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Resoconto - Corecom Lombardia

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Resoconto - Corecom Lombardia
Convegno “Ragazzi 2.0, cyberbullismo, social networking:
come riuscire ad usare correttamente i new media”
Sala del Gonfalone – Palazzo Pirelli
Milano, 16 novembre 2011
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Il tema di oggi suscita
interesse, abbiamo un pubblico dedicato, fatto per buona parte da insegnanti, e
questo significa che il tema che trattiamo oggi ha effettivamente un riverbero
rispetto alla vita quotidiana e scolastica dei nostri figli e dei nostri ragazzi.
L’evento di oggi è per noi molto importante. Do subito la parola al presidente del
Consiglio regionale, Davide Boni, che ci dovrà purtroppo lasciare per presiedere ad
un incontro a livello internazionale. Farò in un secondo tempo delle considerazioni
più tecniche di avvio dell’evento.
DAVIDE BONI, Presidente del Consiglio regionale. Ringrazio il presidente
Minoli e il Corecom lombardo per avermi dato la possibilità di portare il saluto del
Consiglio regionale e per aver scelto ancora una volta la nostra sede di Palazzo
Pirelli come momento di incontro.
Con Minoli c’è stato un primo tempo che, forse più a causa della stampa che di
altro, non ci vedeva felicemente insieme. Poi, dopo una chiacchierata avuta con lui e
con tutto il direttivo del Corecom, si è sviluppata questa sinergia fra la Presidenza
del Consiglio e il Corecom stesso al punto che, se non erro, come Ufficio di
Presidenza abbiamo richiesto di poter partecipare a tutte le manifestazioni e gli
incontri che voi fate, perché i colleghi dell’Ufficio di Presidenza ed io riteniamo
importanti le iniziative che portate avanti, in particolar modo questa.
È inutile nascondervi che io sono un fruitore molto forte dei tanti social network.
È la nuova politica, bisogna farlo. Attraverso i social network ho scoperto di riuscire
a comunicare con mia figlia, che ha 19 anni e studia a Mantova. Spesso e volentieri
ci incontriamo sui social network, dove lei entra ripetutamente e segue i miei profili.
Ho visto che anche mio figlio più piccolo, che ha 9 anni, inizia ad avere un
approccio con il sistema multimediale, soprattutto a livello di Rete, che io alla sua
età mi sarei sognato. A parte che quando io ero bambino questo tipo di supporto non
c’era, in ogni caso non avrei avuto la sua stessa manualità e capacità di contattare, di
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fare cose e di organizzarsi.
Come era già stato detto con il presidente Minoli nel corso di un precedente
convegno su altri temi, la capacità ad avere informazioni e tanti contatti nel più
breve tempo possibile, se da una parte è una grande opportunità dall’altra porta
purtroppo anche delle distorsioni, tanto è vero che, come Presidenza del Consiglio
regionale unitamente al Corecom, ci siamo arrovellati sull’idea di lavorare ad un
progetto di legge o di fare qualcosa per mettere in atto qualche azione. È un
ragionamento che stiamo facendo soprattutto per le persone più giovani, e
soprattutto per il fatto che la Rete è un meccanismo che, se non viene gestito nella
maniera esatta, ti porta a ad avere dei rapporti non veri, perché non hai un contatto
diretto con le persone e non sai con chi hai realmente a che fare dall’altra parte. Ci si
crea anche un mondo tutto proprio.
Rispetto alla questione del bullismo, soprattutto voi insegnanti che affrontate il
problema nelle scuole vis à vis con i ragazzi dei vostri istituti, potete immaginare
come il medesimo problema si presenti in un sistema come questo, dove
difficilmente hai di fronte la persona ma parli attraverso un’immagine, un’icona,
una fotografia.
Io ho avuto la possibilità di inquadrare tantissime persone che parlano con me su
Facebook, e quando le incontri diventa stranissimo riportare la loro immagine
virtuale ad una persona reale.
È per questo motivo che credo che questo tipo di convegno sia importante. Il
messaggio che vi lascio, rispetto al concorso a premi e a tutte le iniziative, che sono
importanti perché tutto aiuta, è quello di allenare la mente, se possibile, e di avere la
capacità di sfruttare le Istituzioni che fanno norme rispetto a iniziative che, al di là
della prevenzione, possano diventare anche un sistema impostato con una norma.
Con questo non intendo dire che voglio bloccare con delle leggi, attenzione; la
Repubblica italiana ed anche la Regione Lombardia fanno leggi per tutte le cose e
tutto lo scibile umano, magari anche per cose che possono essere interessanti per
questa situazione.
Quando parliamo delle fasce più giovani parliamo di fasce in formazione, e per
un ragazzo prendere un’impronta sbagliata poi è un problema.
Io sto studiando i Sumeri con mio figlio. Vi lascio immaginare quali siano i miei
ricordi scolastici di una quarantina di anni fa. Lui, però, ha una capacità rapidissima
di assumere informazioni, e se gli dai un’informazione distorta difficilmente poi
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riesce a eradicarla. Questo è il punto. Possiamo immaginare cosa succede rispetto ad
altre situazioni dove, magari, si emulano anche dei sistemi, delle idee e dei simboli
che sono sbagliati e che poi vengono tradotti in azioni. Oltretutto, il più grande dei
miei figli è una femmina, per cui ha un approccio diverso rispetto al più piccolo.
Hanno dieci anni di differenza, ma vedo immediatamente la differenza.
Vedo che mio figlio più piccolo assume informazioni sul modo di parlare e tutto
il resto, e se prende come simbolo qualcosa di sbagliato poi ho difficoltà a
correggerlo, perché lavora con l’innocenza di un ragazzino di 9 anni, per cui il
“male” non riesce a considerarlo. Oltretutto, se poi lo vede ripetere in televisione,
potete immaginare come diventa difficile intervenire.
Vado all’incontro internazionale, oddio: con “internazionale” si intende i Ticinesi
della Svizzera, che però sono anche fuori dall’Europa, quindi extracomunitari.
Stiamo preparando con loro dei Tavoli affinché poi l’esecutivo possa intervenire
con situazioni operative.
Vi ringrazio ancora e vi faccio i miei complimenti. Ringrazio il presidente Minoli
e lo avverto che, visto il modo in cui mi avete sollecitato, anche con gli amici del
Canton Ticino, rispetto ai problemi che riguardano le frequenze e quant’altro, c’è
completa disponibilità da parte dell’Ufficio di Presidenza ad organizzare un
momento di incontro con i dirimpettai Ticinesi. Grazie e buon lavoro.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Ringrazio il presidente
Boni. In effetti, Corecom è più conosciuto per gli ambiti di monitoraggio e di
presidio dei segnali televisivi e, più in generale, per la dinamica delle televisioni.
Spesso e volentieri si rivolge al Corecom l’utenza televisiva o giornalistica nel
momento in cui ci sono le tornate elettorali, per il famoso discorso della par
condicio. Qui rientra il discorso delle antenne.
Tuttavia, tra le deleghe che ci vengono date da AGCOM c’è proprio quella della
tutela dei minori. Nel Comitato, che si è insediato l’anno scorso e di cui io ho
l’onore di avere la presidenza, abbiamo valutato con attenzione anche lo strumento
del nuovo mezzo. I new media, legati al sistema one-to-one di relazione al di là di
un cavo o uno schermo, sono decisamente un modo nuovo di approcciare e sono
sicuramente, per noi Comitato regionale, un’attività molto stimolante perché nuova,
e che stiamo cercando di portare avanti un po’ in tutte le direzioni.
In un precedente evento abbiamo parlato di reputazione sulla Rete, per le aziende
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o per le singole persone che hanno un ruolo di opinion maker. Oggi parliamo di un
pubblico che decisamente è più delicato e fragile ed ha molta più attenzione verso le
novità, ma è anche più esposto proprio per la poca esperienza di vita che può avere.
Leggevo l’altro giorno una nota nella quale mi dicevano che, frequentemente, il
primo approccio al web avviene tra i 9 e i 10 anni. Naturalmente può avvenire con
l’accompagnamento della scuola oppure dopo una valutazione fatta dai genitori, ma
è comunque una situazione molto precoce.
Una volta, quando si forzava un gioco ci si prendeva un rischio, ma l’azione era
determinante, cioè uscivo di casa di nascosto. Oggi, senza uscire di casa di nascosto
riesco a parlare col mondo e non so chi ho dall’altra parte. Di conseguenza, oggi è
molto più inquietante mettere i nostri ragazzi in questa condizione e per le famiglie
significa avere la sensazione di dover essere sicuramente più preparate e più pronte
ad accostarsi a questo mezzo in modo e maniera di poter filtrare l’uso che i figli ne
fanno o di cercare di capire i migliori arcani per entrare nella direzione di lettura di
queste Reti. Il 2.0 ci ha portati ancor di più in quella direzione, quindi ha ancor di
più abbassato la soglia della penetrabilità.
Noi oggi svolgiamo un’azione squisitamente informativa rispetto al canale dei
media. Nell’occasione del convegno precedente, legato alla reputazione in Rete – mi
rivolgo al commissario AGCOM Gianluigi Magri, che conosco da tanti anni e con
cui abbiamo un ottimo rapporto di amicizia – lanciai un messaggio al consigliere
Martusciello di AGCOM, ovvero che sarebbe auspicabile un’area sperimentale e un
Corecom magari disponibile – noi lo saremmo – ad accogliere lo studio applicativo
verso l’avanzamento della Rete, quindi una possibilità di un suo monitoraggio
effettivo.
La Lombardia è prima nel mondo delle telecomunicazioni, e nell’accesso al web
come numero di utenti, di piattaforme e di tutto ciò che è nato è decisamente molto
interessante rispetto allo scenario internazionale.
La nostra giornata avrà due momenti. Una prima parte sarà dedicata alla
conoscenza e agli scambi di opinione con gli autorevoli relatori, che vi presenterò di
volta in volta. Nella seconda parte, come accennava il presidente Boni,
presenteremo un concorso.
Il Corecom Lombardia, coi colleghi del Comitato ha ritenuto importante cercare
di dare un contributo effettivo e, con la collaborazione dell’Ufficio regionale
scolastico della Lombardia, ha organizzato un concorso che penso possa essere uno
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stimolo per avvicinare di più i ragazzi alla problematica violenta del bullismo, una
manifestazione che oggettivamente speriamo di poter contribuire a sedare e a
ridurre.
Do
la
parola
alla
professoressa
Mariagrazia
Zanaboni,
presidente
dell’Associazione L’amico Charly, che occupa un importante ruolo e spazio
nell’attività della prevenzione col dialogo giovanile, soprattutto per quei casi di crisi
che, nelle manifestazioni più violente, possono talvolta portare ad un autolesionismo
tale da sfociare addirittura nella forma gravissima del suicidio.
Un nuovo predatore a caccia nella “rete”. Il cyberbulling: un fenomeno in
aumento. Come prevenirlo e contrastarlo?
MARIAGRAZIA ZANABONI, Presidente dell’Associazione L’amico Charly
ONLUS e membro della Commissione nazionale MIUR disagio e bullismo. Buon
giorno, sono presidente dell’Associazione Amico Charly, una prima Città dei
giovani dove si cerca di attuare una prevenzione e di mettere in campo, con tutti gli
adulti di riferimento, una nuova educazione, una nuova paideia. Ho avuto
l’opportunità, sia con il ministro Fioroni che con il ministro Gelmini, di essere
componente della Commissione sul disagio, nella quale mi è stata indicata la
necessità di occuparmi non tanto di bullismo, quanto di cyberbulling.
Ho preparato delle slide che magari vi sembreranno banali e semplici, ma ho
voluto farle così di proposito affinché fossero assolutamente comprensibili. Mi
soffermerò su alcuni aspetti che ritengo rilevanti.
Devo dire che le mie documentazioni e i miei studi su questo tema provengono
soprattutto da ricerche effettuate recentemente negli Stati Uniti, nel 2010, anche
perché su fenomeni di questo tipo noi dobbiamo lamentare una scarsa attitudine alla
ricerca su questo tipo di fenomeni, ricerca qualitativa e quantitativa in cui i dati
possano interagire. Questa non è una critica, ma un auspicio.
Ho voluto dare alla mia presentazione il titolo: “Un nuovo predatore a caccia
nella Rete: il cyberbulling, un fenomeno in aumento”. Anche se non se ne parla o se
ne parla poco e sui giornali e sui media questo fenomeno non appare, dalle ricerche
esistenti possiamo affermare che se il bullismo tradizionale forse è in diminuzione –
dico forse, ci vuole sempre molta cautela – siamo invece di fronte ad un incremento
delle forme di cyberbulling.
