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Interno organizzazione (Terry)

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Interno organizzazione (Terry)
Q
uaderni per
la Formazione
“L’organizzazione”
dell’Organizzazione
di Volontariato
Logiche e strumenti
organizzativi per
il volontariato
CELIVO
Centro
Servizi al
Volontariato
Quaderni per la Formazione
“L’ORGANIZZAZIONE” DELL’ORGANIZZAZIONE DI VOLONTARIATO
Logiche e strumenti organizzativi per il volontariato
Pubblicazione a cura di:
Celivo, Centro Servizi al Volontariato
Testi di:
Teresina Torre 1, professore incaricato di Organizzazione del lavoro presso la Facoltà
di Economia di Genova e collaboratore del Cenpro - Centro di ricerca sulle organizzazioni senza scopo di lucro.
SERIE QUADERNI PER LA FORMAZIONE CELIVO
1
L’autrice è professore di organizzazione aziendale presso la Facoltà di Economia
dell’Università di Genova; ha collaborato con il Cenpro-Centro di Ricerca sulle Organizzazioni
senza scopo di lucro della stessa Università ed è da sempre interessata agli approfondimenti
sulle questioni organizzative nel mondo del volontariato; è anche componente del Comitato
Scientifico di Celivo.
Quaderni per la Formazione
Indice
Una prima premessa: tanti buoni motivi per occuparsi di organizzazione
3
Una seconda premessa: organizzazione e volontariato,
buon senso e buon cuore
8
1
A cosa serve l’organizzazione?
12
1.1
Tra l’ovvio ed il meno ovvio
13
1.2
Almeno due prospettive
15
1.3
Una possibile delimitazione del campo (nel panorama delle definizioni)
17
1.4
La questione dei fini dell’organizzazione
18
1.5
Efficacia ed efficienza, condizioni organizzative
20
1.6
Un criterio “non organizzativo”
22
1.7
Tirando le fila
23
2
I fondamenti organizzativi
24
2.1
I concetti in gioco
24
2.2
Differenziazione ed integrazione
25
2.3
Coordinamento ed interdipendenza
27
2.4
L’organizzazione e i comportamenti individuali
32
2.5
La coerenza, un criterio fondamentale
33
2.6
Un breve riepilogo
34
3
La progettazione organizzativa
34
3.1
Logiche e metodologie di progettazione
36
3.2
Forme e strutture organizzative
38
3.3
Le determinanti del comportamento organizzativo
40
3.4
Il potenziale di opportunismo e l’incertezza
42
3.5
Cambiamento e stabilità in equilibrio dinamico
44
4
Le funzioni essenziali
46
4.1
Le attività primarie
47
4.2
Le “altre” attività
49
4.3
I sistemi operativi
50
1
Quaderni per la Formazione
5
L’organizzazione del lavoro (dei volontari)
52
5.1
Di cosa stiamo parlando?
53
5.2
I concetti di base
53
5.3
Quali approcci?
56
5.4
Lavoro volontario e lavoro professionale
57
5.5
Lavoro volontario e nuove tecnologie
58
5.6
Qualche suggerimento operativo
59
In conclusione: l’organizzazione per uno scopo,
2
lo scopo per l’organizzazione
60
Riferimenti bibliografici (e dintorni...)
62
Quaderni per la Formazione
“Se vuoi costruire una nave
non radunare gli uomini per raccogliere la legna e distribuire i compiti,
ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”
(A. Saint-Exupery, 1943)
UNA PRIMA PREMESSA: TANTI BUONI MOTIVI PER OCCUPARSI DI ORGANIZZAZIONE...
Nella percezione diffusa il termine organizzazione (e le tanti varianti, annesse e connesse, che la
lingua italiana ci mette a disposizione in quanto verbi, aggettivi ed avverbi) evoca l’idea di qualcosa che funziona (tendenzialmente bene, ma questa precisazione rientra già in una sfera di
valutazione soggettiva su cui si potrebbe discutere..), di qualcosa che produce risultati, dando
l’impressione che siano di più e migliori di quelli che ciascuno otterrebbe con il proprio impegno,
risultati buoni (vale a dire, qualitativamente apprezzabili e - perché no? – anche quantitativamente interessanti, tali da giustificare l’esistenza di un’organizzazione, appunto) il cui ottenimento rende immediata la correlazione tra tali esiti ed una qualche misura organizzativa (magari non precisamente chiara) che, però, li spiega.
E’, potremmo azzardare, una parola “solida”, “robusta”, che si tende comunque ad associare a
giudizi positivi, per sottolinearne la bontà, la validità, la consistenza e l’effettività.
L’organizzazione, l’essere organizzato di qualcuno o di qualcosa, ci predispone favorevolmente,
fa scattare un “pregiudizio” (inteso nel valore etimologico del termine e quindi di giudizio che
viene prima, che in ciò affonda le sue radici, nelle esperienze fatte, nelle comunicazioni ricevute…), pregiudizio favorevole e, pertanto, aperto ad apprezzarne ogni spunto.
Spesso un po’ magicamente evocata come ragione esplicativa ed esaustiva di ciò che procede e
fila per il meglio, l’organizzazione – ma anche l’essere organizzata (per richiamare già da ora
la polivalenza del termine che riprenderemo più avanti) di un’associazione, di un gruppo, di una
aggregazione più o meno spontanea di volontari (ma non solo di volontariato, potremmo osservare, per sottolineare come la questione organizzativa, in un certo qual modo, travalichi i tradizionali confini tra ambiti istituzionali e prescinda da quelle che sovente consideriamo le spiegazioni all’origine delle varie realtà) – sembra materializzarsi quasi per magia, senza che ci si attardi a chiedersi da dove salti fuori (quanto meno sino a quando non vacilla e se ne percepisce la
mancanza), quale prodigio (o, forse sarebbe meglio dire, quale impegno) la renda possibile,
quali condizioni (predisposte ed accettate) la producano.
Al contempo, però, la sua (eventuale, ma ahimé non rara) assenza viene sottolineata bonariamente, quasi potesse – all’occorrenza – diventare un attributo aggiuntivo non necessario (lo scopo
che preme, la “causa” che si sostiene possono essere raggiunti ugualmente senza una buona
organizzazione e comunque contano di più di una buona organizzazione); anzi, essa – la buona
organizzazione - appare (pensiero, forse, non palesemente esternato, ma sottilmente formulato
nella mente di chi è impegnato nella nobile “causa” di un’associazione di volontariato) quale
meta ardua da raggiungere per chi, per vocazione e mestiere, fa altro, si occupa della “causa”
3
Quaderni per la Formazione
e del raggiungimento degli obiettivi concreti, come se questi potessero “prescindere da”: prescindere dalla dimensione organizzativa, da ciò che questa, nei fatti, comporta in quanto condizione basilare per lo svolgimento delle attività, in quanto requisito di funzionamento delle iniziative ed anche in quanto presupposto per un impiego ottimale di tutte le risorse (anche di quelle
che – non implicando esborsi monetari – sembrano non incidere, sembrano valere poco..).
Insomma, per qualsiasi verso si rigiri la “faccenda”, le questioni di tipo strettamente organizzativo (ci si accontenti, per il momento, di questa formulazione generica, perché già il dettagliare
meglio cosa l’espressione “questioni organizzative” significhi richiederà un po’ di spazio e di
riflessioni) costituiscono uno dei versanti delicati del mondo del volontariato, di cui con sempre
maggior frequenza si percepisce la rilevanza.
Per quella sua parte formata da associazioni di dimensioni più modeste, un assetto organizzativo adeguato (e l’aggettivo - che una qualsiasi grammatica ci spiegherebbe essere qualificativo è importante proprio nella sua dimensione linguistica, qualificante: adeguato, cioè, lo si ribadirà
sino alla noia, idoneo, confacente, consono allo scopo) può divenire un obiettivo impegnativo
(che finisce nei fatti per essere accantonato, perché troppo arduo da perseguire) simile ad un
irraggiungibile miraggio che, con il passare del tempo, appare prospettiva sempre più seducente quanto irrealizzabile e, quindi, trasformato implicitamente in un limite allo sviluppo dell’associazione, che su altro dovrebbe impegnarsi.
Per le altre associazioni – quelle di maggior dimensioni che non possono, nei fatti e per i loro
numeri, sottrarsi al confronto costante e continuo con gli aspetti organizzativi - può emergere il
rischio che l’attenzione alla macchina organizzativa prevalga e, a poco a poco, si sostituisca alla
cura (sempre necessaria, essenziale) per la ragione esistenziale (la mission), trasformando (quasi
inconsapevolmente) l’organizzazione da strumento a scopo, in forza di una (pur nobile) tensione al funzionamento ed alla sua sempre migliorabile azione, che via via distoglie l’attenzione
dalla forza ideale, dirompente motore di un volontariato che sa perchè esiste e che trova in questa consapevolezza la ragione per far procedere la macchina (o l’organismo, per richiamare due
delle più note metafore organizzative che enfatizzano, la prima, l’efficienza e la precisione e, l’altra, l’adattabilità e la mutabilità), per concentrarsi sugli ingranaggi (o sui meccanismi) del funzionamento.
Insomma, riconosciuto come problematico innanzitutto degli stessi operatori che il volontariato
vivono, il nodo organizzativo (che è innanzitutto questione interna ma non è scevro dalle ripercussioni prodotte nei confronti del mondo e degli interlocutori esterni) viene, in parte, spiegato
dalle caratteristiche di prevalente attenzione alla dimensione operativa e di marcata proiezione
verso l’obiettivo e, in parte, collegato ad una effettiva carenza di strumenti (semplici) adeguatamente declinati, vale a dire correttamente pensati (per il volontariato) ed impostati in maniera
finalizzata (alle concrete realtà, agli scopi ed ai vincoli del volontariato), proposti con snellezza
e chiarezza, mirati alla loro efficacia in contesti naturalmente (e verrebbe da dire fortunatamente, come si avrà modo di chiarire oltre) poco propensi alla strutturazione (che finisce per irrigidi-
4
Quaderni per la Formazione
re l’assetto ed assorbire energie oltre ogni lecito) e dotati, comunque, di risorse scarse, la cui entità tende a diminuire ancora (per scelta e per condizione) quando si tratta di destinarne ad attività di supporto, che non siano percepite come assolutamente indispensabili e, quindi, degne di
sottrarre mezzi alla nobile causa di impegno prioritario.
Ecco allora che l’ambizione del presente testo è proprio quella di fornire alle organizzazioni (più
o meno organizzate che siano) un’occasione che consenta loro di conoscere i tanti volti dell’organizzazione e dell’agire organizzativo, apprezzarne le specificità, scegliere orientamenti e dispositivi organizzativi che ne favoriscano la crescita ed il consolidamento, impegnando in ciò
consapevolmente le risorse necessarie (quelle necessarie e non di più) e creando, quindi, le premesse per liberarne altre e, soprattutto, per migliorare l’azione (verso il proprio interlocutore prioritario, i portatori dei bisogni cui si intende dare risposta) ed il clima (l’aria che si respira nelle
associazioni stesse). Condizioni, queste, non scindibili, quanto meno nel medio e lungo termine,
quando cioè diventa sempre più evidente che il grado di soddisfazione di colui al quale ci rivolgiamo dipende dal grado di soddisfazione di colui che è il nostro tramite (il volontario che opera
e che opera meglio, in condizioni più soddisfacenti, laddove il suo agire si collochi in un ordine
ed in una chiarezza di premesse e di scopi, garanzia per sé e per il buon nome dell’associazione, uno degli elementi del “patrimonio” che possediamo e di cui occorre aver cura).
La premessa implicita, il giudizio di valore che sottosta a tutto il ragionamento, è la positività riconosciuta al (ma prima ancora incarnata nel) mondo del volontariato, in forza della quale è interessante preoccuparsi del suo buon funzionamento. Non occorre, ovviamente, attardarsi a spiegarlo, basti precisare che esso esiste non come residuale “tappabuchi” rispetto al panorama degli
interventi gestiti da Stato e Mercato, dal soggetto pubblico in prima persona o dalle imprese.
Esiste come originale presenza, come espressione di tentativi di risposta a nuove esigenze e a rinnovati bisogni, sia di tipo economico che sociale, la cui capacità di interpretazione la storia ben
documenta, proprio nel nostro paese.
La questione è, quindi, come favorire il perdurare di una tensione verso i luoghi in cui le urgenze si manifestano, come stimolare una sensibilità verso il tessuto di appartenenza, limitando il
rischio di involuzione anche per ragioni di incapacità organizzativa.
Da dove iniziare, quindi, ad avvicinarsi ai temi organizzativi? E’, come spesso accade, la domanda più difficile cui dare risposta. Ma quando si arriva a porsela, in maniera non rituale né retorica, significa che si è gia a buon punto.
E’ la domanda che nasce quando dall’entusiasmo dell’avvio - magari impetuoso - di un’avventura di volontariato - si passa alla consapevolezza dell’esigenza di darsi un assetto, di sistemare le
parti per garantire continuità e regolarità, per non essere sempre con l’affanno nell’azione e con
il fiato sospeso rispetto all’esito.
E’ una bella sfida: come affrontarla? Per quanto scontata possa apparire la risposta (sennò non
saremmo qui impegnati a declinarne ogni sfumatura possibile), la soluzione al quesito parte da
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Quaderni per la Formazione
questo “manuale”. Leggendo con attenzione le pagine seguenti (che scommettono sulla loro capacità di essere utili), per fare quel lavoro di paragone con la propria realtà, per riflettere su come
farlo e, quindi, su come sia possibile provare ad utilizzare qualche chiave interpretativa e qualche strumento operativo.
Certo, non si troveranno qui risposte esaustive a tutti i problemi. Non sarebbe possibile e non è
neppure l’intento perseguito. Ogni organizzazione di volontariato è diversa dall’altra e quello
che va bene per l’una non è detto funzioni per l’altra. Ciascun contesto è specifico e solo chi lo
vive quotidianamente lo conosce davvero; piuttosto, quel qualcuno ha bisogno di “occhiali” per
mettere a fuoco quello che ha davanti agli occhi e vederlo meglio: quante volte ci si accorge di
aver bisogno di “una cassetta per gli attrezzi” e, soprattutto, di “istruzioni per l’uso” di questi
attrezzi. Le soluzioni di rapida applicazione di “quello che ha funzionato per altri” non sempre
garantiscono soluzioni efficaci. Ci si consenta un esempio banale, ma di sicura eco nell’esperienza di ciascuno: è come quando si soffre di un qualche disturbo e si tenta di curarlo utilizzando
la prescrizione medica redatta per un’altra persona, la cura sarà anche quella corretta, ma spesso non risolve perché non è stata applicata alle caratteristiche di quel nuovo paziente …..
Il testo che viene proposto nelle pagine successive è stato scritto con la consapevolezza che la
complessità e la varietà del mondo del volontariato sono tali da non poter essere ridotte senza
semplificazioni che finiscano per essere distorcenti. La sua ambizione è quella di essere letto con
interesse da quanti nelle organizzazioni di volontariato si sentono stimolati a chiedersi le ragioni dell’impegno volontario e a tentare di organizzare, passo dopo passo, risposte a questo, che
abbiano come motivazione prioritaria quella di facilitare tale impegno, nella sua dimensione sorgiva come in quella quotidiana .
Chi si occupa di volontariato esprime spesso (e se non lo comunica apertamente, lo lascia di
norma trasparire) la convinzione (fondata?) che il mondo del volontariato “è un’altra cosa, che
qui ci si arrangia, che bisogna accontentarsi di fare come si può”. L’organizzazione, quella
“nobile e altisonante” è riservata per altri tipi di realtà.
E’ proprio così? Vorremmo, almeno, instillare il dubbio e proporre un approccio diverso. Quello
che il Giorgio Gaber (ci si perdoni il riferimento poco accademico, ma molto personale e, spero,
condiviso) definirebbe del “si può” (qualcuno ha sicuramente presente quella sua canzone, contenuta nell’album “La mia generazione ha perso”). “Si può, siamo liberi come l’aria, si può siamo
noi che facciam la storia, si può…”
Se da tempo è diffusa la consapevolezza che la gestione è necessaria (non distoglie dalla mission) e non può essere affidata all’improvvisazione (anche piena di buona volontà) di qualcuno
e se sono in molti - tra coloro che operano nel volontariato - ad aver imparate dalla propria esperienza che di management c’è bisogno, spesso manca però la mentalità, si resta come disorientati davanti all’esigenza di approcciare un problema.
Per fare meglio il mestiere che l’organizzazione non profit si è scelta - è necessario, insomma,
6
Quaderni per la Formazione
fare bene anche un altro mestiere, quello di colui che utilizza e combina le risorse, scarse e preziose. Anche se – e questo non ci si stancherà di rimarcarlo - tale mestiere va praticato con attenzione alle peculiarità del mondo del volontariato.
Che fare? Da dove iniziare? Come muoversi?
E’ innanzitutto importante imparare a conoscere la propria organizzazione, imparare ad organizzare le attività in forza delle esigenze strutturali e delle disponibilità, imparare a suddividere
i compiti, a fissare delle regole che facilitino (nei fatti e non solo nei proclami) l’agire di ciascuno (ed a fare in modo che così siano percepite da tutti, vecchi e nuovi) perché ciascuno possa
contribuire ad andare avanti al meglio.
Apprendere, insomma, a curare ogni aspetto, perché occupandosi di ogni aspetto si fa crescere
l’organizzazione e più ci si avvicina all’obiettivo che essa si è posta. Insomma, occorre prendere sul serio l’organizzazione dell’organizzazione…
Chi si approssima ai temi di organizzazione non necessita di esposizioni sulla storia del pensiero, né di accattivanti ricette applicative, gli occorrono strumenti di lettura della complessità organizzativa e criteri utili ad orientare l’attività progettuale e l’intervento. Sappiamo che gli assetti
organizzativi non si progettano a tavolino (magari…), ma si realizzano mediante interventi sempre esposti all’interazione sociale ed alle scelte di comportamento espresse dai diversi soggetti
che si fondano, però, su criteri e strumenti per un disegno razionale di strutture e meccanismi consapevolmente messi in atto per costruire l’organizzazione.
Ci si ripropone, in altri termini, di far fiorire da queste pagine un’attenzione “aperta” alle ragioni che stanno dietro l’esistenza di un’organizzazione, nella convinzione che solo il paziente ed
umile impegno a tradurre nella propria realtà le tante possibili indicazioni possa dare esiti, il che
significa condizioni che consentano alla nostra organizzazione (appunto) di far meglio il mestiere che si è scelto. L’organizzazione è a servizio di uno scopo, non può essere lo scopo: proprio
per questo – per l’importanza dello scopo - occorre farla bene. L’organizzazione.
7
Quaderni per la Formazione
“Ciò che la persona vuole e ama
influenza ciò che la persona vede
e ciò che vede influenza ciò che vuole e ama”
(H. Simon, 1947)
UNA SECONDA PREMESSA: ORGANIZZAZIONE E VOLONTARIATO,
BUON SENSO E BUON CUORE…
Per quanto sia a tutti (ai destinatari primi di questo volume, certamente, agli altri che lo vorranno leggere, auspicabilmente) noto cosa significhi l’espressione “organizzazione di volontariato”
e cosa si intenda con ciascuno dei due termini che la compongono - “organizzazione” e “volontariato” - può essere utile introdurre le considerazioni in tema, che verranno sviluppate nei capitoli seguenti, con una ripresa dei riferimenti normativi di base ed alcune riflessioni di contorno,
per metterci d’accordo sul significato e sul valore degli stessi e inquadrare l’oggetto di questo
volume.
