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Come già notato, la riforma legislativa del 1990 ha tracciato il
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OSSERVATORIO SULLA GIURISPRUDENZA AMMINISTRATIVA
AGGIORNATO AL 15 MARZO 2011
MARIANNA CAPIZZI
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 9 marzo 2011, n. 1468
Sulle modalità di trasmissione dell’avviso di avvio del procedimento.
Come noto, la riforma legislativa del 1990 ha attribuito al procedimento
amministrativo un’impostazione di stampo dialogico, ove preminente rilievo
assumono tutti gli istituti volti a rendere effettivo il contraddittorio.
Il capo III della l. 241/1990, intitolato alla partecipazione al procedimento
amministrativo, si apre con l’art. 7 avente ad oggetto la “comunicazione di avvio”.
Dunque, il primo atto del procedimento è proprio l’obbligo dell’Amministrazione
procedente di comunicare l’avvio del procedimento ai soggetti privati che
potrebbero risentire in maniera diretta degli effetti del provvedimento conclusivo,
così da assicurare agli stessi la possibilità di tutelare le proprie ragioni sin
dall’inizio del procedimento che li riguarda e, al contempo, di contribuire
all’esercizio del potere amministrativo.
Secondo ormai la dottrina e la giurisprudenza prevalente, infatti, la comunicazione
di avvio del procedimento svolge due importanti funzioni: da un lato consente al
privato di tutelare le proprie ragioni (c.d. partecipazione contraddittorio o in
“chiave difensiva”); dall’altro, rappresenta un utile strumento di collaborazione
attiva con la P. A., atteso che essa, nella cura concreta dell’interesse pubblico,
potrà avvalersi, in aggiunta alle proprie “conoscenze”, delle testimonianze e
produzioni provenienti da privati o da altri soggetti pubblici (c.d. partecipazione
collaborazione).
E’ per questa duplice funzione che l’istituto della partecipazione procedimentale si
differenzia dal principio del giusto procedimento. La Corte Costituzionale e la
dottrina maggioritaria hanno tenuto a precisare che i due istituti presentano un
campo di applicazione e una funzione completamente diversa: il giusto
procedimento è destinato ad operare solo nelle ipotesi di provvedimenti limitativi
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delle posizioni giuridico soggettive dei privati cittadini; al contrario, per unanime
ricostruzione dottrinale e giurisprudenziale, l’istituto della partecipazione
procedimentale delineato dalla l.n. 241/1990 è chiamato a svolgere non soltanto
una funzione tipicamente difensiva, ma anche prettamente collaborativa, in
quanto espressione di un sistema improntato all’efficienza ed imparzialità
dell’agere amministrativo.
Anche la dottrina, dal suo canto, ha notato come un’idea di partecipazione limitata
al solo profilo difensivo frusterebbe le finalità che il legislatore del 1990 ha inteso
perseguire: la trasparenza e l’imparzialità dell’azione amministrativa impongono il
rispetto del contraddittorio procedimentale; l’efficienza e il buon andamento della
stessa richiedono la collaborazione dei privati. Non per nulla, si aggiunge, nel
progetto originario della “Commissione Nigro” il termine “contraddittorio” è
stato sostituito da quello di “partecipazione”.
La giurisprudenza ha ulteriormente accresciuto il rilievo legislativo attribuito
all’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento, ritenendo che la sua
omissione costituisca una violazione c.d. assorbente, nel senso che la censura di
omessa comunicazione avanzata dalla parte ricorrente prevale rispetto a tutte le
altre, impedendo così al giudice l’esame delle altre ragioni di gravame.
Sotto il profilo contenutistico, il 2° comma dell’articolo 8 l.n. 241/1990 prevede
che la comunicazione di avvio del procedimento debba contenere l’indicazione: a)
dell’Amministrazione competente; b) dell’oggetto del procedimento promosso; c)
dell’ufficio e della persona del responsabile del procedimento; c-bis) della data
entro la quale, secondo i termini previsti dall’art. 2, co. 2 o 3, deve concludersi il
procedimento, e dei rimedi esperibili in caso di inerzia dell’Amministrazione (lett.
aggiunta dalla l. 15/2005); c-ter) della data di presentazione dell’istanza, nei
procedimenti ad istanza di parte (lett. aggiunta dalla l.15/2005); dell’ufficio in cui
si può prendere visione degli atti.
Ex art. 8, co. 1, l. 241/1990, inoltre, la P. A. ha l’onere di provvedere a dare
notizia dell’avvio del procedimento mediante comunicazione personale.
Ciò vuol dire anzitutto che la comunicazione deve essere rivolta personalmente
soltanto ai destinatari del provvedimento e non anche a terzi (c.d. carattere
personale della comunicazione); in secondo luogo, che la comunicazione deve
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essere redatta in forma scritta, così che la P. A. abbia la prova dell’adempimento
dell’obbligo comunicativo (c.d. carattere formale della comunicazione).
Generalmente però si ammette che la P. A. utilizzi strumenti telematici visto che
la l. 15/2005 ha introdotto nella l. 241/1990 l’art. 3bis secondo cui “Per conseguire
maggiore efficienza nella loro attività, le amministrazioni pubbliche incentivano l’uso della
telematica, nei rapporti interni, tra le diverse amministrazioni e tra queste e i privati cittadini”.