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Ho parlato di “predatore” e questo è un termine su cui tornerò spesso. Ho scelto
per rappresentarlo l’immagine di una figura sfocata, che è il predatore, e dall’altra
parte si vede la vittima.
Entriamo
subito
nel
cuore
del
problema.
Come
hanno
anticipato
precedentemente, questa nostra ultima generazione è stata chiamata la screen
generation o generazione dei digital natives. Non sono io averla definita così, io li
chiamo più facilmente i ragazzi dalle molti appendici, perché ne hanno tante:
cellulare, computer, playstation e così via. Questa generazione, che ha una grande
velocità di apprendimento dell’uso degli strumenti tecnologici, è stata capace –
questa è una risorsa – di utilizzare le nuove tecnologie in modo positivo per studiare
e per comunicare, ma anche per attuare forme di violenza ripetute nei confronti dei
suoi stessi coetanei.
Il bullismo c’è sempre stato sin da quando andavo a scuola io – ho 64 anni,
figuriamoci – ma aveva altre forme e non va confuso con la delinquenza nel
significato proprio della parola. Oggi il cyberbulling, in una definizione che credo
sia abbastanza chiara, rappresenta “atti di violenza ripetuta il cui fine è umiliare e
perseguitare in modo sistematico i coetanei”. Ripetuta significa, quindi, non solo
una volta, anche se una sola volta può essere veramente letale e dannosa.
Generalmente è ripetuta perché si cerca una vittima attraverso computer, cellulari ed
altri strumenti elettronici, anche attraverso i giochi elettronici. Vorrei sottolineare
che possiamo parlare di predatore abituale perché nella Rete può permettersi di
perseguitare in modo sistematico e continuativo.
Abbiamo quindi un predatore tecnologico ed una vittima che è anch’essa
tecnologica, nel senso che è stata catturata nella Rete della tecnologia, ma che
diventa vittima reale perché ha dei comportamenti, e per la quale l’essere vittima ha
degli effetti che poi vive sulla sua pelle nella realtà, quindi la vessazione passa dal
mondo virtuale al mondo reale.
Apro una piccola parentesi. Non è il problema di oggi, però uno dei più grossi
problemi che i ragazzi vivono è la scissione del loro io fra reale e virtuale, il
confondere ciò che è reale e ciò che è virtuale. È un problema educativo di altra
natura, però è da tenere presente.
La prima domanda è quali sono gli effetti che questo ha sulla vittima. Vi porto la
testimonianza di un ragazzo di 16 anni che è stato perseguitato e ne ha parlato, e del
quale non indico né il nome né la città perché ho voluto mantenere totalmente
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proprio quella privacy che invece il cyberbuller viola, penetra e svela.
I sintomi del cyberbulling sono molto chiari, sono stati studiati e analizzati.
Innanzitutto, la vittima cade in depressione. Riconoscere in un preadolescente – non
parliamo solo di adolescenti – la depressione è una delle operazioni più difficili. Chi
è esperto di questo campo sa benissimo che non è facile capire che un ragazzino di
9, 10, 11 anni è depresso, addirittura al punto da avere bisogno di un intervento
sanitario. Gli altri sintomi sono la tristezza, la rabbia e la frustrazione – gli
americani dicono che il ragazzo diventa angry – atteggiamenti che sembrano essere
discordanti perché il ragazzino triste e depresso ha scatti violenti di ira e di rabbia.
Uno degli atteggiamenti più negativi per un preadolescente e un adolescente è la
vergogna. Io mi occupo di suicidio adolescenziale e giovanile, ed oggi devo dire
anche infantile, perché abbiamo un numero elevato di bambini di 9, 10, 11 anni che
si suicidano. Uno dei tanti elementi che fa scattare questo comportamento è la
vergogna. La vergogna di andare a scuola, ad esempio. La paura di andare a scuola
perché forse è a scuola che c’è il predatore.
Questi atteggiamenti, che vanno individuati e colti, creano a loro volta altri
problemi che coinvolgono la famiglia e la scuola. Guarda caso, coinvolgono cioè i
primi attori educativi. Nascono problemi familiari, la famiglia non capisce perché il
ragazzo non mangia, perché ha questo atteggiamento, perché non vuole andare a
scuola, e pensa che sia un fannullone. Nascono problemi scolastici e la scuola non
capisce perché questo ragazzo va male, perché si nasconde, perché non va a lezione.
Ho fatto solo degli esempi molto semplici.
Ricordo un caso capitato recentemente, di cui posso parlare perché il fatto è stato
pubblicato su tutti i giornali. Un ragazzo di Ischia, perseguitato via e-mail con
immagini ed altro, è arrivato a preferire, a scegliere, a decidere – chiaramente in
seguito a uno stato di depressione – di morire, e si è suicidato piuttosto che
continuare ad essere la vittima designata di un predatore tecnologico. E non è stato
l’unico, ho citato lui perché è un caso di comune conoscenza.
Dove opera il predatore? Opera nel cyberspazio, dove ormai i ragazzi fanno
piazza, fanno il muretto, fanno quella che prima era la panchina, cioè i luoghi di
aggregazione dei miei tempi. I ragazzi si incontrano, comunicano in chat, social
network, Facebook, Youtube. Guardate che io non sono contraria: io nel 1980, da
vecchia insegnante di greco, utilizzavo il PC per la didattica, non tanto per i miei
studi. Questo è un altro problema che deve coinvolgere l’esponente del Ufficio
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scolastico regionale.
I ragazzi accedono inoltre anche ai nuovi siti ludici interattivi, come chat-roulette
e luoghi dove si gioca a poker. Bisogna porre attenzione perché anche lì il
predatore, come un hacker, riesce ad entrare.
La stima più recente l’ho trovata in uno studio del 2010 fatto negli Stati Uniti,
che stanno seguendo il fenomeno come l’emergenza dei prossimi dieci anni. Questo
deve essere chiaro: gli Stati Uniti stanno dichiarando che sarà l’emergenza
educativa più grave dei prossimi dieci anni, e sappiamo che loro anticipano ogni
cosa.
Nei ragazzi tra gli 11 e i 18 anni la statistica presume che le vittime di predatori
siano state dal 10 al 40 per cento, con sicurezza il 20 per cento. Dico “presume”
perché qui nasce il fenomeno dell’omertà, oltre ad altri fattori di cui parlerò dopo
velocemente. In chi è vittima, o nella famiglia che se ne accorge, nasce proprio
quasi parallelo, speculare, quello che capita con un tentato suicidio: si sta zitti, si
preferisce non parlarne, si preferisce tacere.
Io posso dire che in Italia ci sono 150 mila casi di tentati suicidi giovanili e il
Ministro dell’Interno mi dice che sono 18. Certo, ufficialmente sono 18, ma io ti
dico che sono 150 mila, secondo le mie stime. Certamente occorrerebbe una ricerca
seria, fatta alla maniera anglosassone.
È interessante che il 10 per cento di loro – questo è un dato certo – è stato sia
vittima che predatore. Ecco che comincia: chi è vittima, può assumere a sua volta
quel comportamento, può rispondere o fare suoi gli atteggiamenti del predatore,
quindi diventa ambivalente, è vittima ed è contemporaneamente predatore, questo
perché il cyberbulling è proprio paragonabile ad una malattia virale, è un virus.
Non sono assolutamente paragonabili in tutto e per tutto gli atteggiamenti del
cyberbulling col bullismo. Il primo dato fondamentale, enorme, eclatante che dà
veramente la cifra del cyberbulling è che la vittima non conosce il suo predatore e
non ne conosce neppure le motivazioni. Nel bullismo, cioè quando si prende in giro
qualcuno continuamente per umiliarlo nella realtà, la vittima vede il suo “carnefice”,
sa come agisce, può anche tentare una difesa. Qui siamo invece nell’anonimato
totale. L’uso del nick name o di account diversi – sono bravissimi in queste cose –
diventa la più grande protezione del predatore.
Ecco che il cyberbulling diventa un virus – dico virus proprio nei suoi termini
semantici, quasi una malattia che si trasmette e si propaga in tutta la Rete, il che
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significa il villaggio globale, il mondo – e un ampio numero di giovani, a scuola,
nelle città, nel villaggio globale può diventare oggetto, anche se non conosciuto, di
un attacco.
È più facile fare il predatore usando la tecnologia rispetto al pugno, alla violenza,
all’offesa, perché può essere attuato ovunque e il cyberbullo non ha alcuna reazione
immediata. Questo fa crescere la sua potenza, si sente onnipotente rispetto al bullo
tradizionale.
I nostri giovani adolescenti e preadolescenti da un lato cercano continuamente la
trasgressione, perché senza trasgressione non c’è adolescenza, dall’altro,
contemporaneamente, cercano il rischio e l’onnipotenza. Queste sono le tre
caratteristiche, fra le tante, che il cyberbullo riesce a realizzare nella Rete virtuale.
Sta diventando un’emergenza per il numero sempre maggiore di giovani che
interagiscono con le nuove appendici tecnologiche. Io ho due nipoti gemelli e mia
figlia si era imposta che non avrebbe dato loro il cellulare finché non avessero
compiuto 14 anni, ma in un’occasione in cui sono andati con gli amici in un
campeggio dove non c’era il telefono dovevano implorare il compagno di prestare
loro il suo. Lo hanno avuto “a tempo”, ma intanto l’hanno avuto.
Pensiamo a quante appendici hanno – non è solo il cellulare – e sono tutte
interattive. L’appendice nella mia infanzia erano il libro o la televisione, quando era
ancora in bianco e nero e non era interattiva. Oggi siamo di fronte a una grande
rivoluzione, che può dare risorse enormi. Io non ne parlo in negativo, però devo
mettere in luce gli aspetti negativi di questa rivoluzione, loro li sanno usare tutti e
sono velocissimi nel farlo. Hanno inoltre un vantaggio enorme, una risorsa, perché
oggi attraverso internet e i social network non si parla solo con Mantova ma con la
Cina o con gli Stati Uniti, si entra in relazione con tutto il villaggio globale quindi
non si hanno confini geografici e questo fa sentire ancora più onnipotenti perché
aumenta la libertà di comunicare, ma anche di essere predatore.
Per contrastare questa lotta è molto difficile attuare forme di prevenzione. Io non
sto pensando a voi, alla Lombardia, a scuole di eccellenza, a famiglie che sono già
attente a questo problema, ma alla maggior parte della popolazione italiana, che
ignora o sottovaluta il fenomeno. Abbiamo anche docenti e genitori che non sanno
ancora usare il computer. Non c’è da vergognarsi, però è un dato di fatto e invece di
ignorarlo o di sottovalutarlo noi dovremmo parlarne, come oggi qui stiamo facendo,
anche se questo incontro è ancora per pochi.
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Dobbiamo convincerci che è un problema reale, che secondo le stime USA
diventerà addirittura un’emergenza nei prossimi dieci anni. Come accennavo prima,
però, c’è il problema dell’omertà. Anche chi conosce il problema, chi non ignora,
chi non sottovaluta, quando si trova di fronte a una situazione di questo tipo o
quando cerca di intercettare i segnali il più delle volte – è la nostra cultura – tace.
Preferisce tacere, preferisce non dire che il proprio figlio è vittima di un predatore,
preferisce camuffare quasi fosse – probabilmente lo è – uno stigma, esattamente
come se fosse una malattia mentale.
I segnali però ci sono, perché i ragazzi li mandano sempre: li manda chi tenta il
suicidio e li manda chi è depresso. I segnali ci sono e devono essere intercettati.
Generalmente questo avviene a casa più che a scuola, è proprio la casa il luogo
prediletto. Il ragazzo cessa di usare il computer o il cellulare, improvvisamente non
lo usa più; appare nervoso quando gli arriva un sms o un’e-mail, ad esempio; ha
difficoltà ad andare a scuola o ad uscire; molte volte arriva al punto di non
mangiare; ha attacchi di depressione e spesso, di fronte al genitore che entra in
camera all’improvviso, cambia programma o chiude il PC quando un adulto si
avvicina, ed evita di parlare di ciò che fa al computer se il genitore gli chiede cosa
stia facendo per cercare di aiutarlo o di prevenire qualche problema.
Prima di tutto dobbiamo tentare – dico tentare perché non è facile – di creare un
ambiente dove i ragazzi possano parlare e comunicare con i loro adulti di
riferimento. Quando parlo di adulti di riferimento non intendo solo genitori e
docenti. Dobbiamo coinvolgere, dobbiamo creare una filiera educativa, giovani,
educatori, counselling, uomini di legge, i social media e l’intera comunità.