Sulla definizione di organizzazione di volontariato ci viene incontro la legge n. 266/1991 intitolata “Legge quadro sul volontariato” – della cui revisione da tempo si discute, ma che resta per
il momento il punto normativo di riferimento. Tale legge, come è risaputo, la descrive all’art. 3 in
questi termini:
“è considerato organizzazione di volontariato ogni organismo liberamente costituito al fine di
svolgere l’attività di cui all’art.2 (vale a dire – riprendendo ancora il testo - quella prestata in
modo personale, spontaneo e gratuito ... esclusivamente per fini di solidarietà) che si avvalga in
modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti”.
La legge n. 383/2000 - dedicata alla “Disciplina delle associazioni di promozione sociale” presenta una formulazione analoga, pur non usando il termine organizzazione, ma impiegando nel
testo già una delle possibili declinazioni giuridiche - uno dei vestiti, potremmo dire, che l’organizzazione può indossare, e che di fatto viene di norma utilizzata come sinonimo (anche se non
sempre con il massimo del rigore terminologico, ma in forza del riscontro oggettivo in base al
quale questi tipo di organizzazioni è prevalentemente un’associazione). L’art. 2 si esprime nei termini seguenti:
“Sono considerate associazioni di promozione sociale le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto
della libertà e dignità degli associati “
e l’art. 18 precisa che esse
“si avvalgono prevalentemente delle attività prestate in forma volontaria, libera e gratuita dai propri associati per il perseguimento dei fini istituzionali”.
8
Quaderni per la Formazione
Entrambi i soggetti - le organizzazioni di volontariato propriamente dette e le associazioni di promozione sociale - perseguono un fine (solidale in un caso, di utilità sociale, nell’altro) avvalendosi in modo determinante e prevalente (prevalentemente) di prestazioni volontarie e gratuite
(“personali” per la prima norma, “libere”, precisa la seconda): finiscono per essere, entrambe,
“organizzazioni di volontariato”, quanto meno dalla prospettiva che qui ci interessa sottolineare.
In altri termini: organizzazioni, cioè ambiti in cui si sviluppano processi di azione e di decisione,
in cui l’organizzazione ed i soggetti non si separano e in cui prevalgono ordine, regole verso uno
scopo; di volontariato, cioè che impiegano quella preziosa risorsa che non viene remunerata per
l’impegno che profonde.
Per l’argomento che ci siamo riproposti di esaminare in questo testo, vale a dire gli aspetti organizzativi, non è rilevante la natura della finalità ultima (fini di solidarietà o di utilità sociale, che
peraltro giudichiamo nobili entrambi per la nostra cultura e nella nostra società): poco cambia,
rispetto alle questioni che riguardano il come “organizzare l’organizzazione”, che la nostra
organizzazione ricada sotto la giurisdizione della L.266/91 o che si muova sul terreno delimitato dalla L.383/00. Entrambe hanno problemi organizzativi e gestiscono i loro problemi organizzativi facendo ricorso ad una risorsa, preziosa da una molteplicità di punti di vista, ideali ed
economici.
Organizzazione, volontariato.
Organizzazione di volontariato: propongo, nell’ambito della presente esposizione, di considerare il legame tra questi due mondi come “co-sustanziale”. L’organizzazione come sintesi espressiva di efficacia, efficienza e quanto altro ci venga in mente per sostenere l’idea forte di un agire
razionale (verso uno scopo); il volontariato come esperienza di gratuità e verso la gratuità.
Facilitato, non solo: favorito e coltivato laddove l’organizzazione (a tutto tondo) entra in campo.
In altri termini, la sottolineatura che preme mettere in evidenza in modo chiaro è che organizzazione di volontariato, volontario e gestione dell’organizzazione costituiscono tasselli di uno stesso mosaico.
L’organizzazione di volontariato (ma è una prerogativa dell’organizzazione in quanto tale)
potenzia l’azione volontaria, ne moltiplica gli effetti a 360°, ma senza una gestione, una semplice gestione - che in qualche modo sottragga allo scudo dell’alibi del “non ne siamo capaci” (vale
a dire, senza un’azione che favorisca il raggiungimento dello scopo prefisso nelle condizioni
migliori), rischia di far disperdere energie e di ostacolare, nei fatti anche se non nelle dichiarazioni di intenti, il raggiungimento dei risultati prefissati. Almeno qualche volta, è capitato a tutti
di osservare una bella e nobile iniziativa e di riflettere sul fatto che avrebbe potuto dare di più se
fosse stata meglio gestita, ma che, ahimè, ci si accontenta di qualcosa di meno sulla scia del fatto
che la fatica del volontario non costa (quanto meno, non in modo diretto), che il buon funzionamento richiede logiche diverse, che alla buona volontà si guarda con occhio meno severo, abbassando il livello delle aspettative proprio sull’ottimalità dell’uso delle risorse……
9
Quaderni per la Formazione
Il solo riferirsi all’organizzazione rimanda all’azione organizzativa, vale a dire all’approccio
intenzionale dei soggetti che la generano ed alla dimensione cooperativa dell’organizzazione,
per la cui esistenza occorre l’attiva e fattiva collaborazione di tutti quelli che la compongono:
Chester Barnard, uno tra gli studiosi di organizzazione più interessanti e che avremo modo di
conoscere meglio, ci rammenta che un’organizzazione esiste quando ci siano persone in grado
di comunicare le une con le altre, disposte a dare un contributo individuale con l’intento di perseguire un fine comune. Si tratta di una definizione semplice, forse anche intuitiva, ma ricca di
spunti che ci consentono di cogliere gli aspetti centrali del ragionamento che si svilupperà nel
corso del volume. Le condizioni per l’esistenza di un’organizzazione sono tre, al margine di una
(meno ovvia di quanto possa apparire, come tra breve si rimarcherà): occorrono persone (presupposto non ovvio) che comunichino (dove il comunicare si declina in una pluralità di sfumature) e che offrano il proprio apporto (lo diano, cioè non si limitino a proclamare di farlo, e che sia
un contributo reale, non diretto ad altro) rivolto ad uno scopo condiviso (quello su cui si sostanzia la mission dell’associazione).
Le persone: pare banale, ma tutti sappiamo quanto non sia poi così facile attirare volontari, nonostante i tanti annunci sulla propensione degli italiani a fare volontariato… Non è questo l’argomento a tema e non ci si addentrerà in alcuna considerazione. Ci si limiterà ad osservare che il
lavoro della ricerca e della cura dei volontari è facilitato dove un livello organizzativo minimale
è presente.
Allora, la gestione diventa l’azione naturale e spontanea dell’organizzazione, anche se non del
tutto intuitiva, da imparare, da prendere sul serio. Ma anche le cose che più ci sembrano evidenti,
spesso, necessitano di essere apprese, interiorizzate rielaborate. Certo, una predisposizione
innata alle relazioni umane, all’ordine aiutano e favoriscono un approccio maggiormente “organizzato”, ma c’è una dimensione culturale di sensibilità e di attenzione, che va coltivata per creare le precondizioni di contesto, e una dimensione di “tecniche”, che possono essere utilmente
impiegate, su cui qualche considerazione specifica può essere utile.
Come cercheremo meglio di capire, una buona organizzazione serve soprattutto perché efficacia ed efficienza (gli slogans che tutto sembrano magicamente riassumere, invocati come parola
d’ordine risolutiva, ma che davvero indicano un buon funzionamento, se ben capiti nella loro
complementarietà…) siano contemporaneamente perseguite. Nella dinamica del mondo cd. profit è l’equilibrio tra costi e ricavi che consente di verificare la bontà dell’andamento. Laddove,
come nelle nostre organizzazioni di volontariato, questo non è – perché la dinamica dei valori
d’uso segue logiche diverse – manca un indicatore (rozzo, ma utile) che suggerisce se stiamo
gestendo bene o male (e questo è fondamentale perchè significa sprecare risorse…) ecco che l’attenzione all’organizzazione diventa indispensabile (e non solo perché porta acqua al mulino di
questo manuale…)
E’ questo uno degli aspetti sui quali maggiormente si vorrebbe richiamare l’attenzione: lo spreco
di risorse, la possibilità che con un buon assetto organizzativo, questo sia ridotto al minimo (e -
10
Quaderni per la Formazione
perché no? - anche cancellato). Ecco che allora l’ordine, le regole, le procedure non sono per un
puro gusto estetico (maniacalmente perseguito da chi trova, in questo, soddisfazione alla propria
personale inclinazione) ma sono al servizio di altro. Non è il semplice richiamo “moralistico” ad
un’alternativa (sempre possibile) di migliore utilizzo, ma è la tensione a far sì che nulla sia gettato. In fondo è proprio lo sperpero di ciò di cui disponiamo (il tempo, innanzitutto….) ad ostacolare la creazione di valore.
C’è una frase di Madre Teresa di Calcutta che aiuta a capire il concetto che si vorrebbe comunicare “quello che mi scandalizza non è che esistano i ricchi ed i poveri. E’ lo spreco”, di ogni risorsa: ecco che diventa importante, anzi indispensabile evitare che questo accada: la ragione per
occuparsi di organizzazione, in fondo, potrebbe risiedere tutta qua… Questo significa anche, ad
esempio, valutazione delle esternalità prodotte, quello che direttamente ed indirettamente si genera: questo è l’output del volontariato e del mondo del non profit in genere. Lo sforzo è rivolto verso
l’ampiezza dei soggetti che traggono beneficio dalla presenza e dall’operato delle associazioni.
C’è un altro modo per presentare i concetti su cui si siamo attardati. Utilizza due espressioni di
quotidiana misura: il buon senso ed il buon cuore. L’una esprime una componente fondamentale
dell’organizzazione, l’altra spiega la natura del volontariato.
Il buon senso costituisce la dimensione della ragionevolezza che consente di applicare gli criteri
opportuni alle questioni della quotidiana vita organizzativa. E’ la logica per la quale il metodo è
dettato dall’oggetto (e non dalla astratta preferenza per un approccio) e, nell’incontro con la realtà, occorre tener conto di tutti i fattori che la compongono (che non significa necessariamente
poterli tutti ricondurre allo scopo, ma significa essere consapevoli della loro esistenza e della strutturale razionalità limitata con la quale l’essere umano agisce, come avremo modo di meglio precisare).
Il buon senso, però, senza il buon cuore - senza quell’ultima radice che rende l’uomo compagno
all’uomo (più o meno bisognoso di bisogni più o meno concreti) perché portatore dello stesso desiderio di felicità e pienezza - rischia di ridursi alla grettezza dell’allocazione di ciò che vedo.
Se il buon senso è necessaria premessa all’organizzazione, il buon cuore è costitutivo del volontariato, è il punto sorgivo che tende all’apertura ed alla condivisione del bisogno. Tenerli insieme è
condizioni per il perdurare della possibilità di esperienze di gratuità, per chi dà e per chi riceve.
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Quaderni per la Formazione
“C’è molta soggettività nella razionalità umana”
(H. Simon, 1947)
1. A COSA SERVE L’ORGANIZZAZIONE?
La domanda potrà sembrare banale, forse scontata, anzi sicuramente le si adattano sia l’uno che
l’altro aggettivo.
E’ evidente che l’azione collettiva - vale a dire quella forma di opera cui di norma attribuiamo
l’etichetta di “organizzazione” – serve. Serve. Perché serve? Perché riesce ad attenere risultati che
l’azione individuale non otterrebbe? Chissà se è sempre così…. Perché riesce a fare “cose” che i
singoli o i gruppi (quelli che siamo soliti definire spontanei, quelli non organizzati appunto, quanto meno in maniera minimamente duratura e stabile) non riescono a fare? Questa è la magia dell’organizzazione.. Del resto, il buon senso comune (pensiamo a espressioni del tipo “l’unione fa
la forza”…) sostiene che sia così – e di solito la nostra esperienza documenta situazioni in cui
tale tesi trova conforto (e questo fatto costituisce sicuramente una ragione interessante). Ma perché ci riesce? Perché indirizza il comportamento degli individui verso una certa direzione.. Beh,
quanto meno ci prova (e spesso ci riesce anche…), ma come fa? Per la docilità delle persone o
per altre dinamiche?... E che ruolo gioca la regia del tutto? ….
Tante le domande che scaturiscono da una prima, messa lì quasi con sapore retorico. Ancor di
più sono le risposte possibili, tutte, in prima istanza, fondate e ragionevoli. Insomma, pare proprio che si possa sostenerne l’utilità, dell’organizzazione (ma in fondo ne eravamo già convinti,
sennò ciascuno si impegnerebbe per conto proprio a fare “qualcosa di buono”, il volontariato
non è prerogativa esclusiva delle associazioni..).
Resta da spiegare in che termini è utile, a quali condizioni e come si fa a renderla sempre più
utile. Sono questioni, queste, che richiedono forse qualche riflessione, non così immediata, per
aiutarci a capire le “condizioni” e le “regole” di funzionamento di questo oggetto (misterioso, ma
non troppo).
Propongo, pertanto, di rispondere al quesito che costituisce il titolo di questo primo capitolo attraverso alcuni passaggi logici.
Prima, però, una precisazione. Ciò di cui ci occupiamo, il nostro oggetto di interesse, è l’organizzazione di volontariato (e non ce lo dimenticheremo mai), ma la “faccenda” che ora va dipanata è una questione a monte, più ampia – che, in quanto tale, riguarda anche il volontariato (mi
si lasci sostenere più di altre realtà che su questo terreno da tempo si confrontano): concerne l’organizzazione tout court, cosa fa sì che essa (anche nell’ambito della gratuità) costituisca un passaggio fondamentale della vita aggregativa (e quindi della società) e quali sono le caratteristiche
costitutive che la definiscono (e come si presenta nel mondo del cd. non profit).
Da dove partire? Il punto di partenza non può che essere il tentativo di sistemare quello che normalmente ci pare di sapere dell’organizzazione, per vedere se ci basta e per fare ordine tra la
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Quaderni per la Formazione
molteplicità dei punti di vista. A questo punto, proveremo a intenderci su cosa connoti realmente
il termine organizzazione, soffermandoci poi su un aspetto assolutamente centrale per l’essenza
dell’organizzazione, ma organizzativamente insufficiente a definirla, vale a dire la questione
dello scopo, e passando in successione ad esaminare due dimensioni, l’efficacia e l’efficienza,
che molto hanno da dire in merito all’organizzazione.
Le ultimissime (rapide, solo accennate) considerazioni hanno un valore emblematico: verranno
riprese in chiusura del percorso, ma costituiscono un aspetto assolutamente rilevante delle riflessioni proposte e che le deve costantemente accompagnare. Può sembrare paradossale, ma ciò
che sostiene l’organizzazione non è l’agire organizzativo; è la ragione (che sa rendere ragione)
delle ragioni per cui vale la pena. Il gioco sulla polivalenza della parola “ragione” ci introduce
a quello non meno ricco di sfumature e di implicazioni sulle molte facce dell’organizzazione. …
Ma andiamo con ordine…
1.1 Tra l’ovvio ed il meno ovvio
Se riflettiamo un attimo sulla vita di ciascuno di noi, ci rendiamo immediatamente conto che essa
si dipana in un contesto pullulato da organizzazioni. Le nostre giornate sono segnate dalla presenza (più o meno incombente) dell’una o dell’altra, sono accompagnate dal passaggio da un’organizzazione all’altra; con ognuna interagiamo in misura diversa, interpretando ruoli diversi, con
possibilità diverse di influenzarne ed indirizzarne il comportamento e con livelli di coinvolgimento personale diversi; con alcune abbiamo rapporti inevitabili, con altre scegliamo liberamente di
entrare in contatto (è il caso delle nostre organizzazioni).
Il panorama, appena abbozzato (e peraltro di comune esperienziale osservazione), è quindi
assai variegato: utilizziamo, comunque, uno stesso termine (organizzazione) per identificare realtà che sono palesemente differenti. Eppure lo facciamo, tranquillamente convinti che di organizzazioni sempre si tratti. Eppure, sappiamo altresì che sono diverse: che la nostra associazione sia
differente dall’azienda della quale siamo dipendenti (fosse anche, paradossalmente, operante
nello stesso ambito o settore) ci pare evidente e non solo perché dall’una riceviamo una contropartita monetaria per il nostro impegno e dall’altra no, ma altresì per molte altre ragioni (chissà
se più o meno rilevanti per spiegarne il funzionamento, ma certamente presenti).
Sicuramente, tutte le organizzazioni condividono il problema di coordinare gli sforzi dei loro
componenti per raggiungere i migliori risultati possibili, impiegando risorse che sono scarse per
definizione – e chi di noi oserebbe sostenere il contrario, proprio in base alla propria esperienza nel mondo del volontariato… - e questo è ciò che in prima battuta sembra giustificare l’uso di
uno stesso termine per “cose” diverse.
Le organizzazioni, di diverso tipo e natura, sorgono quindi per ottenere un determinato risultato
(ciò che la mission intende esprimere) attraverso l’utilizzo di mezzi organizzati, vale a dire progettati, regolati, coordinati: questa declinazione (incompleta, ma già spessa) dell’aggettivo ci per-
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Quaderni per la Formazione
mette di sottolineare, già da ora, che tutto si può dire dell’organizzazione, dell’agire dell’organizzazione e dell’agire dei suoi componenti, ma non che sia interpretabile in chiave semplice ed
univoca, attraverso la ricerca della variabile (o del processo) capace di spiegare come il tutto procede. La complessità (concetto sin troppo frequentemente richiamato, quasi come rassegnata
ammissione di inaccessibilità) salta, di norma, fuori per giustificare l’impossibilità di capire a
fondo un fenomeno e non, come ci pare indispensabile sottolineare, in quanto parametro di riferimento per l’evidenza empirica con cui fare i conti. Questo ci conduce innanzitutto ad accettare
l’interconnessione tra i diversi fenomeni, senza sprecare energie concentrando gli sforzi (vani) nel
ricondurre tutto a relazioni lineari di causa-effetto, magari anche ottimali, che però ci fanno perdere per strada qualche pezzo.
Abbiamo avuto bisogno dell’apporto di un grande e famoso studioso, Herbert Simon, per prendere atto di un dato strutturale per l’essere umano: il suo agire secondo razionalità limitata (e non
assoluta, dove assoluto significa informato su tutte le possibili scelte e dotato di un sistema di preferenze sicure e stabili) e delle implicazioni che nella “realtà reale” questo genera. Cosa significa questo in concreto e cosa c’entra con l’organizzazione?
Significa che ciascuno di noi dispone, pensa ed agisce facendo i conti, per ogni decisione - piccola o grande che sia, privata o legata alla vita dell’organizzazione - con l’impossibilità di una
razionalità totale e accettando, quindi e sempre, un margine (magari modesto) di rischio e di soggettività. C’è una lunga lista di fattori che restringono la razionalità umana; ne possiamo osservare di natura:
oggettiva, quelli che rendono impossibile prevedere tutte le conseguenze di una decisione, ad
esempio perché molte sono indirette;
cognitiva, che hanno a che fare con il fatto che le preferenze umane indirizzano le scelte, riducendo le opzioni prese in considerazione;
etico e culturale, per cui principi, valori, credenze limitano la gamma di scelte, già a priori;
sociale, quelli legati alla necessità di dover mediare con le altre persone coinvolte arrivando a
compromessi, e producendo esiti ovviamente non allineati sulla pura razionalità.