Inoltre, Nell’ipotesi in cui il procedimento si rivolge a un consistente numero di
soggetti, di talchè risulti impossibile o troppo difficile la comunicazione
individuale, l’art. 8, co. 3 della l.n. 241/1990 prevede che …l’Amministrazione
provvede a rendere noti gli elementi di cui al comma 2 mediante forme di pubblicità idonee di
volta in volta stabilite dalla amministrazione medesima”. Quindi l’Amministrazione ha
ampie possibilità di scelta in ordine alle forme di pubblicità alternative, con il
preciso limite, però, della necessaria idoneità delle modalità prescelte.
La giurisprudenza ha, tuttavia, sottolineato come l’art. 8, co. 3, della l. 241/1990
costituisca una norma di chiusura del sistema, destinata cioè ad operare solo in
ipotesi marginali di procedimenti di massa, e che comunque il giudice
amministrativo, adito dal soggetto che lamenti la mancata comunicazione
personale, potrà valutare l’opportunità della scelta operata dalla P. A. procedente.
Si ritiene, in particolare, che il giudice possa verificare che la scelta
dell’Amministrazione di escludere la comunicazione personale sia ragionevole e
coerente con il principio di trasparenza, che sussistevano, al momento in cui
l’Amministrazione ha agito, circostanze di fatto idonee a indurre la stessa
all’adozione di strumenti di pubblicità alternativi nonchè la concreta idoneità degli
stessi.
Nella pronuncia in esame, il Consiglio di Stato si sofferma sulle modalità in cui
può avvenire la comunicazione individuale di cui al citato articolo 8, 1° comma
l.n. 241/1990. Secondo il Collegio, ove la comunicazione di avvio del
procedimento non possa avvenire tramite consegna a mani dell’avviso al
destinatario dello stesso, non occorre l’uso della notifica a mezzo dell’ufficiale
giudiziario per soddisfare il carattere della personalità della comunicazione,
bastando, al contrario, l’uso del servizio postale: “Ove non sia possibile la
comunicazione diretta in mani del destinatario dell’ avviso di avvio del procedimento
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l’Amministrazione può avvalersi del servizio postale e, diversamente da quanto prospettato dal
primo giudice, non deve necessariamente osservare il sistema di notificazione degli atti giudiziari
a mezzo di ufficiale giudiziario”.
In questo caso, continua il Collegio, la conoscenza della comunicazione può
ritenersi avvenuta al momento della consegna materiale dell’avviso da parte del
portalettere al diretto interessato o alle persone indicate nell’articolo 38 del
secondo comma, del Regolamento di esecuzione del Codice postale approvato
con d.P.R. 29 maggio 1982, n. 655 (secondo il quale:“Le corrispondenze raccomandate
possono essere consegnate dai portalettere a persone di famiglia dei destinatari coi medesimi
conviventi, ai portieri delle case od ai direttori di alberghi, negozi, stabilimenti, uffici, manifatture
o simili, ove i destinatari siano alloggiati o addetti. È fatta eccezione per le corrispondenze
raccomandata sulle quali sia stata aggiunta l'indicazione "a lui solo" od altra equivalente nel
quale caso non possono essere consegnati a terzi”). Mentre, in caso di assenza dei soggetti
sopra indicati l’avviso di avvio del procedimento può ritenersi conosciuto alla data
di rilascio dell’avviso di giacenza presso l’ufficio postale: “Il recapito del plico a mezzo
di lettera raccomandata – strumento di cui si è avvalso il Prefetto per dare notizia dell’ avvio del
procedimento – avviene con consegna diretta al destinatario o alle persone abilitate riceverlo in
suo luogo, indicate dall’ art. 38, secondo comma, del Regolamento di esecuzione del Codice
postale approvato con d.P.R. 29 maggio 1982, n. 655. Il successivo art. 40, al quarto comma,
prevede che sia dato avviso di giacenza tutte le volte in cui non sia stata possibile la distribuzione
con consegna la destinatario. In tale seconda ipotesi si presume al conoscenza alla data di rilascio
dell’ avviso di giacenza presso l’ ufficio postale (cfr. in fattispecie analoghe Cass., lav., 24 aprile
2003, n. 6527; III, 23 settembre 1996, n. 8399)”.
Consiglio di stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 7 marzo 2011, n. 1.
Sui limiti temporali di applicazione del nuovo articolo 15 del Codice del Processo
Amministrativo.
Tra le tante novità apportate al processo amministrativo dal nuovo Codice entrato
in vigore il 16 settembre 2010, rientra quella relativa ai tempi e le modalità di
proposizione del regolamento preventivo di competenza.
Come noto, l’istituto in questione, ora regolato dall’articolo 15 del c.p.a, trovava
originariamente disciplina nell’articolo 31 della legge n. 1034/1971 che attribuiva
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soltanto al “resistente o a qualsiasi interveniente” – unici legittimati attivi – la
possibilità di sollevare l’eccezione di incompetenza imponendo, altresì,
l’esposizione delle ragioni per cui si sosteneva l’incompetenza del giudice adito
nonché l’indicazione del giudice ritenuto competente. Secondo la giurisprudenza
maggioritaria, inoltre, il regolamento di competenza poteva essere proposto anche
se la parte non si era ancora costituita presso la segreteria del T.a.r. e
indipendentemente da qualsiasi attività difensionale.
