...

Cambiamo abito

by user

on
Category: Documents
14

views

Report

Comments

Transcript

Cambiamo abito
ATTUALITÀ
Moda verde
ATTUALITÀ
Moda verde
Cambiamo abito
Nel tessile si usano molte sostanze tossiche, che inquinano
e lasciano tracce sui capi d'abbigliamento che indossiamo.
Vestire più green e sicuri però è possibile. Ecco come.
Detox: i marchi da incoraggiare
IN SINTESI
L'industria tessile
è la seconda più
inquinante al mondo
I produttori che
hanno scelto di ripulirsi
rappresentano appena
il 15% della produzione
di abbigliamento
Le esperienze delle
aziende impegnate
nell'eliminazione di
sostanze tossiche
Acquistando abbigliamento dei marchi impegnati nel
processo di eliminazione delle sostanze tossiche si
ottiene un duplice risultato: si premiano i brand più attivi
e si spingono gli altri a impegnarsi. Indichiamo i gruppi e,
tra parentesi, i principali marchi, secondo la valutazione
di Greenpeace. Da questo giudizio sono esclusi tutti gli
altri aspetti che riguardano la sostenibilità e la
responsabilità sociale (condizioni di lavoro). La lista
completa e aggiornata è sul sito www.greenpeace.org
DETOX LEADER Aziende che hanno intrapreso
azioni concrete, verificate con analisi periodiche, per
aderire alle richieste della campagna Detox: Adidas
(Reebok) Benetton (Sisley, Playlife), Burberry, C&A (Angelo
Litorico, Yessica, Your Sixth Sense, Westbury, Canda,
Clockhouse, Baby Club, Palomino, Here & There, Rodeo
Sport), Esprit (EDC), G-Star Raw , H&M (COS, Monki,
Weekday, Cheap Monday, Other Stories), Inditex (Zara, Pull
& Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarious, Oysho), Levi
Strauss & Co. (Dockers, Signature, Denizen), Limitedbrands
(Victoria's Secret), Mango, Marks & Spencer (Per Una,
North Coast, Portfolio, Indiglo, Autograph, Blue Harbour,
Ceriso, Ultimate, Brazil’s, Occasions, Collezione, Insola),
Primark (Penneys-Republic of Ireland, Early Days, Rebel,
Little Rebel, YD, Young Dimension, Atmosphere, Ocean
Club, Love to Lounge, Opia, No Secret, Denim Co., Secret
Possessions, Cedar Wood State), Puma, Fast Retaling
(Uniqlo, Compti des Cotonniers, GU, Helmut Lang, J Brand,
PLST, Princess Tam Tam, Theory), Valentino (M Missoni).
...e quelli che non si impegnano
GREENWASHER Hanno dichiarato il proprio
impegno, ma non lo hanno ancora dimostrato con
azioni concrete: Lining (Aigle, Lotto, Kason), Nike
(Converse, Hurley International, Jordan, Nike Golf).
DETOX LOSER Tra le aziende che non hanno aderito,
ecco quelle sui cui prodotti Greenpeace ha condotto
analisi indipendenti: Giorgio Armani, Bestseller (Jack &
Jones, Only, Outfitters Nation, Pieces), Diesel (Maison
Martin Margiela, Viktor & Rolf, Marni), Dolce & Gabbana,
Gap (Banana Republic, Old Navy, Piperlime, Athleta),
Hermès, LVMH Group / Christian Dior Couture (Louis
Vuitton, Céline, Loewe, Berluti, Kenzo, Givenchy, Marc
Jacobs, Fendi, Emilio Pucci, Thomas Pink, Donna Karan,
Edun, Nowness, LoroPiana, Nicholas Kirkwood),
Metersbonwe, PVH (Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Van
Heusen, Arrow, Speedo, Olga, Warner's, GH Bass & Co),
Vancl, Versace (Versus).
