesso la Cassandra
da cui ho ereditato nome e destino, consumarsi lentamente nel tentare di fermare il fato, di
deviarlo, di salvare gli altri e se stessa. L’ho immaginata rassegnarsi ed abbandonarsi agli
eventi. A volte l’ho fatto anch’io, sperando di morire e di non dover soffrire più. Da questi
tentativi si è esacerbata la mia convinzione di credermi il riflesso di un sogno: credo di non
poter morire fino a quando non muore la mia sosia dai lunghi capelli. Ma questa è un’altra
storia ed io oggi sono troppo tesa a comprendere la direzione che dovranno avere i miei passi
nei prossimi mesi ed anni.
L’analista – era di prammatica vista la situazione della mia psiche – mi ha suggerito di non
aggrapparmi al passato. Gli avrei voluto rispondere che, purtroppo, non ho mai avuto la
possibilità di farlo e che, se potessi, tenterei volentieri, anche solo per la curiosità di vedere
cosa si prova.
Mi ha detto di trovare dentro di me ciò che è vivo e ciò che è morto – filosofico in ogni senso
il suo consiglio – del passato, di valutarlo ed evidenziarlo. Mi ha anche concesso di scriverlo,
bontà sua, per poi ricostruire tutto partendo da ciò che oggi sono. A volte mi meraviglio di
come le persone non si rendano conto delle assurdità che dicono: gli spiego che il mio
problema è non sapere se ci sono e lui mi dice di partire da ciò che sono! Sarà un sogno anche
questo?
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Comunque devo provarci, non mi sembra di avere altra scelta. Stefano è andato via per
sempre nel tentativo di nascondere a se stesso i suoi problemi attraverso il rapporto con una
donna che ancora non li conosce, la ragazza del sogno mi ha confermato che l’episodio è
terminato ed io devo pur muovermi se non voglio piantare le radici nel limbo del vuoto di
ispirazione occorso all’ipotetico ideatore della mia serie. Può essere che, se comincio a
muovere i primi passi da sola e faccio la lista di “ciò che è vivo e ciò che è morto” – spero
mia sia concessa l’ironia, è una delle poche qualità che ritengo assolutamente mia – l’autore si
ispiri e mi regali un’altra storia, speriamo più affascinante dell’ultima.
Vado a dormire, chissà che il sonno non mi regali qualche altra ispirazione.
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CAPITOLO III
Stamattina sono rientrata al lavoro.
Sembra che, in questo episodio, fra le coordinate entro cui muovermi ci sia anche l’attuale
impiego, ma altre volte, ad ogni nuovo inizio, ho perso tutto nello stesso tempo. Spero che,
una volta compresa la trama, saprò se sono destinata ad adattarmi ancora o se posso
finalmente dimostrare a me stessa di saper crescere e non solo cambiare.
Da un mese mi costringevo a casa sempre con scuse diverse. Avevo paura di affrontare il
“nuovo che avanza” e la paura si è lentamente trasformata in panico. L’analista mi ha
osservato di nascosto con aria preoccupata: credo che si stia convincendo ogni giorno di più
che sono un caso senza speranze e, poiché non rientro, se non marginalmente, in nessuna
definizione da manuale, tenta angosciato di infilarmi a forza in una o due che rispondono alla
maggioranza dei sintomi. Vorrei spiegargli la teoria di Sherlock Holmes per cui una
spiegazione è valida solo se tutti i fatti vi si incastrano perfettamente, ma temo che questo
aggraverebbe la mia situazione e che potrebbe decidere di abbandonarmi. Per ora sento che la
sua presenza è fondamentale nello svolgimento dell’episodio e non vorrei peggiorare lo stato
di mancata ispirazione dell’autore.
Nonostante tutto e, soprattutto, nonostante i consigli del mio dottore, ieri sera mi sono
guardata allo specchio ed ho constatato i seguenti problemi: un occhio rosso e gonfio da tre
settimane, la schiena a pezzi, una nevralgia al trigemino che mi sveglia la notte e mi fa
impazzire, un ciclo sfasato per cui risulta ridicolo anche definirlo ciclo, i capelli spenti e che
si staccano a ciuffi. Mi voglio fermare per non farmi male e perché il personaggio principale
di una storia non può cadere così in basso, pena l’interruzione della serie. Ho ricordato un
libro letto quando ero una ragazzina, Eutanasia di un amore e mi sono vista come il
protagonista, quando alla fine sta per incontrare nuovamente Xena – mi pare si chiamasse così
– e improvvisamente si rende conto di cosa è diventato e getta il busto per la tromba delle
scale. Se non sbaglio anche lui aveva un occhio rosso e gonfio. Ma sono dettagli, la cosa
importante è che ho deciso di uscire e pretendere, ammesso che questa non sia una vera vita,
almeno il mio ruolo da protagonista all’interno dell’episodio.
Così mi sono ritrovata per strada. Il cuore mi batteva all’impazzata e il cervello mandava
segnali discordanti. Persino il rumore dei motori mi spaventava. Ho provato un moto di
terrore che mi ha quasi riportato a casa quando la mia gamba è stata sfiorata da un passeggino
in cui sorrideva un delizioso bambino con azzurri occhi enormi come quelli di Stefano. Nella
follia ho pensato che, per qualche distorsione temporale, fosse davvero lui.
Devo calmarmi – mi sono detta piano con una voce che era un sibilo fra i denti – e devo
respirare lentamente, profondamente, sentire l’aria che entra dentro i polmoni e si espande,
porta ossigeno ai globuli rossi e questi alle cellule. Tutto questo non può essere sogno.
Mi devo aggrappare a qualcosa di reale – ho ripetuto dentro di me le parole del mio analista
– ed ho afferrato un segnale stradale stringendolo con tutte le mie forze. La mamma del bimbo
con gli occhi azzurri, che nel frattempo aveva preso posto su una panchina, si è alzata
spaventata ed ha preso a correre, con il passeggino che pericolosamente ondeggiava a pochi
millimetri dal bordo del marciapiede, mettendo, così, davvero a rischio la vita del suo piccolo.
Un vigile sullo sfondo mi guardava incerto se muoversi o meno. Ho pensato che forse più che
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per me era preoccupato per la sorte del cartello “zona rimozione” ed il senso di ridicolo della
situazione mi ha salvato, riportandomi ad una solida realtà. È stato così che è finita l’angoscia
e, per una volta, ho benedetto le mie sedute dall’analista, anche se dubito che avrebbe
approvato la mia scelta di aggrapparmi ad un palo sormontato da un divieto di sosta.
Ho acceso una delle mie quaranta-cinquanta sigarette giornaliere – di cui eviterò di parlare,
altrimenti mi incomincerei a sentire declassata da protagonista di una serie a citazione della
Coscienza di Zeno – ed ho rovistato a lungo nella borsa, cercando le chiavi con un gesto
goffamente rassicurante sulla mia identità, mi sono seduta al volante, ho messo in moto e mi
sono lanciata nell’avventura della guida.
Credo di avere ben poche certezze, ma una di queste è che non sono la protagonista di una
serie di romanzi polizieschi: la mia assoluta incapacità nella guida lo rende improbabile, a
meno che l’autore non abbia un malato senso dell’umorismo. Comunque guido lo stesso
perché, a quanto pare, rientra fra le caratteristiche necessarie per la mia sopravvivenza, reale o
immaginaria che sia.
Ho messo in moto – dicevo – e ho percorso i 70 km che mi separano dal paese in cui lavoro,
barcamenandomi fra auto, tir, sorpassi tentati e mancati, clacson impazienti, corna al
finestrino di uno o due esasperati che finalmente riuscivano a dribblarmi e mi superavano con
il piede schiacciato sull’acceleratore, avvolti in un rombo assordante che scaricava la loro
irritazione al prezzo di almeno un litro di benzina.
Sono giunta finalmente alla soglia dell’edificio che fra poco mi accoglierà nuovamente ed il
panico, aggirato durante la guida con elucubrazioni di vario genere sul senso della vita e sulla
vita stessa, mi ha ripreso ed avvolto in una fredda coperta di ghiaccio. Quando mi sento così
prevale in me la convinzione di far parte di un sogno: la voce si blocca all’altezza delle corde
vocali e la bocca si muove senza emettere alcun suono, proprio come negli incubi. Sono
rimasta così qualche minuto e l’allarme del telefonino-agenda mi ha riportato alla realtà con
un suono gracchiante.
Faccio parte di un gruppo sopravvissuto ad una ex-cooperativa formata da insegnanti più o
meno falliti o insoddisfatti di ciò che la Scuola offre a studenti e docenti. Durante l’episodio –
li chiamerò così d’ora in poi, che siano momenti di una vita reale o sogni o romanzi di una
serie – precedente, mentre vivevo una piena realizzazione sentimentale all’inizio della
convivenza con Stefano, incontrai alcuni docenti, precari come me, ad una riunione sindacale
e decidemmo utilizzare le nostre forze e l’idealismo che eravamo riusciti a conservare, per
creare una valida alternativa da offrire ai ragazzi più sfortunati, ai mille volti che ogni giorno
ci passavano davanti diretti verso un destino che, nella più rosea delle ipotesi, sarebbe stato
uguale a quello dei loro genitori.
Ci riempimmo di paroloni, di grandi libri, di sovvenzioni private e statali, acquistammo
banchi, sedie, lavagne, computer, attrezzi per la palestra e li portammo in un edificio, pagato
con un mutuo regionale a tasso agevolato e parzialmente a fondo perduto, circondato da un
giardino fiorito e lontano dai rumori. Fu così che, nell’arco di breve tempo, ci trasformammo
in contabili ed incominciammo a misurare tutto in termini di produttività, rientro economico
delle iniziative intraprese, budget e bilancio. La nostra scusa era la necessità della
sopravvivenza: era vero che tagliavamo, ma almeno quel poco che si riusciva a fare veniva
fatto. E fu così che, per risparmiare lo stipendio del giardiniere, tagliammo anche gli alberi del
giardino ed affittammo la grande area a destra della scuola ad un centro commerciale vicino
che, con grande lungimiranza, lo utilizzò per ampliare il proprio parcheggio e vi costruì una
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sala giochi dove i clienti depositavano i figli ed in cui i nostri alunni si piazzavano dalla
mattina alle otto, dimenticando di entrare a scuola.
Ben presto i consigli di classe, i collegi docenti e tutte le assemblee di rito ebbero lo stesso
valore e le stesse modalità di svolgimento di quelle che ognuno di noi aveva tanto aborrito e,
forse ancora prima di questa mutazione, la maggior parte di noi incominciò ad usare il proprio
tempo per parlare di ciò che sarebbe stato possibile fare se, mentre due o tre persone
continuavano donchisciottescamente a fare quello che era impossibile fare. Nell’arco di due
anni, con una degenerazione progressiva che camminava di pari passo con quella del mio
rapporto con Stefano, la cooperativa si disgregò perché molti passarono di ruolo durante le
assunzioni del duemilauno ed abbandonarono rapidamente l’idealismo per accettare uno
stipendio – anche se da fame – che arrivava puntuale alla fine del mese. Altri non vedevano
più la differenza fra il prima ed il dopo e motivarono la loro scelta con estrema sincerità,
dicendo che se dovevano investire il loro tempo e denaro preferivano aprire una sala giochi
come quella accanto a noi che, sicuramente, vantava più presenze giornaliere della nostra
scuola d’avanguardia. Restammo in pochi: quelli che ancora non si erano arresi e quelli come
me che avevano il terrore del fallimento e dei pezzi di vita che scompaiono nel nulla. La
scuola fu rilevata da due o tre professoresse ben maritate e si trasformò in una fiorente attività
privata in cui attrezzature modernissime sostituirono i commoventi mobilucci che noi veterani
avevamo acquistato con tanto entusiasmo. Il giardino sul retro fu ripristinato, a sinistra fu
costruita una piccola piscina coperta, mentre l’area a destra, con affitto bloccato per vent’anni,
fu recintata e nascosta da una magnifica siepe sempreverde, in perfetto stile inglese. Le nuove
imprenditrici acquistarono per pochi Euro da un povero contadino ingenuo, un vasto terreno
dietro il giardino e lì vennero piazzate una piccola scuderia, due campi da tennis ed un
minigolf. La scuola fu battezzata con un impronunciabile nome inglese e continuò a fruire
delle sovvenzioni regionali e statali per posteggiare gli alunni nella sala gioco accanto – la
società proprietaria, nel frattempo, si era brillantemente accordata con il centro commerciale
per creare una ludoteca in cui gli introiti dei finanziamenti si sommavano a quelli, molto
cospicui, delle macchinette – e promuoverli regolarmente ogni anno e per la licenza media. A
conti fatti, visto l’andazzo generale, ciò costituiva un risparmio notevole per lo Stato che
aveva praticamente dimezzato i centri EDA sul territorio ed eliminato alcune scuole di confine
costosissime in termini di stipendi dei docenti, dal momento che gli stessi alunni ripetevano
due o tre volte la stessa classe.
Io e Stefano discutemmo a lungo se investire anche noi nella nuova società, ma la nostra
relazione era già abbastanza deteriorata da non far desiderare a nessuno dei due di legarsi
all’altro in qualsiasi nuovo progetto.
Fu così che noi “anziani” proponemmo alla direzione un compromesso: si sarebbe costruita
all’estremo della nuova proprietà, dietro le scuderie, una piccola scuola indipendente,
attrezzata secondo le nostre direttive e noi avremmo insegnato lì, tentando di realizzare il
nostro progetto iniziale. La scuola accettò, anche in previsione di eventuali ispezioni e da quel
giorno io entro dall’ingresso principale, posteggio sotto una tettoia di glicine, sfioro con lo
sguardo la facciata del college – come ormai lo chiamano tutti – e mi inerpico lungo un
viottolo sterrato fino alla casetta da dove, forse, un giorno uscirà uno studente con
l’intenzione di cambiare il proprio destino ed io darò un senso a quello che faccio.
Anche oggi, subito dopo il gracchiare dell’allarme, ho aperto lo sportello sotto il pergolato
lilla e mi sono incamminata, scarponcini ed eskimo molto sessantottini, verso quella che
considero la mia seconda casa. All’ingresso i colleghi mi hanno accolto con un’espressione
che era un misto fra il rimprovero e la preoccupazione. Esiste un codice di comportamento fra
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di noi per cui chi si assenta per un tempo superiore a quello strettamente necessario per
evitare la morte, merita la riprovazione di tutti, ma il mio occhio vistosamente gonfio e
arrossato e la mia espressione allucinata devono aver smorzato la rabbia che albergava in loro
già da molti giorni.
Non è cambiato molto da quando sono venuta qui l’ultima volta: pochi alunni che
deambulano nei corridoi consultando il foglietto degli orari, polvere e insetti sospetti
dappertutto, una ventola rumorosa che manifesta l’insospettabile presenza di un computer
nelle vicinanze. Il libro delle firme è, come al solito, introvabile e il registro delle circolari è
sottile come sempre. A nessuno interessa di noi. Siamo solo una prova da esibire a
giustificazione delle richieste di finanziamento ed i nostri stipendi sono compresi nel prezzo.
Non so nemmeno se al college si siano accorti della mia assenza, io non ho telefonato a
nessuno di loro e nessuno mi ha mai chiamato per avere notizie della mia salute o delle
prospettive di rientro. Probabilmente i miei colleghi non avranno riferito nulla – non lo
facciamo mai perché nessuno di noi ha orari o giorni liberi – anche perché ogni volta che
entriamo dall’austero portone principale, arriva un bidello con l’aria di un maggiordomo a
ricordarci che le consegne si effettuano sul retro. Sono certa che i colleghi della centrale,
vestiti in modo consono al ruolo di docenti, rimarrebbero turbati dal sapere che esistiamo
anche noi. In un certo senso siamo come i barboni alla periferia della città: ogni tanto qualche
benestante che ha perso la strada viene ferito profondamente nella sua sensibilità dalla
scoperta di una realtà che non immaginava, di cui aveva solo sentito parlare e che riteneva una
fandonia.
Noi della piccola scuola tentiamo di non ferirli ormai da due anni.
La piccola scuola è organizzata come sempre: gli alunni non sono suddivisi per classi, ma
seguono corsi strutturati sul modello universitario. I dislivelli di cognizioni, competenze,
skills, per usare la terminologia tanto cara al college, sono talmente grandi fra alunni della
stessa età che è impossibile rispettare le direttive ministeriali. Abbiamo anche il problema
della discontinuità nella frequenza, del lavoro minorile, delle pause da riformatorio, degli
abusi e chi più ne immagina più ne aggiunga alla lista. Abbiamo creato un programma di
insegnamento continuo, un non stop che gira come una videocassetta e che copre gli
insegnamenti fondamentali per l’arco dei tre anni e per tutte le materie. Ogni mese parte un
nuovo non stop ed i ragazzi possono inserirsi in una qualsiasi delle classi, in relazione al
punto a cui erano arrivati. Associati agli insegnamenti base ci sono i seminari di recupero,
individualizzati o per piccoli gruppi, per colmare le piccole lacune nei passaggi fra un non
stop ed un altro. Qualche volenteroso, al di fuori delle ore di lavoro, svolge corsi di
approfondimento per alunni meritevoli, ma, a dire la verità, sono davvero poche le occasioni
di offrirsi per il sacrificio. Ogni non stop è affidato ad un unico docente e le materie non
esistono: l’insegnamento è globale ed ogni nuova informazione nasce a catena dalle
precedenti. L’essere dei paria ci ha dato la possibilità di uscire fuori dalle regole ed io sono
stata molto felice di non dover indossare un tailleur ed un paio di scarpe con modico tacchetto
per entrare in una classe con quaranta occhi inespressivi e venti bocche pronte a sciorinarmi la
filastrocca del sacro ed approvato libro di testo.
La mia assenza ha creato uno scompiglio nella partenza dei nostri corsi: un insegnante ha
dovuto sostituirmi e per questo mese è saltato il giro. Tutti dovremo fare salti mortali per
recuperare il gap che io ho creato, ma adesso sono tornata, forse appena in tempo per far sì
che almeno questo lavoro sia definitivamente inserito nella struttura base del mio
personaggio.
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Sono già tornata a casa, l’orologio segna le 18,00, non ho ancora pranzato e non ho più avuto
il tempo di pensare fino a quando non ho rimesso piede in macchina per l’avventura del
rientro – che, naturalmente, è stata una replica del tragitto mattutino.
Credo di aver trovato il modo di conciliare quella che è la mia situazione attuale, cioè
l’incertezza sulla mia reale esistenza, con il consiglio dello psicanalista. Devo ritornare, come
ho fatto oggi, all’ultimo episodio – per ora mi limiterò a quello, ma forse posso provare anche
con i precedenti – e decidere cosa conservare per lo svolgimento del prossimo. Che sia realtà,
sogno o fervida fantasia di un autore che importa? Devo approfittare di questo momento di
stallo che io attribuisco ad un vuoto di ispirazione di chi mi ha generato.