Il nuovo articolo 15 del codice del processo amministrativo ha modificato punti
nevralgici della disciplina indicata. Anzitutto, in coerenza con l’estensione
dell’inderogabilità a tutti i tipi di competenza, ha stabilito che la rilevabilità del
difetto di competenza può avvenire sia d’ufficio che su istanza di parte. Nella
seconda ipotesi, aggiunge la nuova norma, l’incompetenza può essere rilevata da
ciascuna parte, ma diversa dal ricorrente, sino a quando la causa non è passata in
decisione. Il regolamento, inoltre, deve essere proposto non più al T.a.r., ma al
Consiglio di Stato con istanza notificata alle altre parti e depositata, unitamente a
copia degli atti utili al fine del decidere, entro 15 giorni dall’ultima notificazione
presso la segreteria del Consiglio di Stato. Il legislatore ha, dunque, disatteso le
indicazione della giurisprudenza nella vigenza della pregressa disciplina (che nulla
prevedeva espressamente sul punto) secondo cui la domanda di regolamento di
competenza doveva essere depositata, a pena di inammissibilità, presso la
segreteria del T.ar. e non direttamente presso l’ufficio ricorsi del Consiglio dio
Stato. E’ venuta meno, infine, rispetto alla disciplina previgente, la necessità che
venga indicato il Ta.r. competente, onere che la giurisprudenza aveva considerato
previsto a pena di inammissibilità, estendendo tale conclusione anche all’ipotesi in
cui fossero stati indicati in via alternativa più tribunali.
Orbene, oggetto d’esame della pronuncia in commento è l’esatta individuazione
del momento a partire dal quale la normativa ora descritta può trovare
applicazione: se il nuovo regime di competenza inderogabile si applichi solo ai
giudizi promossi dopo la entrata in vigore del codice o sia applicabile anche ai
giudizi in corso e, in tale ultima evenienza, entro quali limiti.
Sul punto, ricorda il Collegio, si confrontano tre distinte tesi: secondo una prima
tesi, ai sensi dell’ art. 15 c.p.a. sussisterebbe la proponibilità del regolamento di
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competenza e la rilevabilità di ufficio della incompetenza senza alcuna
preclusione, anche per i processi pendenti e per i ricorsi proposti prima della
entrata in vigore della nuova disciplina introdotta dal c.p.a., e ciò anche in caso di
già avvenuta decorrenza dei termini per la proposizione del; secondo altra tesi, la
nuova disciplina sul rilievo di ufficio della incompetenza si applicherebbe soltanto
ai giudizi instaurati a partire dal 16 settembre 2010; secondo altra impostazione, il
nuovo regime della competenza nei giudizi instaurati prima della data del 16
settembre 2010 si applicherebbe solo se a tale data siano ancora in corso i termini
per la proposizione del regolamento di competenza con il vecchio rito.
Orbene, ad avviso del Collegio è la seconda la tesi interpretativa maggiormente
condivisibile alla luce dei principi normativi fondamentali che informano
l’ordinamento giuridico, non solo amministrativo, e delle disposizioni racchiuse
nelle norme transitorie del Codice del processo amministrativo.
Secondo il Collegio, infatti, la prima delle vie interpretative esposte, che ritiene
applicabile l’articolo 15 anche ai ricorsi proposti prima della sua entrata in vigore e
anche in caso di decorrenza dei termini prima previsti per la proposizione del
regolamento di competenza, non può ritenersi percorribile alla luce del principio
sancito nell’articolo 11 delle disposizioni del codice civile sulla legge in generale
secondo cui “La legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Detto
principio, precisa il Collegio, che trova spazio anche nel diritto amministrativo ove
viene espresso con il diverso brocardo “tempus regit actum” renderebbe
illegittima la proposizione del regolamento in questione allorché per esso si sia già
perfezionata la preclusione originariamente prevista dall’articolo 31 della l.n.
1034/1971 in quanto: “nel caso di specie l’art. 31, l. n. 1034 del 1971, espressamente
prevede (prevedeva) che l’istanza di regolamento di competenza venga esercitata entro il termine
previsto, a pena di decadenza. Si tratta dunque di un caso di preclusione e cioè della
impossibilità di esercitare un potere in conseguenza del fatto che esso non è più azionabile oltre
un certo momento del processo: autorizzarne di nuovo l’esercizio in base alla sopravvenienza
normativa comporterebbe una ingiustificata rimessione in termini. D’altra parte, poiché il
rapporto in questione nella disciplina previgente si esplicava esclusivamente nell’esercizio del
potere di parte, ne deriva che alla estinzione di quest’ultimo consegue l’estinzione del rapporto nel
suo complesso e quindi l’impossibilità di attivare i nuovi meccanismi di rilevabilità della
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eventuale incompetenza e in particolare quello d’ufficio posto in essere nel caso di specie dal
Tribunale (così Cassazione civile, III, 2 novembre 2010, n.22269 con riferimento all’art. 58
comma 3 l. n. 69/2009 pubblicata in G.U. 19 giugno 2009 e in vigore dal 4 luglio 2009,
secondo cui i commi quinto e sesto dell’art. 155 c.p.c. si applicano anche ai procedimenti pendenti
alla data del 1° marzo 2006, ma non se i termini sono già esauriti). Se ne può trarre dunque
una prima conclusione: quella della non percorribilità della prima opzione (sub a)”.
