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Teatro dell`assurdo e Brecht - Liceo Ginnasio "Luigi Galvani"

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Teatro dell`assurdo e Brecht - Liceo Ginnasio "Luigi Galvani"
TEATRO DELL’ASSURDO
Dagli stermini e dalle ecatombe della seconda guerra mondiale nasce un profondo sentimento
dell’assurdo, ma anche un vento nuovo destinato a rivitalizzare la letteratura, un desiderio di
rinnovamento che contesta la scrittura tradizionale. Essa infatti viene rifiutata per quanto riguarda
sia la struttura (la trama di eventi concatenati che giungono allo scioglimento viene sostituita da
un'alogica successione di fatti, senza alcun nesso né significato), sia la lingua (dialoghi senza senso,
ripetitivi e serrati, uso di proverbi, onomatopee).
Tra i maggiori esponenti Alfred Jarry, Samuel Beckett, Eugène Ionesco.
Caratteri generali:
il nuovo teatro mette in discussione le forme teatrali tradizionali, considerate logore e inadatte al
mondo moderno. I nuovi drammaturghi:
1) rifiutano il realismo nella rappresentazione dei caratteri e dei comportamenti, respingendo
l’idea di teatro come riflesso della realtà quotidiana e proponendo quella di raffigurazione
simbolica della condizione dell’uomo;
2) non riconoscono il teatro come strumento di diffusione di un messaggio sociale o politico;
3) non ammettono nemmeno che un’opera possa limitarsi ad una semplice funzione di
divertimento;
4) respingono anche il teatro-azione che sfrutta trame complesse ed elaborate.
I caratteri fondamentali del nuovo teatro, quindi, sono:
1) l’assurdità della vita umana posta al centro delle opere. I personaggi sono tipi senza
approfondimento psicologico, esseri dall’esistenza senza scopo, che provano, invano, a
cercare, a tentoni, una via d’uscita in un universo nel quale non trovano il loro posto. In un
mondo in cui sono soli e alienati, essi continuano a vivere per abitudine, a compiere azioni
meccaniche e ripetitive, aspettando una morte che li getterà in un nulla definitivo.
2) tale condizione trova l’espressione drammaturgica privilegiata nel linguaggio che
sostituisce l’azione. La nuova forma teatrale è, anzitutto, un teatro-testo, che mette in
evidenza l’incapacità dell’uomo a comunicare, a capirsi e a capire l’altro. La vuotezza
dell’esistenza e del pensiero si manifesta nella vuotezza del linguaggio. E gli autori teatrali
moltiplicano i procedimenti per renderne conto: banalità delle parole, clichés e luoghi
comuni, frasi destrutturate, povertà o, al contrario, tecnicità maniacale del lessico, ricorso ad
onomatopee, battute brevi e sconnesse o lunghi monologhi verbali. Tutto concorre a
mostrare come il linguaggio, invece di essere portatore di senso e strumento di
comunicazione, è un ostacolo che non permette l’instaurazione di scambi veri tra gli esseri
umani, avendo perso il suo ruolo d’intermediazione tra gli esseri umani.
3) subordinazione del ruolo del regista a quello del drammaturgo che è il creatore. Il
regista, infatti, deve accontentarsi di esser un artigiano, al servizio del testo che deve
rispettare fedelmente.
JARRY (1873-1907)
La sua fama è legata principalmente alla redazione dell’opera Ubu re (1896) al cui centro si trova
Padre Ubu, grottesco personaggio, avido di potere e di denaro, cinico, brutale che rappresenta il
piccolo borghese del tempo, affascinato dall’idea del potere e della gloria. Numerosi riferimenti al
Macbeth di Shakespeare sono presenti nella commedia.
IONESCO (1909-1994)
L'incontro con il teatro fu casuale e inaspettato:
«Comprai un manuale di conversazione dal francese all'inglese, per principianti. Mi misi al lavoro e
coscientemente copiai, per impararle a memoria, le frasi prese dal mio manuale. Rileggendole con
attenzione, imparai dunque, non l'inglese, ma delle verità sorprendenti: che ci sono sette giorni nella
settimana, ad esempio, cosa che già sapevo; oppure che il pavimento sta in basso, il soffitto in alto.