Credo, comunque, di avere dei limiti in questa operazione di recupero e sono, come nella vita,
quelli che riguardano le mie relazioni con gli altri. Io andrei immediatamente a riprendere
Stefano, ma Stefano non potrà più tornare. Non so esattamente se sia stato lui a decidere o se
il mio creatore – ma da ora voglio chiamarla la mia creatrice perché è il suo viso inclinato da
un lato che vedo – lo ha eliminato per sempre, il fatto comunque è che non è in mio potere
farlo riapparire. Adesso ceno, vado a dormire e domani mi metterò al lavoro su me stessa. Ho
deciso di intervenire sul copione ed oggi credo di aver compiuto il primo passo.
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CAPITOLO IV
Sono sdraiata da un’ora fra le coperte della stanza da letto, fuori incomincia a fare buio. Ho
provato a tornare indietro con la mente e cercare di fabbricarmi un’identità, ma, a quanto pare,
è molto più semplice distruggersi che costruirsi.
Da dove iniziare? Sembra la domanda più idiota del mondo, ma è l’unico pensiero che
riempie il mio cervello da stamattina. No, non è esatto. Stefano occupa la maggior parte dello
spazio e la domanda si rimpiatta negli angoli liberi. Dovrei mandarlo via, ma non ne ho
voglia. Mi tiene compagnia, mi stringe in un abbraccio invisibile, mi impedisce di
confrontarmi con la fine della nostra relazione e con la domanda che da questa nasce
inevitabile: se un amore si conclude così, è mai stato veramente un amore? Preferisco
trattenere la sua immagine che trovarmi a rivisitare ogni episodio della nostra vita insieme e
cogliervi dentro il seme del fallimento. So che non dovrei. Il mio analista direbbe che mi sto
aggrappando ad una storia finita per non affrontare la vita, ma che c’è di male?
Perché non dovrebbe essermi concessa questa debolezza? Perché mai dovrei avere fretta di
andare incontro al destino? Perché non posso alleviare una sofferenza con un’illusione? Non
siamo forse, in ogni caso, immersi nelle illusioni?
Mi sono appisolata ed ho sognato. Stefano ed io eravamo sulle rive opposte di un fiume
gonfiato dalla tempesta. Lui gridava qualcosa, ma io non riuscivo a sentirlo. Ogni tanto mi
giungeva qualche frammento di parola, privo di sensi come i frammenti della nostra vita
insieme. Nel sogno risaliva lungo l’esofago una nausea mista ad un senso di oppressione e
vuoto: in Sicilia lo chiamano ruppu a´ vucca l’alma (letteralmente: nodo nella bocca
dell’anima… cioè la bocca dello stomaco, il cardias, ma come si fa a tradurlo??). Non volevo
più ascoltarlo e mi sono costretta a svegliarmi. Per un quarto d’ora non sono riuscita a
scrollare via dal corpo e dalla mente la sensazione di profonda angoscia. Improvvisamente,
però, mi sono alzata di scatto con la certezza di essermi rinnovata interiormente e di avere
bisogno di aria nuova.
Nell’armadio ho pochi vestiti consoni al mio stato d’animo attuale: molti jeans e maglioni, un
paio di giacche a vento, scarponcini e due o tre abiti troppo eleganti, riservati a matrimoni,
feste ed occasioni particolari. Credo che metterò il mio guardaroba fra ciò che è morto e farò
un bel giro per i negozi. Riesco, comunque, a racimolare fra i capi sparsi nei cassetti un twin
set azzurro ed un paio di jeans ricamati e completo il mio look con stivali dal tacco alto – con
la speranza di non fratturarmi una caviglia – e cappotto di pelle comprato con i saldi dell’anno
scorso. Decido persino di truccarmi ed i risultati sono abbastanza deludenti. Conciata così
esco per strada, mi infilo in macchina, rivivo il trauma dei clacson imbizzarriti contro di me,
arrivo al centro e, dopo ben quarantacinque minuti, trovo posto per la macchina e mi lancio
nell’avventura mondana.
In un paio di negozi le commesse mi guardano con un misto fra il ribrezzo e il sospetto. Io
credo che cerchino di intuire il volume del mio portafogli attraverso la pelle della borsa. Mi
disgustano più di quanto io disgusti loro ed esco rapidamente accennando appena un saluto.
Poi, in un negozio dall’aria costosa, una signorina insospettabilmente gentile sembra
interessarsi al problema dello scarto fra il mio giro-fianchi ed il mio giro-vita e distende
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davanti ai miei occhi tutto l’assortimento, sfoderando un sorriso sintomo di
immedesimazione. Le voglio subito bene ed, esclusivamente per questo, esco dalla porta
solamente dopo aver comprato una quantità di abiti assolutamente inutili, visto il tenore della
mia vita. Ma il suo sorriso e la soddisfazione del mio bisogno di affetto mi ripagano
ampiamente del grande vuoto lasciato nel mio conto corrente dopo aver digitato il numero
della bancomat. Mi chiedo per quale motivo, dopo aver fatto stornare intere spese al
supermercato perché non ricordavo il numerino magico che prosciuga costantemente le mie
finanze, lo ricordo con tanta prontezza proprio quando mi sarebbe utile avere una completa
amnesia! Sarà una legge di mercato: più è inutile la tua spesa più il tuo codice bancomat
risalirà rapidamente dai meandri della memoria.
Con i piedi doloranti mi sono portata ad un tavolino del bar più alla moda della città e,
fingendo una disinvoltura che non ho mai posseduto, mi sono comodamente adagiata su una
sedia ed ho ordinato un Martini bianco. È stato in quel momento che l’ho visto ed ho subito
desiderato sistemare quello sconosciuto dalla parte di ciò che è vivo. Io ho normalmente
qualche problema alla vista ed a stento riconosco gli amici ad una distanza superiore ai due
metri, ma ci sono volte che i miei occhi scelgono di vedere benissimo anche da molto lontano.
Era seduto al bancone del bar e parlottava con una ragazza esile, ben vestita e ben truccata.
Aveva un’aria profondamente annoiata e gli stessi occhi azzurri di Stefano e del bambino nel
passeggino. Ho desiderato che mi guardasse ed ho incominciato a cantare fra me e me una
canzone di Gino Paoli – non mi sembrava possibile che fra tanta gente anche tu ti accorgessi
di me – ed inverosimilmente, ha posato lo sguardo su di me, ha borbottato qualcosa alla
ragazza stile fotomodella e si è diretto rapidamente al mio tavolo. Si è seduto senza dire niente
se non: - ciao, scusa il ritardo. Ho rimescolato la mia memoria per ripescare i manualetti tipo
Ora sei una signorina oppure Il galateo di una signorina per bene, che mi avevano propinato
in occasione del mio ingresso nel mondo delle donne, ma non sono riuscita a trovare nulla.
Cosa si fa in questi casi? Che si risponde? Qual è la strategia da seguire per non fare alzare il
portatore sano di quei meravigliosi occhi e non fargli dire: - scusi, l’ho scambiata per
un’altra?
Non sono ancora in grado di rispondere a questi interrogativi, che adesso mi sembrano più
vitali della mia condizione di persona o di personaggio: non sono riuscita a fare di meglio che
arrossire e balbettare due o tre stupidaggini che non ricordo. Non ho ancora chiarito a me
stessa se in trance io sia riuscita a pronunciare delle valide controbattute o se il mio
interlocutore si aspettasse una reazione da imbranata, fatto sta che ha continuato con il gioco
dicendomi che sarebbe stato felice di andare a cena l’indomani come avevamo programmato e
che mi avrebbe telefonato verso le sei del pomeriggio per confermarmi l’orario. Sono riuscita
a reperire un pizzico di femminilità e di spirito di iniziativa fra le pieghe degli anni e gli ho
detto: - ho cambiato scheda nel telefonino, puoi chiamarmi a questo numero da oggi. Gli ho
scritto il numero – dopo aver prontamente e miracolosamente trovato una penna nella mia
borsa… e poi dicono che non esistono gli angeli!!! – su un tovagliolino del bar, ho scolato
l’ultimo sorso del mio Martini per trovare il coraggio di alzarmi e di allontanarmi
dignitosamente sugli inusuali tacchi e mi sono ritrovata fuori in un’arietta deliziosamente
fresca, con almeno dieci anni meno a gravare sui dieci centimetri a spillo che mi sostenevano.
Adesso sono di nuovo a casa. Il mio look è svanito nel solito pigiamone felpato – credo
proprio che dovrò fare un blitz in un negozio di biancheria intima – e mi sono incollata il
telefonino all’orecchio per evitare che, addormentandomi alle nove di sera, come sono solita
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fare, possa non sentire la sua chiamata. Mi accorgo che di Stefano è rimasta solo qualche
traccia sbiadita nella mia mente, credo che lo metterò fra ciò che è morto.
Sono le dieci. Ho cenato, se cena si può definire un pezzo di pane e prosciutto, ho ricordato il
nulla in cui sono vissuta con Stefano, ho esaminato la mia cellulite sotto la lampada alogena
ed ho pianto a lungo la fine di un amore.
Nessuna telefonata è arrivata sul mio cellulare. Probabilmente ho, ancora una volta, fatto la
figura della stupida calandomi in una parte che non mi si addice per niente. Lui avrà
educatamente retto il gioco e mi avrà visto caracollare sui tacchi verso la porta con un sospiro
di sollievo. Ho creduto davvero che un po’ di trucco e qualche tentativo di look aggressivo
potessero trasformarmi in una donna fatale e ammaliatrice? Forse è meglio che restituisca la
palla all’autrice perché io non mi sembro molto esperta nel costruirmi una vita.
Comunque è servito a farmi capire che Stefano è definitivamente un capitolo chiuso. Vado a
dormire, sono davvero stanca. Spero che durante il mio sonno la donna dalla strana postura
sogni per me qualcosa di meglio di quello che lascio qui prima di addormentarmi.
Ho sognato Stefano. Eravamo intrappolati in un’interminabile diatriba che si snodava
partendo dalla linguistica per arrivare alla globalizzazione. Più volte nella nostra vita in
comune abbiamo cozzato su questi argomenti, ma stavolta Stefano si è diretto verso la porta
con un incedere molto simile ad una corsa vista alla moviola e, mentre l’immagine veniva
stoppata con lui a cinque centimetri dalla porta, con la porta a cinque centimetri dal battente
e con i suoi piedi a cinque centimetri dal pavimento, la sua voce distorta, profonda, cavernosa,
rimbombante, minacciosa, furiosa, dirompente fiume che si riversa nelle connessioni neurali
alla rottura di una barcollante diga, diceva: - perché ascoltarti? Tu sei il significante senza
significato, la metafora di una metafora che si riflette nuovamente nell’origine senza
movimento e mutazione alcuna, sei lo spazio non disteso nel tempo, sei il tempo senza
dimensione spaziale, sei l’assenza della struttura, sei un mero riflesso senza corpo né
autonomia, sei l’assenza di codice, sei il vuoto della parola biecamente ripiegata su se stessa.
Tu non esisti, sei un’aberrazione del flusso spazio-temporale. Tu non hai la dignità di segno:
tu sei la macchia di inchiostro sul manoscritto della vita. Mi disgusta la tua caparbietà
nell’attribuirti valore di segno, mi tedia la banalità del tuo significante e l’inconsistenza del
tuo significato, mi fa orrore la commistione di segni, codici, registri, gerghi, generi, contesti
che la tua chiazza nerastra e ondulata sui bordi contiene espandendosi molle e viscida ad
annullare la dignità del segno, del verso, della concretezza ottenuta con la decantazione che
tu neghi.
Ho aperto gli occhi, credo, oppure l’ho fatto ancora in sogno, oppure anche nell’istante in cui
scrivo ancora non sono sveglia o, forse, mai la mia condizione è stata quella della realtà ed io
sono davvero il sogno frutto di un sogno di chi sogna me e Stefano, che è la metafora della
metafora della coscienza che io rappresento e di cui ho tentato di diventare connotazione,
brigando e svuotando la realtà di sostanza. Ho aperto gli occhi, credo, ed ho visto il baratro
dell’incomunicabilità che segue la riflessione sul linguaggio, sulle strutture, sulla
sperimentazione avulsa dalla ricerca di una migliore espressione dei contenuti, sulla
appropriazione indebita della struttura linguistica da parte di una cerchia ristretta di potenti
che tentano di diffonderla preconfezionata e standardizzata come i potenti della finanza
diffondono civiltà preconfezionate con il marchio di qualità. Globalizzazione del pensiero,
morte dell’Umanità. Milioni di persone che non si riconoscono nella cultura egemone e che
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sono state private di una cultura da proporre in alternativa e si esprimono e vivono a
monosillabi. La storia aperta al nulla come al nulla oggi è aperta la mia storia. L’umanità
incerta della sua reale identità come io oggi non so se esisto o se qualcuno mi fa esistere.
Mi sono chiesta se il mio compito è trovare la mia ed altrui storia attraverso la macchia di
inchiostro che si estende, varia forma e ingloba la mia paura e quella del mondo, tramutandola
in struttura controllabile, fruibile, duttile, malleabile. Chiazza nera che contiene ogni colore,
metafora di un codice polimorfo la cui sintassi modella pensieri e realtà individualmente
libere e globalmente intersecantesi senza alcun controllo esterno: strutture linguistiche che si
incrociano mentre le sostanze si incontrano. Parola d’ordine: emulsionare. Mai mescolare,
innestare, rinnegare, regredire, fondere, ma avere pari dignità d’uso e di reperibilità in
funzione non più di contesti ritenuti appropriati a priori, ma della migliore resa espressiva di
un contenuto. Emulsionare codici, registri, persone, culture e collaborare a strutturare una
lingua ed una storia aperte a nuovi contenuti e nuovi mezzi, in cui tutto sia fruibile in ogni
momento, ma in cui le componenti abbiano sempre la possibilità di separarsi e di ritrovare la
propria identità, le proprie radici, la propria complessità strutturale portatrice di significati
unici.
Forse così – ho pensato mentre ancora sentivo la minacciosa voce di Stefano che mi accusava
di essere la distruzione - io, come milioni di altri, potremmo smettere di chiederci se esistiamo
o meno perché, comunque, non verremo mai assorbiti da nulla, ma saremo partecipi alla
creazione di nuovi significati e di nuovi eventi.
Mi sono alzata in preda ad una grande soddisfazione interiore e mi sono mossa rapidamente,
lavandomi e vestendomi con una celerità impressionante per chi ha seguito gli episodi
precedenti della mia serie. Sembrava avessi un appuntamento decisivo per le sorti della mia
vita e per quelle dell’umanità. Nella mente erano chiari i concetti, la metafora del linguaggio
come metafora della vita e della storia, l’alternativa alla globalizzazione, la scoperta
dell’identità attraverso la distinzione fra ruolo svolto singolarmente, come elemento portatore
di una sua concreta realtà ed espressione e posizione all’interno della struttura d’origine, in
cui il senso è drasticamente connesso alla sintassi, alla relazione con gli altri elementi.
Tutto era chiaro e, nella mia letterarietà di docente e, soprattutto, di personaggio, mi
preparavo alla rapida soluzione del problema quando un lampo mi ha attraversato entrambi gli
emisferi encefalici e mi ha riportato alla condizione di apprendista autore.
E come si fa in pratica?
Mi sono – non troppo modestamente, lo ammetto – sentita Einstein con la storia del gemello
che se ne va alla velocità della luce e torna più giovane a dimostrare la validità della teoria
della relatività. Funziona tutto benissimo, ma come lo fai viaggiare alla velocità della luce il
povero gemello?
Ed io come la creo questa emulsione di vite, di lingue, di culture, di storie, di identità, di realtà
e metafore, di espressioni e contenuti? Ed ammesso anche che io sia in grado di crearla, come
la divulgo? Come la sostituisco al potere della globalizzazione che ha prodotto i miei
destrutturati alunni della piccola scuola? Qual è il mio ruolo in questo viaggio all’interno
della storia in cerca del futuro?
Ho rallentato il passo. Ho acceso una sigaretta. Il mio viso ha assunto l’espressione delusa di
un bambino che, già con il cappottino e le scarpe buone, ha appena scoperto che non lo
porteranno allo zoo.
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Molto intelligente da parte mia – ho pensato – visto che sapevo a stento come scrivere un
pezzettino di storia che prevedeva solo una cena con un tizio incontrato per caso ad un
tavolino di un bar! Non so gestire roba da soap opera e pretendo di condurre una rivoluzione
culturale sulla base di un’intuizione linguistica?
La mia autrice è in stallo o sta vivendo un periodo di insonnia e la mia vita è ferma. Io ho
preso le redini con un’incompetenza inverosimile in un personaggio che ha già vissuto mille
avventure ed il racconto procede dentro un labirinto in cui le svolte riconducono sempre al
punto di partenza.
Credo che la mia fretta sia fuori luogo e che farò meglio a sedermi per finire questa sigaretta
con calma e riflettere ancora un po’ sulla mia scelta. Ancora non posso usare le mie doti di
Cassandra: non c’è nulla che si sta svolgendo e, quindi, non c’è nulla di cui possa essere
prevista la conclusione. Adesso si tratta di mettere sulla scacchiera i pezzi per iniziare una
partita, Cassandra agisce solo dopo l’apertura.
Il telefonino squilla e chissà da quanto tempo! L’ho tenuto una notte incollato all’orecchio –
mi viene il sospetto che siano state le radiazioni a generare le mie visionarie intuizioni – e
adesso non so neppure dov’è. Butto all’aria giornali, riviste, maglioni, slip, giacche, appunti,
sigarette, accendini, piante, lampade, soprammobili, urto ovunque e, alla fine, agguanto
l’infernale apparecchio sforzandomi di pronunciare un pronto spensierato e noncurante
mentre il respiro mi si mozza nella gola e reprimo a stento un urlo per un atroce dolore alla
gamba destra in cui si è conficcato un angolo del mio perverso tavolo in cristallo.
- Sono Roberto – ha detto ed io ho riconosciuto dentro di me il timbro musicale che mi aveva
avvolto ieri sera, la voce così diversa da quella cupa e tenorile di Stefano.
- Ciao – e sono rimasta con una frase in sospeso, un’accozzaglia di parole che mi frullavano
all’altezza dell’ugola, prive di qualsiasi ordine sintattico.
- Che stavi facendo?
- Le solite cose… – oddio, che frase stupida! Già letale per qualsivoglia forma di dialogo con
chi si conosce bene, ma con lui anche così ridicola! Proprio come me che mi sento la
caricatura di una donna.