Poco convincente, secondo il Collegio, anche l’ultima delle tesi esposte che ritiene
applicabile l’articolo 15 in questione nell’ipotesi in cui il termine previgente di
proposizione del regolamento di competenza non sia ancora decorso. Detta
opzione, infatti, è in aperto contrasto con quanto dispone l’art. 2 dell’Allegato 3,
rubricato “Ultrattività della disciplina previgente”, secondo il quale “Per i termini
che sono in corso alla data di entrata in vigore del codice continuano a trovare applicazione le
norme previgenti”.
Secondo il Consiglio di Stato, dunque, l’unica tesi conforme ai principi desumibili
dal diritto positivo vigente è la seconda che limita l’applicazione dell’articolo 15
del Codice del Processo Amministrativo ai soli ricorsi proposti dopo la sua entrata
in vigore: “In conclusione, l’Adunanza ritiene che la nuova disciplina della competenza, ivi
compresi i modi di rilevabilità di cui all’art. 15 c.p.a., sia applicabile solo ai processi instaurati
sotto la sua vigenza, e cioè a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, 16 settembre 2010,
dovendosi intendere “instaurati” i ricorsi per i quali a tale data sia intervenuta la prima notifica
alle controparti con cui si realizza la “proposizione del ricorso” (cfr sentenza della Corte
costituzionale 26 maggio 2005, n. 213). Ritiene altresì che in caso di processi in relazione ai
quali sia ancora in corso il termine per la proposizione del regolamento di competenza secondo la
previgente disciplina (tenendo conto ovviamente anche della sospensione dei termini nel periodo
feriale), in ossequio al richiamato articolo 2 delle disposizioni transitorie c.p.a., si debba
ammettere l’esercizio del potere nei limiti temporali a suo tempo previsti”.
Consiglio di Stato, sezione IV , sentenza 2 marzo 2011, n. 1335
Sulla esatta ricostruzione del nesso di causalità e sulla c.d. colpa d’apparato nella
responsabilità della P.A. da ritardo nel rilascio di un provvedimento
amministrativo ampliativo.
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Come noto, la sentenza della Corte di Cassazione n. 500/1999 ha segnato il
passaggio dalla vecchia tesi restia a riconoscere rilevanza e tutela a posizioni
giuridiche soggettive diverse dal diritto soggettivo, ad una impostazione tendente
ad estendere l’ambito applicativo e di tutela dell’articolo 2043 c.c..
Prima di detto intervento giurisprudenziale, infatti, si negava la risarcibilità degli
interessi legittimi sulla base di un’interpretazione letterale dell’articolo 2043 c.c.
secondo cui soltanto la lesione di diritti soggettivi configurava danno ingiusto. Il
danno ingiusto, in altri termini, si configurava soltanto in caso di danno contra ius
(violazione di un diritto soggettivo perfetto) e non iure ( in assenza di una causa di
giustificazione). L’unica ipotesi in cui la giurisprudenza ammetteva la risarcibilità
del danno cagionato a situazioni giuridiche soggettive diverse dal diritto
soggettivo, era quella in cui un’originaria situazione di diritto soggettivo degradata
a situazione di interesse legittimo per effetto di un provvedimento amministrativo
poi annullato dal giudice amministrativo, in quanto illegittimo, si fosse ripristinata
con effetto retroattivo proprio in virtù di detto annullamento (in tal caso, ci si
poteva rivolgere al giudice ordinario per il risarcimento del danno ingiustamente
sofferto). Analogamente, si ammetteva il risarcimento nell’ipotesi in cui entrava in
gioco un diritto soggettivo non originario ma sorto per effetto di un iter
procedimentale complesso in cui un originario provvedimento amministrativo
ampliativo (concessione, autorizzazione, ecc…) fosse poi stato annullato o
revocato e tale secondo provvedimento caducatorio fosse stato impugnato e
annullato dal giudice amministrativo poiché illegittimo: anche in tal caso si
sarebbe ripristinata con effetto retroattivo la posizione di vantaggio e il privato
avrebbe potuto rivolgersi al giudice ordinario per chiedere riparazione dei
pregiudizi sofferti.
Con la sentenza n. 500/1999, si afferma un principio radicalmente differente,
anche sotto la spinta della riforma introdotta dal d.lgs. n. 80 del 1998 la quale,
ampliando il novero delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice
amministrativo, ha esteso nelle materie di cui agli artt. 33 e 34 (servizi pubblici,
urbanistica ed edilizia), il potere di disporre il risarcimento del danno ingiusto (art.
35). Secondo quanto statuito da detta sentenza: “l’articolo 2043 c.c. non costituisce
norma secondaria rispetto a norme primarie, ma racchiude in sé una clausola generale primaria,
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espressa dalla formula “danno ingiusto”, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le
caratteristiche dell’ingiustizia, in quanto lesivo di interessi ai quali l’ordinamento, prendendoli in
considerazione sotto vari profili, attribuisce rilevanza”. Il danno ingiusto, dunque, si
profila allorché venga violato un interesse ritenuto meritevole di tutela, anche se
questo non consiste in un diritto soggettivo.