www.altroconsumo.it
C
oco Chanel diceva «la moda passa,
lo stile resta». Ora che la sostenibilità è diventata di moda, sarebbe
bello e giusto che diventasse uno
stile. Soprattutto nel mondo della moda, il
settore che, per definizione e per vocazione, detta gusti e preferenze. Occorre però
capirsi: la sostenibilità non è un modo per
farsi notare (greenwashing), ma per farsi
ricordare come amici veri del pianeta. Non
è più tempo di confondere il vero impegno
con le apparenze. Slogan ecologisti. Spruzzatine di verde nelle collezioni. Passerelle
con immagini di boschi lussureggianti. Pubblicità ambientate in splendidi giardini in
fiore. I panni sporchi sono talmente tanti
che è ormai impossibile nasconderli dietro
grandi stampe a motivi nature.
Un lungo strascico tossico
L'industria tessile è la seconda più inquinante al mondo, dopo quella che impiega
fonti fossili per produrre energia. Fa uso di
oltre duemila sostanze chimiche, molte delle
quali sono tossiche per l’ambiente e per la
salute. Alterano gli ambienti acquatici. Entrano nella catena alimentare. Si accumulano negli organismi biologici. Finiscono sulla
INTERVISTA
GIUSEPPE
UNGHERESE
GREENPEACE
Responsabile campagna
inquinamento
«L'impegno Detox non è un
bollino né una certificazione.
È un percorso che le aziende
abbracciano verso l'eliminazione
completa di tutte le sostanze
tossiche dai prodotti e dalle
filiere produttive del tessile,
entro il 2020. Chi aderisce
decide di seguire una road map
con scadenze ben definite».
Giuseppe Ungherese insiste su
questa premessa. «Deve essere
chiaro che si tratta di un impegno
che le aziende prendono con i
consumatori di tutto il mondo».
Perché avete pensato a Detox?
«La campagna nasce da un
problema poco noto ma molto
www.altroconsumo.it
nostra pelle. Influiscono sul nostro sistema
ormonale. Aumentano il rischio di allergie e
tumori. Quando vogliamo gratificarci con un
bell’abito nuovo, siamo abituati a confrontarci con l’estetica e non con l’etica. Con il
suo prezzo di vendita, quasi mai con il suo
vero costo sociale, umano e ambientale. E
quando lo facciamo, immaginiamo fabbriche in Cina, Bangladesh o Cambogia. Una
lontananza geografica capace di anestetizzare nella nostra coscienza anche tragedie
immani. Come quella del Rana Plaza, l’edificio crollato in Bangladesh nell’aprile del
2013, e sotto le cui macerie hanno perso la
vita 1.130 persone, perlopiù giovani donne.
Stavano lavorando anche per griffe occidentali, cucendo vestiti destinati a trovare posto
nei nostri guardaroba.
I gironi infernali dell’abbigliamento sono
però anche tra noi. Si annidano in catene di
subfornitura complesse e stratificate. Una filiera composta da tanti attori a diversi livelli,
il cui controllo sfugge a marchi che, per disattenzione o poca sensibilità, sono disposti a sacrificare i diritti sull’altare dei profitti. Come
denuncia Abiti Puliti, la sezione italiana di
Clean Clothes Campaign, molti grandi gruppi
industriali della moda hanno rilocalizzato la
produzione in Italia. Fatto positivo per l’occupazione, peccato che importino condizioni
di lavoro tipiche delle fabbriche bengalesi o
moldave. Giornate di lavoro di quattordici
ore. Salari da fame. Diritti negati. Lavoro
nero. Illegalità. È tutto raccontato negli ultimi due report di Abiti Puliti: Una dura storia
di cuoio e Quanto è vivibile l’abbigliamento in
Italia? (www.abitipuliti.org)
Andare oltre la normativa
Per fortuna, nella moda che luccica si trova
anche qualche pepita. Sulla spinta di richieste avanzate da consumatori, anche noi di
Altroconsumo, e da movimenti d’opinione
— ecologisti, umanitari e animalisti —, sono
sempre di più i brand che hanno optato per
un approccio più rispettoso dell'ambiente, in
particolare nella gestione del rischio chimico,
di cui parliamo in questo articolo. L'impegno
maggiore si concentra su tre capisaldi. Eliminazione delle sostanze chimiche pericolose
dalla produzione, il che si traduce in vestiti
"puliti". Filiera produttiva più tracciabile. Divieto di pratiche crudeli sugli animali, soprattutto dopo l'eco internazionale che hanno
avuto le denunce (documentate) delle sofferenze imposte ai conigli d'angora e alle oche
diffuso, perlopiù nel Sud-Est
asiatico e in Cina, ma anche in
Messico o in Turchia. I grandi
brand hanno utilizzato - e alcuni
ancora utilizzano - i fiumi come
delle discariche. Le sostanze
che non finiscono nei fiumi in
fase di produzione, rimangono
nei vestiti e poi sono rilasciate
nei fiumi quando li laviamo».