Sento una risata soffocata fra i fruscii che, ormai, sono gli inevitabili compagni delle
telefonate e – Già, dimenticavo…– dice e ride, stavolta apertamente, con un tintinnio
melodioso, una sorta di soffice nenia che sembra più cullarti che deriderti.
Rido anch’io con la mia risata da timida, rauca e soffocata, con la mano sulla bocca anche se
non può vedermi – Già…
- Pensi di riuscire a fare “le solite cose” entro mezzogiorno e venire a pranzo con me? Nel
pomeriggio mi piacerebbe portarti ad un concerto. Che ne dici? – la voce è tenera, dolce,
ferma, irresistibilmente sicura nella sua calma.
- Sì – e gli ho dettato l’indirizzo, dimenticando il gioco, immersa in una strana e nuova
melodia che, per la prima volta, non sembrava venire da un progetto di un’altra, ma dal mio
stesso desiderio di vivere. Mi sono detta in un attimo: sono talmente paranoica che adesso
incomincerò a pensare che sono io ad inventare il mondo, quando, fino ad un attimo fa,
pensavo di essere il riflesso di un sogno altrui.
Ma il mio entusiasmo, adesso, sembra superiore a qualsiasi pensiero metafisico. Ho riso fra
me e me con la mia risata sgangherata, a singhiozzo, con le lacrime, che solo pochi intimi
conoscono, pensando che forse le mie elucubrazioni linguistiche erano solo un modo di me
Cassandra di avvertirmi che dovevo prepararmi alla vita. Altro che storia, destini, metafore,
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emulsioni!! Forse la vita è solo la superficie che vediamo e non ci sono autori, strutture,
destini, doppi, singoli. Forse la vita è istinto, l’istinto che io ho represso per tanto tempo…
No, non ne sono davvero convinta, c’è una forza in me che dirompe, che accompagna la
melodia di Roberto e mi fa credere che lui esiste perché esiste quella forza. Non importa che
ciò sia perché lui l’ha vista nei miei occhi ed è stato attirato a me come un metallo da un
magnete o perché io oggi sono in grado di creare la mia vita e, con essa, genero anche lui.
Riprendo il ritmo del risveglio – sono già le 11,00 – accelero, incurante del livido alla gamba,
do una spazzata alla casa con la tecnica dell’ormai mitica cameriera di mia nonna –
conservando al di sotto dei tappeti la polvere raccolta – e mi ripulisco la coscienza con la
scusa che aspirarla con l’aspirapolvere domani è più igienico. Azzardo un velo di rimmel sulle
ciglia e mi imbratto la guancia ed un ciocca di capelli che non sono riuscita a domare e che
sistematicamente flirta con il mio naso. Prendo la carta igienica e la passo sulle striature nere
ed ottengo un’impressione di deturpante ferita da asfalto. Mi insapono la faccia – sono le
11,15 – mi asciugo, mi trucco nuovamente ed elimino il rimmel dal mio look. Vorrei tentare
con l’eye liner, ma so che con la congiuntivite residuata dal dopo-Stefano, mi ritroverei due
scarafaggi neri al posto degli occhi in mezz’ora. Ah, che infame evento l’avanzare degli anni!
Lento ed insieme veloce, progressivo e ad un tempo improvviso come una catastrofe, un
terremoto, un’inondazione, una frana. Ogni ruga, dapprima segno di personalità e portatrice di
aspettative di una maturità intellettuale, diventa solco, frattura, canyon dentro cui scorrono
impietosamente i rivoli del belletto che dovrebbe nasconderla, misto all’appiccicaticcio umore
della pelle che muta secrezione, disorientata dall’anarchia degli ormoni.
No, non posso essere un’ideazione di un’altra. Sarebbe stolta e sadica a farmi invecchiare. O
forse anche lei vuole sbarazzarsi di me? O forse anche lei invecchia e vuole rivalersi sul suo
personaggio, quasi a scaricare su di lui la iattura, l’infame destino delle cellule che si
preparano alla dispersione finale?
Il mio più grande dilemma adesso – in barba alla fame nel terzo mondo, alla globalizzazione,
al terrorismo, alla progressiva deprivazione culturale – è se mettermi o meno le lenti a
contatto – sono le 11,35 – ovvero se sottopormi al rischio di una recrudescenza
dell’infiammazione all’occhio o rischiare di vagare di fronte al mio portone per ore in cerca di
Roberto e della sua auto. Certo, potrei anche usare i miei tanto odiati occhiali, ma come osare
al primo appuntamento?
Ah, fortunati gli uomini. Possono scrivere capolavori, raggiungere grandi vette, elaborare
filosofiche teorie, partecipare alla storia ed essere inglobati in essa. Mai una trasparente e
polimerica lentina potrebbe farli desistere da una gloriosa impresa come quella che ritenevo
mi aspettasse stamattina. Mai l’onta di un eye liner sbavato potrebbe far annegare i pochi e
mal usati neuroni nella disperazione. Mai cordoncini di grasso mal distribuiti che si affacciano
sotto i tessuti degli abiti potrebbero appannare l’intensità di un incontro, di una conversazione.
Per noi donne, invece, parla il corpo prima di ogni altra cosa.
Getto via i pensieri e, mentre tento di far pace con me stessa indossando un paio di occhiali
senza montatura, mi scoppia nelle orecchie il fragore terribile di un tuono seguito da uno
scroscio di pioggia torrenziale. Mi affaccio alla finestra e, nell’arco di tre minuti, la via dove
abito diventa un tappeto di macchine strombazzanti. So già che la città e paralizzata e che il
mio appuntamento è rimandato di almeno un’ora. Corro a cambiarmi: un paio di jeans, un
maglione, gli stivali, un giaccone impermeabile con cappuccio.
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Ed è proprio in quel momento che gli eventi precipitano ad una velocità serrata e scioccante.
Squilla il telefono ed è Roberto che mi propone di rimandare a stasera il nostro appuntamento.
Non ho nemmeno il tempo di ribattere che il suono del campanello mi costringe a chiudere
precipitosamente e trovo Stefano inzuppato sulla soglia. Vorrei chiudere la porta ma il
telefono squilla di nuovo. Temendo che sia ancora Roberto, corro a rispondere mentre faccio
a Stefano cenno di entrare. È la Preside della scuola che, dopo nemmeno un blando tentativo
di normale conversazione, mi fa esplodere nell’orecchio senza mezzi termini la notizia che la
piccola scuola deve chiudere perché adesso non è più necessaria per ottenere i finanziamenti e
non è sufficientemente produttiva. Stefano mi osserva mentre impallidisco e lo guardo come
se fosse un uccello del malaugurio. La Preside tronca la conversazione – senza nemmeno
attendere che io le attesti almeno la letterale comprensione delle sue parole – e mi comunica
che sono attesa l’indomani alle 10,00 per una breve riunione e per discutere le pratiche di
cessazione del mio incarico. Rimango con la cornetta all’orecchio per qualche secondo
ancora, con il tu tu tu tu tu tu che ha lo stesso tono impersonale della Preside, chiudo e,
meccanicamente, quasi a darmi un contegno di fronte a Stefano, apro una busta che giace
accanto al telefono da un paio di giorni. Piegata in tre con cura da una segretaria esperta, si
dischiude lentamente e, quando l’ultimo lembo si dispiega, mi mostra, con la sapiente scelta
di un Oggetto in grassetto e ben distanziato dal testo, l’ordine di sfratto. La lettera cade a terra
leggera dopo aver scaricato tutto il suo peso su di me che mi adagio sulla poltroncina accanto
al telefono mentre Stefano, incurante di me come la mia Preside, inizia a parlarmi con una
voce alta, piena, rimbombante che provoca un vortice in cui vengo risucchiata mentre perdo
conoscenza.
Mentre sono priva di sensi lei mi appare, sempre con la sua veste bianca e la sua posa plastica,
ma il suo viso ha l’espressione soddisfatta della rivincita. Percepisco il suo pensiero prima
delle parole: ho creduto di potermi mettere al suo posto a scrivere la mia vita, ma non ero
pronta ed ho mollato la guardia. Al primo evento ho lasciato che la trama si facesse da sola ed
ho perduto il filo. Lei l’ha ripreso e ha tirato fino a disfare la mia trama ed a costruirne
rapidamente un’altra che non mi consentisse di ripartire. Mi ha malvagiamente lasciato
l’unica cosa che ero certa di non volere più: Stefano.
Si allontana mentre ripercorro all’insù il vortice fino ad aprire gli occhi sdraiata sul mio letto,
con Stefano accanto con un conosciuta espressione di aperto e sprezzante rimprovero.
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CAPITOLO V
Ancora riversa sul letto, quasi disarticolata così come Stefano mi ha lasciato cadere in mezzo
ai delfini stampati sul mio copripiumone, mi sforzo di aggrapparmi ad un pensiero per
recuperare il filo che avevo annodato qualche ora prima. Fra qualche secondo lui, impietoso
come sempre, inizierà nuovamente a vomitare parole su di me ed io non riuscirò ad escluderlo
dal mio campo uditivo se prima non avrò intrapreso con me stessa un dialogo con cui
sovrascrivere il nastro con la sua voce.
Questa mattina credevo in me. Nella mia capacità di opporre alla presunzione di divinità che
affligge chi dirige la mia storia, le potenzialità creative di un linguaggio ricco di ogni apporto.
Credevo che, attraverso quello avrei catturato gli elementi necessari e avrei diretto la mia vita
attraverso il mondo e con il mondo, modificando il mio destino e forse, persino quello della
mia creatrice. Devo riprendere da qui. Io non desidero ascoltare Stefano. Ma lui c’è, fa parte
del contesto. Come molte altre cose a cui ho lasciato lo spazio di accadere. Vedo Stefano che
inizia a muovere le labbra come un pesce muto dentro una boccia di vetro.Le lezioni di
psicologia alla scuola di specializzazione. Dobbiamo trovare nuove soluzioni usando gli stessi
elementi. Nulla pioverà dal cielo. Flusso di coscienza. Il vortice da cui sono venuta fuori
sembra aver modificato la struttura del mio pensiero. Non c’è una sintassi. Sto cogliendo gli
elementi. Li metto in un canestro. Stefano muove la bocca e le mani e sembra ridicolo. I
delfini sorridono. Stefano si crede già al traguardo, lo percepisco dai lenti movimenti labiali.
Ha scritto il suo copione su una macchina da scrivere e non si è accorto di non aver inserito il
foglio. È un’idea. Anche la donna in bianco non si è accorta che il suo personaggio ha già
un’anima e che non lo fermerà con qualche colpo ben assestato. I delfini nuotano. Cosa fare?
Dove andare? L’I-Ching. Puoi cambiare la città ma il pozzo è sempre lo stesso. Non aspettare
eventi straordinari. Trovare nuove soluzioni con ciò che si possiede. Il pozzo è sempre lo
stesso. Cambia chi fa scendere la brocca. La corda è corta e non si arriva all’acqua.
Sciogliere il nodo e allungare la corda. Stefano muove la bocca sempre più lentamente. Io non
rispondo e lui riprende. Pensa già di avere vinto. Feedback. Non mi sente e continua a parlare.
Chi tiene la brocca è avventato e la rompe sul fondo del pozzo. La corda deve scendere
lentamente mentre stai attento ad ascoltare il rumore della brocca che tocca. Io ci sono
ancora, lei non può eliminarmi senza distruggere se stessa. Stefano ha rotto la brocca. Roberto
c’è, è nel vortice del mutamento. I delfini saltano sulle onde. La casa sono io. L’I-Ching. Il
Creativo dà nuova forma alle cose. Stefano ha acceso la TV e si è sdraiato sul letto. I delfini
si immergono per non vederlo. Non mi toccherà. Non gli interesso più. È sudato al traguardo.
Il telegiornale dice che Bin Laden è vivo. Stefano ricomincia ad essere un pesce nella brocca.
Io non parlo. Lui non muove più le labbra ed ha l’aria soddisfatta del domatore. I delfini gli
danno un colpo di coda per farlo scendere, va in bagno. Ho il canestro degli elementi sulle
mie gambe. La scuola sono io. Il mio raggio visuale si amplia. La pioggia batte sui vetri. Il
mio giaccone è sulla sedia. La borsa è già pronta. Dal bagno sento il rumore della doccia. Il
creativo dà nuova forma alle cose. Il telegiornale parla dei pacchi-bomba. È curioso che
vengano tutti da Bologna. Bologna ombellico del mondo. Sento Guccini che canta dentro la
mia anima. Il mio raggio visuale si estende. Puoi cambiare la città ma il pozzo è sempre lo
stesso. Gli elementi sono sempre gli stessi. Quello che conta è il mutamento. È così che Dio è
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morto? Puoi cambiare la città ma il pozzo è sempre lo stesso. Si deve stare attenti alla brocca,
non al pozzo. Mi alzo. Il telegiornale dà il numero degli SMS per i terremotati iraniani.
Globalizzazione. Società mediatica. La scuola sono io. La casa sono io. Nel mondo ci sono
anch’io e faccio la differenza. Puoi cambiare la città ma il pozzo è sempre lo stesso. Il mio
canestro è pieno. Adesso lo prendo, lo svuoto e riordino i pezzi. Poi uso coesivi e connettivi e
la mia storia sarà riscritta da me. Forse anche la storia della dama in bianco. Non posso tirare i
fuori i pezzi dal canestro sotto gli occhi sarcastici di Stefano. I delfini sbattono la coda sulle
onde. Dal bagno non viene più il rumore dell’acqua a fare da eco alla pioggia sulla finestra. Il
telegiornale parla dei miliardi Parmalat che si muovono vagando dalle tasche degli investitori
a quelli dei frodatori, navigando fra conti bancari per via telematica. Globalizzazione.
Imbroglio. Appiattimento. Struttura schematica senza mutamento. Puoi cambiare la città ma
il pozzo è sempre lo stesso. Devo stare attenta alla brocca. L’ho affidata a mani inesperte e,
quando l’ho ripresa avevo fretta di bere. Stefano fischietta. Guccini canta nella mia anima. Mi
alzo. Infilo il giaccone e sto attenta al canestro. Borsa, quaderno, penna, portafogli, patente,
telefonino, auricolare, chiavi della macchina. Stefano urla alcune parole che il mio cervello
trasforma in un’accozzaglia di fonemi privi di significato nella loro nuova combinazione. Il
Creativo dà nuova forma. Nuove soluzioni con gli stessi elementi. Guanti, sciarpa, ombrello,
rossetto. Saluto i delfini che si immergono prima della tempesta. Il telegiornale parla di sport.
Stefano abbassa la maniglia. La porta del bagno e quella di casa si aprono
contemporaneamente. L’aria è gelida. Stefano alza gli occhi dalla tastiera su cui scriveva e si
accorge che non c’è il foglio. Tengo stretto il canestro. La porta di casa si chiude dietro di me
e davanti ad uno Stefano nudo, profumato del suo talco da barba riconquistato e pronto a
raccogliere il frutto di quella che credeva una vittoria. I delfini ridono sott’acqua.
Nuove soluzioni con gli stessi elementi. Stefano e la dama in bianco osservano le loro parole
rimescolarsi e fagocitarli.
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CAPITOLO VI
Piove. È uno dei pochi elementi di cui percepisco l’assoluta realtà mentre vago per le strade
inondate da un fiume denso e giallastro tipico delle nostre città dagli impianti mal costruiti.
Piove. Ma come piove? Piove è il linguaggio povero di chi frequenta la mia ex piccola scuola.
Piove. Se devo iniziare a scrivere la mia storia senza che altri intervengano a definirne gli
eventi e ad insinuarsi fra le pieghe del mio racconto per deviarne il corso, devo sentire dentro
di me come piove. A dirotto. Banale. La pioggia fitta lascia a mala pena intravedere i barocchi
palazzi di fronte a me. Esteriore. Come piove dentro di me? E come esprimere la pioggia
dentro di me con un linguaggio che non sia incomunicabilità? Lagrima. Ancor più banale.
Gocce di pioggia si raccolgono sulle sopracciglia e si dividono scendendo sulle guance mentre
cerco la mia pioggia. Lava le lagrime. Trascina il dolore riversandolo nei rivoli che corrono
lungo i marciapiedi in pietra lavica. Scroscia sugli abiti penetrandoli fino al corpo, gelida e
bollente ad un tempo. Si espande su di me. Batte sul metallo delle automobili. Tintinna sui
cristalli dei palazzi. È conchiglia nell’ingorgarsi dei tombini. Cascata sulle scalinate del
centro. Stagno nelle piazze. Fiume sulla via Etnea. Torrente sotto gli archi. Mare sul mare.
Ogni cosa in questo istante dentro di me.
- Non si può parlare della pioggia. È già stato detto tutto. – mi dice il mio collega poeta,
sussurrando in un angolino dell’orecchio dove non arriva il rumore potente dell’acqua – se
scrivi la tua vita e piove, parla del sole. Il sole sì che è un bell’argomento che può ancora non
essere banale!
Ma piove! La mia anima si ribella ad un linguaggio che non rappresenta la realtà, ma la
inventa. È ciò che ha fatto la mia autrice per anni ed io non ho una vita. Coloro che mi
circondano non hanno un’identità perché non sono in grado di definirla con il loro linguaggio
e quello che dovrebbero prendere in prestito dai poeti è destinato all’incomunicabilità, alla
falsificazione, alla rappresentazione per codici conosciuti solo dai pochi eletti di una setta
segreta che si è andata sempre più restringendo, fino a quando loro sono diventati gli unici
membri.
Piove. Lo canto. Lo scrivo. Lo sento. E la pioggia mi scorre sugli abiti e dentro il corpo, mi
avvolge, mi tocca, mi bagna e, perché no, banalmente mi inzuppa. Perché è così che mi sento,
inzuppata.
Ed è regalandomi questa consapevolezza, che la mia interiore dissertazione sulla pioggia mi
ha convinto ad entrare in una trattoria – putia dalle nostre parti – dall’aspetto più casalingo
che popolare. Una donna sformata sulle braccia e sui seni mi ha letteralmente spogliato del
giaccone e mi ha sistemato ad un tavolo accanto alla stufa prima ancora che io potessi
pronunciare una sola parola. È tornata dopo due minuti con un menù scritto a penna su un
foglio di quaderno a quadretti ed una brocca di vino rosso.
Mi verso un po’ di vino in un bicchiere con il fondo doppio, di vetro spesso, pulito ma opaco
per l’età e per un’asciugatura poco accurata. Ne bevo un sorso e sento il calore denso dei
nostri vini scendere per l’esofago. Inizio a guardarmi intorno. La donna che mi ha accolto ha
una cinquantina d’anni, i capelli corti e ricci, la faccia rotonda la bocca quasi sdentata. Sorride
a due uomini piuttosto anziani, seduti di fronte a me e sdentati anche loro. Sono gli unici
clienti, forse sono parenti e stanno, come ogni giorno, pranzando a quel tavolo. La donna
indossa una maglietta di cotone bianca con le maniche corte da cui sbuffano le grasse braccia,
una gonna nera al ginocchio, ciabatte nere aperte ed un grembiule a quadretti bianchi e blu.