In secondo luogo, continua la Corte, conformemente alle indicazioni contenute
nell’articolo 2043 c.c., per comprendere se sia configurabile una responsabilità
extracontrattuale della P.A., se si è prodotto un danno ex art. 2043 c.c. “…il
giudice…dovrà procedere in ordine successivo a svolgere le seguenti indagini: a) in primo luogo
dovrà accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) procederà, quindi, a stabilire se l’accertato
danno sia qualificabile come danno ingiusto in relazione alla sua dipendenza su un interesse
rilevante per l’ordinamento che può essere indifferentemente un interesse tutelato nelle forme del
diritto soggettivo, ovvero nelle forme dell’interesse legittimo, o altro interesse giuridicamente
rilevante…c)dovrà, inoltre, accertare….se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta della
P.A.; provvederà, infatti, a stabilire se il detto evento dannoso sia imputabile a dolo o a colpa
della P.A.; la colpa, infatti, costituisce elemento essenziale della responsabilità
extracontrattuale…”.
Orbene, nella pronuncia in esame il Consiglio di Stato si sofferma ad esaminare
due degli elementi costituitivi della responsabilità della P.A.: il nesso di causalità e
la colpa, soffermandosi, per quanto attiene a quest’ultimo aspetto, sulla
ammissibilità della figura della c.d. colpa d’apparato.
Prima di scendere nell’esame dell’arresto in oggetto occorre, tuttavia, premettere
che nel caso sottoposto all’attenzione del Collegio il ricorrente aveva lamentato il
ritardo con cui l’amministrazione era giunta a riconoscergli il provvedimento
ampliativo dallo stesso preteso (nella specie costituito da un permesso di
costruire). Come noto, il danno da ritardo si configura in caso di lesione di
interessi legittimi pretesivi e la giurisprudenza più recente tende a considerare
risarcibile tale tipo di danno solo se il privato riesca a dimostrare, da un lato, di
avere titolo al rilascio del provvedimento finale, al riconoscimento del “bene della
vita” che pretende e, dall’altro, che questo provvedimento non è stato emanato
nei termini.
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Secondo l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, inoltre, il danno da
ritardo, pur essendo riconducibile ad un danno da lesione di interessi legittimi per
le posizioni fatte valere, è comunque sussumibile nell’art. 2043 c.c. per
l’identificazione degli elementi costitutivi dell’illecito e all’art 2236 c.c. per
l’individuazione dei confini della responsabilità. In quanto tale, per ottenere il
risarcimento di tale forma di danno occorre dar prova di tutti gli elementi
costitutivi della responsabilità aquiliana: la colpa dell’Amministrazione, la condotta
illecita, il danno subito, il nesso di causalità tra la condotta e il danno.
Ciò posto in premessa, e scendendo nel merito dei principi statuiti nella pronuncia
in esame, occorre evidenziare che il nesso di causalità, come sopra anticipato, si
sostanzia nella riconducibilità del danno sofferto dal privato alla condotta
illegittima posta in essere dall’Amministrazione. Orbene, nella pronuncia in esame
il Collegio precisa che tale elemento non può ritenersi esistente allorché il danno
patito dal privato è stato il frutto di un disegno “criminoso” del dipendente
pubblico (nella specie accertato da una sentenza penale di condanna del
medesimo al reato ascrittogli e dal risarcimento del danno ivi riconosciuto alla
Amministrazione di appartenenza in ragione del comportamento tento dal
dipendente) che ha agito per il perseguimento di un interesse personale del tutto
avulso dalle finalità istituzionali dell’Ente. In tale ipotesi, afferma il Collegio, il
carattere strettamente egoistico e personale della responsabilità dell’impiegato
spezza “il rapporto organico esistente tra datore di lavoro e dipendente, senza che quanto
operato illegittimamente dal secondo soggetto possa rifluire in capo al primo”.
In merito al requisito della colpa, elemento soggettivo nella fattispecie di
responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima, la
giurisprudenza è stata protagonista di un lungo e tormentato percorso evolutivo.
L’impostazione giurisprudenziale tradizionale riteneva sussistente la colpa
dell’amministrazione una volta accertata l’illegittimità dell’atto amministrativo
(modello di culpa in re ipsa). Secondo tale ricostruzione, quindi, l’illegittimità
dell’atto amministrativo portato ad esecuzione integrava di per sé gli estremi della
colpevolezza postulata dall’articolo 2043 c.c.. La nozione di culpa in re ipsa si
fondava in particolare sul rilievo che la semplice adozione ed esecuzione di un
provvedimento illegittimo da parte di un soggetto dotato di capacità istituzionale e
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di competenza funzionale ad operare nel settore di riferimento concretasse quella
consapevole violazione di leggi, regolamenti o norme di condotta non scritte nella
quale si risolve la colpa, secondo la definizione dell’articolo 43 c.p.
La tesi della presunzione assoluta di colpa è parsa, tuttavia, incompatibile con i
principi generali della natura personale della responsabilità civile e del carattere
eccezionale
di
quella
oggettiva,
risolvendosi
nell’ingiusta
assegnazione
all’Amministrazione di un trattamento deteriore rispetto a quello degli altri
soggetti di diritto.