Io sono presidente di Amico Charly, ma non posso risolvere da sola questo
problema. Io ho una sala informatica di 300 metri quadri, che era originariamente
sempre aperta alla navigazione on-line. Adesso i ragazzi entrano solo se sono
accompagnati da un educatore, perché abbiamo scoperto ragazze prostituirsi per
cinquanta euro e ragazzi maschi fare altrettanto, entrare in siti di violenza e mettersi
quasi a disposizione di un possibile predatore.
Molti educatori – questo è un problema – non possiedono il know-how per
comprendere cosa sta capitando, cioè in famiglia e a scuola abbiamo adulti
impreparati. C’è un gap di capacità tecnologiche enorme. Faccio un esempio
relativo alla scuola: quanti docenti usano il computer – parlo per l’Italia – come
strumento didattico e lo usano interagendo con i loro allievi? Quanti lo usano non
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come strumento di ricerca in internet ma come strumento didattico quotidiano?
Molta gente risponde, a me che ho una piattaforma, che non riesce ad accedere a
internet, non ne è capace, e io devo mandarla dal tecnico di laboratorio o devo
dedicare una persona alla loro formazione. Questo gap esiste, il know-how non è
così diffuso.
Il problema è che i nostri digital natives fanno un grande uso delle tecnologie.
Abbiamo stabilito che, più o meno, statisticamente sono connessi 7 ore su 24, non
solamente al computer ma connessi in generale: cellulare, e-mail, internet, social
network, Facebook e via dicendo. Chiaramente, il loro know-how è altissimo, ma
vorrei aggiungere un problema laterale, perché se 7 ore su 24 non comunicano
realmente, non vedono negli occhi i loro interlocutori, non parlano realmente,
devono riempire un vuoto che è uno dei problemi più grandi dei preadolescenti e
degli adolescenti: la solitudine.
I genitori ammettono che non hanno le competenze e gli insegnanti hanno paura
ad intervenire in comportamenti che molte volte sono adottati fuori dalla scuola.
Quando i genitori si accorgono che i loro figli sono vittime – e qualcuno se ne
accorge – devono cercare di non chiudergli subito il computer ma di rassicurarli e
dare loro un aiuto; devono dimostrare ai loro figli, attraverso parole e fatti, che
intendono mettere fine a questo attacco, ma non lavorando da soli, in casa senza
dirlo a nessuno bensì con i docenti o con gli altri educatori, con gli oratori e tutti i
luoghi di aggregazione, cercando, se individuato – qualche volta si riesce a farlo –
di incontrare i genitori del predatore. I genitori devono sempre collaborare nella
filiera, ad esempio per “tentare” con i provider di rimuovere questo materiale
d’offesa. Sappiate che qui siamo di fronte a una violazione potentissima della
privacy, ciò che è messo on-line non si può più togliere, bisogna trovare il modo di
rimuovere le immagini che sono sconvolgenti per la vittima. Si può anche instaurare
un rapporto positivo con la Polizia, monitorare le attività dei figli ed anche elaborare
con loro una specie di contratto, una regolamentazione sull’uso di internet che fissi
regole che vadano rispettate.
Torniamo al problema di fondo: i ragazzi mandano segnali, i ragazzi stanno male
perché non hanno regole, ma il genitore è stanco, arriva a casa la sera e non ne può
più e quindi far rispettare la regola chiede impegno, volontà, passione, amore ed è
anche una grande difficoltà.
La scuola deve educare la comunità ad un uso responsabile, parlandone, facendo
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incontri nelle classi, dedicando tempo a questo problema. Deve chiarire – come è
già stato fatto dal MIUR con l’iniziativa “Smonta il bullo” – che il bullismo è
sbagliato. Devono anche essere messe in atto azioni disciplinari, senza mai
tralasciare la discussione e un uso della tecnologia con supporti.
La scuola deve soprattutto diventare protagonista di alleanze con l’intera
comunità scolastica, deve creare alleanze educative, le cosiddette buone pratiche. In
una scuola hanno fatto un manifesto contro il cyberbulling, in altre scuole hanno
invitato gli allievi più grandi a fare da tutor e da mediatori con i più piccoli, perché
il ruolo è diverso. Se il clima della comunità scolastica è positivo, rassicurante,
chiaro su questo problema, probabilmente il fenomeno può rassicurare il ragazzo e
potrebbe anche essere tenuto sotto controllo.
Abbiamo poi il grosso problema della legge, degli uomini di legge. Negli Stati
Uniti sono molto veloci, loro hanno nelle scuole il policeman che interviene. Da noi
questo ancora non c’è, però l’applicazione della legge gioca un ruolo importante e
se noi avessimo delle piccole équipes di uomini di Polizia o di personale comunque
legato al mondo della legge, ma équipes formate e specializzate che intervengano in
modo preventivo per spiegare quanto il cyberbulling sia contro la legge e quali sono
i suoi effetti negativi, questo potrebbe essere un altro elemento della filiera.
Potrebbero spiegare in classe, in poco tempo, il fenomeno e i problemi di sicurezza
per scoraggiarli dal cadere in rischi sempre più grandi. L’optimo sarebbe creare una
filiera educativa sociale per formare, per prevenire e per educare. Negli Stati uniti
c’è un apposito sito, www.cyberbulling.us.
Questa è utopia, perché non siamo ancora a questi livelli, dobbiamo fare ancora
tanti passi, tanti gradini per arrivare. Questo è ciò che io mi auguro avvenga anche
in piccole realtà.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Do la parola al dottor
Aroldi, professore di sociologia all’Università Cattolica e direttore dell’Osservatorio
OssCom che si occupa proprio di analizzare da vicino gli studi sui giovani in
relazione a questa tematica e ai suoi problemi.
Il fenomeno del cyberbullismo in Italia e in Europa
PIERMARCO AROLDI, Vicedirettore di OssCom, Centro di ricerca sui media e
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la comunicazione dell’Università Cattolica di Milano, professore associato Facoltà
Scienze della Formazione. Ringrazio il presidente e il Corecom per questo invito. Vi
porto qualche dato da una di quelle ricerche che giustamente la professoressa
Zanaboni diceva che in Italia ed in Europa si fanno raramente.
Vi presenterò dei dati semplicemente con l’intento di prendere le misure del
fenomeno. È una ricerca che si è sviluppata a livello europeo, ha coinvolto
venticinque Paesi in ciascuno dei quali sono stati intervistati mille ragazzi, compresi
fra i 9 e i 16 anni, e i rispettivi genitori, attraverso questionari in parte face-to-face e
in parte autocompilati.
Accenno solo a due aspetti di questa metodologia. L’omertà è un problema serio
anche quando si fa ricerca empirica. Intervistare direttamente i ragazzi è il modo
migliore per capire da loro qual è la reale esperienza di un fenomeno, ma è anche
chiaro che spesso è difficile vincere le loro resistenze. Il fatto che potessero
rispondere senza confrontarsi direttamente con l’intervistatore per certi aspetti ha
reso più semplice questo tipo di rilevazione.
È una ricerca i cui dati non vogliono avere tanto un valore assoluto quanto
comparativo, per aiutarci a comprendere – spero – il peso del fenomeno
cyberbulling rispetto al fenomeno bullismo e il peso che il fenomeno ha in Italia
rispetto ad altri Paesi europei, perché forse questo ci aiuta anche a prendere le
misure degli interventi che poi possono essere messi in atto.
In questi questionari, ai ragazzi è stato chiesto di rispondere a domande che
riguardavano prima di tutto i loro usi, quindi dove, come e quando, quanto tempo e
con quali competenze usavano la Rete, quali tipo di attività svolgevano tra quelle di
tipo ricreativo e quelle più legate al social networking o all’istruzione, infine a quali
opportunità e rischi sono andati incontro, con i benefici e i danni che, sempre
sentendo la loro diretta esperienza e quella dei loro genitori, potevano aver ricavato
da questa esperienza on-line.
Nel complesso, parlando dei ragazzi europei che usano internet, un 41 per cento
del campione afferma di aver incontrato qualche tipo di rischio, ma la tipologia dei
rischi è abbastanza ampia: si va da contenuti che sono di per sé pericolosi e che
prevedono i ragazzi come semplici destinatari, ai contatti in cui i ragazzi sono
partecipanti di un’interazione sociale e tutti gli affetti.
Da questo punto di vista io sarei un po’ più prudente nel separare così
radicalmente on-line e off-line; in realtà, quello che le ricerche ci dicono è che fra
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on-line e off-line c’è una continuità quasi assoluta, e che per certi aspetti i ragazzi
hanno ragione quando confondono l’uno con l’altro perché per loro non c’è
differenza (probabilmente non c’è più differenza neanche per noi, da questo punto
di vista).
Infine, abbiamo i comportamenti che hanno i ragazzi come protagonisti, in
particolare come carnefici o come vittime rispetto ad alcune attività pericolose. Le
aree di rischio maggiore sono quelle che riguardano i contenuti generati dagli utenti,
ad esempio i siti che parlano di autolesionismo, anoressia, tossicodipendenza, e che
in qualche modo sostengono questo tipo di pratiche; le molestie sessuali, che vanno
distinte dal bullismo sia on-line che off-line; i contenuti pornografici; l’abuso dei
dati personali.
Tutto sommato, il bullismo on-line in senso stretto è un rischio che riguarda il 3
per cento dei ragazzi in quanto carnefici e il 6 per cento dei ragazzi in quanto
vittime. Dopo di che c’è da fare un ragionamento nel passaggio tra il rischio e il
danno, perché non tutti i rischi a cui si fa fronte si trasformano automaticamente in
danni. Diverso è il tipo di reazione e di turbamento che i ragazzi possono avere di
fronte a una medesima forma di interazione.
Ancora per misurare il fenomeno, su tutti i ragazzi intervistati la media è che il
19 per cento dei ragazzi europei sono stati vittima di bullismo, ma solo il 6 per cento
di bullismo on-line. Per l’Italia le percentuali scendono all’11 per cento del bullismo
e al 2 per cento di bullismo on-line, il che non vuol dire che siamo tranquilli ma che
in Europa il fenomeno è mediamente più diffuso. In alcuni Paesi le percentuali si
avvicinano a quelle che ci sono state mostrate per gli Stati Uniti e arrivano, ad
esempio, per le Repubbliche baltiche, dove il fenomeno più radicato, al 43 per cento
di bullismo e al 14 per cento on-line. Il fatto che in Italia le cifre siano più basse
rispetto alla media europea significa che siamo in un momento privilegiato per
intervenire perché il fenomeno, seppure in crescita, è ancora contenuto.
Per quanto riguarda le vittime del bullismo, ci sono delle variabili sociodemografiche che ci aiutano a riconoscerle. La percentuale maggiore riguarda
ragazzi che appartengono a uno strato socio-economico più basso e riguarda alcune
età particolari: la preadolescenza, ovvero 11-12 anni, e la tarda adolescenza, 15-16
anni.
In quanto vittime, coinvolge sia le femmine che i maschi più o meno allo stesso
modo. In quanto autori, le cose sono un po’ diverse: i maschi sono di più, ma c’è
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una novità, perché on-line le caratteristiche proprie del bullismo si trasformano. C’è
una continuità molto forte, i profili di coloro che sono coinvolti in atti di bullismo
off-line e on-line sono molto simili, riguardano persone che appartengono allo strato
socio-economico normalmente svantaggiato, spesso famiglie monogenitoriali che
hanno quindi meno risorse sociali per attivare le reti di protezione e probabilmente
anche di cura – di care – nei confronti dei ragazzi, ragazzi che hanno spesso
difficoltà psicologiche, in particolare ragazzi che sono sensations seakers, cioè
cercatori di emozioni forti.
Da questa ricerca emerge che la maggior parte dei bulli è anche vittima del
bullismo, con delle percentuali molto forti. Su base europea parliamo del 60 per
cento, ma on-line c’è anche una maggiore reciprocità. Questo significa che dentro
gli ambienti on-line è pratica relativamente più semplice che la vittima del bullismo
ne diventi a sua volta un protagonista.
Le maggiori agevolazioni, per così dire, che la Rete consente permettono anche
alle ragazze di essere bulle più facilmente di quanto non lo siano off-line. Non è un
dato positivo, però ci aiuta a capire la trasformazione delle regole del bullismo
tradizionale una volta che si passa on-line.