Anche le tovaglie sono a quadretti. Le tocco. Sono di carta. I quadretti sono verdi e bianchi.
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Le posate hanno il manico in plastica. Il coltello ha i bordi ben taglienti e seghettati. Pratiche.
Sincere. Sono come le mie posate. Forse come me. Un ricordo di Stefano mi appanna la vista.
Una sera a cena, la prima sera a casa mia, un commento sgradevole, come da allora in poi
Stefano era stato: - strane queste posate, mi danno l’impressione di stare in trattoria. Una
coltre di ghiaccio era scesa, ma io avevo presto rimosso la frase per continuare la storia che la
mia autrice continuava imperterrita a battere sulla tastiera del computer, o forse dei sogni.
Non devo più pensare a questo. Forse la dama bianca è solo una mia invenzione, un mio alibi
e fino ad oggi la mia vita si è scritta da sola perché io non ho avuto il coraggio di esprimerla,
viverla, amarla.
Lo sguardo si solleva dalla sensazione di vuoto delle posate e passa sui muri. Bianco sporco è
la definizione esatta della loro realtà e non del colore. Le ditate sulle pareti potrebbero
testimoniare quanto si è mangiato lì negli ultimi anni. Il pavimento è pulito anche se
sconnesso. È a quadretti come tutto il resto. Quasi al soffitto inserti ad archi in tegole rosse
con forme di rame appese a ganci di ferro battuto, testimoniano un antico intento di lusso. Su
alcune mensole in rovere spesse e venate sono adagiati i corpi vuoti di vini pregiati. Alcuni
fiaschi, con la base in paglia intrecciata finemente, sono appoggiati su un muretto che divide
la cucina dalla sala. Di fronte alla porta di ingresso evidentemente nuova, in alluminio
anodizzato e vetro opaco, si staglia una parete ricca di foto degli anni cinquanta e sessanta.
Volti allora noti sorridono accanto ad una versione magra ed avvenente della donna che mi ha
accolto e ad un uomo che deve essere il grasso e curvo cuoco che intravedo sul fondo.
La voce della donna mi chiede cosa desidero mangiare ed io le ordino un antipasto di
formaggi e salumi. Le chiedo se hanno pane. La donna annuisce stranamente come se la
domanda fosse inadeguata al luogo.
Situazioni comunicative. Dovrò ricordarmelo. Espressioni adeguate al contesto. Sembra che
ciò che ho studiato sia rimasto lettera morta.
Lingua viva. La lingua è viva quando è usata per comunicare. Altrimenti è morta anche se il
suo dizionario cresce artificialmente con l’opera degli addetti ai lavori.
Non ho nemmeno il tempo di far sedimentare le mie riflessioni e l’antipasto è già sul tavolo
come se la donna aspettasse da stamattina il mio arrivo. Mi viene il sospetto che anche questa
mia pretesa scrittura autonoma del copione sia un escamotage letterario della mia autrice.
Ricaccio indietro il pensiero perché sento da giorni la sua fibrillazione dentro le mie ossa e la
vedo nei sogni, ancora con la sua plastica e sofisticata posa, ma con una nota di tensione sui
muscoli che irrigidisce il tutto in un ghigno.
La donna porta il cesto del pane. Cerco di trovare dietro le sue cellule adipose la traccia della
donna nelle fotografie. Dagli occhi traspare ancora la luce della seducente giovinezza. Penso
con le parole di Vittorini: ha ancora vecchio miele in sé. Ecco la lingua viva. L’espressione
che si insedia nel tuo cervello a visualizzare un atto, una forma, un’azione e che la definisce
per sempre. E tu la riprendi dai ricordi altrui e la inserisci nella tua lingua. Diventa tua, ma è
sempre lei. Diventa di entrambi, di chi l’ha generata e di chi l’ha usata.
I due anziani sghignazzano al tavolo con la risata dei vecchi. È una gita in cerca di espressioni
quella mia di oggi. Espressioni della pioggia, dei muri, degli oggetti, degli uomini. Passato e
presente che si intrecciano come la paglia dei fiaschi e si incrociano con il mio sguardo.
Espressioni ed impressioni che generano la mia strada, la definizione di ciò che sono e ciò che
divento.
Assaggio la provola. Ha il sapore dell’infanzia. Stento a ricordare, la mia autrice non ha mai
voluto darmi un’infanzia definita. Ma il sapore è quello di una tavolata in una casa di
campagna con un grande cortile davanti. I cani abbaiano, i polli starnazzano sulle mattonelle
grigie dell’aia, la tavola è lunga e piena di donne e uomini simili alla donna e agli uomini
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della trattoria. Tutti ridono a bocca spalancata mentre addentano e masticano un cosciotto,
forse di capretto. Al centro della tavola salumi e formaggi in piatti uguali a quello che mi sta
davanti. Fette grosse di pane di casa profumato tagliato sui seni grassi delle donne si
accalcano in cesti di vimini intrecciati come il mio cesto.
La cesta degli elementi. L’ho tenuta in salvo dalla pioggia e l’ho posata sul pavimento a
quadri neri e bianchi. La tocco. Oscilla sulle sconnessioni fra le mattonelle. Gli elementi si
risvegliano con il movimento. Metto la cesta sul tavolo sull’onda di un’infanzia mai vissuta –
ma che forse riavrò nel ricordo – ed estraggo tutto. Il tavolo si riempie, gli elementi
circondano il piatto, il bicchiere, le posate, la brocca, i formaggi. Qualcuno marginale lo metto
sulla sedia accanto alla mia . Mi verso un altro po’ di vino. Assaggio la tuma. Addento una
fetta di pane con la fame dei bambini all’ora della merenda.
E mi fermo. Un’occhiata a tutto insieme. Chiudo gli occhi. Da quale elemento far partire il
filo della mia vita? Ciò che è vivo e ciò che è morto. Non sono d’accordo. Tutto è vivo. Si
tratta di comprendere quale tela è già stata ultimata, quale ancora ha bisogno di decise
pennellate per prendere forma e significato, quale sarà la prossima e quali saranno i suoi
colori.
E mi fermo. Un’occhiata a tutto insieme e già qualcosa emerge dal mucchio e tenta di
avvicinarsi al bordo della tavola.
E mi fermo. Un’occhiata a tutto insieme e alcuni pezzi si spostano intorno agli oggetti ed
iniziano a costituire una forma.
E mi fermo. Un’occhiata a tutto insieme ed alcune forme sono nette e distinte e devo solo
prenderle e viverle. Altre le dovrò costruire su ciò che ho.
E mi fermo. La donna dai seni grassi si avvicina a me e mi chiede: - lei è una maestra? Non
voglio deluderla precisando insegnante e chino la testa. Si vede subito – mi dice e si allontana.
E mi fermo. Inizio da qui.
Sono convinta che il mio lavoro è necessario perché anche una piccola parte del mondo si
trasformi e cresca. Il mio lavoro è costruzione. Il mio lavoro è mettere insieme i pezzi. Ma
fino ad oggi è stato fine a se stesso, limitato ad una interazione con pochi alunni, fuori da un
contesto sociale. Un linguaggio privilegiato senza aderenza alla realtà. Forse finalizzato alla
vita nella realtà, ma non aderente a questa perché io non vivevo in una società, restavo
immobile nella mia fissità di personaggio che rimane sempre uguale a se stesso anche quando
interagisce con il mondo. Episodio dopo episodio tutto ripartiva da zero. Io ero sempre io
nella nuova avventura. Nessuna vera comunicazione. Nessuno scambio. Nessuna
integrazione. Nessuna emulsione. Solo contatto esteriore.
E mi fermo. Inizio da qui.
Vivo nel mondo. Nella pioggia che batte incessante anche se i poeti cantano il sole. Nel
dolore degli abbandoni che lasciano tracce indelebili e non si risolvono in una catarsi
linguistica purificatrice. Nella trattoria con le posate da trattoria e con la donna grassa che è
stata bella e che passa davanti alle foto con aria altera mentre si vede ancora con i seni alti e
sodi e la vita stretta e sorride dentro di sé con i denti bianchi e scintillanti di un tempo. Con il
fantasma di Stefano dietro le spalle che tornerà ancora e che mille volte ripercorrerà la strada
dell’errore senza cambiarmi, perché la sua tela è finita e mancano solo alcune inevitabili
pennellate. Con il cuoco che ha cucinato per i più grandi attori e ancora oggi frigge i suoi
pesci nella padella come se fossero destinati a loro. Vivo nella mia città barocca gonfia di
odori che si infiltrano nelle narici con forza. Nel mio paese sconfitto dalla televisione. Nella
mia epoca in cui la coercizione operata dai pochi sui molti è ancora più subdola che nella
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storia perché è operata a monte con ingegno tramite la dipendenza totale: il pensiero libero
non è ostacolato, è inibito dall’assenza di mezzi linguistici che sono di proprietà dei pochi e
che sono falsamente resi disponibili.
E vado avanti iniziando da qui.
Non so agire politicamente. Io sono un’insegnante e questo so fare. Posso farlo diversamente,
però: posso mettere le mie consapevolezze ed i miei mezzi a disposizione degli altri. Scrivere
o scrivere la propria vita nel mondo è lo stesso quando lingua e realtà coincidono.
Forse dovrò essere meno criptica, ma sono sicura che imparerò.
Agguanto una fetta di salame ed un pezzo di pane con rinnovata ingordigia. L’autoironia che
sento arrampicarsi sui miei pensieri e farsi nuovamente strada mi rassicura sul fatto che sto
riprendendo la penna dalle mani della dama bianca.
La donna delle foto mi propone un piatto di spaghetti al nero delle seppie. Acconsento con
gioia e mi verso altro vino.
Do un’altra occhiata agli elementi rimasti sulla tovaglia ancora senza nessun legame fra di
loro. – Non esiste solo il lavoro – mi dice la cesta dal pavimento.
- Dovrei ridere? Parliamo della vita privata? – le rispondo.
Non ho famiglia. La mia autrice ha prodotto per me un passato da orfana che ha ripetutamente
fatto e disfatto le valigie fra una casa e l’altra.
Di me si conosceva solo il nome, scritto a penna con una bella calligrafia su un braccialetto di
carta che ancora conservo ed il fatto che portavo vesti di buona fattura ed ero adagiata e ben
coperta in un passeggino di marca.
Non ricordo i nomi delle varie coppie che mi hanno ospitato, né la scuola, né se mai ho
dormito in una stanzetta piena di bambole. Quei pochi sprazzi di luce sul passato potrebbero
essere frutto di un mio sogno o potrebbero essere stati carpiti ai sogni della dama bianca che
mi ha guidato fin qui.
Quello che so è che sono stata esclusivamente in collegio – il termine con cui gli assistenti
sociali amavano definire l’orfanotrofio – a partire dall’età di dieci anni e che l’unica donna
che si occupava di me era una gentile signorina molto affettuosa che morì prima che io
compissi i diciotto anni e che mi lasciò una somma sufficiente a pagare l’Università.
Iscritta alla facoltà di Lettere, lavoravo e studiavo per mantenere il mio primo appartamentino
ed, ogni tanto, permettermi un bicchiere di birra con gli amici. Devo dire che questi eventi
erano sempre rari perché le mie premonizioni da Cassandra e le apparizioni della dama
bianca, facevano presto dileguare le persone che frequentavo.
Credo che la mia autrice abbia costruito questo passato per me e che, successivamente, abbia
diviso la mia vita nei vari romanzi – o sogni, ma fa differenza? – in modo talmente netto che
nessun evento o persona è mai filtrato da un periodo all’altro. L’apparizione di Stefano oggi,
così come le mie riflessioni su di lui nei giorni precedenti sono il segno della sua stanchezza e
superficialità nell’intraprendere una nuova storia, dando per scontata l’ispirazione e la
caratterizzazione del suo personaggio.
Le uniche cose che, quindi, posseggo del mio passato, adagiate sui quadretti verdi e bianchi
insieme all’antipasto e al vini, sono gli strascichi del mio rapporto con Stefano, i colleghi
della scuola, gli alunni e, come unico esempio della mia volontà di avvicinarmi ad un altro
essere prima di aprirmi totalmente al mondo, Roberto.
Do un’occhiata ai pezzi. Zittisco la cesta. Compongo io quelli restii in un abbozzo di tela.
Incomincio da qui – dico, sussurrando le parole con voce ferma.
Restano pochi elementi ancora sul tavolo e la maggior parte riguarda me. Ho stabilito cosa
sarò nel mondo, ma cosa sarò con me stessa?
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La donna con il grembiule a quadri allacciato sotto i grassi seni appoggia davanti a me il
piatto con gli spaghetti al nero. Fa piovere da una grattugia antidiluviana la ricotta salata sulla
cima della montagna di spaghetti e mi sorride sdentata e compiaciuta del mio appetito.
Tralascio gli elementi su me stessa – ma sarà vero o assaporare il cibo è uno di questi? – e mi
dedico ad abbattere la montagna. Mi piace pensare al valore simbolico della presentazione di
un piatto. Il sapore stesso dipende da come si manifestano visivamente le vivande a chi le
gusterà. In più esiste un valore aggiunto che è dato dalla senso intrinseco che quel piatto
assume nella nostra cultura. Negli spaghetti al nero tutto è catanese: la pasta lunga,
ingrediente fondamentale sempre sulle nostre tavole – la pasta corta è riservata per lo più ai
piatti preparati al forno – le seppie del nostro mare, la ricotta salata. Ma il risultato finale è il
nostro Etna: una montagna nera di pietra lavica ricoperta dalla neve.
Ho divorato l’Etna in pochi bocconi e mi sento sul volto l’espressione di un gatto soddisfatto.
Credo che i vestiti che ho comprato da poco incominceranno a stringermi in vita, ma,
probabilmente, non avrei mai avuto occasione di indossarli o, forse, desiderio di farlo a
prescindere dall’occasione. Esamino con la pigrizia della digestione gli elementi ancora sul
tavolo. Non sono una donna ammaliante, non sono in cerca della notorietà priva di contenuti,
sono scomoda ed ho una percezione interiore delle mie emozioni starata rispetto alla norma. E
questo mi piace. La dama bianca mi ha messo accanto solo persone che distruggevano il mio
equilibrio interiore facendo leva sul dislivello fra la mia percezione di me e la taratura
accettata nella società. Ho vissuto in un limbo in cui attutivo ogni reazione portandomi
sempre di più verso il baratro della follia. È stato il volteggiare sul trapezio, lanciandomi
senza la rete della mia volontà con il cerchio di sabbia sotto di me pronto ad inghiottirmi, che
mi ha forse portato alla ribellione aperta nei confronti di chi ha gestito fino ad oggi la mia
vita. Ribellione tanto più dirompente quanto meno attesa da chi mi teneva stretta nella morsa
della paura e della solitudine.
Gli ultimi elementi si sono aggregati. Qualcosa resta fuori, ma forse è così che deve essere per
permettere i mutamenti che si rendono necessari quando si scrive la propria vita. Infilo
nuovamente tutto nella cesta e sorrido al mio piatto vuoto, alla brocca del vino, alle foto sulla
parete, ai fiaschi, ai quadretti della mia tovaglia e, soprattutto, alle sincere posate da trattoria.
Sorrido di un sorriso tutto mio.
Sorrido di un sorriso che è paura e vita insieme.
Sorrido di un sorriso che apre la porta a me stessa per rinascere.
La donna si avvicina al tavolo reggendo sulle grasse braccia un’insalatiera colma di frutta di
stagione. Sorride anche lei e mi accorgo che ha sempre avuto il mio sorriso di adesso.
Chiedo il conto.
Prendo il telefonino dalla borsa e chiamo Roberto.
- Ciao. Sono Sandra, ti disturbo?
- No, stavo per chiamarti quando ho sentito il telefono squillare. Dove sei? Hai visto che ha
smesso di piovere?
- No, sono seduta al ristorante ed ho appena finito di asciugarmi e di mangiare.
- Come mai sei uscita da casa?
- Troppo lungo da spiegare. Che fai?
- Pensavo di venirti a prendere per camminare insieme lungo le strade ancora bagnate. Che
ne pensi?
- Ci vediamo fra mezz’ora davanti al Duomo?
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- Mezz’ora. Va bene. Io sarò quello con il garofano rosso all’occhiello, casomai non ti
ricordassi bene di me.
Mi giunge,attraverso il fruscio della comunicazione, il suono soffocato della sua risata che mi
è stranamente amica, nonostante l’abbia sentita solo due volte.
- Io sarò quella con l’aspetto della “ripescata dal fiume”, se per caso non ti dovessi
ricordare bene di me. A fra poco.
Mi stupisco di me: non mi credevo capace di sostenere il peso di un possibile rifiuto. Ho
sempre lasciato che fossero gli altri a farsi avanti o a ritornare da me. Roberto insinua nel mio
corpo e nella mia vita una leggerezza che mi è congeniale ed estranea ad un tempo. Desidero
sapere di più. Su di lui. Sulla sua vita. Su di me.
La donna del ristorante mi porta il conto. Sono passate meno di due ore da quando l’ho vista
la prima volta e non mi sembra più così grassa. Scorgo suo marito che solleva gli occhi
dall’unta cucina e la divora con lo stesso sguardo delle fotografie. Le sue braccia e i suoi seni
mi sembrano pronti ad un consolante e caldo abbraccio materno.
Pago e raccolgo le mie cose. Sulla sedia accanto alla mia trovo alcuni elementi poggiati là e
dimenticati nella mia operazione di assemblaggio. Un figlio. Voglio un figlio. Ecco il tassello
mancante, il desiderio da sempre disatteso nello svolgimento dei miei episodi, il motivo,
forse, della mia inesorabile rivolta contro il destino costruito per me dalla mia creatrice.
Voglio un figlio. Voglio che anche le mie braccia ed i miei seni diventino caldi guanciali per
il suo sonno. Voglio che sollevi il suo sguardo ancora incerto e veda me, sua madre, un capo
del filo del destino che si snoderà libero fino alla fine. Voglio un figlio, il pensiero dolce o
cupo della mattina, l’ansia di una notte malata, l’ardore di un discorso da adulti con lui, la mia
carne nella sua carne per sempre, anche se lontani, anche se con vite diverse. Voglio un figlio,
un’unica origine di due strade che corrono appaiate e poi si diramano, biforcano, curvano,
incrociano e nuovamente si separano. Voglio un figlio.