[...] Per mia enorme meraviglia, la Sig.ra Smith faceva sapere a suo marito che essi avevano
numerosi figli, che abitavano nei dintorni di Londra, che il loro cognome era Smith, che il Sig.
Smith era un impiegato [...]. Mi dicevo che il Sig. Smith doveva essere un po' al corrente di tutto
ciò; ma, non si sa mai, ci sono persone così distratte...»
(Note e Contro-Note)
Ionesco fu colpito in modo tale da queste osservazioni che decise di comunicare ai suoi
contemporanei le verità essenziali appena scoperte e scrisse La cantatrice calva che fu messa in
scena per la prima volta l'11 maggio 1950.
-Ionesco fornisce dettagli relativamente numerosi sui personaggi, che però servono non a
caratterizzarli, bensì paradossalmente a sottolinearne l'insignificanza e la mancanza di
individualità. Ad esempio, riguardo l’età dei protagonisti, gli Smith, Ionesco dà indicazioni
indirette e contraddittorie. Il colore grigio dei baffetti del signor Smith fa pensare che non sia molto
giovane, mentre il fatto che abbiano una bambina di due anni lascia supporre che non siano molto
vecchi. Attraverso le attività che compiono, si vuole evidenziare che la vita è all’insegna della
banalità. Infatti la signora Smith dedica gran parte della prima scena a parlare di cibo e le
occupazioni più insistite sono per il signor Smith leggere il giornale, per sua moglie rammendare le
calze. Inoltre nell’ultima scena i loro ospiti, i Martin, ripetono esattamente le battute degli Smith
nella prima scena. Questa confusione tra esseri privi d’individualità, fusi tutti in un insieme
indistinto e condannati alla stessa esistenza noiosa e assurda, è messa in evidenza, in altro modo,
nella scena prima. Parlando di una famiglia di sua conoscenza, i Watson, la signora Smith afferma
che ogni membro di quella famiglia porta indistintamente lo stesso nome, Bobby Watson. Si ricava,
quindi, il carattere interscambiabile dei personaggi e, più in generale, degli esseri umani, cioè il
contrario del concetto di unicità e irripetibilità dell’individuo.
-Le affermazioni dei personaggi sono spesso insensate. Ad esempio, il signor Smith fa un
inatteso confronto tra il medico e il comandante di una nave, dicendo: “un medico coscienzioso
dovrebbe morire insieme con il malato, se non possono guarire assieme”. Oppure si meraviglia del
fatto che “… nella rubrica dello stato civile è sempre indicata l'età dei morti e mai quella dei
neonati”. Anche tra i Martin avviene una strana conversazione. Sono sposati, ma apparentemente
non si conoscono, pur avendo l'impressione di essersi incontrati da qualche parte. E in una lunga
conversazione, inframmezzata dal ritornello “Veramente curioso, veramente bizzarro!”, constatano
sorprendenti coincidenze: entrambi sono di Manchester, hanno lasciato questa città da circa cinque
settimane, hanno preso lo stesso treno, erano nella stessa carrozza e nel medesimo compartimento;
ora si trovano a Londra; abitano nella stessa strada, al medesimo numero civico, nello stesso
appartamento, dormono nella stessa camera e nello stesso letto, hanno la stessa figlia. Arriva quindi
la straordinaria rivelazione: il signore e la signora Martin s’abbracciano, scoprendo di essere marito
e moglie. Più avanti, quando la conversazione langue, la signora Martin racconta un aneddoto
insignificante, ma che lei presenta come straordinario: ha visto un uomo allacciarsi le scarpe. Nel
frattempo suona qualcuno alla porta. La signora Smith va ad aprire ma non c’è nessuno. Ciò
avviene per tre volte, cosicché la signora ne deduce che “l'esperienza insegna che quando si sente
suonare alla porta è segno che non c'è mai nessuno”.