esattamente come gli scarichi
di alcune aziende o anche i
prodotti finiti presentassero
concentrazioni di sostanze
tossiche elevate. Siamo poi
passati a fare pressioni sulle
aziende. Dal 2011 a oggi hanno
sottoscritto l'impegno Detox
35 gruppi, cui fanno riferimento
cento marchi».
Con quali risultati?
«Per esempio un’indagine da
noi condotta in Messico rivelò
che in un fiume c’erano quasi
1.100 sostanze tossiche. Le
comunità che vivono vicino a
questi stabilimenti utilizzano
quell’acqua per vivere, per
cucinare: è la loro acqua potabile.
In queste acque pescano.
Siamo di fronte a un’emergenza
ambientale di grande portata».
Perché alcuni marchi che hanno
aderito all'impegno non figurano
nella "sfilata Detox"?
«La valutazione avviene ogni
anno. Se qualche brand non c’è, è
perché ha avuto poco tempo per
essere valutato».
Come vi siete mossi?
«Siamo partiti dalla
pubblicazione di una serie di
rapporti contenenti evidenze
scientifiche che dimostravano
I dati come sono comunicati?
«Uno dei pilastri di Detox
è la trasparenza. Tutte le
aziende e tutta la loro rete di
fornitori devono pubblicare
periodicamente sulla piattaforma
online dell’IPE, Institute of Public
and Environmental Affairs (www.
ipe.org), tutti i dati relativi alle
acque di scarico, così possono
essere consultati da chiunque
lo voglia. I dati sulle loro revisioni
devono apparire anche sul
proprio sito internet».
Diverse aziende lamentano
l'impossibilità di eliminare
alcune sostanze chimiche.
«Delle oltre 400 sostanze che
fanno parte del protocollo Detox,
si contano sulle dita di una mano
quelle per le quali c’è bisogno di
un ulteriore sforzo tecnologico
per trovare alternative più
sicure. Le aziende non hanno
più scuse per continuare
volontariamente a inquinare e a
non tutelare salute e sicurezza».
marzo 2016 • 301 Altroconsumo 13
ATTUALITÀ
Moda verde
ATTUALITÀ
Moda verde
in alcuni allevamenti. Per quanto riguarda
l'eliminazione di sostanze tossiche, ci sono
marchi che stanno dimostrando un’attenzione che va oltre il rispetto della normativa
vigente. Ne abbiamo parlato lo scorso 16 febbraio nel convegno #dirittiallamoda, organizzato a Roma. Un cambiamento sollecitato in
gran parte dalla campagna di Greenpeace,
che rappresenta una vera rivoluzione per
tutto il settore. Per la prima volta chiediamo
ai marchi dell'abbigliamento non di limitare
l’uso di sostanze tossiche. Questo è già chiaramente imposto per legge (in Europa dal
regolamento REACH) e previsto in maniera
ancor più restrittiva da diverse certificazioni
volontarie (in particolare Oeko-Tex) adottate
dalle aziende tessili. Chiediamo addirittura
di eliminarle dalla produzione, in modo che
non finiscano né nell'ambiente né sui capi
d'abbigliamento. Un'eliminazione graduale
entro il 2020, inserita in un percorso a tappe programmate e con verifiche periodiche.
