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Donne vittime della tratta. Esperienze e metodologie

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Donne vittime della tratta. Esperienze e metodologie
Equal Li.fe Libertà femminile - DONNE VITTIME DELLA TRATTA - ESPERIENZE E METODOLOGIE
LIBERE - TE LIRA - FREE - LI.FE. - Libertà Femminile
Equal Li.fe
Libertà femminile
DONNE VITTIME DELLA TRATTA
ESPERIENZE E METODOLOGIE
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progetto
Li.fe.
Libertà Femminile
Donne vittime della tratta
esperienze e metodologie
a cura di:
Flavia Mulè
Team di progetto:
Bruno Ballauri
Laura Emanuel
Simona Meriano
con il contributo della partner di sviluppo
febbraio 2005
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Soggetto capofila
Provincia di Torino-Assessore alle Pari Opportunità e Relazioni Internazionali
Partners
Città di Torino, Città di Moncalieri. Associazione Compagnia delle Opere,
Associazione Gruppo Abele, Associazione Tampep O.N.L.U.S.,
Casa di Carità Arti e Mestieri, Cicsene,
Confcooperative Unione Provinciale di Torino,
Ufficio per la Pastorale dei Migranti Curia Arcidiocesana, Università degli Studi di Torino
Comitato di pilotaggio
APID-Associazione Promozione Donna,
Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri,
Confartigianato Torino, Consulta Femminile Comunale di Torino,
Consulta Femminile Regionale del Piemonte, CGIL, CISL, UIL, CNA Torino,
Prefettura di Torino, Procura della Repubblica di Torino, Questura di Torino, Zonta International
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INDICE SOMMARIO
capitolo 1
I soggetti
........................................................
pag. 11
capitolo 2
Percorso metodologico
.........................................
»
22
capitolo 3
Altre maglie della rete
.........................................
»
33
capitolo 4
Percorsi di accoglienza
.........................................
»
»
»
36
36
39
»
43
5.1. Riflessione a margine dell’esperienza di IDEA Donna . . . . . . . . . . . .
5.2. Lavoro e donne vittime di tratta . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
»
»
53
53
62
capitolo 6
Destini incerti e guerre quotidiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
»
64
capitolo 7
Rappresentazioni del corpo, della sessualità
e dell’affettività in donne vittime della tratta
»
79
4.1. Il ruolo dell’operatore nelle comunità di accoglienza . . . . . . . . . . . .
4.2. L’Esperienza di accoglienza del Progetto Antares . . . . . . . . . . . . . . .
4.3. Per le vittime della tratta degli esseri umani quali operatori,
per quali comunità? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
capitolo 5
Oltre la borsa lavoro
...........................................
................
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INTRODUZIONE
Dall’inizio degli anni ’90, prostituzione e tratta sono fenomeni correlati tra loro.
Riguardano un numero sempre maggiore di persone e incidono in maniera significativa sul tessuto economico e sociale del Paese e dell’intera Unione Europea.
Il fenomeno della tratta secondo stime dell’ONU e dell’Organizzazione mondiale
dei Migranti riguarda circa 4 milioni di persone di cui 500.000 nel territorio dell’Europa
Occidentale.
La prostituzione è diventata, negli ultimi anni, uno dei commerci più promettenti.
Risulta essere la terza voce di guadagno, dopo armi e droga, del crimine organizzato.
Prevenire e contrastare lo sviluppo dell’industria del sesso è diventata una delle
priorità politiche per l’Unione Europea, che dal 1996 si è impegnata attivamente nell’elaborare un approccio globale e interdisciplinare, concernente i reati collegati allo
sfruttamento sessuale.
L’art. 29 del Trattato di Amsterdam indica la lotta contro la tratta di esseri umani come
uno degli obiettivi per la realizzazione di uno spazio di libertà, sicurezza, giustizia.
Nell’ottobre 1999 le conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere conferiscono
mandato all’Unione Europea affinché si impegni in un’azione di lotta contro la tratta
ed in particolare contro lo sfruttamento sessuale di donne e bambini.
Dall’analisi della situazione Europea si evidenzia come la mancanza di una legislazione integrata non permette di superare le differenze tra i diversi sistemi e la difficoltà di cooperazione tra gli organismi giuridici dei diversi paesi. Questo consente ai
trafficanti una sorta di spazio d’impunità.
In Italia nel Febbraio 1998 viene istituito il Comitato interministeriale di coordinamento delle azioni di Governo contro la tratta di donne e di minori ai fini di sfruttamento sessuale.
Nel Luglio 1998 in occasione dell’emanazione del Testo Unico sull’immigrazione,
il legislatore ha introdotto nel nostro sistema l’art. 18, strumento specifico per combattere la tratta dei esseri umani.
Questo dispositivo legislativo rappresenta una rilevante novità giuridica non solo
a livello Italiano ma anche Europeo.
L’art.18 del Dlgs 286/98, rimasto immuta-to anche dopo l’entrata in vigore della
legge 189/2002 (nota come BOSSI-FINI) che ha parzialmente modificato il precedente
impianto normativo, è particolarmente importante perché conferisce rilievo alla protezione delle vittime ed al loro reinserimento sociale.
Altro elemento innovativo e qualificante della norma di legge è rappresentato dalla
possibilità di rilasciare, alle donne che intraprendono il percorso d’inserimento sociale,
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un permesso di soggiorno che può diventare definitivo. Si è voluto superare il concetto di protezione legato alla collaborazione giudiziaria che prevedeva il rilascio di
un permesso di soggiorno per il tempo strettamente necessario al procedimento
penale.
Il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio, in ottemperanza a quanto disposto dall’art.18 (D.L.vo 286/98), ha avviato i percorsi atti a contrastare i fenomeni di tratta di donne e minori.
Il Regolamento di attuazione (D.P.R. 394 - 31 agosto 1999 ) art. 27 ha contribuito
a sancire il doppio percorso previsto per l’art. 18. Uno “giudiziario” caratterizzato dal
ruolo preminente del Pubblico Ministero, l’altro “sociale” che attribuisce un rilievo
prevalente ai servizi sociali e alle associazioni accreditate, quando durante gli interventi sociali rilevino situazioni di violenza o di grave sfruttamento. In questo caso il
Questore deve valutare la sussistenza del pericolo e il conseguente “nulla-osta” al rilascio del Permesso di Soggiorno sulla base di quanto contenuto nella relazione, senza
acquisire il parere del Magistrato.
Dal 1998 esiste un Comitato Interministeriale, presieduto dal Ministro per le Pari Opportunità e dal Ministro per gli Affari Sociali, che si occupa del monitoraggio, dell’attuazione e della valutazione di tutte le azioni contro la tratta, nonché della formulazione di proposte per l’attuazione delle linee guida europee contenute nella
dichiarazione ministeriale dell’Aia del 26 aprile 1997 e degli atti internazionali sottoscritti dall’Italia.
Successivamente all’istituzione del Comitato, è stata formata la Commissione Interministeriale per l’attuazione dell’art.18, con funzioni di controllo, indirizzo e programmazione delle risorse. Da allora sono state sostenute azioni finalizzate a raggiungere
tale obiettivo.
L’adozione della nuova legge in materia di tratta ha permesso di orientare gli interventi non solo sul piano repressivo ma anche sul versante della prevenzione.
Le donne immigrate che si prostituiscono in Italia sono circa 20.000 (Eurispes 2001),
anche se è difficile, vista la situazione di irregolarità di maggior parte dei soggetti,
valutare numericamente il fenomeno.
Il numero di straniere che operano a Torino e nella prima cintura continua ad
essere rilevante.
Riguardo la provenienza geografica dei soggetti, pur rimanendo consistente il
flusso migratorio dalla Nigeria, continua ad aumentare il numero delle donne provenienti dal Centro e dall’Est Europa, soprattutto dalla Romania.
La liberalizzazione delle frontiere, la diffi-cile situazione sociale ed economica
di quel Paese – determinata dalle trasformazioni politiche e sociali avvenute negli
anni – hanno incrementato in modo considerevole il flusso migratorio verso l’Europa.
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Si conferma una sempre maggior conoscenza, da parte delle donne, dei vantaggi
offerti dalla legge e la consapevolezza di quello che sarà il loro destino in Italia.
Il fenomeno delle straniere dedite alla prostituzione risulta comunque in crescita,
causa l’estrema povertà che colpisce intere aree del pianeta e costringe i più deboli
ad accettare anche condizioni di vita impietose.
Il miraggio rappresentato dall’Occidente, la possibilità di possedere e consumare
i beni imposti da una certa cultura, il desiderio di emancipazione personale e di lasciarsi
alle spalle un passato non felice, trovano terreno fertile in queste giovani donne, tanto
da indurle a includere l’opzione della prostituzione nel loro progetto migratorio.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
capitolo 1
I soggetti
A Torino, i progetti di reinserimento sociale
di donne vittime di tratta sono promossi e
coordinati dal Gruppo Abele, dall’Associazione Tampep, dall’Ufficio per la Pastorale dei
Migranti della Caritas, dall’Ufficio Stranieri
e Minori Stranieri del Comune di Torino e
il Volontariato Vincenziano che si occupa prevalentemente di minorenni. Queste realtà sono
tempo impegnate a ridurre i fenomeni discriminatori e a migliorare le condizioni di vita di
donne e minori, promuovendo una cultura
basata sul diritto di cittadinanza effettiva.
Questi soggetti, pur mantenendo la specificità dei propri programmi, hanno sviluppato,
nel corso degli anni, conoscenza reciproca, collaborazione, attitudine al confronto, che
hanno consentito la creazione di una vera e
propria rete sociale: senza disperdere le peculiarità nelle buone prassi predisposte da ogni
singolo progetto.
Il collegamento tra i progetti è garantito,
oltre che dalla pratica quotidiana, anche dai
momenti di verifica assicurati dagli incontri
all’interno del Progetto Li.fe. e del Coordina-
11
mento Interregionale Liguria, Piemonte e Valle
d’Aosta, contro la Tratta.
Si è avvertita la necessità, soprattutto da
parte di chi, da molti anni, si occupa di queste problematiche, di elaborare una sorta di
manuale sulle buone prassi.
Queste metodologie, predisposte e affinate
negli anni per offrire interventi sempre più
puntuali ed aderenti allo scenario che ci si trovava di fronte, rappresentano un prezioso strumento di lavoro per i soggetti coinvolti e per
tutti quanti sono interessati in attività di aiuto
e sostegno alle persone vittime di tratta, consapevoli che le procedure individuate rappresentano un obiettivo raggiunto ma ulteriormente perfezionabile.
Questo lavoro va considerato, infatti, come
laboratorio permanente, aperto ai contributi
dei sempre più numerosi referenti rispetto ad
un fenomeno in continua evoluzione.
Per un’agevole comprensione del panorama torinese è opportuno partire dalla presentazione dei soggetti attuatori, dall’analisi
delle specificità di ogni singola Associazione o
Ente, dai progetti e dalle buone pratiche sviluppate, intendendo evidenziare la corrispondenza tra azioni, obiettivi individuati e risultati
ottenuti.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
Gruppo Abele
Progetto Prostituzione e Tratta delle Persone
Corso Trapani 95/a - 10141 Torino
Tel. 0113841021 Fax 0113841025
e-mail: [email protected]
La prostituzione è un tema di cui il Gruppo
Abele si è occupato sin dalla sua costituzione.
Oltre 35 anni fa, uno dei primi interventi
fu quello nell’Istituto di rieducazione femminile
di Torino, il Buon Pastore, che ospitava ragazze
che si affrancavano dalla strada.
Da allora, sono state molte le persone
seguite: ragazzi e ragazze tossicodipendenti che
si prostituivano per procurarsi la droga, transessuali, donne straniere.
Accanto ad attività di accoglienza in strutture, quali le Comunità Gabriela e Patricia, il
Gruppo ha collaborato a progetti specifici, volti
a prevenire la diffusione delle malattie sessualmente trasmissibili.
Il Progetto Prostituzione non è solo accoglienza: come per tutte le iniziative del Gruppo
Abele, c’è sempre un intreccio continuo con
progetti culturali e di impegno politico.
• Informazione
Inchieste approfondite sul fenomeno attraverso la rivista ASPE e poi attraverso le pubblicazioni monotematiche di “PAGINE”.
Ambasciate. Come, dove, quando, perché
e per chi (a cura di Andrea Dragone), Pagine
n. 4/2003.
Attività di ricerca, realizzata dal Centro di
documentazione, su tematiche specifiche (prostituzione e HIV).
• Pubblicazioni
“L’Italia delle opportunità 2/C Prostituzione
e tratta delle persone – Emilia Romagna e Lombardia” a cura di M. Da Pra Pocchiesa e M. T.
Tavassi.
“L’Italia delle opportunità 2/D Prostituzione
e tratta delle persone Numero Verde 800290290”
a cura di M. Da Pra Pocchiesa e M.T. Tavassi.
“Sessualità, corpi fuori luogo, cultura di R.
Beneduce” a cura di F. Borrello e M. Da Pra Pocchiesa.
Dai bisogni ai progetti. Quali interventi di
comunità. di Leopoldo Grosso – a cura di M. Da
Pra Pocchiesa e Carla Giochetto.
Nell’anno 2003, oltre alle pubblicazioni
redatte dallo sportello giuridico, sono stati
pubblicati numerosi testi sull’argomento tratta
e prostituzione.
• Formazione
Progetto di formazione realizzato in collaborazione con la Regione Piemonte. L’iniziativa
ha coinvolto una vasta rete territoriale: la
Regine Piemonte, la Liguria, La Valle d’Aosta,
oltre a persone provenienti da tutta Italia.
• Iniziative
I NTI
Sportello giuridico INTI in collaborazione
con l’ASGI, (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione), istituito nel 2003 con il sostegno della Regione Piemonte e del Dipartimento per le Pari Opportunità del Ministero
Affari Sociali. È rivolto ad associazioni ed enti
che lavorano su queste tematiche.
Lo sportello giuridico raccoglie informazioni sulle leggi in vigore e si pone come un
riferimento, a Torino, per raccogliere richieste
e osservazioni e per elaborare soluzioni e strumenti da condividere.
INTI dispone di una linea telefonica dedicata cui fare riferimento, nei giorni ed orari
indicati, per ottenere informazioni, formulare
richieste di moduli e materiali o fissare un
appuntamento.
Lo sportello mette a disposizione materiale
giurisprudenziale (massime e sentenze) e legislativo (leggi, decreti, circolari e progetti di legge), nazionale ed internazionale, raccolto ed
archiviato; elabora materiali didattici sul tema.
Lo sportello è collegato alle realtà di accoglienza, in quanto fornisce un orientamento
verso altri servizi, in modo mirato, a seconda
dell’esigenza.
Le informazioni sui diritti degli stranieri in
Italia e l’elaborazione di soluzioni che consentano di raggiungere una posizione stabile e
legale – districandosi nel complesso di norme
burocratiche – hanno funzione di accompagnamento, accoglienza ed educazione alla legalità.
Nato per operare in Piemonte, l’INTI oggi
rappresenta un punto di riferimento che ha
respiro nazionale per associazioni ed enti,
attraverso rapporti di collaborazione con studi
legali operanti nelle diverse realtà italiane.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
INTI, così come il Progetto Prostituzione
e Tratta delle Persone, ha organizzato numerosi incontri di formazione.
Ha pubblicato inoltre:
— Minori stranieri non accompagnati;
Avv. Mariella Console, febbraio 2003.
— La condizione dei richiedenti asilo nel
nostro Paese;
Avv. Lorenzo Trucco, marzo 2003.
— Le norme che regolamentano la fase di
allontanamento dal territorio dello Stato,
con analisi dei diversi tipi (e le diverse procedure) di espulsione;
Avv. Guido Savio, aprile 2003.
• Numero Verde e servizio
di accoglienza per la prostituzione
e la tratta
Il Numero Verde è stato attivato il 26 luglio
2000 e dispone di 14 postazioni locali dislocate sul territorio nazionale, cui vengono passate le chiamate a seconda della loro provenienza.
La postazione del Piemonte e Valle d’Aosta
ha come referente istituzionale la Provincia
di Torino ed è gestita dal Gruppo Abele, che
ha strutturato il servizio in tre unità:
— postazione telefonica attiva tutti i giorni,
festivi compresi. Nelle ore non coperte dalla
postazione, il Numero Verde Nazionale può
passare le chiamate di emergenza ad un
cellulare attivo dalle 15 alle 3, tutti i giorni
dell’anno (necessario riferimento anche per
gli operatori del Numero Verde che si trovano di fronte a richieste urgenti di accoglienza di notte o nei giorni festivi);
— servizio di accoglienza: colloqui preliminari;
invio in casa di fuga o in altri servizi del territorio; eventuale presa in carico diretta della
persona, con relativi accompagnamenti;
13
— attività di coordinamento e rapporti con
l’esterno. Tale unità pone particolare cura
nella formazione degli operatori impegnati
nel progetto e nella ricerca di nuove risorse
sul territorio.
• Comunità Gabriela
È una comunità di fuga e di Prima Accoglienza, nata (8 marzo 2001) per rispondere ai
bisogni emersi dalle richieste pervenute al
Numero Verde e per incrementare i posti disponibili nella Città, vista la carenza di questo tipo
di risorsa.
Gabriela è quindi una comunità dove si
pongono le basi per costruire un progetto di
inserimento sociale.
È aperta a donne in difficoltà che subiscono
violenza, eventualmente con il loro bambino.
I posti disponibili sono 6-7 al massimo.
La comunità è gestita da operatori specificamente preparati e da volontari che collaborano ad attività diversificate, ed è previsto il
supporto di mediatrici culturali. Offre inoltre la
formazione professionale, vita di comunità,
inserimenti lavorativi.
• Progetto Patricia
Il Progetto, avviato nell’aprile 2002, ha come
obiettivo l’accoglienza di donne sole o con
bambini.
In una struttura appositamente adibita,
vengono inserite queste donne vittime di violenza, provenienti da altre comunità o dagli
sportelli dei servizi pubblici o del privato sociale
operanti sul territorio.
Le donne per essere inserite nel progetto
devono avere un buon grado di indipendenza
ed essere ad un livello avanzato nel programma di autonomia.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
Associazione Tampep Onlus
Corso Brescia 10 - 10152 Torino
Tel. 011859821
e-mail: [email protected]
Tampep nasce come progetto europeo di
prevenzione dell’AIDS e delle malattie sessualmente trasmissibili (STD), con l’obiettivo di
coinvolgere direttamente le prostitute immigrate. Le considerazioni fondamentali che
hanno portato alla nascita di questo progetto
sono state:
— la mancanza di informazioni su AIDS e STD
nella madrelingua delle donne;
— la constatazione dello stato di povertà di
queste donne e delle pessime condizioni di
vita nel paese ospitante;
— la necessità di facilitare il contatto tra le
donne immigrate e le istituzioni presenti sul
territorio attive in campo medico e sociale
La rete internazionale di Tampep attualmente comprende circa 20 paesi.
Anche in Italia l’Associazione Tampep si
propone di contrastare i sistemi di coercizione
e sfruttamento delle persone adulte e minori,
vittime della tratta e dello sfruttamento sessuale. Per questa ragione, Tampep si pone
come obiettivo principale quello si sviluppare
strategie adeguate per raggiungere il target
group, per esempio attraverso produzione e
distribuzione di materiale informativo specifico
tradotto nelle diverse lingue.
Il principio è che l’emancipazione avviene
attraverso l’accesso all’informazione.
La metodologia di Tampep si fonda:
— sulla mediazione culturale come ponte tra
la cultura del paese ospitante e le motivazioni, i bisogni e le credenze delle donne
immigrate;
— sulla pere education, perché le educatrici
pari, esercitando il ruolo di leader all’interno gruppo possono sostenere gli interessi delle donne e favorirne una crescita di
consapevolezza;
— sull’unità di strada, con un equipe mobile
che interviene nei luoghi di prostituzione.
L’attività di unità di strada che Tampep
svolge sul territorio di Torino e provincia, in orario pomeridiano e notturno, permette di rag-
giungere le donne direttamente sulla strada
con l’obiettivo di fornire un servizio di informazione su:
— prevenzione sull’AIDS e sulle STD;
— sicurezza;
— istituzioni italiane, sulle legge italiana in
materia di immigrazione;
— organizzazione dei servizi socio-sanitari
favorendone l’accesso e un uso corretto;
Queste attività rientrano nel progetto
Antares, realizzato a Torino e provincia da
Tampep attraverso un finanziamento congiunto del Dipartimento delle Pari Opportunità
(Presidenza Consiglio dei Ministri) e della Provincia di Torino (Assessorato alla Solidarietà Sociale).
In queste azioni, rientrano la produzione e
diffusione di materiale informativo specifico,
unità di strada e lavoro sul campo, informazione e orientamento ai servizi sanitari, sostegno psicologico, orientamento ai percorsi formativi, al mercato del lavoro e alle soluzioni
residenziali, raccolta dei dati informativi sul target group e costante monitoraggio sul territorio, aggiornamento ed approfondimenti per
mediatori culturali, peer educators e street
workers.
L’Associazione Tampep è stata referente
per il progetto transnazionale di Equal Life –
Gender Street – la cui partnership di sviluppo
comprende Olanda, Austria e Provincia di Pisa.
Il progetto si è concluso il 1º dicembre 2005,
con conferenza finale a Bruxelles. È stato prodotto un manuale in lingua inglese e italiana,
i cui contenuti più qualificanti sono la comparazione dei contesti sociali e legislativi in relazione al fenomeno della tratta, la descrizione
delle buone prassi individuate dai singoli progetti e l’analisi dei modelli locali e nazionali di
networking e mainstreaming.
• Informazione
Unità di strada Tampep
L’Associazione Tampep, fin dall’inizio della
sua attività sul territorio di Torino e provincia,
ha avuto la comunicazione e la diffusione dell’informazione come suoi obiettivi fondamentali. La complessità del fenomeno della prostituzione straniera in strada fa emergere una
valutazione di carattere culturale e di genere,
che ci porta a riflettere sulla condizione di svan-
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
taggio che la donna migrante si trova a vivere,
sia da un punto di vista interculturale (la donna
è debole perché è straniera), che da un punto
di vista sociale (la donna è stigmatizzata in
quanto prostituta e quindi emarginata). È evidente dunque il valore che assume la possibilità di accedere all’informazione, come
primo passo verso l’emancipazione. Per non
compromettere l’efficacia dell’intervento è
importante tenere conto sia del contesto
sociale che delle differenze culturali, sviluppando strategie adeguate per raggiungere il
target group, attraverso la produzione e la
distibuzione di materiale informativo tradotto
in diverse lingue. Partendo dall’analisi del bisogno, viene ideato e scritto in bozza il testo, che
viene poi testato e modificato insieme alle
donne, perché il messaggio risulti chiaro e
comprensibile. Una volta ottenuto il testo definitivo, viene stampato il volantino e distribuito
con le seguenti modalità:
— attraverso l’attività di Unità di Strada (sul
territorio di Torino e Provincia), con campagne di diffusione mirate (in base alla nazionalità del target, o all’argomento specifico);
— in sede, durante l’orario di sportello aperto
al pubblico (tutti i giorni, dalle 10 alle 14);
— attraverso l’attività di operatori sociali in
altri servizi della rete;
— mettendo a disposizione il materiale presso
ambulatori e/o consultori frequentati dal
target.
Nell’ambito del Progetto Antares, è stato
creato del materiale informativo in base ai
bisogni emergenti; per esempio sono stati
prodotti dei volantini di approfondimento sulla
legge Bossi-Fini e dei volantini sull’asilo politico, particolarmente rivolto alle donne nigeriane.
Tutta l’attività di diffusione di informazioni
socio-sanitarie e di accesso ai servizi si avvale
del supporto di mediatrici culturali e peer educators.
Oltre al materiale tradizionalmente prodotto e distribuito da Tampep, sulla prevenzione dell’HIV e delle malattie sessualmente
trasmissibili, vengono sistematicamente distribuiti i volantini dell’ambulatorio MST dell’Amedeo di Savoia, in cui viene descritto il servizio
e le modalità di accesso e vengono riportati sia
l’indirizzo dell’ospedale che della sede di Tampep.
15
Se le condizioni lo permettono, già durante il
contatto in strada viene fatto un buon lavoro
di counselling sanitario; in ogni caso si rimanda
ad un secondo momento, presso la sede dell’Associazione, la possibilità di approfondire gli
argomenti di interesse per la donna. Il momento del contatto in strada è fondamentale
per conoscersi, per ascoltare i bisogni, per
offrire informazioni e nuovi punti di riferimento, non solo in senso relazionale, ma proprio in termini di territorio, fornendo indirizzi
utili. La relazione diventa più significativa
quando la donna raggiunge la nostra sede e
fa una richiesta, che può essere di maggiori
informazioni o di accompagnamento ai servizi
sanitari. Se la donna conosce la città ed è in
gado di muoversi da sola senza problemi, le
vengono fornite tutte le indicazioni per raggiungere il servizio e per accedervi nel modo
corretto. Il counselling approfondito sull’Art. 18
viene normalmente fatto presso la nostra sede
o in luogo tranquillo e protetto, mai durante
il contatto in strada, per non mettere a rischio
la sicurezza della donna, che può essere in quel
momento sotto controllo di altre persone.
L’attività di informazione e counselling sanitario e il lavoro più strettamente mirato alla realizzazione di azioni di aiuto alle vittime del
traffico, sono due momenti distinti, ma fortemente connessi. Promuovendo la tutela della
salute, come bene primario, si vuole restituire
centralità alla persona, favorendo l’assunzione
di responsabilità fino al prendersi cura di sé,
a cominciare dal proprio corpo. Quando la
donna riconosce di avere dei diritti e ha una
corretta informazione, ha già fatto un passo
per sottrarsi a chi la sfrutta. Uno degli obiettivi fondamentali dell’attività di diffusione delle
informazioni, è quello di offrire alle donne il
sostegno necessario per realizzare scelte più
costruttive e comunque di autotutela. Grazie
all’Unità di Strada, che da anni contatta le
donne per strada, è stato dato un contributo
decisivo alla lotta contro il traffico e lo sfuttamento sessuale, che riducono la persona a un
oggetto, utile solo a produrre denaro. Attraverso una corretta informazione le donne possono diventare più consapevoli e scoprire che
ci sono alternative e opportunità accessibili.
L’accompagnamento ai servizi sanitari è un
momento prezioso per instaurare la relazione
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
di fiducia e spesso incoraggia la donna a esplicitare la richiesta di aiuto per uscire dal giro
della prostituzione.
L’ équipe di Tampep inoltre offre un servizio di consulenza non solo a persone straniere,
ma anche a cittadini italiani, soprattutto
uomini, che sono alla ricerca di informazioni di
vario genere, dall’ambito sanitario a quello
legislativo e sociale. Oltre ai colloqui che si svolgono in sede, sono molto numerose le consulenze telefoniche.
Infine, poiché il lavoro di Tampep si svolge
in concertazione con diversi enti, associazioni,
gruppi, istituzioni, risulta importante sottolineare che è costantemente in atto con gli altri
attori della rete, lo scambio di dati, buone
prassi, riflessioni e studi, sia a livello informale,
tra operatori impegnati sul campo, che in
ambiti istituzionali, durante tavoli di lavoro
congiunti e incontri di formazione.
• Formazione
Aggiornamento ed approfondimenti per mediatori culturali, peer educators e street workers.
Corso di formazione alle ONG nigeriane e
nel law enforcement training a fianco dell’ufficio nazionale antimafia
• Iniziative
Tra i progetti più significativi realizzati negli
ultimi anni, ha assunto particolare rilevanza il
progetto TURNAROUND, finanziato dalla Regione Piemonte e dalla Provincia di Torino.
L’obiettivo è quello di promuovere una campagna di informazione e consapevolezza delle
forme di inganno e sfruttamento, di cui sono
vittime le donne immigrate provenienti dalla
Nigeria, spesso indotte alla prostituzione una
volta giunte in Europa.
In particolare sono state attivate azioni di
sensibilizzazione per la società civile italiana e
nigeriana sul fenomeno dello sfruttamento
della donna migrante, coinvolgendo Autorità
locali e ONG.
Nel 2002 una delegazione della Città di
Torino, composta da rappresentanti di Tampep,
Questura e Procura, ha compiuto una missione
in Nigeria per valutare l’andamento del Progetto e instaurare un rapporto diretto con le
Forze dell’Ordine nigeriane. Con il fine di combattere insieme i trafficanti di esseri umani. Il
Progetto ha inteso promuovere azioni rivolte
all’empowerment delle donne attraverso il
microcredito.
A tale scopo è stata creata una rete di interlocutori in Nigeria, con cui sviluppare le azioni.
Tampep, nel corso del 2003, ha realizzato
per l’UNICRI il progetto UKINÈ, integrato all’attività consueta di sostegno alle vittime di tratta
e che ha visto Tampep anche nella veste di formatore in Nigeria.
Capofila del Progetto ALNIMA (Albania,
Nigeria, Marocco), programma di cooperazione internazionale finanziato dalla Commissione Europea.
Progetto di rimpatrio assistito per cittadini
stranieri colpiti da decreto di espulsione.
L’Associazione è referente per le attività
concernenti la Nigeria, e realizza l’accoglienza a Lagos delle donne rimpatriate dalle
ONG locali, la formazione e l’orientamento/training per la creazione di microimprese,
con l’attivazione di microcrediti a sostegno
delle stesse.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
Ufficio per la Pastorale dei Migranti
via Ceresole 10 - 10155 Torino
Tel. 0112462092 - 0112462443
e-mail: [email protected]
• Da vittime a cittadine anno II
Il Progetto è la prosecuzione del programma di protezione sociale avviato quattro anni
fa a favore delle donne in percorsi di uscita dalla
tratta nella provincia di Torino.
I progetti realizzati in questi anni sono: “Liberiamo dalle moderne schiavitù” (anni 2000, 2001,
2002) e “Da vittime a cittadine” (anno 2003).
Gli obiettivi di fondo perseguiti sono: liberare le donne dalla schiavitù della tratta e condurle in un percorso di riconoscimento – individuale e sociale – dell’essere “cittadine”, cioè
soggetti titolari di diritto.
Per aiutare la donna a uscire dai percorsi di
tratta – secondo una metodologia consolidata
in questi anni – si mettono in moto alcune
azioni (accompagnamento logistico, giuridico,
psicologico e di mediazione culturale), atte a
rafforzare l’identità delle donne.
La donna viene poi accompagnata nel suo
percorso di autonomia attraverso la formazione
linguistica e professionale, il sostegno per l’inserimento lavorativo, l’assistenza per la ricerca abitativa, il coinvolgimento in momenti aggregativi.
Ogni azione ha in sé lo scopo di costruire
intorno alla donna un tessuto relazionale e di
riferimento indispensabile per il sostegno della
donna nel delicato percorso di uscita dal “giro”.
Il progetto è integrato con le azioni di sistema attivate (numero verde nazionale) e con
i progetti territoriali presenti (lavoro di strada,
mediazione culturale...).
Nello specifico, vi è una collaborazione con
i progetti della Provincia di Torino, con il Gruppo
Abele, con il Comune di Torino e con i centri di
accoglienza ad esso legati, nonché con la Regione Piemonte e con la rete giuridica (Questura, Forze di Polizia, Prefettura, Magistratura, Tribunali).
Il progetto promosso dall’Ufficio per la Pastorale dei Migranti presenta alcune specificità
che, fatto salvo il rispetto dei principi propri dei
programmi di protezione sociale per le vittime
della tratta, come la predisposizione di percorsi
individualizzati per l’integrazione sociale, ne
caratterizzano l’attuazione.
La Caritas Diocesana rappresenta un punto di
riferimento importante per gli accompagnamenti
17
di donne straniere che si prostituiscono, e desiderano smettere, da parte dei loro partner o da parte
di altre persone che vogliono prestare aiuto.
Le soluzioni proposte debbono quindi tener
conto, da un lato delle opportunità e risorse
che queste persone, se intenzionate a proseguire nell’azione di aiuto, possono offrire alle
donne; dall’altro si impone una particolare
attenzione, da parte del servizio, nella gestione
della relazione con la donna e nell’interazione
con le figure di aiuto “informali”.
Le principali criticità sono rappresentate dalle
esigenze di tutela della riservatezza e dalla necessità di proporre percorsi di emancipazione, non
sempre percepiti dalle donne come necessari.
Altro aspetto sviluppato in modo specifico,
all’interno del percorso di integrazione proposto dall’Ufficio per la Pastorale dei Migranti, è
l’attenzione alla dimensione spirituale del benessere delle donne inserite in protezione sociale.
In questo senso vanno le azioni di socializzazione e l’organizzazione di incontri di preghiera, molto frequentati in particolare dalle
donne di origine nigeriana.
• Informazione
Atti del convegno sul tema “Tratta e percorsi di cittadinanza: “Da vittime a cittadine”,
novembre 2002.
• Formazione
Sono organizzati per le donne che si rivolgono allo sportello:
— Corsi per l’acquisizione della lingua e cultura italiana a più livelli;
— Corsi di formazione professionale presso
Scuole Professionali qualificate;
— Corsi di economia domestica presso l’Associazione Un Progetto al Femminile;
Inoltre:
— Corsi di formazione per gli operatori/volontari che desiderano avvicinarsi a tale realtà
— Partecipazione al coordinamento locale e
nazionale sulla tratta promosso da Caritas
Migrantes e Usmi in collaborazione con il
Ministero delle Pari Opportunità e la Comunità Europea.
• Iniziative
Incontri settimanali con la comunità nigeriana.
Momenti di incontro religioso (ecumenico
e cattolico)
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
Ufficio Stranieri - Comune di Torino
Divisione Servizi Sociali Rapporti con le Aziende
Sanitarie Settore Stranieri e Nomadi
Via Cottolengo 26 - 10152 Torino
Tel. 011442 9411- 9412
e-mail: [email protected]
[email protected]
L’Amministrazione cittadina inizia ad affrontare le problematiche relative all’aiuto a
persone vittime di tratta e sfruttamento sessuale dal 1997, e quindi prima dell’avvio dei
progetti collegati all’articolo 18 (T.U.286/98).
Questa pluriennale esperienza ha fatto sì
che questo servizio venisse a conoscenza di
tale fenomeno, e soprattutto ha consentito la
messa a punto di interventi di sostegno e aiuto.
Gli interventi sul campo hanno indicato che
queste persone, vittime di maltrattamenti e coercizioni, una volta liberatesi dalle condizioni di violenza chiedono di continuare a ricercare opportunità nel Paese di immigrazione, tranne che in
pochissime situazioni (richiesta di rimpatrio).
Il Progetto Freedom della Città di Torino è
uno dei progetti finanziati dal Ministero delle
Pari Opportunità per l’attuazione dell’art.18.
Tale progetto prevede svariate azioni integrate, finalizzate al consolidamento di una rete
che coinvolge molteplici realtà del privato
sociale, a cui ha affidato la realizzazione degli
interventi, mantenendo un ruolo di coordinamento e garantendo la formazione e la supervisione sugli operatori.
Il progetto ha permesso di ampliare e consolidare la rete nata per l’accoglienza di donne
immigrate in condizioni di disagio e di fornire
maggiori e specifiche risorse per la gestione dei
programmi di protezione e di inserimento
sociale.
Sono state sperimentate soluzioni di collegamento tra le strutture di accoglienza e il raggiungimento della piena autonomia delle donne.
In questo senso, le convivenze guidate hanno
rappresentato una valida proposta poiché
hanno consentito di ridurre le permanenze in
comunità risolvendo temporaneamente le difficoltà nel reperire risorse abitative autonome.
Il progetto garantisce inoltre percorsi formativi e di accompagnamento al lavoro: fondamentale si è rivelato l’utilizzo dei tirocini formativi seguiti con idonee azioni di tutoraggio.
• Informazione
Osservatorio Interistituzionale sugli Stranieri
in Provincia di Torino, 2000-2001-2002-2003,
a cura di Città di Torino e Prefettura di Torino.
• Formazione
Per gli operatori:
— continua la supervisione del gruppo di
lavoro a cura dell’Associazione Frantz
Fanon, che si occupa di consulenze psicologiche e psichiatriche per immigrati.
Questa metodologia di lavoro si è dimostrata qualificante, vista la specificità dell’intervento e le problematiche altamente
complesse che si incontrano nel lavoro con
le donne inserite nel progetto (emarginazione, prostituzione, malattie mentali);
— i momenti di supervisione e confronto consentono di ulteriore confronto tra le varie
realtà coinvolte.
Per le utenti:
— tirocini formativi che spaziano dallo studio
della lingua italiana a più livelli, ad attività
teorico/pratiche di economia domestica,
cucina, sartoria, assistenza ad anziani, sono
propedeutici all’inserimento lavorativo e
vengono solitamente proposti all’inizio del
percorso, quando la mancanza di ricevuta
di permesso di soggiorno non consente
ancora l’attivazione della borsa lavoro.
Alle frequentanti viene corrisposto un gettone di presenza.
Sono previste verifiche intermedie tra gli
operatori del Comune e i docenti che propongono le attività.
Questi tirocini vengono organizzati dall’Associazione Alma Mater, dall’Associazione Progetto al Femminile, dall’Associazione
Ewiwere;
— obiettivo importante del progetto è la formazione e l’apprendistato lavorativo attraverso tirocini formativi (borse-lavoro) di
durata variabile, svolti presso Aziende in
grado di garantire una ragionevole possibilità di inserimento lavorativo al termine del
tirocinio o quantomeno un effettivo miglioramento del profilo professionale al termine dell’esperienza.
Tale modalità ha consentito ad un numero elevato di donne l’apprendimento o il
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
perfezionamento in itinere della lingua
italiana, l’acquisizione di un profilo professionale e la sperimentazione della complessità del mondo del lavoro e delle sue
regole.
L’accompagnamento e la supervisione di
tutor con formazione specifica e competenze professionali garantisce una forma di
19
mediazione e l’individuazione di variabili preziose per eventuali ulteriori reinserimenti.
• Iniziative
Predisposizione e coordinamento di una
rete di strutture che vanno dalla pronta accoglienza agli alloggi di convivenza guidata per
un totale di circa 65 posti.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
Progetto europeo
Equal-Life
Li.fe-Libertà Femminile è un progetto avviato nel 2001 dall’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia di Torino e finanziato
nell’ambito del Pic-Equal, sull’Asse Pari Opportunità (Misura 4.2).
È un progetto nato per garantire adeguato
coordinamento ed efficace sviluppo di tutti gli
interventi a favore delle vittime della tratta.
Questo progetto ha visto come capofila la
Provincia di Torino, e la collaborazione di altri
partner quali: Città di Torino, Città di Moncalieri, Università degli Studi di Torino, Confcooperative Unione Provinciale di Torino, Tampep,
Ufficio per la Pastorale dei Migranti-Arcidiocesi
di Torino, Associazione Compagnia delle Opere, Associazione del Gruppo Abele e Cicsene.
Inoltre si è costituito un Comitato di Pilotaggio composto da: APID, CGIL, CISL, UIL, CNA,
Comando Provinciale dell’Arma dei Carabinieri, Commissione regionale pari opportunità,
Confartigianato, Consulta femminile regionale, Consulta femminile comunale di Torino,
Prefettura di Torino, Procura della Repubblica
di Torino, Promozione Donna, Questura di
Torino, Zonta Club International.
All’interno del progetto, i partner hanno
avviato una sperimentazione rivolta a quindici
beneficiarie, individuate dai referenti dei quattro progetti cittadini.
Partendo dalla condivisione del Percorso Metodologico e delle buone pratiche poste in
essere abitualmente, si è ritenuto di approfondire alcuni aspetti particolarmente problematici, al fine d’individuare soluzioni innovative
e proposte d’intervento che comportassero,
nell’ambito delle azioni intraprese, un valore
aggiunto. le novità proposte, l’individuazione
di una persona di riferimento per le donne: la
“life-friend”, in grado di accompagnarle nelle
diverse fasi del percorso agendo da ponte tra
i referenti delle diverse fasi: inserimento lavorativo, abitativo, referenti istituzionali ecc...
La sperimentazione ha previsto, inoltre,
l’attribuzione di una “carta di credito” per ogni
beneficiaria, per consentire alle donne di provvedere autonomamente alle proprie esigenze.