Mi adagerei dentro le molli braccia della donna che mi porge il giaccone ormai asciutto. Vi
appoggerei il capo e mi rannicchierei nell’incavo fra il seno e il bicipite appena delineato sotto
la soffice coltre di adipe. Lo farei per provare almeno una volta ciò che desidero per mio
figlio. Lo farei per me. Lo farei per far apprendere al mio corpo come accogliere un altro
corpo circondandolo d’amore senza soffocarlo. Lo farei perché sono stanca, ma ho ancora
voglia di vivere e di dare vita. O amore. Ma forse è la stessa cosa.
Mi avvolgo per un attimo fra le sue braccia mentre mi aiuta ad indossare la giacca e mi
accontento di questo. Mi incammino verso l’uscita e la donna dai denti bianchi mi sorride
dalla fotografia con la sua vita stretta ed il suo largo bacino pronto per dare vita. Faccio pace
con il mio corpo. Ogni suo stato risponde ad una funzione: non è lui ad abbandonarci, ma
siamo noi a non seguirlo nella strada che sa di dover percorrere. Penso a questa mattina ed
alla mia preoccupazione di essere all’altezza di un modello prescelto non so da chi. Penso a
questo primo pomeriggio immerso in una nebbiolina umida e luccicante mentre io vado
incontro ad un uomo che non conosco ed ho la testa coperta di ciocche ribelli ed ancora
umide, il viso lavato da lagrime e pioggia, gli occhiali sporchi di gocce e di ditate al
formaggio ed una dote emozionale di un passato che non è un passato e di un futuro che cerco
di inventarmi e che non so se mi sarà mai concesso.
Varco la porta della trattoria. So che Roberto mi accoglierà. Lo farà come oggi mi ha afferrato
la pioggia, come lì dentro mi hanno avvolto le braccia di una donna sfiorita dalla vita ma
ancora piena di vecchio miele. Vorrei che la vita sfiorisse anche me. Vivere è anche vedere i
propri petali che scendono lentamente e si avvizziscono mentre lasciano scoperto il cuore, il
seme che darà altra vita, un nucleo colmo di vecchio miele ancora dolce, forse più dolce di
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prima. Vorrei vedere allora lo sguardo del mio uomo che ha negli occhi ancora il fiore che
ero, la donna che sono, sono stata e sarò ed il cui corpo è solo un indicatore di stato, un
contatore che misura gli attimi trascorsi.
Percorro il marciapiede lucido sfiorando la pietra nera degli Archi della Marina. Attraverso gli
spazi lasciati liberi dalle volte e da cui il mare si affaccia scuro e ribollente mentre mormora
litanie dimenticate, apprese nei secoli dalle donne dei pescatori: scongiuri contro la malasorte,
canti d’amore per lo sposo desiderato, preghiere di pesca fruttuosa per sfamare le bocche
avide dei tanti figli. Di fronte, sulle vecchie case che si specchiano negli archi, sventolano
ancora, appese a lunghi fili, lenzuola bianche come allora. La pioggia ha portato il profumo
del mare. Denso. Dal sapore di ricci e pesci gettati in una cesta. È sempre una cesta a
contenere il nutrimento, la vita. Per i pescatori, per i contadini, per me che tengo stretta la mia
con cura ed apprensione.
Il mare. Il mare così vicino. Il mare così vicino e così fragrante. Il Mare così vicino, così
fragrante e così profondo. Il mare così vicino, così fragrante, così profondo e così scuro di
umori e chiaro di ironia. Il mare così vicino, così fragrante, così profondo, così scuro di umori
e chiaro di ironia, così mare nostro. Con la sua spuma sottile che si infrange sulla roccia nera
delle colate laviche che hanno sepolto la nostra storia come io seppellisco la mia e ricostruisco
sulla dura pietra nera. E come per miracolo nasce l’uva. Nasce dalla terra che il vulcano erutta
nel cielo con fragorosi boati. Terra che si mescola alle nuvole e cade lenta ed inesorabile a
soffocare il vecchio e nettarlo, sollevarlo a nuova vita. Terra che insemina la roccia. Terra che
si fa respirare. Terra che insudicia i tetti. Terra che intasa i tombini. Terra che spazzi e nasce
altra terra. Terra fine come la polvere degli angeli e nera come la notte dell’inferno. Terra
grezza, granulosa, greve, che penetra nelle grondaie, che scende in altra terra e si infiltra nelle
acque, sottoterra. Terra che si riversa nel mare e, seme con grembo, procrea ancora e ancora.
Terra che entra nelle narici ed è Catania che penetra nel sangue. È Catania che sa che la vita
nasce dalla morte. È Catania che con la morte gioca a briscola. E con la morte ride. E con la
morte racconta storie con un bicchiere di vino in mano. E con la morte canta nenie sulla culla
dei bambini. E con la morte pesca nel nero mare delle notti senza luna.
Il mare. Il mare che mi tiene stretta a questa terra senza ritegno. Il mare che mi fa schiava e
libera. Il mare che volge il nero in violetto, in azzurro, in verde, in rosso ed in argento di luna.
Il mare che è il grembo dove ci culliamo per amare la vita. Il mare che mi accompagna con la
sua voce mentre vado da Roberto e, dalla morte di una me stessa che sento estranea, creo
nuova vita.
Roberto…
Rientro rapidamente nella realtà che mi aspetta e lo immagino davvero con un garofano rosso
all’occhiello. Pochi metri mi separano dall’appuntamento e mi scorrono nella mente le
immagini di un nostro possibile incontro. Non so perché ma sorrido. Cassandra tace dentro la
mente e solo Sandra si muove, calibrando bene i passi per non scivolare sulle visole lucide
della strada.
Roberto…
Eccolo lì, davvero con un enorme garofano rosso infilato in un metaforico occhiello che è, in
realtà una maglia del suo pullover. Sento i muscoli labiali distendersi in qualcosa che oso
definire il primo vero sorriso della mia vita. Ho letto una volta che nella risata sono coinvolti
più di cento muscoli: penso che forse Roberto coinvolge il mio corpo perché non mi è stato
imposto da quel destino che ha per volto il capo ripiegato della dama bianca. Sono curiosa. E
sono felice di esserlo. La curiosità è per me sinonimo di vita. Mi vede. Non si muove di un
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passo verso di me e mi osserva mentre mi avvicino a lui. Non provo la sgradevole sensazione
che sempre ho avuto quando sono riflessa nelle pupille di un altro essere. Proseguo
mollemente, senza fretta, assaporando il gusto del passo che precede il passo che segue il
passo. Lo osservo. Il setto nasale leggermente deviato gli conferisce una doppia modalità di
interazione con il prossimo: il suo viso è ironico dal lato destro e grave dall’altro. La bocca si
schiude in un sorriso più arcuato a sinistra. Gli occhi cerulei assorbono l’immagine fissata e la
disperdono nell’iride. Il corpo è immobile, ma sembra impegnato in una mistica danza
interiore. Ultimo passo e sono di fronte a lui. Mi avvolge in un abbraccio intimo e forte che
scioglie le barriere. Lo conosco già da un tempo immemorabile. È il mio migliore amico, il
mio amante, mio padre, mia madre, mio fratello, il mio gatto che fa le fusa quando mi vede.
Ci incamminiamo sulla via Etnea tenendoci per mano, come per un’abitudine radicata negli
anni. I nostri sguardi si posano simultaneamente sugli stessi arzigogoli barocchi, sulle stesse
macchie del tempo, sulle stesse nuvole ancora gonfie, sullo stesso orizzonte interamente
occupato dall’Etna e dal suo cielo.
La parola al silenzio, alla muta partecipazione di ogni pensiero ed immagine, al flusso di
corrente che si trasmette da un corpo all’altro attraverso le nostre mani che sembrano aver
appreso da anni il posto di ogni linea, screpolatura, curva, imperfezione, dolce ruvidità.
È così che ci aggiriamo per ore nelle vie del centro e percorriamo il cammino degli anni
vissuti, dello sciancatello giocato da bambini con le ginocchia sbucciate e piedi, mani e faccia
neri di terra, del primo bacio e della prima delusione, degli striscioni innalzati ai cortei quando
ancora credevamo nella lotta come strumento di mutamento, della ricerca di noi stessi in
mezzo agli altri, delle nostre passioni, di ciò che siamo e di ciò che volevamo essere. Quando
il sole che filtra fra le nuvole si abbassa fino a scomparire e lascia sulle strade solo una lucida
penombra, io so chi è Roberto anche se non so nulla di che cosa ha vissuto fino ad oggi e
Roberto sa chi sono io anche se non ha idea di che cosa io abbia vissuto io fino ad oggi.
- Dove andiamo adesso? Mi chiede, come se continuasse un discorso mai interrotto dal
silenzio.
- Non so – rispondo io – a casa?
- Sì.
Mi affido a lui. Ho detto a casa, potrebbe aver capito, come logico, che voglio tornare a casa
mia. Ma lui adesso sa chi sono. Mentre mi guida fra stradine strette e rivestite di nera pietra,
in mezzo a palazzi con muri bigi e crepati dai terremoti, scivolando davanti a portoncini con il
battente raffigurante lo stemma di antica e nobile casata e adesso non più fonte di orgoglio e
rispetto, ma solo fonte storica, penso. Solo oggi ho trovato dentro il calderone degli episodi la
continuità del mio Io. Solo oggi so chi sono e mai prima di questo pomeriggio avrei potuto
partecipare al nostro silente dialogo. Forse non è stata una reale creatrice a incastrarmi in una
vita sterile a compartimenti stagni, forse io stessa ho atteso che qualcuno mi guidasse lungo
strade che mi spaventavano ed ho inventato un alibi con il mio stesso volto e con il maestoso
potere di creare in luogo del mio piccolo e scomodo dono divinatorio. Non ne sono ancora
pienamente convinta, ma la mano di Roberto è così reale dentro la mia che non posso fare a
meno di pensare che la vita di un essere umano è come la nostra terra: hai un letto fertile dove
adagiare i semi, sorvegliarli e proteggerli dalle intemperie, accompagnare i primi virgulti
perché crescano su solidi sostegni, estirpare i parassiti, rallegrarti dei colori dei frutti,
vendemmiare, lavorare e, alla fine, sederti di fronte ad un grande fuoco a sorseggiare il vino
forte e denso ed osservare attraverso il vetro del tuo bicchiere chi come te ha vissuto e, di
fronte allo stesso grande fuoco, sorseggia il suo vino.
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Roberto si ferma di fronte ad un cancelletto in ferro. La parte inferiore è intera e, all’incirca
all’altezza del mio petto, si apre in un gioco di sbarre ed archi sormontati da aguzze punte. La
serratura è moderna e scatta come quella di milioni di altre porte. Un piccolo viottolo
ricoperto di ghiaia bianca e nera – mi ritorna alla mente un gioco educativo della mia
professoressa di psicologia – è circondato ai lati da un giardinetto dall’aspetto curato ma
selvaggio. Fra alberi e cespugli che si intrecciano si riconoscono antichi tentativi di arginare la
vegetazione in aiuole dalle disparate forme geometriche da cui gruppi di fiori bianchi ora si
affacciano a respirare. Intravedo fra le foglie ed i rami due cani ed un numero imprecisato di
gatti che si spostano acquattandosi come pantere per valutare il nuovo essere che penetra nel
loro spazio. Lampioncini si accendono al nostro passaggio e rischiarano la penombra del
tramonto. Sullo sfondo, a non più di quattro o cinque metri dal cancello, un portone di legno
massiccio intarsiato con cura fa da ingresso ad un edificio circolare di un colore giallino,
disposto su due piani e da cui si staccano ai lati due ali quadrate che non si spingono in altezza
oltre la metà della torretta centrale. Ci incamminiamo silenziosamente sui sassolini mentre le
pantere alle nostre spalle stringono il cerchio sempre più curiose. Roberto spinge la porta di
legno ed io mi meraviglio che sia aperta. Man mano che il portoncino si schiude, il triangolo
della luce esterna si apre a ventaglio su un’immensa stanza circolare con il pavimento
rivestito di parquet intarsiato con lo stesso disegno del portoncino e la circonferenza segnata
da un lungo sedile in pietra coperto a tratti da cuscini rosso sangue e che si interrompe solo in
corrispondenza di due alte porte bianche a doppio battente situate una di fronte all’altra. Una
scala a chiocciola in legno e ferro battuto svetta di fronte a noi. Al centro, solitario, un enorme
pianoforte nero troneggia maestoso, illuminato dalla luce che filtra dalla porta e da quella che
proviene da piccole feritoie che si incastrano fra muri e soffitto lungo tutta il perimetro della
stanza. Roberto chiude la porta di ingresso dietro di noi mentre sento il respiro delle pantere
pronte a reclamare la padronanza del proprio territorio e mi guida verso la porta di sinistra che
si spalanca su un locale caldo e pulsante di vita. Sullo sfondo una dispensa antica sorride sazia
del suo tradizionale contenuto. Di fronte, a circa due metri, incastrati mirabilmente in un
vestito di ceramiche variopinte, si stagliano cinque fuochi ed un lavello. Un forno a pietra mi
affascina sulla destra e, nascosti da tendine di lino bianco ravvivate da inserti in filet,
strizzano l’occhio gli elettrodomestici del 2000. Il pavimento è ricoperto da ceramiche e
parquet mescolati irregolarmente in figure geometriche. Nello spazio davanti a me un tavolo
in legno massiccio, largo due metri e lungo tre, è coperto dalle stesse ceramiche del blocco
cottura. Sei sedie lo circondano con i loro sedili impagliati. Lungo il muro, a circondare il
tavolo, si avvicendano oggetti inconsueti: un violoncello appoggiato ad un panchetto e ad un
leggio sormontato da uno spartito, un divano hi-tech giallo e arancione, un bersaglio per le
freccette con i dardi ancora conficcati nella posizione dell’ultima sfida, decine di enormi
cuscini ammonticchiati, un frigo doppio ricoperto di centinaia di calamite al di sotto delle
quali sono appoggiati centinaia di fogliettini di appunti. Alle pareti riproduzioni quadri
moderni, tele multicolori, tappeti, pipe arabe, rettangoli in sughero punteggiati da foto
sovrapposte disordinatamente ed ancorate con bandierine colorate, un telo per le proiezioni ed
uno stereo straordinario collegato misteriosamente a quattro casse appoggiate al muro su
mensole invisibili. Accanto al divano un piccolo camino ed un tappeto mi invitano
rassicuranti.
Mi siedo con la naturalezza di chi compie lo stesso gesto ogni sera rientrando a casa. Di fronte
a me il muro si apre in una porta-finestra a tutta parete attraverso cui il giardino irrompe nella
stanza. Le ombre delle pantere intraviste prima scivolano accanto al vetro controllando la
situazione a turno.
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Roberto, sollevando appena una tendina, prende una pentola, la riempie d’acqua e la mette sul
fuoco. Ho mille domande ma non voglio spezzare l’incanto che sembra avvolgere noi e la
casa. Lui si avvicina al violoncello, si siede sullo sgabellino, sfoglia lo spartito sul leggio ed
inizia a suonare. So già che accade ogni sera ed ogni sera è una musica nuova a diffondersi
nel calore della casa, per poi passare nel giardino a incantare le pantere come i serpenti nella
cesta del fachiro. La cesta. La mia adesso è poggiata per terra accanto al camino. So che
Roberto l’ha vista e la sua musica mi dice che ne conosce il contenuto. Sono a casa – mi dico
con una considerazione fuori tempo e fuori luogo, ma inevitabile in un giorno in cui tempi e
luoghi sembrano annullarsi in un unico flusso di pensieri con cui scrivo consapevole la mia
vita. L’acqua bolle. Roberto poggia delicatamente il violoncello, si alza, apre un alto barattolo
di vetro e lascia cadere gli spaghetti nella pentola. In due secondi, con una abilità che io non
possiedo, ha già sul fuoco una padella con l’olio, due spicchi d’aglio e due o tre peperoncini.
Copre tutto, prende tovaglia, piatti, bicchieri e posate da vari cassetti e ripiani e mette tutto sul
piano di lavoro. Mi alzo. Dalla memoria che inventa nasce la consuetudine per cui da sempre
Roberto cucina ed io apparecchio la tavola. Alla fine mi dirigo come una medium verso il
luogo dove sono conservati i vini e poso sulla tovaglia bianca una bottiglia di Nero d’Avola.
Passando apro un cassetto e prendo il cavatappi. Ho sempre saputo che era lì – penso – forse
sto costruendo io l’immagine di questa casa? Forse la realtà non esiste davvero ed è il più
determinato quello che arriva a scrivere la storia? Ma Roberto è così reale lì, con il suo
maglione senape ed ocra su cui ancora si nota una maglia slargata, traccia del garofano di
oggi pomeriggio. Ed è reale anche il profumo dell’aglio tostato che si diffonde nella cucina e
la rende ancora più viva, ancora più familiare, ancora più casa.
Lui scola la pasta, la gira per un attimo nella padella e la butta dentro una scodella panciuta
con la scritta spaghetti e la porta a tavola insieme ad una ciotola di pecorino. Amo trovare
negli altri la cura dei dettagli di cui spesso io non sono capace. Ci sediamo a tavola nei posti
che sembra siano sempre stati i nostri, Roberto mi prende la mano e si avvicina per darmi un
tenero bacio.
Il silenzio si spezza alla prima forchettata e milioni di parole si staccano dalle labbra per
raccontarci all’altro. Roberto è un musicista, suona il piano in giro per l’Italia e per l’Europa. I
suoi hobby sono il violoncello, il jazz, il canto, l’arredamento e la cucina, non
necessariamente in quest’ordine. È stato sposato ma non ha figli, ha divorziato dieci anni fa
dopo tre anni di matrimonio. Da allora nessuna storia importante, sembra che anche lui si sia
dedicato a riscrivere la propria vita con testardaggine. Forse per questo conosce il contenuto
della mia cesta – penso – forse per questo la musica che suonava era la “mia” musica. E poi
centinaia di racconti e risate e vino e ancora un altro piatto di pasta con la fame della serenità,
della sensazione di benessere che si diffonde in tutte le cellule del corpo. Sparecchiamo,
mettiamo i piatti nella lavastoviglie, io mi metto comoda sul divano, Roberto tira fuori per
magia un vassoio con due bicchieri ed una bottiglia di Porto, poggia tutto sul piccolo
tavolinetto di fronte al divano, accende il camino, si siede sul tappeto accanto alle mie gambe,
mi porge una sigaretta, ne prende una anche lui, avvicina un posacenere ed appoggia il capo
sulle mie ginocchia. Canta. Canta un blues nostalgico e lento i cui bassi sono un dondolio che
si trasmette al mio corpo e mi culla. Spengo la sigaretta. Il tepore del camino e il Porto mi
trattengono in uno stato di dormiveglia. Vedo, dietro il vetro, fra i rami indisciplinati degli
alberi, la dama bianca. È nuda, accovacciata al suolo in mezzo alle pantere che la annusano, il
busto è eretto, le braccia cadono lungo il tronco, le mani sono unite sulle gambe in segno di
abbandono al destino, il capo è, come sempre, reclinato all’indietro e a destra, ma non è la
scioltezza plastica che governa i suoi movimenti oggi, ma la sottile e penetrante lama di
dolore che il blues di Roberto accompagna. Vorrei metterla a fuoco meglio, affrontarla,
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andare in giardino, coprirla e sollevarla da terra, ma gli occhi si chiudono e la canzone di
Roberto mi trascina in un dolcissimo gorgo…
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CAPITOLO VII
Quando sono risalita in superficie ed ho aperto gli occhi albeggiava. Un filo di luce rosa si
rifrangeva sui fiori bianchi del giardino, irradiandosi fra le fitte foglie per poi venirsi a posare
sul plaid a grandi quadri che copre me e Roberto acciambellati come due pigri gatti sul
divanetto. Ho dormito un sogno senza sogni, denso, pastoso, vischioso. Un sonno che si è
infiltrato in tutti i tessuti soffermandosi su ogni cellula a ripararne i guasti, a rigenerarla. Un
sonno vegliato dalla tranquilla presenza di Roberto, cullato dalla sua musica che è la mia
musica, dentro la sua casa che, anche in questa alba che avanza sempre di più verso di me,
sento amica come se fosse la mia.