Grandi pulizie in 100 case (di moda)
Nel mirino ci sono undici classi di sostanze
pericolose per l’ambiente e per la salute,
tra cui ftalati, alchilfenoli etossilati, PFC,
ammine associate a coloranti azoici, metalli
pesanti. Sostanze da noi ricercate nei test
sul tessile e in diversi casi rintracciate. Sui
pigiamini per bambini abbiamo scoperto
ftalati e coloranti; sulla biancheria intima
c'erano coloranti, solventi, metalli pesanti,
nonilfenolo e nonilfenoletossilato; sui jeans
tracce di metalli e formaldeide; sulla maglie
da calcio tracce di metalli (tutti gli articoli
sono reperibili sul nostro sito, in archivio).
Insieme a Greenpeace ne chiediamo l'eliminazione e non la semplice riduzione, perché
partiamo da un assunto molto semplice:
quando ci sono di mezzo sostanze tossiche,
non esiste una soglia di concentrazione sotto la quale il problema diventa accettabile,
anche perché siamo contemporaneamente
esposti a più fonti tossiche e si rischia l'effetto
cocktail. Questo concetto è rafforzato dalla
considerazione che i residui rintracciabili
sul prodotto finito equivalgono solo a una
piccolissima parte della quantità usata nelle
filiere di produzione. Giocoforza la maggior
parte è già finita nell’ambiente. Dal 2011
a oggi, hanno sottoscritto l’impegno Detox
35 gruppi internazionali, che rappresentano
più di cento marchi (vedi la prima parte dell'elenco a pag. 12). Tutti insieme costituiscono
circa il 15% della produzione globale di abbigliamento. Tra le aziende che rispettano gli
impegni, troviamo firme che soddisfano un
po’ tutti i gusti e tutte le tasche. Grandi griffe
del lusso (Valentino, Burberry). Marchi del fast
fashion (Zara, H&M, Uniqlo). Multinazionali
dell'abbigliamento sportivo (Adidas, Puma) e
dell’outdoor (Páramo). Discount (Lidl, Penny).
Di conseguenza, anche diverse aziende tessili
italiane, che forniscono i semilavorati ai marchi dell’abbigliamento, si stanno impegnando
a eliminare le sostanze tossiche.
Dubbi poco sintetici
In un primo momento l’iniziativa di
Greenpeace è stata accolta con scetticismo
dal mondo produttivo. Ci si chiedeva come
fosse possibile eliminare sostanze necessarie
per migliorare le performance dei tessuti:
colorare, impermeabilizzare, conferire qualità idrorepellenti e antimacchia, eliminare il
rischio di infiammabilità, prevenire l’odore
causato dal sudore, ottenere effetti antipiega. La paura era che, per venire incontro alla
richiesta di una moda verde, i tessuti perdessero in fascino e prestazioni. Che si tornasse
ad abiti puliti sì, ma “poveri”, penitenziali,
e dai costi maggiori, come era successo in
passato. Abbigliamento che non si vende,
se non a una nicchia di consumatori attivamente impegnati. Bisognava anche non
disperdere il patrimonio di saper fare che
rende la moda un concentrato di creatività
e funzionalità pratica.
Non tutti i dubbi sono stati fugati. Ci sono
Qual è il più sostenibile?
Poliestere Come tutte le fibre sintetiche, ha due punti a sfavore:
ha origine dal petrolio e non è biodegradabile. A fine vita, se non
viene riciclato, permane nell’ambiente a lungo. Vanta però basso
consumo di acqua, alto grado di automazione e minori trasporti,
visto che i luoghi di produzione della fibra e del filato coincidono.
Poliestere
Cotone
Cotone
coltivazione
raccolta e trasporto
consumo di acqua
pesticidi e fertilizzanti
emissioni e scarichi
A titolo di esempio, ecco il
confronto tra una stessa
T-shirt, nella versione in
cotone e nella versione in
poliestere. Se consideriamo
i quattro più importanti
indicatori di impatto
ambientale, il poliestere
risulta avere un minore
impatto sull’ambiente.