Tali dubbi di coerenza sistematica sono stati risolti dalla Suprema Corte di
Cassazione che, con la più volte citata sentenza n. 500/1999, supera il predetto
orientamento affermando che la colpa non è in re ipsa, nell’illegittimità dell’atto
amministrativo, essendo necessario, invece, affidare al giudice il potere di svolgere
una più penetrante indagine estesa alla valutazione della colpa quale elemento
costitutivo della responsabilità e, quindi, quale elemento da provare. A tal fine, la
Suprema Corte definisce alcuni indici identificativi della colpa individuandoli
nell’ascrizione all’Amministrazione, e non al singolo funzionario, “della violazione
delle regole di imparzialità, di correttezza e buona amministrazione alle quali l’esercizio della
funzione amministrativa deve ispirarsi e che si pongono come limiti esterni alla discrezionalità”
e chiarisce che l’indagine riservata al giudice deve riferirsi alla Pubblica
Amministrazione come apparato impersonale e non al funzionario che ha
adottato l’atto illegittimo.
Anche tale orientamento, tuttavia, è stato criticato in quanto, sebbene avesse avuto il
merito di rilevare come i criteri utilizzati per accertare la colpa delle persone fisiche
non potessero essere uguali a quelli utilizzati per accertare la colpa in capo ad un
organo amministrativo, da un lato non offriva sicuri indici di individuazione della c.d.
colpa d’apparato che sembrava coincidere con la verifica di una disfunzione
amministrativa, determinata dalla disorganizzazione nella gestione del personale, dei
mezzi e delle risorse degli uffici cui è imputabile l’adozione o l’esecuzione dell’atto
illegittimo. Tale disfunzione, però, appariva impropriamente introdotta nella struttura
dell’illecito, sia perché l’eventuale disorganizzazione amministrativa e gestionale non
è necessariamente causa dell’illegittimità dell’atto, sia perché la stessa risulta
essenzialmente
estranea
al
profilo
psicologico
dell’azione
amministrativa
immediatamente produttiva del danno.
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Non solo, ma la descrizione appena riferita ometteva qualsiasi considerazione e
valorizzazione di circostanze esimenti, con ciò precludendo, di fatto, proprio
quella penetrante indagine della riferibilità soggettiva del danno alla colpevole
azione amministrativa che si raccomanda contestualmente al giudice del
risarcimento.
Ad oggi è pacifica l’idea di non poter attribuire alla colpa dell’amministrazione
un’accezione meramente oggettiva, sì da farla coincidere con una mera
“disfunzione amministrativa”. Si accoglie, al contrario, una diversa opzione
interpretativa dell’elemento in questione il cui accertamento richiede la verifica e il
riscontro dei profili di imputabilità del funzionario agente (a titolo di imperizia o
negligenza) e non della P.A. nella sua dimensione organizzativa e gestionale, così
da poter valutare la gravità della violazione commessa dall'amministrazione, anche
alla luce dell'ampiezza delle valutazioni discrezionali rimesse all'organo, dei
precedenti della giurisprudenza, delle condizioni concrete e dell'apporto
eventualmente dato dai privati nel procedimento. Tale orientamento viene accolto
dal Consiglio di Stato nella pronuncia indicata in epigrafe che conferma: “valgono le
considerazioni di carattere generale già formulate in proposito da questa Sezione ( decisione 6
luglio 2004 n.5012) e qui da ribadirsi , secondo cui “la colpa d’apparato, stante il suo carattere
essenziale, si rivela impropriamente introdotta nella struttura dell’illecito sia perché l’eventuale
disorganizzazione amministrativa non è necessariamente causa di atti illegittimi sia perchè la
stessa risulta essenzialmente estranea al profilo psicologico dell’azione amministrativa
immediatamente produttiva di danno”.
Si noti, peraltro, che proprio in tema di prova della colpa dell’amministrazione
nell’ipotesi di danno da ritardo è di recente intervenuta una interessante sentenza
del Tar Lazio (T.a.r. Lazio, sezione III quater, n. 2704/08) che ha specificato
proprio come tale prova non possa ritenersi fornita provando il mero ritardo
dell’adozione del provvedimento, occorrendo, invece, la prova che la P.A. ha agito
con dolo o colpa grave ed, in particolare, che vi sia stato un comportamento
gravemente negligente, o una intenzionale volontà di nuocere o un agire
contrastante con i principi di legalità, imparzialità e buon andamento di cui all’art.
97 della Costituzione: “In definitiva, nel caso di richiesta di risarcimento “da ritardo” non è
dunque sufficiente un generico procrastinarsi dell’attività amministrativa per la negligenza di una
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singola persona fisica, ma è necessario che il difettoso funzionamento dell’apparato pubblico sia
riconducibile o ad un comportamento gravemente negligente; o ad un intenzionale volontà di
nuocere; ovvero si ponga in radicale contrasto con le regole di legalità, imparzialità e buon
andamento di cui all’art. 97 Cost (arg. ex Consiglio Stato, sez. IV, 11 ottobre 2006, n.
6059). Nei casi limite il difettoso funzionamento dell’apparato pubblico deve essere un effetto
diretto di comportamenti illeciti di carattere doloso di soggetti che perseguivano fini personali ed
egoistici di tale gravità da rescindere il rapporto di immedesimazione tra agente e
amministrazione, e quindi facendo ritenere del tutto estranea la loro attività alla P.A. (cfr.