È vero che chi ha un profilo di social network aperto è più facilmente vittima, ma
non sono i siti di social network i luoghi più pericolosi, che sembrerebbero invece
essere quelli dedicati al gaming, quindi al gioco nelle sue diverse forme. Questo
però ci aiuta anche a capire che dentro al bullismo on-line c’è una componente
ludica, anche se di un gioco duro, rude, spesso scorretto, ma c’è una componente di
questo tipo che non va sottovalutata.
Come dicevo, non tutti i rischi si trasformano in danni. Ci sono alcune categorie
di ragazzi per cui il rischio incontrato si tramuta molto più facilmente in un trauma,
in un turbamento. È più facile per i ragazzi di stato socio-economico medio, è più
facile per i ragazzi più piccoli, fra i 9 e i 10 anni, e poi ancora tra gli adolescenti –
perché lì probabilmente il gioco si fa molto più pesante – ed è più facile per le
femmine. Queste sono quindi categorie che possono essere particolarmente tutelate
perché particolarmente deboli di fronte a questo passaggio dal rischio al danno vero
e proprio.
Veniamo infine ai genitori. I genitori italiani, rispetto a quelli europei, sono
molto apprensivi, e questo lo sappiamo già per esperienza. Tanto per intenderci, il
74 per cento dei genitori italiani è preoccupato di quello che il ragazzo fa a scuola,
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contro il 51 per cento dei genitori europei come media. Poi siamo al 57 contro il 43
per cento di preoccupazione circa il rischio che il figlio subisca infortuni sulla
strada, e al terzo posto c’è la preoccupazione per il rischio del bullismo.
Il rischio che il figlio sia trattato in modo cattivo e malvagio dai compagni
coinvolge il 37 per cento dei genitori italiani che sono stati intervistati.
Vediamo che cosa fanno i ragazzi quando sono stati effettivamente bullati e ne
hanno provato disagio. Ne parlano, ne parlano con qualcuno, nel 70 per cento dei
casi con gli amici, con i compagni, il che vuol dire che la cultura dei pari e la Rete
dei pari è il luogo privilegiato in cui immaginare qualunque operazione di sostegno
e di intervento. In un secondo tempo ne parlano con i genitori, nel 57 per cento dei
casi.
In merito ad altri due rischi che sono stati monitorati, la pornografia e il sexting,
troviamo un aspetto interessante, ovvero che nella maggior parte dei casi ci si
rivolge esclusivamente agli amici e non ai genitori. Nel vissuto dei ragazzi, quindi,
il bullismo ha dei tratti molto diversi rispetto a quelli tipici della cultura dei pari, ad
esempio, rispetto alla sessualità, che è una tipica questione che si affronta fuori, tra
compagni, fra amici, in modo orizzontale.
Il bullismo, tutto sommato, è avvertito anche dai ragazzi come un disagio rispetto
al quale il ricorso all’adulto è significativo, quindi bisogna dare loro opportunità
perché questo ricorso sia possibile. In questo senso, il 5 per cento di ragazzi che si
rivolge all’insegnante sembra una misura molto piccola invece è molto significativa,
perché vuol dire che gli insegnanti da questo punto di vista sono effettivamente
figure di riferimento.
I genitori sono molto preoccupati, ma sono inconsapevoli. La media europea ci
porta un 56 per cento di genitori, i cui figli sono realmente stati vittima di bullismo,
che sostengono invece che loro figlio non lo sia mai stato, contro un 29 per cento
che ne è consapevole. Questa è la media europea, ma il dato italiano classifica i
genitori italiani come i più inconsapevoli: siamo all’81 per cento di genitori
intervistati, i cui figli sono stati bullati, che sostengono il contrario. La
preoccupazione senza consapevolezza è dannosa, non è utile.
Il cyberbullismo ha componenti di tipo culturale e sub-culturale, il che significa
che richiede interventi di tipo educativo e non di tipo restrittivo, poliziesco, di
controllo.
I ragazzi più esposti ai rischi on-line sono quelli che hanno anche altre fragilità
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psicologiche o familiari off-line, e anche da questo punto di vista la contiguità fra
on-line e off-line è decisiva.
Le politiche di intervento da questo punto di vista dovrebbero sostenere le
vittime, per evitare che diventino carnefici a loro volta, e dovrebbero agire
contemporaneamente sull’intero contesto, ancora una volta on-line e off-line. In
questo senso il gruppo dei pari e le internet culture giovanili sono luoghi decisivi in
cui elaborare forme di relazione alternative.
Il ruolo degli insegnanti nella scuola è centrale, ma mi permetto di ricordare in
modo particolare la loro capacità di sviluppare progetti di media literacy, di media
education. Il fatto che un ragazzo abbia aperto il proprio profilo su Facebook può
essere questione di sensations seeking, ma può anche essere questione di mancanza
di literacy, cioè di alfabetizzazione informatica. Lì si tratta di supportare i ragazzi
con delle conoscenze e delle competenze.
È necessario che i genitori in famiglia siano meno apprensivi ma più consapevoli,
e da questo punto di vista credo che una responsabilità fondamentale derivi ai
media, che dovrebbero fare meno allarmismo e dare più informazione seria,
attendibile e non giocare sui grandi casi sensazionali.
Parlando dei media metto dentro anche le piattaforme dei social network. Questo
significa che dare più informazioni vuol dire anche costruire ambienti più sicuri dal
punto di vista del design, ma credo che questa sia una corresponsabilità che i grandi
brand necessariamente dovranno prima o poi sviluppare, se non la stanno già
sviluppando. Una collaborazione anche con loro, da questo punto di vista, è
decisiva. Grazie.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Quest’ultima riflessione
sui media mi darebbe modo di approfondire il discorso, ma non ne ho il tempo. Do
la parola al dottor Iannaccone, psicologo presso l’Azienda ospedaliera
Fatebenefratelli, che invito a portarci le sue considerazioni.
La rete e social network una risorsa per contrastare il cyberbulling
NICOLA IANNACCONE, Psicologo Ospedale Fatebenefratelli, ambulatorio
per le vittime del bullismo – Presidente Arci genitori. Io non lavoro presso
l’ospedale Fatebenefratelli, ma ho collaborato nella redazione di un progetto per
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fermare il bullismo. Lavoro in un consultorio familiare.
Nel 2009, nell’ambito del progetto “Stop al cyberbullismo” abbiamo realizzato
dieci cortometraggi e abbiamo prodotto un kit didattico, che pubblicizzo perché i
diritti d’autore vanno al primo ambulatorio per le vittime di bullismo, che ha sede
presso l’ospedale Fatebenefratelli. Questo lavoro è stato fatto in sinergia con le
prime classi di due scuole, una secondaria di primo grado e una secondaria di
secondo grado. I filmati riguardavano l’utilizzo intelligente e didattico delle
tecnologie informative e delle tecnologie comunicative digitali.
Non si può più parlare di nuove tecnologie, perché la realtà è aumentata ed ha
una nuova dimensione, nella quale stiamo entrando: Facebook, i social network,
internet, il web 2.0 sono tecnologie al pari dell’automobile, della quale non diciamo
più che è un nuovo mezzo per muoversi. Abbiamo questi strumenti per informare e
per comunicare.
La filosofia di fondo dei cortometraggi, come viene enunciato nel titolo del mio
intervento, è che la tecnologia può essere usata per contrastare il fenomeno del
cyberbullismo, quindi diventa una risorsa.
Per sostenere questa tesi, racconto in maniera molto sintetica quello che è
successo in Italia, e per quale motivo noi ci siamo preoccupati in maniera
strutturata, e formalizzata con dispositivi, del fenomeno del bullismo, in ritardo
rispetto al resto dell’Europa (tiritera che ormai conosciamo ed evito di ripetere).
L’Italia ha preso in esame il tema del bullismo perché a Torino, nel maggio del
2006, alcuni ragazzi hanno ripreso col videofonino un atto di vessazione nei
confronti di un ragazzo con sindrome di Down. Nel mese di luglio, questi stessi
ragazzi hanno postato su Youtube il filmato. Nel settembre dello stesso anno, un
obiettore di coscienza che stava facendo servizio civile presso un centro che si
occupa di ragazzi Down vede questo filmato, si interroga su questi contenuti –
anche per la sensibilità che ha sviluppato nel corso della sua attività – e segnala la
cosa ai suoi superiori, che fanno partire una denuncia. Da ottobre a dicembre 2006
la stampa si occupa di questo fenomeno in maniera molto forte, andando a scovare
anche situazioni che non si conoscevano ma che già esistevano sulla Rete, come
ScuolaZoo ed altre situazioni di questo tipo. Nel febbraio del 2007 c’è il primo
dispositivo del Ministero della Pubblica istruzione – allora era pubblica, adesso non
so cosa sia diventata – nel quale il ministro Fioroni attiva l’Osservatorio di cui fa
parte la professoressa Zanaboni ed anche una serie di dispositivi per contrastare il
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fenomeno del bullismo.
Il primo dispositivo è il divieto assoluto di portare i cellulari a scuola. È un po’
come se, per evitare che i ragazzi scrivano sul muro col pennarello a punta quadra,
si evitasse l’utilizzo del pennarello a punta quadra a scuola. La soluzione non è
vietare per legge questi strumenti coi quali si comunica e si fa informazione e sui
quali la nostra civiltà si sta riadattando e riprogettando all’interno della nuova
rivoluzione tecnologica informazionale, ma creare con la legge un Dispositivo per
rendere obbligatorio e accessibile l’utilizzo della Rete a scuola. Le scuole invece
non sono ancora cablate, non in tutte le scuole c’è possibilità di accesso alla Rete.
Lo stesso strumento delle lavagne interattive multimediali è usato in maniera
molto ridotta rispetto alle sue potenzialità, e non c’è quell’investimento nella
tecnologia che farebbe sì che i ragazzi imparassero ad utilizzare precocemente
questo strumento per poterlo poi utilizzare in modo migliore e non all’interno di
fenomeni come quello di cui stiamo parlando adesso.
La questione fondamentale è questa, cioè che c’è un divario tra i nativi digitali e
gli immigrati digitali, che siamo noi, e che il più delle volte abbiamo a che fare con i
deportati digitali, cioè con quelli che non ne vogliono sapere nulla e che
considerano questo come un mondo che non esiste, mentre invece noi sappiamo che
tutto quello che in questo momento sta succedendo in questo pianeta e che ci
coinvolge direttamente è legato proprio alle possibilità di questi strumenti.
La questione si risolve se noi affrontiamo in maniera sensata, razionale, logica e
di prospettiva quello che dobbiamo fare, cioè adeguare le nostre scuole, i nostri
contesti educativi a questo tipo di bisogno, affinché non ci sia differenza tra chi
utilizza la Rete precocemente e chi la Rete non la utilizza se non come mezzo di
lavoro e non come modalità per fare scuola.
Col progetto “Stop al cyberbullismo” abbiamo cercato di fare questa operazione
nel 2009. Abbiamo trovato un’azienda privata che produce contenuti per i cellulari e
per internet, e che sta sviluppando anche dei sistemi di gioco on-line, che ha
investito nel nostro progetto esattamente come un’industria investe su tutti i
dispositivi per proteggere l’autista e i passeggeri nell’abitacolo della macchina. È
questa la sinergia che bisogna trovare, è questa la strada che, a mio avviso, bisogna
imboccare, sulla quale non siamo ancora adeguati.
Dall’altra parte c’è il problema dei genitori, che hanno ancora un’idea di internet
come di un fatto negativo. Io mi preoccuperei tantissimo se mio figlio o mia figlia o
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il figlio di qualche mio amico leggesse Dante per sette ore di fila. È un caso molto
emblematico, trovo davvero che sia un falso problema quello del tempo, il problema
è il modo in cui il tempo viene usato, perché anche Dante, se letto per sette ore di
fila, fa male a tutti.
Il bambino che sta sfidando i campioni di scacchi a livello mondiale gioca tre ore
al giorno a scacchi. Se succedesse a mio figlio mi preoccuperei, ma lui vuole
diventare campione mondiale di scacchi, quindi va benissimo. Sappiamo che i
genitori di Alberto Tomba, quando lui era bambino, gli costruirono una finta
montagna nel box per farlo allenare fin da allora. Chi ha delle doti le sviluppa,
eventuali problemi nascono non solo dalla tecnologia ma anche da Dante o da
qualsiasi strumento che sottrae tempo.