Poliestere
14 Altroconsumo 301 • marzo 2016
estrazione
Energia
Emissioni
e scarichi
Consumo di acqua
Alterazioni negli
ambienti acquatici
filatura e tessitura
consumo di energia
scarti di produzione o rifiuti
consumo di energia
scarti di produzione o rifiuti
estrazione di petrolio
consumo di energia
sostanze chimiche
emissioni e scarichi
naturali non avremmo più terre coltivabili.
Serve un equilibrio. E poi la sostenibilità
di un prodotto si valuta sull’intero ciclo di
vita. Per questo abbiamo intensificato la
produzione di poliestere da riciclo del PET
e stiamo lavorando per rendere sempre più
riciclabili i prodotti "man made"».
Greenpeace però assicura che alla base
delle sue campagne c'è la fattibilità: «Partiamo sempre da situazioni in cui esistono
alternative percorribili e soprattutto verdi» puntualizza Giuseppe Ungherese di
Greenpeace. «Per esempio gli alchilfenoli
vengono usati abitualmente per sgrassare,
la stessa cosa si può ottenere con metodi
alternativi, come quelli su base alcolica, che
non sono tossici. Sono solo due o tre i composti per i quali non c’è ancora un’alternativa sicura ed ecologica. Servono tra l’altro
per processi non in uso in tutte le aziende
tessili. Siamo aperti al dialogo, costruiamo
una road map insieme con le aziende».
Fonte: Blumine / Sustainability-lab e Radici Group
COTONE E POLIESTERE A CONFRONTO
Cotone Vanta un’alta biodegradabilità, ma presenta diversi
svantaggi: alto consumo di acqua e rilevante impiego di pesticidi
in fase di coltivazione, alto consumo di carburante per il trasporto
dai campi alle imprese produttrici. Non sempre le fibre naturali
sono più sostenibili. Ogni tessuto fa storia a sé.
produttori che considerano imprescindibile
l'utilizzo di alcune sostanze che la chimica
non è riuscita a sostituire con altre ecologicamente più accettabili.
Filippo Servalli, responsabile dei programmi di sostenibilità di Radici Group, azienda
italiana tra i leader mondiali per la produzione di nylon, che ha fatto del miglioramento delle sue performance ambientali un
punto di forza, pone per esempio la questione dei metalli pesanti: «Abbiamo già eliminato tutto ciò che era possibile eliminare,
resta il nodo dei metalli pesanti, come nickel e antimonio, senza i quali è impossibile
produrre fibre “man made” (chimiche ndr).
Le stiamo riducendo, servono misurazioni
precise, ma eliminarle dalla produzione
significherebbe non poter più fare fibre
sintetiche. Ogni anno si producono 24 milioni di tonnellate di cotone e 60 milioni
di tonnellate di poliestere. Se dovessimo
sostituire tutte le fibre chimiche con quelle
consumo di energia
scarti di produzione o rifiuti
emissioni e scarichi
filatura e tessitura
riciclo o rifiuto
consumo di acqua
consumo di energia
sostanze chimiche
scarti di produzione o rifiuti
emissioni e scarichi
tintura, stampa e finissaggio
www.altroconsumo.it
consumo di acqua
consumo di energia
sostanze chimiche
emissioni e scarichi
www.altroconsumo.it
confezione
lavaggio e stiro
fine vita
marzo 2016 • 301 Altroconsumo 15
ATTUALITÀ
Moda verde
ATTUALITÀ
Moda verde
Una spinta verso l'innovazione
IMPRONTE NELLA NEVE
Il paradosso dell'abbigliamento outdoor: è pensato per i grandi
amanti della natura, ma contiene sostanze inquinanti
È il più naturale dei paradossi. Amare la
natura, acquistare un equipaggiamento ad
hoc per godersela al meglio, e scoprire che
questo contiene sostanze chimiche
pericolose. Che una volta immesse in
natura non si degradano, se non in tempi
lunghissimi. Greenpeace ha testato 40
prodotti (giacche, scarpe, tende, zaini,
sacchi a pelo e perfino corde), acquistati in
19 Paesi, trovando tracce di PFC nel 90%
degli articoli. Si tratta di sostanze che si
degradano con molta difficoltà, rimangono
nell'ambiente per centinaia di anni e sono
dannose per la salute.