Cassazione Civile, sez. III, 5 gennaio 1979, n. 31)”.
Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 8 marzo 2011, n. 1446.
Sull’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento di annullamento
d’ufficio dell’aggiudicazione provvisoria.
L’articolo 11 del Codice dei contratti pubblici articola la fase dell’aggiudicazione in
provvisoria e definitiva: “le procedure di affidamento selezionano la migliore offerta,
mediante uno dei criteri previsti dal presente codice. Al termine della procedura è dichiarata
l’aggiudicazione provvisoria a favore del miglior offerente. La stazione appaltante, previa verifica
dell’aggiudicazione provvisoria ai sensi dell’articolo 12, comma 1, provvede all’aggiudicazione
definitiva”.
Secondo
l’orientamento
giurisprudenziale
prevalente,
tra
aggiudicazione
provvisoria e quella definitiva corre una sostanziale differenza: l’aggiudicazione
provvisoria e atto della Commissione di gara con cui essa individua l’offerta
migliore secondo il criterio di selezione adottato e chiude la procedura di
valutazione delle offerte; l’aggiudicazione definitiva, invece, è l’atto adottato dal
competente organo della stazione appaltante, previo controllo e approvazione
degli atti del seggio di gara. Dunque, il primo è un atto endoprocedimentale, il
secondo è un atto definitivo che non può ritenersi meramente confermativo o
esecutivo dell’aggiudicazione provvisoria in quanto, anche qualora ne condivide e
ne recepisce interamente i risultati, presuppone una nuova e autonoma
valutazione da parte dell’organo competente alla sua adozione.
Con particolare riferimento all’annullamento dei provvedimenti di aggiudicazione
di contratti della pubblica amministrazione, la giurisprudenza distingue l’ipotesi
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dell’annullamento dell’aggiudicazione provvisoria da quella dell’annullamento
dell’aggiudicazione definitiva. Si ritiene infatti, che l’aggiudicazione provvisoria, in
quanto atto infra procedimentale, fa sorgere in capo al privato non una posizione
giuridicamente qualificata, ma solo una mera aspettativa alla conclusione del
procedimento, dunque, per essa non si ravvisa la necessità di comunicare l’avvio
del procedimento di annullamento d’ufficio. Al contrario, l’annullamento d’ufficio
dell’aggiudicazione definitiva è legittimo solo previa comunicazione di avvio, in
ragione della posizione qualificata di vantaggio costituita in capo al titolare dal
provvedimento amministrativo. Tale orientamento è condiviso dal Consiglio di
Stato nella sentenza indicata in epigrafe ove si ribadisce: “In relazione alla censura del
mancato avviso di avvio del procedimento di annullamento dell’aggiudicazione, non può non
rilevarsi che la materia dei contratti della pubblica amministrazione prevede l’articolazione del
procedimento nell’ambito del bando, L'aggiudicazione provvisoria ha natura di atto
endoprocedimentale, inserendosi nell'ambito della procedura di scelta del contraente come
momento necessario ma non decisivo, atteso che la definitiva individuazione del concorrente cui
affidare
l'appalto
risulta
cristallizzata
soltanto
con
l'aggiudicazione
definitiva;
pertanto,versandosi ancora nell'unico procedimento iniziato con l'istanza di partecipazione alla
gara e vantando in tal caso l'aggiudicatario provvisorio solo una aspettativa alla conclusione del
procedimento, non si impone la comunicazione di avvio del procedimento di annullamento in
autotutela. (cfr. da ultimo Consiglio Stato , sez. V, 13 ottobre 2010 , n. 7460)”.
Consiglio di stato, sezione V, sentenza 8 marzo 2011, n. 1443.
Sull’impugnabilità del bando di gara da parte dell’impresa che non ha presentato
domanda di partecipazione alla gara.
In dottrina e in giurisprudenza è stato, soprattutto in passato, oggetto di acceso
dibattito il problema della necessità della presentazione della domanda di
partecipazione alla gara quale condizione di impugnabilità del bando di gara. Su
punto si sono formati due diversi orientamenti giurisprudenziali.
Secondo l’orientamento giurisprudenziale più risalente il soggetto che non ha
presentato domanda di partecipazione alla procedura di gara o di concorso non ha
interesse ad impugnare gli atti della medesima procedura e ciò anche qualora la
clausola del bando asseritamene illegittima, nello stabilire i criteri per
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l’ammissione, preveda il possesso di un requisito che il soggetto non possiede.
L’interesse fatto valere dal soggetto che proponga l’impugnativa, in tale ipotesi, è
esattamente quello di potere prendere parte alla procedura malgrado il bando non
lo consenta. Ed allora, fermo l’onere di impugnare immediatamente il bando nella
parte lesiva, è evidente che l’interesse concreto fatto valere deve essere
comprovato dalla presentazione della domanda di partecipazione nel termine
perentorio fissato nella lex specialis della procedura.