Detto in altri termini, nella realtà le decisioni sono prese non secondo il criterio della massima efficienza, ma secondo il principio della sufficienza. C’è un famosissimo esempio che rende bene l’idea che si sta presentando: “Si pensi alla differenza tra il cercare in un pagliaio l’ago più aguzzo o cercarne uno aguzzo a sufficienza da essere usato per cucire”. Se l’obiettivo è cucire , non
occorre proseguire nel tentativo cercare l’ago più appuntito (anche se non necessariamente ne
siamo esentati); basta avere quello che è adeguato allo scopo. Questo, tra l’altro, ci permette di
decidere (o ci costringe a farlo, potremmo anche dire, pensando a quante volte l’assunzione di
una decisione difficile tende ad essere rimandata dal farsi scudo della ricerca di qualcosa di
più..).
Cosa c’entra con l’organizzazione?
Per capire ciò che avviene nelle organizzazioni occorre partire dall’azione dei soggetti, cioè da
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ciò che essi decidono, che spesso travalica i moventi e non è neppure interpretato dalle “declaratorie” del ruolo (ammesso che ci siano). Ci torneremo sopra più avanti, ma il nodo chiave sta
proprio nel passaggio dalla “partecipazione” all’organizzazione, in forza di ragioni che spingono ad aderire e collaborare, alla “costruzione” delle organizzazioni, fondate su razionalità,
ma razionalità umana, e quindi limitata.
1.2 Almeno due prospettive
Il ragionamento condotto sino a questo punto ha lasciato per implicita una precisazione che è ora
il momento di far emergere. In cosa consista veramente l’organizzazione.
Il nodo non è facile da sciogliere perché il fenomeno organizzativo può essere osservato da almeno due diverse prospettive. Oggetto di osservazione possono essere tanto le strutture organizzative, quanto i processi organizzativi.
Le prime sono realtà date, che si caratterizzano per una certa intrinseca persistenza nel tempo:
un certo ufficio, una normativa, una procedura, un sistema di comunicazione sono esempi di
“organizzazioni” da questa angolatura.
I processi sono, invece, realtà in corso, in divenire, mutevoli per intrinseca natura: la loro rilevanza è tanto più evidente quanto più l’organizzazione è piccola, per cui è osservabile (anche
dall’esterno) come sia la persona ad attivare (possa, riesca ad innescare) processi che conducono - in maniera lenta e progressiva o con impeto dirompente - a modificare l’assetto.
In sintesi, l’organizzazione - il fenomeno che stiamo cercando di capire - presenta due dimensioni, costantemente presenti, distinte ma inevitabilmente connesse e della cui duplicità di natura
spesso non siamo consapevoli, mettendoci a rischio di confondere i piani e di muoverci sull’uno
con strumenti ed atteggiamenti adatti all’altro.
LE DUE DIMENSIONI DELL’ORGANIZZAZIONE
La STRUTTURA indica l’aspetto statico di un’organizzazione
Il PROCESSO indica l’aspetto dinamico di un’organizzazione
Si tratta di una ambivalenza che è più facile cogliendo soffermando l’attenzione sul valore del
sostantivo e del verbo: il primo fotografa la struttura e tende a proiettare durabilmente gli aspetti che la connotano nell’istante alla ricerca di una stabilità; il secondo introduce la dimensione in
evoluzione ed in movimento, l’aspetto processuale propriamente detto.
In buona sostanza, ciò che si intende sottolineare è che le organizzazioni non sono (semplicemente) delle realtà che preesistono agli individui e che da questi non possono essere plasmate (se
non transitoriamente per alcuni “privilegiati” che occupano posizioni particolari, basti pensare al
caso del fondatore di un’associazione): l’organizzazione è (anche qui anticipiamo un’osservazione che ci sarà utile tra breve) un organismo vivente, un brulicare di persone, collocate in
maniera tendenzialmente predefinita dall’assetto ma non immobili, che anzi interpretano ruoli in
parte prevedibili ma con un apporto soggettivo notevole. Spesso, per spiegare questa idea, si
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Quaderni per la Formazione
ricorre alla metafora teatrale: l’agire delle persone si svolge secondo una sorta di copione di una
commedia che definisce la trama, ma lascia molta libertà agli interpreti, generando quella strana situazione di ripetitività e di innovazione che convivono. O meglio ancora: potremmo dire che
quanto più convivono, tanto più rendono evento ogni replica. In fondo, se ci pensiamo, è questo
un aspetto assolutamente affascinante: la possibilità che accada qualcosa di nuovo, in uno scenario noto (ma questo sarà ripreso alla fine di questo capitolo).
In altri termini, le organizzazioni (in quanto struttura) condizionano l’agire dei soggetti (potremmo dire che esse esistono proprio per questo, come il già citato Simon sostiene e come riprenderemo tra breve) ed i soggetti (a seconda di come si muovono e di come interpretano le indicazioni e le regole formulate dall’organizzazione) modificano l’organizzazione stessa, dando vita
a quel processo di strutturazione, così denominato da un altro studioso, Antony Giddens, che sottolineando la costruzione in corso, ne rimarca la mutevolezza.
L’autore utilizza, per spiegare il proprio pensiero, una metafora semplice quanto intuibile, quella della lingua parlata. La lingua è una struttura in quanto condizione per il dialogo, ma essa è
anche una conseguenza non intenzionale di ciò che il discorrere ed il verificarsi del dialogo producono. Parliamo utilizzando delle parole, un assetto grammaticale, una sintassi, delle espressioni idiomatiche; ma, al tempo stesso, è proprio attraverso l’utilizzo di tutti questi strumenti e l’impiego personale che modifichiamo la lingua: in ciò consiste la strutturazione, nel creare e consolidare il “nuovo” attraverso l’uso del “vecchio”, plasmato.
Una solidità adattabile ed una durabile mutevolezza sono le caratteristiche delle organizzazioni,
soprattutto (verrebbe da dire) di quelle di volontariato dove spontaneità e libertà possono dare il
meglio di sé, se utilizzate nel contesto di un alveo che ne indirizza la potenza.
Nell’affrontare la varietà che caratterizza il fenomeno organizzativa, altre angolature vengono
proposte. Scaturisce, così, il seguente quadro, che da una prospettiva più oggettivabile, vale la
pena di introdurre per documentare ulteriormente quella complessità sopra richiamata.
I TANTI SIGNIFICATI DI ORGANIZZAZIONE
Organizzazione come
Subsistema, parte di un più vasto sistema sociale con il quale interagisce
Struttura, assetto stabile e tendenzialmente conservativo
Management, specifica attività di indirizzo e di governo
Organismo personale, come insieme di individui che collaborano al risultato
A parte la declinazione strutturale, di cui abbiamo già sufficientemente detto, le altre mettono in
evidenza questioni che andranno sempre tenute presente (anche se forte è la tentazione nella
quotidiana realtà di dimenticarsene qualche pezzo): innanzitutto che ogni singola organizzazione è inserita in un sistema, in un contesto (sociale, economico, culturale, politico, istituzionale..)
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Quaderni per la Formazione
con il quale dialoga, dal quale trae le proprie risorse, e che l’attività di management, vale a dire
di governo e di indirizzo, non è disgiunta delle dinamiche organizzative in senso stretto ma è
finalizzata ad indirizzarle; da ultimo, ma così rilevante che vi dedicheremo un apposito capitolo
– il quinto - la persona è nei fatti la variabile critica: singoli e gruppi dei quali il sistema si compone rappresentano condizione di esistenza e di vitalità; è attraverso di essi che l’organizzazione produce l’energia e la forza per agire nell’ambiente.
1.3 Una possibile delimitazione del campo (nel panorama delle definizioni)
Abbiamo introdotto, all’inizio di questo capitolo, l’idea che l’organizzazione sia un’azione collettiva. Altri studiosi precisano, ulteriormente, che occorre intenzionalità esplicita (idea che alcuni associano alla costituzione formale) e che si richiede un fine, più o meno comune.
Vediamo ora di capire se questa declinazione - sulla quale è peraltro facile concordare - sia sufficiente o meno per capire la portata dei problemi organizzativi o se necessiti di precisazioni atte
a proseguire il ragionamento con utilità nella direzione in cui ci siamo prefissi di muoverci.
Azione: questo costituisce sicuramente un punto qualificante, proprio alla luce di quello che
abbiamo precisato nel paragrafo precedente, la dimensione dinamica dell’organizzazione (in
assenza della quale anche l’organizzazione, come dato strutturale, perde di vita). Collettiva:
identifica un insieme di persone che, insieme (l’idea evocata è proprio quella di collegialità e di
unità), si muovono. Per un obiettivo. Quale obiettivo? Quello esplicitato, reso consapevole e condiviso che diviene proprio dell’organizzazione. Semplice, no? Ne siamo sicuri?
Qualcuno ha sostenuto (dopo averci studiato e ragionato un bel po’) che le organizzazioni, in
quanto tali, non hanno fini, ma solo gli individui li hanno e spesso questi sono via via mutevoli,
differenziati tra loro ed anche contradditori. Del resto, se osserviamo le organizzazioni nel tempo
ci accorgiamo che facilmente, al cambiare delle persone, cambiano anche i loro orientamenti, i
loro comportamenti: anzi, spesso i ricambi sono favoriti in forza del desiderio di vedere cambiare
non tanto i volti, quanto ciò che essi fanno, l’impostazione che adottano, lo stile che impiegano.
Potremmo, a questa linea di pensiero, obiettare che il fine dell’organizzazione ha anche questa
non secondaria ricaduta: ricondurre i tanti e diversi fini individuali a quello che concordemente
attribuiamo dell’organizzazione, sul quale ci riconosciamo e cui abbiamo dato la nostra adesione. E’ sicuramente così (e per le organizzazioni di volontariato lo è in misura maggiore che per
altre organizzazioni). Quello che si vuole rimarcare è, innanzitutto che persone insieme con uno
stesso fine non necessariamente fanno un’organizzazione; quindi, che l’equilibrio tra le due
diverse fonti di fini non è facile e semplice da ottenere, anche perché il rischio che quelli che chiamiamo, per consuetudine e semplicità, i fini dell’organizzazione siano spesso i fini degli attori più
potenti non è poi così remoto.
Ma ci ritorneremo, perché la questione è, come evidente, di fondamentale importanza e va chiarita.
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Quaderni per la Formazione
Al momento, interessa concentrare l’attenzione su ciò che costituisce l’essenza ultima dell’organizzazione. Allora, possiamo (riprendendo la proposta di due autori, Massimo Ferrante e Stefano
Zan) definire l’organizzazione nei termini seguenti.
l’organizzazione è una forma di azione collettiva, che si ripete nel tempo, basata su processi
di differenzizione e di integrazione che siano tendenzialmente stabili e intenzionali.
L’interesse per questa definizione sta proprio nel suo fondarsi sull’aspetto prettamente organizzativo: i processi di differenziazione di integrazione
Peraltro, che l’organizzazione sia definibile semplicemente come il complesso delle modalità
secondo cui viene effettuata la divisione del lavoro in compiti distinti e, quindi, viene realizzato il
coordinamento tra tali compiti è idea ormai da tempo consolidata, anche tra studiosi di matrice
diversa.
Questa caratterizzazione ha il pregio di essere estremamente lineare e di focalizzare l’attenzione su due termini essenziali quanto pragmatici, che sottolineano come alla base di ogni assetto
organizzativo si ponga il “come si fanno le cose” (a ciò riconducendosi infatti la differenziazione e l’integrazione). Peraltro, si è soliti dire che la scelta del “cosa” compete l’ambito strategico
(la vision, la mission, la declinazione in obiettivi), mentre il “come” attiene al terreno dell’organizzazione, vale a dire il terreno sul quale ci muoviamo ora.
E’, in buona sostanza, una caratterizzazione che ben si adatta agli obiettivi “organizzativi” di
questo manuale: ci suggerisce da dove partire per capire come possano e debbano operare le
organizzazioni (anche quelle di volontariato, che troppo spesso se ne dimenticano). Per questo,
la questione sarà oggetti di accurato approfondimento nel capitolo seguente. Ma prima di passare oltre, urge qualche considerazione sul punto dello scopo, proprio per la sua rilevanza. E’ su
questo, infatti, che ci soffermiamo ora.
1.4 La questione dei fini dell’organizzazione
Perché nasce un’organizzazione? Per realizzare uno scopo. L’organizzazione potrebbe sembrare un semplice supporto “tecnico” a servizio di una finalità data (sia pur quella che l’organizzazione stessa si è scelta) in una logica che potremmo qualificare di strumentalità. L’esperienza ci
suggerisce, ancora una volta, che la faccenda non è così semplice.
In realtà, i fini di un’organizzazione sono dentro il problema organizzativo, perché il chi decide
i fini dell’organizzazione ed il come li si debba perseguire non sono soggetti separabili da quelli che dentro l’organizzazione si muovono (pur avendone titoli diversi e quindi possibilità di condizionamento differenti). Abbiamo già ricordato che Barnard - definendo l’organizzazione come
sistema cooperativo, come luogo in cui gli individui operano insieme per il raggiungimento di un
fine comune - non concepisce l’organizzazione senza le persone (anzi, sembra quasi che “l’or-
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ganizzazione sia le persone”) e le attribuisce il possesso di uno scopo: pertanto, le organizzazioni hanno dei fini.
Quello che preme mettere in evidenza è che esistono moventi personali per ciascuno dei partecipanti ad un’organizzazione che non possono essere dimenticati; al contrario, occorre che a questi sia data soddisfazione proprio per il migliore perseguimento di quelli dell’organizzazione.
L’autore citato ricorre nel suo ragionamento ad una metafora, la cd. metafora del “masso”, che
pare assai appropriata per le organizzazioni di volontariato. Una persona, nel suo itinerario, si
imbatte in un enorme masso che impedisce il cammino; è un ostacolo talmente pesante che non
riesce a spostarlo da sola e che la spinge a ricercare la collaborazione di altri, sopraggiunti nel
frattempo e ugualmente impediti a proseguire, o – se questi non fossero sufficienti - di altri ancora che, non avendo alcun interesse diretto alla rimozione del masso si convincono ad aiutare (per
ragioni le più varie, non ultima l’entità della ricompensa). La cooperazione di più persone interessate a spostare quel masso riesce nell’intento.
Quali riflessioni ci suggerisce questa provocazione, così vicina alla dinamica di molte associazioni di volontariato? Quante di esse nascono perché qualcuno si imbatte in una “causa” grande e pesante come un macigno e si mette insieme ad altri, più o meno pressati dall’esigenza di
superare quel macigno? Nessuno dimentica le proprie motivazioni, anzi la cogenza di queste
spiegherà l’intensità del coinvolgimento su tutti i piani, da quello emotivo a quello operativo.
Quali riflessioni, dicevamo.. Innanzitutto: il masso viene spostato perché il gruppo si è organizzato, dapprima informalmente attraverso lo scambio di idee e pareri attraverso il quale si arriva a capire in che misura sia possibile cooperare, per giungere poi così alla decisione formale
di impegnarsi al massimo per spostarlo, coinvolgendo altri che fossero in grado di aiutare, anche
se direttamente non interessati. Nel momento in cui il fine comune viene perseguito attraverso l’organizzazione formale diventa il fine dell’organizzazione.
Lo scopo dell’organizzazione, però, va tenuto distinto da quello degli individui, anche se possono esserci ampie aree di sovrapposizione: la coincidenza dei fini non può essere data per scontata, errore che troppo spesso si commette in forza della nobiltà e della rilevanza dello scopo.
Spesso, infatti, si obietta che nel mondo del volontariato questa duplicità non esiste: tutti coloro
che aderiscono ad un’organizzazione di volontariato lo fanno perché interessati ed affascinati al
fine ultimo per il quale essa è nata. Nessuno si permetterebbe di mettere in discussione la carica
ideale che spinge i fondatori e gli aderenti ad un’associazione che si sostanzia nello scopo; ma
se osserviamo con realismo le nostre situazioni ci accorgiamo che molti sono gli intrecci.
In ogni caso, poiché l’organizzazione è un sistema (intrinsecamente) cooperativo – che diviene
tale proprio perché lo scopo non è più delle singole persone ma dell’organizzazione, la partecipazione deve essere ottenuta attraverso il consenso, vale a dire attraverso la mediazione della
molteplicità di scopi e moventi individuali. Simon, però, invita non solo a tenere conto delle tante
spinte, ma anche del fatto che sono i soggetti a costruire le organizzazioni, nel modo più razionale possibile, ma con tutti i limiti che li connotano. Le organizzazioni, lo abbiamo già osserva-
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Quaderni per la Formazione
to, non sono entità dotate di vita propria indipendente dall’azione umana: esse sono sempre il
frutto dell’iniziativa umana e dei comportamenti umani (anche se l’organizzazione serve anche
per indirizzarli, questi comportamenti).
Le decisioni che concernono i fini si fondano su giudizi di valore, vale a dire quelli che esprimono una preferenza (e quindi si connotano per soggettività), mentre i mezzi per raggiungere o
scopo derivano da giudizi di fatto, verificabili in maniera oggettiva. La decisione sull’ambito in
cui dovrà operare la nostra associazione si innesta su un giudizio di valore, l’interesse (non discutibile) per i bambini piuttosto che per i senza dimora: e chi se la sentirebbe di metterli in ordine di priorità.. Il come farlo attiene all’ambito dei giudizi di fatto, dei calcoli che possiamo fare
sull’adeguatezza e la fattibilità. In realtà, però, il rapporto tra mezzi e fini genera una sequenza:
un fine raggiunto in base ad una decisione di valore, si trasforma in un mezzo per raggiungere
un fine successivo, per cui è praticamente impossibile distinguere la bontà di uno scopo senza
valutare i mezzi che occorrono per raggiungerlo. Questo significa che la desiderabilità degli
scopi non può essere valutata a prescindere dai mezzi, in base a criteri di razionalità, quella
razionalità limitata di cui abbiamo già parlato.
Quest’ultima considerazione ci permette di aggiungere una sottolineatura. In realtà, sono i rapporti informali a creare le condizioni in cui può sorgere l’organizzazione formale, senza la
quale la dimensione informale si rivela aleatoria ed è destinata a non durare. I rapporti informali
sono, quindi, l’anima che dà senso e tono alle strutture formali (che diversamente restano delle
scatole vuote accanto al fluire delle attività e dei rapporti), mentre l’organizzazione formale
diventa il luogo dove si definisce lo scopo e dove nascono altri rapporti informali, che dinamicamente alimentano il processo vitale.
1.5 Efficacia ed efficienza, condizioni organizzative
La distinzione tra fini dell’organizzazione e moventi personali consente di individuare due importanti dimensioni dell’azione organizzativa, efficacia ed efficienza.