-Il personaggio del pompiere, vestito con un “enorme casco luccicante e un'uniforme”, si risolve nel
mestiere che svolge, attraverso cui tenta di dimenticare l'assurdità e l'inutilità dell’esistenza. Senza
di esso egli non è più niente. L’attività professionale diventa una vera e propria ossessione e si
rinchiude nel rispetto di regole incoerenti, ciò che la rende, per l'appunto assurda. Mancando il
senso, tutto si risolve nel ruolo.
-In contrasto con la loro vita monotona, i sentimenti che animano gli Smith sono caratterizzati dalla
mancanza di sintonia, dal brusco cambiamento e dalla contraddizione che rivelano l'aspetto
convenzionale delle relazioni umane. Spesso nei dialoghi tra i due sposi si nota alternanza fra
termini ingiuriosi e parole affettuose a sottolineare la contraddizione tra i sentimenti reali e le
ipocrisie sociali: le convenienze non riescono a frenare la voglia di esprimere i profondi
risentimenti. Inoltre spesso all'interno di uno stesso personaggio si producono improvvisi e
inspiegabili cambiamenti di sentimenti, come nell'ottava scena, dove la signora Smith, all'arrivo del
pompiere, irritata, non risponde al suo saluto, poi lo abbraccia. Le situazioni nelle quali i personaggi
si trovano provocano reazioni automatiche che prendono talvolta la forma del tic. Ad esempio, il
signor Smith nella prima scena, mentre sua moglie parla di cibo, non smette di far schioccare la
lingua. La gentilezza e la cortesia che caratterizzano i loro rapporti con i visitatori, sono
particolarmente significativi degli automatismi sociali. Infatti, sotto l’apparenza formale, viene
spesso fuori il vero volto delle persone, la profonda natura umana screpola quella facciata liscia e
rassicurante. Ad esempio, il signor Smith fa finta d’interessarsi alla conversazione con gli ospiti, ma
non può far a meno di sospirare, provocando così il commento della signora Smith: “si scoccia”. A
volte affiora anche un'aggressività quasi animalesca, come nella signora Smith, quando riceve i
Martin furiosa per il loro ritardo. E la tensione arriva al suo culmine alla fine dell'undicesima scena
quando, come precisa la didascalia, “i quattro personaggi debbono trovarsi in piedi, vicinissimi gli
uni agli altri, gridare le loro battute, pugni alzati, pronti a gettarsi gli uni sugli altri”. L'automatismo
delle convenzioni lascia così il posto all'istinto animale.
-Una grande importanza hanno gli orologi della stanza, che scandiscono il tempo in modo
disorientante: la pendola suona rintocchi il cui numero cambia a caso ogni volta. D’altra parte, però,
il pompiere si congeda dagli Smith e dai Martin, facendo riferimento con precisione a un incendio
che dovrà spegnere “esattamente fra tre quarti d'ora e sedici minuti”. L’assurdità si rivela, quindi,
anche in relazione al tempo: non è dato di conoscere l’orario presente, ma si padroneggia
perfettamente ciò che accadrà nel futuro.
-Anche il titolo dell’opera è assolutamente incongruente. Scegliendolo, Ionesco mette lo spettatore
su una falsa pista. Esso deriva da una semplice battuta del pompiere che chiede: “A proposito, e la
cantatrice calva?”. Questa sola breve allusione genera prima un silenzio imbarazzato, poi una
risposta insensata della signora Smith: “Si pettina sempre allo stesso modo!”. L'assenza della
misteriosa cantatrice calva, che dà il titolo all'opera, costituisce una manifestazione supplementare
dell'incoerenza. Non facendo mai apparire la cantatrice calva, Ionesco crea mistero attorno ad un
personaggio che in realtà non svolge alcun ruolo. E il silenzio generale e l'imbarazzo che seguono
alla sola allusione mostrano l’inadeguatezza perfino del drammaturgo a giustificare la ragione
d’essere del suo personaggio.