È lo star vicino ai propri figli e il passare del tempo con loro che dobbiamo
reintrodurre all’interno dell’organizzazione familiare, ma qui si tratta di parlare di
organizzazione familiare, di organizzazione del lavoro, dei tempi, e ritorniamo al
punto di partenza: dobbiamo creare un sistema educativo articolato e complesso,
che comprenda questi strumenti – perché fanno parte di questo mondo – e che aiuti i
genitori a superare il loro analfabetismo e a non sentirsi deportati, ma quantomeno
immigrati che riescono ad integrarsi in questa nuova cultura.
A quel punto potremo occuparci del bullismo o del cyberbullismo nella
dimensione che il Canada ha intrapreso ormai da dieci anni, ad esempio, cioè di non
parlare più di bullismo o di cyberbullismo ma di programma quarantennale per
sviluppare le relazioni sociali e ridurre la violenza. Questo è lo scenario: parlare di
bullismo o di cyberbullismo vuol dire parlare della violenza, dell’aggressività di
questi temi.
Le attuali emergenze, segnalate anche dal presidente degli Stati Uniti, sono sul
bullismo omofobico. Ebbene, non facciamo come quando nel 2009 abbiamo
scoperto che anche le ragazze mettono in atto azioni di cyberbullismo e ce ne siamo
scandalizzati: se stiamo attenti, se siamo sulla questione, se ci documentiamo e se
leggiamo, oggi dobbiamo registrare che il vero problema, che è anche un problema
di suicidi con numeri significativi, è legato al tema del bullismo omofobico.
Dobbiamo occuparci anche di questo aspetto, se non addirittura farlo diventare una
delle priorità. Grazie.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Ringraziamo il dottor
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Iannaccone. Adesso abbiamo una relazione in coppia, come la definisco io, con
alcune testimonianze della dottoressa Chiara Ribichini, giornalista televisiva prima
in Sky TG 24 e poi, a Milano, presso la redazione Web, e con il dottor Paolo
Barcaccia, sovrintendente della Polizia di Stato e più esattamente sovrintendente
presso la Polizia postale.
Avremo modo magari di sentire anche delle risposte che la dottoressa Zanaboni
chiedeva alla Polizia rispetto alle problematiche che questa mattina abbiamo avuto
modo di ascoltare.
A 14 anni in chat: ecco cosa succede
CHIARA RIBICHINI, giornalista SKY. Il mio intervento è il racconto di
un’inchiesta che ho realizzato per il sito internet di SKY, per il quale lavoro. È
un’inchiesta che aveva l’obiettivo di fotografare quello che accade in chat e nei
social network come Facebook, e come si muovono i minori all’interno di queste
realtà.
Per far questo ho creato due profili, mi sono finta una quattordicenne su
Facebook e una ragazzina di 12 anni sulla chat di Tuttogratis. Ho scelto queste due
fasce d’età perché, parlando anche con la Polizia postale, è emerso che la fascia più
esposta ai rischi della Rete è quella degli adolescenti che frequentano le scuole
medie.
La prima cosa che mi ha colpita nel fingermi un’adolescente più o meno di quella
fascia di età è stata l’estrema facilità con cui sono riuscita a crearmi una Rete di
amici, che ho cercato in modo casuale tra gli interessi degli adolescenti. Per farlo,
ho iniziato a frequentare le pagine di Facebook dedicate, ad esempio, ad alcuni
cantanti resi famosi dai talent show televisivi, che diventano immediatamente
beniamini dei ragazzini di oggi, e ho iniziato ad inviare richieste di amicizia a
ragazzi che avevano un’età anagrafica simile a quella che interessava a me.
Nessuno, ma veramente nessuno, ha rifiutato la mia richiesta di amicizia, quindi nel
giro di pochissimo tempo sono riuscita a crearmi a una Rete di piccoli amici.
Soltanto una persona si è posta il problema che dietro quella mia richiesta di
amicizia potesse nascondersi qualcun altro. Io non avevo neanche una foto, avevo
scelto come avatar il disegnino di un personaggio dei Pokémon e questo poteva
insospettire gli utenti. Solo un ragazzo mi ha chiesto se ci conoscevamo, chi ero e
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quanti anni avevo, ma anche di fronte al fatto che non ci conoscessimo mi ha
accettata comunque.
Questo accade fondamentalmente perché gli adolescenti vogliono avere una rete
di amici più vasta possibile, perché più amici hai e più sei importante, in Rete e
forse anche nella vita, nel senso che sicuramente anche nella vita se si portano tante
persone all’interno di un gruppo ci si sente un po’ più leader di quel gruppo. C’è
una differenza sostanziale, però, ovvero che nella vita si tende a fare una selezione
delle persone con le quali instaurare un discorso di amicizia, mentre in Rete questo
non accade. Di conseguenza, il contatto diventa immediato con persone che non
solo non si conoscono, ma alle quali si dà accesso a tutti i dati personali.
Questa è la seconda cosa immediata che balza agli occhi di chi inizia a
frequentare i profili dei minori, ovvero che quasi tutti i loro profili sulle pagine di
Facebook sono aperti, cioè visibili, nel senso che ogni cosa che loro scrivono o
pubblicano e ogni loro foto, nella maggior parte dei casi è visibile non soltanto alla
loro rete di amici e di contatti su Facebook ma a tutti gli utenti. Si può immaginare
che in alcuni casi questo sia dovuto alla difficoltà di impostazione della privacy sul
social network, ma spesso si tratta proprio di una scelta perché stiamo pur sempre
parlando di minori che sono nati su internet, che non hanno alcun problema, che
hanno una dimestichezza estrema e superiore a quella degli adulti, quindi conoscono
perfettamente come regolare la privacy su Facebook.
La loro è una scelta legata al fatto che, spesso, su internet si cerca di mettersi in
mostra e di affermare la propria persona, e di conseguenza è voglia di protagonismo
e di sentirsi più importante degli altri. Ovviamente, se ogni cosa fatta viene vista da
un numero grande di persone, questo non fa che essere in sintonia con il loro
obiettivo.
Questo è un elemento che spicca soprattutto per le ragazze. La loro voglia di
affermazione, tra i 12 e i 14 anni, coincide spesso nella voglia dell’affermazione in
Rete della loro femminilità. Questo fa sì che sui loro profili compaiano centinaia di
foto – questo è il terzo elemento che mi ha immediatamente colpita – di ragazzine
che si atteggiano a “veline”, che si scattano delle fotografie con il cellulare o con la
webcam, con tacchi, minigonne, trucco, spesso e volentieri anche in biancheria
intima, senza alcun pudore, nella convinzione che comunque lo schermo possa
proteggerle. In realtà avviene esattamente il contrario, perché inevitabilmente poi
questo gioco a essere donne, che nasconde anche una competizione tra adolescenti,
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perché ognuna vuole essere più bella dell’altra, può diventare molto pericoloso e
trasformarsi in un abuso.
Abuso non vuol dire soltanto violenza sessuale, ma qualunque atto di prepotenza
e di prevaricazione sull’altro quindi può esporre, in questo caso soprattutto le
ragazze, a quello che tra loro mai può essere definito come uno sgarbo da parte di
un altro, ma che in realtà per il Codice penale è un reato. Sulla tipologia dei reati in
Rete passo la parola al dottor Barcaccia.
PAOLO MARIA BARCACCIA, Sovrintendente della Polizia di Stato.
Buongiorno a tutti, faccio una precisazione a livello pratico: la Polizia postale ha
diversi uffici periferici in ogni provincia e, da circa due anni, in accordo con varie
associazioni, ha cominciato a praticare un’educazione nelle scuole, sia per i genitori
che per gli alunni. Un’educazione intesa non nel senso stretto di un insegnamento,
ma di una sensibilizzazione ai pericoli in cui possono incorrere, che non sono solo
reali pericoli di adescamento ma anche di commettere reati del Codice penale.
Un ragazzo ha la convinzione che non può scaricare una canzone o un film
perché è una pratica illegale sul copyright, ma non ha la percezione che entrare nella
casella di posta elettronica di un amico e fargli uno scherzo è anche questo un reato,
un reato di accesso abusivo di violazione della posta elettronica. Oppure, non ha
idea che mandare un virus ad un compagno tramite un programma cosiddetto
“Trojan Horse” attraverso il quale controllare il suo computer e fargli scherzi è un
altro reato abbastanza grave.
Alcuni di questi reati sono a querela di parte, quindi magari le famiglie e i
ragazzi pacificano tra di loro, ma altri sono perseguibili d’ufficio, quindi siamo
obbligati a intervenire. Nascono così problemi per la famiglia, come le spese per gli
avvocati ed ogni altra spesa di giustizia che ne consegue. È una sensibilizzazione
ulteriore sui pericoli in cui possono incorrere i ragazzi, sia per i genitori che per gli
adolescenti che, involontariamente, commettono dei reati che a volte possono
addirittura essere particolarmente gravi.
Ad esempio, è capitato un caso – che per fortuna è raro – in cui un quindicenne e
la sorellina di 13 anni hanno addirittura esercitato un’estorsione verso un soggetto
adulto, ossia dal cyberbullismo tra ragazzi hanno fatto il passo successivo colpendo
un adulto. La ragazzina ha chattato con questo adulto in una chat erotica, e poi
hanno cominciato a ricattarlo e a pretendere ricariche telefoniche e regali in cambio
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di non sporgere denuncia.
Un po’ per emulazione, un po’ per conoscenza in Rete delle cose che succedono,
si rischia addirittura di commettere reati molto gravi, anche se i minori lo fanno in
maniera inconsapevole. È quindi utile sensibilizzarli anche al pericolo di infrazione
del Codice penale. Non deve essere uno Stato di polizia, però una sensibilizzazione
è utile.
È utile inoltre una sensibilizzazione ai rischi che si corrono con certi soggetti che
cercano sistematicamente siti o situazioni in cui ci sono i ragazzi esposti per
eventualmente adescarli. Si tratta del cosiddetto “adescamento on-line”, che ancora
non è stato sigillato come reato. In Italia non esiste il reato di adescamento on-line;
è considerato reato solo nel caso in cui il soggetto minorenne produca delle
immagini di tipo erotico oppure se c’è un incontro con una molestia sessuale, nel
qual caso subentra un reato. Il semplice chattare con un minore o fare avances
generiche, invece, non è considerato reato. Il grooming in Italia ancora non è
considerato reato, però ci sono dei rischi, sui quali lascio la parola alla dottoressa
Ribichini.
CHIARA RIBICHINI, giornalista SKY. Due o tre giorni dopo che avevo iniziato
a frequentare il mio profilo finto su Facebook, ho ricevuto un messaggio da una
persona malintenzionata. Si trattava di un uomo di 38 anni, che è stato poi
ovviamente segnalato alla Polizia postale e che ha iniziato a chattare con me
dicendo che si rammaricava che io avessi 14 anni, poi mi ha detto che lui ne aveva
38 e mi ha chiesto se mi truccavo e perché lo facessi. Quando gli ho risposto che lo
facevo per sentirmi più grande, lui mi ha risposto che io ero già una donna. Questa è
stata la prima battuta che ha fatto in chat, alla quale poi sono seguiti altri messaggi
in cui mi ha detto, ad esempio, che lui era una persona più grande di me, ma che se
volevo poteva essere anche un bambino, fino ad arrivare alla richiesta di un
incontro, dichiarando di cercare amicizia in carne ed ossa e proponendomi di
incontrarci.
A questi messaggi sono seguite canzoni dedicate e cuori digitali regalatimi su
Facebook. Questa persona mi ha fatto sentire donna e ha fatto quello che vogliono le
ragazzine di quell’età, che hanno un’insaziabile curiosità per il mondo degli adulti
che si avvicina, quindi vogliono sentirsi donne, belle e più grandi.
L’adulto malintenzionato agisce proprio su questo terreno, si avvicina fingendosi
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a volte un tardoadolescente e dichiarando la verità solo in un secondo momento.
Inizialmente i toni degli scambi di battute possono essere affettuosi, poi si arriva ad
una volgarità che io ho riscontrato in particolar modo nella chat di Tuttogratis, dove
invece fingevo di avere 12 anni e dove i messaggi che mi sono arrivati, anche in
questo caso da una persona che aveva 40 anni, sono stati subito molto più espliciti:
mi ha chiesto se ero fidanzata, se mi volevo descrivere, mi ha fatto i complimenti e
chiesto una foto, poi mi ha chiesto se avessi già baciato qualcuno e se avessi avuto
voglia di farlo, dicendo che lui aveva una voglia pazza di sentire le sue labbra sulle
mie. La discussione in questo caso era stata subito più diretta.