I due termini tornano costantemente nei discorsi economici e sempre più spesso anche nel mondo
del volontariato vengono citati per esprimere, in sintesi, le buone condizioni di funzionamento di
un’organizzazione. Non ci interessa in questa sede entrare nel merito, non è competenza “organizzativa” identificare indicatori e parametri per misurarli e determinare le modalità di calcolo e
di stima. E’, invece, essenziale alla comprensione dell’organizzazione capirne significato e utilizzabilità.
I concetti di:
* efficacia: misura il grado in cui l’organizzazione raggiunge i suoi obiettivi, in termini di coordinamento ottimale delle risorse disponibili
* efficienza: indica l’intensità con cui le motivazioni personali a far parte di un sistema (cooperativo per definizione) sono perseguite
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Sull’efficacia è facile allinearsi, è un concetto di uso comune e di condivisa interpretazione.
Siamo, invece, soliti pensare all’efficienza in termini diversi (un po’ riduttivi), come rapporto tra
risorse impiegate e risultati ottenuti: quando c’è equilibrio (o addirittura una sovrabbondanza di
esiti) tra le due entità significa che non abbiamo sprecato nulla, ma che abbiamo valorizzato al
meglio ogni apporto. Non sprecare nulla significa anche non disperdere le attese di soddisfazione delle persone che partecipano (con il loro tempo, con le loro capacità…) e che essi misurano in termini di rapporto tra contributo che percepiscono di dare e l’insieme delle ricompense
(morali e materiali) che ne ricevono in cambio.
Dense sono le sottolineature implicate in questa logica. Ci sono delle aspettative presenti in un
soggetto; c’è un apporto da questi offerto, non necessariamente valutato in misura uguale da lui
stesso e da chi lo riceve; l’eventuale differenza di apprezzamento sta alla base di possibili fonti
di distorsione tra le ricompense offerte (ritenute, si presume, adeguate da chi le propone) e quelle tratte (da chi le riceve), che inevitabilmente tendono a rendere meno efficiente nel tempo l’attività, proprio perché il legame tra soddisfazione personale e qualità del servizio è forte.
Questo ci porta ad osservare come non sempre efficacia ed efficienza siano contemporaneamente presenti nell’organizzazione. Tentando di schematizzare, potremmo individuare quattro
situazioni possibili.
Le possibili combinazioni tra efficacia ed efficienza
* l’organizzazione è al tempo stesso efficace ed efficiente: è la situazione ideale, offre il quadro
ottimale cui tendere
* l’organizzazione è efficace ma non efficiente, vale a dire raggiunge i suoi obiettivi ma non soddisfa le persone
* l’organizzazione è efficiente ma non efficace: cioè non raggiunge gli obiettivi che si era prefissa, ma soddisfa le persone
* l’organizzazione non è né efficace né efficiente, perché non raggiunge i suoi obiettivi e neppure riesce a gratificare le persone
L’ultima ipotesi è, come ovvio, quella che descrive il panorama peggiore, quello che fa sorgere
spontanea la domanda sul come l’organizzazione riesca ancora a sopravvivere (ma spesso le
forze inerziali prevalgono…).
Se riflettiamo sulle nostre esperienze, ci rendiamo facilmente conto che la situazione ottimale non
è scontata o garantita per il solo fatto di operare in un ambito di volontariato; molto più spesso
nelle organizzazioni ci si dibatte nel tentativo di conciliare le due spinte, quella che si protende
verso il massimo dei risultati conseguibili e quella che si occupa di privilegiare i moventi personali, trasmettendo sovente l’idea che la cooperazione stabile sia la condizione anormale (e questo spiega in parte le tensioni che è facile osservare all’interno delle associazioni).
Barnard ci spiega che un individuo contribuisce ad un’organizzazione confrontando vantaggi e
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svantaggi che questo comporta per lui: se i benefici che egli ritiene di ricevere (si noti bene la
soggettività della valutazione e l’ampio significato che è attribuibile al termine) oltrepassano i
“costi” (l’insieme di tutto quello che comporta l’impegno, il tempo sottratto ad altro, la fatica
aggiuntiva, le tensioni sopportate, gli eventuali costi effettivi …) continuerà a partecipare e a contribuire fattivamente. Diversamente lascerà l’organizzazione. Come quest’ultima può agire per
favorire il proseguimento del rapporto, viene allora da chiedersi?
L’organizzaione può contare su due strumenti per garantirsi gli sforzi necessari alla sua esistenza: il sistema degli incentivi e quello della persuasione. Gli incentivi sono fattori “oggettivi” che
mirano a soddisfare le aspettative delle persone e possono essere sia di natura materiale che
immateriale. Un incentivo tipico del volontariato è, ad esempio, l’impegno per il prossimo, ritenuto di per sé gratificante e che, oggettivamente, può essere goduto solamente tramite l’adesione a quell’organizzazione (o ad una similare). Sino a quanto gli incarichi affidati, gli sforzi sollecitati consentiranno di beneficiare della soddisfazione derivante dal ricolmare questo bisogno,
il nostro volontario sarà attivamente presente: ma è evidente che si tratta di un equilibrio instabile….da controllare costantemente (se ci preme che il rapporto prosegua..)
La persuasione agisce, invece, sul lato soggettivo del rapporto tra organizzazione e individuo:
tende a modificare le aspettative esistenti e a favorire nei soggetti nuovi moventi; lo può fare ricorrendo ad una gamma ampia di strumenti, che vanno (quanto meno dal punto di vista teorico)
dalla coercizione, più o meno palese (e comunque poco significativa, nel volontariato), alla mobilitazione “ideale”.
Non dimentichiamo mai che ciò che è importante non è quello che l’apporto individuale significa per ciascun partecipante all’organizzazione personalmente, bensì quello che egli pensa significhi per l’organizzazione nel suo complesso: sembra una distinzione sottile, ma è assolutamente
centrale perché posiziona la dimensione soggettiva su quella oggettiva, che mai potrà essere
accantonata.
1.6 Un criterio “non organizzativo”
Le considerazioni proposte ci hanno condotto ad un punto di non ritorno, che va ora esplicitato.
Il costante richiamo all’essere l’organizzazione un terreno di azione umana, assai poco scindibile dalle persone che si aggirano al suo interno, rappresenta un’acquisizione importante, che - se
può facilmente essere data per scontata laddove questa natura, per dimensioni e per prevalenza
di informalità, appare come l’unica possibile - tende di norma a tradursi in un disinteresse per
l’approccio organizzativo, ritenuto appropriato ad altre situazioni. E’, a questo punto, chiaro che
così non è; che anche la più piccola organizzazione racchiude tutte le complesse dinamiche che
abbiamo segnalato.
L’acquisizione appena sottolineata ci introduce, altresì, a due ordini di conseguenze. Una prima
(che verrà ripresa nel cap. 3) mette in evidenza l’esigenza che, per il suo bene, l’organizzazio-
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ne debba tentare di evitare ogni possibile forma di eccessiva personalizzazione (rischio che sappiamo forte ed incombente per molte associazioni) per indirizzarsi verso una logica organizzativa più ampia che collochi il legame costitutivo con le persone in un sistema coordinato di ruoli.
La seconda si pone in positivo. Fa, cioè, emergere quanto le persone - ciò che esse hanno a
cuore, ciò che le muove, ciò che le caratterizza come passione, temperamento, competenze – si
trasfondano nell’organizzazione. In questo senso, la radice ultima dell’organizzazione di volontariato sta nel suo essere un luogo in cui il bisogno di bene depositato nel cuore dell’uomo trova
come un’opportunità di esprimersi. Per questo, la fonte vera dell’organizzazione è un “criterio
non organizzativo”: per dirla con un’efficace espressione “il visibile nasce sempre dall’invisibile”.
Ogni particolare organizzato, ogni dinamica fluisce per questo scopo che si manifesta nello specifico dell’associazione, che si declina attraverso questo, ma che tende ad altro.
Come esprimerlo? Voler bene all’umanità passa attraverso il concreto aiuto ai poveri del proprio
quartiere, il sostegno alla ONG che opera in un paese povero, l’impegno a creare condizioni più
favorevoli… Tante forme, ciascuna implicante un assetto organizzativo, generante delle dinamiche organizzative che nessun senso avrebbero (anzi, neppure scatterebbero) in assenza di quella tensione. E’ quella tensione, che va custodita.
1. 7 Tirando le fila
La densità delle argomentazioni introdotte suggerisce di riassumerne schematicamente i passaggi salienti che sono stati proposti, prima di entrare decisamente dentro le dimensioni di operatività organizzativa, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo e nei seguenti, via via spostandoci dal piano delle “logiche organizzative” a quello degli “strumenti organizzativi”, nella consapevolezza che l’utilizzo di questi ultimi sarà realmente proficuo solo se conseguente ad argomentazioni assennate ed appropriate.
Nella tabella seguente sono, quindi, indicati i termini essenziali ed i nessi logici che questo primo
capitolo ha introdotto e sviluppato.
Il quadro di insieme
• Tante organizzazioni diverse: cosa hanno in comune?
• Organizzazione come moltiplicatore degli sforzi personali
• Tante prospettive: organizzazione e organizzare
• I fini dell’organizzazione ed i fini degli individui: come stanno insieme?
• Le misure dell’organizzazione: efficacia ed efficienza come obiettivi
• Dentro ed oltre l’organizzazione: la “ragione” prima ed ultima
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Quaderni per la Formazione
2 I “FONDAMENTI” ORGANIZZATIVI
Il titolo, forse, rischia di intimorire un po’: i “fondamenti organizzativi”, vale a dire le basi, i principi, i rudimenti di questo strano oggetto che è l’organizzazione (perché bene bene, sino ad ora,
mica si è capito cosa sia, questa organizzazione…).
Sembra roba da studi universitari (gran bella cosa, ma noi qui - nel mondo del volontariato abbiamo cose ben più concrete di cui occuparci…). Per chi non è un addetto ai lavori (cioè, come
dire, la totalità dei lettori), l’espressione potrebbe, in altri termini, evocare il riferimento a lontane teorie, a complessi ragionamenti, a intricate elucubrazioni che, per essere avvicinate alla realtà e calatele dentro, debbono far fare al destinatario una lunga strada, che forse non ha neppure troppo interesse a percorrere. Ciò che occorre sono risposte operative, indicazioni applicabili.
La scommessa di queste pagine sta proprio nel voler tentare di mettere in luce la comprensibilità
e l’utilità dei concetti basilari attorno ai quali gli assetti organizzativi e le decisioni organizzative
si dipanano, rendendoli più consapevoli proprio agli occhi di chi l’organizzazione costruisce.
Ci riproponiamo, pertanto di esaminare come nasce il problema organizzativo, quali siano i concetti che lo determinano e come la loro comprensione ci aiuta a capire le nostre organizzazioni,
quelle realtà che - come abbiamo proposto nel capitolo precedente - si qualificano come “forme
di azioni collettive continuative fondate sui processi di differenziazione ed integrazione, che
abbiano una connotazione di stabilità e di intenzionalità” e che fondano la loro ragione d’essere su un mission “speciale”, quella che, per convenzione, definiamo una “buona causa”.
2.1 I concetti in gioco
Abbiamo quindi sostenuto che l’organizzazione nasce per effetto della divisione del lavoro; nasce
cioè dal rendersi conto che è più conveniente che ciascuno si concentri su una fase (del più articolato processo produttivo di beni o servizi) o su di un’attività - specializzandosi così in quello perché questo si rivela più produttivo che l’impegno frammentato in una pluralità di attività generiche.
La divisione del lavoro si accompagna all’esigenza di integrazione, vale a dire alla necessità di
ricomposizione dei singoli frammenti in un tutto affinché ciò che ne deriva sia quello che effettivamente si voleva e sia realizzato a “regola d’arte”, come dire bene.
Il coordinamento - vale a dire l’azione di corretta combinazione dei singoli tasselli - è, in questa
prospettiva, l’aspetto più delicato dell’organizzazione. In un certo qual senso, potremmo affermare che l’organizzazione si qualifica come funzione di coordinamento di attività specializzate,
anche se a questo aggettivo attribuiamo un significato non così forte come si è spesso propensi
a fare Semplificando un po’ (ma non troppo), potremmo sostenere che obiettivi (da perseguire
per dare sostanza alla nostra mission), conoscenze (competenze ed abilità necessarie) e tecnologia (i supporti utili) siano dati e che il problema (quello con la “P” maiuscola da gestire) sia come
distribuire i compiti nella maniera più efficace ed efficiente.
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Quaderni per la Formazione
Questo, lo abbiamo già visto in precedenza; si traduce in un problema di “struttura organizzativa”, che esiste ma non è il solo, e neppure quello più complesso. Se, in realtà, gli obiettivi sono
da definire (perché la mission può essere declinata in più modi e quello che interessa alle persone anche), e ugualmente vale per le strategie (vale a dire il modo per perseguirli, gli obiettivi) se
la conoscenza e la tecnologia sono esiti dell’azione organizzativa (come peraltro, l’esperienza
individuale ci permette di documentare), allora il coordinamento non è solo un meccanico incastro dei pezzi del puzzle. La sua natura si trasforma in qualcosa di più, perché il ruolo dell’organizzazione non è più di tipo prevalentemente prescrittivo e procedurale, ma si sposta sul terreno della sperimentazione e dell’innovazione, terreno - questo - su cui le organizzazioni di
volontariato vengono, a buon conto, accreditate di notevoli capacità.
Se a questo si aggiunge il fatto che individui e gruppi, all’interno dell’organizzazione, hanno preferenze, informazioni, interessi e competenze diversi (e magari anche confliggenti), il punto centrale - quello organizzativamente qualificante - diventa indirizzare ogni sforzo verso una stessa
meta in maniera coerente, laddove la coerenza diventa la parola chiave dell’organizzazione.
Non esiste, come ben sappiamo, l’organizzazione perfetta in quanto modello da utilizzare per
garantirsi il buon funzionamento del tutto. Esistono combinazioni possibili di divisione del lavoro
e di forme di integrazione, più o meno adatte all’ambiente esterno (gli interlocutori dell’organizzazione) ed a quello interno (le persone che collaborano) da costruire: e ciò che interessa, di queste combinazioni, è proprio il grado di armonia interno. Con quale logica si scelgano è quanto
ci accingiamo ad esaminare.
2.2 Differenziazione ed integrazione
Partiamo dai due processi che, operativamente, generano l’agire organizzativo: li abbiamo introdotti nel capitolo precedente, quando abbiamo proposto un modo per capire la specificità dell’organizzazione, come il suo nucleo fondamentale.
I processi organizzativi di base
Differenziazione, evidenziazione ed enucleazione di aree di attività e di competenza da
presidiare, premessa alla divisione del lavoro, che genera specializzazione;
Integrazione, livello e qualità della collaborazione tra persone (o tra unità organizzative)
necessaria per svolgere un’attività non elementare
Proviamo ad entrare più profondamente nel significato (e nell’utilità) di questi concetti.
L’essenza della differenziazione risiede nella divisione del lavoro e nella specializzazione; si traduce, in altri termini, in un assetto organizzativo che trasforma un insieme indifferenziato di persone in un insieme coordinato di ruoli. Di solito si dice che la differenziazione si qualifica come
il processo organizzativo attraverso il quale un gruppo può ottenere risultati superiori alla somma
degli sforzi dei singoli (se così non fosse non si capirebbe a cosa serva organizzarsi con compi-
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Quaderni per la Formazione
ti complementari).
Non importa quanto questo assetto sia raffinato e la divisione approfondita (dipenderà dal tipo
di organizzazione e soprattutto dalle sue dimensioni), importa sottolineare che l’organizzazione
(ciò che in premessa abbiamo richiamato come nostra esperienza di organizzazione) nasce proprio da qua, dall’attribuzione di compiti - che abbisognano di più o meno ampie ed approfondite competenze, che richiedono modalità di comportamento più o meno rigorose, che necessitano di un grado di adesione più o meno convinto - assolvere ai quali significa interpretare un
ruolo, cioè giocare la partita della squadra.
Insomma - al di là del dimensionamento delle singole caratteristiche che dipendono da una varietà di fattori essenzialmente legati all’ambito ed alle condizioni di operatività come vedremo nel
prossimo capitolo - il primo (e, forse, proprio per questo il vero) problema organizzativo è l’impostazione del processo di differenziazione, perché esso determina fortemente le capacità dell’organizzazione di cogliere e valorizzare tutte le sue potenzialità: gestire in maniera equilibrata
la divisione del lavoro significa innanzitutto aver ben compreso l’insieme del processo, e in forza
di questo poter affidare alle risorse che se ne occupano dei compiti precisi.
La differenziazione consente di utilizzare alcune cd “economie” (vale a dire risparmi, migliore
utilizzo e, quindi, fenomeni di cui ogni organizzazione, anche la più semplice, dovrebbe tendere ad usufruire in base al buon senso per cui non sprecare nulla significa poter fare di più); in
particolare possiamo mettere in evidenza le seguenti.
Le possibili fonti di “economie”
Economie di specializzazione, che generano rendimenti ottimali proprio in forza del fatto che
ci siano unità e persone dedicate ad un certo tipo di attività;
Economie di apprendimento, che si associano al ripetere più volte una stessa operazione sino
alla familiarizzazione con quella operazione
Economie di scala, che derivano dalla possibilità di saturare al meglio strutture, tempi,
risorse, in forza di una produzione più abbondante.
Cosa significano queste potenziali “economie”? In buona sostanza, convogliare attenzione e
impegno su un dato tipo di attività produce confidenza e dimestichezza con quella attività e rende
più veloci nello svolgerla: quindi, concentrare l’impegno e imparare sono due fenomeni esperienziali che viaggiano strettamente connessi.
Su un piano diverso, si muove invece il terzo gruppo di economie (sono anche quelle più difficilmente conseguibili nella frammentazione del mondo del volontariato), anche se non vanno sottovalutate: laddove, per esempio, si dovesse decidere di aumentare la gamma di servizi forniti varrebbe la pena di domandarsi se questa scelta possa essere effettuata in condizioni ragionevoli,
in quanto, ad esempio, a rischio di non pieno utilizzo delle strutture di cui occorre disporre; o
ancora, le economie di scala possono essere una preoccupazione che ci aiuta ad immaginare
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Quaderni per la Formazione
come meglio utilizzare risorse condividendole.
Se la differenziazione è il passaggio preliminare, i risultati si ottengono (si vedono) però attraverso il processo di integrazione, vale a dire quello che riconduce ad unità gli sforzi e il lavoro
dei singoli. Non occorre molto per documentare il fatto che l’impegno del singolo volontario, in
assenza (per le ragioni più diverse, derivanti da non adeguata organizzazione o provocati da
problemi sopraggiunti) di un quadro di insieme al tempo stesso realistico, preciso e coordinato,
si vanifica generando in lui delusione e provocando danni all’associazione. Questo è tanto più
vero laddove la divisione del lavoro tende ad essere piuttosto spinta a causa della limitata disponibilità di tempo offerta dal volontario, come si esaminerà meglio nel cap. 5.
Sicuramente, una buona impostazione della divisione rappresenta la pre-condizione perché la
riconduzione ad unità sia possibile. Questo significa una buona progettazione, ben calibrata con
il suo “oggetto” (e quindi dettagliata quanto basta), questione che riprenderemo nell’apposito
capitolo (il successivo, per la precisione). Già da ora, però, vale la pena soffermarsi sulle modalità con le quali la riconduzione ad unità di ciò che la divisione del lavoro ha separato viene resa
possibile.