Il percorso ipotizzato ha proposto modalità
di accoglienza alternative alla comunità tradizionalmente intesa, tramite gli inserimenti
negli alloggi di convivenza guidata, già nelle
prime fasi del percorso.
Siamo quindi giunti verso la conclusione di
tale percorso; i risultati saranno esaminati,
discussi, rielaborati e, sicuramente, tale bagaglio di esperienza sarà la base di un lavoro
duraturo, sempre più articolato, malleabile e
soggetto ad eventuali miglioramenti.
Il percorso intrapreso potrà senza meno
arricchire un patrimonio già esistente, ovvero
quello delle “buone prassi” già messe in atto
da anni.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
I soggetti
Progetto Libere - Te
Lira - Free
ll progetto Libere - Te Lira - Free, è stato finanziato nell’ambito del FSE 2000/2006-Obiettivo 3
POR Piemonte ASSE E-Misura E1, che si pone
tra gli altri obiettivi di migliorare la posizione
della componente femminile attraverso interventi diretti a rimuovere le cause oggettive e
culturali di discriminazione operanti nei confronti delle donne,promuovendo il riconoscimento e la valorizzazione della componente
femminile nel mondo del lavoro.
Il Progetto ha avuto l’obiettivo di diffondere una cultura di parità, per promuovere l’integrazione culturale, sociale, lavorativa e abitativa di donne che escono da situazioni di
prostituzione forzata.
Tra le azioni di sensibilizzazione sono stati
realizzati un video, un manuale. È stato inoltre
21
prodotto un fotoromanzo che, rivolto alle beneficiarie, ha favorito il trasferimento di informazioni utili da e verso le donne vittime di tratta.
Accanto a ciò, un convegno “Parlare di tratta
e di prostituzione, parlare alla prostituzione”,
un’occasione per riflettere sulla comunicazione
e sull’informazione sui temi della tratta e della
prostituzione.
I partner del progetto Libere-Te-Lira-Free
sono gli stessi che hanno costituito la partnership del progetto Equal Li.fe, con la sola
aggiunta della società S&T che si è occupata
del coordinamento e delle attività progettuali.
Sono state inoltre coinvolte alcune donne che
hanno vissuto l’esperienza della tratta e dello
sfruttamento, in qualità di esperte. Anche il Comitato di Pilotaggio di Li.Fe ha aderito all’iniziativa Libere-Te-Lira-Free ed ha sostenuto e
condiviso le attività sviluppate dal progetto.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
capitolo 2
Percorso metodologico
Il desiderio di creare e sperimentare ulteriormente un modello di percorso, che possa
far tesoro delle buone pratiche utilizzate in
questi anni dai referenti dei progetti, ha favorito molte occasioni di incontro e confronto tra
gli operatori che il progetto Equal Life - Libertà
al femminile ha promosso.
Questi incontri hanno evidenziato l’esigenza di condividere gli obiettivi, conseguire
una maggiore omogeneità e standardizzazione
delle prassi operative, delle procedure, e dei
materiali utilizzati per la raccolta dei dati e delle
informazioni, per ovvi problemi di comparabilità degli stessi. Allo stesso tempo si è avvertita l’esigenza di un confronto per rivalutare i
criteri adottati per l’inserimento e la permanenza nel programma e le condizioni che possono determinarne l’interruzione.
È stato analizzato tutto il percorso di reinserimento sociale che viene proposto alle
donne scomponendolo in fasi:
1) Primo contatto
2) Presa in carico
3) Accoglienza (Prima, Seconda, Alloggi di
convivenza guidata)
4) Accompagnamenti sanitari
5) Regolarizzazione
6) Consulenza legale
7) Formazione
8) Inserimenti lavorativi
9) Inserimenti abitativi.
Ci si è preoccupati di far emergere obiettivi comuni e criticità riscontrate, evidenziando
quanto vi è di comune ai quattro progetti e le
relative specificità.
Il collegamento in rete e l’azione integrata
con altri soggetti e altri progetti operanti sul
territorio ha rappresentato l’elemento qualificante per il conseguimento di risultati quanto
più possibile efficaci e duraturi.
1) Primo contatto
I referenti dei progetti concordano obiettivi
comuni tra i quali:
— ricercare un rapporto di fiducia tra operatori e ragazze;
— fornire chiarimenti sulle opportunità previste dalla legge (questioni legali, contenuti
del programma), evidenziandone eventuali
problemi e difficoltà, al fine di garantire
una corretta informazione e prevenire successivi fraintendimenti;
— far emergere, sostenere e verificare le motivazioni della donna, aumentandone il livello di consapevolezza;
— offrire opportunità di ascolto alle donne
che chiedono di uscire dalla condizione di
sfruttamento sessuale e dalla clandestinità;
— proporre un cambiamento di vita presentando un cammino alternativo che prevede
la possibilità di raggiungere l’autonomia
economica ed abitativa;
— contrastare le organizzazioni criminali, proponendo alle donne la denuncia in alternativa al pagamento del debito ma anche
come possibilità di collaborare all’emancipazione di altre donne;
— garantire accoglienza immediata per situazioni di emergenza, protezione e fuga.
Tutti i partner, in questa fase di primo
contatto, ricostruiscono, attraverso il dialogo
e la compilazione di schede o materiale
appositamente elaborato, la storia personale
della donna, al fine di orientarne la scelta e
verificare la reale possibilità di sporgere
denuncia.
Sin dai primi colloqui, ci si avvale della collaborazione dei mediatori culturali, sia per facilitare la comprensione linguistica, sia per predisporre ad una situazione di maggiore
empatia con l’utilizzo della lingua d’origine.
A partire dai primi contatti, viene prospettata l’articolazione del percorso di inserimento
sociale e, sia quando l’inserimento nel programma avviene su richiesta delle Forze
dell’Ordine, sia che avvenga per iniziativa della
donna stessa che decide di allontanarsi dal
“giro” ma non dispone di risorse abitative
valutate sicure, si propone l’immediato inserimento in comunità, illustrandone regole e
modalità.
Vi sono alcune differenze nelle modalità
del primo contatto, che rispecchiano le caratteristiche specifiche di ciascun gruppo proponente.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
Gruppo Abele
Il Gruppo Abele entra in contatto con persone che giungono, in molti casi, tramite il
Numero Verde. Vi si rivolgono non solo donne
in difficoltà, ma anche gli amici o talvolta i
clienti stessi.
Il Numero Verde è attivo dalle ore 15 alle 3
tutti i giorni dell’anno, festività comprese. È in
collegamento con il Punto Rete Nazionale. Nelle restanti ore esiste un servizio di reperibilità
a mezzo telefono cellulare, cui il Numero Verde Nazionale inoltra le chiamate urgenti. La
postazione del Piemonte è dotata inoltre di
un’accoglienza in Casa di Fuga nella notte e
nei fine settimana.
Spesso le richieste di inserimento provengono da parte delle Forze dell’Ordine.
Tampep
Per Tampep, l’accesso al programma di
protezione sociale avviene prevalentemente
mediante contatti e relazioni spesso avviate già
in precedenza con l’unità di strada. I rapporti
che si creano inducono, talvolta, la donna a
chiedere informazioni rispetto alle opportunità
offerte dalla legge e successivamente, in taluni
casi, a chiedere l’inserimento nel programma.
UPM
All’UPM, nella maggioranza dei casi, le
donne vengono accompagnate da amici italiani, spesso clienti, da connazionali e, più raramente, da parte della Caritas Nazionale.
Comune di Torino
Per l’Ufficio Stranieri del Comune di Torino,
l’inserimento nel programma avviene quasi
sempre su richiesta delle Forze dell’Ordine. Più
raramente le persone si rivolgono autonomamente, o accompagnate da fidanzati o da
amici, chiedendo una presa in carico.
Spesso le altre Associazioni referenti di Progetti nel territorio Torinese richiedono l’inserimento di donne presso le comunità che aderiscono alla rete FREEDOM; tuttavia, l’elevato
numero di inserimenti effettuati annualmente
nel Progetto rende difficile accogliere tali
richieste.
Tra le criticità maggiormente riscontrate
dagli operatori che si occupano di questa delicata fase di aggancio, si possono evidenziare
23
in modo particolare:
— la scarsa conoscenza della lingua italiana,
la povertà di risorse socio-culturali, il basso
livello di scolarizzazione, la cultura di origine;
— il contesto relazionale molto limitato, spesso non hanno amicizie al di fuori di qualche ex cliente;
— la solitudine e il senso di emarginazione,
che denotano la fatica delle donne a creare reti relazionali e affettive significative e
stabili;
— la difficoltà a riconoscere e ribellarsi a situazioni di violenza cui si sono assuefatte;
— l’approccio imprudente che alcuni rappresentanti delle Forze dell’Ordine, privi di adeguata formazione, mettono in atto, anche
se inconsapevolmente, nei confronti delle
donne: prospettando loro un percorso più
semplice e meno articolato di quello che
dovranno affrontare nella realtà, con l’inverosimile promessa di ottenere quasi immediatamente i documenti e il lavoro;
— l’atteggiamento di alcuni clienti zelanti,
decisi a ”salvare” la ragazza-vittima, anche
quando la donna non ha ancora maturato
alcuna richiesta di aiuto e la decisione di
affrancarsi dall’attività di prostituzione.
Sottovalutando l’importanza di tale decisione e del fatto che è responsabile solo se
soggettiva, autonoma e motivata da parte
della donna.
2) Presa in carico
La presa in carico rappresenta un momento
particolarmente delicato in cui occorre saper
accogliere, ascoltare e comprendere la situazione reale ed emotiva che le donne si trovano
a vivere, astenendosi da giudizi e valutazioni.
L’atteggiamento di apertura ed ascolto è il
presupposto che consente di valutare, una
volta ricostruita la storia della donna, quali
siano le migliori soluzioni da mettere in atto.
È necessario garantire agli operatori, che
gestiscono questa delicata fase del percorso,
un supporto formativo in grado di consentire
una lettura competente dei bisogni e atto ad
accompagnare ai progetti proposti.
Le notizie che sono fornite dai soggetti
debbono essere valutate e verificate con attenzione, di modo da non esporsi al rischio di un
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
percorso fallimentare perché fondato su dati
non veritieri o incompleti.
La fase della denuncia non si limita solo alla
stesura del resoconto dei fatti, poiché una
denuncia circostanziata, ricca di dettagli, ma
soprattutto sorretta da una forte motivazione
personale, è condizione di base, oltre che per
l’esito delle successive indagini, per il sostegno
della donna stessa.
Il racconto della propria storia costituisce un
momento liberatorio, che dà alla persona la
percezione di aver iniziato a riscattarsi e di aver
in qualche modo reso giustizia e libertà alla propria vita; con la consapevolezza di aver avuto
un ruolo di vittima di tratta e sfruttamento.
Tutti i referenti dei progetti individuano
come obiettivo primario:
— aiutare a far acquisire alle donne la consapevolezza di essere state vittime di tratta e
sfruttamento;
— offrire gli strumenti necessari per consentire alle stesse di prendere decisioni in
merito alla propria vita futura;
— fornire ogni supporto utile per una preparazione accurata della denuncia garantendo un sussidio legale se necessario;
— orientare e garantire accompagnamento ai
servizi di territorio.
In questa fase del percorso vengono elaborate le richieste personali e viene predisposta
una prima ipotesi di progetto d’aiuto e accompagnamento individualizzato, partendo dalla
valutazione sia delle risorse individuali che delle
opportunità messe a disposizione dei singoli
progetti.
Viene definito un vero e proprio contratto,
controfirmato dalle interessate, con l’articolazione di un progetto che cadenza gli incontri
e riporta le risorse da utilizzare.
Alcune donne, potendo beneficiare di soluzioni abitative autonome (ospitalità di un
fidanzato o di un’amica fidata), non richiedono
l’inserimento in comunità e la loro situazione
è verificata dagli operatori nelle varie fasi del
programma.
Le richieste di rimpatrio volontario sono molto poche; in questo caso tutti i partner pianificano questo evento, in collaborazione con ONG.
Qualora la richiedente non abbia ancora
sporto denuncia, vengono presi accordi con la
Questura per l’accompagnamento presso i loro
uffici e rendere la propria deposizione.
La figura dei mediatori culturali è ritenuta
importante, soprattutto nella fase di ricostruzione della storia della donna, nella definizione
del progetto e nei casi di gestione di conflitti.
3) Accoglienza
• Prima Accoglienza/Casa di Fuga
Obiettivi comuni: garantire alle donne un
periodo di stabilità e protezione, che consenta
la rielaborazione delle esperienze precedenti e
la riflessione sul nuovo progetto di vita. In questa fase gli operatori che entrano in relazione
con la donna possono verificare la sua motivazione ad intraprendere il percorso di emancipazione dalla prostituzione e sostenerla nella
riscoperta di una vita normale.
L’obiettivo dell’accoglienza non è soltanto
quello di rispondere alle esigenze delle donne
di trovare una collocazione adeguata, ma quello
di inserirle in una strategia articolata di rapporti e
relazioni al fine di costruire nuovi legami sociali.
È prevista una permanenza residenziale
variabile da 15 giorni ad alcuni mesi.
La durata di questo periodo varia, oltre che
dal progetto, dalla disponibilità di posti nelle
comunità di Seconda Accoglienza.
La finalità dell’inserimento è quella di offrire
un luogo protetto e sicuro dove le donne possano essere accolte nella fase iniziale dopo il
loro allontanamento dalla situazione di pregiudizio. È l’occasione per rielaborare le esperienze
precedenti con il dovuto distacco, riflettere sulla
possibilità di cambiamento, scoprire e sperimentare una vita diversa nella quotidianità.
Criticità
È opinione degli operatori interessati che le
comunità di accoglienza rappresentino una
valida opportunità per le donne che escono
dalla prostituzione, in quanto creano l’occasione per conoscere le donne da vicino, aiutarle
e sostenerle affettivamente, emotivamente e
psicologicamente; Le stesse caratteristiche delle
comunità non sono adatte indistintamente
per tutte le donne, tanto da essere vissute da
alcune di loro come un’ esperienza fortemente
condizionante.
Si sta ipotizzando un più diffuso ricorso a
strutture di autonomia, affinché dopo un ini-
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
ziale breve periodo trascorso in comunità, ritenuto indispensabile per una prima osservazione e per sostenere ed orientare le donne in
questo difficile momento di transizione, si utilizzino queste altre modalità di accoglienza:
alloggi di convivenza guidata, di risocializzazione e strutture residenziali, sul modello dei
foyer francesi. Progetti di accoglienza sempre
più articolati, soluzioni flessibili e interventi
diversificati che favoriscono l’autonomia decisionale e la libera scelta di stili individuali.
Laddove gli interventi educativi all’interno
delle nuove strutture non dovessero essere
assicurati (realtà a bassa soglia), è opportuno
prevedere altri interventi sul territorio: attività
diurne risocializzanti, di apprendimento e recupero delle abilità sociali, accompagnamenti di
educativa territoriale, gruppi di auto-mutuo
aiuto sul modello francese delle femmes rélés
(donne legate, rete di solidarietà), quale possibile contesto in grado di sostituire quella
lasciato nel proprio Paese.
Talvolta la permanenza in comunità si protrae oltre il termine del percorso sociale, poiché
i tempi di permanenza delle ospiti presso le strutture sono condizionati soprattutto dalla difficoltà a trovare soluzioni abitative autonome.
In tutti i casi, è opportuno limitare la durata
dell’accoglienza in comunità a periodi medio
brevi, poiché si è osservato che permanenze
troppo prolungate, determinano insofferenze
e frustrazioni e sfociano talvolta in comportamenti inadeguati ed aggressivi tra le ospiti.
La presa in carico delle donne per lunghi
periodi rischia, inoltre, di favorire atteggiamenti di delega del proprio progetto di vita,si
tende ad instaurare relazioni di carattere assistenziale. Ciò rende difficile il recupero di abilità e autonomie personali. La fase dei rapporti
e dei contesti artificiali è indispensabile per la
fase di avvio del cambiamento, ma diventa deleteria se si protrae senza esaurirsi nella fase di
raggiungimento delle capacità di autonomia.
Gruppo Abele
Il Gruppo Abele coordina una Casa di Fuga:
Comunità Gabriela utilizzata per le situazioni
di emergenza, prevalentemente di notte o durante il fine settimana.
Il passaggio dalla Prima alla Seconda Accoglienza, per il Gruppo Abele, avviene median-
25
te trasferimento dalla comunità Gabriela alla
comunità Patricia, o in una accoglienza del Comune di Torino, oppure in un’ulteriore risorsa
individuata a livello regionale: in queste due
situazioni si ha una presa in carico da parte dei
referenti dei rispettivi progetti.
Tampep
Per la realizzazione dei programmi utilizza
due alloggi, che l’associazione ha ottenuto dal
comune di Torino.
Si tratta di alloggi con una disponibilità
totale di 6 posti.
Nel caso di carenza di risorse, l’Associazione può avvalersi per le donne dell’ospitalità
temporanea presso strutture messe a disposizione da altri Enti e Associazioni: Casa di Fuga,
Gruppo Abele, Pronta Accoglienza del Comune
di Torino; all’occorrenza vengono utilizzate
pensioni o alberghi della Città o altre soluzioni
ricercate in provincia, nella regione Piemonte
o presso altri progetti a livello nazionale.
UPM
UPM si occupa prevalentemente di donne
nigeriane che vengono inserite presso la comunità del Sermig poiché non dispone di risorse
proprie di accoglienza. Ricerca e quando possibile inserisce in comunità individuate a livello
regionale e nazionale.
La maggior parte delle donne, rimane a casa
dell’amico/fidanzato, qualora questo dichiari
disponibilità ad ospitarle. Vengono inserite nei
corsi di alfabetizzazione organizzati in sede.
Comune di Torino
Il Comune dei Torino coordina una struttura di Pronta Accoglienza gestita dal Volontariato Vincenziano. L’inserimento è predisposto dall’ufficio Stranieri che, acquisiti sufficienti elementi di conoscenza della donna e in
accordo con gli operatori della comunità, individua la collocazione più idonea (compatibilmente ai posti disponibili) tra le risorse di
seconda accoglienza della rete Freedom.
In questa prima fase del percorso le regole
sono più rigide, si concede una limitata autonomia, solitamente le donne vengono seguite
nei vari accompagnamenti e si richiede una
temporanea sospensione dei precedenti rapporti ed un uso limitato del cellulare.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
Qualora i posti in pronta accoglienza siano
esauriti è possibile avvalersi della convenzione
stipulata dalla città con alcune pensioni ed
alberghi per l’ospitalità a persone in difficoltà.
Dal punto di vista formativo, dopo un breve
periodo di adattamento, si propongono alle
ospiti corsi di alfabetizzazione tenuti inizialmente da volontari della comunità e successivamente organizzati da altri centri: Alma Mater,
Caritas, Vides Laurita, Progetto al Femminile,
Scuola Parini e altri C.T.P.
• Seconda Accoglienza o accoglienza
di medio periodo
Questa fase del percorso si differenzia a
seconda delle risorse dei progetti.
Nelle comunità di Seconda Accoglienza gli
educatori e gli operatori garantiscono una presenza costante.
Solitamente il trasferimento dalla Prima alla
Seconda accoglienza avviene dopo un medio
periodo (circa 1/3 mesi), ed in presenza della
ricevuta del Permesso di Soggiorno.
In questo periodo poiché sono stati acquisiti sufficienti elementi di conoscenza della
donna è possibile definire una ulteriore fase del
progetto educativo individuale, precisandone
obiettivi, tempi, strumenti e modalità di verifica.
Il periodo d’inserimento nella Seconda accoglienza varia da 6 a 12 mesi. In questa fase
l’aiuto e il confronto con gli operatori è volto
a garantire la realizzazione del programma
individuale, soprattutto per ciò che riguarda la
formazione professionale e l’inserimento lavorativo.
Gruppo Abele
Comunità di Seconda Accoglienza (Casa
Patricia). Il Progetto avviato nell’aprile 2002, ha
come obiettivo l’accoglienza di donne sole o
con bambini.
Vengono inserite donne vittime di violenza
provenienti da altre comunità o dagli sportelli
dei servizi pubblici o del privato sociale operativi sul territorio.
Le donne per essere inserite nel progetto
devono avere un buon grado di indipendenza
ed essere ad un livello avanzato nel programma di autonomia.
Gli operatori non sono presenti continuativamente ma soltanto alcuni giorni alla setti-
mana garantiscono negli altri momenti la reperibilità telefonica di un educatore a rotazione.
Mantengono comunque la disponibilità a
garantire gli accompagnamenti più impegnativi e importanti.
Tampep
Trasferimento dall’alloggio di prima accoglienza a quello di medio periodo gestito
dall’Associazione. Se ciò non è possibile si
richiede l’ospitalità alle Comunità del Comune
di Torino o ad altre strutture individuate a
livello provinciale, regionale o nazionale.
Comune di Torino
Il Comune di Torino, ente promotore del progetto Freedom, cui aderiscono, come enti attuatori, diverse associazioni. E, di conseguenza, un
discreto numero di comunità, per quel che
riguarda la seconda Accoglienza dispone:
— 4 Comunità di Seconda Accoglienza che
aderiscono al progetto Freedom;
— 2 Comunità di Seconda Accoglienza che collaborano al progetto a titolo di Volontariato.
Grazie a queste risorse il Comune è in
grado di predisporre un percorso d’accoglienza
sufficientemente articolato: dalla pronta alla
seconda accoglienza e, successivamente, agli
alloggi di convivenza e di autonomia.
Le maggiori risorse economiche dell’Ente
Locale, le possibilità di accedere a particolari
progetti specifici, consentono di non vincolare
la progettualità soltanto ai finanziamenti
annuali. Inoltre, alcune Associazioni del privato
sociale impegnate da molti anni in attività d’accoglienza alle persone svantaggiate hanno
dimostrato negli ultimi anni grande interesse
nei confronti di questa problematica. A molte
di queste Associazioni il Comune eroga un
contributo economico al funzionamento. Questa collaborazione, nata per offrire accoglienza
a donne in difficoltà, garantisce ospitalità e
sostegno a donne vittime di tratta: aumentando così il numero totale dei posti messi a
disposizione della rete della Città.
Talvolta in queste comunità vengono inserite donne, vittime di tratta, che fanno riferimento agli altri progetti.
Nelle comunità di Seconda Accoglienza gli
educatori e gli operatori sono presenti con
continuità.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
UPM
Per le donne che non hanno soluzioni abitative proprie e che sono state inserite al Sermig
vengono ricercate altre soluzioni a livello regionale o nazionale.
• Alloggi di convivenza guidata
Queste convivenze sono gestite da: Gruppo
Abele, Tampep, Ufficio Stranieri del Comune.
L’ultima fase dell’accoglienza è prevista per
donne che hanno portato a termine un percorso formativo, stanno lavorando o per lo
meno sono inserite in borsa-lavoro, sono pronte
per una maggior autonomia pur avendo ancora
bisogno di riferimenti stabili e di un accompagnamento educativo per la gestione della casa,
del denaro e delle relazioni interpersonali.
Viste le notevoli difficoltà che le donne straniere, in particolare africane, incontrano nel
momento in cui cercano una sistemazione abitativa autonoma, la convivenza guidata permette alle stesse, per un periodo di circa un
anno, di sperimentarsi in una condizione di
autonomia, seppur con un intervento di monitoraggio degli operatori e un tempo ragionevole per la ricerca di un alloggio.
In alcune situazioni, le donne inserite partecipano economicamente alle spese di gestione
dell’alloggio, con un contributo pattuito al momento dell’ingresso.
Le donne sono inserite dopo un periodo
trascorso nelle comunità di seconda accoglienza. Le ospiti dispongono delle chiavi dell’alloggio e si amministrano autonomamente
provvedendo all’acquisto dei generi alimentari,
alla preparazione dei pasti, alla cura di se delle
proprie cose e degli spazi a disposizione.
Solitamente viene garantita una fornitura
di alimenti di prima necessità: pasta, riso, olio.
Gruppo Abele
Comunità di terzo livello “Patricia” (vedi
scheda Gruppo Abele a pag 13).
4) Accompagnamenti Sanitari
Tutti gli operatori coinvolti nei progetti
sono particolarmente sensibili al problema della
salute. Si consiglia alle donne, fin dai primi colloqui, di sottoporsi agli accertamenti di routine.
Vengono accompagnate presso gli sportelli
ISI per ottenere il foglio STP che consente l’ac-
27
cesso ai servizi alle persone non iscritte al SSN.
L’obiettivo è quello di far conoscere le strutture sanitarie, le loro peculiarità per rendere
indipendente la donna nell’accesso ai servizi
sanitari, insegnandole come raggiungerli, come
usufruirne in modo corretto contenendo il
ricorso alle strutture Ospedaliere.
Obiettivi comuni:
— Cura della propria salute;
— Prevenzione e informazione Sanitaria;
— Facilitazione nell’accesso ai servizi;
— Autoresponsabilizzazione alla cura e igiene
personale;
Gli operatori hanno consolidato rapporti con:
— Sportelli ISI - ASL1 - ASL 4
— Ambulatorio Universitario DENIS - ospedale
Amedeo di Savoia
— Centro MST - Ospedale Dermatologico
— Ospedale Sant’Anna
— CPA - Lungo Dora Savona
— Consultori familiari di zona
— Centri di salute mentale
Durante il periodo di presa in carico tutte
le donne si sottopongono agli esami di routine:
— Screening
— Esami MTS
— Visite ginecologiche
— Approfondimenti su bisogni già espressi.
Sarebbe auspicabile una più efficace comunicazione tra i vari Enti ed Associazioni che si
occupano di Salute (ISI - Camminare Insieme Sermig) al fine di concretizzare interventi efficaci per diagnosi e cure precoci.
Molto si sta cercando di fare per ciò che
riguarda la prevenzione sanitaria, sia per quel
che riguarda le malattie sessualmente trasmissibili, sia per cercare di ridurre l’elevato numero
d’interruzioni di gravidanze.
Criticità
Spesso le donne inserite nel programma
presentano problemi psicologici importanti.
L’elevata incidenza di disagio psicologico e la
vulnerabilità psico-emotiva delle utenti, hanno
contribuito a rendere particolarmente complessa la gestione dei loro bisogni e talvolta
hanno determinato il rischio di fallimento o
l’interruzione del progetto individuale.
L’eventualità di un ritorno a modalità di vita
“borderline”, rende necessario mantenere un
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorso metodologico
buon livello di attenzione a tutti i segnali di
disagio, anche per quei casi in cui pare essere
stata raggiunta una relativa stabilità.
5) Regolarizzazione
Per ciò che concerne l’iter di regolarizzazione delle donne le modalità adottate sono
analoghe per i quattro progetti.
L’accompagnamento in Questura per quel
che attiene la presentazione dell’istanza per il
rilascio del Permesso di Soggiorno ma soprattutto per quel che concerne la deposizione, è
a carico dell’Ente o della Associazione referente del programma.
Alle Forze dell’Ordine compete l’istruttoria
giudiziale e la redazione della risultanza delle
indagini alla Procura.
Talvolta l’appuntamento in Questura per il
verbale relativo alla denuncia viene preceduto
da una relazione inviata dai referenti dei progetti al fine di effettuare una prima verifica con
la Squadra Mobile della sussistenza di elementi
significativi.
Per alcune situazioni molto particolari, è
stato predisposto il percorso sociale anche in
assenza di denuncia, con il riconoscimento
effettivo da parte della Questura.
I rapporti assidui con le Forze dell’Ordine,
soprattutto con la Questura si sono sviluppati
e consolidati nel tempo e attualmente sono di
reciproca collaborazione.
Trascorse alcune settimane dal momento
della denuncia e dopo i riscontri positivi delle
Forze dell’Ordine la donna viene accompagnata dai referenti, presso l’Ufficio Immigrazione in Via Grattoni 3, per la presentazione
dell’istanza di permesso di soggiorno.
La ricevuta consente l’attivazione di alcune
risorse previste dal programma:
— iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale
(con validità di sei mesi);
— iscrizione al Centro per l’impiego;
— accesso ai Tirocini Formativi (Borse Lavoro);
— possibilità di stipulare un regolare contratto
di lavoro, in base all’accordo firmato dalla Questura locale di Torino e dalla Direzione Provinciale del Lavoro.
Un’altra procedura comune a tutti i referenti, è rappresentata dalla modalità di contatto con i Consolati e le Ambasciate dei paesi
d’origine delle donne.
Permangono notevoli difficoltà rispetto al
rilascio dei documenti di identità. Per quanto
riguarda l’Ambasciata Nigeriana, nonostante
alcune difficoltà, è comunque possibile ottenere
il passaporto se pur ad un costo molto elevato
(in proporzione alla disponibilità economica
delle donne) L’iter da seguire, per ricevere l’autorizzazione all’accompagnamento, prevede:
prenotazione telefonica, trasmissione breve
relazione sulle donne e sintesi della denuncia
sporta dalle stesse o perlomeno autodichiarazione di quanto reso a verbale in Questura.
Alcune criticità si riscontrano con i consolati
di Moldavia, Ucraina, Bulgaria, mentre si registra
una maggior disponibilità per quel che riguarda
il consolato Albanese.
Decisamente positivo il rapporto di collaborazione con il consolato Romeno che, pur non
rilasciando i Passaporti sul territorio Italiano, in
ottemperanza alla convenzione dell’Aia, trova
sempre gli accorgimenti e le semplificazioni per
risolvere i problemi delle donne segnalate.
Criticità
Il confronto del gruppo di lavoro evidenzia:
— una scarsa conoscenza, da parte di alcuni
rappresentanti delle Forze dell’Ordine, privi
di una formazione specifica, di quanto previsto dall’art. 18 del Testo Unico e dei possibili percorsi da proporre alle donne fermate nel corso di una retata;
— i prolungati tempi d’attesa per il rilascio del
permesso di soggiorno. I motivi vanno
ricondotti prevalentemente ai tempi lunghi
della Magistratura per la concessione del
“parere”;
— l’esigenza di una maggiore comunicazione
tra l’Autorità Giudiziaria e i referenti del
percorso sociale. Attualmente, nel caso in
cui non venga identificata la persona
denunciata, o qualora il giudice non ravvisi
elementi significativi nella deposizione, la
pratica può essere archiviata senza nessuna
comunicazione;
— l’esigenza di condividere ulteriormente e
omogeneizzare i criteri di permanenza o
interruzione del programma;
— scarso raccordo tra le Forze dell’Ordine, le
diverse Questure, anche limitrofe, dove si
riscontrano differenze enormi nell’interpretazione dell’art.18.
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Percorso metodologico
La non certezza della pena, pene irrilevanti
inflitte alle sfruttatrici tolgono la fiducia delle
donne denuncianti nei confronti dei referenti
dei progetti, sia nelle Autorità competenti.
6) Consulenza Legale
Le donne sono del tutto impreparate a
comprendere un sistema legislativo complesso
come il nostro. Nei paesi da cui provengono la
maggior parte delle donne (Nigeria e Paesi
dell’Est), le Istituzioni e gli organismi preposti
all’applicazione della legge sono pressoché
inesistenti o corrotti. È dunque necessaria una
vera e propria educazione alla legalità per la
maggior parte delle donne.
Molto spesso la complessità del contesto
rende necessaria la consulenza legale.
Tutti i progetti prevedono la supervisione
sui casi e l’assistenza legale individualizzata per
le situazioni che lo richiedono.
Alcuni avvocati dell’ASGI hanno acquisito
una competenza specifica e gestiscono dal 2003
lo sportello giuridico INTI, istituito dal Gruppo
Abele, rivolto ad enti ed associazioni che si
occupano di queste tematiche.
Le criticità evidenziate: l’inconsistenza e la
mancata garanzia della pena (patteggiamenti,
espulsioni non effettuabili) fanno si che i veri
responsabili criminali del fenomeno, forti anche
della consulenza legale che l’acquisito potere
economico riesce loro a garantire, continuano
ad agire esponendo le ragazze e le loro famiglie a possibili ritorsioni, minando così la loro
fiducia nella protezione che le istituzioni dovrebbero garantire.
Sarebbe auspicabile la costituzione di un
gruppo di lavoro con avvocati civilisti e penalisti al fine di approfondire le possibilità offerte
dal gratuito patrocinio e la possibilità di costituirsi parte civile sia da parte delle donne che
eventualmente dagli Enti e Associazioni, soprattutto qualora si riuscissero a stilare accordi bilaterali tra l’Italia ed i paesi maggiormente coinvolti nel traffico.
7) La formazione professionale
Nella PS, solo la Casa di Carità Arti e Mestieri ha la formazione professionale come
finalità specifica, anche se l’ente collabora, per
la sua attività, sia con i partner che si occupano delle fasi precedenti, sia con aziende, per
29
esempio del mondo della cooperazione, rappresentata nella PS da Confcooperative e da
Compagnia delle Opere. Le note qui inserite
valgono, comunque, per il mondo della Formazione professionale nel suo insieme.
La formazione professionale può essere
inquadrata all’interno dei diritti sociali degli
immigrati, diritti che, in particolare nel caso dei
lavoratori stranieri, precedono l’accesso ai diritti
civili e ai diritti politici . Attraverso la formazione
professionale e la conquista di uno status lavorativo più qualificato, gli immigrati possono
compiere un passo avanti molto importante nel
loro percorso di “cittadinizzazione”.
Già oggi in effetti la formazione professionale destinata agli immigrati si trova a rispondere ad un arco molto ampio di esigenze
sociali. In carenza di altri interventi di politica
sociale, educativa, occupazionale, al sistema
formativo è stato chiesto:
— di occuparsi della formazione linguistica e
della socializzazione degli immigrati alla
società italiana;
— di attuare surrettiziamente interventi di
natura assistenziale, assicurando un reddito
minimo a quanti, arrivati da poco o disoccupati senza risorse su cui contare, si trovano in condizione di necessità;
— di offrire opportunità di socializzazione e
apprendimento a donne giunte in Italia
senza progetti professionali definiti, come
mogli al seguito o come vittime dello sfruttamento sessuale;
— di occuparsi di giovani con accentuata fragilità identitaria e bisognosi di interventi
pedagogici, culturali ed esperienziali per il
reinserimento nel lavoro e nella società;
— di assicurare un’occupazione a immigrati
che, più che essere interessati alla formazione, hanno l’obiettivo di trovare un lavoro e
disporre di un reddito relativamente stabile;
— di far acquisire l’insieme di quelle norme di
comportamento fondamentali (e spesso
differenti rispetto alla cultura di origine)
necessarie per l’integrazione prima lavorativa e di conseguenza sociale;
— di fare da filtro per l’assunzione di forza lavoro da parte delle aziende;
Nel contesto della formazione professionale rivolta a donne vittime di tratta occorre
sottolineare che non sono mai state realizzate
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Percorso metodologico
attività formative rivolte esclusivamente a
gruppi di esse (sia perché non esistono appositi finanziamenti, sia per evitare fenomeni di
ghettizzazione). Nel passato le donne hanno
potuto partecipare ad attività di formazione
rivolta ad utenza generica o a specifici corsi
che prevedono la partecipazione esclusiva di
migranti. I risultati di questa attività sono stati
positivi soprattutto laddove le segnalazioni
sono arrivate attraverso enti che si occupano
di accoglienza e soprattutto quando l’ente è
riuscito ad operare in stretto contatto con la
rete territoriale di supporto. In particolare, dal
punto di vista della formazione professionale,
uno degli interlocutori privilegiati è la rete dei
CTP, che permettono di integrare l’acquisizione
di competenze linguistiche per il lavoro con l’acquisizione degli attestati necessari per migliorare la propria posizione sociale e lavorativa.
La formazione professionale è inoltre per
alcune categorie di migranti, in particolare per
donne vittime di tratta, un’opportunità difficile
da sfruttare in quanto raramente ad essa è collegata l’erogazione di un sostegno al reddito
significativo.
Ciò pone il sistema della formazione e le persone che ad esso si rivolgono di fronte ad un
bivio: da un lato occorre erogare corsi brevi (in
modo che le persone possano essere repidamente assunte e ricevere un reddito); dall’altro i
percorsi brevi non possono fornire un sufficiente
supporto all’acquisizione di competenze tecniche consistenti (ma in molti casi nemmeno di
competenze di base che rendano le persone più
apprezzabili da parte dei datori di lavoro).
8) Inserimenti lavorativi
All’elaborazione di questa fase hanno contribuito: Confcooperative, Compagnia delle Opere, UPM, Gruppo Abele, Comune di Torino.
Nella serie di interventi possibili volti a combattere lo sfruttamento sessuale delle donne,
una delle azioni di supporto fondamentali per
l’inserimento nella società riguarda il lavoro.
Il riconoscimento e la valorizzazione delle
competenze possedute e utilizzate nella propria esperienza individuale, o sviluppabili attraverso adeguati iter formativi, può aiutare le
persone che si affacciano su percorsi lavorativi
inediti e individualizzati.
Oggi l’assetto organizzativo e strutturale
della maggioranza delle cooperative sociali di
tipo B aderenti a Confcooperative e delle ditte
aderenti a Compagnia delle Opere, consente di
garantire un monitoraggio costante e corretto
degli inserimenti lavorativi contemplati dall’art.
18 della L. 40, tentando di promuovere la progressiva autonomizzazione dei soggetti coinvolti e di realizzare gli obiettivi legati all’integrazione stabile, al termine del percorso formativo
previsto dalle borse lavoro, all’interno dei luoghi di svolgimento del percorso stesso.
La gestione degli inserimenti lavorativi si
svolge attraverso diverse fasi:
— Prima accoglienza;
— Valutazione del potenziale e della motivazione;
— Contatti con le aziende;
— Progettazione dell’intervento: la creazione
della rete con altri servizi;
— Verifica in itinere sull’andamento del percorso lavorativo.
Obiettivi generali comuni:
— creazione di percorsi di autonomia personale e di inserimento lavorativo di chi ha
beneficiato delle misure di protezione e
integrazione sociale;
— accesso al mercato del lavoro attraverso la
conoscenza di base del funzionamento del
contesto lavorativo;
— acquisizione della strumentazione attitudinale, comportamentale al fine di facilitare
l’inserimento;
— conquista graduale di un buon livello di
autonomia lavorativa in coerenza con il
proprio profilo di competenza;
— collaborazione fra i diversi tutor impegnati
a seguire il percorso individuale del soggetto (tutor aziendale, tutor formativo, tutor
inserimento abitativo).
Tutti i progetti utilizzano il tirocinio formativo (borsa-lavoro) quale strumento facilitatore
all’inserimento lavorativo. Gli inserimenti più
problematici sono seguiti da tutor affinché
garantiscano un monitoraggio costante del percorso effettuato dal soggetto e instaurino un
rapporto diretto con il tutor aziendale per risolvere tempestivamente le diverse problematiche.
Negli ultimi anni si è privilegiata la ricerca
di opportunità nel mondo della piccola e
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media impresa, giudicando meno produttivo il
lavoro di cura da svolgersi in contesti familiari.
Alcuni interventi hanno prevalentemente
carattere educativo, visto il livello culturale di
partenza di alcune donne, altri sono più propriamente finalizzati all’inserimento lavorativo.
L’esperienza di inserimento in borsa-lavoro
ha mostrato ancora una volta la difficoltà che
queste donne, spesso prive di profilo professionale spendibile sul mercato del lavoro, con
scarsa conoscenza della lingua e talvolta bassa
scolarizzazione, incontrano nel contatto con le
realtà aziendali. Le donne che trovano maggiori opportunità dal punto di vista lavorativo
provengono prevalentemente dai paesi dell’est
(Moldova, Ucraina, Romania, Albania) e hanno
età compresa tra i 18 e i 26 anni, grande predisposizione all’apprendimento della lingua italiana e dimostrano una forte adesione al progetto lavorativo. Più difficoltoso è l’inserimento
nel mondo del lavoro per le donne provenienti
dalla Nigeria, per una marcata differenza culturale e una grande fatica ad apprendere la
lingua italiana e le nostre logiche di vita.
I settori in cui sono stati effettuati il maggior numero di inserimenti in borsa-lavoro e
lavorativi:
— alberghiero/ristorazione;
— imprese di pulizia;
— comparto floro/vivaistico;
— piccola industria (assemblaggi);
— attività commerciali e artigianali (pastifici,
parrucchiere);
— servizi alla persona (preclusi in parte ai soggetti di colore).