Tale indirizzo, autorevolmente ribadito da Cons. Stato, Ad. Plen., 29/01/2003,
n.1 secondo cui “Ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione immediata del bando delle
clausole ritenute lesive, è necessaria la presentazione della domanda di partecipazione alla gara o
alla procedura concorsuale. La presentazione della domanda di partecipazione, nell'evidenziare
l'interesse concreto all'impugnazione, fa del soggetto che ha provveduto a tale adempimento un
destinatario identificato, direttamente inciso del bando” è stato successivamente disatteso
da una parte inizialmente minoritaria della giurisprudenza amministrativa che ha
accolto l’opzione interpretativa opposta. Secondo questa diversa impostazione,
infatti, se in linea generale l’impresa non partecipante ad una gara di appalto deve
ritenersi priva di legittimazione attiva all’impugnativa della procedura concorsuale,
ciò non vale nel caso in cui l’impresa deduca vizi incidenti sulla possibilità di
partecipare alla gara e di presentare la sua offerta. Invero, da un lato l’interesse ad
agire va sempre valutato in concreto (sicchè non può negarsi la sussistenza di un
interesse ad agire del ricorrente tutte le volte in cui la partecipazione alla
procedura selettiva è preclusa dallo stesso bando, posto che in tale caso detto
interesse si sostanzia nell’impedire lo svolgimento della procedura selettiva); al
contempo, una diversa soluzione sarebbe in contrasto con i valori costituzionali e
comunitari nonché con i principi dell’agere amministrativo sanciti nella legge n.
241/1990. Sotto tale ultimo profilo la giurisprudenza ha, infatti, osservato che:
“Non appare, infatti, conforme alla piena esplicazione del diritto alla difesa (art. 24 Cost.),
della libertà della iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e soprattutto dell’apicale principio
di portata comunitaria della libera e massima concorrenza, limitare la legittimazione di un
soggetto, sostanzialmente leso da un bando, al mero formalismo della presentazione di una
domanda che, con riferimento alla fattispecie in esame, avrebbe comportato la sicura esclusione.
Tanto anche in adesione al principio –introdotto dalla L. 241/1990 ed incentivato dalla
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successiva legislazione, attenta ad espungere gli adempimenti inutili o superflui (cfr., ad es., art.
4, lett d), L. 59/1997; art. 6, DL 357/1994 conv. L. 489/1994; art. 1, L. 537/1993)–
del non aggravamento del procedimento amministrativo, applicazione diretta dell’ulteriore e
generalizzante principio della economicità dei mezzi giuridici” (TAR Campania-Napoli, sez.
I – Sentenza 18 aprile 2002 n. 2206).
Tale indirizzo ha di recente ottenuto un autorevole avallo in sede comunitaria: con
la decisione Corte giust. C.E 12 febbraio 2004 - C-230/02 è stato affermato che<.
“Infatti, da un lato, sarebbe eccessivo esigere che un'impresa che asserisca di essere lesa da
clausole discriminatorie contenute nei documenti relativi al bando di gara, prima di poter
utilizzare le procedure di ricorso previste dalla direttiva 89/665 contro tali specifiche, presenti
un'offerta nell'ambito del procedimento di aggiudicazione dell'appalto di cui trattasi, quando
persino le probabilità che le venga aggiudicato tale appalto sarebbero nulle a causa dell'esistenza
delle dette specifiche. 30 Dall'altro, risulta chiaramente dal testo dell'art. 2, n. 1, lett.b), della
direttiva 89/665 che le procedure di ricorso, che gli Stati membri devono organizzare in
conformità a tale direttiva, devono consentire in particolare di "annullare (...) le decisioni
illegittime, compresa la soppressione delle specificazioni tecniche, economiche o finanziarie
discriminatorie (...)". Ad un'impresa dev'essere pertanto consentito presentare un ricorso
direttamente avverso tali specifiche discriminatorie, senza attendere la conclusione del
procedimento di aggiudicazione dell'appalto”.
A tale ultimo orientamento si conforma la pronuncia in esame che, tuttavia, tende
a puntualizzare un presupposto di legittimità ulteriore della deroga in esame.
Secondo il Collegio, infatti: “L’impugnazione degli atti relativi ad una procedura di gara
richiede una posizione differenziata e qualificata determinata dalla presentazione della domanda
di partecipazione alla procedura. In ossequio alle coordinate interpretative tracciate dalla
giurisprudenza comunitaria, si è ritenuto, ad avviso dell’orientamento pretorio più recente, di
prescindere da detto fattore di differenziazione nel caso di impugnazione della lex specialis di
gara da parte di un'impresa appartenente al settore coinvolto dalla procedura che, in base alle
prescrizioni del bando ritenute illegittime, verrebbe esclusa. Si è infatti reputato che il soggetto che
non ha inoltrato l'istanza di partecipazione alla procedura per l'aggiudicazione di un appalto è
titolare dell’interesse all'impugnativa laddove si tratti di soggetto operante nel settore, e, quindi,
portatore di una posizione differenziata abilitante, che miri con l’impugnativa ad impedire lo
svolgimento della procedura selettiva con quelle regole ingiustamente preclusive”.
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Tuttavia, si precisa, : “si deve soggiungere, a chiarimento della portata di tale deroga, che a
fronte di una clausola espulsiva il fattore di differenziazione e qualificazione della sfera soggettiva
del ricorrente possa essere rinvenuto nella circostanza che questi operi nel settore specifico e sia,
quindi, dotato dei requisiti soggettivi necessari, anche sul piano tecnico e finanziario, per
partecipare alla procedura. Di qui la legittimazione alla contestazione di un a normativa di gara
che introduca un ostacolo illegittimo ad una partecipazione altrimenti possibile e consentita”.
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