2.3 Coordinamento e interdipendenza
Una efficace e semplice schematizzazione dei diversi modi attraverso i quali si affronta la questione del coordinamento è quella proposta da Henry Minzberg, che andiamo ora a presentare
ed a commentare.
I principali meccanismi di coordinamento
adattamento reciproco: implica coordinamento nell’azione e implica relazioni orizzontali
supervisione diretta: implica controllo e richiede anche relazioni verticali
standardizzazione delle capacità: implica l’individuazione “prima” delle caratteristiche
necessarie a svolgere un compito
standardizzazione dei processi di lavoro: implica la pre-definizione del modo in cui si
effettua un lavoro
standardizzazione degli output: implica la previsione del risultato atteso
Questi meccanismi (che non a caso vengono definiti tali, in quanto congegni che permettono il
funzionamento) hanno il pregio di formalizzare le diverse possibilità in un ordine preciso di complessità crescente che ciascuno contribuisce ad affrontare.
Anche se, probabilmente, si intuisce in cosa consistano, può essere opportuna qualche precisazione che ci aiuti a contestualizzarli meglio e a capirne il tipo di uso che ogni organizzazione ne
fa o può farne (sovente già vi si ricorre magari inconsapevolmente, perché corrispondenti ad un
istintivo modo di porsi, in altri casi probabilmente da introdurre come supporto ulteriore per
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migliorare la funzionalità complessiva).
Il primo dell’elenco - l’adattamento reciproco - si fonda sulla dinamica della comunicazione informale tra coloro che collaborano al raggiungimento di uno stesso esito: ciascuno mantiene il controllo del lavoro (compito piccolo o grande non importa) che gli è affidato e insieme ci si accorda sull’azione. E’ la modalità basilare; molto semplice da immaginare nel suo svolgimento, questa prassi non è scevra da complicazioni derivanti da possibili difficoltà relazionali e dalla capacità (e volontà) dei diversi operatori di adattarsi al contesto in cambiamento, ostacoli che possono pesantemente influire sul funzionamento dell’organizzazione, come troppo spesso accade. Se
il pregio dell’informalità di questo strumento di coordinamento non va mai sottovalutato (è sicuramente molto più semplice gestire qualcosa attraverso l’accordo di coloro che sono chiamati a
contribuirvi, rispetto al dover presidiare relazioni e contenuti), la sua eccessiva dominanza rischia
di contrastare la logica organizzativa di perseguimento di un obiettivo, proprio perché l’informalità presuppone elevata sintonia tra coloro che collaborano (sintonia che può scaturire su piani
assai diversi, dalla consonanza ideale, a quella caratteriale, dall’abitudine alla collaborazione
alla condivisione di un modus operandi di natura professionale).
Quando un’organizzazione supera il suo stadio più semplice ed inizia a raccogliere numeri non
proprio modestissimi di volontari e di collaboratori, diventa inevitabile introdurre il secondo meccanismo, la supervisione diretta: tale prassi persegue il coordinamento del lavoro attraverso una
persona che assume la responsabilità del lavoro altrui, fornendo indicazioni (in alcuni casi anche
ordini) e controllando (con maggiore o minore frequenza ed intensità) le azioni. Tipicamente,
possiamo pensare ad un gruppo di volontari impegnati in una iniziativa specifica – un momento
pubblico di fund raising, ad esempio, o ancora la gestione della copertura dei turni di una casa
di accoglienza - che si muove, in parte, seguendo le indicazioni del proprio responsabile (o chiamandolo in causa se abbisogna), ma anche utilizzando i rapporti interpersonali accordarsi sul
da fare e definendo le rispettive azioni.
Le forme ulteriori con le quali si definisce il coordinamento si costruiscono attorno all’idea di standardizzazione. Al di là dell’immediata repulsione che questo termine potrebbe suscitare (lo usiamo spesso in negativo, per sottolineare la mancanza di personalizzazione, la prevalenza di uniformità, la ripetitività, l’allineamento ad uno standard, appunto, come tra breve preciseremo, fatto
non necessariamente da disprezzare), la standardizzazione va apprezzata proprio per il suo
contenuto di predefinizione, di individuazione preliminare di parametri adeguati, che consentano di prevedere cosa ci si debba aspettare e come sia possibile mantenere nel tempo un certo
risultato. Il suo valore risiede, in altri termini, nel fatto che limita i rischi di improvvisazione (che,
se da un lato può essere interpretata come un indicatore di creatività, dall’altro espone a rischi
non banali di approssimazione e di genericità, soprattutto nelle nostre associazioni, dove l’alternarsi di volontari è un fenomeno intenso non necessariamente da contrastare ma che non deve
indotte inversioni di rotta non indotte dall’estro creativo di qualcuno).
Tre sono i livelli su cui si gioca la possibilità di definire standard predeterminati di riferimento: si
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Quaderni per la Formazione
può intervenire sui processi operativi, sugli output attesi del lavoro o sugli input. Ancora una volta,
non ci si spaventi per la terminologia utilizzata. I processi di lavoro, vale a dire la sequenza delle
azioni da compiere per ottenere un certo risultato, vengono standardizzati quando si specificano e si programmano i contenuti di quelle stesse azioni: questo è sicuramente utile ed efficace in
presenza di una elevata turnazione sui compiti e per compiti ripetitivi, perché limita (anche se fortunatamente non può eliminare del tutto) il rischio di soggettività troppo dirompenti, di comportamenti eccessivamente pieni di iniziativa che possono minare il buon funzionamento, pur spinti
da buona volontà. La sua efficacia è condizionata dalla accuratezza e dall’intelligenza con cui il
processo viene “standardizzato”: istruzioni semplici e chiare, facilmente applicabili e il più possibile agevolmente comprensibili (sia nelle ragioni che le determinano, sia nella loro applicabilità) rappresentano un’esigenza insopprimibile affinché l’introduzione di dosi (modeste) di standardizzazione contribuiscano a migliorare l’operatività e non ad appesantire la gestione. Di
notevole aiuto in questa direzione è l’apporto della tecnologia che può “costringere” a seguire
una sequenza predefinita, a non saltare alcun passaggio e ad arrivare alla fine in maniera
coerente allo stile dell’organizzazione: si pensi alla compilazione di moduli per i primi contatti
piuttosto che alla annotazione delle richieste ricevute, attività che possono oggi essere impostate
con programmi informatici semplici ma vincolanti.
La seconda forma è quella della standardizzazione degli output: questa interviene quando si specificano i risultati da ottenere e si lascia a chi lo svolge di scegliere la modalità più utile, efficace
o semplicemente quella praticabile per farlo. E’ di tutta evidenza la frequenza di utilizzo di questa modalità, assai praticata nel mondo del volontariato, soprattutto laddove il risultato che interessa perseguire deriva dall’interazione con un interlocutore, ad esempio quando i nostri volontari si trovano ad aiutare persone in difficoltà, le cui esigenze vanno capite attraverso il dialogo
ed il rapporto va costruito con forte attenzione a quella specifica situazione.
Il ricorso alla standardizzazione degli input, infine, si traduce nella predefinizione delle caratteristiche, delle capacità e delle conoscenze richieste agli operatori chiamati a collaborare per un
certo risultato: queste diventano, al tempo stesso, premessa e garanzia per l’ottenimento del risultato sperato.
Se le altre due forme di standardizzazione agiscono in maniera diretta, in questo terzo caso l’intervento è indiretto: si dà per scontato (soprattutto laddove le regole sul “come fare” non funzionano, oppure laddove il risultato non è a priori conosciuto e neppure con certezza definibile) che
chi presenta certe attitudini, certe competenze possa muoversi nella direzione voluta.
Poche considerazioni ulteriori. Se ci si riflette un attimo, si può notare che i vari modi per gestire il processo di integrazione corrispondono ad un percorso evolutivo connotato da gradi crescenti di complessità, il cui manifestarsi suggerisce di ricorrere ad un ulteriore meccanismo: essi
sono, quindi, tutt’altro alternativi, ma è assolutamente normale la loro co-presenza. E’ attraverso
l’uso congiunto (ed appropriato, soprattutto) che l’assetto dell’organizzazione si stabilizza: in
determinate condizioni un’organizzazione ne privilegerà uno oppure ricorrerà ad un altro. C’è
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Quaderni per la Formazione
un’ulteriore caratteristica, che la figura seguente evidenzia: accentramento e decentramento si
accompagnano direttamente alle due forme di base, mentre le diverse standardizzazioni si collocano all’interno della traiettoria.
Accentramento
orizzontale
Decentramento
orizzontale
Supervisione Standardizzazione Standardizzazione Standardizzazione Adattamento
diretta
dei processi di
degli output
delle capacità
reciproco
lavoro
Il volontario che lavora da solo gestisce nella propria mente il coordinamento delle azioni che
deve compiere. Se gli si affianca un altro individuo, al crescere quantitativo dell’impegno richiesto, ecco che l’adattamento reciproco tra i due diventa il mezzo privilegiato per dar corso all’impegno. Non avrebbe molto senso fornire istruzioni dettagliate da applicare (le energie assorbite
in questa attività sarebbero sproporzionate e non offrirebbero neppure garanzie di un buon funzionamento). Molto meglio impegnarsi nella scelta delle persone giuste da affiancare (e quindi
assolvere bene al compito della ricerca e dell’inserimento del volontario).
Mano a mano che il piccolo gruppo cresce diventa sempre meno capace di coordinarsi in maniera informale garantendo efficacia. Emerge il bisogno di un leader (prima che di un capo formalizzato come tale e magari percepito come una imposizione). Il controllo del lavoro del gruppo
passa, allora, a chi se ne assume la responsabilità e interviene regolando l’agire altrui nelle
modalità che gli saranno più consone, secondo il proprio stile. Al crescere dei numeri (delle persone coinvolte, degli interventi da eseguire) e delle interconnessioni tende a manifestarsi l’esigenza di un’altra importante modifica, quella verso la standardizzazione. Quanto più le attività
(comunque consistenti) si connotano per la loro semplicità e ripetitività, tanto più immediato sarà
il ricorso alla predefinizione di un insieme di regole del processo lavorativo cui attenersi; mentre
in presenza di compiti ad alta complessità ed elevata incertezza saranno le qualità degli operatori a diventare centrali; la focalizzazione sui risultati lascia ampio spazio all’operatore di muoversi a suo piacimento.
C’è un altro meccanismo di integrazione, che si colloca su un piano diverso rispetto a quelli che
abbiamo sino ad ora presentato e che agisce potenziando l’efficacia di tutti questi: è l’insieme
dei valori che fondano l’organizzazione, in forza dei quali l’azione di ciascuno non può che svolgersi nell’aveo “giusto”. La rilevanza del sistema dei valori può esprimersi in due direzioni diver-
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Quaderni per la Formazione
se e complementari. La prima attiene al sistema complessivo e generale dei valori che caratterizzano un’organizzazione: quanto più intensa è questa dinamica, tanto più l’integrazione è garantita dal fatto che i componenti orientano i loro comportamenti inferendo quali sono le azioni corrette ed opportune a partire dai macro valori, dagli ideali e dalle prospettive centrali per l’organizzazione: in questo modo si riporta ad unità azioni che rischierebbero di essere episodiche e
non sistematiche. Il secondo attiene a valori più propriamente professionali, in quanto hanno a
che fare con quell’insieme di conoscenze, competenze e modalità di azione apprese come proprie dal contesto professionale.
L’esigenza di coordinare le attività, può sembrare ovvio ma è opportuno ribadirlo, nasce dal fatto
che esse sono legate da interdipendenza. L’interdipendenza è un’altra delle dimensioni fondamentali e caratterizzanti l’organizzazione: essa sta a sottolineare il tipo di legame che esiste tra
le parti che compongono l’organizzazione.
Una delle classificazioni più semplici, ma efficaci, è quella proposta nello schema seguente.
Le tipologie di interdipendenza
Generica, quella che si manifesta tra ambiti diversi che utilizzano risorse comuni, nei confronti di
un’unità centrale
Sequenziale, quella che si esplicita quando il flusso dell’attività segue una direzione unica e dove
una variazione di comportamento di una parte richiede adattamenti da parte dell’altra
Reciproca, quella che si genera tra due soggetti o tra due attività in maniera bidirezionale
Intensiva, detta anche “da azione comune”, è quella che si palesa tra più soggetti, tutti collegati
da flussi bidirezionali, che co-agiscono sviluppando scambi informativi in parallelo.
Nell’ordine in cui sono stati indicati, i quattro tipi di interdipendenza risultano progressivamente
più difficili da coordinare in quanto si caratterizzano per gradi crescenti di contingenza e di complessità: una interdipendenza superiore ingloba anche quelle più semplici, per cui i meccanismi
che occorre impiegare sono di più e più articolati.
Possiamo ricorrere allo schema seguente, che collega tipologie di interdipendenza e forme di
coordinamento utili a gestirle, per chiarire la questione.
Collegamenti tra
Tipologie di interdipendenza
Generica
Sequenziale
Reciproca
Intensiva
Meccanismi di coordinamento
Standardizzazione dell’output
Standardizzazione del processo
Reciproco adattamento
Supervisione diretta
Standardizzazione delle capacità
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Quaderni per la Formazione
2.4 L’organizzazione e i comportamenti individuali
L’interdipendenza di cui ci siamo appena occupati sta anche a sottolineare che c’è un certo tipo
di legame tra un ruolo e l’altro, la cui azione congiunta è, nei fatti, la condizione di operatività
dell’organizzazione. In questa prospettiva possiamo evidenziare come i due processi che abbiamo sopra esaminato – divisione e integrazione - generino un sistema di ruoli, più o meno intensamente collegati, che influisce sui comportamenti individuali.
La questione va ben capita. E’ sotto gli occhi di tutti quanto ognuno tenda a modificare il proprio
comportamento in base al ruolo che lo caratterizza: questo, sia ben chiaro, sottolineato nella sua
valenza positiva, di comportamento atteso (giustamente atteso). L’ammalato va dal medico e si
aspetta che questi lo visiti, faccia la diagnosi e gli proponga una cura: questo è il comportamento atteso, in assenza del quale il giudizio su quel medico sarà quanto meno sospeso. La persona
senza dimora che si avvicina all’organizzazione di volontariato si aspetta (dovrebbe aspettarsi)
che il volontario che ha di fronte lo tratti con dignità; se questo non dovesse accadere è probabile che il clochard non reagisca, ma a causa dello stato di prostrazione nel quale versa (è probabilmente abituato a vedere deluse le proprie aspettative) e non perché questo sia coerente con
ciò che è ragionevole attendersi come esito del contatto con un’associazione di volontariato la cui
mission è occuparsi dei diseredati.
Ciò che si intende mettere in evidenza è, in buona sostanza, proprio che le organizzazioni sono
sempre e comunque meccanismi di influenza dei comportamenti individuali, sia perché coloro
con i quali ci rapportiamo si aspettano condotte di un certo tipo da chi occupa una data posizione, sia perché ciascuno di noi tende a comportarsi in maniera diversa a seconda dei diversi
ruoli che si trova a ricoprire.
Non vale neppure la pena rimarcare quanto danno provochino volontari non “allineati” proprio
rispetto a questa dinamica: la consapevolezza delle aspettative in chi si avvicina ad un’organizzazione di volontariato esattamente come (in maniera speculare) la consapevolezza del ruolo che
si sta interpretando sono dimensioni basilari. Proviamo ad estremizzare ipotizzando qualche
situazione, per chiarire la rilevanza della questione.
L’approccio poco serio di chi considera il proprio impegno nel volontariato come un spazio flessibile, al limite del sopprimibile, provoca disagi in chi trova risposta al proprio disagio nella fedeltà della risposta di quell’associazione. Il burbero manager, avvezzo a condurre il proprio staff in
maniera direttiva, troverà sicuramente poco seguito se trasporrà questa sua modalità nel gruppo
dei volontari della mensa a cui offre un po’ del proprio tempo libero… Questi comportamenti,
oltre ad essere riprovevoli da molti punti di vista, sono in netto contrasto con quanto caratterizza
il contesto nel quale sono messi in atto.
Insomma, il gioco dei ruoli è, al tempo stesso, risultato e precondizione per l’agire dell’organizzazione: se cosi non fosse l’organizzazione non sarebbe possibile. Se è vero che l’organizzazione si basa sui processi di differenziazione e integrazione (e conseguentemente su un sistema
di ruoli che identifica “chi fa cosa”) la possibilità per esplicitare tutte le potenzialità risiede nel
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Quaderni per la Formazione
fatto che ciascun partecipante indirizzi il proprio comportamento sulla base di quanto previsto
per quel ruolo.
Non pensiamo al ruolo come a qualcosa di improprio per il volontariato; è un termine impegnativo, ma per la serietà che richiede più che per le competenze associatevi (che spesso ne costituiscono la parte residuale): il ruolo è semplicemente la posizione in cui mi colloco (potrà essere più
o meno professionalizzato, ma questa è un’altra storia, che non può essere confusa). E’ il sì che
un volontario risponde ad una proposta (di un turno di presenza nell’accoglienza, ad esempio)
ed il conseguente atteggiamento coerente (non posso presentarmi in un giorno diverso senza
creare disagio, non posso farlo palesando imbarazzo e malessere…).
I margini di autonomia ci sono, ma sono per definizione limitati, perché l’organizzazione è per
definizione legami, più o meno intensi. In alcuni casi sono tali da mettere in discussione il raggiungimento dell’obiettivo, in altri meno. Dipende – appunto – dall’interdipendenza tra i ruoli.
Peraltro, ricordiamo che Simon, lo studioso che abbiamo già citato, definisce l’organizzazione
come “un campo strutturato di premesse”.
Campo: cioè terreno di azione; di premesse: vale a dire, qualcosa che precede l’azione, che consente all’individuo di assolvere al compito che gli compete in forza delle “indicazioni” fornitegli
per agire. Indicazioni che sono condizione necessaria e sufficiente per decidere il da farsi quando gli occorre e decidere in maniera soddisfacente (in quanto coerente con il disegno generale
dell’organizzazione).
2.5 La coerenza, un criterio fondamentale
Se è vero che differenziazione e integrazione costituiscono i due perni attorni ai quali ruota l’organizzazione, il suo funzionamento è garantito dal grado di congruenza tra le scelte che informano l’uno e l’altro processo.
Il punto centrale non è tanto il come si procede a definire l’assetto, l’accuratezza e la precisione
con la quale la divisione viene condotta e quanto le modalità di coordinamento siano ben soppesate. La questione principale riguarda la coerenza tra le scelte sull’uno e sull’altro versante. Si
tratta di un criterio intrinseco ad ogni singola realtà, che non consente di predefinire un modello
di funzionamento (che in quanto tale - modello studiato e proposto con qualche timbro di garanzia – assicuri l’esito); si tratta, al contrario, di presidiare l’insieme dei processi (le cose da fare ed
il come è meglio siano fatte) e di aver cura che l’insieme si sviluppi armonicamente.
Quale è l’organizzazione preferibile? Quella che ha meglio organizzato il proprio processo di
differenziazione e quello di integrazione? Quella in cui gli individui si attengono sempre alle previsioni di ruolo e le interdipendenze scorrono via tranquille? Sappiamo tutti che la risposta a questi quesiti è negativa, lo sappiamo per esperienza. E allora? Le nostre considerazioni sull’organizzazione cadono?