Usati per impermeabilizzare
«Marchi come The North Face, Patagonia,
Mammut, Salewa e Columbia continuano a
usare PFC per impermeabilizzare i loro
prodotti, nonostante si dichiarino a parole
sostenibili e amanti della natura» dice
Giuseppe Ungherese di Greenpeace.
«Abbiamo trovato elevate concentrazioni
di PFOA, un PFC a catena lunga collegato a
numerose patologie e malattie gravi come
il cancro, in 11 prodotti tra cui alcuni dei
8
Le spedizioni condotte
da Greenpeace in aree
remote, per analizzare
acqua e neve
16 Altroconsumo 301 • marzo 2016
marchi The North Face, Salewa e Mammut.
Questa sostanza è già sottoposta a
severe limitazioni in Norvegia».
Solo in 4 prodotti (il 10 per cento) non sono
stati rilevati PFC. Questo dimostra che c'è
poca sensibilità da parte delle aziende
outdoor su questi composti, ma anche che
è possibile produrre abbigliamento
impermeabile senza usarli.
Una contaminazione globale
Greenpeace ha anche condotto otto
spedizioni in aree remote, dalla Cina alla
Patagonia, dalle Alpi ai Monti Sibillini,
analizzando acque e neve fresca. Sono
stati rintracciati PFC ovunque, anche a
cinquemila metri di quota. Si tratta di
sostanze caratterizzate da un’elevata
volatilità, sono trasportate dai venti, dalle
masse d’acqua, dalle correnti marine e si
diffondono su tutta la superficie terrestre.
Una contaminazione globale che non
dovrebbe vedere coinvolte anche le
aziende dell'outdoor, che fanno dello stare
in natura il loro business. Per approfondire
vai su: detox-outdoor.org
17
I composti pericolosi nei
campioni analizzati. In
quello dei Monti Sibillini
le quantità maggiori
1
L'inglese Páramo
è il primo marchio
outdoor ad annunciare
l'adesione a Detox
Fedeli al detto secondo cui “un grammo di
buon esempio vale più di un quintale di parole”, la risposta più convincente alle aziende
dubbiose arriva da chi ha abbracciato con
entusiasmo la causa Detox. In prima linea
c'è Italdenim, azienda lombarda che produce tessuti per i jeans di prestigiose case di
moda. «Abbiamo già eliminato tutte le sostanze tossiche che il protocollo di Greenpeace
chiede di bandire. Inoltre, nei trattamenti di
nobilitazione (tintura, lavaggio e finissaggio
ndr) usiamo tecnologie che ci consentono la
massima resa con i minori consumi di acqua,
energia e composti chimici — spiega Gigi Caccia, amministratore delegato di Italdenim —.
Per di più i tessuti della nostra collezione non
hanno per niente perso in prestazioni, appeal estetico e tattile. Per rendere resistente
l’ordito alle sollecitazioni del telaio abbiamo
abbandonato il metodo tradizionale e adottato l’uso del chitosano, una sostanza organica
ottenuta dagli scarti dei crostacei usati nell’industria alimentare, quindi completamente
biodegradabile. Questo permette di ridurre
enormemente i consumi sia di acqua (fino
all’80%) sia di energia (fino al 50%), e di abbattere l’uso di detergenti, sbiancanti e altri
agenti chimici».
INTERVISTA
AURORA MAGNI
BLUMINE / SUSTAINABILITY-LAB
Presidente
Per il mondo della moda,
l’ecologia è una questione più di
marketing o di buone pratiche?