Criticità
— Crisi dell’area economico – produttiva torinese specie in alcuni comparti, unitamente
a fenomeni di discriminazioni delle donne
migranti, in particolare se di origine africana, nell’accesso al mercato del lavoro;
— Per le donne di colore: indisponibilità dello
sbocco nell’assistenza domiciliare e nel
lavoro domestico, mercato principale per le
donne immigrate;
— Bassi livelli salariali, dovuti alle mansioni
generiche, o alla possibilità, per le aziende,
di ricorrere a contratti di apprendistato;
— Ulteriori complicazioni dovute a situazioni
—
—
—
—
—
—
—
31
precarie di salute, sieropositività, patologie
psichiche o difficili situazioni familiari, talvolta per la presenza di figli molto piccoli;
Il ritardo nel rilascio del permesso di soggiorno (tale situazione a volte genera nelle
donne nervosismo, ansia, incapacità di
concentrarsi, che si ripercuotono nell’ambito lavorativo). Alcune ditte inoltre non
accettano di assumere con la sola ricevuta
della domanda di rilascio del p.d.s., nonostante l’accordo siglato tra Questura e
Ufficio per l’impiego, ostacolando pertanto
il processo di inserimento lavorativo nel
proprio organico.
Ostacolano inoltre l’inserimento lavorativo:
Basso livello d’istruzione e analfabetismo
informatico;
Difficoltà ad impostare un coerente progetto di miglioramento professionale (fretta di guadagnare anche per far fronte alle
richieste che giungono dalle famiglie);
Localizzazione delle risorse della rete di
accoglienza: le Comunità sono spesso in
zone centrali, mentre le opportunità di
lavoro sono spesso in zone periferiche o
extraurbane;
Regolamenti, norme di convivenza e orari
(spesso incompatibili con quelli di lavoro);
Problemi di interazione personali con i colleghi con datori e colleghi di lavoro (incomprensioni);
Presenza di figli molto piccoli: difficoltà nel
garantire servizi di baby parking, e comunque limitazioni per quanto riguarda localizzazioni e orari.
9) Inserimento abitativo
All’elaborazione di questa fase hanno contribuito: Cicsene e Confcooperative.
Facilitare l’inserimento abitativo e favorire
l’incontro tra domanda e offerta sono temi
centrali sui quali il Cicsene ha da sempre sviluppato ed elaborato studi, progetti sperimentali e collaborazioni, nella convinzione che una
sistemazione abitativa stabile e adeguata rappresenti per ogni uomo il presupposto fondamentale per l’inserimento nella vita sociale
della città.
Il Cicsene segue le fasi legate all’inserimento
abitativo in autonomia, che necessariamente
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Percorso metodologico
deve essere affrontato in modo congiunto ad
altri percorsi di integrazione, quello lavorativo
e sociale in particolare.
La sperimentazione riguardante l’inserimento abitativo intende favorire il graduale
passaggio della beneficiaria dalla precarietà
alla stabilità con l’aumento delle capacità di
autogestione e della consapevolezza di poter
controllare il contesto di riferimento attraverso
una maggiore integrazione nel tessuto sociale
e lo sviluppo di nuove relazioni significative.
L’accompagnamento nella ricerca della
casa si affianca ad un serio orientamento sull’utilizzo degli strumenti legislativi disponibili,
che possono agevolare e talvolta facilitare il
reperimento di risorse abitative. Tra le azioni più
significative segnaliamo:
— attivazione dei canali pubblici e privati per
il reperimento di sistemazioni abitative,
specie sul mercato privato;
— elaborazione e realizzazione di azioni di informazione e sensibilizzazione volte ai proprietari e alle agenzie immobiliari (anche
per modificare alcune delle prassi attuali,
per esempio tentando di far intestare il
contratto a più donne, ancorché in borsa
lavoro e in possesso della sola ricevuta della
domanda di permesso di soggiorno);
— stima, insieme agli altri partners, dei tempi
di permanenza nelle strutture di bassa
soglia, e poi nelle strutture di II e III livello,
in modo da avere un’indicazione sui tempi
medi della sperimentazione;
— attivazione di strumenti comuni di valutazione delle attitudini della beneficiaria per
effettuare gli inserimenti abitativi (idoneità
a condividere la sistemazione abitativa,
adattabilità, rispetto delle regole, disagio
psichico, ecc.);
— promozione e incentivazione della propensione al risparmio delle donne in borsa
lavoro (ad es. con l’apertura di un libretto
di risparmio postale), in modo da renderle
più autonome al momento del passaggio
in alloggio privato nel pagamento di cauzione, volture, ecc. A questo scopo si ritiene
importante proporre percorsi motivazionali
e di responsabilizzazione a partire dalla fase
dell’accoglienza;
— favorire l’intestazione dei contratti di locazione a più donne, anche se non ancora
assunte ma in borsa lavoro.
Obiettivo comune:
— consentire alla donna di proseguire nel percorso di emancipazione ed autonomia, sperimentando in prima persona la gestione
della sistemazione abitativa, con tutto ciò
che comporta: rapporti di vicinato e con la
proprietà, la gestione delle proprie risorse
economiche per far fronte al pagamento
del canone, delle spese e delle utenze.
— ipotizzare un percorso formativo e di consulenza sugli obblighi degli inquilini, sulle
regole di convivenza condominiale e sulla
gestione della casa e delle spese ad essa
riferibili.
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Altre maglie della rete
capitolo 3
Altre maglie della rete
Assume particolare importanza la diffusione della conoscenza della rete dei servizi e
delle opportunità che la città nel suo complesso offre nonché la promozione d’opportunità di partecipazione dei cittadini stranieri alla
vita sociale, politica e cittadina
Sportello ISI-ASL1
Via San Domenico 24/c orario: 13/17 tutti i giorni
Referente: Cooperativa Senza Frontiere
ISI-ASL2
Via Tofane c/o Ospedale Martini
orario:13.30/16 lun mer
Referente: Cooperativa Sanabil
ISI-ASL4
Lungo Dora Savona 24 - orario: 13/17 lun mar ven
Referente: Cooperativa Senza Frontiere
I Centri ISI sono sportelli sanitari atti a
garantire le cure ai cittadini stranieri non
iscritti al Servizio Sanitario Nazionale,
consentendone l’accesso a parte delle
prestazioni sanitarie con una tessera codificata
con la sigla STP (stranieri temporaneamente
presenti). In questi servizi operano diverse
figure professionali: personale Sanitario e
Medico per effettuare la prima visita e
fornire le indicazioni sanitarie. Inoltre sono
utilizzati mediatori culturali per far in modo
che gli utenti del servizio possano comprendere
correttamente prescrizioni mediche,
ubicazione e utilizzo dei servizi.
Ambulatorio Universitario DENIS
Ospedale Amedeo di Savoia
C.so Svizzera stanza 8
Tel. 011/ 4393788 - orario: 13/14 lun gio
Tel. 011/ 70954214 - orario: 14/20 lun mer ven
Centro MST
Ospedale Dermatologico San Lazzaro
Via Cherasco 21
Orario: 8/10 dal lunedì al venerdì
Screening malattie sessualmente trasmissibili
Ospedale Sant’Anna - Centro SVS
Corso Spezia 60 - piano terra
tel. 0113134180 - e-mail FSV
Referente del Centro: Dottor Donadio
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Il Centro SVS funziona 24 ore su 24 per 365
giorni all’anno. Nato per dare una risposta
tecnica e professionale sia nella fase di
pronto soccorso sia nel lungo termine, offre
servizio di accoglienza e pronto intervento.
All’interno del Centro operano una
ginecologa, un’ostetrica, un’assistente
sociale. Viene offerta, inoltre, assistenza
Medico-Legale, Sociale e Psicologica.
È possibile utilizzare per gli appuntamenti il
servizio telefonico. Tutte le mattine funziona
l’Ambulatorio (lunedì giovedì ore 9/13 e
martedì mercoledì venerdì 8/14) dove
prestano la loro attività un’ostetrica e una
ginecologa.
CPA - Prevenzione Tubercolosi
Lungo Dora Savona 26
Orario: dalle 8 alle 15 tutti i giorni
Associazione CAMMINARE INSIEME
Sede Legale Piazza Giovanni XXIII, 26
Sede Operativa via Cottolengo, 24/a
e-mail: [email protected]
[email protected]
Responsabile: Corrado Ferro
Orario: dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 12
e dalle 15 alle 17, sabato dalle 9 alle 12
Servizi offerti
Medicina Generale: tutti i giorni di apertura;
Angiologia, Cardiologia, Chirurgia,
Dermatologia, Ecografia, Gastroenterologia,
Ginecologia, Neurologia, Oculistica,
Cardiologia, Ortopedia, Otorinolaringoiatria,
Pediatria, Pneumologia: su prenotazione;
Odontoiatria: tutte le mattine dal lunedì
al sabato e solo per medicina estrattiva
e conservativa compatibilmente con
la disponibilità di volontari
Inoltre dal lunedì al venerdì dalle 14,30 alle
18 viene garantita l’attività di segretariato
sociale, l’assistenza alimentare,sanitaria ed
economica a circa 30 donne in gravi
condizioni di disagio socio-economico nei tre
mesi prima del parto e per i tre successivi.
Poliambulatorio Giovanni Paolo II - Sermig
Strada del Fortino, 1
Tel. 0114368566 - Fax 0115215571
e-mail [email protected]
orario: lunedì, martedì, giovedì, venerdì dalle 17
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Altre maglie della rete
Servizi offerti
Medicina Generale, Pediatria, medicazioni
e terapia iniettiva: tutti i giorni di apertura
Visite specialistiche di Chirurgia, Dermatologia,
Ginecologia, Otorinolaringoiatria, Urologia:
su appuntamento;
Consulenze di Cardiologia, Chirurgia Plastica,
Endocrinologia, Fisiatria, Gastroenterologia,
Infettivologia, Ortopedia, Neurologia:
su appuntamento;
Cure odontoiatriche: su appuntamento
Fornitura di occhiali dopo la valutazione
dell’Ottico: su appuntamento.
Il Poliambulatorio è operativo dal 1989
nella sede del Sermig nel vecchio Arsenale
militare di Torino, ora trasformato in Arsenale
della Pace. Possono usufruirne tutte
le persone che necessitano di assistenza
medica e che non hanno accesso al Servizio
Sanitario Nazionale.
Ai pazienti sono anche forniti alcuni farmaci
essenziali alle cure stabilite.
Centro Frantz Fanon
Via Vassalli Eandi
Tel. 01170954214
e-mail: [email protected]
Responsabile: Roberto Beneduce
Orario: lunedì, mercoledì, giovedì ore 14/18
Servizio di counselling, psicoterapia
e supporto psicosociale per gli immigrati
e le loro famiglie (c/o D.S.M. A.S.L. 2).
Il Centro Frantz Fanon fa parte
dell’omonima associazione,
fondata nel 1997.
Oltre al Centro, nel quale viene condotta
l’attività clinica, l’Associazione promuove
progetti di formazione e di consulenza
rivolti ad operatori sociali e sanitari.
Collabora con il Comune di Torino: dal 1999
ad oggi, ha contribuito alla costituzione
di un gruppo di lavoro e di coordinamento
all’interno del il Progetto “Freedom”
e dal 2003 offre un’attività
di consulenza etnopsichiatrica
e di supervisione all’interno del Progetto
“Una finestra sulla piazza”
(progetto rivolto alla prevenzione
del disagio giovanile
dei minori stranieri non accompagnati
e a rischio di esclusione sociale).
In questi anni ha svolto attività cliniche,
di ricerca e di formazione in Progetti
rivolti a rifugiati, richiedenti asilo e vittime
di tortura, vittime della tratta e dello
sfruttamento, detenuti stranieri ecc.
Centro MAMRE
Strada Maddalene 366, 10154 Torino
Telefono e fax 011852433
Orari: lunedì, martedì, mercoledì, giovedì
dalle 14 alle 19
Via Saluzzo 30, 10125 Torino
Telefono e fax 0116694936
Orari: martedì e giovedì dalle 9 alle 12.30,
mercoledì dalle 14 alle 19
Web: www.mamreonlus.org
e-mail: [email protected]
Direttore: Francesca Vallarino Gancia
Il Centro Mamre nasce con finalità di aiuto
nei confronti della popolazione immigrata.
Nelle due sedi, propone un sostegno
psicologico o una psicoterapia specifica a
seguito dell’analisi dei bisogni e delle
problematiche espresse dalla persona o dalla
famiglia che qui si rivolge o viene inviata
dagli Enti o Centri cittadini.
Associazione Almaterra
Centro Interculturale delle donne Alma Mater
Via Norberto Rosa 13/A
Tel. 011-2464330/011-2467002
fax 0112056133
e-mail: www.arpnet.it/alma
Orario: lunedì/venerdì 9.30/18
Nasce nel 1994 da un gruppo di donne
italiane e straniere.
Le socie sono volontarie.
Propone attività:
— Accoglienza diurna
— Mediazione culturale
— Consulenza Giuridica
— Centro di documentazione
— Spazio bimbi
— Alma Teatro
— Banca del Tempo
— Laboratorio di Sartoria
— Laboratorio di Lingua Italiana
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Altre maglie della rete
— Gruppi di auto-aiuto
— Hammam: bagno turco
Nel corso degli anni sono state seguite
molte donne inserite in percorsi di protezione
sociale. Soprattutto per quel che riguarda
i corsi di lingua italiana e i tirocini formativi
propedeutici all’inserimento lavorativo
Associazione Ewiwere
Lungo Dora Firenze 151/a, 10153 Torino
Sede operativa c/o Parrocchia Sant’Ignazio
di Loyola
Via Monfalcone 150, 10136 Torino
Telefono 3498466989
Formazione per donne in difficoltà
per l’inserimento lavorativo.
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I.G.I.
Sportello di Informazione
Giuridica per Immigrati
C.so Brescia 14/c - Torino Tel. 011 856589
Lo sportello di informazione giuridica
per immigrati, è gestito dalla Cooperativa
Senza Frontiere. Vi collaborano operatori
italiani e stranieri. La consulenza è gratuita.
Servizi offerti
— Consulenza su questioni giuridiche attinenti la normativa sull’immigrazione (legge
40 – T.U. 286/98)
— Supporto tecnico per la compilazione di
atti, moduli e documentazione varia.
— Supporto consultivo e di mediazione ai
lavoratori che si trovano in situazioni conflittuali con il proprio datore di lavoro.
— Formazione degli operatori in collaborazione con gli avvocati dell’ASGI (Associazione
Studi Giuridici sull’Immigrazione).
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorsi di accoglienza
Il lavoro di reinserimento sociale di donne
vittime di tratta consiste nella messa a punto di
un progetto integrato di servizi, organizzazioni
ed istituzioni capaci di raccordarsi e collaborare
in maniera sinergica. L’intervento è stato tanto
più efficace quanto più culture e formazioni di
diverso orientamento hanno saputo ricomporsi
in un gruppo omogeneo e interprofessionale. Il
confronto tra i diversi referenti della rete, la formazione congiunta di operatori pubblici e privati, le competenze congiuntamente sviluppate
nel corso di tanti anni di attività, l’approccio
integrato tra i patners hanno rappresentato elementi indispensabili per l’analisi e l’elaborazione
teorica finalizzata a sperimentare interventi.
L’esame del percorso metodologico e delle
“buone prassi” in esso contenute, evidenziano
l’importanza del lavoro di rete, la complessità
della problematica, la necessità della condivisione delle conoscenze e l’opportunità che i
diversi attori si incontrino per la realizzazione
dei progetti individuali. Vale pertanto la pena di
dedicare una parte della presente pubblicazione
ai contributi tecnici particolarmente significativi,
di alcuni operatori, impegnati da anni sulle
tematiche trattate.
capitolo 4
Percorsi di accoglienza
4.1. Il ruolo dell’operatore
nelle comunità di accoglienza
A partire dal 1999 l’Ufficio Stranieri del Comune di Torino ha avviato interventi a favore
di donne vittime della tratta e dal 2000 coordina un complesso progetto denominato
Freedom finalizzato alla realizzazione di programmi di protezione sociale attraverso interventi individualizzati.
Sin dall’inizio il Comune di Torino si è posto
come obiettivo la costruzione di una rete che
veda la partecipazione delle realtà del privato
sociale e del volontariato esistenti sul territorio.
All’interno della rete, rivestono particolare
importanza le strutture dove sono accolte le
donne che decidono di intraprendere il programma di protezione sociale.
Le strutture di accoglienza si distinguono in:
1) comunità di prima accoglienza (o pronto
intervento);
2) comunità di Seconda accoglienza (o accoglienza di medio periodo);
3) alloggi di convivenza guidata e alloggi di
autonomia.
Nel corso degli anni sono aumentate le
adesioni di associazioni e di gruppi che hanno
determinato una crescita delle risorse di accoglienza, sia per ciò che riguarda l’accoglienza
di medio periodo (da 6 a 7 comunità), sia per
ciò che concerne le risorse di alloggi di autonomia (dai 2 alloggi iniziali del progetto Freedom
agli attuali 6 alloggi).
Il lavoro di accoglienza prevede una condivisione degli obiettivi del progetto quadro e del
progetto educativo individualizzato attraverso
un lavoro in rete con gli altri servizi che offrono
prestazioni differenti, quali: percorsi formativi,
inserimenti lavorativi, interventi sanitari, presa
in carico psicologica e consulenze legali.
Il progetto prevede, inoltre, che vi siano
Comunità in grado di accogliere donne in gravidanza o con figli a carico.
Il lavoro di rete viene coordinato dall’Ufficio Stranieri. Gli operatori delle comunità verificano via via il raggiungimento degli obiettivi
prefissati e il rispetto del programma.
La supervisione del lavoro di rete è affidata
al Centro Frantz Fanon.
1) Comunità di prima accoglienza
La comunità di Prima Accoglienza è gestita
dal Volontariato Vincenziano. La struttura può
accogliere un massimo di 8 donne e il periodo
di inserimento previsto è di breve e media
durata (1-3 mesi). Talvolta il periodo si prolunga
a seconda della disponibilità dei posti nelle
strutture di Seconda Accoglienza. Gli inserimenti
vengono disposti dall’Ufficio Stranieri.
Nella fase di Prima accoglienza l’attenzione
è posta sulla sicurezza personale dei soggetti.
Questo periodo è caratterizzato da alcune limitazioni alla loro autonomia, dovute alla scarsa
conoscenza delle stesse e delle motivazioni che
le hanno spinte ad intraprendere il percorso di
protezione sociale.
La finalità dell’inserimento è quella di accogliere le donne che rientrano nel progetto
Freedom, consentendo loro il allontanamento
dalla realtà di provenienza.
Per approfondire la conoscenza delle donne,
le loro risorse, difficoltà e bisogni specifici, risulta fondamentale ricorrere al lavoro del
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorsi di accoglienza
mediatore culturale, la cui collaborazione viene
garantita dall’Ufficio Stranieri.
In questo periodo vengono effettuati interventi di tipo:
Sanitario
— Iscrizione all’ISI
— Screening e prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili
— Accompagnamenti specialistici (ad esempio per cure odontoiatriche)
— Consulenza psicologica
Formativo
— Corsi di alfabetizzazione che vengono tenuti inizialmente all’interno della struttura
e in seguito all’esterno (CTP o associazioni)
— Corsi di formazione presso associazioni
presenti sul territorio.
Inoltre, vengono effettuati accompagnamenti di vario tipo: presso Questura, Ufficio
Stranieri, ecc.
Acquisizione dei documenti ottenibili a seguito della ricevuta del permesso di soggiorno.
2) Comunità di seconda accoglienza
Durante il periodo di Prima Accoglienza, gli
operatori possono calibrare più precisamente
la portata dell’intervento, in modo da ridefinire
gli obiettivi e le risorse con le donne, individuando la tipologia di accoglienza più idonea
al soggetto.
Le comunità di Seconda accoglienza sono
gestite da:
— Sermig “Come Noi”, (otto posti)
— Casa Miriam - Cottolengo, (sei posti)
— Vides Laurita, (dieci posti)
— Comunità Effatà, (sei posti)
— Cooperativa Sociale Progetto Tenda, (dieci
posti).
In base all’esperienza fatta in questi anni,
il periodo di inserimento varia in modo significativo in relazione al concorrere di una complessità di variabili tra cui: nazionalità, presenza
di figli, alfabetizzazione e conoscenza della lingua italiana, gravi disagi psicologici, capacità
relazionali, opportunità lavorative, presenza o
assenza di una rete di relazioni familiari e
37
sociali e infine la disponibilità di una sistemazione abitativa.
Queste comunità si differenziano per lo
stile educativo e le modalità di lavoro differenti.
Le diversità più evidenti riguardano:
— la formazione specifica degli operatori:
professionali o volontari;
— i valori di riferimento dell’organizzazione:
laica o religiosa.
Le diverse scelte teorico-metodologiche di
riferimento portano ad attivare differenti modalità di gestione organizzativa della quotidianità: orari, uscite, visite di amici, familiari, gestione della preparazione e fruizione dei pasti, ecc.
La quotidianità della vita comunitaria ha in
questa fase una rilevanza fondamentale.
L’esperienza ha mostrato nel corso degli anni
l’inefficacia di soluzioni che non tengano conto
dei problemi che le donne manifestano, sia individualmente che nelle dinamiche relazionali
(con gli operatori e con le altre donne ospiti).
Il lavoro dell’operatore è quello di costruire,
nel processo interattivo con le donne, un significato delle azioni e delle rappresentazioni, in
grado di mobilitare le loro risorse emotive e
cognitive al fine di orientare l’agire quotidiano.
“Ed è proprio restando a contatto con la
quotidianità, in un movimento continuo di vicinanza e di lontananza, che cerchiamo di organizzare il pensiero, la conoscenza, l’orientamento, le funzioni di ricostruzione di legami
all’interno di un orizzonte sociale spesso frammentato”1.
I differenti modelli di Comunità hanno nel
tempo garantito interventi differenziati, diventando base di riferimento nella costruzione del
significato dei progetti individuali.
Le comunità di Seconda Accoglienza garantiscono alle ospiti uno spazio protetto, grazie alla presenza costante di operatori, in cui
diventa possibile elaborare insieme un progetto individuale, precisando con maggior aderenza obiettivi, tempi, strumenti e modalità.
In accordo con l’Ufficio Stranieri si concordano gli obiettivi individuali per ogni donna
tenendo in considerazione le aspettative che
sempre accompagnano l’esperienza della
Nota 1. D. Jeantet, L’accompagnamento all’inserimento sociale, Animazione sociale, giugno-luglio 2003, p. 48.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorsi di accoglienza
migrazione, le reali risorse della persona e le
opportunità offerte dal territorio.
Negli ultimi anni si è registrato un incremento di inserimenti di donne che presentano
particolari sofferenze e disagi psicologici. La
Comunità di Seconda Accoglienza è in questi
casi il luogo dove viene garantita loro una
maggiore tutela e presa in carico.
In questa fase del percorso sociale, gli interventi si articolano in diversi ambiti al fine di mettere a disposizione delle donne tutti gli strumenti
necessari per un effettivo percorso di autonomia.
Gli interventi sono effettuati dagli operatori delle comunità o da altri operatori della
rete. In questa fase, al di là dei diversi stili di
lavoro e modalità di accoglienza delle differenti
comunità, gli interventi mirano a consolidare
l’autonomia delle donne nelle svariate necessità di contatto con il territorio, garantendo in
ogni caso un supporto di accompagnamento
e informazione puntuale.
Inoltre, si privilegia la ricerca di un inserimento lavorativo o l’inizio di una borsa lavoro
formativa al fine di garantire alla donna un
effettivo livello di autonomia.
3) Alloggi di convivenza guidata
e di autonomia
Gli alloggi di convivenza guidata sono
destinati a persone che hanno già raggiunto
un discreto livello di autonomia, una buona
conoscenza della lingua italiana e dei servizi sul
territorio.
Il passaggio dalla comunità di Seconda
accoglienza all’alloggio di convivenza avviene
nel momento in cui si avvii un inserimento
lavorativo o l’attivazione di una borsa lavoro.
In alcuni casi specifici in cui la donna è particolarmente indipendente e autonoma, l’inserimento diretto dalla pronta accoglienza in un
alloggio di convivenza guidata si rivela più idoneo rispetto a un inserimento in una comunità
protetta.
Gli alloggi di convivenza guidata sono gestiti da:
— Cooperativa sociale Progetto Tenda (2
alloggi di convivenza guidata)
— Alma Mater, (2 alloggi di autonomia)
— Effatà, (2 alloggi di autonomia)
I tempi di permanenza variano soprattutto
in funzione di un inserimento lavorativo sicuro
e delle opportunità di trovare una sistemazione abitativa autonoma. Spesso la non garanzia dello sbocco lavorativo per chi è in borsa
lavoro, la precarietà del lavoro (contratti a
tempo determinato, lavori interinali, etc.), la
carenza di soluzioni abitative nel mercato privato e l’inaccessibilità all’edilizia residenziale
pubblica, finiscono per prolungare i tempi di
permanenza delle donne e di congestionare il
numero di posti disponibili.
Negli alloggi di convivenza guidata, le
donne si gestiscono autonomamente e possiedono le chiavi dell’alloggio. In alcuni casi viene
loro richiesto un contributo economico per la
gestione della casa; sono tenute a rispettare le
regole relative alla convivenza e a comunicare
agli operatori eventuali brevi periodi di assenza
dall’alloggio. Negli alloggi di convivenza guidata viene garantito un passaggio di alcune
ore al giorno da parte di un operatore e alcuni
accompagnamenti (sanitari, di consulenza psicologica, relativi all’acquisizione dei documenti
mancanti, ecc.) in base alle differenti esigenze
delle donne, al fine di mettere a loro disposizione tutti gli strumenti necessari per un inserimento effettivo nella società. In genere si
ritiene necessario l’accompagnamento quando
la donna presenti ancora difficoltà, soprattutto
a causa della lingua o per la mancanza di conoscenza dell’iter burocratico.
La difficoltà di reperire degli alloggi per una
sistemazione abitativa autonoma delle donne
straniere ospiti nelle accoglienze, rende il passaggio agli alloggi di autonomia indispensabile, quasi obbligatorio. Alcune Associazioni,
talvolta, decidono di farsi garanti nel contratto
d’affitto, per le donne che hanno accolto in
precedenza nelle loro strutture.
Il lavoro dell’operatore nelle comunità
d’accoglienza per donne straniere
Dal confronto delle esperienze degli operatori nelle comunità, risulta evidente la difficoltà e la complessità del lavoro con donne che
accedono al programma di protezione sociale.
Se all’inizio problemi concreti, quali ad
esempio l’ottenimento dei documenti e la
ricerca del lavoro, assorbiva la quasi totalità
dell’attenzione degli operatori, oggi emerge la
necessità di articolare maggiormente gli interventi e di approfondire gli aspetti legati alla
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Percorsi di accoglienza
complessità delle singole storie nell’intreccio di
dimensioni individuali, sociali, etiche, antropologiche, giuridiche, psicologiche.
I problemi rilevati dagli operatori nel lavoro
quotidiano, riguardano la difficoltà delle donne
ad aderire ai percorsi concordati. Tale difficoltà si
manifesta attraverso la non osservanza delle
regole, le menzogne, le manipolazioni, il sentirsi
presi in giro, la mancanza di fiducia e di rispetto
nei confronti degli operatori e dei volontari, una
scarsa motivazione ad intraprendere il percorso
sociale e infine la poca pazienza a rispettarne.
A ciò si aggiunge la difficoltà di gestione
delle dinamiche con le altre donne ospiti all’interno delle comunità e le difficoltà relazionali,
esterne alla comunità, sia nei rapporti informali
(amici, fidanzati, parenti) sia in quelli formali
(formazione, lavoro, scuola).
Tali problemi possono essere aggravati
anche dall’aspetto di “controllo sociale” che
l’operatore è tenuto a svolgere nella realizzazione del programma di protezione.
Le difficoltà di comprensione e i malintesi
facilmente generano i conflitti che portano l’operatore a orientarsi verso modelli di gestione
della Comunità più rigidi e 2 regolamentati. Le
continue trasgressioni delle donne possono
indurre gli operatori a dimettere le ospiti ,che
in questo modo rischiano di interrompere il
programma di protezione e di ritornare nei circuiti dell’irregolarità.
La supervisione si è rilevata uno strumento
fondamentale nell’acquisizione di competenze
professionali specifiche a partire dalle esperienze e dai vissuti degli operatori, spesso stanchi.
Come afferma Roberto Beneduce, quando
le persone si trovano al cospetto di fatti e termini
come prostituzione, sessualità, denaro, godimento, sfruttamento, tratta o schiavitù, ognuno
di noi fa convergere in essi spesso senza esserne
consapevole, le appartenenze religiose politiche
di genere culturali, di classe e di età, che orientano i nostri stili di lavoro e di relazione2.
La capacità di lavorare sulle situazioni caratterizzate da incomprensione incomunicabilità e
conflitto obbliga a fare emergere le nostre rappresentazioni e i nostri sistemi di valori e rende
necessario attuare un processo di mediazione
per “reinventare” degli stili di interazione che
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prescindano dalle cosiddette “gabbie identitarie”. Il lavoro di supervisione ha saputo fornire,
inoltre, agli operatori nozioni e rappresentazioni specifiche delle culture di origine delle
donne utilizzate spesso come risorse simboliche e strategie per ripensare e riaffermare la
loro identità storica culturale e geografica. Familiarizzare con i significati e le logiche di nozioni
quali ad esempio culto di possessione, vudù o
stregoneria, diventa un importante strumento
di lavoro per evitare tanto un atteggiamento
etnocentrico (che riconduce tutto ai nostri
modelli), quanto un banalizzante relativismo
culturale, che consente di costruire strategie di
intervento ce relazioni di aiuto più efficaci.
All’inizio di questo paragrafo abbiamo sottolineato l’esigenza di “andare oltre” la considerazione dei problemi concreti e poter acquisire così competenze più specifiche nel lavoro
educativo, affrontando la complessità della
relazione con le donne che entrano nel programma di protezione sociale.
Riteniamo tuttavia, che il lavoro educativo
all’interno del più globale progetto di autonomia si possa realizzare solo nella misura in cui
siano presenti reali e fruibili risorse formative
lavorative e abitative. Questa esigenza emerge
ancor di più nelle situazioni di donne che presentano gravi disagi psicologici e psichiatrici.
Nella nostra esperienza, i percorsi di accompagnamento delle donne si semplificano quando
l’inserimento in percorsi socio lavorativi assumono toni e modalità più stabili.
La precarietà del mondo del lavoro e le
nove disposizioni dettate dalla legge Bossi - Fini
rischiano di vanificare il lavoro di anni e di far
rientrare le donne in circuiti di irregolarità.
MONICA CHIRIELEISON, ALINA PORRINIS
Cooperativa Sociale Progetto Tenda
4.2. L’Esperienza di accoglienza
del Progetto Antares
L’obiettivo fondamentale del Progetto
Antares è quello di accogliere la richiesta di
aiuto nella sue molteplici forme, offrendo alla
donna uno spazio privo di giudizi morali, nel
quale avviene uno scambio caratterizzato dalla
comprensione. La relazione interpersonale, a
Nota 2. R. Beneduce, Sessualità, “Corpi fuori luogo”, cultura, Edizione Pagine, n. 2/2003, p. 7.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorsi di accoglienza
cominciare dalle prime fasi del contatto, che
sia in strada o altrove, è sempre una relazione
dotata di senso. Dare senso alla relazione non
vuole dire cercare di “salvare” la donna o di
“recuperarla”; vuole dire prima di tutto ascoltarla e comprendere i suoi bisogni, ricercando
un reciproco rapporto di fiducia e offrendole
nuovi punti di riferimento. È importante proporre alla donna argomenti che suscitino il suo
interesse, attraverso un’informazione dettagliata e puntuale, al fine di far emergere la
motivazione a cambiare le proprie condizioni
di vita, assumendosene le responsabilità.
Metodologicamente, una volta presa in
carico la donna, viene ricostruita la sua storia
personale, con il supporto, se necessario, della
mediatrice culturale, che non solo favorisce la
comprensione linguistica, ma contribuisce a
creare un clima emotivo favorevole. La ricostruzione realistica della vicenda personale della
donna, ci permette di conoscerla meglio, prendendo in considerazione anche il progetto
migratorio che l’ ha portata a lasciare il paese
d’origine e le condizioni familiari, che sempre
e comunque sono motivo di condizionamento.
Se la donna non ha ancora formalmente
sporto denuncia contro i propri trafficanti e
sfruttatori, quando entra in contatto con noi,
la informiamo in modo dettagliato circa le
opportunità offerte dall’art. 18, valutiamo e
programmiamo insieme le fasi del percorso,
identificando le risorse, definendo strumenti e
obiettivi. Solo successivamente, una volta verificata la sua motivazione, la donna viene
accompagnata presso gli Uffici della Squadra
Mobile della Questura di Torino per verbalizzare la denuncia. Le denunce opportunamente
preparate e maturate hanno normalmente un
buon esito per le indagini e per la ragazza
stessa. È infatti un momento liberatorio, che
dà alla persona la sensazione di essersi veramente riscattata e di aver reso in qualche
modo giustizia e dignità alla propria vita.Una
denuncia sorretta da tale motivazione non
rischia di venire ritrattata in sede di incidente
probatorio o dibattimento, né a causa di
minacce. Un obiettivo importante consiste nell’aiutare la donna ad acquisire la consapevolezza di essere stata sfruttata e non di essere
colpevole di un reato: lavorare sul sentimento
di colpa e sulle dinamiche di dipendenza
richiede impegno ed è un percorso doloroso.
Dall’altra parte è fondamentale favorire il rinforzo degli aspetti positivi della personalità e
non ridure la donna a un “oggetto” dell’intervento educativo, coinvolgendola nella definizione del programma e riconoscendo la sua
soggettività.
Quando una donna viene accompagnata
dalle Forze dell’Ordine, spesso ha già denunciato i propri sfruttatori l’alto numero di casi
segnalati dalle Forze dell’Ordine è dovuto al
forte aumento di violenze e aggressioni subite
in strada dalle donne da parte non solo di
clienti e delinquenti comuni, ma volute dagli
sfruttatori stessi, che pagano bande di “picchiatori” per infliggere punizioni o intimorire
le loro vittime con lo scopo di scoraggiare ogni
volontà di ribellione o fuga.
Questi gravi fatti, ormai frequenti, determinano l’intervento di Polizia e Carabinieri, che
poi devono reperire un’accoglienza adeguata.
Il lavoro di concertazione con le Forze dell’Ordine, ha permesso di dare una risposta più
articolata alle situazioni di emergenza, soprattutto nei casi di serio pericolo per la donna.
L’accoglienza in fase di emergenza, resta
un nodo critico, a causa della carenza di
risorse, così come risulta talvolta insufficiente
il numero di posti disponibili in comunità.
Questi problemi si ripercuotono negativamente sui programmi di protezione delle
donne, per le quali vengono trovate soluzioni
abitative non sempre adatte al momento contingente (per es. presso amici/clienti oppure in
pensioni o alberghi).
Il bagaglio culturale della donna ha un
ruolo fondamentale nel favorire il processo di
integrazione sociale e influenza l’atteggiamento nei confronti degli iter burocratici e
delle procedure che sono necessarie per l’ottenimento di documenti di vario genere (passaporto, permesso di soggiorno, ma anche tessera sanitaria, codice fiscale ecc.). Il livello
culturale incide anche sul valore attribuito dalle
donne nigeriane a credenze di tipo magicorituale, come il voo-doo, con il quale vengono
vincolate ad un debito nei confronti delle sfruttatrici. Le donne con un basso grado di scolarizzazione sono molto più assoggettate a questo condizionamento e con più difficoltà
riescono ad emanciparsi. Le donne che hanno
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Percorsi di accoglienza
avuto un’educazione scolastica più prolungata,
hanno strumenti culturali più forti per contrastare tale condizionamento e riescono, in fase
rielaborativa del vissuto di sfruttamento a riconoscere le situazioni di violenza e sudditanza
e a mettere in campo risorse psichiche per riorganizzare la propria identità in un contesto
nuovo, riappropriandosi del diritto di autodeterminazione. Purtroppo il dato che emerge, è
quello di un notevole abbassamento del livello
di istruzione delle donne, soprattutto africane.
Abbiamo numerosi casi di donne nigeriane
analfabete, per le quali è necessario un percorso di alfabetizzazione e formazione adeguato, nel caso in cui decidano di rimanere in
Italia. Raramente le donne accettano progetti
di rimpatrio assistito, perché normalmente fuggono da gravi condizioni di povertà nel loro
paese e sentono forte la necessità di guadagnare denaro da inviare a casa alla famiglia.
Il Progetto Antares si avvale per l’accoglienza di due alloggi, nella città di Torino,
gestiti direttamente dall’Associazione Tampep.
In particolare, l’alloggio per la “convivenza guidata”, doveva essere destinato a donne in fase
di “sgancio”, con una buon livello di autonomia. In realtà, nell’ultimo anno, la tipologia
delle donne ospitate si è modificata e sono
state inserite anche donne all’inizio del percorso,
oppure donne già dimesse dal programma, ma
che per ragioni diverse (perdita del lavoro,
emergenza abiatativa), hanno usufruito di una
nuova accoglienza da parte dell’associazione.
L’esperienza e l’analisi costante dei bisogni
emergenti, hanno determinato una notevole
flessibilità. Questo è avvenuto per rispondere
alle criticità, nelle fasi di emergenza, di prima
e di seconda accoglienza. Per fare un ulteriore
esempio, è stato significativo il caso di una
donna nigeriana, ormai dimessa da tempo dal
programma art.18, che è stata accolta per
tutta la durata della gravidanza e per alcuni
mesi dopo il parto, perché non è stato possibile reperire una sistemazione alternativa e non
vi erano posti disponibili nelle comunità per
mamme con bambini.
Per fornire alcuni dati, dal mese di settembre 2002 al mese di aprile 2005, sono state
accolte nei nostri alloggi 24 donne, di cui 13
nigeriane, 2 albanesi, 3 romene, 2 brasiliane,
2 ucraine, 1 marocchina, 1 bulgara. Di queste
41
24 donne, 12 sono state inserite direttamente
da Tampep, 6 sono state inviate da altri enti e
associazioni, 6 sono state accolte in seguito a
richiesta delle Forze dell’Ordine.
Poiché gli alloggi ospitano contemporaneamente donne in diverse fasi del percorso
art. 18, gli obiettivi e gli strumenti sono stati
necessariamente diversificati e si possono così
schematizzare:
Prima Accoglienza:
— Offrire protezione e contenimento;
— Instaurare una relazione di ascolto e dialogo;
— Proporre uno stile di vita e offrire un’esperienza affettiva diversa da quelli vissuti in
precedenza;
— Individualizzazione del percorso;
— Accompagnamento e orientamento sanitario;
— Orientamento ai corsi di alfabetizzazione;
— Regolarizzazione (perm. di soggiorno, passaporto, tessera sanitaria ecc.).
Seconda Accoglienza:
— Sostegno alla donna nell’elaborazione della
propria esperienza;
— Orientamento formativo e lavorativo;
— Inserimento lavorativo;
— Ampliamento della rete sociale e amicale.
Terza Accoglienza:
— Inserimento lavorativo stabile;
— Ricerca soluzione abitativa autonoma;
— Ottenimento del permesso di soggiorno
per lavoro.
L’équipe che si occupa della gestione degli
alloggi, è composta da operatrici sociali, mediatrici culturali, tirocinanti dell’Università di Torino
e volontarie, impegnate in varie attività, in
diverse ore del giorno e della sera. Non è garantita la presenza notturna, anche se vengono
fatti sistematicamente dei controlli.