Valgono, eccome, ma interpretate da una coerenza di fondo, che è coerenza con lo stile, con la
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Quaderni per la Formazione
storia, con le sensibilità proprie della singola associazione. Non si pensi che si stia andando alla
deriva, su un terreno troppo impalpabile. La coerenza costituisce un obiettivo da costruire sulla
concretezza delle cose da fare nell’organizzazione, è il criterio ultimo che definisce le traiettorie
del futuro sulla solidità del passato.
2.6 Un breve riepilogo
Anche questo capitolo ha messo in campo molte questioni, per cui conviene riprendere in forma
schematica ciò che si è, passo dopo passo, presentato.
La tabella seguente riassume per sommi capi i passaggi salienti attraverso i quali si è sviluppato
il ragionamento.
Organizzazione
- processo di differenziazione
divisione dei compiti
specializzazione
sistema di ruoli
interdipendenza
- processo di integrazione
meccanismi di integrazione e di coordinamento valori
- i comportamenti individuali
- la coerenza organizzativa
3. LA PROGETTAZIONE ORGANIZZATIVA
Su un qualsiasi manuale di organizzazione che si voglia consultare, la progettazione organizzativa viene definita come una “complessa” (e già si inizia bene, perché le cose complesse non
sempre entusiasmano chi se ne dovrebbe occupare, soprattutto se quel qualcuno ha altri obiettivi, fare volontariato, ed ha netta la percezione della scarsità di tempo e di energie da dedicare
ad un impegno aggiuntivo di cui non sempre si intravede l’utilità)… complessa attività attraverso
la quale “l’idea” - la causa che abbiamo enucleato nella nostra mission e di cui gli obiettivi che
ci siamo ripromessi di perseguire rappresentano immediata declinazione - viene tradotta in strutture, ruoli, procedure, simboli e significati relativamente stabili, in grado di attirare le risorse
necessarie e di fornire le prestazioni attese dagli attori e dall’ambiente istituzionale.
Come dire, occuparsi di tutto quello che occorre per passare da un’idea progettuale (nel nostro
caso, la “causa” che ci ha interessati) ad un progetto operativo (che ogni giorno consente di muoversi per contribuire a risolvere la causa), in cui le strutture (vale a dire i modi in cui si gestiscono i processi di differenziazione e di integrazione), i ruoli (vale a dire la parte, che coloro che
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Quaderni per la Formazione
cooperano, sono richiesti interpretare), le procedure (vale a dire i procedimenti che debbono
essere seguiti nel fare ciò che c’è da fare), i simboli (vale a dire la dimensione evocativa che rappresenta l’organizzazione) ed i significati (vale a dire, la comune interpretazione di fatti ed eventi) permettono all’associazione di funzionare (bene o arrancando, sarà poi conseguenza di come,
nel tempo, tutto questo insieme di fattori si amalgama ed evolve con coerenza, quella coerenza
che abbiamo rimarcato essere connotato fondamentale).
Tradotta in questi termini, diventa probabilmente evidente che la progettazione organizzativa è
un impegno, un compito al quale non è possibile sottrarsi, perché imprescindibile (nei fatti) dallo
stesso fare organizzazione: accantonarla significa rinunciare ad una visione d’insieme e ad un
qualsiasi criterio di buon senso (prima ancora che di raffinatezza e di ambizioni “psedo” aziendalistiche...).
Il richiamo alla dimensione esperienziale, al come abbiamo cercato di fare quando ci siamo ritrovati a mettere in piedi la nostra associazione, ci consente di sottolineare che quasi mai la progettazione si configura come un processo con la P maiuscola, imponente ed assorbente al punto
da diventare immutabile e neppure essa consiste in una decisione visibile e determinata, salvo
pochi tasselli collegati esplicitamente a momenti ed occasioni formali e deliberati (la costituzione
con atto notarile..).
Ciò che caratterizza l’assetto che possiamo osservare (oggi e in qualsiasi momento ci capiti di
riflettere su questi argomenti) deriva dal dipanarsi di scelte, di processi che si mescolano con il
susseguirsi delle attività, con qualcosa che assomiglia di più ad una vita che si svolge che ad un
progetto che si srotola. Certo, quando - dai primi tentativi - si passa alla costituzione formale, si
segna un momento forte che marca obiettivi e responsabilità. Ma subito dopo, la dimensione
reale e quella percepita dai protagonisti prendono il sopravvento su quella formale - che pur
costituisce l’alveo di riferimento - per cui disegno strutturale, ruoli, compiti, procedure coprono
solo una parte di ciò che effettivamente rileva.
Ciò che vorremmo fosse assolutamente chiaro, addentrandoci nel tentativo di esporre alcune considerazioni in tema, è che la progettazione si connota più come un tentativo di razionalizzazione, di fare ordine in un luogo che continua ad operare, in cui non è possibile fermare l’azione.
Ciclicamente si riavvia il processo che tende a ricondurre la dimensione formale a quella reale,
che a sua volta è percepita e rielaborata dalle persone, che tessono la dimensione informale…
In buona sostanza, ci riproponiamo nelle pagine che seguono di descrivere la traiettoria che consente ad ogni associazione di definire per sé: forma, strutture, ruoli, procedure, simboli e significati, perché questi aspetti qualificano la specificità di ogni organizzazione. Sottolineiamo, in particolare, che si è soliti utilizzare il termine macroprogettazione riferendosi al livello della forma e
della struttura (argomento a tema nel par. 3.2) e quello di microprogettazione alludendo ai ruoli
ed allo specifico del lavoro delle persone, che ad ogni titolo operano (argomento che tratteremo
a sé per la sua delicatezza e la sua importanza, nel cap. 5); le procedure appartengono all’ambito operativo, per cui le introdurremmo in questa sede, rimandando al capitolo successivo per
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Quaderni per la Formazione
una migliore puntualizzazione in quanto strumenti dei sistemi operativi.
Simboli e significati, infine, attengono al mondo della “cultura organizzativa” (affascinante e stimolante, quanto intricato, tema) ed alle dinamiche di potere che - al di là dell’accezione negativa con cui normalmente percepiamo la presenza di questo fenomeno - intervengono normalmente nei rapporti interni di un’organizzazione.
Da ultimo, alcune considerazioni sulla dialettica tra cambiamento e stabilità cercheranno di riportare l’attenzione sulla prospettiva evolutiva in cui i diversi tasselli si innestano.
3.1 Logiche e metodologie di progettazione
Il primo passaggio che, anche dal punto di vista logico, occorre affrontare è quello che è stato
indicato come la “traiettoria che consente di definire…”. Ci occupiamo, quindi, di indicare quali
siano le modalità attraverso le quali si forma l’orientamento che condiziona le scelte operativo
gestionali della nostra associazione.
Si è soliti definire le logiche di progettazione organizzativa, come i diversi approcci che possono essere seguiti nel processo o le diverse prospettive secondo le quali l’analisi e la progettazione stessa possono essere condotte: esse dipendono dalla natura del problema organizzativo, ma
anche dal modo in cui ci si pone di fronte al problema stesso. In maniera sufficientemente schematica, le principali alternative sono quelle indicate qui sotto. Come spesso accade, nella realtà
le contrapposizioni sono assai meno nette, ma in questa sede si privilegia un’impostazione didattica che, contrapponendo le due forme, ne facilita la descrizione.
Le logiche alternative di progettazione
Bottom-up e top down
Greenfield e brownfield
Radicale e incrementale
La prima distinzione identifica le due diverse direzioni di marcia seguibili nell’espletamento delle
attività caratterizzanti la progettazione. La logica bottom-up - dal basso verso l’alto - procede per
aggregazioni, partendo dai compiti (assegnati o comunque svolti) e passa a definire via via le
mansioni, i meccanismi di coordinamento più opportuni e, quindi, le unità organizzative attorno
alle quali consolidare un assetto: è una logica empirica, che parte dai dati reali e che si manifesta assai adatta ad affrontare situazioni di razionalizzazione e di sviluppo. La sua alternativa
logica - quella top down, dall’alto verso il basso - procede invece per disaggregazioni, partendo dall’insieme delle attività che occorre svolgere e dal campo di azione complessivamente inteso, per definire i livelli più bassi in cui si può scomporre il compito generale. La prima direzione
sembra adatta ai momenti di cambiamento di orientamento e di strategia, mentre la seconda si
confà a mutamenti più localizzati, ad esempio quando si introducono innovazioni tecnologiche o
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Quaderni per la Formazione
nelle componenti direttamente operative dell’organizzazione quando, cioè, la visione d’insieme
degli effetti è condizione indispensabile per un riassestamento generale.
La logica greenfield - o del terreno verde, per usare la traduzione letterale - è comprensibilmente e tipicamente utilizzabile nei momenti di avvio di un’iniziativa, quando tutto è da mettere in
piedi e non esistono vincoli e condizionamenti derivanti dal passato in grado di intervenire (nel
bene o nel male). Il suo opposto - denominato brownfield, etimologicamente campo marrone,
cioè già calpestato - costituisce via quasi obbligato quando si tratta di modificare una situazione
esistente, laddove in altri termini occorre trovare soluzioni che facciano i conti con la situazione
presente e siano palesemente il frutto dello storia (e non in rottura con questa): concentrare l’attenzione sulle soluzioni immaginabili come ragionevolmente praticabili, in quanto logica e diretta conseguenza di come si è agito e di quanto si è fatto sino a quel momento, comporta rinunciare (in modo consapevole) alle alternative teoricamente possibili (magari anche migliori), ma
non accessibili senza incontrare resistenze forti e bloccanti.
Quest’ultima precisazione spiega perché, nella logica brownfield, occorra mettere in linea di
conto un’incidenza dei costi di cambiamento, in termini di rilevanza delle resistenze al cambiamento stesso e di impegno diretto nella stessa gestione del cambiamento, assai maggiore di quanto ne comporti agire in logica greenfield. Questo chiarisce perché possa spesso essere più saggio optare per una “nuova” progettazione, sicuramente più libera nella sua fase immaginifica,
anche se più povera del patrimonio che l’esperienza ha prodotto.
L’ultima dicotomia - logica radicale e logica incrementate, la cui differenza è sicuramente chiara
già a livello intuitivo - si fonda sul ruolo giocato nelle diverse situazioni da numerosi fattori, quali:
• l’estensione del cambiamento che si va a suggerire, vale a dire ad esempio quante persone
e quante unità operative sono coinvolte;
• la profondità, in termini di ampiezza e incidenza dell’innovatività;
• il timing, vale a dire il tempo di cui si può disporre per la progettazione e l’implementazione del cambiamento;
• l’entità dell’investimento, per quanto riguarda le risorse sia fisiche che mentali necessarie;
• il tipo di attività e di competenze interessate dal cambiamento, vale a dire la loro centralità
rispetto agli obiettivi dell’organizzazione;
• gli attori del cambiamento, vale a dire le persone che se ne fanno promotori, e il peso che
questi hanno all’interno dell’organizzazione, tale da poter imporre o meno svolte nette.
La logica incrementale procede, come evidente, per piccoli aggiustamenti, laddove si evidenziano disfunzioni nei processi operativi o dove è necessario tenere conto di adeguamenti normativi
(per esemplificare, si pensi alle norme sulle assicurazioni o a quelle in tema di sicurezza). La logica radicale si accompagna, invece, a riorientamenti di fondo, di declinazione della strategia che,
senza essere dirompentemente innovativa, necessita però di cambiamenti evidenti, che siano tali
anche come segnali percepibili da tutti, dentro e fuori.
Le opzioni sin ora presentate vanno ad essere esercitate su una data realtà (embrionale o matu-
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Quaderni per la Formazione
ra, vivace o stanca..) che va innanzitutto osservata con riferimento ai seguenti fattori:
1. la complessità del sistema organizzativo, le cui dimensioni derivano dalla articolazione più o
meno ampia delle attività e dalla varietà dei rapporti con l’ambiente di riferimento;
2. il grado di dinamismo del contesto operativo ed il conseguente fabbisogno di adattamento ed
innovazione;
3. la differenziazione negli assetti organizzativi delle diverse unità operative;
4. il grado di interdipendenza e le necessità di integrazione tra i servizi offerti o tra le fasi;
5. l’impatto delle esigenze di coerenza tra le variabili organizzative ed i fattori individuali;
6. l’ampiezza del controllo che è necessario (si pensi alle implicazioni derivanti da eventuali con
venzioni con un ente pubblico che impongono determinati standard verificabili) o opportuno
(in forza di scelte interne, comunque da rispettare).
La complessità merita alcune precisazioni. Essa dipende essenzialmente dalle caratteristiche dei
propri utenti, del territorio di riferimento (nell’accezione più ampia che ricomprende la dimensione fisica e soprattutto quella sociale) ed anche dalle tecnologie utilizzabili. Una fonte importante è quella che deriva dagli interlocutori esterni, siano essi istituzioni pubbliche che finanziatori (potenziali o reali). Si tratta, quindi, di una serie di elementi che richiedono considerazione
nel momento in cui si intende progettare (o riprogettare) l’assetto associativo. In particolare,
occorre bilanciare le risposte ai fabbisogni presenti sui diversi versanti, tenendo conto dei costi di
un’eccessiva articolazione di strutture e meccanismi.
Nel mentre si analizzano i fattori di complessità, può valere la pena interrogarsi su quanto siano
prevedibili esigenze di cambiamento e, quindi, su quanto sia forte la necessità di mettere in linea
di conto una particolare attenzione verso l’innovazione: quanto maggiore, ad esempio, deve
essere la cura da riporsi nell’anticipare la dinamicità dei bisogni dei nostri destinatari, tanto più
sarà necessario impostare le attività in termini flessibili, valorizzando e stimolando ogni forma di
apprendimento nei nostri volontari che li renda sempre più responsabilmente coinvolti.
3.2 Forme e strutture organizzative
Il tentativo di inquadrare tutti gli elementi che sono presenti sullo scenario della nostra organizzazione di volontariato ci pone di fronte le indicazioni utili per darle una prima forma e per delinearne un profilo strutturale.
La forma organizzativa rappresenta in un certo qual modo l’anima, il carattere dell’organizzazione, ciò che ne influenza il comportamento, il modo di essere e di reagire agli stimoli del suo
ambiente. Le strutture rappresentano, invece, le soluzioni adottabili, le risposte già più operative.
Per quanto riguarda le forme, due dicotomie sono di aiuto nel descrivere le caratterizzazioni più
marcate.
Le forme organizzative
Meccanica versus organica
A legami deboli versus legami forti
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Quaderni per la Formazione
La prima alternativa prende origine dalla contrapposizione tra due modi di essere simbolicamente evocabili attraverso due metafore: l’orologio e l’organismo. La forma meccanica è quelle
che tende a funzionare con precisione, come un ingranaggio bene oleato, tramite una divisione
dei compiti accurata e ben interiorizzata, le modalità di comunicazione sono soprattutto verticali e prevalentemente di tipo direttivo (dall’alto verso il basso) e “per eccezione” , cioè si pone il
problema al responsabile (dal basso verso l’altro). La forma organica assomiglia ad un organismo che si adatta all’ambiente, che trova sempre una risposta alle pressioni esercitate nei suoi
confronti, i compiti individuali non sono rigidi ma si ridefiniscono continuamente e la comunicazione avviene a tutto tondo, è prevalentemente a carattere consultivo, il raggiungimento degli
obiettivi è la priorità.
Ancora una volta ribadiamo che non è definibile quale sia meglio, ma che il criterio di giudizio
risiede nella coerenza che la forma manifesta con le esigenze interne ed esterne: se il nostro gruppo di volontari mostra preferenze per una precisa delimitazione dei propri impegni, per incarichi dai contorni precisi e stabili nel tempo, per una ripetitività che offra tranquillità e se i nostri
servizi si caratterizzano per presidio costante e regolare, è chiaro che la forma organica assume
una valenza fortemente positiva. Ugualmente, tutta la flessibilità e la propensione all’adattabilità
della forma organica, necessitano di un sostegno sul piano dei valori e delle competenze per non
essere dispersive e inefficaci.
La seconda dicotomia evidenzia le diverse intensità che - connotando diverse realtà organizzate
- caratterizzano i legami interni. Con l’espressione forma a legame debole si intende sottolineare un modo di essere dell’organizzazione, per cui le varie unità sono dotate di autonomia e indipendenza (si caratterizzano, rifacendoci ad un concetto già utilizzato, per interdipendenza generica) e ciò che viene agito in un punto genera conseguenze limitate sul resto dell’organizzazione: immaginiamo un’associazione che gestisca più case di accoglienza, quello che in una di queste fanno i volontari è in gran parte indipendente da quello che fanno altri in un’altra (se non per
l’influenza del sistema dei valori che deve essere comune). La forma forte caratterizza quelle
organizzazioni in cui la discrezionalità è necessariamente modesta: pensiamo, ad esempio, ad
un’associazione che opera nel settore della protezione civile, la sua efficace azione dipende da
quanto gli addetti alla logistica saranno precisi e rigorosi e una loro mancanza provoca effetti a
cascata sulle operazioni.
Le situazioni proposte dimostrano che le due configurazioni hanno connotati diversi, ancora una
volta: non c’è un meglio, c’è una migliore adattabilità ad uno specifico contesto, anche se il
rischio di patologiche degenerazioni (verso forme anarchiche) suggerisce di intervenire “irrigidendo i legami”. Cogliere le differenze, ci consente di distinguere tra diversità di situazioni:
un’organizzazione che (intrinsecamente o per scelta) preferisce sviluppare legami deboli e un’altra che invece tende a consolidarli in maniera più rigida svilupperanno comportamenti coerenti
che, interpretati in chiave opposta, generano tensioni inutili.
E’ probabilmente evidente, a questo punto, che la struttura organizzativa (il modo con cui si gesti-
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scono e governano i processi di differenziazione e integrazione) appare come conseguenza del
modo di porsi dell’organizzazione. Strutture elementari, con una divisine del lavoro non particolarmente spinta, assai poco gerarchizzate e scarsamente formalizzate sono adatte a quelle organizzazioni organiche, molto inserite nel contesto locale e in grado di rapportarsi flessibilmente
con questo. Per converso, una forma meccanica a legami forti - un’associazione che opera nel
campo dell’assistenza agli ammalati terminali - richiederà un assetto strutturale per ruoli ben definiti e più proceduralizzato, esprimerà maggior rispetto per un orientamento gerarchico che salvaguardi le competenze.
3.3 Le determinanti del comportamento organizzativo
Nel paragrafo precedente ci si è preoccupati di sottolineare, ancora una volta, che è razionale
progettare l’organizzazione solo considerando i suoi componenti come soggetti direttamente interessati, come “attori strategici”, cioè portatori di interessi e di orientamenti. Ribadire questo significa confrontarsi con il ruolo svolto da due variabili particolari, la cultura ed il potere, che sono
in grado di spiegarci una serie di comportamenti che non derivano direttamente e meccanicamente dall’assetto strutturale, vale a dire dal come è stato definito il “chi fa cosa”.