Devo alzarmi: quello che resta della mia vita lavorativa mi aspetta sprezzante dietro il
cancello di questo castello incantato. Provo un attimo di paura. Rivedo Stefano infastidito dai
miei movimenti nel letto. Resto immobile. Roberto corre in mio aiuto svegliandosi con un
sorriso. Si stiracchia e fa le fusa.
- Buongiorno – mi dice.
- Buongiorno – gli dico. E poi: – devo andare.
- Ti preparo il caffè. Quando rientri stasera a casa?
Casa? So cosa vuol dire, ma non posso rischiare di sbagliarmi e non riesco a chiedere, non
sono mai riuscita a chiedere. Mi viene ancora in aiuto mentre accende il fuoco sotto una
minuscola moka azzurra – Ieri sera ti ho messo le chiavi nella borsa, così non le dimentichi
come al solito.
Leggero, senza domande, senza risposte. Anzi, con risposte e domande implicite nelle azioni.
- Rientrerò verso le sei. Devo risolvere alcune cose rimaste in sospeso.
- Sarò qui intorno a quell’ora. – mi dice mentre versa il caffè nelle tazzine.
- Ora scappo. – gli dico mentre poso la tazzina vuota nel lavello con il solito gesto di ogni
mattina.
Vado da sola verso l’uscita, attraverso la stanza di ingresso sfiorando il pianoforte, passo
lungo il viottolo fino al cancello. La dama bianca è sparita – forse si è arresa al sonno – le
pantere sono ridiventate gatti sotto la luce del giorno, si strofinano sulle mie gambe con la
coda a punto interrogativo. Sono a casa. I due cani sono ai lati del cancello e mi salutano
mentre esco.
Sono di nuovo in strada. La città è deserta e solo pochi isolati mi separano dal mio
appartamento. Non temo di trovare Stefano: so che è andato via dopo non più di mezz’ora e
non senza aver rovistato ovunque alla ricerca di tracce che dimostrassero l’esistenza di un
altro uomo. Oh, certamente avrà finto con se stesso ancora una volta e avrà aperto i cassetti
pensando di controllare se fosse ancora rimasto qualcosa di suo, dimenticato come il talco da
barba. L’assenza di elementi probanti la teoria dell’altro che mi può distrarre lo avrà convinto
che può riprendermi quando vuole e l’avrà fatto uscire arrabbiato come sempre e, come
sempre, sicuro che quarantott’ore di ostinato mutismo mi avrebbero ricondotto a posizioni più
giudiziose e concilianti. Questo mi dà un paio di giorni per sistemare tutto, dare le ultime
pennellate alla nostra tela e scomparire del tutto fino a quando non si sarà convinto che vuole
stare dalla donna che lo ha amorosamente aiutato a traslocare da casa nostra e da cui,
certamente, sarà andato stasera a riscuotere il premio che voleva ritirare da me.
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Sono arrivata sotto casa. Le persiane sono chiuse con diligenza, segno di implicito rimprovero
per il mio folle comportamento di ieri. Apro il portoncino di ingresso e Puffo, il gatto del
cortile, mi viene incontro. Decido che lo porterò con me stasera. Apro la porta-finestra che dà
sul mio appartamento – uno dei quattro in cui fu divisa a suo tempo una signorile villetta al
centro della città – e Puffo entra con me. Apro una scatoletta per lui, una confezione di
aranciata in brick per me, accendo il riscaldamento, poggio il giaccone, la borsa e la mia
inseparabile cesta su una sedia, accendo una sigaretta, controllo i delfini sul letto – sono soli e
nuotano, devo portare anche loro stasera – ed entro nel bagno. Sono già in forte ritardo
quando mi infilo nella doccia e lascio correre fiumi di acqua calda sul corpo, sui capelli, sulla
faccia. Puffo si è acciambellato dentro in lavandino, lo vedo attraverso i vetri e l’acqua che
scende e faccio scorrere ancora acqua e ancora e ancora, fino a quando non sento il vuoto
dentro di me, fino a quando ogni pensiero – felice o meno – non è naufragato in un mare
sufficientemente profondo. Ho bisogno di essere fredda per affrontare con sicurezza la preside
ed i miei colleghi: ho deciso di portare avanti un mio progetto e di lottare per questo senza
farmi sconfiggere dalla delusione che inevitabilmente deriva dal cozzare della realtà contro gli
ideali.
Esco dalla doccia, mi asciugo, vado a sedermi accanto ai delfini, - Non sono certa di fare la
cosa giusta, – penso – in fondo la mia è una “non scelta”, ma non sono abbastanza forte da
sradicarmi completamente.
La mia idea non è malvagia, la coltivo da un po’ di tempo ed ora è arrivato il momento. Mi
viene il sospetto che quella che sto per mettere in atto, sia la trama che la Dama bianca aveva
previsto per il prossimo episodio. Se così fosse starei spalancando un’altra volta le porte a lei,
ma stavolta sarebbe grave: è adirata, la sento e, mentre avverto una corrente di sottile odio,
comprendo in lei il desiderio di sbarazzarsi di un incomodo personaggio che è sfuggito al suo
controllo ed è la dimostrazione del suo fallimento.
Getto via le mie premonizioni da Cassandra, ma non del tutto. Quasi in trance ripeto la stessa
scena vissuta in mille sogni ed in mille episodi: cerco il portapatente nella borsa, lo apro,
estraggo il fogliettino con le istruzioni in caso di emergenza, lo rileggo e lo riscrivo
cambiando ancora una volta il nome ed il numero di telefono della persona da avvisare e che
dovrà prendere decisioni in mio nome. Strappo il biglietto precedente e avverto la solitudine
in cui sono vissuta. Se avessi collezionato i foglietti avrei davanti una sfilza di nomi e numeri
senza alcun significato ed un’unica realtà sottesa, che la Dama bianca mi ha sempre tenuto
sulla corda dell’ultimo episodio: se mi fossi ribellata avrebbe messo su il copione della
prematura fine mascherando brillantemente il suo fallimento. Nonostante questa
consapevolezza non riesco a fare a meno di reiterare i soliti gesti: non tollero l’idea di Stefano
che decide per me, lui che non conosce di me nulla se non quello che ha voluto vedere e che
ha costruito seguendo le istruzioni della sceneggiatura. Sempre più agitata rovisto fra i cassetti
in cerca del testamento: non ho quasi nulla da lasciare, ma desidero dare le ultime pennellate
al quadro di Stefano e andarlo a riporrre in soffitta; forse così faccio il gioco della Signora che
dirige la mia vita, ma qualche volta è possibile che la propria volontà e il destino coincidano.
Scrivo rapidamente, strappo il vecchio testamento, getto i pezzi di carta nel gabinetto, – rido
pensando all’episodio precedente in cui la cosa aveva provocato l’otturazione dei tubi di
scarico e richiesto l’intervento dell’idraulico – tiro lo sciacquone, Puffo salta giù dal
lavandino con un miagolio di protesta e mi segue nella solita corsa folle contro un tempo che
non posso vincere, mi infilo il giaccone, prendo la borsa, metto i croccantini in una ciotola,
apro la porta con le chiavi fra i denti, la borsa a tracolla che scivola dalla spalla, la ciotola che
perde croccantini lungo il percorso quasi a tracciare la strada per il ritorno, Puffo che mi segue
infilandosi fra i piedi tanto che solo un lungo allenamento mi permette di non cadere, i capelli
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mi fanno sembrare la reincarnazione di Medusa – per non parlare della faccia!! – e,
finalmente, mi ritrovo davanti alla porta che sembro la versione parodistica di Rambo mentre
la casa sembra visitata dai ladri, i cassetti aperti alla ricerca del vecchio testamento lasciano
fuoriuscire oggetti di ogni genere che sembrano serpenti in fuga dalla cesta.
La cesta! – penso improvvisamente – l’ho lasciata a casa di Roberto!
Mi tranquillizzo, so che è al sicuro, adesso quella è casa mia, forse l’unica casa che sia mia fra
tutte quelle in cui mi è stato concesso di posteggiare per lo spazio di un episodio. Poggio a
terra la ciotola di Puffo, passo le mani fra i capelli peggiorando la situazione, sfilo le chiavi
dai denti, chiudo la porta e giro le spalle con la strana sensazione che sarà l’ultima volta che
compio quel gesto.
Zitta Cassandra, lascia vivere Sandra per qualche ora, c’è un compito da portare a termine –
mi dico cercando di simulare una convinzione che non ho.
La strada è irriconoscibile rispetto a stamattina: clacson strombazzanti in barba al divieto, –
chissà se nel nuovo codice è previsto levare punti a chi vìola senza scrupoli la quiete
faticosamente costruita dagli altri? – auto parcheggiate in doppia fila su entrambi i lati di una
strada da cui normalmente si passa a mala pena, motorini che sfrecciano sui marciapiedi in
uno slalom fra i passanti, incroci bloccati, vigili in preda al panico più degli automobilisti e,
per finire, un’Ape – lapa per noi locali – carica di verdure in vendita a un Euro e un
capannello di signore in cerca dell’affare che si estende fino al centro della strada impedendo
la circolazione. Mi dirigo verso la mia auto che, naturalmente, è bloccata da un fuoristrada
abbandonato a se stesso e vedo un bigliettino sul parabrezza. So che è di Stefano e, inviperita
dal ritardo, dal fuoristrada, dai clacson, dalle premonizioni, dal prossimo incontro con la
preside, lo faccio a pezzi minutissimi che poi getto in aria. Dopo una lunga ricerca in tutti i
negozi che danno sulla via, trovo il proprietario del fuoristrada che, inaspettatamente minuto
ed esile, si risparmia una mia sfuriata perché, appena lo vedo arrampicarsi sul sedile, provo un
incontenibile accesso di ilarità che mi impedisce qualsiasi sentimento negativo. Metto in
moto, mi inoltro nel dedalo delle viuzze, imbocco l’autostrada ed alzo il volume della radio
fino ad assordarmi per cancellare l’angoscia di un presentimento senza oggetto.
Arrivata a destinazione parcheggio sotto il consueto pergolato lilla, tiro un gran respiro e,
invece di inerpicarmi per il viottolo che porta alla piccola scuola, entro decisa al college,
lancio al custode uno sguardo che non ammette domande, mi dirigo verso la sala riunioni,
apro la porta e mi investe una ridda di suoni indistinti provenienti da una decina di persone
che parlano senza ascoltarsi. Il mio ingresso nella stanza ottiene lo stesso effetto di sempre,
ovvero l’assoluto nulla e, timidamente, mi posteggio lateralmente su una sedia mentre attendo
che la bagarre si smorzi fino a lasciarmi lo spazio per introdurre la mia idea.
Alle 11,00 in punto, al suono della campana che annuncia la ricreazione, l’insegnante che è
radicato in ognuno di loro – compreso quello nascosto dentro l’insospettabile preside –
avverte il bisogno incontrollabile del caffè e il gruppo si zittisce improvvisamente
disperdendosi senza parole nel corridoio, lungo la strada per il bar. Rimango da sola, seduta
sulla mia rassicurante sedia: so che fra un quarto d’ora tutti saranno di ritorno per un tacito
accordo che forse è l’unico che il corpo insegnante riesce ad avere. Mi alzo, spalanco uno
degli enormi infissi che si affacciano su un curatissimo roseto, accendo una sigaretta e penso a
quanto sono demotivata, a quanto poco io creda in quello che sto facendo oggi. Anzi, non a
quello che sto tentando di realizzare, ma a dove cerco di farlo. Ancora una volta mi assale il
dubbio di non essere abbastanza forte da scrivere la mia storia, ma ormai sono in ballo e devo
ballare. Fra dieci minuti rientreranno tutti da quella porta ed io dovrò continuare ad ascoltare
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il nulla che si comunicano fino a mezzogiorno: a quell’ora lo stesso insegnante che è in loro e
che li ha guidati silenziosamente verso il bar, avvertirà i morsi della fame e tutti cercheranno
in ogni modo una rapida soluzione che discenda dal cielo in modo da poterla contestare per
almeno trenta minuti e poi accettarla sdegnosamente alle ore 13,00 mentre si disperdono verso
la strada di casa.
E così avviene e si inizia a girare la scena in cui ognuno conosce per istinto la sua parte senza
averla mai letta.
Credo di parlare a nome di tutti – dico con voce sostenuta approfittando dello smarrimento da
fame – quando affermo che non può essere interesse di nessuno, né tanto meno della
proprietà, gettare al vento anni di lavoro, di sperimentazioni, di schede compilate, di
materiali preziosi in vista di un progetto che potrebbe essere economicamente e socialmente
produttivo più della stessa gestione del College…- lascio in sospeso la frase con la
consapevolezza di aver pronunciato la parola magica che unisce tutti i partecipanti alla
riunione e che non è socialmente, bensì economicamente e, dopo la frase ad effetto, continuo:
- Sappiamo, infatti, che il ministero, i sindacati, le associazioni di volontariato, i sociologi,
sono da tempo in cerca di soluzioni radicali ed economicamente produttive per il problema
della delinquenza giovanile, dell’abbandono, della formazione professionale da curare
congiuntamente all’arricchimento culturale dei discenti…- ancora uno spazio di sospensione,
so che non interessa a nessuno di quello che sto dicendo e che attendono la traduzione in
moneta dell’economicamente e continuo: - Noi possiamo utilizzare la piccola scuola
trasformandola in una Scuola di formazione per docenti autorizzata dal Ministero: presso il
College verranno svolti durante l’arco dell’anno scolastico i corsi di formazione che
dureranno dieci giorni e che verranno abbondantemente pagati con la quota dei docenti
provenienti da tutta Italia. Potremo così continuare il lavoro che abbiamo svolto fino ad ora e
renderlo produttivo con la creazione di Scuole sperimentali in tutta Italia. Gli alunni che
usciranno dai corsi superiori del nostro College avranno effettuato due ore settimanali di
pratica didattica e chiederemo al Ministero che per loro ci sia un canale preferenziale per
l’accesso all’insegnamento. Credo che questo sia fuor di dubbio un progetto valido.
Mi fermo e mi faccio quasi pena per dover svendere la mia idea al College ed utilizzare gli
introiti per rimpinguare le tasche di alcuni, invece che finalizzarle alla ricerca. Ma non posso
pensarci ora, non mi sento pronta per affrontare il mondo intero e, a pensarci bene, fatico a
digerire anche la mezz’ora di confutazioni vane che pure prevedevo. Incomincio ad assorbire
le frasi fatte che emergono nel brusio indistinto che proviene dal mirabile estratto del corpo
insegnante che si trova di fronte a me.
- Ma l’integrità del Gruppo-Classe?
- E il diritto dell’alunno alla centralità nel percorso didattico?
- Per non parlare dell’impossibilità di esportare modelli educativi in contesti non conformi…
- Ed io insegnante curricolare mi troverei ad essere messo sotto il vetrino di un microscopio e
perderei la mia libertà psicologica, trasformandomi in un esecutore di mere procedure
didattiche sotto inchiesta…- Che tradotto per i non addetti vuol dire che qualcuno può
rendersi conto che sono ignorante come una capra ed incapace di trasmettere alcunché ai
poveri pargoli a me affidati.
- Ma chi ci garantisce l’appoggio del Ministero? – questa deve essere la preside che, per lo
meno non prova nemmeno a fingersi una docente e continua con molto buon senso: occorrono appoggi, relazioni, libri, progetti, nomi conosciuti.
- In dieci giorni come è possibile trasferire la rete di conoscenze, competenze, abilità da noi
acquisite in anni di dura sperimentazione? – Questo deve essere qualche collega con la
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memoria corta che non ricorda l’improvvisazione con cui abbiamo vissuto ogni attimo del
nostro percorso di docenti all’avanguardia.
- Skills…
- Reti neurali…
- Empatia…
- Motivazioni…
- Autonomia…
Sono le 12,20 – penso con sollievo – fra dieci minuti avranno esaurito il Novissimo
Dizionario del Docente e la volontà di essere parte attiva di quanto vivono – peccato che si
estrinsechi solo nel contestare soluzioni altrui e mai nel proporne di proprie – e si metteranno
a tacere per ascoltarmi ed accettare recriminando.
- Classi aperte…
- Modularità…
- Verticalizzare…
- Insegnamento orizzontale…
- Setting formativo…
- Laboratori…
- Interdisciplinarietà…
- No… meglio…Multidisciplinarietà…
- Intervento sul territorio…
- Educazione permanente…
Silenzio. Finalmente sono le 12,30. L’orologio interno dell’insegnante è davvero un
fenomeno prodigioso che potremmo includere fra gli istinti della specie che si tramandano
geneticamente insieme alle reti cognitive!!
La preside, unico essere avulso dal gruppo e coerentemente calato nel ruolo dell’incompetente
ma produttivo imprenditore, allontana con un gesto del braccio l’accozzaglia di parole che
aleggia ancora nell’aria pesante della sala riunioni e mi fa cenno di parlare per rispondere
all’unica domanda che ritiene significativa: la sua.