«La svolta sostenibile dei brand
è un fenomeno recente. Di certo
è un fatto positivo ma è facile
definirsi sostenibili, più difficile
è individuare le criticità dei
processi e dei materiali. E porvi
rimedio, coinvolgendo la catena
dei fornitori, per esempio per
ridurre i consumi di acqua nei
processi e le emissioni di CO2
oppure per eliminare le sostanze
chimiche pericolose. Su questi
temi abbiamo visto scendere
in campo brand famosi, specie
dell’abbigliamento sportivo ma si
tratta di una quota ancora troppo
piccola del mondo della moda».
Sostenibilità e competitività:
è un matrimonio possibile?
«In questo momento la partita
per la moda sostenibile è giocata
soprattutto sull’eliminazione
delle sostanze chimiche
pericolose, come richiesto dal
protocollo Detox di Greenpeace.
L’azienda che riesce a dare ai
materiali ottime performance,
anche estetiche, senza usare
sostanze chimiche pericolose,
diventa più competitiva ed
emerge sui concorrenti. Il
mercato premia inevitabilmente
le imprese che in questi anni
hanno investito in ricerca e
innovazione, coinvolgendo la
propria catena di fornitori».
Che ruolo hanno le certificazioni?
«Le aziende tessili hanno a
disposizione numerosi sistemi
di certificazione che prevedono,
per quanto riguarda la presenza
di sostanze chimiche critiche,
determinati gradi di tolleranza.
L’obiettivo “zero” ha spostato
la competizione su un livello più
alto, valorizzando le imprese
in grado di raggiungerlo al di
là del fatto che siano o meno
certificate. Va inoltre detto
che le certificazioni sono
raramente visibili e riconosciute
dal consumatore. Hanno però
contribuito a diffondere la cultura
della valutazione oggettiva dei
dati, pratica fondamentale in ogni
processo di miglioramento».
Il consumatore che strumenti
ha per scegliere capi verdi?
«Le etichette aiutano poco. Si
riferiscono alla composizione
fibrosa del capo, alle modalità
di lavaggio e stiro e al Paese in
cui il prodotto è stato realizzato.
Prodotti indicati come made
in Italy spesso sono fatti con
tessuti lavorati e tinti in Paesi la
cui legislazione sulla sicurezza
chimica è meno rigorosa di quella
europea. La situazione può però
migliorare. La moda potrebbe
usare etichette smart e app
per consentire ai consumatori
di leggere con lo smartphone
le performance ambientali e la
storia produttiva del capo prima
di comprarlo. In attesa che la
tecnologia digitale ci aiuti, non
ci resta che seguire le politiche
dei brand e premiare quelli che si
impegnano concretamente sui
temi che ci stanno a cuore».
L'impatto sui costi
Legittimo chiedersi da consumatori se questi
cambiamenti si rifletteranno sui costi e quindi
sul prezzo finale dell'abbigliamento. «Sono
prodotti e tecnologie onerose, però se vengono inserite in processi ben ingegnerizzati,
i costi non sono diversi da quelli della produzione tradizionale» precisa Caccia.
Insomma, chi non vuole convertirsi alla linea verde non ha alibi. Certo è che occorre
investire in ricerca e innovazione. E in questo
senso Canepa, una delle maggiori tessiture
italiane, la prima azienda tessile al mondo
ad aver sottoscritto Detox, ha fatto scuola.
È proprio nel suo centro di ricerca, in collaborazione con i laboratori del Cnr-Ismac di
Biella, che è stato messo a punto e brevettato
(con il nome di Kitotex) l’uso del chitosano
in ambito tessile. «Ora siamo impegnati a
eliminare completamente dalla produzione il PVA (alcol polivinilico), un prodotto
usato per rinforzare i filati, ma che genera
microplastiche che attraverso gli scarichi si
accumulano nell’ambiente; nei mari diventano isole galleggianti, i pesci scambiano le
microplastiche per plancton e se ne cibano,
così arrivano sulle nostre tavole» afferma
Maurizio Ribotti, a capo della comunicazione di Canepa.