C’è però un segnale positivo: le adolescenti sono consapevoli, molto più di
quanto si possa pensare, dei rischi della Rete, in particolar modo del rischio di
essere adescate on-line tanto che, in molti profili di amiche che avevo in questa chat
di Tuttogratis, ho trovato dei messaggi in cui si diceva di fare attenzione ad un certo
utente perché cercava di conoscere e poi adescare ragazze minorenni. La persona
che veniva segnalata, un cinquantenne di Milano, sulla bacheca di un’altra ragazzina
di 12 anni che io avevo nella mia Rete di amici aveva postato come primo
messaggio «sei bellissima ti vorrei conoscere».
Ovviamente, da quello che è un semplice adescamento on-line poi si può arrivare
al sesso telefonico, alla masturbazione via webcam e, nei casi peggiori, alla violenza
sessuale. La Polizia postale è in campo proprio per questo, per monitorare 24 ore su
24 il web per cercare di fermare questi reati.
PAOLO MARIA BARCACCIA, Sovrintendente della Polizia di Stato. A questo
proposito vorrei sottolineare che nel 1998 è stata approvata una legge che definirei
illuminata, perché permette, tramite l’articolo 14, di poter agire sotto copertura, cioè
di fingersi pedofili o vittime minori.
Questo è un mezzo molto potente, è una discriminante di legge che viene
applicata solo per la droga, per il terrorismo, per le armi e, in questo caso, per il
contrasto alla pedopornografia e alla sua produzione.
Questa legge è molto importante perché, per scoprire come si muovono, cosa
cercano, come cercano di abusare in maniera discreta di questi minori, bisogna
interagire con loro, e questa legge ci dà la possibilità di farlo, fingendoci come loro
per incontrarli. Grazie a questo possiamo seguire i loro movimenti e prevenire in
molti casi il danno verso il minore e, in alcuni casi, quando l’abuso addirittura si è
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già consumato, possiamo liberare la vittima dal carnefice.
Questa è una legge molto importante che ci permette di agire 24 ore su 24, di
andare sul siti di giochi dove ci fingiamo adolescenti o bambine al di sotto dei 14
anni per prendere informazioni dalle stesse adolescenti presenti in Rete perché,
come diceva Chiara, si scambiano tra di loro informazioni di pericolo, quindi a volte
la segnalazione amichevole di un’adolescente ci può fare individuare un soggetto
potenzialmente pericoloso.
FABIO MINOLI, Presidente di Corecom Lombardia. Grazie per questa
interessante testimonianza. Do la parola al dottor Antonio Affinita, direttore
generale del Movimento italiano genitori (MOIGE) che, come molti di voi
sapranno, proprio per andare incontro alle famiglie e ai ragazzi, redige annualmente
un’interessante classifica sulla qualità dei nostri programmi televisivi. È una specie
di hit parade dei programmi più visti, un giudizio dato dall’Associazione
relativamente al gradimento, considerato il pubblico minore.
Il ruolo dei genitori
ANTONIO AFFINITA, Direttore del MOIGE. Ringrazio il presidente Fabio
Minoli di Corecom per la sensibilizzazione e l’attenzione su un tema che ci tocca
fortissimamente. I figli, per alcuni potranno essere realtà da studiare e approfondire,
ma per noi genitori i figli in ultima istanza sono “piezz’e core”, come diceva il
grande Edoardo, e la preoccupazione su un tema del genere c’è ed è forte. È una
preoccupazione che vorremmo fosse significativamente diffusa in termini di
consapevolezza, di conoscenza del problema, e che tutto questo fosse
autenticamente trasferito anche ai nostri figli.
Ci accorgiamo anche della leggerezza con cui viene spesso approfondito questo
tema. Già la prima problematica riguarda il discorso della Rete per la quale, in
proporzione, si spendono centinaia di milioni di euro per pubblicizzarla: connettiti,
sii collegato, il bello della Rete, l’allegria con cui vengono pubblicizzate dal sistema
mediatico le connessioni quanto più veloci e rapide possibili, tutto un mondo
completamente e sempre allegro. Basta vedere le pubblicità di tutti quelli che
forniscono connessioni.
Dall’altra parte, vediamo quanto poco si fa per parlare dei problemi e dei rischi.
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Noi stiamo lavorando intensamente con la Polizia postale, con tante iniziative, con
spot e con progetti sul campo e nelle scuole, e ci accorgiamo anche della fatica di
trovare le risorse per le attività necessarie per farlo. Ci accorgiamo che è quasi una
goccia, ma che probabilmente può comunque dare senso e arricchire quell’oceano di
conoscenza di cui c’è bisogno in questo momento.
I dati parlano chiaro e implicano che c’è una totale mancanza di consapevolezza
concreta da parte dei genitori, e su questo bisognerà senz’altro muoversi.
Addirittura, appena 8 genitori su 100 hanno dei filtri ai loro PC, per filtrare almeno
quel 95-97 per cento di acqua sporca (ce n’è tanta, sulla Rete). Abbiamo percentuali
bassissime perché ci sono anche delle false convinzioni, cioè che tanto i ragazzi
sappiano superare questi filtri. Non è vero, ci vogliono livelli di competenza
informatica e tecnologica non indifferenti per scavalcare dei filtri ben programmati.
Un altro aspetto su cui dobbiamo essere tutti realisti è che i nostri figli usano e
abusano spesso della Rete, alla quale dedicano sempre più tempo all’interno della
giornata, tempo che viene tolto alle attività che li aiutano invece a crescere e a
formarsi. Ricordiamo che per imparare c’è ancora bisogno di olio di gomito, di stare
calati sul testo ad approfondirlo, e di questa mancanza poi raccogliamo i frutti.
Mi confrontavo ultimamente con alcuni analizzatori in un concorso pubblico di
alte cariche, di alti dirigenti dello Stato, i quali mi dicevano che effettivamente
avevano visto dei temi in cui non c’era la capacità, degli elaborati dove non veniva
neanche caratterizzata la differenza tra le congiunzioni e il verbo. Questo ci deve far
riflettere, perché di parole su quanto è bella la Rete io credo che ce ne siano già a
sufficienza. Iniziamo a parlare dei problemi degli abusi che intorno al problema
della Rete ci sono, fenomeni come il cyberbullismo o l’adescamento. Noi genitori
siamo preoccupati per i nostri figli, e guai se non lo fossimo. Questo non significa
atteggiamento censorio, ma atteggiamento di controllo e di responsabilità.
Devo dire che, più volte, chi non gradisce queste cose ha attaccato il nostro sito
immettendovi immagini pornografiche. Con la Polizia abbiamo addirittura aperto
una denuncia, per dire quanto questo discorso richieda una battaglia continua.
Troppo se ne parla in un modo entusiastico. Oggi oramai si parla di amici come
semplice cliccate e conoscenze. La Rete ci sta rubando la parola “amici”, che prima
aveva un valore. Oggi i nostri figli parlano di amici con superficialità, tanto che si
parla di amico intimo, cioè è necessario inserire un’altra parola per ridare alla parola
il significato di prima.
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Tutte queste cose ci devono far riflettere sull’enfasi che spesso diamo
eccessivamente. Ci vantiamo di quanto siano bravi i nostri figli sulla Rete, ma di
smanettare sono bravi tutti, non c’è bisogno di fare un lavoro di studio e di ricerca
sulle dinamiche della capacità di navigare; chiediamoci però se sono bravi anche a
riconoscere, ad esempio, l’immondizia culturale che trasferisce la Rete, o se hanno
la capacità di selezionare un’informazione.
Wikipedia dice bugie a non finire, come quella celebre di Ségolène Royal, che si
era inventata un personaggio di fantasia, cosa che le era costata parecchio sul piano
politico.
I nostri figli, dove imparano a distinguere la verità dalla nefandezza, o il fatto
vero da quello inventato da chi ideologicamente vuole condizionare le loro giovani
menti? Questi sono problemi grossi. Fare una ricerca è facile, ma non sempre si
conosce l’autorevolezza della fonte.
Credo che i problemi siano molto più ampi di quanto si possa credere, e la sfida è
forte, come genitori, come educatori, come istitutori. L’ignoranza nella capacità di
analizzare è grossa, allora ben venga che stiano sui libri o sugli e-book e che si
applichino su un testo, ad approfondire certe dinamiche. Invece hanno perso
completamente la capacità di applicarsi, di stare su uno studio, su un testo per
imparare, per conoscerlo, per approfondirlo. Sono tutte problematiche che stanno
emergendo.
Prima si parlava dell’emergenza dei prossimi anni: ma certamente, guai però a
non immaginarlo. Fa piacere che il Corecom Lombardia su questo abbia sollevato
un momento di confronto che è necessario e urgente.
Bill Gates, che di Rete ne sa più di noi, ha dichiarato pubblicamente di non far
stare la figlia oltre un’ora al giorno sul web.
Qui la sfida passa poi dall’essere tecnologica ad essere pedagogica ed educativa.
Mi riferisco alla capacità di saper dire no, come genitori, ai propri figli. Oltre a
consigliare di stare accanto al proprio figlio, bisogna dire che i genitori hanno la
prima esigenza di portare il reddito a casa, e oggi quasi tutti lavorano e quasi tutti
devono dedicare tempo alle faccende di casa.
Quando noi segnalavamo episodi di TV volgare, i signori della TV ci dicevano di
stare accanto ai figli mentre guardano la televisione. Ma poi il reddito a casa chi lo
porta? Chi aiuta a rispondere all’esigenza di tenere una casa decorosa e pulita, di
preparare da mangiare? Dobbiamo essere realisti su queste cose, e l’essere realisti
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significa alzare il livello della preoccupazione, perché non c’è.
Gli spot che abbiamo fatto fanno proprio vedere dei genitori tranquilli, a casa,
mentre la figlia è nella sua cameretta ma sta navigando in Rete, in un universo
nuovo. Magari si è più preoccupati se la propria figlia è in un brutto quartiere di una
città metropolitana che non se sta navigando al PC, perché il pericolo è percepito
ancora come un discorso fisico. Fortunatamente ci auguriamo che qualcosa cresca.
Un altro aspetto è la problematica della normativa. Noi siamo probabilmente in
epoca preromana, per quanto riguarda l’aspetto giuridico. Non c’è ancora un
impianto giuridico che tuteli, e dietro l’anonimato si nascondono le peggiori
nefandezze, perché quando non si è riconosciuti si dice di tutto, tanto che poi ci
sono anche dei risvolti.
Vedevo ultimamente la polemica su un noto portale che fa recensioni turistiche
di hôtellerie e ristoranti, dove tutti dicono tutto e il contrario di tutto su un
determinato ristorante, e c’è anche il dubbio legittimo che qualche ristorante paghi
per mettere una cattiva recensione sul ristorante concorrente e una positiva per lui.
Mi riferisco a Tripadvisor, abbastanza conosciuto.
Sono tutte problematiche che poi esploderanno e stanno esplodendo in modo
incredibile, quindi a livello di diritto bisognerà agire. Ci sono persone che
calunniano gratuitamente una realtà, ci sono problemi di reputazione, problemi di
cancellazione. Le sfide sono tante, fa piacere che se ne inizi a parlare e noi su questo
vogliamo e dobbiamo, come genitori, giocare un ruolo importante e centrale, perché
ricordiamoci che ne va il futuro dei nostri figli e della nostra società. Grazie
pubblicamente a tutti coloro che su questo saranno in prima fila per il bene dei
nostri figli e della nostra società.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Entriamo ora nella
seconda parte di questo incontro, che per me è molto importante perché è relativa a
cosa il Corecom, oltre ad organizzare questo convegno, può fare per stimolare le
famiglie e soprattutto i ragazzi a combattere questo fenomeno.
Con i componenti del Comitato che hanno con sensibilità affrontato questo tema
abbiamo deciso di sostenere un piccolo concorso, che verrà presentato
successivamente ma che desideravamo anticiparvi proprio questa settimana visto
che sabato sarà la giornata mondiale per la prevenzione della violenza sui bambini.
Oggi apriamo la ricorrenza di questo evento, che sarà poi celebrato sabato, e il
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Corecom farà la sua parte sostenendo e stimolando questo concorso.
Faccio questa precisazione prima dell’intervento della dottoressa Romagnolo
perché, grazie anche alla stretta collaborazione con l’Ufficio regionale scolastico per
le finalità del concorso e la distribuzione presso tutti i plessi scolastici
dell’informazione di questo concorso, auspichiamo che il risultato di raccolta dei
lavori che faranno i ragazzi possa essere interessante per dare uno spaccato della
visione di questa problematica da parte dei giovani.
Il punto di vista dell’USR per la Lombardia
ANNAMARIA ROMAGNOLO, Ufficio scolastico regionale per la Lombardia.