Il presupposto fondamentale è il riconoscimento della complessità della situazione di
convivenza tra donne, a volte di diversa nazionalità, che si trovano a livelli diversi del programma di integrazione art. 18. L’équipe ha
lavorato con flessibilità e con la capacità di
rispondere, se necessario, ai bisogni nuovi e
alle problematiche espresse dalle donne. Oltre
al lavoro di supporto per risovere tutta una
serie di questioni pratiche (come l’iter di rego-
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Percorsi di accoglienza
larizzazione, l’ottenimento di documenti di
vario genere, le iscrizioni ai corsi di lingua o
professionali), e di accompagnamento, (per ex.
presso un servizio sanitario o per un colloquio
di lavoro), l’équipe si è impegnata a promuovere un clima di fiducia reciproco e a creare
uno spazio per il confronto e l’elaborazione. I
momenti di “gruppo”, con ospiti, operatrici e
mediatrici, hanno consentito, partendo dagli
aspetti organizzativi della quotidianità, di
approfondire successivamente gli aspetti legati
alle relazioni interpersonali, riflettendo sulle
dinamiche e affrontando i conflitti. La scelta
dell’équipe è stata quella di non strutturare
eccessivamente il momento del “gruppo” collettivo, perchè l’esperienza fatta negli anni con
donne migranti in art. 18, ha dimostrato che
risulta decisamente più efficace come strumento educativo un “incontro”, che pone al
centro la negoziazione e la condivisione delle
regole e la gestione della casa, piuttosto che
un “gruppo tematico”, con più alti contenuti
rielaborativi e introspettivi. Abbiamo rilevato
che partendo da problematiche assolutamente
pratiche e contingenti le donne si sentono più
facilmente coinvolte, assumendo il ruolo di
protagoniste, e che da questo livello è possibile poi lavorare sulle relazioni e sui vissuti in
modo più sereno, stimolando il confronto, la
condivisione, il mutuo aiuto, ad un livello più
profondo. La presenza della mediatrice culturale, ha reso accessibili codici e significati altrimenti non comprensibili, grazie al suo ruolo di
“ponte”, tra l’équipe e le donne, che ha facilitato la comunicazione, soprattutto nei
momenti di crisi e difficoltà.
Durante le diverse fasi del percorso, i
momenti critici che rischiano di compromettere il buon esito del programma concordato
con la donna, sono caratterizzati da un profondo senso di inadeguatezza, forte delusione,
paura per il futuro e rabbia. Quando la donna
entra in contatto con il mondo esterno, si
rende conto della difficoltà che comporta l’accesso nel mercato del lavoro e vede allontanarsi la realizzazione dell’autonomia personale.
Il lavoro di recupero di questo sentimento di
sconfitta e delusione è molto lungo e la relazione di fiducia viene messa in discussione fino
alla chiusura emotiva della donna nei confronti
dell’équipe. Le risorse che hanno permesso di
superare e gestire le fasi critiche sono state
fondamentalmente tre: la presenza costante
delle operatrici con il supporto della mediatrice
culturale che ha favorito la comprensione delle
differenze culturali e dei contesti di provenienza delle donne; la possibilità di dare alle
donne un segnale concreto di aiuto, inserendo
nel Progetto Alnima alcune loro parenti in
Nigeria a rischio di tratta, allentando un po’ la
pressione da parte delle famiglie e favorendo
la fiducia nei nostri confronti; Il contributo del
personale di polizia della Questura è stato
significativo, grazie ad un lavoro di controllo e
contenimento, che in sinergia con l’équipe ha
dato risultati molto positivi nei momenti di
maggiore crisi delle donne.
Abbiamo rilevato che, per alcune donne, a
una maggiore azione di tutela, corrisponde
una crescente consapevolezza che le difficoltà
incontrate nell’insertimento sociale e lavorativo
dipendono anche dalla propria responsabilità.
Questa presa di coscienza rappresenta la prima
spinta al cambiamento e all’autodeterminazione. In altri casi, il divario tra le proprie aspettative e le proprie capacità ha avuto un effetto
inibente e depressivo, sfociando in una sintomatologia spesso identificabile come disturbo
psicologico o addirittura psichiatrico. L’alto
numero di donne in accoglienza con problematiche di questo tipo, richiede una risposta
attenta e precisa. È indispensabile lo strumento
dell’accompagnamento psicologico e/o psichiatrico, ma non è facile individuare tra le
risorse disponibili un contesto psicoterapeutico
adeguato e funzionale alla domanda. L’evidente complessità delle problematiche inerenti
alla realizzazione dei percorsi di integrazione
sociale, rende la Supervisione clinica periodica
sui casi e sulle dinamiche dell’équipe, uno strumento irrinunciabile per l’attività dell’accoglienza di donne art. 18. Gli incontri di Supervisione hanno permesso alle operatrici di
svolgere un percorso formativo importante dal
punto di vista personale e professionale, mentre le riunioni di équipe, con cadenza settimanale hanno favorito il lavoro di gruppo, con la
definizione e la condivisione delle linee di intervento e dei progetti.
Le peculiari caratteristiche dell’art. 18 e del
relativo regolamento di attuazione, unite alla
specifica situazione di ogni donna e al conte-
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Percorsi di accoglienza
sto sociale ed economico del nostro territorio,
determinano la conseguenza per cui i programmi concordati con le donne prese in
carico non possano realizzarsi, salvo rare eccezioni, nell’arco di pochi mesi, ma necessitano
di alcuni anni. Questo fatto fa emergere con
forza la complessità del lavoro di accoglienza
e rende fondamentale la ricerca di sempre
nuove risorse per far fronte ai bisogni delle
donne vittime di tratta che chiedono aiuto per
uscire dalla condizione di sfruttamento. Alle
donne appena inserite in programma di protezione sociale, si aggiungono quelle prese in
carico negli anni precedenti, che, seppure
abbiano raggiunto le fasi finali del percorso,
rimangono comunque “dipendenti” dall’Associazione: la precarietà del lavoro, la carenza di
soluzioni abitative nel mercato privato e l’alto
costo della vita, rendono sempre più faticoso
il raggiungimento di un’autonomia stabile e di
conseguenza si creano situazioni in cui la
donna rimane in carico per più tempo di quello
necessario. Particolarmente difficile risulta la
situazione delle donne nigeriane, spesso con
un basso livello di scolarizzazione, per le quali
l’integrazione socio-lavorativa e abitativa
richiede più tempo anche a causa dei pregiudizi che ci sono nei loro confronti.
Associazione Tampep
a cura di SIMONA MERIANO
4.3. Per le vittime della tratta
degli esseri umani quali
operatori, per quali comunità?
Quali sono le esperienze delle case di accoglienza per donne vittime della tratta, gli stili di lavoro,
le metodologie, nonché le difficoltà incontrate?
Le realtà che fanno questo tipo di accoglienza sono tutte relativamente giovani e perciò molti sono ancora i nodi da sciogliere, tante
le questioni ancora aperte, numerose le problematiche per le quali non è stata ancora trovata
una soluzione o quantomeno “una buona prassi
consolidata”.
Molte case di accoglienza hanno avuto
esperienze precedenti diverse, hanno un
diverso background di lavoro sociale. Ciascuna
ha impostato il proprio lavoro facendo seguire
percorsi diversi di formazione ai propri opera-
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tori, ciascuno ha una propria metodologia e
anche una propria filosofia di intervento.
Pur trattandosi di un lavoro comune, si
deve partire da una presunzione di diversità,
anche se spesso essa è più sfumata di quanto
si possa credere.
Partiamo dal presupposto che questa diversità sia la base e la ricchezza del confronto.
Fare una analisi delle diversità significa innanzi
tutto misurarsi con le piccole scelte operate
nella quotidianità, spesso scelte organizzative,
che a volte possono sembrare di poca importanza e che invece assumono un valore significativo per l’intervento individualizzato e per
la conduzione delle comunità nel suo insieme.
Le motivazioni al cambiamento,
tra fragilità ed ambivalenze
Alcune motivazioni che spingono le ragazze
ad un percorso di uscita dalla condizione di
prostituzione sono chiaramente identificabili,
altre rimangono più incerte e insicure.
La richiesta di aiuto nasce quasi sempre da
una crisi la quale, per quanto drammatica e
intensa possa essere, per alcune di loro con il
tempo si rivela contingente, momentanea e
non sufficiente a motivare il cambiamento.
La funzione di questa crisi è quella di spostare, in molte di loro, il pendolo dell’ambivalenza della situazione che stanno vivendo. È
come se, nel momento di crisi, il piatto della
bilancia sulla vita che stanno facendo, si appesantisse decisamente su tutti gli aspetti negativi e insopportabili. Ciò motiva la decisione
di scappare, col desiderio di cambiare vita.
Questo genere di motivazione è molto diversa
da quella che vive una persona che ha riflettuto a fondo sul cambiamento da raggiungere.
È la disperazione e, in alcuni casi, la rabbia, la crisi del momento che agisce da catalizzatore rispetto ad uno dei poli di un’ambivalenza non risolta.
In altri casi, invece, l’uscita dalla prostituzione, spesso forzata, avviene per gradi. La
donna spesso giunge al servizio di accoglienza
accompagnata da un amico-cliente che la sostiene nel percorso. In tutti i casi vi è un desiderio di cambiamento che è già presente nella
persona e che si è potenziato nel momento
della crisi. Ma si tratta di una motivazione
ancora incerta e fragile, caratterizzata dall’in-
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Percorsi di accoglienza
stabilità, sulla quale è necessario lavorare nel
tempo, con un accompagnamento relazionale
attento e fortemente individualizzato.
I bisogni: protezione, aiuti materiali,
uscita dalla solitudine delle donne accolte
Se la motivazione nasce da un momento
di crisi, i primi bisogni a cui rispondere sono
innanzitutto quelli derivati dalla scelta repentina della “fuga”: da un lato quello della protezione dovuto alla paura e dall’altro il bisogno di aiuti materiali.
Il terzo bisogno, che seguirà di lì a poco, è
quello di uscire da un senso progressivo di solitudine che si fa sentire dopo il momento liberatorio della fuga.
Il rischio della rappresaglia è difficile da
valutare, ma è prima buona regola non sottovalutarlo mai. Le situazioni di sfruttamento e
di vincolo sono molto differenziate, i singoli
legami delle ragazze con le persone che le prostituiscono, anche. Una valutazione di pericolosità discende sicuramente dal racconto e dal
vissuto dalle donne in fuga, ma non può rappresentare l’unico indizio. Capita a volte che a
terribili racconti di minacce e rivalse (anche sui
familiari) non seguano azioni dirette, come
capita invece che a situazioni di sgancio apparentemente indolori seguano violenze e ritorsioni.
Dopo un primo momento di forte drammatizzazione in cui alle ragazze le misure di
protezione sembrano insufficienti, generando
in loro un’ansia marcata, nasce presto, troppo
presto in alcune, un atteggiamento di precoce
sicurezza, per cui progressivamente non viene
praticata più nessuna precauzione ed i loro
comportamenti (telefonate a clienti ed “amiche”, frequentazioni di locali abituali, ecc.)
diventano imprudenti. L’operatore fatica molto
nel rassicurare prima e nel contenere poi, poco
tempo dopo, superficialità ed imprudenza. È
doveroso condurre insieme all’interessata
un’analisi dei rischi, ripassando insieme la rete
dei rapporti insicuri, cercando di capire bene
a chi è opportuno telefonare ed a chi no da
parte delle ragazze. In alcuni casi si rende
necessario un taglio netto con tutto l’ambiente
da loro precedentemente conosciuto. Tale
scelta non è facile da gestire, man mano che
affiora un senso di solitudine insieme all’incer-
tezza sul proprio futuro. Tuttavia è bene aver
presente che la maggior parte delle ragazze
che vengono rintracciate è per via degli
“errori“ successivi e delle leggerezze da loro
compiute.
L’agio della situazione di accoglienza dev’essere palpabile. La nuova casa e lo stile di vita
che viene richiesto non può avere funzione di
purgatorio.
Le ragazze, con le abitudini acquisite, sono
molto attente agli aspetti materiali, ai consumi
permessi e vietati. Non si può essere subito
“salutisti” sul numero di sigarette fumate. Il
vino a tavola così come una birra al bar quando
si esce, se fa parte delle abitudini e delle richieste, non sono azzerabili. Questo, naturalmente
nelle situazioni di comunità in cui non ci sono
persone che hanno un bere problematico. È
evidente che la discussione sugli eccessi e sul
limite viene aperta. Sull’ascolto della musica si
contratta (sul volume), sugli orari di riposo,
sulle tante libertà personali e di diritto alla privacy il limite è costituito dal rispetto per la convivenza reciproca. La casa di fuga e di accoglienza non è un albergo, ma nemmeno una
comunità terapeutica. Una delle scelte quotidiane più controverse, che racchiude in sé tutte
le problematiche (sicurezza, libertà personale,
percezione della qualità della vita, risposta al
senso di solitudine) riguarda l’uso del proprio
telefonino: consentirlo, vietarlo, regolamentarlo, non c’è la ricetta, né la prescrizione invariabile per ogni situazione. Regole generali per
tutti semplificano ma non evitano ingiustizie.
Individualizzare è già faticoso, richiede molte
spiegazioni, ma rimane la strada più remunerativa.
L’accoglienza degli amici-clienti
Avviene sempre più spesso che l’operatore
si trovi a conoscere – ed accogliere – oltre che
la donna che chiede aiuto e protezione, anche
l’amico-cliente-fidanzato. I clienti affezionati,
più o meno interessati alla persona oltre che
ai suoi “servizi”, spesso cercano le ragazze
telefonicamente e talvolta compaiono nei
pressi della struttura. Alcuni di loro hanno facilitato la scelta della ragazza di uscire dal racket, informandola e accompagnandola al centro di accoglienza; poi fanno loro visita e si
sentono collaborativi con gli operatori. Pur
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nella loro ambivalenza è importante che gli
operatori sappiano accogliere i clienti e valutare con loro il senso della richiesta che avanzano. Per due motivi: spesso sono persone con
una vita affettiva, oltre che sessuale, complicata: non sanno come risolvere le loro contraddizioni, si vivono male nel loro ruolo ed anch’essi, in qualche misura, cercano un riscatto.
Inoltre per le donne costituiscono un punto di
riferimento, un appoggio, a volte anche una
possibilità di aiuto economico, che dà loro la
sensazione di essere meno sole e totalmente
affidate agli operatori e ai servizi.
Ogni cliente è, evidentemente, un caso a
sé: per motivazioni, contraddizioni personali e
modalità di proporsi. Come tale va analizzato
e valutato nel suo aspetto-risorsa, ed anche
facilitato allorché si renda disponibile ad esercitare correttamente ed utilmente una propria
funzione.
Una posizione pregiudizievole, che coglie
nel cliente solo l’aspetto collusivo e l’esclusivo
coinvolgimento sessuale, rischia di deprivarsi di
una potenzialità che, adeguatamente verificata
ed accompagnata, può risultare utile al percorso. Una preclusione nei suoi confronti apparirebbe inoltre troppo dura agli occhi delle
ragazze, che farebbero fatica a darsene una
spiegazione condivisibile. Più utile è elaborare
con loro le modalità di rapporto, i significati,
le implicazioni relazionali per entrambi. In
alcune situazioni, seppur molto limitate, il
cliente ha chiesto un aiuto per sé.
Le tentazioni
Oltre ai bisogni delle donne appena
descritti, nella persona si muovono contemporaneamente dei “controbisogni “, delle tentazioni, dei piccoli rimpianti per alcuni aspetti
della vita di prima. Questi possono essere vissute come delle “nostalgie”, spesso contraddittorie, rispetto alla situazione precedente.
La più forte riguarda i legami affettivi che
si erano costruiti nell’ambiente della prostituzione. Le persone sono sole, sradicate dai loro
contesti ed hanno, come tutti gli esseri umani,
l’esigenza di costruire legami affettivi. Questo
significa che anche in un ambiente in cui si è
relegati ci si lega a ciò che si trova, talvolta
anche ai propri carcerieri. Questo aspetto è
molto importante in quanto fa parte delle con-
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traddizioni che gli operatori affrontano durante
il percorso.
A ciò si aggiungono i timori di aver lasciato
il certo per l’incerto, di non riuscire a realizzare
quello che era alla base del disegno o del
sogno migratorio. C’è innanzitutto l’incertezza
rispetto alla possibilità di reddito, all’acquisizione del permesso di soggiorno, e alla futura
definizione di sé.
Tra i timori e le incertezze si fanno largo le
tentazioni. Tentazioni di ricorrere alla piccola
rete di clienti più affezionati che mettono a
disposizione risorse materiali e appoggi affettivi, accomunate dalla speranza di “pescare il
jolly”, ovvero di sposare un italiano che risolve
magicamente e in poco tempo tutti i problemi,
come quello dell’ottenimento del permesso di
soggiorno, che gli operatori faticosamente cercano di risolvere in tempi burocraticamente
quasi sempre lunghi.
Un altro dato da tenere presente è il fatto
che il cambiamento nella vita di queste ragazze
è repentino e totale. Da un giorno all’altro, talvolta da un’ora all’altra passano ad un stile di
vita completamente diverso da quello precedente. C’è una sorta di cambiamento totale,
per cui è importante che vengano mantenute
alcune continuità.
È per questo che i luoghi di pronto intervento, le case di fuga e di prima accoglienza,
devono rispondere in maniera forte ai tre bisogni che sono emersi chiaramente: bisogno di
protezione (paura); accoglienza e agio (solitudine); bisogni materiali.
Bisogna cercare, soprattutto nella prima
fase, di essere attraenti, investendo molto sulla
relazione, sull’affettività, sul calore dell’accoglienza. L’agio materiale è una condizione
necessaria, ma non sufficiente. L’elemento
affettivo, il senso di fiducia e di sicurezza che
si può infondere è molto importante, poiché
può costituire una sorta di svelamento di un
mondo e di possibilità nuove che sostanzialmente la povertà culturale e relazionale dell’esperienza precedente hanno impedito di
conoscere. È importante aiutare le ragazze a
recuperare un senso di meraviglia rispetto al
non noto, o al non più noto, o al dimenticato.
Aiutarle a ritrovare il gusto di fare delle cose
che “facendo la vita” si erano perse o dimenticate.
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Il fatto di sviluppare un ampliamento dell’orizzonte culturale cui erano state abituate
produce sicuramente un effetto di attrazione
e conferisce agli operatori un ruolo di promotori rispetto all’accesso a nuove situazioni ed
ambienti ed è importante nel controbilanciare
la percezione, nei loro confronti, come figure
normative e di contenimento.
Le scelte
Questa prima fase costituisce dunque un
crocevia di scelte possibili, che principalmente
sono di tre tipi:
— conferma e continuazione del percorso
avviato con la fuga dalla situazione di prostituzione;
— ottenimento del permesso di soggiorno,
inserimento professionale, nuova autonomia personale;
— rientro a casa, talvolta con un progetto
lavorativo assistito nel Paese d’origine (praticabile solo in pochi casi);
— ritorno e reinserimento nel mondo della
prostituzione, in situazioni analoghe o
diverse dalle precedenti.
Le crisi dell’operatore
Rispetto alla gamma di possibilità di scelta
delle ragazze l’operatore può incorrere in una
serie di crisi:
— Delusione. Avviene nel momento in cui
l’operatore si rende conto di dover passare
da un’immagine della ragazza come vittima (e quindi della persona da aiutare, resa
schiava, prostituita ecc.) all’immagine di
una persona con le proprie contraddizioni,
fragilità, rabbie, e molti rimpianti non per
ciò da cui è fuggita, ma per ciò che in quell’ambiente ha lasciato. Un buon operatore
deve essere consapevole che talvolta le persone che lui “aiuta” possano scegliere di
tornare alla vita di prima.
— Crisi da “garanzia“ del percorso. Questo
avviene quando l’operatore si trova a dover
fare delle promesse rispetto all’esito positivo del percorso, ovvero si trovi a dover
fare da garante dello stesso. Spesso le
ragazze si rivolgono a lui con una serie di
ansie rispetto al proprio futuro e gli chiedono di dare loro delle certezze, che ahimè
non può avere. In questo caso l’operatore
dovrebbe infondere speranza, ma contemporaneamente fare attenzione a non sconfinare nell’illusione rispetto a situazioni difficili di cui non si hanno sicurezze sugli esiti.
Un rischio che manda in crisi l’operatore, è
quello di sbilanciarsi con una promessa che
poi, se non realizzabile, scatena una reazione di aggressività e di risentimento nei
suoi confronti. Un altro rischio di tipo
opposto è quello di essere eccessivamente
prudente, e di non riuscire a infondere speranza e fiducia nella persona. È un equilibrio difficile da trovare e mantenere che va
cercato di volta in volta nelle singole relazioni con le donne accolte.
Le funzioni delle case di accoglienza
Le case di accoglienza di cui stiamo trattando hanno tutte, al di là delle loro diverse
modalità di funzionamento e dei modelli di
riferimento, quattro funzioni fondamentali.
1) Proporre uno stile di vita diverso da
quello vissuto in precedenza. Si propongono
ritmi ed orari di vita regolari, che per alcune
ragazze comportano una trasformazione radicale delle loro abitudini precedenti, sia positive
che negative, per cui non sempre questo adattamento al nuovo stile di vita è un’operazione
semplice ed indolore. Nel proporre un cambiamento dello stile di vita è molto importante
saper fungere da mediatori, avere elasticità nel
rispetto delle culture e delle persone che ci troviamo di fronte: modelli troppo rigidi potrebbero essere controproducenti. A titolo di esempio si può citare l’abitudine, per noi scontata,
di consumare due pasti a tavola insieme: per
molte donne africane questa abitudine è del
tutto sconosciuta e difficilmente concepibile.
Un modello troppo rigido rischia di essere
eccessivamente regolativo e richiedere uno
sforzo di adattamento eccessivo rispetto alle
capacità non solo di ciascuna persona, ma
anche rispetto ai diversi gruppi culturali.
L’organizzazione di una comunità rispetto ai
momenti comuni e di privacy, nonchè rispetto
alla distribuzione dei compiti deve variare a
seconda del gruppo di ragazze con cui si
lavora. Molto importante è anche offrire la
possibilità di negoziazione delle regole in occasione di un momento comune di confronto, in
cui le ospiti diventano protagoniste.
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2) Offrire contenimento. Una seconda funzione delle strutture di accoglienza è quella di
offrire protezione e contenimento, rispetto alla
tentazione di abbandonare la scelta fatta.
Essenzialmente sono tre gli strumenti del contenimento all’interno della struttura.
— La relazione con gli operatori. Per la donna
scatta il meccanismo: più mi sento accolta,
più mi sento accettata, più sto bene, meno
è forte la tentazione. Al contrario: meno
mi sento accolta, meno mi sento accettata
e la tentazione diventa molto più forte.
— Auto-aiuto tra pari. Un altro strumento
sono le compagne con maggior anzianità
anagrafica o di permanenza nella casa le
quali solitamente hanno consolidato le loro
scelte, dimostrano alle altre che il percorso
è concretizzabile, nonostante le lunghe
attese per il permesso di soggiorno. La relazione che si instaura fra di loro le fa sentire compagne di fuga, di avventura e di
costruzione di altre risposte. Talvolta però
le compagne possono anche fungere da
esempio negativo, per cui è molto importante lavorare con tutto il gruppo.
— Confronto con esterni. Il terzo strumento è
quello che si può attuare dalla chiarificazione e dal confronto anche con le altre
figure che non sono né gli operatori né i
volontari ma sono altri gruppi sul territorio.
Figure che sono autorevoli e che in qualche modo possono rassicurare sul futuro.
Su questo si crea una rete che rassicura e
che va oltre la comunità. Gli operatori stessi
possono sentirsi meno caricati di responsabilità.
3) Individualizzare i percorsi. La terza funzione della casa è quella dell’individualizzazione dei percorsi. Innanzi tutto bisogna riuscire a definire con le ragazze un progetto di
sé proiettato sul fuori, vale a dire costruire una
prospettiva di reinserimento sul territorio,
tenendo conto delle capacità e delle potenzialità di ciascuna ragazza.
È un processo complesso, in quanto passa
da una osservazione delle donne nel vivere la
quotidianità durante la quale emergono punti
di forza e di debolezza. Se in comunità c’è un
gruppo di ragazze mediamente attento, la
restituzione delle capacità di ciascuna viene
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fatta direttamente dalle compagne, come una
sorta di riconoscimento. Per esempio, se una
ragazza è brava a cucinare questa capacità
le viene riconosciuta immediatamente. Le
ragazze fanno da specchio alle altre ragazze,
le quali incominciano a rendersi conto di essere
abili e capaci. A questo punto l’operatore interviene e vede se su queste capacità e abilità è
possibile investire da parte loro. Da ciò può iniziare un percorso di approfondimento professionale o pre-professionale e quindi, pian
piano, su questi aspetti si costruiscono nuove
identità.
Si devono, senza dubbio, recuperare le
capacità del passato. Spesso, appena si instaura
un rapporto di confidenza e di fiducia, le ragazze stesse tentano di fare emergere le cose
in cui sono capaci.
L’altro piano del percorso di individualizzazione è quello dell’elaborazione della propria
esperienza. L’esperienza della prostituzione si
inserisce all’interno di un “progetto“ più vasto
che è quello “migratorio”.
Il viaggio in occidente si colloca tra lo sfruttamento più bieco e l’opportunità. È questa la
forbice all’interno della quale si ragiona.
L’aspetto “opportunità” è incluso nel disegno
migratorio, che è il primo grande denominatore di partenza all’interno del quale dobbiamo
collocare tutte le esperienze. Non si può fare
elaborazione dell’esperienza vissuta se non la
si colloca all’interno del sogno migratorio, e
del senso del progetto. Ed è proprio attraverso
questo sogno migratorio che la persona va aiutata a ricostruire la propria biografia, che
spesso viene raccontata a frammenti. Per questo è importante che l’operatore sappia farne
buona memoria (e che gli operatori dell’équipe
sappiano collegare i vari pezzi della ricostruzione). Nel racconto gli operatori coglieranno molte
contraddizioni, che non vanno interpretate come
bugie, bensì come tentativi di presentare una
migliore immagine di sé e o come una sorta
di autodifesa. Talvolta l’operatore può restituire
qualche contraddizione, con delicatezza, perché questo consente la rielaborazione, la rilettura, la ricostruzione della propria biografia,
della propria storia personale di cui il progetto
migratorio è ponte tra passato e futuro.
Ci sono dei frammenti di vita, molto spesso
rimossi, che riguardano l’esperienza in strada,
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Percorsi di accoglienza
che ha sedimentato nel profondo di sé un’immagine che si tende a rifiutare e che è spesso
fortemente legata sia all’esperienza vissuta in
strada, sia, per alcune donne, a violenze subite
prima del percorso migratorio. In questi casi è
importante cogliere e far emergere una richiesta di aiuto, per affrontare i traumi che le esperienze passate hanno lasciato. La formazione
degli operatori di comunità è adeguata a questo tipo di aiuto? Se non lo è, è importante
che almeno una figura venga formata in tal
senso e che sappia orientare verso una persona professionalmente preparata all’interno
del suo servizio o dei servizi territoriali (non
tutti possono e devono sorreggere ed intervenire su storie di violenza profonde, sessuali e
non).
Man mano che i pezzi di esperienza affiorano, emergono le fatiche a “collocare” l’esperienza della prostituzione nella propria vita
accompagnata – a volte – da sensi di colpa e
vergogna. Quasi tutte le donne in un primo
colloquio raccontano di essere state costrette
a prostituirsi poi, col tempo e con la fiducia
acquisita nell’operatore, emerge la verità: a
volte è vero, a volte no ma questo è poco rilevante. Vi possono poi essere due situazioni
tipo:
— la donna riesce a “giustificare” il proprio
esercizio della prostituzione in quanto conseguente ad una situazione di costrizione
e raggiro. In questo caso i sensi di colpa
sono pochi e prevale il sentirsi vittime;
— la donna era consapevole di ciò che
avrebbe fatto ma lo giustifica con il fatto
che questa era l’unica possibilità per cambiare la propria vita e quella dei famigliari
di fronte ad una assenza di prospettive nel
suo Paese. In questo caso i sensi di colpa
a volte emergono e sono di ordine culturale (giudizio nel Paese di provenienza e
giudizio nel Pese di arrivo).
In entrambi i casi sono presenti sia elementi
di ambiguità sia tentativi di rimozione del passato rispetto a rapporti affettivi futuri (non
vogliono che il nuovo partner sappia del passato). Gli elementi di ambiguità riguardano le
“positività” riscontrate con l’esercizio della
prostituzione: molto denaro, potere di sedurre,
rimando di un valore di sé (la prostituta viene
scelta rispetto ad altre) ecc., elementi con i
quali, anche dopo aver smesso , continuerà a
lungo a fare i conti. Quindi quando parliamo
di individualizzazione intendiamo dire innanzitutto rivisitazione di sé, della propria storia,
delle proprie relazioni, dei propri rapporti e
quindi restituzione di un senso all’intera complessità della vicenda.
Un altro aspetto che può affiorare è rappresentato da disturbi psichici. Alcune ragazze
presentano disturbi di sofferenze psichiche, in
parte riconducibili all’esperienza della tratta, in
parte rapportabili a traumi e difficoltà vissute
nel Paese di origine. La normalità e la routine
che connotano, con la loro tranquillità ed ordinaria quotidianità, le case di accoglienza,
fanno emergere con maggiore evidenza difficoltà relazionali, angosce e paure, modalità di
rapporto con la realtà che, in alcune situazioni,
sono rivelatrici di un vero e proprio disturbo
psichico. Le forme assunte sono a volte interpretabili tramite i riferimenti abituali della psichiatria occidentale (DSM IV) in altre situazioni
le caratteristiche culturali del Paesi di provenienza, le particolari vicende dell’esperienza
migratoria, l’impatto violento col ruolo assunto
nella strada, rendono più indecifrabili le modalità di scompenso ed estremamente ardua la
ricerca di significati sintomatologici. Si rende
necessario, in queste situazioni, ricorrere ad un
aiuto di quei pochi servizi che dispongono di
chiavi di lettura interculturale ed etno-psichiatrica, per riuscire a formulare la corretta diagnosi ed individuare di conseguenza la scelta
del miglior trattamento. Altrimenti il rischio,
per alcune di queste situazioni (non per tutte)
consiste nel ricorrere al solo strumento psicofarmacologico, utile al contenimento dello
scompenso, ma non sufficiente per la cura, se
si vuole evitare il pericolo di una successiva cronicizzazione. L’approccio inter culturale offre
anche una maggiore opportunità di “aggancio” al percorso terapeutico, facilitando l’accesso al servizio e aumentando la ritenzione al
trattamento, come evidenziato da tutta la letteratura scientifica nord europea che si è occupata del rapporto tra immigrati e servizi sociosanitari.
4) Offrire una nuova esperienza affettiva.
La quarta funzione è quella di fornire
un’esperienza affettiva nuova e positiva. Le
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Percorsi di accoglienza
precedenti esperienze probabilmente non
sono state buone esperienze affettive: quelle
con i clienti, perché il mestiere comporta la
scissione tra affettività e sessualità e quelle con
i propri sfruttatori, perché si tratta di un rapporto di soggezione e, molto spesso, di dipendenza. Molte delle esperienze affettive
instaurate prima del progetto migratorio probabilmente sono state altrettanto negative o
comunque povere e spesso assoggettate a culture maschili autoritarie.
L’esperienza che si può fare in comunità è
quella di relazioni affettive non mercificate,
gratuite, senza contropartite. Si tratta di una
sorta di esperienza correttiva nel senso che per
un periodo abbastanza significativo (perché i
mesi di permanenza nelle case di accoglienza
possono essere molti) si sperimentano rapporti
di reciprocità e di rispetto che dovrebbero
dimostrare loro che il mondo è anche qualcos’altro da quello che hanno vissuto e conosciuto fondamentalmente sulla strada. Poiché
le ragazze sono tutte ancora molto giovani,
questo terreno ha grandi possibilità di riuscita.
Le quattro funzioni della comunità sopra
descritte si intersecano fra loro e si potenziano
vicendevolmente: l’una non funziona se non ci
sono contemporaneamente anche le altre.
La diversità delle case
Nello svolgimento di queste funzioni esistono modalità diverse che vanno da una
minore a una maggiore strutturazione. Ci sono
case molto strutturate in cui tendenzialmente
sappiamo cosa si fa dal mattino alla sera e in
cui tutto è definito. Altre case sono meno
strutturate, ci sono degli impegni comuni e
delle funzioni che ciascuno deve svolgere, ma
molte parti della giornata sono da riempire.
Su questo riempimento molte strutture si
differenziano: vi sono quelle che optano per
un riempimento collettivo e quelle che optano
per un riempimento individuale, che puntano
fin da subito sull’individualizzazione e altre che,
invece, optano per una individualizzazione graduale.
Una più alta strutturazione significa un
grosso coinvolgimento collettivo ed anche
un’alta definizione dell’attività interna. Ad
esempio alcune case strutturano laboratori
interni, altre invece spingono molto di più
49
verso un rapporto con l’esterno e sulla diversificazione dei progetti.
Un’altra grande distinzione riguarda la presenza degli operatori che può essere molto
forte, come ad esempio nel caso in cui uno o
più operatori abitino a tempo pieno nella casa,
o debole, come nel caso in cui gli operatori
siano presenti a rotazione.
Un terzo elemento di distinzione è il
“regime” di chiusura e libertà rispetto alle
uscite delle ospiti, ovvero il fatto che le ospiti
siano libere di uscire da sole e quanto, o debbano invece essere accompagnate.
Un altro elemento di differenziazione dei
modelli di accoglienza può essere rintracciato
nelle regole.
Lo stare per alcuni mesi nelle case potrebbe
essere visto come una prova generale di adattamento ad un impatto con un mondo che
non è più quello sperimentato durante l’esperienza di prostituzione. Potrebbe anche essere
letto come una esperienza accelerata di acculturazione (per acculturazione si intende l’apprendimento di tutta una serie di adattamenti
ad esigenze, anche di rapporto, che la nostra
società impone). È come dire che nelle case di
accoglienza le ragazze fanno una sorta di
prova generale di vita e di adattamento alla
nostra cultura e società.
Ma i mesi trascorsi in comunità sono anche
corsi accelerati di relazioni di reciprocità e di
interdipendenza, che si differenziano molto dalle
esperienze particolari di gruppo che hanno
fatto e dall’isolamento in cui molte di loro versavano. In tutto questo è interessante chiederci
quanto si possa puntare su una educazione tra
pari e quindi sulla risorsa dell’auto-aiuto. Qui i
modelli di riferimento potrebbero essere due.
Il primo consiste in un forte auto-aiuto fra
di loro, ma secondo modelli molto gerarchizzati, come nelle comunità terapeutiche e quindi
anche molto definito e prefigurato.
Il secondo consiste in una valorizzazione
dei momenti informali. Secondo questo modello si ritiene che ciò che favorisce di più il cambiamento siano i momenti informali, quelli non
organizzati. Si lascia pertanto maggior spazio
alla auto-organizzazione e alla negoziazione
delle regole.
Non esistono molte esperienze di autoaiuto in senso classico nelle case di accoglienza
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Percorsi di accoglienza
di cui trattiamo. Le ragazze non si mettono in
cerchio, non si raccontano pubblicamente fra
loro e tanto meno raccontano le loro esperienze come nel caso di altre forme di aiuto
che non sono assolutamente e meccanicamente trasportabili in questo ambito. In questo caso bisogna pensare a forme di auto-aiuto
legate ai loro bisogni, anche contingenti, alla
necessità di rispondere a esigenze organizzative tutte da inventare.
Il lavoro di équipe
Nessuno è navigatore solitario. Tanto meno
chi si occupa di problematiche sociali così fortemente connesse con l’economia, la criminalità, le migrazioni dei popoli, i diritti delle persone. Se non si vuole essere destinati al
naufragio occorre organizzarsi in gruppo,
costituire un’équipe, una squadra di lavoro, tra
operatori e volontari prima, inter-servizi (la
squadra delle squadre) dopo. Essere un gruppo
consente non solo di distribuire le difficoltà e
le ansie di un compito che richiede una molteplicità di interventi, ma anche di distribuire
meglio i ruoli da giocare in ambito comunitario. Già l’équipe mista, con operatori e volontari maschi e femmine, consente di far emergere a tutto tondo le modalità relazionali delle
ragazze, per meglio conoscerle e offrire supporto.
Sono anche altri i ruoli che possono suddividersi coloro che svolgono il lavoro di prendersi
cura e supporto emotivo: c’è chi può aiutare
ad intravedere un percorso, chi a definire un
progetto, e chi, invece, può esercitare maggiormente un ruolo contenitivo e normativo.
Il passaggio delle informazioni, tra operatori, è una funzione essenziale. Pur nella differenza di ognuno la linea deve essere comune
ed un operatore che prende il posto dell’altro
durante la giornata o la settimana deve poter
garantire la continuità dell’intervento. Il passaggio dell’informazione, orale o scritta, riduce
lo spazio degli errori e delle “manipolazioni”
e nel contempo trasmette alle ragazze la sensazione di una guida attenta e ben organizzata.
Mediatrici culturali
e formazione interculturale
La presenza dei mediatori culturali nelle
strutture residenziali risulta di aiuto sia alle persone ospiti che agli operatori. Per le ragazze,
in particolare se la scelta di uscire dal racket è
avvenuta su proposta della mediatrice incontrata in strada, il livello di fiducia riposto in persone della stessa provenienza, consente di far
meglio comprendere le asperità del percorso e
contrastare con più efficacia i momenti di crisi.
L’identificazione con una “pari”, che è riuscita ad integrarsi con successo nella realtà italiane, è la prova tangibile che l’obiettivo è raggiungibile. Con lei si possono confrontare più
a fondo rispetto ad ansie e paure non sempre
comprensibili per gli operatori italiani. La presenza delle mediatrici consente di spiegare i
significati di molti atteggiamenti e comportamenti, e favorisce una azione tra i bisogni e i
desideri delle ragazze, le esperienze del contesto, gli orientamenti degli operatori. Come già
avviene in molti servizi del nord Europa l’obiettivo è disporre di operatori etnici, superando le
figure stesse dei mediatori, a scavalco tra
diverse tipologie di interventi ed eccessivamente frammentati nel loro apporto. Soprattutto là dove i servizi accolgono soprattutto
utenza straniera, la presenza di operatori della
stessa etnia diventa un considerevole fattore di
facilitazione. In questo modo la “contaminazione” con gli operatori italiani risulta quotidiana, più sistematica e meno occasionale. Lo
sguardo incrociato degli operatori, che comprende anche il punto di vista etnico, offre un
doppio punto di riferimento ed amplia le capacità di lettura per l’intero servizio. E’ di fatto
una formazione a base induttiva, a partire dalla
discussione in èquipe delle singole situazioni,
che integra la formazione più teorica, oggi
indispensabile, sugli aspetti interculturali connessi all’accoglienza ed al trattamento delle
persone immigrate.
Alcune contraddizioni
Nel momento in cui si sta lavorando per
costruire delle opportunità “fuori” per le
ragazze, ci si trova spesso stretti in una tenaglia di contraddizioni. Per quanto si sia lavorato bene per costruire le opportunità, capito
quali siano le necessità e capacità delle
ragazze, ci si trova di fronte alle aspettative
delle ragazze che sono sempre un po’ troppo
rispetto alle risorse presenti. In alcuni casi vi è
la tentazione di un ritorno a un passato, rivisto e corretto, in cui procurarsi il denaro con
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Percorsi di accoglienza
l’attività di prostituzione, ma non esercitata alle
stesse condizioni e con le stesse modalità.
Queste contraddizioni sono permanenti, ma
emergono soprattutto nel momento in cui la
delusione del fuori è alta, perché le aspettative
erano notevoli e quindi il senso di delusione è
forte.
Un’altra contraddizione si manifesta nella
dicotomia desiderio/paura dell’autonomia: da
una parte c’è il desiderio di autonomia, ma
dall’altra c’è la paura di sperimentarla. Molte
di loro sono state abituate a dipendere in
molti ambiti della vita: economico, culturale
ed affettivo. Per molte di loro queste dipendenze significano dipendenza dal maschile.
La contraddizione quindi si situa tra il bisogno di protezione e la voglia di disporre della
propria libertà.
Un’altra contraddizione riguarda da una
parte la fatica di essere diversa (ovvero il desiderio di sentirsi normali) e dall’altra due aspetti
che riguardano il passato: colpa e vergogna da
una parte e il “positivo” del precedente “lavoro”
dall’altra (molto denaro in breve tempo).