Attendevo questo momento e mi inoltro in spiegazioni tecniche succinte – so che nessuno
potrebbe reggere la mole di documenti preparatori che ho accumulato negli anni – sulle
modalità ed i tempi di azione: - Nell’arco degli anni ho pazientemente trascritto le schede
degli alunni, le tecniche didattiche utilizzate, i risultati ottenuti, gli scarti rispetto agli
obiettivi iniziali ed ho già molto materiale commentato per la stesura di più testi guida da
presentare al Ministero. Inoltre, ho preso contatto con gli assistenti del Ministro che
sembrano interessati al nostro progetto perché economicamente e socialmente vicino ai loro
obiettivi. Si tratta solo di riunirci – e lì guardo diritto negli occhi la preside – per valutare gli
investimenti da effettuare, i finanziamenti già disponibili, il numero di docenti ammessi per
ogni corso e l’eventuale necessità di ampliare i locali della piccola scuola in funzione della
nuova attività. Riguardo alle funzioni che ognuno di noi avrà, una volta stabilita la fattibilità
del progetto, presenterò una proposta con mansioni, ore necessarie e compensi relativi.
Sono le 12,45. Mi fermo ed attendo gli altri dieci minuti di recriminazioni e pseudo-proposte,
alla fine dei quali la preside dichiara che l’idea è accettabile e mette ai voti la formazione di
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una commissione costituita da lei, me ed il docente più anziano per la stesura del progetto
definitivo da sottoporre poi al Collegio Docenti.
Alle 13,00 in punto il gruppo si disperde nei corridoi in cerca dell’uscita più rapida ma,
rispetto alla pausa caffè, già si formano piccoli gruppetti, anticamera delle vere e proprie
fazioni che prenderanno corpo nei prossimi giorni. Rimango nuovamente sola nella stanza,
esco sul balcone, attraverso il roseto e mi dirigo lentamente verso l’auto con la
consapevolezza di non aver scritto la storia che avrei voluto. Avverto sul collo il respiro della
Dama bianca e percepisco la sua risata sommessa che scivola fra le foglie del giardino. Il
presentimento della mattina si fa più angosciante e non ha ancora un oggetto preciso verso cui
io possa dirigermi e tentare di cambiare il corso delle cose.
Mi siedo in macchina, accendo la radio e la metto al minimo. Provo a comprendere qual è
l’errore che ho fatto e perché, mentre rileggo le pagine che ho appena finito di scrivere, tutto
suona falso, stentato, lontano da me, dalla mia cesta degli elementi, dalla svolta che mi aveva
permesso di affrancarmi dalla Signora e privarla del controllo sulla mia vita. Metto in moto
continuando a pensare, imbocco un’autostrada insolitamente vuota e premo il pedale
sull’acceleratore. Non va bene – penso – non sto scrivendo la mia storia, sto solo prendendo la
parte che mi era stata assegnata e sto apportando piccole varianti per avere l’illusione della
libertà. Il College è la mia coperta di Linus, così come lo è la traccia scritta dalla Dama bianca
ed io sono un’adolescente ribelle che non può modificare il corso della sua esistenza e si
accontenta di piccoli dispettucci per sentirsi grande. Ripenso a Roberto. In fondo anche lui è
solo una variazione sul tema di Stefano: stessi occhi, stesso corpo, stesso legame muto. Io ho
cambiato soltanto alcuni tratti e l’ho reso più piacevole da tollerare, ma ho realmente costruito
con lui qualcosa di nuovo oppure mi sono soltanto infilata nella sua vita così come ho fatto
scivolare la mia mano dentro la sua? Io ho scelto Roberto, così come ho scelto la mia nuova
attività lavorativa, ma l’ho fatto ancorandomi alla scaletta predisposta dalla mia creatrice,
rimettendole ancora una volta in mano il mio destino.
L’autostrada è ancora sgombra, il piede preme sull’acceleratore ancora un poco, – sono
arrabbiata per averle consegnato Roberto permettendole di farne un suo personaggio – avverto
la sua presenza, la sua risata si diffonde insieme alle note della radio, il sole è accecante, la
vedo mentre mi attraversa la strada con la sua veste bianca al vento e si ferma, immobile,
raggiante per la soddisfazione della vendetta.
È un attimo. Guardo il tachimetro: 160. Sterzo. Lei si sposta ed è di nuovo davanti a me.
Sterzo ancora, freno. La macchina gira su se stessa una, due, tre volte. Sbatte sul guardrail.
Esce l’airbag, si gonfia con un sibilo sinistro e mi schiaccia il petto. Mi vedo stamattina
appena sveglia e accucciata accanto a Roberto. Non può vincere così, non può eliminarmi
perché voglio la mia vita. La sento ridere. Può. La macchina si solleva in aria e si capovolge
per ben due volte e piomba a terra sullo spartitraffico. Sono ancora viva, devo resistere.
L’auto è per metà sulla corsia a direzione opposta e un Tir in sorpasso non riesce ad evitarla.
Un urto violento ed inizio a girare, girare, girare… Ancora il gorgo che mi inghiotte, ma
stavolta Roberto non canta il blues ed è la risata della Dama bianca ad accompagnarmi mentre
scendo giù, giù, giù…
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CAPITOLO VIII
Sirene. Sirene spiegate che si avvicinano sempre di più. Mettersi di lato, fare spazio, ma
come? Sono un cane investito al centro della strada. Non devo spostarmi, loro sono qui per
me, si fermano. Se li sento vuol dire che sono viva? Troppe voci assordanti. Qualcosa taglia la
lamiera dell’auto, non tollero il rumore. Sono uscita, sono fuori, no, mi vedo, sono ancora
dentro. Ma sono fuori. Dio, sono morta! No, non voglio, non deve vincere. Eccola, sta
guardando il mio corpo dentro l’abitacolo come lo guardo io, ma non vede me. Nessuno dei
soccorritori ci vede. Se fosse Dio mi vedrebbe, credo. Allora non è Dio, allora non ha più
potere creatore di me, allora io posso ancora lottare. E vincere. Mi rituffo nel mio corpo
mentre due braccia mi estraggono dai rottami. Di nuovo il gorgo…
Luci. Luci al neon che illuminano una sala fredda. Volti dietro le mascherine hanno gli occhi
agitati. Mormorano qualcosa, cosa? …perdiamo…presto…sotto controllo…coma…Sembra un
pessimo film. Dove sono? Posso vedere di nuovo il mio corpo, ma non sono né dentro né
fuori di esso. Sono intrappolata nel mezzo. Coma…Pensavo di averle dato scacco matto e
invece è stallo. Ma così nessuno vince e nessuno perde davvero!. No!!! Non portatemi via!
Tentate ancora! Lei non può vincere: non è Dio!
Battito. Battito del cuore sul monitor della sala rianimazione. Mi tiene sveglia in questa
condizione sospesa. Come tornare? Come andare? È la mente che deve lottare oppure è il
corpo? Entra un’infermiera, mi osserva, scuote la testa e si gira. Urlo:- Sono qui, non
andartene, sono qui!
Non mi sente, credo che nessuno possa sentirmi. Ma non sono morta, almeno tecnicamente. E
il coma non deve essere irreversibile altrimenti avrebbero donato gli organi, come da
disposizioni. La mente, quindi, è viva, infatti penso. Ma il corpo? Forse sono come il
Presidente, tecnicamente immortale, che orrore… Provo a muovere un braccio? No, non
risponde. Stallo. Né viva né morta. Né perdente né vittoriosa. Creatrice di un romanzo che
può essere solo pensato e mai scritto. In guerra tutti perdono e la Dama bianca ha preferito la
guerra alla perdita del controllo. Il suo personaggio doveva vivere solo con lei, in lei e per lei.
Stallo.
Ma è davvero così? Io ancora penso e non la vedo. Non c’è più. Forse non può controllare la
mia mente se è staccata dal corpo. Non è Dio, questo è emerso chiaramente poco fa, o mesi
fa? Chissà se ho ancora la cognizione del tempo o se qui il tempo è dilatato? O non esiste?
Va bene, io scriverò il romanzo della mia vita nella mente e, se un giorno tornerò nel mio
corpo, il romanzo sarà pronto e la Dama bianca dovrà arrendersi. Forse non è stallo. Forse c’è
una mossa che non riesco a vedere. Forse …
Roberto. Roberto entra nella stanza coperto da una ridicola mascherina verde. Ma gli occhi
sono i suoi. O sono di Stefano? Sono io che scrivo adesso! Gli occhi sono di Roberto e
riconosco il passo sotto il lungo camice da chirurgo. Forse temono che contragga
un’infezione, ma sono io a scrivere adesso e tutto andrà bene. Ancora non riesco a muovere il
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corpo con la mente. Roberto mi prende la mano, la stringe, canta. Sono qui – grido, ma lui
non mi sente.
Il gatto. Puffo, devi andare da Puffo e portarlo a casa, - stavolta non urlo, gli sussurro le
parole direttamente nell’orecchio – Puffo è solo, più solo di me. Adesso ha solo te.
Roberto sembra avermi sentito e mi dice piano: - Sono stato a casa tua, mi hanno dato le tue
istruzioni. Stai tranquilla, è tutto a posto. Ho conosciuto Puffo e l’ho portato a casa. Sta bene
insieme agli altri. Tu pensa a tornare indietro. Ho fatto i bagagli ed ho sistemato tutto da me:
quando ritornerai deciderai cosa fare, ma adesso stai tranquilla.
Sì, decisamente adesso sono io a scrivere la storia e l’introduzione mi piace: non mi vincola,
mi si adatta addosso come un guanto, Roberto non è solo una dolce fuga, è un uomo che mi
piacerebbe conquistare, scegliere, amare.
Certo, se avessi un corpo! Ma, a quanto pare, ancora non sono una scrittrice così esperta. Il
mio corpo è lì, inerte, bianco, fasciato da mille tubicini che trasportano liquidi di colore
diverso. La mano di Roberto è dentro la mia, ma io non la sento. Non ho mai amato molto il
mio corpo, ma oggi desidero riprenderne possesso, sentire le dita della mano articolarsi e
stringere, stiracchiarmi allungando la colonna vertebrale fino a sentire una piacevole dolenzia,
masticare, ingoiare, deglutire, starnutire, inspirare, espirare, inalare il fumo di una sigaretta.
Stallo? Non credo. Sto distruggendo con la mente la difesa della Dama bianca fino a trovare la
mossa nascosta per vincere, per prendere possesso della mia vita, per crearla e non subirla mai
più.
Battito. Il battito del cuore sul monitor si fa veloce, troppo veloce. Apro gli occhi un attimo,
sento la mano di Roberto. Troppo tardi. Roberto si alza, esce, chiama l’infermiera. Dolore.
Sento il dolore dei tubi, delle ossa rotte nell’incidente, dei lividi su tutto il corpo. La Dama
bianca si è svegliata, non ha mai mollato. Non sono ancora pronta e torno indietro,
intrappolata a metà di qualcosa che non conosco. Lei scompare soddisfatta. L’infermiera
accorre insieme a Roberto. Scuote la testa nuovamente. Roberto riprende il suo posto
rassegnato.
Presto. Era ancora presto. Devo riflettere, volere, rischiare, scegliere. Osare. Muovere i pezzi
con consapevolezza. Non è un puzzle, è una partita a scacchi: non devo solo accostare gli
elementi esistenti in relazione ai colori ed alla forma, devo creare la mossa vincente con i
pezzi che sono rimasti sulla scacchiera. Tempo. Ho tutto il tempo che voglio qui in questo
spazio nel mezzo: lei non sa che sono qui e pensa di aver vinto perché lo stallo per lei è
vittoria, è controllo, è potere. Lei non sa: di certo non è Dio…
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CAPITOLO IX
Non è passato poi così tanto tempo: solo sei mesi dall’incidente prima che la mia mente
riuscisse a rientrare nel mio corpo senza temere il dolore e la presenza della Dama bianca.
Solo sei mesi. Poco tempo, ma sufficiente a comprendere che il mondo prosegue la sua corsa
lo stesso anche se noi non ci siamo, che la vita di chi ci sta accanto continua senza scosse
anche se noi non li aiutiamo, che l’affetto non scompare se noi ci allontaniamo.
Roberto è venuto a trovarmi quasi ogni giorno in questi mesi: accanto al letto ha continuato a
cantarmi vecchi blues, a stringermi la mano, a raccontarmi di Puffo in mezzo alle sue
“pantere” ed a progettare magnifici viaggi da fare non appena io mi fossi svegliata. L’ho
ascoltato a lungo dalla mia posizione nel mezzo ed ho avuto il tempo di osservarlo,
conoscerlo, desiderarlo, volerlo, amarlo. Ho atteso l’orario delle visite con ansia ogni giorno
ed ogni giorno ho desiderato di vederlo apparire sorridente dalla porta di questa stanza piena
di ronzii. Ho voluto la sua mano dentro la mia anche se ero incapace di sentirla ed ho
imparato quanto il sentire interiore sia per gli esseri umani più importante di ciò che
realmente il nostro corpo percepisce. Per essere più precisi, ho appreso a dubitare della nostra
definizione di realtà.
Mi sono chiesta, ogni volta che la porta si apriva per lasciarlo passare, perché mai dovesse
restare accanto a me un uomo con cui mai era esistito ciò che il mondo considera necessario
per pronunciare le parole “ti amo”. Ho perso molto tempo prezioso per inseguire una risposta
evidente: - Il mondo ha torto: si preoccupa più di definire confini che di valutare il territorio
in cui vive.
È passato accanto a questo letto anche Stefano. È entrato dall’asettica porta dopo essersi
affacciato a lungo dall’oblò che da mesi mi fa sentire prigioniera di una nave pirata, – ogni
tanto l’idea di essere personaggio di un romanzo ha i suoi lati positivi: puoi essere
principessa, cortigiana, ostaggio in una guerra fra bande rivali ed ogni altra cosa che i luoghi
ti ispirino… - ha valutato la possibilità di rimanere al di là della soglia e fare lo stesso bella
figura, ma l’infermiera, che ha assunto Roberto come modello di perfezione, lo ha fulminato
con uno sguardo di disprezzo che lo ha convinto ad entrare tenendo stretta la mascherina sul
volto, sicuramente più per paura di contrarre malattie mortali che non per cautela nei miei
confronti.
Si è avvicinato con passo malfermo al letto, ha osservato il mio corpo con il consueto mix di
disgusto e impietosa pietà ed ha calcolato con precisione la traiettoria visiva con cui
l’infermiera avrebbe potuto vedere la sua mano accarezzarmi affettuosamente mentre, in
realtà, lui muoveva solamente aria intorno alle mie mani, al mio volto, alle mie braccia.
Ho provato a gridare, a parlare, a sussurrargli parole direttamente all’orecchio – dal mio punto
di mezzo avrei desiderato chiarire tutto il non detto ed il non fatto fra di noi – ma era così
preoccupato di trovare il modo giusto per scappare via senza essere giudicato, che non ha
percepito nemmeno il mio desiderio di comunicare con lui. È andato via in lagrime, – il modo
migliore per non farsi avvicinare da nessuno – pensando che ero stata egoista e guastafeste
come al solito: non avevo avuto nessun riguardo per lui mentre schiacciavo l’acceleratore e
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mettevo tutti nell’angoscia di assistere una persona amata che è poco più che un vegetale.
Come se lui mi avesse mai considerato più di un ortaggio mentre viveva accanto al mio corpo
usandolo e consumandolo senza ritegno! Pover’uomo: se non mi venisse da piangere per ciò
che è stato, mi sganascerei dalle risate a riprendere i suoi movimenti terrorizzati sotto un
camice che nella sua mente è troppo piccolo per proteggerlo dalla cattiva sorte dispensatrice
di malanni.
Grazie a Dio o a chiunque stia scrivendo questa parte di storia – probabilmente io e, allora,
grazie a me – non si è più ripresentato, nemmeno dietro il rassicurante oblò.
Più volte ho provato il desiderio di tirare su l’ancora che mi teneva legata all’ammasso di
cellule che mi ostinavo a definire il mio corpo; più volte ancora ho provato a riappropriarmene
ed ho sperimentato l’inesorabile rifiuto della materia che espelle ciò che considera pericoloso
per la permanenza di quei legami elettrici molecolari che chiamiamo vita.
Io e la Dama bianca ci siamo ancora a lungo confrontate sulla scacchiera con i pezzi disposti
come al momento dell’incidente. Io mi rifiutavo di buttare giù il mio re e lei attendeva da me
il segno di resa, sicura che non ci fosse una mossa possibile e insoddisfatta della situazione in
assenza di una mia capitolazione. Ho osservato non vista la scacchiera da tutte le angolazioni,
ripetuto mille volte le mosse nella mente, tutte le mosse possibili per ogni pezzo e per tutti i
pezzi e da ogni punto di vista. Ho chiuso gli occhi – se così si può dire per chi occhi non ha –
milioni di volte ed ho provato e riprovato a dispetto del sorriso ironico della mia avversaria e
creatrice. È stato come lottare contro me stessa, ingaggiando una competizione che non
poteva avere vincitori:- Come si può vincere se a perdere è sempre una parte di te?
È stato due giorni fa che improvvisamente ho compreso cosa significa pensiero laterale: io e
la Dama bianca non abbiamo fatto che muoverci all’interno dei quadrati della scacchiera,
convinte che la vita fosse delimitata da quella griglia bianca e nera. Abbiamo cercato la mossa
vincente, studiato i pedoni, gli alfieri, i cavalli, le torri, la regina ed il re; abbiamo desiderato
di barare, di trasformare il pedone in cavallo, di trovare impossibili soluzioni attraverso nuove
combinazioni degli elementi, abbiamo sprecato il nostro tempo in inutili illusioni e immotivati
canti di vittoria. Abbiamo provato ogni cosa tranne l’unica che realmente ci avrebbe
affrancato dal gioco e dal giogo: alzare lo sguardo e comprendere che la vita umana è
qualcosa di più della somma dei quadrati di una scacchiera, che i pezzi hanno mosse obbligate
solo all’interno del gioco che noi decidiamo di giocare, che il re e la regina possono guardarsi
negli occhi, varcare la linea di confine ed andare a fare una passeggiata in mezzo al verde, o
sul mare, o in montagna, o dovunque il desiderio di vivere li spinga.
Dicono che se qualcuno traccia sull’aia una linea bianca, le galline, potenzialmente libere, non
la oltrepassino mai perché la ritengono un ostacolo, un confine. Io e la mia creatrice ci siamo
imprigionate in un gioco senza fine, senza comprendere che era sufficiente smettere di giocare
per iniziare a vivere senza che il prezzo fosse la vita di una delle due.
È stato allora che ho varcato la linea ed ho ripreso possesso del mio corpo mentre Roberto mi
stringeva la mano e mi accompagnava nell’unica realtà che io abbia mai desiderato: l’amore.