- Ionesco sembra rispettare le regole del teatro tradizionale: mette in scena personaggi, costruisce
scambi di battute; divide l’atto in scene. Ma in realtà compie una parodia delle convenzioni, sviando
l’azione dalla sua funzione abituale. Il teatro tradizionale, infatti, crea un'azione dinamica, spesso
complessa, animata da capovolgimenti e tesa all’epilogo. Invece l'antiteatro di Ionesco non segue
mai questo schema convenzionale, essendo costruito attorno a discussioni statiche, incoerenti, tra
loro slegate che, deliberatamente, non conducono a nulla. L’azione del teatro tradizionale viene
sostituita da un gioco sul linguaggio. L’appellativo stesso che dà alla sua opera, “anti-pièce” (antiopera), suona come una sfida e una provocazione. Si tratta di una nuova drammaturgia, che da un
lato attirò l'attenzione di diversi critici e letterati, ma dall'altro si tradusse in un vero fallimento di
pubblico.
BECKETT (1906-1989)
In Aspettando Godot (pubblicata in lingua francese nel 1952) Vladimiro (chiamato anche Didi) ed
Estragone (chiamato anche Gogo) su una desolata strada di campagna sono in attesa di un certo
"Signor Godot". Non vi è nulla sulla scena, solo un albero dietro ai due personaggi che, attraverso la
caduta delle foglie, indica il passare dei giorni. Ma Godot non appare mai sulla scena, e nulla si sa
sul suo conto. Egli si limita a mandare dai due vagabondi un ragazzo, il quale dirà loro che Godot
"oggi non verrà, ma verrà domani". I due uomini, vestiti come barboni, si lamentano continuamente
del freddo, della fame e del loro stato esistenziale; litigano, pensano di separarsi (anche di
suicidarsi) ma alla fine restano l'uno dipendente dall'altro. Ed è proprio attraverso i loro discorsi
sconnessi e superficiali, inerenti argomenti futili e banali, che emerge il nonsenso della vita umana.
A un certo punto, arrivano altri due personaggi: Pozzo e Lucky. Il primo, che si definisce il
proprietario della terra sulla quale Vladimiro ed Estragone stanno, tratta il suo servo Lucky come
una bestia, tenendolo al guinzaglio con una lunga corda. Essa indica un legame reciproco
apparentemente inscindibile. I due nuovi personaggi successivamente escono di scena. Didi e Gogo,
dopo aver avuto l'incontro con il messaggero di Godot, rimangono fermi mentre si dicono "Well?
Shall we go?" (E ora? Possiamo andare?) - "Yes, let's go" (Sì, andiamo), e l'indicazione scenica
dice ironicamente: "They do not move" (Non si muovono). Il linguaggio, quindi, non riproduce più
la realizzazione della volontà individuale. Non esiste più legame fra parola e azione, fra il
linguaggio e quello che dovrebbe esprimere, comunicare e attivare. Il linguaggio ha smesso di
significare e acquista ruolo a sé, autoriflessivo. Tanto è vero che nell’opera Atto senza parole il
testo manca totalmente, ci sono solo didascalie a significare che il testo non vive che sulla scena,
nella rappresentazione e non ha bisogno di parole.
Il secondo atto differisce solo in apparenza dal primo: Vladimiro ed Estragone sono di nuovo nello
stesso posto della sera precedente. Continuano a parlare (a volte con "non senso" a volte utilizzando
luoghi comuni, detti popolari, anche con effetti comici). Ritornano in scena Pozzo, che è diventato
cieco, e Lucky, che ora è muto, ma ora la corda che li unisce è più corta ad indicare la soffocante
simbiosi dei due. Escono di scena. Rientra il ragazzo che dice che anche oggi il Signor Godot non
verrà. Esce. E Vladimiro ed Estragone rimangono lì mentre dicono "Well? Shall we go?" - "Yes,
let's go". E l'indicazione scenica che mette fine al dramma dice: "They do not move."