Alla luce di quando detto bisogna tenere
presente, nella fase di progettazione dei percorsi individuali, di alcuni aspetti:
— è impossibile fare dei progetti in serie, che
faciliterebbero sicuramente il lavoro degli
operatori ma nuocerebbero alle ragazze;
— il progetto individuale non può che nascere
dall’ascolto dei desideri. Per quanto si sia
condizionati dalle esigue opportunità lavorative a disposizione bisogna comunque
ascoltare i desideri in quanto comunicano
comunque qualcosa;
— riuscire a raccordare i desideri con la capacità e possibilità di realizzarli. Queste infatti
sono molto spesso ridotte, ma è compito
degli operatori riportare il tutto su un piano
di realtà. Poiché il desiderio molto spesso
è la proiezione di un ideale di sé, di un’immagine di sé, compito dell’operatore è
quello di fare un lavoro di lima e di ancoraggio dei desideri, di aiutare la persona a
fare i conti con la realtà e quindi costruire
sulle capacità che vanno nella direzione
della realizzazione di quel desiderio.
Un lavoro quindi per rendere i desideri più
realistici, per lavorare sul potenziamento delle
capacità per la realizzazione del desiderio, per
51
lavorare sul contesto esterno che offre le
opportunità ovvero incrociare le capacità, desideri e opportunità esterne.
La parte più difficile di questo lavoro consiste nell’intervenire sul gap, sul divario tra la
proiezione di ciò che si vorrebbe essere e fare
e le capacità personali effettive per poterli realizzare.
Nei progetti è fondamentale che non ci sia
alcuna forzatura. Il compito degli operatori è
quello di presentare la realtà e chiedere alle
persone di sapervisi adattare. È però molto
importante non azzerare i sogni, poiché lo spazio di illusione, che gli operatori sanno riconoscere come tale, è uno spazio vitale. Gli operatori devono evitare di imporre il proprio
progetto e per farlo devono usare strumenti
quali l’accompagnamento e il sostegno.
In sintesi agli operatori viene richiesta sempre una presenza discreta, inizialmente di stimolo e di contenimento, successivamente di
supporto.
Tutto ciò non è facile e spesso comporta
una serie di rischi di deragliamento per l’operatore.
Rischi per l’operatore
Un primo rischio consiste nell’immedesimarsi non tanto nella persona, nei suoi bisogni e nei suoi desideri, ma in ciò che lei rappresenta per la funzione di operatore e quindi
compiere l’errore di non vedere la persona,
bensì il suo percorso di ascesa, del quale egli
si sente promotore e dal quale riceve la propria gratificazione.
Lo stesso vale per quegli operatori che aderiscono a un principio di militanza e quindi non
vedono la persona, bensì la giusta causa dalla
quale traggono la propria gratificazione. Per
loro conta non tanto la singola persona,
quanto invece il battersi per una causa, con il
rischio di mettere in primo piano, di nuovo, i
propri bisogni anziché quelli delle persone che
aiutano.
Il secondo rischio consiste nel fatto che
l’operatore sopravvaluti la propria importanza
e che quindi, paradossalmente, si senta tanto
più importante quanto più l’altro dipende da
lui e quindi che non sappia fare un passo indietro al momento opportuno. Fare un passo
indietro significa diminuire l’importanza del
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Percorsi di accoglienza
proprio ruolo per far crescere gli altri e raramente ciò viene percepito come gratificante
per l’operatore. Ecco allora che egli rischia di
non aiutare realmente le persone. Bisogna
sempre ricordarsi che aiutare un altro significa
metterlo in grado di aiutarsi da sé.
Il terzo rischio riguarda soprattutto gli operatori maschi, anche se le operatrici donne non
ne sono del tutto escluse e consiste nel mettere in queste storie, che sono storie che
riguardano nel profondo il senso della vita (l’affettività, la sessualità, ecc.), una serie di elementi di curiosità, talvolta morbosa, che può
tradursi in domande intrusive e invasive. Ciò
significa che l’operatore possa vivere attraverso
l’esperienza altrui, e in casi estremi vi si identifichi o li condanni. Atteggiamenti simili sono
spia di alcuni vissuti e quindi indicativi di un
lavoro di introspezione che si dovrebbe fare.
È importante che vi siano nelle case di accoglienza operatori maschi, non solo perché essi
ricreano la normalità dei rapporti maschio/femmina, ma soprattutto perché essi rappresentano per le ragazze un terzo modello rispetto
a quello di sfruttatore o di cliente, pur con
tutte le difficoltà che questo comporta. Molto
spesso le ragazze li mettono alla prova, tentano di sedurli, di veirificare le loro capacità di
resistenza, ma una volta che esse hanno capito
che il comportamento è diverso dai loro
modelli di riferimento di strada, hanno la possibilità di sperimentarsi in rapporti “normali”,
non mericificati e non di coercizione con l’altro sesso. È importante che l’operatore maschio
venga supportato in tutto questo dalle sue colleghe femmine e che abbia la possibilità di
confrontarsi costantemente con loro.
a cura di LEOPOLDO GROSSO
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Oltre la borsa lavoro
capitolo 5
Oltre la borsa lavoro
5.1. Riflessione a margine
dell’esperienza di IDEA Donna
Questo testo tratta il tema dell’inserimento
socio – lavorativo delle persone in protezione
sociale presentandone alcuni metodi e strumenti. Allo stesso tempo, si propone di analizzare i principali aspetti critici, di contesto e
specifici, e indicare possibili soluzioni.
Le considerazioni che seguono sono il risultato di una riflessione sul lavoro comune che
ha visto impegnati, a partire dalla fine del 2001,
i componenti dello staff del progetto Aperto3,
gli operatori dell’Ufficio Stranieri Nomadi e
Adulti in Difficoltà della Città di Torino e gli altri
soggetti attivi all’interno del progetto Freedom.
Le esperienze sopra citate sono relative a
donne che sono state soggette alla tratta e allo
sfruttamento sessuale, ed è a questo specifico
gruppo di destinatari delle misure di protezione
sociale che qui si fa riferimento. La protezione
sociale per le persone che sono state oggetto
di sfruttamento lavorativo, i collaboratori di
giustizia, ecc. affronta altri nodi problematici,
se non altro perché non riguarda necessariamente donne, e perché apre il campo delle
provenienze nazionali all’intero pianeta, mentre nello sfruttamento della prostituzione questo è solitamente ristretto a Nigeria e paesi
dell’Est Europa, e solo in misura molto minore
a Nord Africa e Sud America.
L’inserimento socio-lavorativo:
una dimensione complessa
Obiettivo specifico dell’accompagnamento
all’inserimento socio – lavorativo è il raggiungimento di una condizione di maggiore
consapevolezza e benessere attraverso la valorizzazione delle esperienze possedute, professionali e non, lo sviluppo di capacità personali
e l’acquisizione di nuove competenze. L’accompagnamento si propone di contribuire ai
53
processi di autonomia personale, aiutando le
donne a definire un progetto di vita che sappia conciliare le aspirazioni e potenzialità soggettive con le opportunità oggettive.
A costo di essere didascalici, possiamo
esemplificare il tutto dicendo che favorire l’autonomia significa predisporre le migliori condizioni affinché la persona che beneficia degli
aiuti forniti dal progetto possa farne a meno
nel più breve tempo possibile.
Gli aspetti costituenti l’autonomia sono:
— autonomia economica (e quindi abitativa),
attraverso il lavoro;
— autonomia data dalle conoscenze che permettono di muoversi in un sistema complesso e di fruire dei servizi e delle opportunità che vi si trovano;
— autonomia affettiva, attraverso la ricostruzione di reti amicali e di confidenza che prendano
il posto di quelle garantite, temporaneamente, dalle persone che operano nell’accoglienza dei progetti di protezione sociale.
Sta ai progetti di protezione sociale garantire che questi aspetti dell’autonomia personale
siano affrontati e che i bisogni ad essi connessi
trovino risposta. Va da sé che si tratta di aspetti
tra loro interrelati, e che gli operatori dei progetti di protezione sociale possono intervenire
in modo significativo per le prime due forme di
autonomia, mentre per quanto riguarda la
sfera dell’affettività è preferibile favorire – con
la maggiore discrezione possibile, e solo per chi
sembra in difficoltà nel riorientarsi – l’apertura
di un altro contesto relazionale, che permetta
di evitare l’equivalenza autonomia = solitudine.
Le possibilità di inserimento lavorativo sono
influenzate, oltreché dalla componente del
sapere e delle esperienze fatte, dalle motivazioni proprie di ciascun soggetto, e queste
sono, a loro volta, fortemente condizionate
dalla percezione del proprio stato di maggiore
o minore benessere.
Aiutare una persona ad attivare le risorse
personali significa valorizzarne competenze ed
esperienze, talvolta recuperare autostima. Ma
anche porre in atto le condizioni affinché le
Nota 3. Aperto, un progetto per l’integrazione socio – lavorativa delle donne straniere realizzato dall’associazione I.D.E.A. Donna Onlus grazie al contributo della Città di Torino, Divisione Servizi Sociali, Settore Stranieri Nomadi
e Adulti in Difficoltà. Aperto ha inoltre ricevuto contributi dalla Fondazione CRT (2002) e JP Morgan Chase Bank (2003).
Per un approfondimento sull’attività di Aperto nel biennio 2001-2002 si rimanda al Report redatto nel marzo 2003
e xerocopiato dalla Segreteria della Camera del Lavoro di Torino.
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Oltre la borsa lavoro
difficoltà dell’accesso al mercato del lavoro non
intersechino altre difficoltà: non poter decidere
autonomamente delle proprie prospettive a breve – medio termine, non poter disporre liberamente del proprio tempo, non poter sviluppare
appieno la propria dimensione sessuale ed
affettiva, non potersi cibare dei propri alimenti
preferiti, e così via. Ogni operatore di comunità
potrebbe allungare facilmente la lista. Forse
non è realistico pensare che strutture di accoglienza pensate in origine per altro tipo di ospiti,
e riconvertite negli ultimi anni, in tutto o in
parte, alle cosiddette “vittime della tratta”, possano proporre soluzioni per tutte le dimensioni
del benessere di giovani donne provenienti da
paesi lontani. Ma va almeno chiarito che la forma che prende l’accoglienza ha un forte impatto, tutto da studiare caso per caso, sulla possibilità di effettivo inserimento professionale.
Allo stesso tempo, e rovesciando con ciò i
termini della questione, è necessario ribadire
che l’inserimento lavorativo è una componente
fondamentale della “riuscita” di chi si trova in
protezione sociale, e non un di più o qualcosa
di meno importante, nella valutazione su
“come sta andando il percorso della tale persona”. Donne che mostravano qualità e impegno, durante lo svolgimento del tirocinio,
hanno perso o rischiato di perdere favorevoli
opportunità di inserimento lavorativo perché
espulse dall’accoglienza in quanto risultavano
indocili ai regolamenti comunitari. Nel bilancio
dei fattori positivi e negativi sull’andamento del
percorso di integrazione, per ogni persona, il
comportamento e i risultati raggiunti in azienda,
riferiti dai datori di lavoro e dai tutor, vanno
messi quantomeno sullo stesso piano del comportamento e dei risultati raggiunti in casa,
sotto gli occhi degli operatori di comunità.
Ricordando che, semmai, la scommessa personale sulle possibilità di effettiva integrazione
socio-culturale si giocherà nel campo dell’ambiente di lavoro, non certo sulla maggiore o
minore predisposizione alla vita comunitaria.
Metodi e strumenti
dell’inserimento lavorativo
La progettualità dell’inserimento socio-lavorativo ha questi obiettivi specifici:
— accompagnamento educativo all’inseri-
mento lavorativo, attraverso l’offerta di
varie forme di sostegno;
— superamento di barriere culturali e di ostacoli all’integrazione derivanti da differenza
culturale e processi di esclusione sociale
subiti in pass.
In quest’ottica si è mosso il progetto Aperto,
prevedendo, oltre ad attività rivolte direttamente alle donne straniere in difficoltà (colloqui individuali, tutoring, laboratori di gruppo
su tematiche diverse), una serie di interventi
rivolti al contesto: mediazione culturale e
mediazione dei conflitti nei luoghi dove si svolgono gli inserimenti; contatto con organi rappresentativi delle parti sociali attive sul mercato
del lavoro (organizzazioni sindacali, associazioni
artigiane, industriali e di categoria, organismi
appartenenti al terzo settore); promozione di
una cultura della gestione e valorizzazione
della diversità nelle aziende e sul territorio. Per
non dilatare eccessivamente il discorso, tratteremo qui alcuni metodi e strumenti sperimentati nella realtà torinese (e non solo, evidentemente), concentrando l’attenzione su quanto
si fa insieme alle donne in protezione sociale.
Il programma di protezione sociale si avvale
da tempo di una misura di accompagnamento
fondamentale, la borsa lavoro.
Le borse lavoro sono tirocini formativi di
durata variabile svolti presso aziende che siano
in grado di garantire una ragionevole possibilità di inserimento lavorativo al termine della
borsa o quantomeno un effettivo miglioramento del profilo professionale della borsista
al termine dell’esperienza, quindi un buon contenuto formativo della stessa.
L’azienda inserisce la tirocinante nella propria organizzazione produttiva o di servizio, con
le mansioni che potrebbe svolgere se fosse regolarmente assunta, per un impegno settimanale massimo di 40 ore. Garantisce che possa
essere affiancata a personale esperto, in grado
di trasmetterle informazioni e prassi corrette.
Il punto di forza della borsa lavoro, cioè
l’erogazione di una somma che, seppur
ridotta, permette alle beneficiarie di concepire
l’attività svolta in azienda come un vero e proprio lavoro, ne fa anche uno strumento ambiguo. La necessità di guadagnare per far fronte
alle richieste di denaro dei familiari nel paese
di origine rende la borsa lavoro un buon com-
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Oltre la borsa lavoro
promesso tra l’esigenza di lavorare da subito e
quella di formarsi professionalmente. Ma di
fatto, stante l’onerosità di questo strumento,
si tende a privilegiarne forme di breve durata,
in aziende che impiegano personale con basso
know-how. Del resto, come concepire l’acquisizione di un buon contenuto formativo attraverso il solo tirocinio? E i corsi di formazione
professionale che ci starebbero a fare?
Il vero limite della borsa lavoro non è quindi
il suo possibile “uso perverso”, con aziende
che usufruiscono di manodopera gratuita,
senza procedere mai ad assunzioni (una criticità riducibile con un attento tutoraggio
esterno e con la traduzione della maturazione
di esperienze – buone e cattive – in una affidabile banca dati), ma nel suo demolire, per il
fatto stesso di esistere, l’opzione della partecipazione a corsi di formazione professionale.
Ne consegue una impossibilità di acquisire
professionalità di medio profilo. Le donne finiscono per scontare la fretta iniziale di guadagnare (poco) con il protrarsi a lungo di opportunità di lavoro precarie, sotto pagate o poco
appetibili.
Il tutor è la figura di snodo dell’inserimento
in borsa lavoro. Si parla di tutoraggi individuali,
sia perché intervengono in coerenza con l’attuazione di un programma individuale concertato tra l’organismo referente e la persona che
beneficia delle misure attivate, sia perché è
buona norma che la borsa lavoro sia erogata
per presenze di una o due persone al massimo,
per ogni azienda.
Il tutor, figura distinta dal tutor aziendale,
ha il profilo dell’operatore sociale professionale, con formazione specifica ed esperienze
dirette di lavoro nel campo delle azioni di integrazione sociale per le donne vittime della
tratta. In questo senso deve assumere alcune
funzioni proprie del mediatore culturale, per
permettere una migliore comprensione delle
“regole” del mondo del lavoro, delle dinamiche interpersonali sul luogo di lavoro, in una
prospettiva interculturale. È evidente che questo non esclude il ricorso a mediatori linguistico – culturali, in caso di bisogno (e per le
ristrettezze economiche dei programmi di protezione sociale, bisognerebbe dire in casi di
estremo bisogno, il che è un male).
55
Il “tutoring”, la presa in carico di ciascuna
donna da parte di un operatore, è un rapporto
bilaterale caratterizzato dalla continuità. Il termine “presa in carico” sottintende sempre un
ruolo attivo della beneficiaria dell’intervento e
una costante interazione tra la donna e l’operatore. Il tutor svolge un ruolo fondamentale
nell’ambito del processo di transizione agito e
subìto dalla donna, ponendosi come punto di
riferimento costante e personale in tutto il percorso: dalla maturazione di un orientamento
motivazionale e professionale, alle fasi di alternanza di formazione e lavoro, all’integrazione
lavorativa vera e propria. Attraverso la relazione personalizzata che stabilisce con la
donna, conquista la sua fiducia e con questa
la possibilità di essere ascoltato nelle situazioni
di crisi, se si presentano.
Il tutor svolge le funzioni di orientamento,
accompagnamento e sostegno nel percorso
formativo e nell’attuazione e verifica dell’inserimento, in un confronto puntuale non solo
con la donna ma anche con i responsabili delle
aziende.
Uno strumento di grande importanza è il
“bilancio di competenze”, inteso come mezzo
di avvio di un itinerario di orientamento individuale. Il termine “competenze” denota una
capacità acquisita e concreta di svolgere determinati compiti, valorizzando le esperienze del
soggetto e valutando le sue attitudini.
La stesura del bilancio deve essere concepita nell’ottica della progressiva responsabilizzazione del soggetto coinvolto in vista dell’elaborazione autonoma e consapevole del
proprio progetto socio professionale. È una
riflessione “guidata” sulle proprie esperienze
di lavoro e di vita, sulle proprie aspirazioni e
motivazioni, e porta a comprendere la necessità dell’attivazione delle risorse personali per
il raggiungimento dell’obiettivo finale.
Attraverso colloqui successivi a carattere esplorativo, l’operatore tenta di far emergere e rilevare le competenze, le attitudini, le caratteristiche e le risorse della persona, evidenziando
il più possibile punti di forza e debolezza.
Il bilancio di competenze è utilizzato anche
nei confronti delle persone che non hanno
esperienze professionali, per aiutarle a definire
meglio le proprie capacità e aspirazioni, e pro-
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Oltre la borsa lavoro
gettare e mettere in atto percorsi formativi o
professionali. In questi casi la parte dedicata
alle esperienze professionali risulta ridotta e,
piuttosto che di bilancio di competenze, si può
parlare di bilancio di risorse, o di bilancio di
orientamento.
Ogni donna è invitata a rivisitare il proprio
progetto di migrante. Le cosiddette “vittime
della tratta” hanno posseduto, come ogni altro
migrante, un proprio progetto di vita, di riuscita e emancipazione non solo economica, sul
quale ha interferito in maniera più o meno
pesante l’esperienza del traffico di esseri umani
e dello sfruttamento. Potersi impossessare di
nuovo di quelle idee, magari ingenue, permette di risarcire in parte le ferite subite dalla
psiche nel lungo intervallo fra la vita di prima
e quella attuale e contemporaneamente di
individuare dei sentieri certi lungo i quali condurre le ipotesi sul proprio futuro.
Criticità e soluzioni
Passeremo ora in rassegna le criticità che
riducono o impediscono l’accesso al mercato
del lavoro in condizioni di coerenza con il proprio profilo di competenze, consapevolezza dei
propri diritti di lavoratrice, autonomia e
responsabilità di scelta. Per comodità di esposizione, queste criticità sono organizzate per
ambiti problematici, in un percorso che muove
dai fattori più generali, di contesto, fino a raggiungere la dimensione più specifica, quella
della protezione sociale.
Le soluzioni non sono altro che criticità
cambiate di segno: nell’esposizione che segue
si tentano alcuni approfondimenti che rendano
questo principio maggiormente operativo.
Il mercato del lavoro
Nel considerare le criticità dell’accesso al
mercato del lavoro, occorre distinguere tra criticità che potremmo definire “contingenti”, e
legate all’area in cui ci troviamo ad operare, ed
altre che sembrano invece caratterizzare più in
generale lo scenario dell’inserimento socio –
lavorativo delle donne migranti (e quindi non
solo delle donne in protezione sociale).
Tra le prime mettiamo senz’altro la crisi
economica dell’area economico – produttiva
torinese e in specie di alcuni comparti del
manifatturiero, che è sotto gli occhi di tutti e
che si ripercuote pesantemente sulle possibilità di sviluppo dell’occupazione.
Tra le seconde contiamo: i fenomeni di
discriminazione delle donne migranti nell’accesso al mercato del lavoro; la precarietà dell’impiego, dipendente dall’offerta prevalente di
contratti di breve durata; i bassi livelli salariali,
dovuti alle mansioni generiche, o alla possibilità, per le aziende, di ricorrere a contratti di
apprendistato.
La discriminazione delle donne migranti, in
particolare se di origine africana, si traduce nell’indisponibilità dello sbocco nell’assistenza
domiciliare e lavoro domestico (e se questo è,
nella situazione attuale, il mercato principale
per le donne immigrate, bisogna aggiungere
che la giovane età delle donne che beneficiano
delle misure di protezione sociale non sembra
compatibile con questo tipo di impiego) e nelle
attività commerciali di contatto con il pubblico.
La scarsità di offerta di lavoro, le discriminazioni, la precarietà dell’impiego che significa,
all’uscita dalla protezione sociale e grazie alle
nuove norme nazionali sull’immigrazione, precarietà del diritto a soggiornare in Italia, l’incertezza sul futuro: è questo il contesto nel
quale va costruito il progetto di inserimento
lavorativo.
Limiti e opportunità
Le difficoltà di accesso al mercato del
lavoro da parte delle donne straniere beneficiarie di misure di protezione sociale, oltre che
alle peculiarità del particolare percorso di esclusione/inclusione sociale, vanno necessariamente riferite, come abbiamo visto, al contesto più ampio della questione occupazionale
dei cittadini immigrati nel nostro paese.
Dell’insieme di fattori analizzabili, quelli che
sembrano più pertinenti all’argomento che qui
trattiamo sono:
— il rapporto fra capitale umano di esperienze e competenze professionali posseduto dalle donne e l’offerta di lavoro a loro
accessibile,
— il funzionamento dei dispositivi che permettono l’incontro fra domanda e offerta
di lavoro.
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Del rapporto tra competenze e opportunità
ci occuperemo nel prossimo paragrafo, ora
trattiamo l’aspetto della ricerca del lavoro, evidenziando gli aspetti di rischio connessi ad una
domanda di lavoratrici straniere stereotipata.
In Italia l’incontro fra domanda e offerta di
lavoro è spesso regolato in modo personalistico e informale: si cerca e trova lavoro attraverso il passaparola. Questo vale in particolare
per la parte del mondo del lavoro più dinamica
dal punto di vista occupazionale, quella delle
piccole e medie imprese (PMI), vera ciambella
di salvataggio dell’economia italiana negli
ultimi venti anni.
La presenza dei lavoratori immigrati si inserisce con relativa facilità in questo contesto
mutuandone i modelli in reti informali di “specializzazione etnica”. Le reti etniche sono
spesso rafforzate dall’attività di soggetti che
propongono azioni solidaristiche (istituti religiosi, associazioni di volontariato e solidarietà
sociale, ecc.). In questo modo si giunge ad un
irrigidimento delle possibilità di scelta iniziale,
o di movimento in una fase successiva, su
determinate “tipicità” (i domestici filippini, gli
allevatori sikh, ecc.).
Possiamo dunque chiederci se queste reti
etniche funzionano anche per le donne straniere
beneficiarie di misure di protezione sociale.
Si può osservare, in proposito, che le donne
che abbandonano la prostituzione grazie
all’art.18 D.Lgs. 286/98 lo fanno per lo più
attraverso il cosiddetto “percorso giudiziario”,
cioè denunciando le persone che le hanno
condotte in Italia e poi costrette alla prostituzione. Ma queste persone, oltreché sfruttatori,
sono i principali contatti con la realtà del paese
di immigrazione, e di solito sono dei connazionali. Se ci riferiamo nuovamente al solo caso
delle donne nigeriane, possiamo essere più
netti: gli sfruttatori sono di solito delle sfruttatrici – le madam –, sono sempre connazionali
e spesso provengono dalla stessa città se non
dallo stesso quartiere da cui viene la donna.
All’arrivo in Italia la donna inizia a fruire, certo
in misura molto parziale e controllata, della
rete di relazioni sociali che la madam ha tessuto nei suoi anni da immigrata in Italia.
Conosce altre donne che lavorano per la
madam, ecc. Tutto questo viene spazzato via
dalla denuncia e, al di là del fatto che ciò che
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viene spazzato via rappresenterebbe ben poca
cosa per le possibilità di costruzione di una
“rete etnica” informale, resta che la donna che
ha denunciato è completamente priva di contatti e conoscenze spendibili. Si tratta di una
posizione anomala. I migranti di solito si muovono attraverso reti di conoscenza e solidarietà
interna, di gruppo o familiari. Non chi denuncia lo sfruttamento: la donna si trova ad interagire solo più con operatori sociali ed enti del
paese di accoglienza, o con donne che si trovano nella sua stessa condizione. E questa interazione con gli operatori sociali ha, per così
dire, una data di scadenza, un momento
futuro in cui non sarà più di nessun aiuto.
Queste considerazioni possono spiegare
perché le donne faticano a rendersi autonome
e come possano essere interpretati, anche in
un’ottica di stabilizzazione occupazionale, i
tentativi di costruzione ex novo di reti solidaristiche fra le donne beneficiarie di misure di
protezione sociale. Tentativi a volte contraddittori, incoerenti, che indicano la ricerca di soluzioni ad una innaturale e pericolosa condizione
di isolamento.
Ma poiché le reti informali di tipo etnico
sono anche, come abbiamo visto, un potente
vincolo alla mobilità dell’immigrato all’interno
del mercato del lavoro, l’innaturale condizione
di isolamento della donna che ha denunciato
si trasforma in una opportunità.
I soggetti istituzionali e gli enti solidaristici
che intervengono in questa fase hanno dunque la grande responsabilità di saper vedere,
al di là della situazione contingente, dell’emergenza, della necessità di guadagnare subito,
tutti i rischi dei percorsi stereotipati e tutte le
opzioni che possano condurre, ora ed in
futuro, alla ricerca di una occupazione che sia
adeguata alle proprie competenze, corrispondente alle proprie aspirazioni, gratificante,
capace di sviluppi.
Il profilo di competenze
Pur senza voler eccedere nelle generalizzazioni, bisogna riconoscere che tra le donne in
protezione sociale vi è scarsità di profili professionali acquisiti nel paese di origine che siano
direttamente spendibili in Italia, e vi è un diffuso analfabetismo informatico.
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Non è invece scontato che vi siano una
scarsa conoscenza della lingua italiana, o un
basso livello di istruzione. A prescindere dal
titolo di studio conseguito nel paese di origine
è però possibile incontrare donne africane, e
talvolta donne albanesi, di scarsa istruzione, e
non mancano casi di analfabetismo.
Il grande limite è, come abbiamo visto, nell’indisponibilità generalizzata ad impostare un
coerente progetto di miglioramento professionale, in genere dovuta alla fretta di guadagnare per far fronte alle richieste che giungono
dalla famiglia di origine.
L’incrocio tra competenze e opportunità
richiede però qualche riflessione ulteriore. Il
mercato del lavoro italiano si mostra per lo più
incapace di riconoscere e valorizzare le competenze possedute dagli immigrati. Un primo
elemento da discutere è quindi: esiste un tipico
profilo di competenze della donna straniera
beneficiaria di misure di protezione sociale?
Non è così, evidentemente. Le donne straniere beneficiarie di misure di protezione
sociale costituiscono un gruppo abbastanza
eterogeneo per area geografica di provenienza
(nella quasi totalità dei casi: Nigeria, Romania,
Albania, Moldavia e altri paesi dell’Europa
Orientale e Balcanica) da poterlo escludere con
certezza. Nelle storie di queste donne si mescolano la provenienza da aree urbane o rurali, da
paesi ad alta industrializzazione e fortemente
strutturati nel sistema scolastico e formativo o
da zone in ritardo di sviluppo e con un sistema
scolastico poco efficiente, le situazioni familiari
solide o disgregate, la necessità e la possibilità
di lavorare subito e il fatto di essere partite
appena finiti gli studi, o interrompendo la scuola
(stiamo evidentemente intendendo il profilo di
competenze in una accezione assai ampia).
Limitandoci però alla nostra esperienza con
le donne nigeriane, la possibilità di definire un
profilo comune esiste. Le donne nigeriane provengono da un’area ben delimitata del grande
paese africano: l’Edo State e in particolare la
città di Benin City. Benin City ha sempre avuto
il carattere di luogo del potere tradizionale, in
quanto residenza dell’Oba, e l’importanza del
grande crocevia commerciale, ma non vi ha
affiancato un significativo sviluppo industriale.
In un quadro generale di discreta industrializzazione del Sud Ovest del paese (si pensi al
Delta State, a Port Harcourt, ecc.) ha mantenuto un profilo che potremmo definire “parassitario”, candidandosi a divenire, come è poi
avvenuto, terra di emigranti. Non è questa la
sede per approfondire i motivi che hanno portato alla “specializzazione” di Benin City nell’esportare donne attraverso la tratta per sfruttamento sessuale e gli argomenti che possano
spiegare il fatto che poco meno del 90% delle
donne avviate alla prostituzione in Italia e in
Spagna proviene da una città che ha una
popolazione di circa un decimo della “capitale
di fatto” Lagos. Ci accontentiamo di assumere
una certa omogeneità culturale (quasi tutte le
donne provenienti da Benin City sono di etnia
Benin), di età e di livello di istruzione.
La maggior parte delle ragazze nigeriane
che entrano nel programma di protezione
sociale hanno una età compresa fra i 20 e i 26
anni, e hanno terminato il corso di studi superiore alla primaria (la Secondary School). Ma il
corso di studi secondari seguito non sembra
aver consentito di acquisire conoscenze che in
Europa si considerano di base, e spesso le
donne mostrano di essere in difficoltà nella lingua inglese, soprattutto se scritta, fino a delle
forme di vero e proprio semi – analfabetismo
(che le interessate, orgogliosamente, non
amano ammettere). In molti casi hanno partecipato alle attività che la propria numerosa
famiglia, spesso messa in difficoltà dalla separazione dei genitori, dalle dinamiche della poligamia, dalla scomparsa del padre o della
madre, ha dovuto intraprendere per procurare
di che vivere a tutti: piccole attività commerciali di tipo informale, come la vendita di preparati alimentari al mercato, oppure il lavoro
nei campi, quando si viveva al villaggio. In
genere sono le sorelle più grandi, da sempre
abituate ad essere responsabilizzate nella cura
dei più piccoli. Alcune hanno prestato lavoro
presso esercizi commerciali della città (supermercati, ristoranti, ecc.) senza ricavarne una
particolare esperienza formativa, almeno dal
punto di vista della sua utilità in Italia. Quasi
nessuna racconta di aver lavorato con dei macchinari industriali, o dichiara di avere conoscenze informatiche, una qualche specializzazione ecc. Ci troviamo quindi di fronte a delle
scarse credenziali educative e competenze professionali che spiegano l’accesso ad un lavoro,
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in Italia, di basso profilo: scomodo, sporco,
impegnativo, se non addirittura pericoloso. Si
riproduce una situazione che le Nigeriane
hanno già vissuto, anche se non compreso in
pieno: la propria collocazione sul fondo di una
piramide economica. Prima, nell’industria del
sesso a pagamento, il lavoro di strada con le
tariffe più economiche; ora, finalmente in
grado di potersi posizionare nella compagine
economica – produttiva socialmente riconosciuta, i mestieri peggiori, meno pagati, più
precari. A queste donne si chiede quindi di
accollarsi mansioni, orari e condizioni di lavoro
non più accettate dalla manodopera nazionale. La consapevolezza del percorso di esperienze dure e in parte disperanti che queste
donne hanno iniziato dal giorno del loro arrivo
in Italia, e dell’urgenza delle richieste dei propri familiari, le spinge ad una grande disponibilità al lavoro, a qualunque condizione.
La sfida che deve essere raccolta dai soggetti facilitatori dell’integrazione sociale è
quella della valorizzazione di quelle esperienze
che risultino direttamente spendibili sul mercato del lavoro italiano (poche, purtroppo) e
soprattutto il miglioramento del profilo professionale delle donne. Tenendo presente il fatto
che non ci troviamo di fronte a mature madri
di famiglia che migrano alla ricerca dei mezzi
economici per garantire un futuro migliore ai
propri figli, ma a persone molto giovani, per
le quali è improponibile il sacrificio dell’esistenza alle esigenze dei propri genitori, fratelli e
sorelle.
Alcune considerazioni sulle aspirazioni professionali di queste donne. Abbiamo stabilito
che in gran parte non hanno mai avuto esperienze di lavoro operaio, eppure il “lavoro in
fabbrica” resta il loro obiettivo principale, una
volta superate le dichiarazioni iniziali di disponibilità a “qualsiasi lavoro”. Il livello di istruzione effettivo, più basso di quello ufficiale o
dichiarato, costituisce una prima spiegazione
del grado di soddisfazione che le donne nigeriane manifestano per il lavoro in fabbrica: è
noto infatti che vi è una netta correlazione fra
basso livello di istruzione e soddisfazione per il
lavoro operaio. A questo si può aggiungere
che l’inserimento in una azienda di produzione
rappresenta effettivamente un obiettivo di
medio alto profilo per una donna straniera, se
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consideriamo l’impegno di tempo paragonandolo a quello dei servizi di cura alla persona e
assistenza gli anziani (che possiamo ritenere
una sorta di soglia inferiore di accesso al mercato del lavoro, tenendo presenti le considerazioni fatte prima sull’età delle nostre donne) e
una certa maggiore garanzia di veder riconosciuti i propri diritti di lavoratrice. Infine, l’impiego in fabbrica permette di trasmettere una
immagine di integrazione e di riuscita ai propri cari, nel paese di origine, dove il lavoro
salariato in Europa appare come un miraggio.
Le mansioni del lavoro operaio generico, o a
bassa specializzazione, sono peraltro bene
accette alle donne nigeriane. Una volta superata la difficoltà del velocizzare le operazioni
manuali, la ripetitività dei gesti e il relativo isolamento sembrano rassicurarle. Possiamo spiegarci questo fatto con la particolare condizione
in cui si trovano al momento dell’inserimento
in azienda. Oltre alla comprensibile, e comune
a tutti, timidezza iniziale, le donne devono fare
i conti con la scarsa conoscenza della lingua
italiana e la disabitudine a relazionarsi con gli
italiani, soprattutto in un contesto lavorativo.
Possiamo anche dare per certo che questa
difficoltà abbia una origine marcatamente culturale, che porta la donna a chiudersi in se
stessa, incapace, per il momento, di interpretare correttamente le dinamiche interpersonali,
i ruoli all’interno del luogo di lavoro e le relazioni di genere (le donne nigeriane non sono
capaci, in genere, di sostenere lo sguardo di
un datore di lavoro maschio: non sarebbe educato).
Ciò non toglie che col procedere dell’esperienza, e dell’integrazione sociale e culturale,
le donne possano iniziare ad avvertire con fastidio gli elementi di ripetitività e di relativo isolamento delle mansioni che inizialmente svolgevano con un certo sollievo.
Differenza culturale
e deficit informativo
La cultura di origine delle donne in protezione sociale può essere per certi aspetti simile alla nostra, così come può essere assai
distante, ed è difficile generalizzare un modello
di differenza culturale senza rischiare quegli
schematismi che lo rendono inutile se non
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dannoso. Il modello organizzativo dell’impresa
può non essere sconosciuto alle donne che si
trovano in protezione sociale, soprattutto se
hanno avuto esperienze lavorative “formali”
nel proprio paese di origine. D’altra parte i problemi di interazione personale sono all’ordine
del giorno, in azienda, e non solo in ambito
multiculturale. Incomprensioni, difficoltà comunicative con i colleghi e i datori di lavoro sono
accentuati dalla poca propensione alla gestione e valorizzazione della differenza, soprattutto nelle aziende di piccole dimensioni. Nel
caso delle donne nigeriane, spesso le forme di
deferenza tradizionali (legate all’età e al sesso)
a cui abbiamo accennato sopra creano perplessità: il fatto di non essere guardati negli
occhi, anziché come forma di rispetto, viene
letto come timidezza, irresolutezza e rischia di
essere inteso come segno di poca sincerità o
fiducia. La trasgressione dei codici di deferenza, oppure l’incomprensione linguistica,
possono scatenare le rimostranze delle donne,
talvolta convinte di essere offese e discriminate
ben oltre la realtà dei fatti. Ricordo la situazione divertente (ma solo a posteriori) di una
donna nigeriana che, tirocinante nella cucina
di un ristorante, scambiava il cantilenante
“neh” dei piemontesi, in una contrazione di
“negra”, e accusava i colleghi di razzismo. Si
tratta di aspetti critici che vanno riducendosi
mano a mano che l’integrazione socio – culturale si fa effettiva, ma che possono giocare
in negativo nelle delicate fasi del primo inserimento in azienda.
Da ultimo, ma non certo per importanza,
è il caso di ribadire la necessità di ovviare alla
scarsa conoscenza dei propri diritti di lavoratrice. In tal senso, uno dei mezzi migliori sembra l’organizzazione di incontri di gruppo condotti da sindacalisti, che permettano di
acquisire conoscenze e fare domande in tono
colloquiale 4. Le attività collettive provvedono a
fornire strumenti utili al percorso di autonomia
e di empowerment, e contemporaneamente
contribuiscono a reintegrare le risorse sociali e
personali perse lungo il percorso dell’emarginazione.
La protezione sociale:
effetti indesiderati
L’inserimento lavorativo avviene dunque in
un contesto problematico, sia per la riduzione
degli spazi disponibili sul mercato del lavoro,
sia per il gap linguistico (spesso) e formativo
(quasi sempre) che le donne in protezione
sociale devono superare. Ma il panorama delle
criticità non sarebbe completo senza una analisi delle situazioni di crisi interne al percorso
di emancipazione proprio della protezione
sociale 5.
Queste vanno dal ritardo nel rilascio del
permesso di soggiorno, questione a Torino
purtroppo irrisolta, al rischio di violazioni della
riservatezza attraverso diciture nei documenti
che rivelano dati personali sensibili. Il dubbio
che il permesso non arrivi più resta costante
per mesi e genera angoscia, incapacità di concentrarsi, nervosismo. La possibilità che il passato torni a galla diventa una incognita nei rapporti con il datore di lavoro, i colleghi, oltreché
con le nuove amicizie, il proprio compagno, i
conoscenti che devono costituire il contesto
relazionale della “nuova vita”.
Vi sono poi fattori di crisi specifici e legati
alle forme di accoglienza e accompagnamento.
La localizzazione delle risorse abitative della
rete di accoglienza: le comunità sono spesso
in zone centrali, mentre le opportunità di
lavoro sono in genere in zone periferiche o
extraurbane. I regolamenti e le norme di convivenza comunitaria (es. orari di rientro incompatibili con quelli di lavoro). La possibilità che
le aziende che ospitano borse lavoro si limitino
ad un ruolo “parassitario”, senza proporre
sbocchi lavorativi.
Nota 4. Una attività del genere è stata realizzata con “Porte Aperte”, ciclo di incontri realizzato in collaborazione
con la CGIL di Torino all’interno di Aperto (2001-2002).
5. Bisogna aggiungere che in protezione sociale trovano accoglienza anche donne che sono in precarie condizioni di salute fisica, avendo contratto malattie parzialmente invalidanti o debilitanti come diabete, paludismo e talassemia, o che sono Hiv positive. Non mancano inoltre le persone con problematiche di carattere psichico. Un fattore
che incide fortemente sulla possibilità di trovare lavoro è poi la presenza di figli molto piccoli: anche quando il programma di protezione sociale è in grado di garantire servizi di babyparking, restano forti le limitazioni alla possibilità di accedere a lavori con orari o localizzazioni “scomodi” o organizzati per turni.
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E, volendo estendere il discorso agli aspetti
di programmazione, troviamo che la scarsità
delle risorse dedicate all’accoglienza diurna e
al tutoraggio per inserimento lavorativo (i programmi di protezione, ora più che mai in difficoltà economica, tendono a garantire le esigenze primarie), si traduce in una conseguente
minore professionalità degli interventi sociali di
accompagnamento all’inserimento lavorativo.
I progetti di protezione sociale per motivi
umanitari hanno tra le caratteristiche peculiari
la concezione partecipata tra enti pubblici e
organizzazioni no-profit, che riconosce e codifica l’importanza e l’esigenza del lavoro di rete.