Chi può invece già vantare di aver eliminato tutte e 11 le classi di sostanze tossiche
previsto da Detox è Besani, produttore di
tessuti a maglia in filo di Scozia. «Per noi il
www.altroconsumo.it
processo di liberazione dalle sostanze tossiche si è praticamente concluso. Per riuscirci
abbiamo coinvolto tutti i nostri fornitori in
questo sforzo. Li abbiamo scelti privilegiando
la condivisione di obiettivi, più che la logica
del vantaggio economico» dice Mario Riva responsabile sostenibilità di Besani. «La nostra
filiera è pulita. Anche i tessuti sono migliorati,
i colori sono diventati più brillanti».
Non solo tessuti
La campagna Detox non è solo tessuti, coinvolge anche il mondo degli accessori. Hanno
infatti aderito due produttori di chiusure
lampo, Zip GDF e Giovanni Lanfranchi. Per
loro la sfida è ancora più difficile, perché
oltre che la componente tessile devono
produrre quella metallica, la cerniera vera
e propria, che prevede il ricorso a sostanze
chimiche più aggressive. «Per mantenere
fede ai nostri impegni abbiamo dovuto rifare
molte ricette, come quelle dei coloranti, per
eliminare il cadmio. Abbiamo adottato leghe
di ottone esenti da piombo. Per liberarsi del
problema del rame, presente nell’ottone,
si potrebbe optare sempre per leghe di acciaio, ma questo comporta un aumento dei
costi» spiega Alessandro Bordegari, direttore commerciale di Giovanni Lanfranchi,
azienda nata come bottonificio nel 1887 e
convertitasi alle lampo negli anni Sessanta.
www.altroconsumo.it
Le etichette devono raccontare
Purtroppo i vestiti non parlano, non riescono a raccontarci la loro storia produttiva.
Arrivati nelle boutique e nei grandi magazzini, nessuno è in grado di valutare il loro
contenuto green soltanto toccandoli. E le
etichette — che indicano solo materiali, luogo di confezionamento, consigli di manutenzione — non sono di alcuna utilità. Di aiuto
potrebbe essere l'etichetta sulla sostenibilità,
così come un ruolo importante potrebbero
giocarlo le smart label, etichette intelligenti in grado di dialogare con smartphone e
tablet (vedi intervista in questa pagina).
nostri test, gli indumenti che la riportano
hanno in genere ottenuto valutazioni buone
sulla sicurezza chimica.
• Non acquistare pellicce e capi con inserti
in pelliccia: basta toccare per capire se sono
vere e scartarli subito.
• Evita l'acquisto di indumenti con stampe
plastificate, che possono contenere sostanze
nocive più a rischio. Se si tratta di un capo
di biancheria, preferisci il cotone, meglio
bianco o di colore chiaro. Non acquistare
prodotti con inserti in metallo che saranno
a diretto contatto con la pelle.
• Lava i capi prima di indossarli per la prima
Se vuoi indossare abiti più sicuri, scegli i marchi
attivi nell'eliminazione delle sostanze tossiche
Queste sarebbero utili anche nella lotta alla
contraffazione, che affligge il mondo della
moda più di qualsiasi altro settore.
I nostri consigli
Ecco alcuni consigli da seguire in fase d’acquisto, uso e dismissione di un indumento.
• Consulta "La sfilata Detox" su Greenpeace.
org e scegli i capi d'abbigliamento dei marchi
classificatisi come "Detox Leader".
• Tra le certificazioni prediligi Oeko-Tex: nei
volta. In molti casi questo consente di scaricare buona parte delle sostanze chimiche.
• Per il lavaggio utilizza il dosaggio minimo
di detersivo ed evita l'uso di ammorbidenti.
• Resisti alla tentazione di comprare vestiti
nuovi, anche quando sono in saldo, e fai
durare il più possibile quelli che hai.
• Se non sono troppo logori, invece di buttarli via, donali o scambiali, anche online.
Esistono siti e app, per esempio Swat Party,
nati per facilitare questo scambio.
marzo 2016 • 301 Altroconsumo 17
Fly UP