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CAPITOLO X
Da quando mi sono svegliata dal coma le giornate non passano mai. La vita sembra scandita
da ritmi monotoni e precisi come il copione che la Dama bianca scriveva per me. Al mattino,
ore sette, colazione, termometro, conversazione con infermiera o infermiere di turno. Dopo
due giorni dal risveglio mi hanno trasferito in corsia, in compagnia di altri tre pazienti
traumatizzati – forse più dalla degenza che dall’avventura da cui sono usciti – e che hanno
tutti il mio stesso sguardo interrogativo. Mi sono riproposta di chiedere loro cosa li ha portati
lì, quale sia stata la loro vita prima e se anche loro sentano la presenza di qualcuno che scrive
la loro storia senza nessun rispetto per la loro identità, ma ho desistito per paura che mi
trasferiscano qui accanto al reparto psichiatria, da cui sento provenire inquietanti urla e
lamenti. Alle otto inizia la fisioterapia che dura fino alle undici, poi la visita del primario che
chiede invariabilmente – indipendentemente dal tempo e dall’umore – Come stiamo?
Abbiamo febbre? Ci sentiamo più forti? Siamo miracolati, lo sa, vero? Ed io invariabilmente
gli rispondo: Io sto bene, lei non so. Sono sfebbrata, lei non so. Mi sento più forte, lei non so.
So di essere miracolata, – e, fra me e me, sibilando fra i denti con il nervosismo
fortunatamente consentito ad una ammalata – lei pure perché nessuno ancora l’ha fatta fuori
dopo le sue osservazioni idiote.
Mi rendo conto che da quando la Dama bianca è scomparsa dalla mia vita o, per l’esattezza,
da quando io sono uscita fuori dalla ragnatela in cui lei è rimasta incastrata, sono
particolarmente insopportabile e nervosa. Credo di soffrire dell’ansia dello scrittore – o, forse,
di qualsiasi creatore – e di non sapere bene dove dirigermi, specialmente considerato il fatto
che il mio corpo sembra un ammasso di pezzi assemblati malamente da un tecnico in preda a
demenza senile.
Da qualche minuto è stata depositata sul lettino accanto al mio una nuova paziente. Ha nove
anni, il cranio fasciato e si chiama Gessica con la G. Accanto a lei parla in continuazione un
essere di sesso femminile con l’espressione stupita. È bassina, in carne, le guance rosa
shocking e indossa una maglietta ed un paio di pantaloni in maglina nera aderente che si
arrotola in piegoline lungo i cuscinetti che emergono ovunque. Gessica con la G è diafana: il
volto smagrito ed una piccola mano sono le uniche cose che emergono dall’enorme letto che
la ospita e che sembrano collegarla ancora al mondo dei vivi.
La madre – sembra sia quello il ruolo dell’essere in maglina accanto al letto – racconta i
grandi mal di testa della bambina, il padre che accusava lei di non farla mangiare abbastanza,
uno svenimento a scuola, l’ospedale, l’operazione d’urgenza per un brutto male al cervello.
La voce chioccia con un marcato accento dialettale ed un’inflessione isterica prosegue con le
ridicole frasi auto-discolpanti: nessuno nella mia famiglia ha mai avuto un brutto male…
forse lo zio di mio marito…io le davo sempre roba genuina…solo dolci fatti in casa, mica le
porcherie che mangiano i bambini ora…niente coca-cola…forse studiava troppo…lei ci
teneva e io glielo dicevo che studiare rovina il cervello…che la gente diventa pazza…vai a
giocare…guarda un poco di TV…divertiti…questa bambina è troppo seria, testimone mia
sorella che glielo dicevo sempre a mio marito…
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Il mio umore oscilla fra l’odio e la pena per questa donna che disturba forse il primo riposo
pacifico di Gessica e, per un attimo, benedico il fatto di essere stata abbandonata in fasce.
Comunque la ascolto e cerco di immaginare l’esistenza di quella bambina e,
contemporaneamente, riprendo possesso di me, delle mie idee, delle mie aspirazioni, dei miei
sogni, dei miei desideri, di tutto ciò che ho abbandonato quando ho intrapreso la lunga lotta
con la mia creatrice, mentre mi trovavo nel mezzo, nel fluido manifestarsi di tutte le cose
senza correnti, senza passioni, senza movimento.
Penso al sogno senza sogni di Gessica, al nucleo scuro e tentacolare che si estendeva nel suo
cervello, in tutto e per tutto uguale alla perversa forza della mia creatrice. Mi sento vicina a lei
come donna, come malata, come essere vivente costretto a lottare contro tutto per definire il
proprio spazio contro chi divora le tue cellule con una smania di vita che diviene ingordigia
invasiva e letale.
La madre tace da dieci minuti. Ho l’impressione malsana di aver sviluppato poteri
paranormali e di essere riuscita a spegnerla premendo con la mente un suo invisibile
interruttore.
Devo aver dormito ancora. L’essere in maglina adesso è rosso fuoco e volteggia accanto al
letto di Gessica provocando vortici d’aria malsani. Gessica dorme ancora, ma è stata la sua
voce a svegliarmi. Sono confusa. Parla dentro di me.
Credo che abbia scovato lo spazio vuoto lasciato dalla mia creatrice e vi si sia intrufolata per
sfuggire alla forza invasiva dell’ematoma che sembra aver sostituito il tumore. Mi viene il
dubbio che gli uomini vivano invadendo lo spazio vitale altrui per sfuggire a coloro che hanno
preso stabile dimora nel proprio. Forse viviamo sempre negli altri e per questo non possiamo
stare soli?
È matura per l’età che ha, gioca con le mie cellule muovendole da esperta. Non mi è ancora
chiaro ma ho la sensazione che stia rammendando gli strappi più vistosi e, allo stesso tempo,
si stia costruendo un bozzolo. Il mio problema, da piccolo essere umano ancora debole e
addormentato, è comprendere se vuole solo nascondersi per sempre o ha deciso di diventare
farfalla facendo esplodere il mio corpo insieme al bozzolo. Credo che non mi piaccia nessuna
delle due ipotesi.
Lasciamola lavorare. Mi viene in mente solo questa frase mentre l’imitazione di Babbo Natale
in maglina continua a svolazzarmi intorno con il suo cicaleccio incessante e le sue spugnette
imbevute di orrenda acqua di rose.
La odio io o è Gessica a vomitarmi dentro tutto il disgusto dell’oppressione subita?
Credo che dormirò ancora, almeno fino a quando Gessica non deciderà di fermare la sua
rabbiosa costruzione e non deciderà di parlarmi.
Prima di addormentarmi mi sento mentre le grido: “La verità ci rende liberi”.
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CAPITOLO XI
Apro gli occhi.
Sopra di me il ronzio di un macchinario che non credo ci fosse. Accanto a me Gessica.
Intorno solo un silenzio interrotto solo dal dialogo delle apparecchiature.
Siamo ancora in sala rianimazione. Gessica mi sta parlando dentro. Credo che abbia deciso di
tornare lì per sfuggire alla madre e che mi abbia voluto portare con sé.
Sono solo supposizioni. Non sono ancora in grado di esprimere un pensiero, né di cercare
spiegazioni.
Gessica dorme e sorride.
Non voglio chiamare nessuno, non voglio che mi separino da lei. Ho la sensazione che lei sia
il mio destino.
Sento a malapena il mio corpo.
Mi guardo i piedi: spuntano come due montagne da sotto il lenzuolo. Li muovo, li faccio
divergere e convergere, tutta la mia vita è nei piedi adesso.
Cerco di riprendere il tempo, ma sono stanca, non ho più tempo.
Non so cosa mi è successo.
Forse non desidero saperlo.
Ero uscita fuori con il re, fuori dalla scacchiera, ma dov’è il re?
E la Dama bianca?
La scuola. Stefano. Roberto. Il mare. I miei piedi. Il braccio sotto le coperte con quel tubicino
che sale. Lo stomaco, sento lo stomaco. Ho voglia di vomitare.
Non è rimasto niente di me, solo pensieri sbriciolati ed aspettative senza fondamento.
Nuovi linguaggi, insegnamento, amore. Ho creato una storia nel mio cervello, ma non sapevo
scrivere.
La Dama bianca ride, la sento.
Mi ha lasciato uscire dalla scacchiera per dimostrarmi che non esisto.
Gessica c’è, però, lei questo non l’aveva previsto. O almeno io credo di no.
Perché è rimasta solo lei. Che cosa ha fatto alla mia mente? Qual è il motivo per cui sono
ancora viva?
Troppe domande. Chi mai potrebbe rispondermi qui?
Guardo i miei piedi. Convergono e divergono. Tutta la vita nei miei piedi.
Gessica si muove. I suoi piedi convergono e divergono. Tutta la vita nei nostri piedi. Non c’è
tempo di capire: devo chiamare aiuto.
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Urlo di nuovo, come quando Gessica ci ha addormentate.
Nuvole di camici bianchi ci danzano intorno.
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CAPITOLO XI
Siamo di nuovo in corsia. La donna in maglina pulisce operosa la fronte di Gessica. L’acqua
di rose sparge il suo tanfo nella stanza..
Gessica non si muove, ma io so che è sveglia: la sento. Sono ancora Sandra, Cassandra, come
mi sta chiamando l’infermiera che legge asetticamente il grafico posto ai piedi del letto,
appeso precariamente alla sbarra come lo sono io alla vita.
Deve avermi sentito urlare un anno fa, prima di addormentarmi nel coma, “la verità ci rende
liberi”, perché mi sta informando ferocemente di quanto è accaduto in questo anno.
Le sue parole mi arrivano come scariche elettriche al ritmo dei miei piedi convergenti e
divergenti, che sono l’unica cosa che la mia mente riesce a muovere.
Ero stata un anno in coma, sembrava fosse irreversibile; prima ero stata altri sei mesi prova di
conoscenza; dopo l’incidente avevano dovuto asportarmi parte dell’intestino, utero, ovaie,
milza; il mio corpo era stato mosso da fisioterapisti ma i danni erano gravi e si prevedeva una
lunga riabilitazione; le funzioni cerebrali erano miracolosamente intatte, anche se sembrava
che ci fosse un flusso elettrico secondario che non riuscivano a spiegarsi.
Da sei mesi non veniva più nessuno, l’ultima visita era stata quella di Roberto che era passato
con sua moglie prima di partire per una delle sue tournè. “Sua moglie?” – Mi aggroviglio
sull’asse dei miei piedi divergenti mentre sento una scarica elettrica che mi indica che la vita
continua inesorabile anche se noi non la viviamo.
Rossana – così si chiama la solerte infermiera – mi chiede se ho qualcuno da avvertire e alla
mia risata isterica mi inietta qualcosa nella flebo.
Mentre mi trascino nel limbo di quello che probabilmente era una dose massiccia di Valium,
la mia mente continua a tessere alacremente trame possibili del futuro, ma nessuna storia
arriva ad una fine decente.
Gessica c’è, la sento: ha tessuto la sua ragnatela e si è annidata in me. Ora attende. Non so
cosa, ma io devo prima riannodare i fili.
Intorno al letto la madre di Gessica è ora vestita con un paio di pantaloni a vita bassa, sempre
in maglina aderente, che, oltre a disegnare glutei pendenti e fianchi ad anfora, scoprono uno
stomaco vistoso con un ombelico deformato.
Credo che mi disgusti più dell’acqua di rose e delle parole senza senso che sta pronunciando:
La mia bambina è di nuovo qui, io lo sapevo che Dio ci aiutava e tutti quelli che non ci
credono e che ammazzano e fanno morire congelati quei poveri “imbrioni” che ne so come si
dice che tanto sanno tutto loro e non ci pensano che la malattia è una prova di Dio per la
fede e infatti la mia bambina ora è sveglia e anche se non mi parla non ci fa niente che tanto
lei non parlava manco prima che io glielo dicevo a mio marito che era precisa a lui che una
parola non la spiccicava mai.
Gessica ha occupato il mio cervello ed incomincio a capire il perché e, forse, incomincio a
capire anche il perché della mia scelta di affrancarmi dalla storia che era stata scritta per me,
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ma prima devo riflettere, devo cercare di rimettere insieme i pezzi mentre i miei piedi, l’unica
cosa che sento, convergono e divergono affannosamente al ritmo del battito cardiaco.
Qualcuno ha acceso una radio e al notiziario parlano sempre delle stesse cose di un anno fa:
giornalisti rapiti, guerra, comunisti, fascisti, Patria, televisioni.
C’è un nuovo Papa adesso, ma forse c’era già da anni e nessuno voleva vederlo, come sempre
si è fatto e sempre si farà.
Non ho voglia di pensare, ma devo. È arrivato il momento di fare felice il mio psichiatra e di
capire cosa è vivo e cos’è morto.
Il mio corpo è morto.
Volevo un figlio a cui donare una vita ripresa in calcio d’angolo, ma la Dama bianca mi ha
attraversato la strada.
Volevo Roberto, ma la vita continua: le sue radici sono uscite a cercare altra terra e Gessica
si è presa quel poco che restava del tempo che avevo sottratto alla donna che scriveva la mia
storia. Mi consola solo sapere che Puffo è lì, nel giardino, in mezzo alle “pantere” che mi
hanno accolta nell’unico giorno che ho realmente vissuto in tutta la mia vita.
Stefano… Stefano mi fa una tenerezza che non avrei mai creduto possibile: così chiuso nella
sua infelicità e nella paura di esistere, tanto da essere ancora meno vivo di me, così sdraiata su
questo letto, rappresentata al mondo solo da parole biascicate fra labbra distorte e da due piedi
che ostinatamente si aggrappano alla vita e ripetono meccanicamente lo stesso movimento
sotto ruvide ed una volta candide coperte.
Il mondo… il mondo si muove spinto da forze fisiche che io non so comprendere, forse
perché, per quanto non lo voglia, sono solo una creazione letteraria o solo una povera pazza
con la pretesa di essere almeno una creazione letteraria.
La scuola… la scuola era la mia vita e volevo portarla con me, ma ora so che noi non siamo
niente e che nessuno può insegnare niente. Forse… forse un’idea mi attraversa la mente… le
parole, la conoscenza, si possono solo trasmettere donandole. Come la luce che muore
assorbita dai corpi che la ricevono e che la moltiplicano riflettendola ovunque.
Se così fosse, oh, se così fosse, io potrei ancora decidere di essere qualcosa oltre quello che la
Dama bianca ha deciso per me.
Gessica è lì, sempre diafana e immobile. Ma è anche dentro di me, ha preso possesso delle
mie parole, di quello che io volevo usare per cambiare il corso del destino. Gessica è forte ed
io sono solo un corpo spezzato, ma la mia mente è ancora intatta e libera e posso darle la mia
vita per correre oltre la sua e realizzare i miei sogni.
La mia scrittrice ha scritto per me ed io pensavo di poter uscire dalla sua scacchiera e vivere,
ma no, non è così. Io posso solo lasciarmi morire, perché la realtà è che tutto è morto dentro
di me. Tutto è morto ma ancora è luminoso e posso farmi assorbire da Gessica, posso
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scegliere di far vivere lei, posso fare in modo che lei rifletta i miei raggi ovunque e posso
vivere in lei, in una storia che la mia scrittrice non può controllare.
Gessica sorride, gli angoli della bocca le si inarcano leggermente, la sua rete era già preparata
e sono stata io a farla entrare, un anno fa, Cassandra sempre, anche senza saperlo.
Io sono libera, anche se solo di morire, ma muoio perché ciò in cui credo continui, perché
questa bianca e triste bambina diventi una donna con una sua vita e tutti i mezzi per viverla.
Io sono viva ed ho il libero arbitrio.
Io mi spengo perché la mia fiamma è coperta dalla cenere degli errori di una vita di paure e di
un destino scritto in fretta per raggiungere risultati improbabili.
Mi sento sorpresa dalla semplicità di questa scelta: poche ore per decidere di lasciarmi morire,
quando è stato così difficile vivere, costruire ponderando ogni decisione, prendendo tempo,
quasi in una lotta per risalire la corrente di un destino già scritto.
Non sono triste. Ho avuto il mio canto del cigno: ho desiderato, ho amato, ho provato a
riscrivere una storia che, purtroppo, era incisa col sangue, il mio. Forse è stato proprio il
possedere questo canto dentro di me, che mi ha dato la possibilità di una scelta.
Io esco dalla scacchiera e mi dono a Gessica: lei vivrà nella verità e la verità ci renderà libere.
È dura. Sento il mio corpo svuotarsi e rimanere attaccato alla vita solo attraverso il sottile tubo
della flebo. Sento Gessica catturarmi come una mosca nella ragnatela che le ho lasciato
tessere giorno per giorno, delicatamente e amorevolmente. Vedo i suoi occhi aprirsi mentre i
miei abbassano le ciglia lentamente. Vedo il suo sorriso mentre il mio si spegne ed il monitor
fischia un fischio lunghissimo e lugubre.
Sono libera. Siamo libere.
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EPILOGO
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La donna spense il computer.
Aveva un’espressione dolente, aggiustò con cura le pieghe della veste bianca che
scaramanticamente indossava sempre quando scriveva, reclinò il capo verso destra, il viso
rivolto verso un cielo immaginario e disse: Ho dovuto farlo. Dovevo farla uscire di scena.
Aveva incominciato a parlare dentro di me ed a scrivere lei i miei sogni e la mia storia.
Erano state insieme tanto tempo, lei e Cassandra – pensò – e adesso lei avrebbe dovuto
imparare a scrivere di altro, forse era arrivato anche per lei il momento di crescere. E poi non
poteva più trattenerla: Stefano aveva acceso il suo computer, accecato dalla curiosità e dalla
rabbia per essere stato escluso; si era riconosciuto ed era andato via allo stesso modo che lei
aveva descritto nell’ultimo episodio della serie, lasciando un vuoto orribile.
Lo psicanalista era preoccupato di vederla preda del suo stesso personaggio.
Lei doveva riprendersi Stefano e fare tacere Cassandra che, per poter vivere, stava
trasformando la sua autrice in un episodio.
L’editore non sarebbe stato contento – pensò – ma in fondo quello era solo un personaggio,
seppure così letteriariamente fortunato: probabilmente, se anche lei non l’avesse spinta ad
uccidersi, si sarebbe stancata di vivere una vita comune e sempre uguale come gli esseri
umani.
La vita è un’illusione per tutti, così come è illusoria la possibilità di pilotare il proprio
destino, anche solo per morire.
Cassandra avrebbe capito – pensò la Dama bianca – in fondo era solo un personaggio e, forse,
un giorno le sarebbe apparsa ancora in sogno, distesa goffamente sulla spiaggia come un
tempo, a chiederle un nuovo racconto.
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INDICE
CAPITOLO I .................................................2
CAPITOLO II................................................4
CAPITOLO III ..............................................8
CAPITOLO IV ............................................13
CAPITOLO V ..............................................20
CAPITOLO VI ............................................22
CAPITOLO VII...........................................33
CAPITOLO VIII .........................................39
CAPITOLO IX ............................................41
CAPITOLO X ..............................................43
CAPITOLO XI ............................................45
CAPITOLO XI ............................................47
EPILOGO ....................................................50
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