Raramente vi sono solide connessioni di rete,
non parliamo di forme di partenariato, con i
servizi per l’impiego e la formazione, i sindacati, le associazioni datoriali. Questo, se da un
lato garantisce una migliore “tenuta” del progetto sui dati sensibili relativi alle persone in
protezione sociale, dall’altro impedisce la costruzione di interventi sufficientemente informati
ed efficaci sotto l’aspetto dell’inserimento professionale.
La difficoltà di attivare le risorse della formazione e lavoro a livello regionale e provinciale si lega alle ristrettezze economiche in cui
si dibattono i progetti finanziati ex art. 18. A
livello nazionale, un maggiore coinvolgimento
del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali
potrebbe consentire il reperimento delle risorse
necessarie alla realizzazione di misure direttamente orientate alla formazione e all’occupazione delle persone in protezione sociale.
Soluzioni individuali e soluzioni
di gruppo
Si dice a ragione che l’unione faccia la forza.
Tuttavia i programmi di protezione sociale sembrano aver fatto proprio il principio del “progetto individuale”, escludendo a priori che le
forme di solidarietà e condivisione tra le persone che si ritrovano, diciamo così “in comunità”, possano costituire una risposta alle sfide
dell’autonomia. Facciamo un passo indietro.
Abbiamo detto che le persone che si trovano
in protezione sociale sono prive, di solito, di
reti personali che le possano sostenere nei
momenti di crisi, o che possano proporre le
necessarie occasioni di svago e relax. L’inse-
61
rimento in protezione sociale comporta infatti
la demolizione delle reti esistenti, magari costituite principalmente da nodi che esercitano
una qualche forma di sfruttamento – nodi
interni o esterni al racket –, e richiede la costruzione di nuove reti. Queste donne si trovano
assieme temporaneamente e casualmente, ma
hanno diverse cose in comune, e non tanto
nelle dolorose esperienze del passato, quanto
nelle problematicità del presente e del futuro.
Ma le relazioni tra persone beneficiarie
delle misure di protezione sociale che nascono
all’interno delle strutture di accoglienza possono costituire una risorsa spendibile nel processo di integrazione presente e futuro? Vale
la pena di investirvi tempo e risorse? L’eterogeneità culturale e le forme di accentuata
competitività tra le donne che sono in accoglienza lasciano pensare che questi tentativi di
condivisione dei problemi e di cooperazione
siano, se non privi di valore, scarsamente sostenibili. Tuttavia se osserviamo lo sviluppo di queste relazioni nel medio periodo, e intendiamo
con ciò il tempo dell’uscita dalle forme di accoglienza e dell’acquisizione dello status di “cittadino straniero qualunque”, non vediamo
solo conflitti e interruzioni di rapporto, ma
anche condivisione e solidarietà reciproca. È
quindi ipotizzabile che parte delle difficoltà
relazionali che intervengono quando queste
persone sono ospiti nelle strutture di accoglienza dipendano, oltreché dallo stress tipico
della protezione sociale (incertezze e ritardi
sulla concessione del permesso di soggiorno,
pressioni dei familiari, ecc.), dagli obblighi di
convivenza. Vale quindi la pena di riflettere
sulla possibilità di rafforzare la solidarietà tra
pari, investendovi tempo ed energie degli operatori sociali.
Conclusioni
L’inserimento lavorativo dei cittadini stranieri, e delle donne in particolare, passa di questi tempi, purtroppo, per i contratti a tempo
determinato. Le persone in protezione sociale
è scontato si ritrovino in seria difficoltà appena
uscite dall’ombrello protettivo del programma,
se non sono ancora uscite dal precariato lavorativo. Le donne inserite nei programmi di protezione sociale sono: straniere; molto giovani
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(mediamente); prive di un solido profilo professionale; sole. Se non fossero assistite da
misure di accompagnamento, sarebbero facilmente risucchiate ai margini della società e poi
da lì nella clandestinità, nell’abuso e nello sfruttamento.
I risultati più significativi che possiamo proporci di raggiungere sono relativi alla capacità
delle donne di rendersi autonome. Non bisogna creare o rafforzare dipendenze, ma garantire un processo, graduale e misurato, di
emancipazione. Le donne seguite nell’ambito
di Aperto hanno mostrato determinazione,
capacità di adattamento e di apprendimento
(in un contesto adeguato). Molte hanno ottenuto risultati significativi; tutte hanno condiviso con gli operatori un percorso non solo professionale, ma di autonomia personale e di
grande umanità. Sembra però necessario predisporre altro: luoghi di condivisione di esperienze ed informazioni, dove poter usufruire di
servizi e strumenti (banalmente: una linea telefonica fissa che possa essere utilizzata da chi
si trova in difficoltà anche solo a fare telefonate di ricerca lavoro) e di adeguate forme di
orientamento, accompagnamento e formazione. È il progetto di un drop in per la ricerca
attiva del lavoro, che contiamo di realizzare in
un prossimo futuro, con l’aiuto di tutti.
CRISTIANO BERTI
I.D.E.A. Donna Onlus
5.2. Lavoro e donne
vittime di tratta
Il concetto di “inserimento lavorativo”
rimanda a quello di “integrazione sociale e
ambientale” soprattutto per le persone extracomunitarie e in particolare per le donne vittime di tratta di cui oggi ci occupiamo. Per sviluppare le problematiche dell’orientamento e
dell’inserimento lavorativo è d’obbligo la
distinzione tra donne provenienti dai Paesi
dell’Europa dell’Est e donne africane, in particolare nigeriane e donne che hanno già fatto
un percorso di emancipazione all’interno di
comunità. Costruire un’esperienza nell’ambito
dell’inserimento lavorativo delle donne adulte
straniere, vittime della tratta, ha richiesto in
prima istanza un’approfondita conoscenza
della loro cultura, dei luoghi di provenienza e
delle loro storie personali; in seguito una seria
verifica dell’effettiva capacità e disponibilità del
mondo del lavoro, ad includere nei processi
produttivi donne che portano con sé l’esperienza del lavoro di strada, anche se coatto.
La ricerca della risorsa lavorativa è stata
fatta dapprima a largo raggio e poi ristretta
alle piccole aziende e alle attività artigianali
(parrucchieri, pasticceria, pastifici, ristoranti)
dopo aver verificato che le suddette attività
sono le più interessate e disponibili a fare formazione, a trasmettere capacità e conoscenza
e a mettersi in relazione con giovani donne che
spesso non hanno mai svolto una vera e propria attività lavorativa nel paese d’origine e con
le quali è quindi possibile poter cominciare da
zero. Le donne sono generalmente molto giovani, con vissuti familiari di grande povertà
materiale e morale, problemi di alcolismo e
tutto ciò che ne consegue. Hanno un’istruzione medio bassa, suppliscono in molti casi
ad assenze paterne e materne nella crescita dei
minori, vivono prevalentemente in piccoli e
poveri paesi lontani dalle grandi città. Le donne
dell’Est hanno una buona predisposizione
all’apprendimento della lingua italiana e dopo
essersi affrancate dal lavoro coatto di strada,
dimostrano una forte adesione al progetto
lavorativo e un consolidamento delle scelte
maturate con l’obbiettivo di stabilirsi in Italia,
paese considerato ricco e pieno di opportunità.
Per quanto riguarda le ragazze nigeriane
l’orientamento e l’inserimento è risultato decisamente più difficile e problematico per diverse
ragioni: distanza culturale, difficoltà linguistiche, scarsa predisposizione a certi tipi di lavoro,
molta prevenzione da parte dei datori di
lavoro, soprattutto negli esercizi aperti al pubblico, difficoltà a rispettare i ritmi ed i tempi di
lavoro. Per loro si cercano lavori più semplici e
ripetitivi con tempi decisamente più lunghi di
entrata nella nostra logica lavorativa. L’inserimento lavorativo è stato effettuato mediante
l’erogazione di borse lavoro di 6/9 mesi. Al
momento in cui arrivano a noi per l’orientamento lavorativo, anche dopo un percorso in
comunità, quasi tutti i loro sogni sono spezzati, hanno ferite morali che le rendono fragili
e, a volte, aggressive e desiderose di risarcimento. Al colloquio, la prima cosa che emerge,
al di là dell’esplicita richiesta di lavoro, è un
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Oltre la borsa lavoro
grande bisogno di relazioni significative e di
famiglia, che spesso ricercano nel rapporto con
il cliente che le ha “salvate” e che ha sopperito ai loro primi bisogni materiali. Non fanno
richieste di un particolare lavoro, non avendo
o quasi, esperienze precedenti ma si capisce
che il lavoro deve essere strettamente legato
ad un ambiente in cui si possano sviluppare
relazioni significative, attenzione ai loro bisogni, comprensione delle loro paure. Ecco perché ci siamo prevalentemente rivolti ad attività
commerciali e artigianali a conduzione familiare, a cooperative o a piccole aziende con
pochi dipendenti. In tali luoghi, infatti, più che
in altri, si possono porre in atto le relazioni predette anche grazie al fatto che le ragazze
hanno voglia di apprendere un mestiere,
rispettano gli orari, si impegnano per apprendere la nostra lingua e cercano di adattarsi
all’ambiente. Non sono stati attivati percorsi
lavorativi come collaboratrici domestiche o
badanti in quanto la giovane età delle ragazze ed il loro desiderio di mantenere le relazioni intraprese al loro arrivo in Italia non sono
compatibili con un lavoro “chiuso” e a tempo pieno. Certamente lo strumento “borsa
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lavoro” è fondamentale e, in molti casi, indispensabile a tutela di entrambi i contraenti. Le
borse lavoro vengono attivate dal Consorzio
“Abele Lavoro” e prevedono la presenza di un
tutor che segue e verifica l’andamento dell’inserimento lavorativo. Nella nostra esperienza il
turoggio viene svolto da persone adeguatamente formate nell’accompagnamento e nella
relazione d’aiuto con persone straniere e vittime di tratta. Nel 70% dei casi le borse lavoro
sono sfociate in un’assunzione. Il buon esito
degli inserimenti ha creato offerte di lavoro
ulteriori che hanno reso più facile l’inserimento
lavorativo. Purtroppo i progetti finanziati dagli
enti pubblici prevedono borse lavoro poco remunerative, rendendo difficile, almeno a
medio termine, un percorso di autonomia economica con il grave rischio di ricadute nella
situazione pregressa. Possiamo concludere che
l’inclusione lavorativa è l’elemento primo per
essere cittadine a tutti gli effetti e per indurre
un reale cambiamento nella nostra società che
si sta misurando con il grande problema dell’integrazione sociale delle persone extracomunitarie.
Gruppo Abele
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Destini incerti e guerre quotidiane
capitolo 6
Destini incerti
e guerre quotidiane
Appunti etnopsicologici sulla cura
di donne africane sfruttate
SIMONA TALIANI 6
Fratellino, una cosa posso garantirle: come
inizio di vita quello di Teresa Batista è stato
un inizio coi fiocchi: le pene che ha sofferto lei da bambina ben pochi le patiscono
all’inferno; orfana di padre e di madre, sola
al mondo – sola contro Dio e contro il Diavolo, per lei neanche Dio ha provato compassione. Ebbene quella dannata ragazzina
ha superato, così da sola, il periodo più
duro, il peggio del peggio, e è uscita fuori
sana e salva all’altra riva col sorriso sulle
labbra […]. Il difficile per Teresa è stato
imparare a piangere, perché era nata per
ridere e stare allegra. Non glielo hanno
voluto permettere, ma lei ha tenuto duro,
testarda come un mulo quella Teresa
Batista. E il paragone è sbagliato, giovanotto, perché essa non aveva niente del
mulo al di fuori della testardaggine; non
era né un maschiaccio, né una pretenziosa,
né una sboccata – ah, che bocca pulita e
profumata che aveva! – né una vipera, né
una prepotente, né un’attaccabrighe… Era
una tiranna solo in amore; come ho già
detto e confermo, era nata per amare e
solo in amore era rigorosa. E allora perché
l’hanno chiamata Teresa Attaccabrighe?
Ebbene, amico mio, proprio perché era
brava a litigare, audace e altera, come lei
non c’era nessuna, ma non ce n’era neanche con un cuore di miele così. Odiava le
chiassate e risse non ne provocava mai; però,
certamente a causa di quello che le era
successo da bambina, non sopportava di
vedere un uomo picchiare una donna.
JORGE AMADO,
Teresa Batista stanca di guerra 7
Nascita e premesse metodologiche
del Centro Frantz Fanon
In questi anni di lavoro clinico, l’incontro
quotidiano con la sofferenza di cittadini immigrati ha reso necessario riflettere sul ruolo delle
ideologie della cura nel rendere accessibile (o
all’opposto) faticose le parole dell’Altro e sulle
modalità di ascolto che vengono adoperate e
all’interno delle quali può arenarsi la relazione
interpersonale costruita. Gli interrogativi che
rimangono spinosi in questo ambito di attività
riguardano il nostro fare quotidiano con persone straniere che vivono spesso nella clandestinità e che hanno vissuto episodi traumatici
connessi all’esperienza catastrofica del viaggio,
ai soprusi subiti nel corso della migrazione, agli
abusi e allo sfruttamento a cui queste vite sono
andate incontro. La violenza segna questi percorsi, scanditi da tappe predeterminate nelle più
importanti città africane ed europee (da Abidjan
a Casablanca, fino a Madrid; da Bucarest a
Praga, fino a Milano); tappe durante le quali
questi corpi sono alla mercé degli uomini, o delle
donne, che li ‘vendono’8: corpi di vita, e di infinito arricchimento, e corpi di morte, di sterilità, di rinuncia.
Agire all’interno delle istituzioni con questa utenza immigrata obbliga a riconoscere e
a interrogare la conflittualità che è in gioco nei
processi di costruzioni identitarie ambivalenti,
precarie, faticose. Sono donne, queste, che
hanno attraversato territorio così diversi, sopportato esperienze così dolorose, rinunciato in
Nota 6. Simona Taliani è psicologa e docente di antropologia culturale (Università di Torino). Collabora dal 1997
con il Centro Frantz Fanon e dal 1999 è consulente del Comune di Torino all’interno del Progetto Freedom, dedicandosi in modo particolare alla formazione degli operatori e all’ascolto psicologico rivolto a donne straniere in difficoltà. All’analisi delle situazioni cliniche presentate in questo lavoro ha contribuito Roberto Beneduce, etnopsichiatra e antropologo, responsabile del Centro Frantz Fanon.
7. Jorge Amado, Teresa Batista stanca di guerra, Einaudi, Torino, 1975, pp. 10-11.
8. Non ritengo ci sia termine più proprio di questo, sebbene si debba sottolineare quanto le modalità attraverso
cui vengono stipulati questi ‘contratti’, questi cicli di ‘crediti’ e ‘debiti’ infiniti, siano differenti se consideriamo i vari
contesti della prostituzione (differenziando, a grandi linee, quello cosiddetto ‘africano’ da quello che coinvolge prevalentemente le donne provenienti dall’est europeo).
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Destini incerti e guerre quotidiane
molti casi a diventare madri o a essere madri
dei loro figli, dimostrato con caparbietà la loro
intenzione a portare a termine un progetto di
migrazione, per noi a volte talmente confuso
da essere impossibile, irraggiungibile.
Chi sono queste donne? Cosa desiderano
per il loro futuro? Cosa chiedono alle istituzioni?
È evidente, per molti degli operatori che lavorano in questo ambito, che le domande poste da queste donne ci interrogano a fondo,
rispetto al nostro mandato istituzionale e agli
obiettivi da perseguire; allo stesso tempo, queste domande ci impegnano sul piano delle
responsabilità, a partire dalle scelte che operiamo e dalle politiche (della cura, dell’educazione, dell’assistenza) che noi stessi, in qualità
di operatori, riproduciamo. La relazione tra
operatore e utente nel campo specifico della
clinica e della psicoterapia interculturali obbliga,
per altro, a una riflessione critica e originale
delle teorie e delle metodologie psicologiche.
Questa relazione promuove dei processi di riconoscimento della differenza e della sofferenza umana che sono per molti versi peculiari. È intorno a questa coppia antropologica
(Identità/Alterità), generata dall’incontro con
l’Altro culturale, e al processo psicologico soggiacente (riconoscimento dell’Altro e dell’Identico) che si cercherà di tornare ripetutamente
in queste brevi riflessioni.
Fulcro di questo discorso è l’esperienza del
Centro Frantz Fanon9 di Torino e, più in particolare, il lavoro condotto in questi anni all’interno del Progetto Freedom, in collaborazione
con gli uffici socio-assistenziali della città. Il
Centro Frantz Fanon nasce ufficialmente nel
65
1996, come un gruppo di lavoro interdisciplinare e interculturale composto da psichiatri,
psicologi, sociologi, mediatori culturali, antropologi, educatori. La presenza sul territorio di
una fascia sempre più ampia di popolazione
immigrata ha reso, infatti, importante una
riflessione sulla reale accessibilità ai servizi sanitari e, allo stesso tempo, una valutazione sulle
modalità di accoglienza delle domande di cura,
nonché sulle modalità attraverso le quali rendere efficace l’intervento terapeutico proposto
all’utenza straniera. A fronte di un basso
numero di persone immigrate prese in carico
dai servizi dei Dipartimenti di Salute Mentale
di Torino e di alcuni eventi - sentinella di donne
immigrate provenienti dai Servizi di Pronto Soccorso o dai Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura10
e inviati presso il Centro con la diagnosi maledetta per eccellenza (quella di schizofrenia)11, il
lavoro di questi anni si è caratterizzato per promuovere forme di cura sensibili alla fenomenologia della sofferenza in altri orizzonti culturali e sociali. Ciò per promuovere delle strategie
di presa in carico efficaci sotto il profilo diagnostico e contemporaneamente terapeutico,
in grado di limitare l’effetto di quello che
Arthur Kleinman ha definito nei termini di una
“fallacia categoriale”12: la possibilità, cioè, che
qualora i medici non riescano a contestualizzare adeguatamente il significato dei sintomi,
delle esperienze e delle sofferenze di pazienti
provenienti da altri contesti socio-culturali,
possano produrre diagnosi improprie e terapie
non legittime. Il rischio in questi casi è di muoversi frettolosamente dal registro del ‘siamo
tutti uguali’ a quello non meno problematico
Nota 9. Servizio di counselling, psicoterapia e supporto psicosociale per gli immigrati e le loro famiglie (c/o D.S.M.
A.S.L. 2). Il Centro Frantz Fanon fa parte dell’omonima associazione, fondata nel 1997. Oltre al Centro, nel quale
viene condotta l’attività clinica, l’Associazione promuove progetti di formazione e di consulenza rivolti ad operatori
sociali e sanitari. Collabora con il Comune di Torino: dal 1999 ad oggi, ha contribuito alla costituzione di un gruppo
di lavoro e di coordinamento all’interno del il Progetto “Freedom” e dal 2003 offre un’attività di consulenza etnopsichiatrica e di supervisione all’interno del Progetto “Una finestra sulla piazza” (progetto rivolto alla prevenzione del
disagio giovanile dei minori stranieri non accompagnati e a rischio di esclusione sociale). In questi anni ha svolto attività cliniche, di ricerca e di formazione in Progetti rivolti a rifugiati, richiedenti asilo e vittime di tortura, vittime della
tratta e dello sfruttamento, detenuti stranieri ecc.
10. Roberto Beneduce, Delia Frigessi, Simona Taliani, Francesco Vacchiano, Etnopsichiatria clinica e migrazione:
l’esperienza del Centro Frantz Fanon, in Morosini, de Girolamo, Picardo, Polidori (a cura di), La ricerca in salute mentale: risultati, implicazioni, ricadute, Rapporto Intermedio di Progetto al termine della Prima Fase, Istituto Superiore
di Sanità, Roma, 2000, pp. 50-56.
11. Roberto Beneduce, Sessualità, corpi fuori luogo, cultura. Pratiche e discorsi su immigrazione e prostituzione, in
“Pagine” Gruppo Abele, Torino, 2003, 2, pp. 6-63.
12. Arthur Kleinman, Social Origins of Distress and Disease, Yale University Press, London, 1986, p. 46.
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del ‘siamo incommensurabilmente diversi’ (un
rischio che corrono gli operatori sociali non
meno di quelli sanitari).
È stato proprio a partire da alcune storie di
giovani donne africane, dai loro vissuti di
‘smarrimento’ e di ‘confusione’, dagli ‘episodi
di agitazione psicomotoria’ e dai loro racconti
disorientanti, prossimi al ‘delirio religioso’, che
abbiamo sviluppato le prime riflessioni sia sul
senso della malattia per persone straniere
impaurite, spaventate, traumatizzate; sia sulle
modalità di accogliere il loro intenso disagio.
Il presente contributo si propone di sviluppare alcune riflessioni sui problemi di cura posti
da donne immigrate provenienti dall’Africa
sub-sahariana, ciò che non esaurisce la questione più generale. Si deve, infatti, riconoscere
che una riflessione sulle domande di ascolto e
i bisogni di cura delle donne originarie dell’Est
europeo meriterebbe un’analisi di almeno due
aspetti: a) le esperienze di violenza domestica
vissute da queste donne all’interno delle famiglie d’origine e, in particolare, le ambivalenze
nei confronti delle figure ‘maschili’ (padre, fratelli, figli, sfruttatori); b) lo stato ‘anaffettivo’
che presentano nel parlare delle loro storie:
sono molti gli operatori che sottolineano l’impossibilità di penetrare i vissuti, gli stati emotivi, di queste giovani donne che si raccontano
“senza una lacrima”, “come se stessero parlando di un’altra persona”, “come se stessero
parlando d’altro”.
Donne moderne?
In questi anni di attività clinica, le testimonianze raccolte dai singoli pazienti13 ci spinge
a ritenere che un numero crescente di malintesi – e di conflitti – nel contesto dei Servizi sia
dovuto alla fede che molti operatori sociali e
sanitari nutrono nella nozione di ‘progresso’ e
di ‘modernità’, aderendo senza nessuna screpolatura ai paradigmi della scienza medica. La
nozione di ‘progresso’ (che chiama diretta-
mente in causa la questione dell’alterità e delle
modalità con cui rapportarsi ad essa), fonda le
sue premesse sulla rivendicazione di una
necessaria e progressiva modernizzazione di
tutti coloro che sono (ancora) ancorati ai
retaggi della tradizione. Questo obbligo a
essere moderni, a progredire, nasconde una
richiesta di definitiva assimilazione dell’Altro ai
nostri parametri o, per riprendere le parole di
Frantz Fanon, nasconde una richiesta di alienazione dai suoi sistemi di riferimento.
Chiedendo all’Altro di diventare come noi si
introduce, infatti, una logica perniciosa perché
si offre come unica soluzione una trappola: se
come noi non diventa, il problema si riduce ad
essere dell’ordine di una sua mancanza (naturale o naturalmente culturale). Il tipo di ragionamento che viene così proposto legittima
equazioni discutibili al fine di sostenere che
questi individui, incapaci di modernizzarsi,
mancano di capacità cognitive sufficienti
oppure che mancano di capacità relazionali
oppure, ancora, che mancano delle capacità di
adattamento necessarie a ogni integrazione. Il
problema, nella sua drammaticità storica,
sorge ogni qualvolta questi individui sembrano
ostinati a non voler rientrare all’interno della
cornice che gli offriamo: ostinati, dunque, a
rimanere da qualche parte esseri mancanti. “È
una donna primitiva nel modo che ha di accudire il suo bambino”, diceva un giorno un operatore di comunità per descrivere il comportamento di una donna nigeriana nei confronti
del figlio di pochi mesi. Alcuni gesti messi in
atto da questa madre avevano preoccupato
l’équipe: primitivi erano i suoi bruschi movimenti nel prendere il bambino da un braccio,
nel sollevarlo sulla schiena, nel posizionarlo sul
dorso per farlo dormire in una posizione
quanto mai scomoda… Questioni di punti di
vista, si dirà. Questioni di punti di vista, certo,
che però trasformano di fatto l’Altra in una primitiva, in una arretrata, in una incapace: sinonimi (più o meno) irriguardosi della diversità di
Nota 13. Dal 1996 ad oggi sono stati presi in carico circa settecento casi. Le persone che sono state seguite provengono prevalentemente dal Marocco, dalla Nigeria, dalla Repubblica Democratica del Congo, dalla Costa d’Avorio,
dal Senegal, dal Perù, dall’Ecuador, dall’Argentina, dall’Albania e dalla Romania. Le donne inviate dal servizio socioassistenziale dell’Ufficio Stranieri Adulti e Minori, e dalle comunità d’accoglienza, all’interno del progetto “Freedom”,
sono state circa novanta (in particolare, ci si è occupati di donne nigeriane, rumene, albanesi e ucraine). Rimangono ancora
‘invisibili’ le donne marocchine avviate alla prostituzione (poche, almeno, sono quelle arrivate presso il nostro servizio).
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cui l’Altra è portatrice con i suoi gesti, i suoi modelli, il suo modo di camminare, di vestire, di mangiare… Questioni non di poco conto, dunque.
L’attenzione che come gruppo di lavoro
prestiamo da sempre alle ricerche medicoantropologiche (Arthur Kleinman, Byron
Good), alle riflessioni politiche e sociologiche
(Edward Said, Abdelmalek Sayad), alle aspre
critiche rivolte alla psichiatria coloniale (Frantz
Fanon), è pertanto tutt’altro che ingenua,
tanto più – vorremmo dimostrare – nella clinica e nella psicoterapia. Guardare agli individui stranieri che incontriamo come a dei soggetti politici, senza obbligarli ad essere ciò che
supponiamo che siano o che supponiamo debbano diventare (dei corpi addolciti e addomesticati dalle nostre pratiche sociosanitarie), è
nella maggioranza dei casi una strategia efficace sotto un profilo psicoterapeutico, perché
produce cambiamenti, genera vincoli, costruisce alleanze, facilita l’instaurarsi di relazioni
transferali e, laddove sia effettivamente necessario, permette di essere molto più accorti nel
riconoscere i segni di un sempre possibile deragliamento nel dominio del patologico di vite
contraddistinte da una profonda ambiguità
relazionale, per variabili che concernono l’intricato sfondo storico, sociale, politico e psicologico di cui hanno avuto esperienza e su cui
poggia oggi la loro natura umana.
Riteniamo che un tale percorso di riflessioni
sia oggi indispensabile da percorrere se si vuole riuscire a collocare la diversità culturale delle
altre donne, immigrate (e, contemporaneamente,
‘indigene’, ‘primitive’, ‘colonizzate’, ‘ex-colonizzate’, ‘traumatizzate’, ‘vendute’) dentro la trama
delle loro sofferte individualità.
Assenza di permesso di soggiorno,
mancanza di lavoro, impossibilità
di trovare una casa: storia
di un arresto cardiaco ‘sospetto’
Le donne nigeriane, che vengono inserite
nei programmi di protezione sociale da parte
della Questura e che l’Ufficio Stranieri del
67
Comune di Torino affida alle comunità di accoglienza, sembrano essere “le più difficili da
gestire”.
In questi ultimi anni, durante dei momenti
particolarmente critici per gli operatori delle
comunità d’accoglienza, si è addirittura ipotizzato di limitare la loro presenza all’interno delle
singole strutture: ‘tre’ è sembrato il numero
sostenibile, al di sopra del quale alcuni operatori riferivano di non riuscire più a evitare la
riproduzione di dinamiche complesse, segnate
da episodi di intensa aggressività. I problemi
causati da queste giovani donne non sono stati
pochi, né si può dire che siano stati semplici
da risolvere: vetrate rotte, coltelli ostentati,
accuse e minacce di ogni tipo contro altre
donne e i loro bambini.
Ciascun operatore può ritrovare nella sua
esperienza immagini di litigi furibondi: scene
di ordinaria violenza che queste donne sembrano perpetrare tra di loro. Le minacce e le
accuse di stregoneria in questi casi sono, facilmente, dietro l’angolo. Il problema sembra,
però, essere meno connesso a una questione
di ‘quantità’ e più legato a una incomprensione di fondo su quello che succede tra queste donne14.
Alcune delle loro posizioni culturali sono
disorientanti, perché viene nominato un’invisibile a noi poco familiare (nelle sue molteplici
possibilità di manifestarsi: attraverso la possessione di uno spirito, l’attacco di stregoneria di
una rivale, il ritorno di entità ancestrali risentite…): sono posizioni culturali che, per queste
ragioni, potremmo definire scomode perché
non sappiamo bene in che modo poterle utilizzare nella relazione con l’utente.
Diverse sono state le occasioni di parlare di
simili questioni durante gli incontri di coordinamento che vedevano coinvolti gli operatori
(laici e non) delle comunità di accoglienza:
rispetto a queste donne nigeriane, ai loro modelli interpretativi e ai loro gesti, è andato via
via emergendo questo aspetto che chiama in
causa le dimensioni del ‘religioso’, del ‘morale’
e del ‘sanitario’ (inteso, qui, come ricerca di
Nota 14. Proprio a partire da queste considerazioni, abbiamo cercato in questi anni di promuovere con alcuni
operatori sociali una strategia di intervento educativo che fosse finalizzate a ricostruire in modo puntuale: a) i percorsi migratori di queste donne; b) le relazioni gerarchiche tra le donne che si trovavano nella stessa struttura d’accoglienza (in termini di età, appartenenze a gruppi etnici, sociali, religiosi, ecc.); c) le ‘posizioni’ sociali assunte da ciascuna donna prima dell’inserimento nel progetto sociale previsto per legge dopo la denuncia alle Forze dell’Ordine.
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salute e di benessere). Perché sono malato?
Perché il mio bambino è malato? Perché non
ho ancora il permesso di soggiorno? Perché
non riesco a trovare un lavoro stabile? Cosa ho
fatto di ‘male’ e chi mi ha fatto del ‘male’?
Come ritrovare la salute perduta? A chi affidarmi? Domande diverse alle quali si risponde
ricorrendo, il più delle volte, a interpretazioni
simili che chiamano in causa l’azione di un
‘terzo mal intenzionato’ che blocca i progetto
fatti e che impedisce la loro realizzazione.
Sono rappresentazioni che sarebbe più semplice far dimenticare? Se potessimo selezionare
definitivamente che cosa trattenere di un determinato mondo culturale e che cosa, invece,
rigettare nel mondo inutile della superstizione,
della credenza, della stupidità, avremmo così
risolto una buona parte dei nostri problemi?
La via apparentemente più facile non
necessariamente è quella ‘efficace’ (come si
può facilmente intuire, sono questione talmente delicate per le quali diventa impossibile
poter scegliere in nome di qualcun altro che
cosa ricordare e che cosa dimenticare del proprio universo culturale di riferimento, a meno
di non riprodurre forzature, costrizioni e logiche di violenza).
Proviamo, ora, a focalizzare due o tre punti
della questione, attraverso l’analisi del disagio
di una giovane donna nigeriana, inviataci da
un’équipe di comunità15.
Da alcuni anni seguiamo presso il Centro
Frantz Fanon un équipe di educatori operanti
all’interno del progetto “Freedom”, per un
lavoro di supervisione delle situazioni difficili
che hanno in carico. Nella maggior parte dei
casi questi operatori si trovano ad interagire
con donne nigeriane, provenienti soprattutto
dalla città di Benin City, appartenenti in prevalenza al gruppo etnico Edo (più rare sono
invece le donne Igbo e Yoruba, provenienti
rispettivamente dal sud-est e dal sud-ovest
della Nigeria).
A seguito di un forte malessere di una di
queste donne – che viene descritto come una
sorta di ‘morte apparente’ nel corso della quale
la giovane “perdeva lentamente calore e si
faceva sempre più fredda”, e il cui battito cardiaco rallentava gradualmente – alcuni degli
educatori si recano in ospedale, dopo aver
chiamato d’urgenza l’ambulanza.
A questo primo episodio segue un secondo
momento di crisi nel quale si hanno da parte
di Miracle episodi di vomito insieme alla comparsa di alcune crisi convulsive, con caduta a
terra e perdita di coscienza (e, a detta del personale infermieristico nuovamente chiamato
d’urgenza, arresto cardiaco)16. Il personale
medico presente in ospedale non riscontra
alcuna anomalia cardiaca, né neurologica,
dopo ripetuti accertamenti. Per queste ragioni
invia la ragazza presso il Servizio psichiatrico di
diagnosi e cura per un accertamento psichiatrico.
Dopo il colloquio con Miracle, gli operatori
presenti in ospedale vengono rassicurati dal
medico psichiatra sullo stato di salute della
donna e sulle sue paure di morire, espresse
attraverso una confusione generalizzata e il
terrore che qualcuno potesse farle del male.
Nel corso del colloquio, emerge infatti che la
ragazza è cristiana.
Gli operatori dell’équipe vengono invitati a
ripetere a Miracle che il “vudù non esiste” in
modo da convincere la donna dell’inconsistenza di queste paure. La ragazza continua
invece disperatamente a ripetere che si deve
trattare di vudù.
Su segnalazione dei servizi che avevano in
carico la ragazza, si sono tenuti alcuni incontri presso il Centro Frantz Fanon.
Nel corso del primo incontro Miracle rievoca anche con noi la paura del vudù. D’altra
parte questa categoria esplicativa emerge continuamente in situazioni e in contesti eterogenei: dalla questura ai servizi sociali fino ai
reparti ospedalieri dei servizi psichiatrici di diagnosi e cura.
Nel corso dei colloqui successivi i problemi
di Miracle vengono articolati a partire da una
Nota 15. La donna viene incontrata da Roberto Beneduce (etnopsichiatria) e da Simona Taliani e Jessica Ghioni
(psicologhe). Manca la figura del mediatore culturale, perché la ragazza rifiuta di incontrare qualunque connazionale. Una riflessione a parte andrebbe dedicata alla mediazione culturale in ambito clinico con donne così ‘spaventate’ e così vulnerabili: nel momento, cioè, in cui devono parlare del proprio malessere, e lo devono fare nel modo
più intimo. I colloqui vengono fatti in inglese.
16
. Il nome ‘Miracle’ è chiaramente uno pseudonimo.
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forte preoccupazione che la ragazza ha per la
madame: dopo la denuncia che ha sporto nei
confronti di una donna sua connazionale, inizia a temere che qualcuno possa fare qualcosa
sulle valige, sugli abiti e su gli altri suoi effetti
personali, lasciati nella precedente abitazione.
La madre, dal canto suo, nel corso di una
telefonata le raccomanda di riprendersi tutti i
suoi oggetti.
Insieme a questi discorsi ne emergono altri
in cui la presenza di un universo invisibile viene
ricordata con nitidezza dalla giovane donna:
— Miracle era stata riconosciuta fin da piccola
come “spirito - incarnato” dalla propria
madre, bambina ogbanje17;
— è diventata adepta al culto della Regina
delle Acque, fin da adolescente; il giorno
dopo aver sognato un corso d’acqua e una
voce che la chiamava decise di recarsi
insieme ad alcune amiche al fiume lungo il
quale veniva celebrato il rituale di Mami
Wata da donne vestite di bianco che danzavano in cerchio18;
— è ‘madre’ di una figlia mai nata, da lei
donata quando era ancora nel suo grembo
alla divinità delle acque, perché da questa
richiestale durante un sogno; Miracle ci
descrive il momento in cui si immerge nel
fiume per lasciarvi il corpo (feto già morto)
di sua figlia;
— da sempre sente delle ‘voci’ che chiamano
il suo nome (prima in Nigeria, per strada,
oggi qui in Italia, in comunità o sul posto
di lavoro), voci che la madre le ha detto fin
dalla prima infanzia di ignorare (“prima di
69
rispondere – Miracle ricorda insieme a noi
le parole della madre – voltati e guarda se
vedi qualcuno; procedi avanti e non rispondere se non c’è nessuno dietro di te”);
— ci parla, infine, dei suoi molteplici nomi con
i quali è stata chiamata alla nascita: sono
sette quelli che ricorda con noi e con essi
rievoca i volti delle persone che glieli avevano dati (tracciando insieme i destini che
ciascuno di questi nomi aveva configurato
per lei).
Miracle è una bella e giovane donna nigeriana, non ancora trentenne, giunta in Italia
come molte altre donne straniere – dopo
viaggi estenuanti attraverso diversi paesi – fino
all’arrivo definitivo in qualche città del nord;
come tante avviata anche lei alla prostituzione.
Certamente non bastano questi dati biografici per riuscire a comprendere che cosa
abbia contribuito a determinare la crisi cardiaca
e l’estrema paura di morire, che aveva coinvolto profondamente anche gli operatori della
comunità (che davvero dicono di essersi visti
mancare sotto gli occhi una ragazza apparentemente in buone condizioni di salute fino a
qualche istante prima).
Le riflessioni vanno nutrite con altri dati che
riguardano da un lato il fenomeno migratorio
nella città di Torino, dall’altro l’organizzazione
istituzionale che si fa carico di queste storie
migratorie.
La comunità nigeriana, sebbene non sia la
più rappresenta e numerosa nella città, ha
saputo costruire momenti aggregativi rilevanti
intorno ad alcune Chiese protestanti e carisma-
Nota 17. Il termine è igbo, ma viene comunemente utilizzato dalle donne edo che incontriamo; letteralmente
significa ‘spirito incarnato’ ed è una nozione che secondo alcuni autori si incontra in area yoruba attraverso l’espressione che indica il ‘bambino nato per morire’ (abi-ku: nascere e morire).
18. La letteratura sulle rappresentazioni di divinità femminile delle acque è ricca di riferimenti. Per un approfondimento bibliografico si rimanda al lavoro di Roberto Beneduce, Trance e possessione in Africa, Bollati Boringhieri,
Torino, 2002. Qui, vogliamo evocare, piuttosto, le descrizioni tratte dai racconti e dai romanzi di autori come Achebe,
Soynka, Okri e altri ancora. Ecco cosa scrive Jorge Amado a proposito di questo meraviglioso personaggio che è
Teresa Batista: “Teresa Batista stava dormendo nella casa di Oxùm dove l’aveva alloggiata la Iyalorixà [la sacerdotessa], quando fece un sogno su Januario Gereba, dal quale si sveglio angosciata. In sogno l’aveva visto in mezzo al
mare, arrampicato su uno scoglio tra onde colossali, circondato di schiuma e di enormi pesci. Janù tendeva le braccia verso di lei e Teresa si avvicinava camminando sull’acqua come se fosse in terra ferma. Quando stava già per raggiungerlo, ecco che dal mare si alza un’apparizione celeste, mezza donna e mezza pesce, una sirena. Ravvolse Januario
con i suoi capelli lunghi e verdi, così lunghi da coprire le squame della sua coda verde come il colore del fondo del
mare, e lo portò via con sé. Soltanto all’ultimo momento, quando ormai la sirena e il marinaio stavano per scomparire nell’acqua, Teresa vide la faccia dell’encantada e si accorse che non era Iemanjà [Mami Wata nel pantheon
del candomblé brasiliano], come le era parso, ma bensì la morte, il suo volto era un teschio, le sue mani due artigli
rinsecchiti”. Cfr. Jorge Amado, Teresa Batista stanca di guerra, Op. cit, pp. 124-125; e più oltre nel testo i sogni
di Miracle.
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tiche che sono proliferate in diversi quartieri
nell’ultimo decennio (gestite da pastori che
arrivano direttamente dalla Nigeria, dal Ghana
o dagli Stati Uniti). A parte il mercato e i negozi
di prodotti ‘etnici’, le Chiese sono certamente
i luoghi privilegiati di incontri tra connazionali.
Parallelamente, le comunità d’accoglienza
hanno finito con l’assumere ‘profili etnici’ ben
delineati: si sono, in altre parole, concentrate
fasce d’utenza sempre più omogenee (tanto
che si può parlare di comunità d’accoglienza
‘nigeriane’ o ‘rumene’ o ancora, più in generale, di ‘giovani dell’est europeo’, ecc.).
La costituzione di ‘micro-sistemi etnici’
trova le sue origini in fattori molteplici, che proviamo qui a elencare: dalle banali esigenze ali-
mentari delle donne ai più seri problemi di razzismo tra gruppi di immigrate; dal rifiuto di
alcune comunità a gestire una tipologia di
donna che non corrisponde all’immaginario
collettivo della ‘vittima’, ma che è più prossimo
a quello di una ‘imprenditrice alla ricerca di ricchezza’19, al problema di non avere un’adeguata preparazione professionale per affrontare le conseguenze sanitarie e ‘di condotta
morale’ che queste donne hanno nei confronti
della loro ‘malattia’20.