Ringrazio il dottor Minoli e tutti i dirigenti del Corecom, con cui da anni collaboro
in maniera molto interessante e proficua, per l’attenzione mostrata a tematiche che,
come Ufficio scolastico regionale per la Lombardia, ci interessano molto da vicino.
Anche il modo di trattare queste tematiche è stato sempre in grande sintonia con le
politiche dell’Ufficio.
Avevo pensato di dire altro, ma molte cose sono già state dette sul bullismo, il
bullismo elettronico, la scuola. Poi in realtà il discorso si è spostato alla Rete, al suo
utilizzo, alla tecnologia, ed è diventato abbastanza complesso.
Mi riallaccio anche all’appassionato intervento che mi ha preceduta: è
sicuramente un tema caldissimo, quello dell’utilizzo della Rete. Non sto parlando di
bullismo e neanche di bullismo elettronico, ma solo di utilizzo della Rete. Non si
può demonizzare o escludere l’utilizzo della Rete, non si possono bandire certi
strumenti che sono per tutti noi di grandissimo aiuto dal punto di vista culturale e
professionale. Anzi, come Ufficio scolastico regionale noi stiamo incentivando
l’utilizzo delle tecnologie nella scuola, ben sapendo che si tratta di qualcosa di
molto delicato e che soprattutto deve essere utilizzato con un senso. Io credo che
stia tutto qui: le tecnologie sono a questo punto un ausilio necessario, dobbiamo
imparare ad usarle.
Dal punto di vista dell’Ufficio scolastico regionale c’è, da una parte, la richiesta
alle scuole di dotarsi di certi strumenti; dall’altra, c’è il supporto che vogliamo
offrire ai docenti in primis – perché sono i nostri interlocutori – perché si formino
ed imparino ad usarlo correttamente, anche perché non possiamo fermare l’acquisto
delle tecnologie nella scuola né il loro utilizzo nei percorsi educativi. Dobbiamo
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solo presidiare che questo, che deve essere fatto perché non possiamo bloccare la
storia, sia fatto nella maniera più idonea possibile. Formare i docenti per noi a
questo punto è proprio una priorità.
La Rete nelle scuole deve entrare, le scuole si collegano, fanno lavorare i ragazzi,
gli insegnanti più bravi e più avvertiti fanno lavorare benissimo i ragazzi. Solo
quelli che non sono in grado di farlo fanno danni, e purtroppo ci sono. Il nostro
compito è quello di portare invece tutti i docenti ad avere una formazione tale che li
porti ad accompagnare in modo efficace i ragazzi in questo cammino, cosa che
stiamo facendo da un paio d’anni a questa parte e adesso faremo in maniera molto
più forte, proprio perché le tecnologie si diffondono anche senza il nostro permesso,
ragione per cui c’è bisogno di un presidio.
Per riallacciarmi più da vicino al tema del bullismo, proprio quest’anno abbiamo
cambiato il modo di approcciare questo tema, cercando di affrontarlo – lo faremo da
questo anno scolastico in poi – in maniera più propositiva, passando cioè da
un’etichetta che parla di lotta e contrasto alla violenza e al bullismo ad una diversa
politica di promozione di comportamenti positivi di cittadinanza democratica,
partecipata e attiva nei ragazzi.
Non è semplicissimo e non è questa la sede per spiegarlo, ma mi sembrava
doveroso anche spiegare che c’è stata un’inversione di rotta per cui moltissime
azioni, grazie anche ad altre collaborazioni (la Direzione generale Protezione civile
Lombardia ed altri), c’è un grossissimo piano di formazione ai docenti su questi
temi, affinché sappiano alimentare e promuovere competenze di cittadinanza nei
ragazzi. Il titolo che abbiamo dato a questo Piano è “Scuole che promuovono
cittadinanza attiva e legalità”.
Ci saranno anche molte azioni rivolte direttamente ai ragazzi della Consulta e ai
rappresentanti di classe, che sono chiamati in prima persona, perché è ovvio che
lavorare in questo modo assicura in maniera indiretta - o dovrebbe aiutarci ad
assicurare – un allontanamento da certi comportamenti negativi, violenti e di
bullismo.
È qualcosa di più ancora che il prevenire, è un discorso di carattere culturale,
perché è ovvio che la scuola non può che fare un discorso di questo tipo, educativo e
culturale, e tutto il resto della società civile dovrebbe fare la stessa cosa. D’altra
parte, noi come Ufficio scolastico in Lombardia siamo molto fortunati perché
abbiamo una storia e una prassi di collaborazione interistituzionale con la Regione,
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gli enti locali, il mondo accademico e le fondazioni veramente molto forte, perché
questa, come altre sfide, si vince solo con una vera collaborazione.
È per questo che la collaborazione con il Corecom per noi è stata veramente
interessante. Non è il primo convegno o il primo concorso o la prima azione a cui
collaboriamo, perché in modo diverso ognuno deve fare quello che gli spetta.
Ognuno ha un ruolo diverso e, affinando la collaborazione, forse insieme riusciamo
ad avere dei risultati.
Ripeto: non è combattendo il social network in sé né proibendo ai ragazzi di
connettersi che si risolve il problema. È vero che in realtà riescono a trovare il modo
di connettersi ugualmente, perché ormai tutto permette di farlo, anche i telefonini,
ma occorre vigilare ed essere pronti come genitori, come insegnanti e come
cittadini, e ognuno deve fare la propria parte. Grazie.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Ringraziamo la
professoressa Romagnolo. Direi che possiamo procedere parlando di ciò che ha
fatto il Corecom e del nostro concorso “Doma il bullo”, per vedere insieme lo spot
che proporremo ai nostri ragazzi. Vorrei anche ringraziare l’Associazione Terres
des hommes per la collaborazione tecnica e il supporto che ci è stato dato. Do la
parola a Marcella Volpe.
MARCELLA VOLPE, Corecom Lombardia. Buongiorno. Innanzitutto volevo
dire che l’idea di fare questo concorso ci è venuta perché, essendo più o meno tutti i
membri del Comitato degli ex ragazzi 0.0, che quindi non hanno avuto un
particolare approccio alle tecnologie, magari si ricordano molto bene che la cosa più
odiosa per un ragazzo è quella di sentire gli adulti che parlano di lui e di sentirli
provare ad utilizzare il loro linguaggio. Quindi ci è sembrato giusto far parlare di
cyberbullismo i ragazzi, e di farli parlare con quello che di solito è il mezzo con il
quale si documentano le azioni di cyberbullismo, perché tra tutte le altre cose il
cyberbullismo ha questa strana particolarità per cui nel bullismo tradizionale il bullo
si nasconde e non vuole che i suoi comportamenti siano conosciuti, mentre nel
cyberbullismo c’è una sorta di esibizionismo dei propri atti, che infatti poi vengono
documentati e messi sulle piattaforme, una per tutte Youtube, giusto per citare
quella che più facilmente mi viene in mente.
Abbiamo pensato a un concorso per un video da realizzare con un telefonino, e
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che documenti l’uso corretto che del telefonino si può fare, perché ogni strumento
non è né buono né cattivo – come nessun ragazzo è buono o cattivo – ma dipende
dall’uso che se ne fa. Il concorso sarà per i ragazzi delle scuole secondarie di primo
e di secondo grado.
Noi contiamo molto sull’Ufficio regionale della Lombardia per veicolare il
concorso nelle scuole e lo visualizzeremo su Facebook, visto è che il social media di
riferimento per i ragazzi.
Abbiamo pensato un video promozionale che dovrebbe spiegare ai ragazzi che
tipo di contributo vorremmo. Abbiamo scelto di rappresentare un fenomeno che è
abbastanza in crescita, ovvero quello delle ragazze, come diceva già il professor
Aroldi. Abbiamo scelto anche di fare un video che sia il più possibile vicino a
quello che noi vorremmo che i ragazzi mandassero, quindi un video di facile
realizzazione che sia girato con il telefonino. Tutte le informazioni possono essere
reperite su www.domailbullo.it, che è il nome del concorso. Mi auguro veramente
che possa essere un’iniziativa che trovi spazio tra i ragazzi e che ci consenta di
affrontare in un modo trasversale e con un linguaggio nuovo il tema di cui abbiamo
parlato oggi.
GIANLUIGI MAGRI, Commissario AGCOM. Ho sempre collaborato volentieri
e bene con il Corecom Lombardia, con la presidente Sangiorgio e tutti gli altri, e
quando è stato eletto il mio amico Fabio Minoli – amicizia ben precedente, perché
nei suoi trascorsi da deputato abbiamo speso lavorate insieme – mi ha fatto
particolarmente piacere, anche perché devo dire che il Corecom della Lombardia
non si sottrae all’abitudine di essere abbastanza avanguardista, cioè di cercare
sempre di valutare quali sono le nuove frontiere nei tempi della comunicazione
perché, come voi tutti sapete, il settore è tale che la continua evoluzione tecnologica
non solo qualche volta aiuta perché fornisce strumenti idonei a svolge la nostra
attività, ma ci rende anche la sfida sempre più continua e sempre più ardua, perché
l’innovazione tecnologica ovviamente porta alcune situazioni sempre più nuove e
sempre più diverse da controllare e da verificare.
È per questo che io quando sento parlare gli esponenti del MOIGE penso che
debbano studiare anche loro purtroppo sempre di più. Le relazione sono ottime per
cui si capisce che studiano, però mi rendo conto che anche la partita dei genitori,
come degli educatori, dei politici e delle persone interessate a questi problemi debba
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sempre sforzarsi di essere anche all’avanguardia e, come si dice oggi, up-to-date
rispetto all’innovazione anche delle situazioni.
In effetti, quando oggi ho ascoltato le prime relazioni su questo argomento ho
fatto una valutazione fra me e me, e pensavo che in fondo oggi il cyberbullismo non
è altro che bullismo, però con una serie di innovazioni, opportunità e possibilità
tecnologiche che lo rendono, se possibile, ancora più odioso e più difficile da
combattere.
Qui penso alla meritoria azione degli educatori ma anche, ad esempio, all’aspetto
repressivo della Polizia postale, perché è sempre più complicato anche intervenire in
settori nei quali non c’è solo una ipotesi di un reato o una stortura comportamentale
che deve essere corretta, ma ci si trova di fronte ad una situazione che, proprio per le
caratteristiche tecnologiche, assume determinati aspetti sempre più insidiosi e
sempre più difficili. Del resto, è vero che il cyberbullismo, come il bullismo
tradizionale, consiste in atti di violenza, intimidazione e molestia, però in questo
caso la tecnologia provoca il fatto che questi possono avvenire in forme molteplici e
che ce ne possa essere una costante diffusione. In particolare, la diffusione globale
attraverso la tecnologia è anche istantanea, c’è una documentazione audiovisiva,
abbiamo una delocalizzazione degli episodi e questo è un altro grande problema,
non si ha subito percezione di dove avvengano determinate cose e, in pratica, questa
delocalizzazione insieme alle opportunità date oggi dalla innovazione tecnologica
fanno anche sì che il potenziale invasivo sia aumentato all’ennesima potenza.
Ad esempio, nella violenza fatta attraverso il telefonino la vittima può essere
raggiunta 24 ore su 24, per prima cosa; secondariamente, può essere raggiunta
ovunque si trovi, perché l’accesso ad una mobile communication fa sì che il
soggetto che è oggetto dell’intervento possa essere raggiunto sempre. Fra l’altro, il
soggetto che attua questo tipo di violenza gode, grazie alle tecnologie, di alcuni
vantaggi negativi, ad esempio il fatto di poter intervenire senza essere individuato, o
perlomeno senza essere individuato rapidamente, e di poter intervenire a distanza.
Il fatto di non essere individuato immediatamente e di poter intervenire a
distanza fa sì che nell’autore di questo tipo di violenza si instauri un meccanismo
psicologico perverso, per cui si sente non identificabile e pensa in questo modo di
poter aumentare potenzialmente la violenza della sua azione perché gode
dell’anonimato e di una situazione nella quale non è raggiungibile fisicamente ed ha
una barriera di distanza fra sé e il soggetto che subisce la violenza.
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Il problema è molto diffuso. Il professor Aroldi citava prima dei dati molto
interessanti. Noi sappiamo che in effetti i dati di YouJizz on-line hanno evidenziato
come i Paesi nordici siamo invasi da queste cose, però anche noi siamo in una
situazione abbastanza preoccupante.