L’organizzazione è un meccanismo di influenza dei comportamenti individuali, come abbiamo
visto nel par. 2.4, proprio perché al suo interno operano simboli, valori, assunti e dinamiche di
equilibrio tra le persone (tra i volontari, più o meno coinvolti, e tra i volontari ed i retribuiti): esistono, cioè, una data cultura e un dato assetto di potere.
Si è soliti definire la cultura di un’organizzazione – sull’onda del pensiero di E. Schein - come
quell’insieme di simboli, valori ed assunti (essendo questi ultimi valori invisibili, quelli inconsci e
dati per scontati) che un gruppo ha sviluppato nell’affrontare problemi e situazioni e che ha funzionato permettendo all’organizzazione di sviluppare i propri orientamenti, così da poter essere
considerati validi e trasmessi ai nuovi arrivati come il modo adeguato di affrontare le diverse circostanze. E’ di tutta evidenza che un ruolo importante nel processo di creazione e identificazione di questo complesso di elementi che rientrano nella cultura, è giocato dai leader, in particolare – è questo è innegabile nelle nostre associazioni – dai fondatori: è loro la sensibilità che connota il modo d’essere e di porsi nei confronti degli obiettivi, è loro l’intonazione sulla cui lunghezza d’onda si agisce. Attorno al coagulo di valori proclamati e assimilati si forma un modo
specifico di operare, un modo di scegliere le priorità e di sviluppare comportamenti che nel tempo
si consolida come lo stile proprio dell’associazione.
L’aspetto paradossale sta nel fatto che quanto più questo insieme ha funzionato, avuto successo
(nel senso di adeguata corrispondenza alla mission) tanto maggiore sarà l’incapacità di rinnovamento manifestata da chi, quell’approccio, ha visto crescere e dare frutti. Per questo la cultura
organizzativa costituisce uno dei fattori fondamentali della progettazione organizzativa e di ogni
processo di cambiamento: quanto più è solida e condivisa da un nucleo robusto di volontari
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Quaderni per la Formazione
(magari in posizioni chiave) tanto più rischia di trasformarsi in una sorta di gabbia, che impedisce di vedere che la realtà sta cambiando, che i bisogni stanno cambiando, che il tessuto sociale sta cambiando ...., e che continua a riproporre il proprio modo come “il” modo adeguato,
anche laddove dovesse essere sempre più evidente che così non è. Non occorre dilungarsi nel
documentare quanto questa risorsa potente che è la cultura incida nell’assetto, nelle scelte operative – pensiamo alla rilevanza che hanno i valori condivisi nell’agire quotidiano proprio in
quanto efficaci meccanismi di coordinamento – e quanto, al tempo stesso, una sottovalutazione
del suo potenziale ruolo conservativo impedisca un cambiamento reale o agisca come difesa, ma
non di valori irrinunciabili, quanto di attaccamento al modo di vedere e sentire di chi ne è portatore. In questo senso, la progettazione organizzativa è creazione di cultura.
Un ruolo analogo è giocato dal potere. La sua esistenza è intrinseca all’esistenza dell’organizzazione. Come abbiamo, infatti, ancora una volta sottolineato l’organizzazione indirizza i comportamenti, cioè - come una semplice e neutra definizione di potere ci fa dire - l’organizzazione “fa fare a qualcuno qualcosa che questi non avrebbe fatto senza l’intervento dell’organizzazione” (per l’intermediazione di colui che rappresenta l’organizzazione in quel momento ed in
quel luogo). In questo senso, l’organizzazione (e chi agisce in nome e per conto) dispone di un
potere nei confronti di tutti coloro che vi aderiscono. Come tutti ben sappiamo, avendolo sperimentato, il potere non è solo manifestazione ragionevole di un ordine cui ciascuno può scegliere di aderire se vuole raggiungere lo scopo che è praticare volontariato. Occorre, allora, discriminare tra le diverse manifestazioni di potere, non essendo queste tutte uguali e dando origine a
comportamenti diversi. Nessun volontario, anche il più motivato e meglio intenzionato, farà quello che gli è stato indicato (vale a dire obbedire all’ordine del proprio superiore come potrebbe
accadere in azienda) se questa istruzione non è coerente con quello che lui farebbe spontaneamente o se è fornita da qualcuno che lui stesso non riconosce autorevole e competente in quello
che sta facendo.
Sono tre le forme in cui può declinarsi il fenomeno del potere.
Il potere come
Autorità, vale a dire come esercizio “legittimo” di una posizione superiore.
Scambio, vale a dire come situazione di “baratto” tra disponibilità di risorse ed interessi diversi
Influenza, vale a dire come capacità di intervenire nei processi mentali .
Sul fronte del potere come manifestazione di autorità sono tre le sfumature che possiamo evidenziare, rifacendoci alle riflessioni in tema di Weber, altro grande studioso. La prima, sicuramente la più presente nel mondo del volontariato, deriva dal carisma, dal fascino individuale che
diventa ragione sufficiente per seguire ed obbedire: è l’espressione positiva del potere, quella
senza della quale le associazioni di volontariato probabilmente non nascerebbero neppure, quella cui è facile e ragionevole andar dietro. Esistono poi l’autorità tradizionale e quella legale: l’una
deriva dalla consuetudine, l’altra dalle norme (anche solo sociali) e dalle leggi. Se nel caso del
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Quaderni per la Formazione
carisma, è la persona ad essere fonte di potere (perché c’è piena e perfetta coincidenza tra ruolo
rivestito e competenza); negli altri due è il ruolo, vale a dire la posizione ricoperta, a prevalere:
è in forza del fatto che per abitudine si dà ascolto a colui che ci è stato presentato come responsabile o perché tutti fanno così ed è più semplice adeguarsi, che i volontari manifestano la propria disponibilità ad adottare taluni comportamenti e a svolgere certi compiti. Non occorre neppure rimarcarlo, ma l’unica fonte duratura è la prima; le altre, in assenza di dinamiche vincolistiche su cui far leva (e l’assenza o la modestia di barriere all’entrata ed all’uscita ne vanifica per
definizione la logica impositiva) sono destinate a non durare nel tempo.
Il potere come scambio mette in evidenza, alla Barnard (che abbiamo citato nel capitolo precedente) quanto la partecipazione ad un’organizzazione dipenda proprio dal rapporto tra incentivi e contributi: laddove tale rapporto inizi a manifestare squilibrio, nascono situazioni di potere
che possono degenerare nel patologico e che comunque danneggiano l’organizzazione.
Ugualmente delicata è la terza forma: il potere come influenza si muove su un filo sottile, quello
dell’arte del convincimento (sempre a rischio di degenerare in manipolazione con implicazioni
deplorevoli sul piano etico, ma anche poco produttive rispetto all’efficacia nel tempo, obiettivo più
importante per le nostre associazioni), che otterrà sì comportamenti coerenti con gli intendimenti del soggetto forte, ma che se non si tramuta in convinzione reale, effettiva, solida, resta esposto ad ogni dubbio che un’indicazione non pienamente condivisa, un atteggiamento non totalmente corrispondente alle attese possa far sorgere e trasformare in una certezza (quella che l’associazione non è adatta…).
3.4 Il potenziale di opportunismo e l’incertezza
Definiamo opportunistico un comportamento che tradisce lo spirito di un accordo di cooperazione o di scambio - può trattarsi di promesse in cui non crede neppure chi le fa o di azioni rivolte
al proprio esclusivo beneficio … I comportamenti opportunistici generano quella che si definisce
come incertezza comportamentale - una sorta di indeterminatezza e di inaffidabilità in quello che
è ragionevole attendersi dai nostri interlocutori - che, nei fatti, impedisce all’organizzazione di
agire come meccanismo di influenza dei comportamenti individuali. Per questa ragione, l’argomento è di specifico interesse a questo punto dell’esposizione e vale la pena soffermarsi a riflettere su come si possa adeguatamente fronteggiarlo, dando per implicito che non si possa a priori escludere la sua presenza nelle organizzazioni di volontariato.
Molte sono le fonti di potenziale di opportunismo; tra queste, quelle più interessanti per le associazioni possono essere considerate le seguenti:
• il conflitto di interesse;
• il grado di sostituibilità degli attori;
• l’istituzionalizzazione dei comportamenti;
• l’incertezza.
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Quaderni per la Formazione
La presenza di conflitto di interesse – vale a dire di forme di contrapposizione, anziché di complementarietà e convergenza, tra gli interessi che governano lo svolgimento delle attività – rappresenta sicuramente la più rilevante tra le motivazioni che generano opportunismo. La questione è delicata non solo perché la dimensione etica viene scossa fortemente, ma anche perché l’assetto organizzativo assume una forte ambiguità e influenza negativamente l’interesse per la
causa. Ugualmente, una forte dipendenza da alcuni operatori (quindi scarsamente sostituibili)
può favorire atteggiamenti opportunistici così come comportamenti che via via si irrigidiscono
sulla formalità, sul doveroso ma non convinto rispetto di un ruolo manifestano il prevalere di interessi non allineati con quelli dell’organizzazione: un esempio per tutti. Nessuno si permetterebbe
di mettere in discussione il valore e la bontà del volontariato, ma è a tutti noto che spesso il soggetto pubblico nasconde, dietro all’ossequio, un interesse marcato alla riduzione dei costi da
sostenere per garantire certi servizi…
Il tentativo di minimizzare l’impatto derivante dal rischio di opportunismo sulle scelte di progettazione organizzativa si configura, quindi, come opzione ragionevole e si traduce nell’adozione
di soluzioni che consentano un maggior controllo della relazione e dei comportamenti della controparte. Tra quelle più utili si possono citare:
• innanzitutto, l’internalizzazione delle attività, vale a dire la scelta di tenere il più possibile sotto
il controllo diretto dell’associazione, attraverso i suoi operatori, le cose da fare ed i contributi
anche specialistici necessari all’espletamento dei compiti;
• una maggiore formalizzazione, sia in termini di fissazione di regole interne che di clausole
precise nei confronti dei collaboratori;
• la separazione fra attività, per tipologia di destinatario, che consente di non rendere troppo
dipendente l’associazione “dall’esperto” impiegato a presidio di quella data attività.
L’incertezza non riguarda però solo i comportamenti attesi. Essa può manifestarsi anche in altre
forme.
Quando aumenta l’incertezza del compito - e questo accade per moltissime ragioni, assolutamente frequenti e normali, quando ci si occupa di servizi alla persona, magari (come è normale) portatrice di una qualche forma di disagio - due alternative sono percorribili per garantire
ugualmente la sua realizzazione efficace; si può:
• agire per ridurre l’ammontare delle informazioni che debbono essere trattate;
• agire per aumentare la capacità di trattamento delle informazioni.
Entrambe si declinano ulteriormente in due modalità operative, che lo schema qui sotto inserito
riassume.
Le modalità di adattamento all’incertezza
della quantità di informazioni necessarie
Risorse di riserva
Creazione di compiti autosufficienti
Diminuzione
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Incremento
della capacità di trattamento delle informazioni necessarie
Sviluppo di canali di comunicazione verticale
Introduzione di rapporti laterali
Vediamo di cosa si tratta più nel dettaglio, per capirne l’uso nel mondo delle associazioni.
La creazione di risorse di riserva, a fronte di una incertezza nella quantità di domanda da fronteggiare, è una delle opzioni più praticate, anche perché apparentemente a costo zero (tengo
pronto un numero di volontari, maggiore rispetto a quanti di solito ne destino ad un dato servizio, se ho sentore che la richiesta possa aumentare). Il costo che realmente si paga è legato al
rischio di potenziale demotivazione di chi non riesce ad esercitare pienamente la propria disponibilità. Certamente, un’accurata azione informativa sulla ragione di un simile orientamento attenua il rischio (ma non lo elimina). Un altro modo implica, invece, intervenire sulle modalità di
definizione dei compiti, per esempio diminuendo il grado di divisione del lavoro e di specializzazione (e riducendo conseguentemente la necessità di trasferire informazioni da un operatore
all’altro); questo implica correre il rischio di non utilizzare al meglio le singole disponibilità o di
perdere i benefici di un apporto specialistico.
Se, sino ad ora, ci si è mossi con l’intento di ridurre l’ammontare di informazioni (e di scambi
informativi) necessari, è altresì possibile orientarsi in maniera opposta. La situazione specifica
può richiedere, cioè, non di limitare l’impegno, ma di accrescerlo. Si può, in altri termini riscontrare che occorrono risorse dedicate, che presidino il luogo di formazione delle informazioni, con
il compito di trasmetterle velocemente a chi deve decidere perché lo faccia tenendo in debita considerazione i mutamenti in corso: questa impostazione funziona se le informazioni sono in qualche modo quantificabili e formalizzate (ad esempio, un incremento nella domanda di pasti, piuttosto che una crescita nelle presenze ad una data proposta di servizio). Se, al contrario i segnali sono ambigui e qualitativi (stanno cambiando i comportamenti dei frequentatori della nostra
mensa, le loro esigenze), occorrerà intervenire direttamente stimolando la formazione della decisione in chi opera nel punto dove si manifesta il bisogno (e quindi favorendo l’assunzione di
responsabilità ed il coinvolgimento). Un’altra modalità prevede l’inserimento di collegamenti laterali tra gruppi autosufficienti, fenomeno informale piuttosto diffuso che può essere utile favorire,
“esplicitandone” l’esistenza proprio in quanto elemento di connessione tra gruppi che si muovono
con margini di discrezionalità che non possono scivolare verso un’eccessiva autonomizzazione.
3.5 Cambiamento e stabilità in equilibrio dinamico
Ben lontani dell’essere sistemi statici e stabili di facile progettazione e di ugualmente facile gestione, le organizzazioni vivono ed operano in una continua oscillazione tra spinte alla loro trasformazione e pressioni rivolte al loro mantenimento. Siamo, peraltro, abituati a ragionare in termini di progressismo e conservatorismo intendendo sottolineare con queste categorie concettuali la
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Quaderni per la Formazione
propensione a resistere o favorire un processo comunque inevitabile.
Così come ciascuno di noi osserva su sé stesso (il fenomeno, in effetti, si manifesta innanzitutto a
livello personale), la convivenza tra le due forze è tutt’altro che pacifica: l’evidenza empirica,
legata anche solamente ad un’osservazione superficiale di una qualsiasi organizzazione, ci offre
un’idea di continua elaborazione di strategie più o meno palesate o sommerse che medino, da
un lato, la conservazione e, dall’altro, la trasformazione di quanto i diversi punti di vista considerino degno di perdurare o destinato ad essere accantonato.
Ancora l’esperienza ci aiuta a capire meglio quanto, nelle singole situazioni, sia arduo scegliere
l’una o l’altra via. Occorre, però rimarcare un dato: il cambiamento è inevitabile, perché implicito nel trascorrere del tempo e prodotto dall’azione (peraltro, se nulla cambiasse, potremmo
dubitare dell’utilità della nostra organizzazione); per cui, semmai, occorrerà valutare quanto
accompagnarlo e quanto, opponendovi resistenza, tentare di rallentarlo perché non gradito, non
allineato con la nostra visione di come dovrebbero andare le cose.
Se, però, osserviamo il cambiamento nella sua potenzialità, ci accorgiamo che è molto più ragionevole assecondarlo: cambiare adeguandosi ai nuovi bisogni, al nuovo contesto, utilizzando
quanto l’esperienza ci ha insegnato e valorizzando, pertanto, l’apprendimento e la proattività dei
soggetti appare allora una strategia più coerente con il ruolo che storicamente il volontariato ha
assolto di quanto non sia la scelta di arroccarsi sulla difesa di un processo inevitabile.
Per tali ragioni, vanno presi sul serio motivi che tendono ad ostacolare il cambiamento. Volendo
presentare in forma schematica i principali, la tabella seguente ne offre una sintetica panoramica.
Cause di resistenza al cambiamento
Costi, quelli che si debbono sostenere quando gli interessati non percepiscono i vantaggi del
cambiamento (per scarsa comunicazione o per reale conseguenza)
Rigidità ed inerzie, derivanti da abitudini individuali o da norme di gruppo
Paura dell’ignoto e del rischio che spesso accompagna gli individui
Scarsità di risorse, sia individuali che organizzative, fanno sì che il cambiamento
I problemi di potere, legati alla rottura di equilibri o di situazioni consolidate
Il cambiamento spesso incute timore, come accade per le novità se non le si accoglie con consapevolezza: ed è su questo versante che occorre intervenire. Non a caso, i motivi che provocano
il fallimento dei processi di cambiamento, come sotto specificato, derivano in maniera più o meno
diretta da questo fatto.
Motivi di insuccesso del cambiamento
Non comunicare il senso di urgenza
Non coagulare un sufficiente supporto
Non avere una visione chiara del futuro
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Quaderni per la Formazione
Non comunicare la visione
Non eliminare gli ostacoli
Non individuare traguardi intermedi e a breve termine
Non essere attenti al lungo termine
Non istituzionalizzare il cambiamento
E’ chiaro che il cambiamento va gestito, nel tempo (perché in caso contrario saranno le sue forze
inerziali a travolgere l’organizzazione). Allora è necessario considerarlo come un processo da
organizzare, raccogliendo consenso e preparando il terreno adatto. Dire questo significa misurarsi con la successione di fasi indicate nello schema seguente. E’ facile declinare attraverso
esempi in cosa si declinano: basti immaginare di dar corso all’esigenza di rinnovamento della
classe dirigente della nostra associazione, oppure a quella di innovare i servizi offerti, il modo di
porsi della nostra associazione nei confronti della ricerca dei nuovi volontari….. Sappiamo per
esperienza che tentare di accelerare, saltando un passaggio, non produce esti soddisfacenti..
Il cambiamento come processo
Fase di unfreezing, intervento di scongelamento della situazione presente - quella che deve
essere modificata - e di raccolta delle spinte e delle forze favorevoli; è fondamentalmente una
operazione di preparazione
Fase di changing, quella in cui si attua la riprogettazione, si mettono in campo le ragioni dei
nuovi orientamenti, si formulano e si verificano le proposte;
Fase di refreezing, quella in cui si tende a consolidare il nuovo assetto, intervenendo con eventuali aggiustamenti a consolidare un nuovo modello.
4. LE FUNZIONI ESSENZIALI
Cosa connota un’organizzazione dal punto di vista del suo assetto interno? Abbiamo risposto, i
processi di differenziazione e di integrazione. Abbiamo anche cercato di rimarcare che l’assetto
organizzativo dipende da come ogni organizzazione si pone, da come si “organizza” per funzionare, suggerendo che è meglio che questo avvenga nell’ambito dell’efficienza e dell’efficacia.
Come dire: l’assetto interno serve per garantire la propensione verso l’esterno che l’organizzazione manifesta; la mission (e gli obiettivi in cui si declina) si identificano proprio in quanto ragion
d’essere riconosciuta al di fuori dei propri confini. Tutto quello che trova collocazione dentro ha
la sua ragion d’essere nell’apporto che offre a questo. Si tratta, quindi, di capire cosa occorre
“mettere dentro”, in che ordine, con quali rapporti e con quale finalizzazione: si tratta, in buona
sostanza, di capire quali funzioni – cioè quali insiemi di operazioni omogenee – servono per realizzare il proprio oggetto.