Uno degli elementi che non dovrebbe mai
essere sottovalutato nel corso di questi interventi sociosanitari è che per alcune delle donne
immigrate che sono state vittime della tratta
questi possibili incontri con persone loro con-
Nota 19. Molte di queste donne, soprattutto quelle provenienti dai Paesi africani, continuano – anche dopo aver
sporto denuncia – ad avere relazioni privilegiate con uomini italiani che da clienti si trasformano in fidanzati (e in
desiderati futuri mariti). È in queste circostanze sempre molto labile il confine che distingue tra relazioni ‘ambigue’
e relazioni ‘autentiche’: non si riesce con facilità a comprendere quale ruolo abbiano questi uomini italiani nella vita
delle donne che incontriamo. Il problema risiede probabilmente nella visione che abbiamo di questi eventi, rimanendo il più delle volte radicati dentro una morale che separa nettamente la sfera dell’affetto da quella del rendiconto economico. In realtà siamo probabilmente di fronte a delle donne che queste due sfere non le considerano
per nulla distinte. Può essere utile per comprendere queste modalità di relazione riprendere un passaggio del lavoro
di Roy Wagner (L’invenzione della cultura, Mursia, Milano, 1992). L’autore si sofferma sull’opposizione tra ‘denaro’
e ‘amore’: “L’amore (nella nostra società) è tradizionalmente ciò che «il denaro non può comprare», e si presume
che il dovere stia al di sopra degli interessi personali. […] E naturalmente il ruolo della prostituta che da «per denaro»
quello che le altre donne fanno «per amore» e vive in «una casa che non è una vera casa», simboleggia un mondo
alla rovescia di vizio e di corruzione per molti americani. Le relazioni interpersonali, e in particolare le relazioni famigliari, dovrebbero essere private e «al di sopra» degli interessi economici; non si dovrebbe usarle per guadagnare
soldi” (1992, p. 39). Sennonché ci ricorda Wagner “ciò che noi chiamiamo «produzione» in queste società fa parte
della simbolizzazione anche delle relazioni personali più strette […]. È dunque «produzione» ciò che gli uomini e le
donne, o gli uomini, le donne e i bambini, fanno insieme; essa li colloca socialmente nei loro diversi ruoli e simbolizza anche il significato della famiglia” (ivi, p. 40). Il discorso sviluppato dall’antropologo americano può essere ripreso
e trasposto in una realtà di migrazione che mantiene per certi aspetti immutate queste prassi relazionali, nel corso
delle quali il partner diventa l’oggetto del nostro investimento affettivo, la fonte del nostro guadagno e la fonte della
ricchezza per i nostri familiari. Queste modalità di interazione sociale lasciano, però, molti operatori interdetti, dal
momento che i loro progetti sono nella maggior parte dei casi centrati sulla realizzazione delle condizioni che permettono alla donna di essere autonoma e indipendente (centrati, dunque, sulla sola sfera produttiva); così come
lasciano interdette molte volontarie religiose, a partire da modelli della sessualità e delle relazioni affettive tra uomo
e donna chiaramente divergenti.
20. Parlare di ‘moralità’ significa, in questo caso, voler evocare i termini di una complessa problematica di cui
sono protagonisti gli operatori sociali e sanitari coinvolti in questo tipo di lavoro con un’utenza infetta: la percezione
del rischio di diffusione del virus dell’hiv, la negazione della malattia e il rifiuto a seguire qualsiasi precauzione preventiva che tuteli se stesse e i partner con i quali si hanno rapporti sessuali sono tematiche riprese di frequente nel
corsi di momenti formativi e di supervisione, perché si ha la sensazione nel lavoro quotidiano di trovarsi di fronte ad
un problema senza soluzione. Sono donne queste che, nonostante la malattia o la condizione di sieropositività, continuano ad avere rapporti molteplici, senza usare alcun contraccettivo (e, per queste ragioni, molte rimangono incinte).
Incuranti delle loro condizioni, sembrano essere sprezzanti nei confronti della morte e della tutela della loro salute
(nei casi di aborto, per esempio, si compromettono le difese immunitarie già indebolite dalla malattia, rendendo
ancora più precario il loro stato di salute). Lo scenario che emerge in queste storie di immigrazione non sembra
essere molto diverso da quelli tracciati dai lavori di antropologia medica. Con alcuni di questi lavori condividiamo le
premesse teoriche che articolano variabili eterogenee al fine di collocare il fenomeno in una cornice storica ampia:
la dimensione più propriamente sanitaria viene correlata ai rapporti politici tra gruppi e generazioni, alle ferite lasciate
aperte dal colonialismo, alla proliferazione di discorsi morali e religiosi portati dai missionari occidentali e alla distruzione di pratiche locali di intervento nella gestione della sessualità, all’indebolimento delle medicine tradizionali e ai
rapporti di potere soggiacenti tra medicina moderna e strategie di cura locali, ecc.
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nazionali non hanno sempre valenza positiva:
sia che questi avvengano nelle Chiese o nelle
strutture d’accoglienza nelle quali sono accolte
a seguito della denuncia sporta in questura. In
questi incontri le variabili che ci sfuggono sono
tante e tali che si hanno davvero pochi margini per tenere sotto controllo l’evoluzione
delle dinamiche di questi scambi: l’introduzione di una nuova ragazza, l’incontro di una
madame o di un’amica della madame, una
telefonata in Nigeria, la nascita di un bambino
avuto con un uomo italiano (o comunque
l’evento di una nascita), il raggiungimento di
un posto fisso di lavoro o di un permesso di
soggiorno… sono eventi questi che alimentano rancori e desideri di vendetta, che scatenano paure per chi è rimasto a casa, che generano invidia e gelosia rispetto a chi sembra
riuscire a realizzare un progetto migratorio ‘in
salita’.
Nel momento in cui Miracle è stata trovata
svenuta sul pavimento senza segni di vita evidenti alcune ragazze, rivolgendosi agli operatori, hanno espresso un medesimo sentimento
di paura, gridando se le si voleva vedere tutte
morte.
Miracle, al pari di altre donne, da alcuni
mesi viveva sia in comunità che nei luoghi
esterni d’incontro un confronto continuo e
incessante con persone per lei ‘potenzialmente
pericolose’ (e non è forse marginale che una
donna con la quale abitava era sospettata di
essere una madame e che altre donne le avevano recentemente ricordato la sua precedente affiliazione a Mami Wata, praticando
davanti a lei alcuni rituali di preghiera).
Il terrore di morire in queste donne è vivo,
tangibile, narrato ogni qualvolta si dia loro la
possibilità di farlo: non si ha bisogno di utilizzare ‘tanti giri di parole’ per evocare i loro
drammi quotidiani dal momento che i loro vissuti sono ‘banali’ vissuti di morte.
Molte di loro sentono venir meno il proprio
corpo: o perché malato, o perché alla mercé
tanto dei bianchi quanto dei propri stessi connazionali.
A partire da queste esperienze, dove il
corpo è protagonista indiscusso, sembrano
vacillare anche le identità di queste donne,
prese dall’angoscia di trovare sempre nuovi
ancoraggi che permettano loro di sentirsi vive.
71
La vicenda di Miracle mostra la nodosità
delle variabili in gioco in un intreccio che è difficile da sciogliere: all’improvviso, il percorso di
una bella e giovane donna che teme l’attacco
di alcune connazionali muta di segno e diventa
tortuoso, scandito da ‘attacchi’, ‘arresti cardiaci’, ‘angoscia di morte’. Miracle inizia a perdere la sua tranquillità, in comunità, sul lavoro,
in chiesa…
La sua biografia ci dice in modo chiaro
anche quanto i nostri dispositivi di indagine
risultino inefficaci nel gestire le angosce e le
paure di queste persone: aderire alla fede cristiana, di certo, non scongiura dalle ripercussioni magiche dei diversi vudù.
Si può essere cristiani e contemporaneamente adepti di confraternite, si può prendere
un medicamento in ospedale e contemporaneamente pregare la propria divinità, portarle
delle offerte o compiere un qualsiasi altri rituale terapeutico: la concatenazione di queste
contraddizioni potrebbe continuare per una
lunga sequenza di eventi e fenomeni diversi, a
testimonianza della fluidità di queste posizioni, mai rigidamente assunte da colui che le
sceglie.
L’antropologia medica ha da tempo dedicato molti dei suoi sforzi teorici all’analisi dei
percorsi di cura intrapresi dalle persone nell’intento di potersi liberare definitivamente dal
male che si è su di loro abbattuto, e ha riconosciuto che un tratto saliente di questi itinerari è spesso non solo la loro complessità, ma
soprattutto la contraddittorietà che li contraddistingue: nella ricerca ostinata di uno stato di
salute da ritrovare, i malati (insieme ai loro
familiari) cercherebbero la strategia più soddisfacente, realizzando in questo teatro della
cura una “flessibilità pragmatica” che ha ricevuto da numerosi autori la definizione di “pluralismo medico”.
Il problema che qui vogliamo analizzare
riguarda, però, un’ulteriore dimensione: anche
se prendessimo seriamente in considerazione
la frase che ci viene detta (“è vudù”), con l’intenzione di scendere nel territorio del culturale
che l’altro sembra offrirci, fermarsi ad essa
sarebbe ancora non sufficiente. Questa frase
poco o nulla ci dice della persona che abbiamo
davanti e della sua cultura di riferimento. Il
rischio è proprio quello di cadere nell’illusione
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di comprendere attraverso un tratto che riconosciamo come culturale, indicatore di una differenza che è sotto gli occhi di tutti e che non
può essere negata.
Le derive del culturalismo
in psicologia
Di fronte a queste identità sfuggenti – che
non sono mai soltanto quello che noi avremmo
ritenuto, o voluto, che fossero – rimane aperta
la questione delle posizioni da tenere rispetto
a questioni specificatamente psicologiche:
come rapportarsi al mondo reale dell’Altro e
contemporaneamente al suo mondo immaginario? Miracle è una donna ‘moderna’, simile
ad altre trentenni – desiderosa di raggiungere
una indipendenza economica e una sufficiente
autonomia –, che utilizza dei dispositivi ‘tradizionali’ per parlare, padroneggiare e risolvere
il suo disagio: parla della sua identità sfuggente (di ogbanje), padroneggia le voci suadenti dei ‘compagni’ che la chiamano fin da
bambina (attraverso una strategia di lunga
data, insegnatale dalle madre, che è quella di
non voltarsi), chiama in causa l’intervento di
Mami Wata (la sua relazione con una divinità
che possiede i corpi dei suoi adepti).
Fanon si interrogava sull’“irrealismo” presente nelle storie cliniche dei suoi pazienti algerini: un irrealismo di cui siamo, oggi, testimoni
quando l’Altro, straniero, ce ne offre la possibilità, narrandoci l’intimità del suo proprio
dolore. Fanon non sembrava motivato a
lasciarsi interrogare da queste dimensioni della
‘Cultura’: la sua posizione è già esplicita nella
scelta delle parole che utilizza nel descrivere
queste attività culturali (egli parla di uomini
“circuiti”, preda di “fantasmi” e “fantasie”,
vittime di “sdoppiamenti della personalità”,
malati)21. Sembra che Fanon abbia sottovalutato almeno tre ordini di questioni, rinunciando
a comprendere il significato e il ruolo di alcuni
dei dispositivi culturali che andava descrivendo:
in questo risiede probabilmente il limite delle
sue riflessioni circa questi eventi22. Dal momento
che il nostro discorso vuole, al contrario, guardare anche alla pratica terapeutica, dobbiamo
necessariamente passare attraverso questi
limiti per provare a costruire dispositivi di cura
più efficaci e relazioni interpersonali autenticamente interessate al disagio e alla sofferenza
degli utenti stranieri.
1) In primo luogo, Fanon ha proposto
una concezione statica di questi gesti e di queste azioni (parlando di una “cristallina” e
“perenne” permanenza) e ha così riprodotto
l’immagine di una cultura ‘tradizionale’ bloccata nel tempo (e, dunque, fuori dalla storia).
Ad uno sguardo più attento ci si accorge al
contrario delle continue trasformazioni di questi rituali, di queste rappresentazioni di alterità
non umane, di questi mondi meta-empirici e
degli stessi oggetti di cui ci si serve all’interno
di questi mondi culturali.
Se prendiamo come esempio quello di
Mami Wata, divinità femminile nel pantheon
yoruba, madre delle acque e donatrice di fertilità e ricchezza, riconosciamo i tratti di queste continue manipolazioni, negoziazioni e
modulazioni culturali nel momento in cui ripercorriamo la storia della sua iconografia: metafora di un viaggio tra Asia, Europa e Africa,
l’immagine che maggiormente la rappresenta
approda nel Golfo di Guinea per poi estendersi
ancora oltre, verso il fiume Congo, fino all’Africa
dei Grandi Laghi; il dipinto di un essere a cavallo tra mondo umano e mondo animale probabilmente nasce in Germania e viene ripreso
da una fotografia scattata alla fine dell’Ottocento a una donna proveniente dalle isole di
Samoa; questa figura metà donna e metà
pesce, ha tratti decisamente indoeuropei e una
carnagione bianca; oggi indossa occhiali da
sole, apparecchiature elettroniche e dona un
successo fatto di automobili nuove, stereo,
vestiti alla moda europea. Il fenomeno sociale
rappresentato da Mami Wata – oltre a illustrare
ciò che Roy Wagner ha definito “l’invenzione
della cultura” attraverso un processo grazie al
quale un gruppo circoscritto di persone costruisce la realtà del proprio mondo –, è anche
Nota 21. Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino, 1979.
22
. Questo limite non è però né immotivato, né ingenuo, ma probabilmente il prodotto di interessi storicamente
comprensibili, se si considera la realtà sociale di quel periodo: Fanon concentra tutto il suo lavoro sulla necessità della
lotta politica e per questo lascia talvolta a margine riflessioni e interessi più strettamente clinici.
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una sorta di “antropologia alla rovescia”, dal
momento che questa volta gli altri siamo noi.
In questo caso, infatti, sono gli Altri a guardarci, a descriverci e a creare un’immagine di
ciò che siamo, attraverso l’icona di questa
donna proveniente da qualche porto europeo
(probabilmente, quello di Amburgo), fondando il loro proprio immaginario collettivo sui
bianchi, le loro ricchezze, la loro opulenza...
Scrive Henry John Drewal che questa immagine simbolizzò la diversità esotica dell’Altro
per due aree culturali ampiamente differenti:
Mami Wata “era una misteriosa e sensuale
incantatrice di serpenti orientale per gli Europei,
ma uno spirito acquatico europeo per gli
Africani!”23. Questo alternarsi di sguardi – oggi
per noi Mami Wata può diventare la rappresentante del massimo grado dell’alterità africana – obbliga a riconoscere le repentina
modificazioni dei mondi culturali che continuamente inventiamo.
2) Fanon ha poi colto in questi fenomeni
culturali soltanto uno degli aspetti in essi contenuti: egli ha appiattito sull’unica variabile religiosa l’interpretazione di questi momenti collettivi, che invece – come hanno evidenziato
altri autori – sarebbero piuttosto prodotti (e
produttori) di discorsi (anche) politici, (anche)
terapeutici, (anche) economici. La macchina
della possessione, per riprendere l’esempio da
lui riportato, è un dispositivo complesso e
“paradossale”, che ordina una serie molteplice
e contraddittoria di eventi sociali, psicologici e
politici: ridurlo soltanto a un evento religioso
significa il più delle volte rischiare di perdere la
parte più interessante delle cose dette da questi corpi in movimento frenetico e drammaticamente incontrollato24.
3) Infine, l’elemento di certo più problematico nelle riflessioni di Fanon sembra essere la
riduzione dei dispositivi di pensiero analizzati
ad attività irreali, operando una strategia del
tutto simile a quelle promosse dalla medicina
e dalla psichiatria coloniale. Indebolendo la
portata che questi episodi culturali hanno nella
vita dei singoli – ritenendo, addirittura, che ci
si potesse fare beffe dei propri antenati, dei
73
propri zombies, dei propri cavalli a due teste,
dei propri gin, senza dover pagare alcun
prezzo per l’affronto così commesso – Fanon
sembra non accorgersi di introdurre una
modalità di alienazione tra le altre. Questa
forma di alienazione dell’individuo dai propri
sistemi di riferimento, dalla propria cultura, o
meglio, da alcune posizioni assunte dalla propria cultura, si traduce nei fatti in una presa di
distanza da un intero mondo reale composto
dai propri parenti, dai propri familiari, dal proprio gruppo, dai propri simili, oltre che dalle
proprie divinità. Queste posizioni culturali, sebbene non siano forse da tutti condivise in
modo univoco, rimangono per ciascuno in qualche modo attive: negarne l’esistenza, o disfarsene, significa costringersi a non poterne più
parlare. Questa mancanza di parole si traduce,
alla fine, in un allontanamento dal proprio
mondo reale, dal momento che viene meno la
possibilità stessa di raccontarlo, di evocarlo, di
ricostruirlo secondo nuove forme. Una volta
perse le parole per descrivere una realtà non
rimane altro da fare che constatare il mero prodotto di una fantasia infantile e rozza. E chi
continua ad aderire a queste posizioni culturali, chi continua a tenerle vive nella memoria
e nella pratica, nonostante la loro scomodità
storica, finisce nella maggioranza dei casi per
essere etichettato nella sua inferiorità (intellettuale, cognitiva, psichica).
Rimane, infatti, sospesa una questione
importante in un lavoro che voglia dirsi clinico
(o anche in un intervento di tipo psicosociale).
Se, come per altro scriveva Frantz Fanon, il
mondo dell’immaginario non può essere costruito che a partire dal reale in cui ciascuno
vive, quale reale possiamo costruire quando
non possediamo più alcun immaginario che
dia conto della storia nostra e della storia dei
nostri simili? Quali tipi di umanità si generano
a partire da questi processi storici e da questa
forma di alienazione che è l’espropriazione dell’individuo dal proprio immaginario collettivo?
Se togliamo all’altra persona ciò che le permette di orientarsi nel mondo – le parole con
cui sa esprimere l’accaduto, l’esperienza e il
Nota 23. Cfr. Drewal, H. J., Performing the Other. Mami Wata Worship in Africa, ‘The Drama Review’, 32 (2),
1988, pp. 160-185.
24. Cfr. Beneduce, Roberto e Taliani, Simona, Un paradosso ordinato. Possessione, corpi, migrazioni, ‘Antropologia.
Annuario’, I (1), pp. 15-41.
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proprio vissuto – cosa le rimane per poterci
parlare dei suoi problemi più attuali, delle sue
reali preoccupazioni, dei suoi drammi più profondi?
Proposte di ascolto:
verso un etnopsicologia clinica
A partire dall’esperienza condotta in questi anni, possiamo certo riconoscere che un
individuo non è mai solo la ‘sua cultura’, né è
mai solo ‘una cultura’: produrre simili sovrapposizioni significa ridurre gli uomini e le donne
che incontriamo a corpi di cera, da esporre in
un museo pieno di curiosità, fossili viventi delle
nostre teorie. D’altra parte, però, negare loro
l’uso delle rappresentazioni che nutrono l’immaginario collettivo dentro il quale sono cresciuti e dei significati che ordinano la loro realtà
implica metterli nella condizione di non poter
accedere alla differenza di cui sono portatori:
a questo punto il passo verso una loro disumanizzazione non è distante, sia che questa
venga prodotta attraverso le forme più volgari
di ‘razzismo’ – attraverso le metafore bestiali,
i riferimenti alla primitività e alla selvatichezza – sia che questa avvenga attraverso una
patologizzazione della sua natura, con un
discorso medico e psicologico più velato, ma
non per questo meno violento.
La letteratura etnopsicolgica ed etnopsichiatrica è densa di materiali che continuano
incessantemente a mettere in discussione questi temi, nel tentativo di costruire un dispositivo di cura che abbia di condivisi i seguenti tre
punti: a) gli Altri pensano almeno quanto noi;
b) gli Altri hanno costruito delle teorie sulla
‘malattia’ e sul ‘male’; c) a partire da queste
teorizzazioni gli Altri hanno sperimentato delle
pratiche terapeutiche per intervenire sul disagio del singolo, di una famiglia, di un gruppo.
Queste premesse, se condivise, impegnano ad
adottare uno sguardo che sia messo a fuoco
sul singolo e, contemporaneamente, sulle culture che nel corso della sua vita ha attraversato, ricostruendo con la persona un insieme
completo delle diverse costruzioni e posizioni
culturali che ha assunto negli anni. Detto in
altri termini, non è sufficiente parlare di vudù,
di Mami Wata o di djenn, come se questi
diventassero delle nuove formule o dei nuovi
‘sintomi’ pronti per l’uso (sebbene questi siano
anche dei sintomi «prêt-à-porter» per colui che
li utilizza, come dice Tobie Nathan, dal momento che questi costrutti culturali lo aiutano
a decodificare il suo proprio malessere e gli
consentono di esprimerlo in un modo culturalmente riconoscibile dai tecnici della cura ai
quali si affida). È necessario ricostruire insieme
alla persona la sua collocazione rispetto a questi costrutti culturali e rispetto alle azioni che
sempre vengono operate una volta che questi
costrutti sono stati evocati (rituali di possessione, cerimonie di guarigione, scene sacrificali, elevazione di un altare domestico).
Questo tentativo ha significato nella relazione terapeutica con Miracle iniziare a esplorare quelle stesse nozioni che davano forma al
suo intimo senso di malessere, attraverso il linguaggio onirico, il ricordo, la rievocazione di
volti familiari in alcune circostanze di vita particolarmente significative (cerimonia del nome,
adesione alla confraternita, sepoltura della
bambina mai nata) per cercare di co-costruire
insieme a lei un’appartenenza sostenibile, a
partire dalla constatazione che la sua adesione
all’universo culturale nel quale era cresciuta
stava lentamente perdendo di consistenza,
lasciando spazio a sentimenti di morte, angosce di aggressione, assenza di strategie di intervento. La ricostruzione della propria cultura o
la co-costruzione di uno spazio culturale altro,
anche radicalmente nuovo, sembra rivestire
all’interno del processo terapeutico un punto
nevralgico su cui far leva al fine di offrire alla
persona la possibilità di riappropriarsi di una
realtà vivibile.
A questo proposito torna certamente utile
riprendere le riflessioni di Ernesto De Martino,
in La fine del mondo, sui vissuti apocalittici
conosciuti da coloro che iniziano a sentir sgretolare il terreno culturale sul quale stanno camminando; così come è certamente utile ritornare a discutere sulla centralità delle costruzioni
culturali nella risoluzione della crisi25. L’autore
assegna alla Cultura un ruolo fondamentale al
fine di stemperare il momento della crisi e ricostruire il senso di presenza necessario per riaf-
Nota 25. Ernesto de Martino, La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, Torino, 2002.
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fermare la propria esistenza di fronte al gruppo
familiare e sociale. Un discorso che procede
verso la stessa prospettiva teorica – e che attribuisce alla Cultura una funzione altrettanto
centrale nella prassi terapeutica – è quello sviluppato dalla psicologa canadese Ellen Corin:
la vulnerabilità psicologica che investe alcuni
momenti peculiari dell’esistenza delle persone
procede verso una risoluzione nel momento in
cui il soggetto riesce ad ancorarsi ai nuclei culturali profondi che lo hanno formato.
Nel corso del terzo colloquio Miracle ci racconta tre sogni, avuti nel corso della settimana:
1) a seguito di un incidente, Miracle cade
e qualcuno va in suo soccorso ad alzarla. La
macchina finisce dentro l’acqua e c’è ovunque
molto sangue. Una ‘piccola donna’ la vuole
aiutare.
«Dove era questa piccola donna?» – «Nell’acqua» – «L’hai riconosciuta?» – «No, non ho
visto la sua faccia» – «Che lingua parlava?» –
«Lui parlava in edo» – «Lui o lei?» – «Non
ricordo, ricordo solo che era piccola».
2) Mentre Miracle cammina un serpente le
morsica la gamba. Lei urla e si sveglia. Ricorda
ancora che c’era molto sangue.
3) Sogna una donna, con un bambino in
braccio (una donna che è ospite nella sua stessa
comunità). Questa donna portava una maschera sul volto: “Cosa fai?”, le chiede Miracle;
“Voglio ammazzarti”, le risponde la donna.
«La maschera era di animale o di donna?»
le chiede il terapeuta. «Era una maschera di
animale», risponde Miracle.
Dopo l’evocazione di questi sogni Miracle
inizia a parlare di Mami Wata («The Queen of
the water told me during the dream»): ci parla
meno del rituale che ha compiuto quattro anni
prima (fatto quasi “casualmente”, ci dice) e si
concentra maggiormente sull’episodio in cui
ha ‘donato’ sua figlia (ancora feto) alla divinità,
«per rinsaldare i legami con l’acqua». Anche il
padre della bambina era, come lei, un bambino ogbanje. Quando ha ‘sepolto’ il piccolo
corpo era sola. Ha immerso i piedi e le gambe
nell’acqua, sentendo freddo. Dice che la bambina doveva essere data all’acqua per poi
poterne avere una da tenere.
75
Dopo circa due mesi, Miracle torna sulla
vicenda legata a Mami Wata. Ci dice che la madre, il fratello e la sorella di circa dieci anni continuano ad andare al fiume nel quale lei aveva
fatto il rituale, diventando adepta del culto,
perché anche loro membri della confraternita.
Ciascuno si immerge nel fiume ad ‘una altezza’
differente (cambia, cioè, il livello di profondità
dell’acqua). «Mia madre non è abbastanza
forte per andare dove vado io» ci dice: il suo
livello di profondità è alto (indica che l’acqua
le arriva alla testa) «l’acqua a mia madre arriva
alle ginocchia». La sorella più piccola è quella
che si avvicina di più al suo grado di forza.
Nel tentativo compiuto di esplorare i meandri dell’immaginario di Miracle ci si imbatte in
questa divinità di donna-pesce, che diventa in
questo caso un prezioso argomento per ricostruire l’ambiente reale della donna. Altrove ci
siamo soffermati sulle costruzioni identitarie di
queste donne che si riconoscono ‘figlie della
divinità’ o ‘spiriti incarnati’ (Beneduce e Taliani,
2001)26, sempre sospese tra territori confinanti
l’umano e il non-umano (Miracle ci dice che la
madre la ascoltava parlare e piangere nel
sonno quando era piccola: «lasciatemi – diceva
Miracle bambina – non me ne andrò». Al fine
di spezzare questi legami invisibili, come
abbiamo già ricordato, la madre la esortava a
non girarsi mai quando sentiva le voci chiamare il suo nome, a non rispondere e a stare
tranquilla). Qui vogliamo, però, soffermarci su
un altro aspetto di queste rappresentazioni:
Mami Wata diventa spesso in queste vicende
non solo il pretesto per partire, concentrando
intorno a sé le motivazioni per intraprendere il
viaggio verso l’Europa, ma anche il personaggio centrale che ritorna immancabilmente ogni
qualvolta il progetto migratorio sembra lentamente, ma irrimediabilmente, fallire. Questa
divinità, infatti, dal momento che incorpora
tutti i sogni di arricchimento e di successo di
queste donne (lei stessa in qualche modo europea e bianca inviterebbe i suoi adepti a diventare come i bianchi, andando in qualche città
europea, promettendo loro facili guadagni),
viene richiamata – o torna spontaneamente –
quando desideri personali, aspettative sociali e
Nota 26. Beneduce e Taliani, 2001, Un paradosso ordinato, Op. cit.
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fallimenti si incontrano nello spazio della
migrazione27. Nel momento in cui questi progetti migratori sembrano giunti ad un impasse (manca il permesso di soggiorno, manca il
lavoro, non si riesce a contrarre alcuna relazione stabile, si protrae il tempo della sterilità)
queste donne si trovano costrette a rinegoziare
con la divinità l’intero progetto.
L’incontro di Miracle con Mami Wata (o
meglio, con le donne adepte del culto nei luoghi di frequentazione quotidiana della comunità e della chiesa, e con le ‘piccole donne’ e
le ‘donne/animali’ che sogna di notte) ha riaperto negli ultimi mesi ferite mal cicatrizzate:
queste relazioni con le entità dell’invisibile sono
rese esplicite, d’altra parte, anche dall’esplorazione di alcuni segni memorizzati nella loro
forma fisica. Delle piccole cicatrici sul volto simmetriche e regolari ci parlano di lei bambina e
dei sistemi di cura a cui era stata sottoposta
attraverso scarificazioni ed erbe medicamentose. Alcune ferite da taglio più recenti, provocate da una sua connazionale con delle forbici nel corso di un litigio, ci dicono della sua
fatica nel relazionarsi con le altre donne nigeriane e della violenza che contraddistingue
questi incontri. Un corpo onirico che viene
morsicato da un serpente e la visione notturna
di se stessa esangue ci lasciano intravedere il
suo legame con l’alterità divina, spirituale,
meta-empirica. Un’esistenza, quella di Miracle,
che lotta ancora per la sopravvivenza; un corpo
a cavallo tra la vita e la non-vita.
Il fenomeno di Mami Wata, tutt’altro che
statico e immutabile, è ancora una volta inventato da queste donne nel corso dei loro percorsi migratori per dirci tra le altre cose delle
motivazioni che le avevano spinte a partire, dei
desideri e dei bisogni che hanno alimentato
queste scelte, dei fallimenti e delle aspettative
deluse, degli smacchi e delle possibili soluzioni.
Miracle, dopo due anni in Italia, senza permesso di soggiorno, senza soldi da mandare
in Nigeria, senza ancora dei figli, sembra voler
chiedere conto a Mami Wata di quanto le sta
succedendo (torna alla memoria una scena del
filmato di Ernesto De Martino in cui una donna
tarantolata negozia inginocchiata di fronte
all’icona di San Paolo la sua guarigione, chiedendo un segno di buon auspicio: di fronte
alla richiesta del Santo di una nuova offerta,
tira decisa un pugno contro il quadro, che il
figlio piccolo tiene in mano, pronunciando tra
l’ira e lo sconforto un secco “no”). La giovane
donna esprime attraverso le sue parole e il
materiale onirico tutta l’ambivalenza che la
divinità ha nei suoi confronti (una piccola
donna che prima la vuole aiutare, poi uccidere), ma contemporaneamente anche la ambivalenza che lei stessa ha nei confronti di Mami
Wata, la sua resistenza ad aderire incondizionatamente al culto (una figlia è stata ‘donata’,
ma nessun bambino è stato ancora ricevuto):
sembra anche lei aspettare un segno. Allo
stesso tempo è come se – in alcuni passaggi –
volesse lei stessa offrirci gli elementi di una
possibile soluzione: se la sorella più piccola
in Nigeria facesse per lei qualcosa al fiume,
forse il suo progetto migratorio – e il suo stato
di salute – potrebbero migliorare.
Riaprire lo spazio della negoziazione con le
entità dell’invisibile che governano le esistenze
non permette solo di inventare continuamente
la divinità – e la propria cultura – ma è utile al
singolo affinché egli possa incessantemente
ricostruire la propria realtà di individuo e la
realtà delle relazioni interpersonali.
A mo’ di conclusioni
A conclusione di queste riflessioni, ci sembra di poter dire che è a partire da questo
immaginario denso e in continuo movimento
che riusciamo nella pratica clinica a farci carico
del mondo reale di questi individui, senza false
sovrapposizioni (‘stato psicotico acuto’) o culturalizzazioni sterili (‘vudù’), in un processo che
si dia come obiettivo quello di accompagnare
il soggetto verso una posizione “recalcitrante”:
così come scrive Tobie Nathan “l’elettrone è
recalcitrante rispetto alla volontà del fisico [nel
senso che] l’elettrone vive imperturbabilmente
la sua vita d’elettrone quali che siano le mosse
Nota 27. Anche l’attività della prostituzione sembra non smentire la sua presenza: ogni adepto di Mami Wata,
infatti, mantiene con la divinità un rapporto privilegiato ed esclusivo (nessun legame stabile e duraturo dovrà essere
contratto attraverso il matrimonio perché Mami Wata è ‘marito’ di queste donne e ‘moglie’ di questi uomini, che
rimangono condannati a intrecciare con gli altri esseri umani soltanto relazioni saltuarie e casuali).
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Destini incerti e guerre quotidiane
e gli intrighi messi in atto dal ricercatore”28.
La prospettiva teorica adottata nel corso di
queste riflessioni permette di evocare almeno
tre ordini di questioni inerenti ai rapporti di
potere e ai processi di significazione degli
eventi che si costruiscono nella relazione in
situazioni cliniche e psicoterapeutiche:
1) la prima concerne la collocazione sociale
di questi individui, immediatamente iscritti
all’interno di un sistema naturale di ineguaglianza nel momento in cui – in quanto immigrati, clandestini, provenienti da Paesi sottosviluppati – li si colloca ai gradini più bassi della
‘modernità’;
2) la Seconda, in continuità con la prima,
si interroga sulle implicazioni che un tale
sistema di ineguaglianza produce in merito alla
possibilità di aderire all’obbligo politico di
obbedire o di non obbedire alle norme sociali,
sanitarie, educative dettate dalla società nella
quale si emigra. Ci sembra che sia soltanto a
partire dall’iscrizione di questi individui all’interno di una posizione politica riconosciuta che
si possa chiedere loro il consenso e la stipulazione di un patto sociale che diventi garante
dei rapporti di reciprocità, di scambio e di integrazione. L’interrogativo rimane aperto: al di
fuori di questa prospettiva – senza che avvenga
alcun riconoscimento politico – come è possibile richiedere l’adesione, il consenso, l’obbedienza, senza riprodurre logiche di dominio più
sfumate, ma non per questo meno violente? 29;
3) la terza e ultima di queste questioni
rimanda a un interrogativo scottante: in virtù
di quali teorie, o di quali posizioni politiche, si
possono estromettere dal corpo politico intere
categorie di persone, ritenendo che l’umanità
77
di cui sono rappresentanti sia meno significativa (pregnante, importante, evoluta) della
nostra?30.
Riconoscere l’Altro come soggetto politico
non significa attribuire indiscriminatamente a
chiunque la consapevolezza storica dei processi
esaminati, né significa che tutti abbiano il
medesimo livello di consapevolezza politica dei
drammi, dei cambiamenti, dei radicamenti storici che hanno segnato le loro e le altrui esistenze. Più semplicemente, tale processo di
riconoscimento costringe gli psicologi (e le altre
categorie professionali coinvolte in queste
riflessioni) a leggere la storia nella quale questi
eventi prendono corpo, promuovendo così
facendo la costituzione di una scienza della storia capace di articolare le contraddizioni che in
essa si snodano e capace di riconoscere l’Altro
come soggetto che ha qualcosa da dire (nel
caso da noi preso in considerazione, un soggetto che ha qualcosa da dire sul malessere che
lo affligge e sulle pratiche da intraprendere per
riuscire a risolverlo o a stemperarlo).
Il tipo di lavoro clinico che a partire da queste premesse abbiamo cercato di far emergere
dovrebbe poter significare gli eventi di cui la
persona è protagonista e allo stesso tempo riuscire ad accompagnarla nella ricerca di un territorio culturale nel quale momentaneamente
potersi fermare (un territorio che non è né
‘naturale’ né ‘eterno’, né ‘immutabile’, né ‘più
vero di altri’). L’etnopsicologia che stiamo proponendo è tale se è capace di stare nelle congiunture, sia aprendo uno spazio di negoziazione tra diversi registri e lessici: lo psicologico
e il culturale, il sociale e l’individuale, il politico,
il religioso e il terapeutico; sia affrontando ciò
Nota 28. Tobie Nathan, Fonctions de l’objet dans les dispositifs thérapeutiques, ‘Ethnopsy, les mondes contemporains de la guérison’, 2001 (1), p. 6.
29
. È sufficiente portare qualche breve esempio per capire in quali posizioni difficili rischiamo di trovarci: perché
delle donne o degli uomini affetti da malattie veneree (sieropositive, affette dal virus dell’HIV, da epatiti…) dovrebbero ubbidire ai progetti di prevenzione sociale della malattia e di sensibilizzazione se non viene riconosciuto loro
alcun diritto politico (alcun diritto di parola, di cura, di decisione)? L’essere solidali con un gruppo significa pensarsi
come parte di questo gruppo; al di fuori di esso, il sabotaggio di strategie di prevenzione (l’uso del preservativo,
l’astensione dai rapporti a rischio), il radicamento a propri sistemi di cura, la manipolazione delle informazioni possono facilmente diventare atti di rivendicazione politica di una minoranza non riconosciuta.
30
. Un interrogativo alquanto imbarazzante, che potremmo ritradurre con la seguente domanda: “In che cosa –
per esempio – l’usanza di prendersi cura dei parenti anziani nella propria casa è più primitiva di quella di abbandonarli a se stessi o metterli negli istituti per la vecchiaia? In che cosa un sistema religioso che si fonda sul monoteismo e ha una storia di persecuzioni contro le eresie, di caccia alle streghe e di sante crociate è meno o più primitivo di una religione che si dimostra tollerante verso le credenze e le pratiche spirituali diverse?” (Hsu cit. in Godelier,
1980, pp. 1137-1138). Cfr. Godelier, Maurice, Voce ‘Primitivo’, in Enciclopedia, Einaudi, Torino, 1980, pp. 1130-1145.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Destini incerti e guerre quotidiane
che caratterizza ogni storia di vita incontrata
nello spazio clinico: la molteplicità delle posizioni culturali assunte dagli individui nel corso
della loro propria esistenza.
In un articolo pubblicato la prima volta nel
1965 su Psychopathologie africaine Andras
Zémpleni e Jacqueline Rabain hanno parlato a
questo proposito di “analisi delle congiunture”,
volendo indicare con questa espressione la
necessità di promuovere tanto in antropologia
quanto in psicologia una decostruzione dell’apparente coerenza e omogeneità dei costrutti culturali – al fine di dissolvere l’unità
delle credenze – favorendo una loro articolazione nella molteplicità delle valenze di cui sono
formalmente composti: “domandarsi quali
siano le funzioni sociali e psicologiche di una
credenza – scrive Jacqueline Rabain – significa
ragionare come se questa credenza possedesse
realmente una unità concettuale… Ora questa
ipotesi è falsa. L’unità della credenza è immaginaria”31, perché etnograficamente ricostruita. In realtà, nella clinica l’ascolto delle
narrazioni continuamente riproposte dalle persone che incontriamo impone di osservare con
attenzione questi molteplici frammenti in cui
possono frangersi le nozioni culturali evocate:
questa posizione teorica sembra da un lato
scongiurare il rischio di reificare facili rappresentazioni stereotipate degli Altri (e delle loro
credenze, dei loro sistemi di ragionamento);
dall’altro sembra imporre un ‘riconoscimento
di fatto’ dell’Altro che ci sta di fronte, come
auspicava Frantz Fanon, diventando, di fatto,
l’utente la persona più competente per parlare
di sé; sembra, infine, acconsentire a un avvicinamento, a una prossimità sempre più intima
con il mondo privato di colui che sta parlando,
partecipando in questo modo attivamente alla
ricostruzione di una realtà possibile.
Nota 31. Jacqueline Rabain, L’enfant nit ku bon au sevrage: histoire de Thilao, in Nathan, Tobie, L’enfant ancêtre, La Pensée sauvage, Grenoble, 2000, p. 112.
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Progetto Equal Li.fe. - Libertà Femminile
Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
capitolo 7
Rappresentazioni
del corpo,
della sessualità
e dell’affettività
in donne vittime
della tratta
Il fenomeno della tratta degli esseri umani,
che da più di un decennio si è riaffacciato in
molti paesi europei, non solo è diventato
oggetto di indagine sulle differenti modalità di
reclutamento e assoggettamento coercitivo,
ma ha imposto un ripensamento dei modelli
di intervento e cura delle giovani donne provenienti, in particolare modo, dalla Nigeria e
da molti paesi dell’Est Europeo.
L’Italia costituisce una delle principali aree
di destinazione e approdo delle organizzazioni
criminali e delle persone destinate alla prostituzione, anche per la sua posizione geografica
sul Mediterraneo che ne facilita gli ingressi illegali soprattutto dai paesi balcanici.
Se è vero che l’emigrazione espone le persone ad un cambiamento dei parametri spazio-temporali e dei differenti linguaggi comunicativi, non possiamo non tener conto degli
aspetti più complessi concernenti le rappresentazioni del corpo ed i conseguenti vissuti a
livello corporeo32.