L'opera è divisa in due atti, ma in essi non c'è sviluppo, poiché non sembra esistere possibilità di
cambiamento. La trama è ridotta all'essenziale, è solo una successione di micro-eventi. Non c'è
l'ambiente circostante, se non una strada desolata con un albero, che nel secondo atto mostrerà
alcune foglie. Il tempo sembra immobile. I gesti che fanno i protagonisti sono essenziali, ripetitivi.
Vi sono molte pause e silenzi. I personaggi all’interno delle coppie sono inscindibili, ma ciò che
lega i due uomini di ciascuna di esse non è affetto, né solidarietà che possa aiutare a sopportare
meglio la condizione comune, ma al contrario un vincolo opprimente.
In inglese God vuol dire Dio, quindi qualcuno ha ipotizzato che Beckett abbia in questo modo
lasciato un'interpretazione sull'identità di Godot. Il suffisso "ot" vuol dire a sua volta "piccolo" in
francese, dando un'ulteriore caratteristica al Dio in questione. In un'intervista Beckett, però, rifiuta
questa lettura. Un’altra interpretazione spiega che la parola "Godot" è formata dalle due parole "go"
e "dot" rispettivamente "va" e " "punto fermo". L'autore vorrebbe così sottolineare la frustrazione
dell'uomo nel tentativo fallimentare di muoversi, procedere, cambiare la sua posizione.
Il tema dell’attesa è tipico della letteratura novecentesca, anche fuori dalla produzione teatrale. Ad
esempio, in Kafka il protagonista de Il processo (1925) cerca di capire quale colpa ha commesso,
ma arriva all’esecuzione senza averlo scoperto.
Anche in molte opere di Buzzati caratteristica ricorrente è il senso di sospensione e di inquietudine
derivante dall'attesa di un "qualcosa" che non arriva mai (in Sette piani la guarigione, nel Deserto
dei Tartari l’assalto dei nemici) o dalla fuga da quello che si ritiene un pericolo (Il colombre).
L'ambientazione è apparentemente realistica, ma in contrasto con il messaggio simbolico e la
tematica esistenziale che l’autore vuole comunicare. Il racconto, cioè, è metafora dell'inevitabile e
incomprensibile precarietà della vita e della conseguente incapacità dell'uomo di capire non solo
che il suo futuro non dipende da lui, ma nemmeno il presente è sotto il suo controllo, ma obbedisce
a leggi misteriose contro le quali egli non può nulla.
BRECHT (1898-1956)
La quarta parete è un "muro" immaginario, posto di fronte al palco, attraverso il quale il pubblico
osserva l'azione che si svolge nel mondo dell'opera rappresentata. L'idea che l'attore si debba
immaginare un muro che lo divide dagli spettatori si trova così formulata nel saggio De la poésie
dramatique (1758) dell’illuminista Denis Diderot, e anche Goldoni ne Il teatro comico, 1750 aveva
già specificato la necessità di una recitazione più realistica che presupponesse che l'attore
dimenticasse la presenza degli spettatori. Il concetto però acquista diffusione solo a cavallo tra il
XIX e XX secolo con l'avvento del realismo teatrale. La quarta parete verrà poi ampiamente usata
nel XIX e XX secolo nel teatro dell'assurdo da autori come Ionesco. Anche se nasce in teatro, dove
il palco convenzionale chiuso da tre lati fornisce una "quarta parete" in senso stretto, il termine è
stato adottato da altre forme artistiche, come il cinema e la letteratura, per indicare più
genericamente il confine tra il mondo della finzione e il pubblico. L’espressione "rompere la quarta
parete" prende origine da Brecht e dal suo “teatro epico” che si avvale di una particolare tecnica di
recitazione tesa al cosiddetto effetto di straniamento. Essa è diametralmente opposta a quella
convenzionale che si prefigge l’immedesimazione. L’attore sulla scena mostra semplicemente il
proprio personaggio, limitandosi a suggerire, a proporre, tenendosi a distanza da esso. Così l’arte
diviene un colloquio col pubblico per indurre lo spettatore, consapevole che quello che sta vedendo
è finzione, ad assumere un atteggiamento critico. Quello di Brecht è un teatro didattico.