Io ricordo che, alcuni anni fa, fra le primissime richieste che furono fatte nel
settore delle comunicazioni sull’impatto sui minori, ce n’era una fatta negli Stati
Uniti nel 2003-2004, mi pare, che aveva fatto una valutazione a campione di
soggetti fra i 10 e i 18 anni, e già a quel tempo negli Stati Uniti i ragazzi passavano
circa metà della giornata, cioè dodici ore al giorno, collegati non solo al personal
computer ma anche a tutti gli altri strumenti di comunicazione elettronici come
videogiochi, I-pod, televisione, videoregistratori, telecamere, telefoni e così via. Il
dato era, nella fascia più bassa, già di otto ore al giorno. Erano dei dati incredibili.
Il 25 ottobre scorso, l’Autorità inglese nostra omologa, la Ofcom, ha pubblicato
un report dal titolo “Children and parents: media use and attitudes report”, ovvero
“bambini e genitori, uso dei media e attitudini all’utilizzo”. È un’inchiesta sull’uso
dei social media in età compresa fra i 5 e i 15 anni. Ci sono stati dei risultati
incredibili. Da queste ricerche emerge ad esempio che, nei soggetti tra i 4 e i 15
anni, ci sono punte di diciassette ore al giorno di rapporto con questi sistemi di
comunicazione elettronica. Ben il 95 per cento dei ragazzi tra i 12 e i 15 anni
possiede un PC con la connessione in Rete, il che è da affiancare al dato che i
genitori non sono tutti come Bill Gates, che si preoccupa del tempo che la figlia
dedica a internet.
Dai dati che citava molto bene Aroldi questa mattina risulta che il fenomeno è
veramente enorme, e direi che dà l’idea che non possa essere contrastato facilmente
ma che abbia una dimensione tale da dover essere accuratamente valutato, come
pure deve essere continuamente valutata l’evoluzione tecnologica, perché un altro
dato impressionante è la capacità dei minori di assumere in modo quasi naturale e
straordinario una grande competenza tecnologica. La loro capacità di apprendimento
è spesso quasi imprevedibile e ci sono genitori che, se non si intendono di
informatica, non si rendono conto della capacità tecnologica che hanno assunto i
loro figli nel fare una serie di operazioni elettroniche.
Il problema quindi è ben evidente e comincia ad essere noto, ma come sempre
esiste una carenza normativa generale che ci chiama troppo spesso ad agire per
analogia o per omologazione di leggi che, magari, non sono nate con quello
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specifico intendimento ma che devono essere valutate.
In questo devo dire che è molto brava la Polizia postale perché riesce, in modo
continuo, ad avere una verifica ed un’utilizzazione di quello che la normativa
consente rispetto a questo tema, che è in gran parte sottovalutato ma non perché non
ci sia la percezione che i minori debbano essere protetti, bensì perché spesso il ceto
politico e anche parte degli educatori non hanno immediatamente la percezione
diretta della attuale potenzialità negativa della tecnologia.
È più facile che se ne renda conto un giornalista esperto di comunicazione, che
non magari chi è chiamato all’intervento legislativo. È chiaro che qui il politico
bravo dovrebbe ascoltare gli esperti, ma la tempistica non è sempre quella idonea.
Abbiamo però numerose norme che possono essere richiamate, come ad esempio
l’importanza e la tutela dei minori nel settore delle comunicazioni e degli
audiovisivi, richiamata nello Statuto della famosa legge Maccanico n. 249/1997,
ripresa poi ulteriormente dalla Legge Gasparri del 2004 e, infine, sostituita dal Testo
unico del 2005 che prevede, tra l’altro: garanzia e tutela dei diritti fondamentali
della persona e, in particolare, della sua dignità; garanzia della promozione e tutela
del benessere, della salute e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del
minore; divieto di trasmissioni che contengano, tra l’altro, incitamenti all’odio
comunque motivato o che inducano a atteggiamenti di intolleranza basati su
differenze di razza, sesso, religione, nazionalità, o di trasmissioni che, anche in
relazione all’orario di andata in onda, possano nuocere allo sviluppo fisico, psichico
e morale dei minori, che presentino scene di violenza gratuita o insistita ed efferata,
ovvero pornografiche, salve le norme speciali per le trasmissioni ad accesso
condizionato, che comunque impongono l’adozione di un sistema di controllo
specifico e selettivo.
Il recepimento del Testo unico e del Codice di autoregolamentazione TV e
minori conferiscono all’Autorità poteri di vigilanza e discussione. È qui fra noi
Franco Mugherli, che sta combattendo un’importante battaglia proprio sul problema
del recepimento normativo delle norme europee per quanto riguarda i limiti, ad
esempio, della trasmissione di filmografia violenta o vietata nel nostro Paese.
Fra l’altro, noi siamo in una situazione abbastanza paradossale, perché quando si
trattò di normare a livello europeo il problema della trasmissione della filmografia
vietata, l’Italia fu fra i Paesi più rigidi. Ad esempio, in sede europea insistevano sul
fatto che dovesse esserci una violenza di tipo grave in queste scene, che dovesse
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essere un grave pregiudizio rispetto allo sviluppo psicofisico del minore, ma l’Italia
volle una normativa nella quale si parlasse solo di “lesione” del corretto sviluppo
psicofisico.
Ora, per un recepimento parziale di una norma europea, rischiamo di avere un
eccesso di tolleranza, che è stato comunque segnalato e sul quale è in corso un
dibattito importante anche all’interno dell’Autorità, per cui io spero che possa essere
presto recepito anche a livello governativo un intervento di maggiore specificazione
rispetto a quella norma, quindi ad un inasprimento che è quanto meno motivato.
Rispetto poi alle altre norme di legge che possono essere richiamate, abbiamo ad
esempio il decreto n. 218/2006 che, proprio sulla tutela dei minori, parla
dell’applicabilità delle norme di comportamento sulla partecipazione dei minori. Ad
esempio voi sapete che, ad un certo punto, abbiamo avuto in campo pubblicitario un
impazzimento, con minori utilizzati sempre e comunque. Lì, bene o male, un
provvedimento è stato fatto, così come pure nella norma sullo sport nella
programmazione televisiva, nel 2007, si è molto insistito sul fatto che ci sia questo
Codice media e sport che dovrebbe dare ai minori esempio di lealtà sportiva,
correttezza di comportamento, educazione e responsabilità, tutte norme importanti
che ogni tanto però dobbiamo richiamare perché rischiano spesso di passare in
secondo piano.
Di importante con l’Autorità abbiamo fatto una delibera, n. 165/06/CSP, che
richiama un atto di indirizzo generale che dovrebbe valere per tutte le trasmissioni al
pubblico, per cui si parla di rispetto dei diritti fondamentali della persona, della
dignità personale, del corretto sviluppo fisico, psichico e morale dei minori nei
programmi di intrattenimento e, sotto questo punto di vista, c’è un richiamo preciso
alle aziende radiotelevisive per una attenta applicazione di questa norma.
Da ultimo, il Decreto Romani n. 44/2010, nel dare attuazione alla direttiva 2007
ha sì quel vulnus di cui si parlava poc’anzi, ma ha comunque recepito altre
valutazioni restrittive rispetto a quella che può essere la libertà di accesso a
contenuti potenzialmente visivi nei confronti dei minori.
Importante è che, rispetto ad alcune situazioni nelle quali potenzialmente
l’accesso del minore può essere ritenuto in qualche modo pericoloso, l’Autorità ad
esempio sia stata la prima in Europa a regolamentare l’accesso alla televisione
tramite i telefonini. È stata una prima che poi è stata ripresa un po’ da tutti i Paesi
europei.
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Ha fatto altri interventi, ad esempio, sul problema del parental control e
dell’accesso condizionato alla programmazione, su cui però io devo dire che noi non
possiamo fare conto più di tanto perché, come diceva correttamente prima il dottor
Affinita, c’è un dilemma: il parental control è sufficiente o meno? Chi ritiene il
parental control completamente sufficiente sostiene che, in fondo, si cerca di
delegare al parental control quella che sarebbe la funzione dei genitori, per cui c’è
una deresponsabilizzazione del genitore. Dall’altra parte, ci sono genitori che
correttamente dicono che durante il giorno lavorano e non sono in casa, quando ci
sono cercano di fare il possibile ma quando non ci sono non possono certo chiudere
l’accesso ad ogni sistema di comunicazione audiovisiva. Il rischio c’è sempre.
Immagino già i bambini che imparano ad usare il sistema di parental control
prima ancora degli adulti, per cui figuriamoci quanto possa funzionare da barriera.
Anche questo, però, è uno strumento importante e utile che comunque credo debba
essere meglio regolamentato.
Con specifico riferimento ad internet, di cui oggi si è evidenziata la potenzialità
di pericolosità, esiste il Codice di autoregolamentazione internet e minori, che ha
superato il concetto tradizionale di autoregolamentazione per diventare quella che è
considerata la cosiddetta autoregolamentazione regolata, questo anche perché nella
nostra esperienza giuridica noi abbiamo un problema abbastanza buffo, cioè mentre
nel nord Europa i Codici di autoregolamentazione sono sempre costantemente
seguiti da tutti gli operatori che si autoregolano, da noi si pensa immediatamente
all’elusione della norma autoregolamentata, per cui la co-regolamentazione in
questo caso è estremamente motivata e seguita.
Per concludere, io credo che noi dobbiamo moltiplicare questo tipo di sforzi ed
essere grati a chi interviene nelle scuole, a chi parla coi genitori, a chi aiuta gli
educatori, perché spesso la percezione è che i genitori non abbiano sempre la
volontà o la voglia di capire cosa si nasconde dietro determinati fenomeni.
Quando io sento in TV i genitori di alcuni figli che hanno commesso atti di
violenza – ad esempio i black block – dire che si tratta di una bravata, a me viene la
pelle d’oca ma non tanto per il genitore, che di solito è una persona perbene e
correttissima che non farebbe mai un reato, quanto perché penso all’educazione
avuta da quel figlio da parte di un genitore che, magari, di per sé è una persona
integerrima, ma che sottovaluta i rischi di un’educazione sbagliata del proprio figlio.
Spesso ho la percezione – scusate, queste sono note più a livello personale che
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istituzionale, ma ci tengo molto a dirlo – di una certa stanchezza da parte degli
educatori e degli insegnanti nell’affrontare questo tipo di genitori. Purtroppo,
comincia a esserci un circolo vizioso nell’educazione fra genitori che tendono
sempre a scusare i figli e insegnanti che non hanno voglia di litigare con loro. Verrà
fuori un bambino irresponsabile, pazienza: sarà un problema dei suoi genitori.
Quando si chiude questo cerchio il minore è solo, e spesso cresce fin troppo bene
rispetto al rapporto con certi genitori o certi insegnanti che non ce la fanno più a
combattere.
Proprio per questa situazione, cioè il fatto che i minori abbiano al loro interno
tanti anticorpi contro il male, dobbiamo cercare di coltivare questi anticorpi e di
aiutarli, non perché l’adulto debba essere necessariamente una guida, ma perché io
credo fermamente che quello che divide l’uomo dall’animale sia una società
regolamentata, che ha la forza, la capacità, il coraggio e la responsabilità di tutelare i
più deboli.
Quando noi venissimo meno alla preoccupazione e all’obbligo di tutelare i più
deboli – che non sono solo i minori ma anche l’anziano non autosufficiente,
l’ammalato, il portatore di disabilità – normando, intervenendo e responsabilizzando
questi settori, io credo che abdicheremmo prima di tutto alla nostra funzione di
uomini, uomini civili, uomini responsabili, persone che una volta venivano chiamate
perbene.
Oggi temo che la società tenda a modellarsi sempre più sui bisogni materiali, sul
successo, sulle proprie affermazioni personali. Per carità, io credo che ognuno abbia
diritto ad avere opportunità e a fare di tutto per migliorare se stesso e la propria
posizione sociale, ma se abbiamo questo strabismo che rende i valori morali
secondari io credo che faremmo un torto prima di tutto a noi stessi, ma anche e
soprattutto rischieremmo di consegnare ai nostri figli un mondo peggiore di quello
che abbiamo avuto noi dai nostri genitori. Grazie e buon lavoro.
FABIO MINOLI, Presidente del Corecom Lombardia. Ringrazio il consigliere
Magri. Prima di concludere faccio un po’ di pubblicità al nostro Concorso e vi
segnalo che in cartelletta trovate il bando e tutte le informazioni utili. Il tempo che
ci è dato per promuoverlo presso i ragazzi è molto, perché scade il 29 febbraio.
Abbiamo quasi tre mesi utili per sollecitare la loro fantasia e la loro creatività per
ottenere i loro lavori. Vi ringrazio dell’attenzione.
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