Gli atteggiamenti corporei e gli aspetti
complessi della comunicazione non verbale
assumono forme differenti da cultura a cultura, e comportano cambiamenti non automatici né scontati, dove natura e cultura, biologia e psichismo si incrociano.
Il corpo resta il luogo privilegiato della
manifestazione dei conflitti, come d’altronde
accade anche in Occidente; e a qualsiasi latitudine e in qualsiasi cultura esprime la sofferenza interna dell’individuo e parla più di
quanto una mente smarrita possa dire.
79
Mi sembra importante riflettere sulla questione del corpo, partendo da alcune testimonianze delle ragazze che vengono a Mamre33
a chiedere aiuto per riprendere in mano la propria vita, dopo essere passate dall’esperienza
della tratta.
In realtà la richiesta di aiuto non sempre
nasce da loro, ma spesso sono spinte dalla rete
protettiva che le circonda; la loro motivazione
ad intraprendere un percorso di aiuto psicologico è debole e incerta, quasi quanto il loro
desiderio di cambiamento.
Bisogna lavorare sull’instabilità emotiva che
le caratterizza, costruire basi di fiducia attraverso uno spazio di ascolto “pulito”, ritessere
legami interrotti non solo e non sempre con la
famiglia, ma anche con se stesse, aiutarle a
raccontarsi e a ricostruire la propria biografia,
la propria storia personale riprendendo il discorso del loro progetto migratorio che è il filo conduttore, il ponte tra il passato e il futuro.
Lavorando su questi aspetti si costruiscono
nuove identità, nuove visibilità sociali, nuovi
luoghi, in persone che hanno vissuto per un
periodo più o meno lungo della loro vita “fuori
luogo”.
“Fuori luogo” erano i loro corpi, non solo
perché fuori dal loro contesto originario, dalla
loro cultura, dal loro paese, ma perché “in nessun luogo” o in “non luoghi”, non riconosciuti
come facenti parte della persona e che la persona non riconosce come facenti parte di Sé34.
Lasciati i “luoghi della memoria” i corpi si
dirigono (a volte costretti) verso “non luoghi”
dove si incontrano, ignorandosi, migliaia di itinerari individuali, dove i passi si perdono e
dove facilmente si possono inserire profondi
sensi di solitudine, che in certi casi possono
sconfinare in vere e proprie angosce, timori di
abbandono, vissuti in cui questi corpi si sentono persi e lasciati a se stessi o in balia di altri.
Tutto ciò può essere motivo di disorientamento e mettere a dura prova la tenuta psicologica e l’identità della persona. Il non luogo è
il contrario della “dimora” dove tutto è fami-
Nota 32. S. Abou ha esaminato la percezione del tempo, dello spazio, dell’Io e dell’ideale dell’Io negli immigrati
di inizio secolo. Vedi S. Abou, L’identitè culturelle, Editions Antrophos, 1981.
33
. Il Centro Mamre è stato fondato a Torino nel 2001. Attualmente ha due sedi di psicoterapia e aiuto psicologico per persone e famiglie immigrate. Specifici modelli di intervento e di cura psicoterapeutica sono indirizzati alle
donne vittime della tratta. L’équipe del Centro è formata da psicologi psicoterapeuti, psichiatri, etnopsichiatri, antropologi medici e mediatori interculturali.
34
. Cfr. M. Augè, Non luoghi, Edizioni Elèuthera,1993.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
liare, dove si depositano gli oggetti cari e si
ritrovano gli affetti e i punti di riferimento.
I “non luoghi” sono quegli spazi dell’anonimato ogni giorno più numerosi e frequentati
da individui simili ma soli. Augè parla di stazioni, aeroporti, grandi supermercati, ma per
quanto riguarda le donne della tratta, sono
anche le frontiere, i marciapiedi, i parcheggi, o
le camere d’albergo anonime e intercambiabili.
Mi pare emblematico, a questo punto,
introdurre la storia di Angela (nome fittizio),
ragazza di 20 anni proveniente dalla Bulgaria
che si racconta con diverse identità: ad ogni
colloquio sostiene di essere nata in un luogo
differente da quello detto la volta precedente
(la prima volta dice di essere nata in Ucraina,
poi in Moldavia e infine in Bulgaria), di avere
nomi differenti a seconda delle persone che
incontra e di essere stata venduta dal padre a
due uomini che l’hanno trasportata per 5 anni
(dall’età di 15 a 20 anni) verso luoghi che erano
solo di transito, ma non sapeva mai quando
sarebbe finito il suo viaggio, perché nessuno
era in grado di aiutarla.
Il suo corpo era in balia di altri, era in continuo transito, in anonimo passaggio, un contenitore sballottato, un corpo dotato di un’imprecisa e frammentata identità.
Identità debole fin dall’inizio, essendo nata
Angela da una coppia anomala, in cui padre
e madre sono due fratelli.
Lei è il frutto di una sessualità non normata, non controllata, frutto di un incesto. Parla
del padre come di una persona buona con lei,
e anche se non la mandava a scuola stava sempre in casa con lei; ma quando beveva un po’
di più voleva che lei gli “facesse delle cose
strane”.
Ci dice che Angela non è il suo vero nome,
ma da quando è stata venduta dal padre le
sono stati cambiati così tanti nomi che ora non
sa nemmeno che nome dare a sua figlia che
ha già un mese di vita. Ad ogni frontiera che
passava le veniva cambiata identità; è stata trasportata in Moldavia dove le è stato “insegnato come lavorare” sulla strada, una sorta
di iniziazione attraverso il dolore e la violenza,
è passata in Romania dove è stata per un
anno, ha transitato attraverso la Turchia dove
si è fermata qualche mese, è stata portata in
Kossovo dove era costretta a lavorare in locali
notturni, ed è arrivata in Albania, luogo della
sua partenza per l’Italia.
Nel caso di Angela si configura bene questa espressione di “corpo fuori luogo”, corpo
trasportato in altri luoghi alienati ed alienanti,
appunto “non luoghi”.
Le ragazze che incontriamo ci raccontano
che nel periodo del loro lavoro hanno incontrato centinaia di corpi, uomini e donne, di cui
non ricordano né volti né nomi. In alcuni casi
si ricordano dell’ultimo cliente perché è l’uomo
che le ha aiutate a fuggire o con il quale hanno
negoziato un tipo di lavoro differente. E non
è infrequente che se ne innamorino, iniziando
una nuova storia che spesso è la riedizione di
quelle passate dove si ripropongono le stesse
dinamiche di sfruttamento.
In ogni modo si tratta di corpi venduti, per
cui di nessuno e di tutti, costretti a lasciare
qualsiasi cosa, chiunque, ad andare da un’altra parte, chiamati ad abitare luoghi non sicuri,
non definiti. Corpi inopportuni e condannati
perciò all’esclusione sociale, corpi scissi tra
affettività e sessualità. Corpi continuamente
trasformati, e per dirla con un concetto di F. Remotti, “corpi culturalmente modellati”35.
Rappresentazioni del corpo e cultura
Credo che andando avanti in queste riflessioni non si possa non tenere conto del significato del termine “cultura”, con tutto ciò che
comporta in quanto a complessità.
In questi ultimi anni è cresciuto l’interesse
per il concetto di cultura, soprattutto da parte
delle scienze sociali, con una particolare attenzione da parte dell’antropologia.
Sembrano tutti concordi ad affermare che
la cultura non sia solo quell’insieme complesso
di conoscenze, credenze, arte, morale, diritto,
costumi, valori e idee condivise da un gruppo
e trasmesse da una generazione all’altra36, ma
la cultura partecipi alla costruzione di identità
diverse attraverso i miti, i simboli, le lingue, le
Nota 35. Cfr. F. Remotti (a cura di), Forme di umanità, Edizioni Paravia, Torino, 1999.
36. Cfr. E.B. Tylor, Primitive Culture, Harper & Row, 1973.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
visioni cosmologiche e i rituali caratteristici di
una determinata popolazione o gruppo etnico.
Possiamo condividere la definizione di cultura di J. e J. Comaroff che affermano: “Noi concepiamo la cultura come uno spazio semantico, il campo di segni e di pratiche nel quale
gli esseri umani si costruiscono e si rappresentano in rapporto con gli altri e, in conseguenza
di ciò, si costruiscono e si rappresentano le loro
società e le loro storie”37.
La cultura non è mai un sistema chiuso,
definito una volta per tutte, ma al contrario essa
contiene saperi che partecipano alla “costruzione di diverse forme di umanità”. E le varie
manifestazioni culturali, tutte le manifestazioni
culturali in realtà, passano attraverso il corpo
o ineriscono al corpo. Anche le manifestazioni
culturali più spiritualizzate in realtà esigono una
presenza, un esercizio del corpo, necessitano
di una preparazione a cui il corpo è tutt’altro
che estraneo.
Non si può prescindere da questa consapevolezza della presenza e dell’incidenza del
corpo.
Nei rituali iniziatici africani, per esempio,
ma anche in altri rituali di determinati gruppi,
è il corpo ad essere oggetto di continue trasformazioni che incessantemente ridefiniscono
la sua estetica, la sua forma, i suoi confini,
attraverso massaggi, tatuaggi, cicatrici, incisioni,
scarificazioni, circoncisioni e cosi via.
Sappiamo che un tratto comune ai rituali
iniziatici o a qualsiasi pratica effettuata sul
corpo è il dolore: esperienza emotivamente
intensa che non la si dimentica più per tutta
la vita. Lascia un segno nell’esistenza di chi l’ha
provato.
Tutto ciò rinvia a un complesso universo
simbolico come a differenti percezioni del corpo,
della persona, della sessualità, della morte.
Risulta chiaro allora che la nostra rappresentazione del corpo come inviolabile sia un
prodotto culturale tanto quanto quello di un
corpo soggetto a continui modellamenti.
Gli antropologi, gli psicologi, e gli operatori nelle scienze sociali sono consapevoli da
parecchi decenni di quello che Marcel Mauss
81
negli anni ’30 chiamava “le tecniche del
corpo”38.
Mauss metteva in luce come, per esempio,
l’attività del camminare fosse un’attività che si
impara culturalmente, come il respirare, il parlare, il mangiare, o il modo di vestire siano
anch’esse attività culturali.
Vediamo allora come tutte le manifestazioni del corpo siano modellate culturalmente.
Iniziazione e modellamenti del corpo
in donne vittime della tratta
Mi soffermo a sottolineare l’importanza
che assume il corpo in quanto “oggetto culturalmente modellato”, perché analogamente,
anche se in contesti culturali differenti, con
modi e fini diversi di attuazione, mi pare si
possa fare un parallelo di come vengano
modellati, trasformati i corpi delle ragazze vittime della tratta.
Non credo che sia un parallelo troppo
azzardato, nonostante le differenti percezioni
di questo modellamento siano evidenti.
Sappiamo, partendo dalle storie delle nostre
ragazze, che c’è una sorta di “iniziazione al
lavoro di strada con modellamento del corpo”.
Se i corpi vengono diversamente modellati a
secondo delle culture, dei periodi storici, degli
strati sociali, dei vari contesti, forse vengono
modellati partendo da determinate idee, presupposti che sono quelli che ineriscono a una
certa qual idea di essere umano, a una certa
qual idea di “persona”. Persona, nei casi delle
ragazze vittime della tratta, da assoggettare,
sottomettere, sfruttare, abbandonare e uccidere in alcuni casi.
Si può pensare ai riti vudù per quanto
riguarda le ragazze provenienti dalla Nigeria, riti
di assoggettamento psicologico; come invece
per le ragazze provenienti dall’Est Europeo l’iniziazione alla strada, come la definisco, avviene
attraverso la violenza fisica e non solo.
Riprendendo l’espressione di “corpo culturalmente modellato”, credo che tutti possano
essere d’accordo sul fatto che per le ragazze
che sono state vittime della tratta si attua un
Nota 37. cit. in A. Mary, “Conversion et conversation: les paradoxes de l’entreprise missionnaire” in Cahiers
d’Etudes Africaines, 160, XL-4.
38. Cfr. M.Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, G. Einaudi Editore, 1965.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
intervento, una trasformazione del corpo di
tipo estetico che ricalca certi modelli delle
nostre società occidentali.
Chi ha fatto un viaggio in treno o in pullman
da Torino a Milano per esempio, gli sarà capitato di vedere gruppi di ragazze (di solito nigeriane) che salgono con l’aspetto di bambine e
lungo il tragitto si trasformano; si truccano (mi
verrebbe da dire si mascherano in funzione di
questa recita che dovranno fare), si cambiano (in
treno ci sono dei veri commerci di vestiti adatti
a svolgere il lavoro), si mettono le unghie finte
e delle vistose parrucche e scendono che sono
trasformate in oggetti di desiderio sessuale.
Vediamo allora come i vestiti appariscenti
che connotano subito la donna come prostituta, il trucco, le unghie finte, il cambiamento
di pettinatura, fanno parte di tutte quelle trasformazioni del corpo e, in definitiva, di quelle
modificazioni della persona che la rappresentano in un determinato modo e le danno una
certa percezione di sé, anche attraverso un
certo modo di muoversi, attraverso un certo
linguaggio da imparare e adottare.
Mi raccontava una ragazza ucraina che le
era stato dato un quaderno con le poche
parole che doveva usare con i clienti. In modo
emblematico la prima parola da dire loro era:
“soldi”. Le altre erano “parcheggio, 5 minuti,
non si parla”. E poi altre più specifiche riguardo
alle prestazioni sessuali.
Segre, uno studioso di queste tematiche,
ha riscontrato che la percezione del mondo e
della sessualità di queste ragazze si modifica al
costo altissimo di un profondo mutamento di
personalità che è peraltro indispensabile loro
per affrontare questo tipo di vita39. Devono
apprendere velocemente l’uso dell’aggressività
e della volgarità, devono adattarsi velocemente
ai nuovi luoghi, sia di lavoro che di abitazione
(spesso sono case fatiscenti dove abitano in
spazi ristretti con altre ragazze o alberghi di
infima categoria). Anche le ore di lavoro e i
ritmi sonno – veglia sono alterati.
È importante sottolineare che c’è un vero
modellamento, una trasformazione del “chi si
è” psicologicamente e socialmente. E in questo
caso il “chi si è” socialmente è stigmatizzante,
oggetto di disapprovazione e lascia la donna
nell’esclusione e nell’invisibilità sociale. I continui cambiamenti, una continua trasformazione
di identità, diventa come una recita dei rapporti all’interno di relazioni in cui non esiste
scambio né desiderio, né affettività, ma sono
forzati e costretti nei limiti del contratto.
La prostituzione come progetto
di emancipazione
Alla luce di tutto ciò è lecito pensare che
tutto questo produca una trasformazione nella
percezione che si ha rispetto al maschile, alla
sessualità e al proprio corpo.
Vedremo più avanti che queste trasformazioni, questi modellamenti culturali, come li
abbiamo definiti, si dimostreranno ambivalenti
nei confronti delle donne vittime della tratta.
Ambivalenti in quanto se da una parte le
danno la connotazione ambigua ed emarginante della prostituta, dall’altra c’è una sorta
di attrazione.
Riguardo alla percezione della prostituzione in Romania, tra i numerosi fattori che
determinano le giovani ragazze a scegliere la
prostituzione (condizioni economiche precarie,
problemi familiari, aggressioni sessuali precedenti, matrimoni falliti e figli a carico), vi è
anche l’attrazione verso un mestiere che promette una serie di vantaggi: guadagni grossi,
possibilità di divertimento sicuro, opportunità
di incontrare uomini con buone posizioni sociali,
possibilità di proposte di matrimonio e speranze di arrivare a possedere determinati status symbol che i nostri mass media ripropongono insistentemente (abiti firmati, telefonino
trendy, gioielli, auto di lusso e così via).
Se è vero che è presente una sorta di inevitabilità a dover sottostare a certe condizioni
di sfruttamento, è anche vero che c’è il senso
di poter andare incontro a nuove “possibilità
di divenire”.
Non poche ragazze che incontriamo ci
dicono di avere lasciato al loro paese una situazione familiare difficile e dei figli piccoli.
Mi viene in mente una donna che è venuta
a Mamre e che mi ha espresso chiaramente il
Nota 39. Cfr. S. Segre, La prostituzione come costruzione sociale e l’identità delle prostitute straniere in Italia, in
“Quaderni di Sociologia”, Vol. XLIV, 22.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
suo dramma per aver lasciato in Moldavia il
suo bambino di pochi mesi ad una vicina di
casa. È scappata dal paese per sfuggire alla sua
tossicodipendenza e alla estrema povertà che
non le permetteva nemmeno di far sopravvivere il figlio.
Consapevole dei danni della droga su se
stessa e indirettamente sul figlio, sola senza
genitori né marito, è partita per l’Italia per
venire a lavorare sulla strada. Il suo progetto era
di disintossicazione autonoma e lavorare sulla
strada per poter dare un futuro a suo figlio.
Arrivata nel nostro paese è stata presa tra
le maglie di alcuni sfruttatori che l’hanno venduta a tre gruppi differenti e con i quali, racconta, non c’erano margini né di autonomia
né di negoziazione.
Ha lavorato qualche mese sui marciapiedi
combattendo tra l’astinenza della roba, la vergogna e il disgusto di sé e il pensiero del figlio
da crescere. Mi diceva che resisteva per lui, ma
poi non ce l’ha più fatta e ha denunciato.
Da quattro anni questa donna è uscita dalla
tossicodipendenza, è stata sostenuta in un percorso di reinserimento sociale ed è stata aiutata da Mamre con colloqui psicologici. Oggi
ha trovato un buon lavoro e sta per sposarsi.
Ma ha perso suo figlio che nel frattempo è
stato dato in affidamento alla famiglia a cui
l’aveva lasciato al momento della partenza.
A volte vive ancora profondi sensi di solitudine, ma ha acquistato fiducia in se stessa,
ha ricostruito la sua dignità che credeva perduta e non si sente più persa in “non luoghi”,
in balia di altri, ma ha costruito una familiarità
e dei riferimenti affettivi, difficili spesso da
ripensare una seconda volta.
Ma ho in mente anche una giovane donna
rumena (Maria, nome fittizio) la quale mi raccontava che cercava di ottenere più clienti possibili per mettere da parte il denaro che le permettesse di comprare quello che voleva per
essere “alla pari” con tutti.
Mi diceva: “…tanto gli uomini erano interessati solo a raggiungere l’orgasmo, la relazione non esisteva. Sono dei pezzi di merda e
basta. Io gli lascio fare tutto quello che
vogliono, ma poi sono io che li sfrutto e gli
faccio ripagare tutto, mi devono camminare
sotto le suole”. Maria sta seguendo un percorso di reinserimento sociale, ma ha difficoltà
83
a instaurare relazioni stabili con chiunque, e
con gli uomini in particolare è sempre viva
l’idea che oggi l’aguzzino è lei e che si vendicherà del male subìto.
In questo senso bisogna un po’ abbandonare il modello spesso riproposto della donna
vittima, andare oltre il binomio vittime/aguzzini, perché, anche se in modo invisibile,
sovente all’interno di questo tipo di coppia i
rapporti di potere sono negoziati, se non addirittura rovesciati.
Quindi al di là delle ragioni economiche,
sicuramente presenti e pressanti, c’è un altro
livello di motivazioni, a volte forse inconsce e
inconsapevoli, altre volte più calcolate, che partono tutte da un immaginario esterno fabbricato a partire dai modelli delle nostre società
occidentali, e che influenzano le spinte, i desideri, i progetti migratori delle persone che arrivano da noi.
Tutte queste trasformazioni cambiano la
percezione di sé modificando anche la dimensione della sessualità e mettendo in gioco simbolicamente la gerarchia tra i sessi.
J.e J. Comaroff prendono in esame proprio
questo aspetto: il potere di tipo imprenditoriale
che viene esercitato da queste donne attraverso una propria autonomia, per arrivare ad
avere accesso a beni e potere economico.
Uno psichiatra che lavora in una ASL di
Torino mi raccontava che in una città delle
Marche, non molto tempo fa, si è verificato il
fenomeno delle “donne russe”.
È iniziato quando un imprenditore delle
Marche è andato in Russia ed è tornato con la
moglie. La signora in questione ha impiantato
un vero business, facendo venire in Italia altre
donne russe e organizzando matrimoni con
uomini italiani.
La concertazione tra loro era realizzata in
modo tale che le donne potessero spogliare
economicamente il proprio marito, divorziare
ed eventualmente risposarsi con un altro uomo
con lo stesso fine.
La donna oggi attraverso la prostituzione
non fa altro che replicare, sul versante dello
sfruttamento dei corpi, questa consuetudine
femminile con la gestione del potere e dei beni.
Non è così infrequente che alcune donne,
dopo aver pagato il loro debito agli sfruttatori,
diventino loro stesse sfruttatrici.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
C’è una sorta di identificazione con l’aggressore e di coerenza con le economie occidentali di mercato.
La sessualità e la prostituzione
nei luoghi d’origine
Che la prostituzione sia il mestiere più
antico del mondo è un luogo comune da tutti
conosciuto. Ma vale la pena per un momento
analizzare il fenomeno, differenziando la percezione della sessualità e l’attività della prostituzione nei paesi d’origine, alla forma che si è
sviluppata recentemente nei luoghi d’arrivo
(Europa).
I paesi dell’Europa centro – orientale e dell’ex Unione Sovietica hanno avuto una sempre
crescente espansione nel circuito del sesso
commerciale, che fino alla fine degli anni ’80
presentava modeste dimensioni, o perlomeno
non si conosceva il fenomeno perché illegale
e praticato clandestinamente. Questo perché
sotto le dittature di questi paesi tutto veniva
controllato, censurato: dalle informazioni agli
studi, dal lavoro ai beni di consumo, dall’educazione ai comportamenti, dallo stile di vita alle
attitudini e ai desideri, e anche la sfera sessuale
era sottoposta a una forte censura e non esisteva una dimensione pubblica della sessualità.
Veniva controllata l’affettività (tra marito e
moglie non c’era un atteggiamento di fiducia),
e i rapporti amorosi (tra fidanzati non si parlava mai di questioni politiche e non ci si
poteva mai lasciare andare ad atteggiamenti
troppo confidenziali); la femminilità veniva
negata e la sessualità era un forte tabù in un
periodo in cui L’Europa era l’Occidente libero
che permetteva le contestazioni alle donne, la
liberazione della loro femminilità e l’esaltazione della loro sensualità
Nei paesi di regime anche le mode erano
standardizzate. Si potrebbe dire anche in questo caso che i regimi, con le loro censure, rigidità, violenze psicologiche e non, con i loro
muri reali e immaginari, hanno culturalmente
modellato i corpi, le mode, i modi di pensare,
la percezione di come essere persona, di come
vivere l’affettività e la sessualità.
Un’affettività fredda anche se profonda (e
l’intensità della loro affettività la possiamo
vedere dal molto che sono disposte a sacrifi-
care per le loro famiglie, i loro figli), un’affettività modellata (riprendendo il termine già
spesso usato) in una cultura di per sé fredda;
una sessualità negata, repressa, subita e vissuta passivamente.
Le giovani generazioni, che sono quelle
delle ragazze che vengono da noi oggi, sono
tutte concordi nel sostenere che la sessualità
era ritenuta qualcosa di sporco, di vergognoso,
di cui non si parlava mai, né a scuola, né in
famiglia, era vissuta in modo nascosto.
Non si fa fatica a pensare che la percezione
della sessualità e il rapporto con il maschile
fosse di subordinazione, dove il ruolo dell’uomo assumeva una posizione di tipo autoritario e maschilista.
Ovviamente ogni generalizzazione è fuorviante, ma intenzionalmente enfatizzo degli
aspetti che sicuramente sono stati condizionanti per molte donne dell’Est Europeo, dal
momento che i contesti culturali e sociali
influenzano anche le modalità di espressione
dell’affettività e della sessualità.
Con la caduta dei regimi che imponevano
una programmata organizzazione sociale
nasce un iniziale senso della liberazione,
seguito subito da un forte disorientamento, da
un senso di dis-organizzazione e una conseguente confusione. Non c’è più lo Stato, ma
al suo posto non c’è nulla e la gente si accorge
subito che regna il caos.
Non ci sono più certezze, punti di riferimento e le stesse istituzioni non sono in grado
di garantire nulla, nemmeno il lavoro che si
aveva fino a quel momento.
Crolla lo Stato che controlla, ma al suo
posto non nasce uno Stato Sociale che difende
i diritti dei cittadini. Tutti sono in balia di se
stessi o degli altri e non c’è la capacità di prendere in mano la situazione perché l’omologazione precedente non ha permesso che si sviluppasse un pensiero individuale, creativo,
ideativo, capace di emergere.
La caduta dei regimi provoca cambiamenti
troppo veloci che non riescono ad essere
subito interiorizzati.
Anche il vissuto della sessualità come tabù
viene rapidamente modificato, in nome di una
liberalizzazione del sesso. La prostituzione che
sotto il regime comunista veniva praticata di
nascosto perché non legale, dopo il 1989 esce
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
da un relativo anonimato e semi clandestinità
per conoscere una larga espansione.
In Romania, ma in molti paesi dell’Est,
attorno al 1993, si vede un esplosione di case
chiuse e si struttura sempre di più “l’industria
del sesso”. Dagli anni 1998 al 2002 la prostituzione dell’Est entra in una rete internazionale, dimostrando di essere in grado di creare
una rete di criminalità organizzata molto efficiente. Con l’apertura delle frontiere si aprono
i nuovi orizzonti del sesso a pagamento e la
rappresentazione del desiderio sessuale fa un
ingresso massiccio nella quotidianità, attraverso i circuiti dei mass media: Internet, video
porno, tv private, giornali, inserzioni di massaggi, offerte di posti di lavoro all’estero come
ballerina o fotomodella, finti annunci matrimoniali, spogliarelliste e quant’altro.
Secondo una ricerca di Ian Taylor e Ruth
Jamieson la crescita di consumo dei servizi sessuali può essere compresa solo se considerata
come parte della più ampia cultura delle
società di mercato40. L’allargamento di questo
consumo è parte del processo di liberalizzazione del commercio e delle attività economiche a livello globale e della più generale riorganizzazione della vita politica ed economica
attorno al cittadino consumatore, catturato in
un gorgo crescente di consumismo.
La prostituzione sembra essere sempre più
propriamente un “bene di consumo”.
Come afferma Paola Monzini la spinta a
considerare la mercificazione del sesso come
un’opportunità, agisce soprattutto sull’immaginario di giovani donne che vivono in situazioni di precarietà economica e disagio familiare, portandole a sottostimare i forti rischi di
sfruttamento spesso connessi all’organizzazione stessa in questo tipo di attività41.
Al momento del crollo dei regimi, la prostituzione, praticata di nascosto e considerata
illegale, ha iniziato a diffondersi in modo spontaneo. Molti altri paesi dell’Ex Unione Sovietica,
paesi baltici e paesi dell’Europa centro - orientale hanno conosciuto una notevole espansione nel mercato del sesso, con una specializzazione nello sfruttamento delle donne.
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È indicativo un fatto che mi è stato riferito
da una mediatrice culturale proveniente dall’Estonia: quando si chiedeva alle ragazze di
13/14 anni che cosa volessero fare da grandi,
loro dicevano con orgoglio che avrebbero fatto
le “prostitute”; questo sogno era motivato dal
fatto che le prostitute che lavoravano nei bordelli avevano vestiti costosi e guadagnavano
molto denaro, in confronto ai loro genitori che
con due lavori e dei miseri stipendi a malapena
mangiavano. L’immaginario della prostituta era
di una donna alta, magra, bella.
La prostituta era il modello da raggiungere,
un modello di autonomia, emancipazione,
libertà. Un modello che certamente permetteva di dare un aiuto economico anche alle
loro famiglie. Proprio questo si poteva ottenere
venendo in Europa.
Da ricerche sul campo si è visto, per esempio, che l’Ungheria ha una efficientissima industria sessuale, articolata sia nel campo della
prostituzione che in quello della produzione di
video e film.
Oggi quasi la metà delle persone che si prostituiscono in Europa sono immigrate. La loro
presenza ha incominciato a diventare consistente a partire dalla fine degli anni ’80, e ora
le straniere hanno un ruolo fondamentale nei
mercati di ogni paese, se pensiamo che il giro
di affari delle persone ridotte in stato di semi
schiavitù si aggira attorno ai 7 miliardi di dollari all’anno42.
Trasformazioni e differenti modalità
di reclutamento e prostituzione
La prostituzione ha assunto nuove modalità di essere praticata e la rappresentazione di
questo mestiere si è modificata.
Le nuove forme di incontro tra chi si prostituisce e chi paga sono cambiate: vengono
assunte nuove forme di reclutamento delle
ragazze per i diversi paesi dell’Europa. Le strategie alla base dello sfruttamento, che ne permettono la sua realizzazione e sviluppo,
variano anche in relazione delle nazionalità
d’appartenenza e della capacità di autodifesa
Nota 40. Cfr.I. Taylor e R. Jamieson, Sex Trafficking and the Mainstream of Market Culture in “Crime Law & Social
Change”, 32 - 1999.
41. P. Monzini, Il mercato delle donne. Prostituzione, tratta, sfruttamento, Edizioni Donzelli, 2002.
42. Cfr. P. Monzini.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
dei gruppi di donne coinvolte, nonché dal loro
“progetto migratorio” o dalla costrittività violenta o meno che subiscono per esercitare la
prostituzione.
In altri termini, si ipotizza che le organizzazioni criminali o i singoli sfruttatori abbiano
incominciato a praticare uno sfruttamento differenziale, non più solo attraverso l’uso della
violenza sia fisica che psicologica, ma nella
ricerca di consensi o modalità di “quieto
vivere” tra le parti in causa, nella possibilità di
accettare delle mediazioni per rendere strumentalmente vantaggiose le aspettative della
donna (ad esempio non essere assoggettata a
forme di violenza o torture) e degli sfruttatori
(guadagnare denaro senza entrare continuamente in conflitto con la donna)43.
Inoltre, sulla base delle tipologie e delle
modalità con la quale si esercita la prostituzione, variano i rapporti tra gli sfruttatori e le
donne coinvolte, sia nella fase di reclutamento
e di assoggettamento, sia in base alla volontarietà o meno espressa dalla donna nonché la
capacità di contrattare i luoghi dove si effettua l’attività di prostituzione44.
Per le donne dei paesi dell’Est provenienti,
in particolare, dall’Albania, Moldavia, Romania,
la modalità di reclutamento è attuata ancora
attraverso raggiri con promesse di lavoro e di
matrimonio e l’assoggettamento è basato sulla
violenza fisica e psicologica, sull’isolamento
sociale e sul controllo ravvicinato, nonché sulle
minacce nei confronti dei familiari. La prostituzione è ancora attuata sulla strada, anche se
negli ultimi anni si assiste ad uno spostamento
negli appartamenti.
Per le donne russe, polacche, ucraine, slovene, bosniache il reclutamento ha modalità di
tipo consensuale, mediante contratti attraverso agenzie di viaggio. Spesso il lavoro viene
svolto per strada, ma appare consistente anche
quello svolto nei locali di intrattenimento o in
appartamenti.
Per le donne nigeriane (si comprende anche
la tratta di persone provenienti dal Ghana,
Costa d’Avorio e Camerun), il reclutamento è
basato su promesse di lavoro e con forme di
indebitamento per sostenere le spese di viaggio e i primi mesi di permanenza nel paese
d’arrivo. Viene stipulato un contratto suggellato dal rituale vudù che vincola la donna al
rispetto assoluto del medesimo e al pagamento
del debito. I luoghi dell’esercizio della prostituzione sono generalmente per strada, anche se
in misura sempre maggiore vi è uno spostamento verso gli appartamenti o i locali notturni. Le donne presenti da maggior tempo nel
paese lavorano in appartamenti, locali notturni
o in Internet per porno video o film.
Tutte le ragazze che incontriamo a Mamre ci
dicono che lo scarto tra l’ideale sognato e la realtà
a cui si va incontro si dimostra subito abissale.
È pur vero che nei paesi dell’Est e dell’Ex
Unione Sovietica la donna, con poche eccezioni, “viveva una mancanza di libertà totale
essendo completamente sottomessa alla dominazione dei genitori o del marito” (tratto dal
documento rumeno sulla prostituzione), la sua
affettività era inibita, desessualizzata e orientata prevalentemente verso la famiglia.
Direbbe Freud: “l’amore inibito nella meta”;
la sessualità era subita e quindi vissuta in modo
passivo.
Ma se da un lato, quindi, c’è un atteggiamento marcatamente difensivo nei confronti
della sessualità, dall’altro questa dimensione
risulta per loro una possibilità di affermarsi ed
affermare dei diritti.
Per le ragazze e le donne in questione, fuggire dai propri paesi che hanno gravi problemi
sociali (alcolismo, violenze intrafamiliari,
abbandoni di minori) e pesanti problemi economici (alto tasso di disoccupazione, bassi stipendi, crescita sproporzionata dell’inflazione),
significa voler costruire progetti di autonomia
ed emancipazione, andare incontro a desideri
di individualizzazione, essere disposte anche a
sottostare alle regole dello sfruttamento da
parte di organizzazioni criminali.
La prostituzione è vissuta allora come
chiave di cambiamento per una vita diversa.
Come sosteneva una ragazza moldava: “se
devo scegliere da chi essere sfruttata scelgo tra
più sfruttatori”. È l’illusione di una scomposi-
Nota 43. Cfr. F. Carchedi, Prostituzione, migrante e donne trafficate, Edizioni Franco Angeli, 2004.
44. Cfr. F. Carchedi, La prostituzione straniera e la tratta delle donne a scopo di sfruttamento sessuale, in “Le
condizioni degli immigrati in Italia”, Agenzia romana per la preparazione al Giubileo, F. Carchedi (a cura di)
“Migrazioni. Scenari per il XXI secolo”, Vol. II, So.gra.ro Spa, Roma, 2000.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
zione del trauma che pare meno dolorosa da
affrontare ed elaborare.
Questo dà la cifra del fatto che la sudditanza (sessuale) non è più tollerata, in un
mondo dove gli scambi, anche sessuali, sono
diventati commerciali e a livello planetario.
La donna, con la sua merce, entra a far
parte del mercato e ha potere di negoziazione.
La prostituzione è la possibilità di affacciarsi a
nuove realtà e a nuove possibilità di essere.
In questo senso la prostituzione sembra
essere legata a un processo di emancipazione
o emancipazione di un “falso sé” illusorio.
Attraverso la prostituzione la donna sviluppa il
suo progetto migratorio modificando la percezione di sé e della sua sessualità.
Allora, i luoghi fino ad allora abitati vengono lasciati per altri luoghi, in fondo non
meno freddi dei loro. A ben pensarci, le nostre
città ricalcano il modello delle città nordiche,
rispetto alle quali le ragazze dell’Est possono
provare un minor senso di spaesamento, meno
perdita di senso e di luogo rispetto ad esempio
alle ragazze provenienti dall’Africa, dove il contesto ambientale è completamente differente.
L’effetto di straniamento provocato dallo
sradicamento dal proprio paese d’origine e
dalla perdita dei riferimenti simbolici e affettivi
significativi, viene enfatizzato nel caso delle
ragazze che si prostituiscono per la prima volta
in un paese straniero con un ambiente, un
clima, una cultura molto differenti dalla loro.
Nell’ambiente “nuovo” cadono i riferimenti significativi e la struttura della personalità corre il pericolo di indebolirsi e di frantumarsi. Si rafforza così un bisogno di dipendenza
affettiva da oggetti familiari che viene cinicamente sfruttato dagli sfruttatori che, sulla base
di processi di identificazione e spostamento
vengono vissuti come “protettori”.
Da un punto di vista psicodinamico si tratta
di un tentativo di colmare il senso di vuoto e di
sradicamento vissuto allontanandosi dal loro
paese.
Percorsi di cura con donne
vittime della tratta
Il lavoro condotto al Centro Mamre da
un’équipe di psicoterapeuti, psichiatri, etnopsichiatri, antropologi medici e mediatori cultu-
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rali, consiste in colloqui psicoterapeutici che
permettono alla persona di affrontare, gestire
ed eventualmente superare il dolore che crea
problema.
Molte ragazze, che provengono dal mondo
della tratta, hanno subito mille trasformazioni
e cambiato mille maschere di recita, e abbandonando quel vissuto per entrare in nuovi progetti di vita devono accettare nuove trasformazioni ed entrare in un altro percorso, quello
della protezione sociale.
Sembra di andare incontro ad una “duplice
spoliazione”: dal mondo torbido e abbietto,
dagli incontri occasionali e spesso perversi, al
mondo, in un certo qual senso, delle origini.
O per lo meno dove si vorrebbero ritrovare le
origini di se stesse.
Ma le origini sono lontane perché si è passate da continue trasformazioni di identità, da
cambiamenti spazio – temporali a modificazioni della percezione di sé.
È allora possibile costruire insieme a queste donne un progetto umano credibile?
Bisogna rompere le barriere della paura
reciproca, instaurare relazioni di fiducia,
sospendendo ogni giudizio moralistico, e
accettare le bugie o le mezze verità che vengono raccontate e che fino a quel momento
hanno permesso loro di sopravvivere; è necessario stabilire una relazione di profondo
rispetto e attraverso un ascolto attento e partecipante percorrere con loro la ri-narrazione
della propria vita rivisitando il progetto migratorio e, realisticamente, riprogettare nel futuro.
Molte ragazze, uscite dal mondo della
strada, provano sensazioni di diffidenza, sfiducia, rassegnazione, apatia, depressione, fino ad
arrivare ad atteggiamenti di aggressività, al
disgusto di sé, e a tentativi autolesivi se non
anticonservativi.
In tutto questo percorso, non facile né
scontato, si possono generare equivoci o
malintesi, dovuti alle difficoltà che spesso le
ragazze (e non meno gli operatori) trovano
all’interno delle comunità di accoglienza.
Non bisogna mai cadere nell’atteggiamento missionario o nell’illusione salvifica che,
in termini psicologici, è l’onnipotenza di sostituirci a loro con un Io vicariante.
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Rappresentazioni del corpo, della sessualià e dell’affettività in donne vittime della tratta
A volte abbiamo l’impressione che siano
deboli e fragili e che il loro Io sia destrutturato.
Ma nella maggior parte dei casi, queste
ragazze che hanno subito traumi terribili, si
sono strutturate delle difese forti e un Io aderente alla realtà.
Il primo compito durante l’ascolto è raccogliere le motivazioni e i desideri al cambiamento, ma non di meno è importante una
valutazione realistica delle possibilità di realizzazione45.
Bisogna lavorare sul presente, sul “qui ed
ora”, riducendo la portata delle ambizioni e
articolandole in obiettivi progressivi. Solo in
questo modo la possibilità del dialogo è davvero intrinseca nella situazione, è strutturale.
Creare un progetto umano credibile significa, allora, creare un contesto di ascolto su ciò
che le ragazze sono in grado di portare di loro,
della loro storia, delle loro trasformazioni, e
attraverso questo percorso poter lavorare sulle
loro risorse, riprendendo le loro parti migliori
che le aiuteranno a ricostruire fiducia, auto-
stima e identità, al fine di creare una nuova
cornice e di generare una nuova prospettiva,
con la possibilità di poter scegliere uno tra i
tanti modi possibili di essere al mondo: il loro.
Rispettando la loro soggettività di “esseri
unici”.
Ma in qualsiasi lavoro di cura non basta
usare l’ascolto, l’empatia, il rispetto o la simpatia: bisogna che la persona avverta che ci
prendiamo cura di lei.
E prendersi cura significa tenere conto dei
diversi livelli di appartenenza della persona,
compreso il livello degli antenati, degli spiriti,
dei morti, delle divinità.
Prendersi cura significa tenere conto dell’identità della persona e come questa identità
si è formata, tenere conto della ragione di
essere della persona, ancora prima della sua
storia, andare al di là di ciò che è manifesto e
lavorare attorno agli elementi impliciti del
mondo che deve rappresentare.
FRANCESCA VALLARINO GANCIA 46
Nota 45. Cfr. M. Da Pra Pocchiesa, Prostitute, prostituite, clienti. Che fare?, Edizioni Gruppo Abele, 2001.
46. Psicologa psicoterapeuta. Direttore del Centro Mamre.
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