Un esempio è L'opera da tre soldi rappresentata per la prima volta nel 1928 a Berlino. L'autore
metteva in scena il mondo del sottoproletariato, dei banditi e dei derelitti, con intenzione
provocatoria nei riguardi del pubblico borghese, che avrebbe dovuto scandalizzarsi di fronte
all'ambiente, ai personaggi e al loro linguaggio. Il pubblico ideale per Brecht doveva essere il
proletariato, cioè gli operai dell'industria. Infatti il titolo indicava il prezzo del biglietto d'entrata, ma
paradossalmente gli operai disertarono le rappresentazioni, mentre il pubblico borghese ne decretò
il successo, con sorpresa e disappunto dell'autore.
Brecht si ispirò a un’opera inglese di due secoli prima: la Beggar's Opera (letteralmente Opera del
mendicante). L’autore John Gay prendeva di mira un’aristocrazia i cui affari erano molto simili a
quelli della malavita, raccontando una storia ambientata nei bassifondi di Londra tra rapine,
tradimenti, prostituzione, amori, profitti e delitti. Lo spettacolo alterna momenti di prosa a momenti
musicali e cantati; nel lavoro di Gay la forma dei momenti musicali ricalca parodisticamente il
melodramma italiano, in quello di Brecht il cabaret e il jazz.
L'opera è ambientata nella Londra vittoriana. Macheath (Mackie Messer, o Mack the Knife) sposa
Polly Peachum. Il padre di Polly, che controlla tutti i mendicanti di Londra, è sgradevolmente
sorpreso dall'avvenimento e tenta di far arrestare e impiccare Macheath. I suoi maneggi sono però
complicati dal fatto che il capo della polizia, Tiger Brown, è un amico di gioventù di Macheath.
Alla fine Peachum riesce a farlo condannare all'impiccagione, ma poco prima dell'esecuzione,
Brecht fa apparire un messaggero a cavallo da parte della "Regina" che grazia Macheath e gli
conferisce il titolo di baronetto, nella parodia di un lieto fine.
In molti punti l'opera si appella direttamente al pubblico, rompendo la "quarta parete" e ricercando
un effetto che Brecht chiama di straniamento, contrapposto all'immedesimazione che al tempo di
Brecht era lo standard dominante nella messinscena; per esempio vengono proiettate delle frasi sul
fondale e i personaggi a volte portano in scena dei cartelli. L'opera pone rilevanti questioni politiche
e sociali, con intento provocatorio, e punta a sfidare le nozioni di ciò che all'epoca erano considerati
"teatro" e "decenza".
Diversi artisti hanno usato l’abolizione della quarta parete, che costringe il pubblico a vedere la
finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente. Tale scelta fu adottata in ambito
italiano anche da Luigi Pirandello in molte delle sue opere tra cui Sei personaggi in cerca di autore,
in cui addirittura i personaggi si muovono al di fuori dello spazio delimitato dal palcoscenico e
recitano anche in mezzo al pubblico passando per la platea.
Anche nel teatro di improvvisazione al pubblico viene chiesto di interagire in qualche modo con gli
attori. In questo caso, chi recita mostra di essere consapevole che ci sono testimoni dell’azione che
vengono quindi coinvolti in essa.
Talvolta, quando un personaggio scopre di non essere reale ma di far parte della finzione, rompe la
quarta parete per entrare in contatto con il proprio pubblico, come accade ad esempio nel film La
rosa purpurea del Cairo di W. Allen.
Nei cartoni animati la rottura della quarta parete viene usata per scopi umoristici: ne sono esempi
Bugs Bunny che ammicca al pubblico o Wile E. Coyote che dialoga con lo spettatore tramite
cartelli nel momento in cui si accorge che sta per cadere in un burrone, quando il suo piano non
funziona, quando Road Runner (Beep Beep) l'ha battuto,…
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