Esaminare le funzioni rappresenta un modo naturale per interpretare il funzionamento di un’or-
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Quaderni per la Formazione
ganizzazione: ciascuna deve necessariamente pensare e progettare i suoi servizi, realizzarli
effettivamente, procurarsi le risorse che le occorrono e così via. Ogni insieme di operazioni omogenee viene, di norma, svolto da persone raggruppate in una stessa unità: per esprimere la logicità di questa impostazione si può ricorrere ad un’analogia con il mondo biologico, nel quale le
stesse funzioni sono svolte da organi specifici specializzati in quella funzione: è quello che abbiamo già più volte rimarcato, sottolineando la rilevanza dei processi di differenziazione.
Proponiamo, allora, di sviluppare il ragionamento sottolineando alcuni aspetti della distinzione
(fondamentale dal punto di vista logico ed altresì da quello organizzativo) tra attività primarie –
quelle caratterizzanti il mestiere dell’associazione e, quindi, inevitabilmente le più varie perché
specifiche a seconda del settore di riferimento e della tipologia di destinatario privilegiata - ed
attività di supporto - quelle che aiutano la realizzazione delle prime, senza manifestare significative peculiarità, ma fondamentali per il corretto funzionamento dell’organismo nel suo insieme.
Capirne l’importanza, ad esempio, di queste ultime è strategico per un’organizzazione di volontariato, perché, se le prime - quelle core, quelle caratterizzanti - attraggono i volontari perché
concretizzano la “causa”, mettono sul campo, perchè offrono l’opportunità di svolgere un servizio percepito immediatamente come utile, solitamente le seconde si propongono come assai meno
affascinanti (che lo siano davvero?) e restano sovente un territorio non presidiato (o mal garantito, che non è meglio) costringendo le organizzazioni a pagare prezzi in termini di efficienza e
di immagine, che possono ripercuotersi anche sulla prima linea: posso avere i volontari più bravi
e motivati ma se a questi mancano informazioni e input sarà quanto meno più impegnativo realizzare il loro compito.
L’ultimo paragrafo introduce con pochi cenni un argomento “tecnico”, quello dei sistemi operativi. L’etichetta che li definisce è espressione, di per sé, della loro finalizzazione: essi servono per
far funzionare la dimensione quotidiana e sono sistemi perché non si può dimenticare l’esistenza
di forti legami all’interno di ciascuno e tra l’uno e l’altro, legami che - se non adeguatamente
coordinati ed opportunamente finalizzati - influenzano negativamente il funzionamento.
4.1 Le attività primarie
Si definiscono attività primarie quelle che caratterizzano l’organizzazione, quelle senza delle
quali semplicemente la nostra associazione non sarebbe quello che è (e vuole essere): la preparazione dei cibi e la cura della mensa per l’associazione che si occupa dei poveri, il doposcuola per i bambini per quella che opera nel quartiere a rischio, il trasporto dei malati per la pubblica assistenza e così via… Rappresentano normalmente dei processi, vale a dire una sequenza
di azioni che, disposte in ordine, mettono in evidenza impegni e necessità.
La prima banale e ovvia considerazione è che ogni associazione ha un proprio elenco di attività, legato al modo in cui la mission viene tradotta, e su quello occorre ragionare. Ciò che è importante conoscere bene non sono tutte le attività che potrebbero, a rigor di logica, essere inserite
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Quaderni per la Formazione
nella struttura organizzativa, ma solo quelle che costituiscono gli assi portanti del sistema, cioè le
attività chiave, quelle nelle quali è necessario raggiungere l’ottimo per conseguire gli obiettivi prefissati ed, anzi dove, prestazioni insufficienti potrebbero mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’organizzazione. Distinguere tra ciò di cui occorre assolutamente avere cura e che va
inserito tra le priorità e ciò che può essere lasciato in secondo piano è un modo semplice per fare
i conti con le risorse limitate, anche se spesso è facile che così non accada: siamo più affezionati a ciò che facciamo, a ciò che dal nostro singolo punto di vista è importante, che all’insieme (che
fatichiamo a vedere).
Potremmo essere efficacissimi nelle attività di promotion e di accoglienza, ma se la mensa o il
doposcuola non funzionano, qualche dubbio sorge spontaneo. Questo ci permette di sottolineare che è indispensabile focalizzare l’attenzione e concentrare le energie. Questo, si badi, non è
un comportamento spontaneo: è molto più frequente incontrare associazioni che, invece che concentrarsi nel fare meglio quello che stanno facendo (quanto meno sino a quando non sembri
opportuno prendere atto della necessità di un cambiamento nella mission e negli obiettivi), tendono a rincorrere nuove iniziative, rischiando di disperdere energie e di non riuscire mai a raggiungere elevati livelli di prestazione.
C’è, poi, un aspetto che abbiamo già citato per la sua evidente rilevanza e che occorre ora ancorare al livello organizzativo perché sia effettivamente incidente: si tratta dei valori qualificanti.
Perché questi permeino il tessuto e influenzino le azioni occorre che ci sia una componente organizzativa responsabile, importante tanto quanto quelle che si occupano delle attività operative e
che, in quanto tale, si qualifica come componente chiave. Tutto quello che non è direttamente
rivolto a questo – a tutelare il cuore dell’organizzazione - per quanto importante, non è di prioritario presidio. Occorrerà occuparsene, certamente e al meglio ma mai a scapito del presidio
del valore. Se tutto quello che concerne le attività primarie rappresenta la parte visibile e operativamente impegnativa, la parte non visibile è ancora più impegnativa: perchè tocca le ragioni e
il modo.
Abbiamo detto poco sopra che ciascuna delle nostre associazioni possiede una propria configurazione. Lo schema qui riportato presenta una classificazione che può essere utilizzata come
chiave interpretativa. In essa, si distinguono tre macro ambiti di attività in funzione della essenzialità o meno del contributo.
Un inquadramento delle tipologie di attività
Attività che producono risultati
Quelle direttamente operative sulla mission
Quelle di innovazione
Quelle di informazione
Attività di sostegno, che – necessarie ed essenziali – vengono “utilizzate” da chi produce risultati, migliorandoli
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Quaderni per la Formazione
Quelle di “coscienza”
Quelle di consulenza e formazione
Attività sussidiarie, che non contribuiscono al risultato ed alla prestazione, ma il cui precario
funzionamento danneggia l’organizzazione
Quelle di tipo amministrativo
Quelle di servizio interno
Due soli approfondimenti in commento allo schema proposto.
Il primo consiste in una precisazione di tipo terminologico e sostanziale. L’espressione “attività di
coscienza” tra quelle di sostegno - espressione che è sicuramente forte e che può esser percepita come inappropriata, proposta da Drucker, studioso di management anche nel non profit - viene
usata per sottolineare l’esigenza che il sistema di valori si trasfonda in standard conseguenti realmente operativi. Anche la più piccola organizzazione necessita di questa funzione: è un compito delicato incompatibile con il lavoro operativo, tipicamente affidabile ad un singolo individuo
riconosciuto autorevole e degno di rispetto. Il suo compito è quello di ricordare continuamente ciò
che l’organizzazione dovrebbe fare e non fa, di essere scomodo in un certo senso, tenere alti gli
ideali contro la realtà quotidiana, difendere e presidiare il valore simbolico.
Il secondo risponde ad una preoccupazione metodologica. L’utilità dello schema risiede nella
declinazione che ogni singola organizzazione può fare inserendo le proprie attività in un gruppo o in altro. L’operazione in questione produce effetti sicuramente positivi: innanzitutto, conduce a meglio conoscere la propria associazione, perché la collocazione all’interno dello schema
di classificazione è assolutamente tipica, deriva dall’importanza attribuita, dalle risorse disponibili, evidenzia uno specifico modo per svolgere il proprio mestiere; le consente di disporre di un
quadro chiave delle attività su cui è necessario investire.
4.2 Le “altre” attività
Dal punto di vista definitorio, le “altre” attività consistono in tutte quelle che forniscono supporti
al flusso di lavoro operativo, che svolgono funzioni specifiche (anche specializzate in molti casi)
e non necessariamente debbono essere collocati all’interno dell’assetto organizzativo: se ciò che
definisce concretamente la ragion d’essere dell’organizzazione non può che essere controllato
pienamente sia sul piano della coerenza valoriale che del processo operativo, tutto questo variegato mondo può invece essere gestito in maniere diverse, quanto meno a seconda del peso che
queste attività occupano e della professionalità che esse richiedono (non facilmente reperibile tra
i volontari).
Le diverse combinazioni possono essere rappresentate secondo quanto riportato nella matrice qui
sotto.
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Quaderni per la Formazione
Alternative di approccio ai servizi
Frequenza/volume
dei processi di servizio
alti
bassi
Gestione centralizzata
Ricorso a fornitori stabili
Gestione decentrata
Acquisto occasionale di servizi
basso
alto
Livello di professionalità richiesto
4.3 I sistemi operativi
Con questa espressione si intende di norma riferirsi ai “sistemi”di relazioni costruiti per mettere
in collegamento le unità individuate dalla struttura e far fluire le attività, co-finalizzandole agli
obiettivi “istituzionali”. Alcuni usano l’espressione meccanismi operativi immaginandoli come
software di collegamento tra struttura e componenti dell’organizzazione, che agevolano il suo
funzionamento e indirizzano i comportamenti. Per altro, il termine sistemi non è altro che la trasposizione dell’inglese systems, che indica come queste attività di supporto e di vivificazione dell’organizzazione sono progettate ed affidate in misura maggiore o minore ad un insieme di procedure (anche snello, anzi ancor meglio se agile e scarno, ma ben definito e quindi garanzia di
funzionamento oltre l’impegno del singolo volontario che se ne è sino al momento occupato e che
conoscendo a fondo come le cose possono essere fatte, può diventare il primo incaricato di questo compito).
In buona sostanza, se teniamo conto delle finalità che perseguono , possiamo schematizzare l’apporto che i sistemi operativi forniscono nei termini seguenti.
Gli scopi dei sistemi operativi
Specificare
per
ogni
unità
operativa
gli obiettivi da raggiungere e le risorse disponibili
•
• Fornire alle persone che operano le basi conoscitive e di giudizio necessarie per le decisioni che debbono essere assunte
• Determinare le dimensioni, la struttura e la dinamica del presidio sulle risorse umane
• Determinare la struttura e la dinamica delle ricompense dei collaboratori
I principali sistemi operativi riguardano:
• il processo di formulazione strategica e di sviluppo della mission
• i processi di gestione dei volontari
• i processi di comunicazione
• i processi di controllo
Un primo sistema operativo è quello dell’iter per la formulazione strategica e per la conseguente pianificazione, intese come l’insieme di passi per tradurre la missione dell’organizzazione e la
visione desiderata del futuro in obiettivi più operativi che si dispiegano nel tempo e sono otteni-
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Quaderni per la Formazione
bili attraverso un percorso di interazione con le varie parti dell’ambiente sociale, istituzionale,
economico, legale, culturale…
I processi di gestione dei volontari - reclutamento, selezione, inserimento, sviluppo, valorizzazione - costituiscono un altro dei fondamentali sistemi operativi, il cui scopo primario è quello di
sostenere gli obiettivi dell’organizzazione attraverso adeguata cura delle persone coinvolte. Si
tratta sicuramente del sistema più articolato e composito in quanto a strumenti e metodi: normalmente trattato come un mondo a sé (per le ovvie considerazioni sulla rilevanza dei volontari nell’organizzazione di volontariato), è stato qui citato proprio a sottolineare l’unitarietà della gestione. Per gli approfondimenti del caso si rimanda ad un altro testo2.
Con un minimo di rigorosità, si può definire il sistema di comunicazione come l’insieme dei contenuti, degli strumenti e dei metodi che i partecipanti ad un’organizzazione impiegano per gestire i flussi informativi sia di tipo interno che verso l’esterno. Non è necessario ribadire quanto questi flussi siano importanti e quanto, nelle organizzazioni di volontariato, siano complessi, per disomogeneità di fonti e di direzione, per la presenza di diverse sensibilità, per natura e così via.
La loro importanza strategica richiede un adeguato presidio, sia pur in termini assai flessibili concentrato sui contenuti, lasciando a chi opera la scelta delle modalità e degli strumenti. Un
aiuto da non sottovalutare è fornito dalle nuove tecnologie, oramai di facile accesso e progressivamente assimilate dalla mentalità dei volontari anche “meno moderni”: le loro potenzialità ed i
bassi costi che comportano (pensiamo ad esempio alla differenza tra redigere una newletter in
veste tradizionale, con relativa fase di imbustamento, e inviarla via e-mail...) ne fanno un’occasione unica.
Sulla comunicazione interna vi è una robusta tradizione (talvolta perfino eccessiva, se teniamo
conto del fatto che spesso le riunioni di coordinamento operativo e l’auspicata democraticità dell’indirizzo si trasformano in appesantito assemblearismo) da tutelare e magari snellire, ma senza
disperdere una funzione così essenziale.
Il sistema operativo di controllo, come è implicito nel nome stesso, ricomprende tutto quello che
cerca di verificare l’andamento delle azioni e la loro coerenza rispetto ai più diversi parametri
(quantitativi, qualitativi, temporali..) orientare i comportamenti, permettendo un confronto tra
risultati attesi e raggiunti, con l’obiettivo di avviare azioni correttive se necessarie.
Da ultimo, anche la risoluzione dei conflitti, così come i percorsi di apprendimento e cambiamento organizzativo apparterrebbero all’universo dei sistemi operativi, anche se spesso nel
mondo del volontariato sono affidati all’informale intervento della leadership, mancando quindi
di quel minimo di formalizzazione e di investitura ufficiale che ne garantirebbe la prosecuzione
nel tempo, laddove il leader dovesse trovarsi impegnato sul fronte esterno e impossibilitato a presidiare lo sviluppo delle situazioni interne.
2
Si tratta di “Caro volontario... Suggerimenti per un’efficace gestione delle risorse umane nelle organizzazioni di volontariato” di Teresina Torre, Collana “Quaderni per la formazione” edita dal Celivo.
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Quaderni per la Formazione
In generale, i sistemi operativi si fondano su un sistema di procedure e prassi: le prime più formalizzate, le seconde più incentrate sul consolidamento delle abitudini. Se è ovviamente da evitare con cura l’eccessivo ricorso alla stesura di documenti di dettaglio che indichino il come fare,
è altresì evidente che un livello minimale va salvaguardato (o introdotto, se del caso), innanzitutto per salvaguardare l’esperienza fatta e l’apprendimento attivato. E solo in questa prospettiva
che ha senso impegnarsi su questo versante.
5. L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO (DEI VOLONTARI)
Come abbiamo già avuto modo di precisare, la progettazione organizzativa (espressione con la
quale siamo ormai un po’ più in confidenza) si sviluppa a due livelli: un primo si occupa della
definizione della macrostruttura (espressione che non ci spaventa più perché abbiamo capito che
anche le nostre associazioni, per il solo fatto di esistere, hanno un assetto strutturale d’insieme),
dei sistemi operativi (ciò che permette il funzionamento) delle modalità di collaborazione con altre
organizzazioni e, quindi, di quelli che si definiscono i confini organizzativi (elemento assai rilevante per il mondo del volontariato che spesso si occupa di fornire servizi lungo una filiera assai
complessa), in buona sostanza: gli argomenti che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti.
Il secondo livello, quello con cui ci confrontiamo ora, entra nel merito del “come si fanno le cose”,
del come le attività - reputate necessarie al raggiungimento dei fini dell’organizzazione - possano essere svolte in modo corretto, vale a dire in maniera adeguata allo scopo e secondo l’approccio più consono allo stile dell’organizzazione. Della delicatezza di questo livello della problematica - a differenza dell’altro, la cui percezione si presenta solitamente assai più sfumata - è
diffusa la consapevolezza: è evidente che, siccome abbiamo da fare delle cose, il come le si
fanno non è irrilevante ed è evidente che è proprio su questa dimensione che si giocano le difficoltà quotidiane ed operative.
Per sviluppare l’argomento sarà opportuno, innanzitutto, richiamare (ovviamente in termini definitori e puramente descrittivi, non essendo in questa sede utile un approfondimento più accurato)
la terminologia appropriata, quindi introdurre gli “strumenti di base” e le variabili che li influenzano per poi descrivere (sempre molto brevemente) i diversi approcci che possono ispirare le scelte di progettazione a questo livello, entrando quindi- con gli strumenti identificati - nel merito delle
problematiche tipiche dell’organizzazione di volontariato che, anche su questo versante, richiede opportune ed importanti riflessioni: non dimentichiamo che le modalità organizzative del lavoro dei volontari incidono, da un lato, sulle dinamiche motivazionali che stanno alla base delle
scelte di adesione all’organizzazione da parte della singola persona e sul livello di gratificazione che ella trae dall’esperienza in atto e, dall’altro, sulle possibilità di maggiore (o minore) efficacia per l’azione dell’organizzazione, rispondendo quindi alle aspettative dei suoi interlocutori
e generando circoli virtuosi per il ruolo della stesa organizzazione, le sue possibilità di essere una
presenza incidente e di svilupparsi.
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Quaderni per la Formazione
5.1 Di cosa stiamo parlando?
Nell’ambito della dimensione organizzativa, lo specifico dell’organizzazione del lavoro rappresenta la fase che si pone il centrale problema organizzativo del “come fare a fare quello che c’è
da fare”, e quindi di dividerlo tra le persone per partecipano all’organizzazione, garantendo che
- nel rimettere insieme il lavoro di ognuno - il risultato sia il lavoro che l’organizzazione si era
ripromessa o, ancor più energicamente, impegnata a svolgere; implica attenzione alla dimensione oggettiva (i contenuti) ed a quella soggettiva (le attitudini e le capacità) ed alle connessioni tra
i due piani, attraverso l’impiego degli opportuni meccanismi di coordinamento.
Si tratta di una questione tutt’altro che secondaria nel ragionamento che stiamo svolgendo, per
ragioni forse ovvie, ma che brevemente richiamiamo. L’organizzazione è le persone che la fanno,
l’organizzazione esiste se le persone continuano a considerare interessante il loro coinvolgimento, l’organizzazione raggiunge gli obiettivi per cui esiste se le persone fanno ciò che serve e come
serve. Sappiamo, per esperienza, diretta che tutto questo non è sempre così pacificamente acquisito.
Stiamo, in altri termini, entrando nella dimensioni più delicata ma cosostanziale.
Nella sostanza operativa, stiamo parlando del modo con il quale si definiscono (non necessariamente in maniera formalizzata dal ricorso a “manuali e procedure” scritte) le modalità di base
per la realizzazione dei processi operativi. Due sono i riferimenti da prendere in considerazione
in questo percorso:
•le caratteristiche delle attività da organizzare, in funzione delle quali possono essere articolati i criteri di divisione del lavoro ed i metodi per la sua assegnazione;
•le relazioni tra queste attività, la cui natura e la cui entità determinano le modalità di coordinamento più opportune.
Da dove possiamo partire per capire come gestire queste due dimensioni, la cui rilevanza è così
intuitiva da sembrare banale, ma la cui declinazione si rivela - nei fatti – talmente delicata da
essere all’origine di molti dei problemi di funzionamento operativo, se non adeguatamente comprese?
Chiariamo, innanzitutto, l’aspetto terminologico per predisporre il campo alle riflessioni che
saranno necessarie.
5.2 I concetti di base
Sono quattro gli elementi di base attorno ai quali ruota il ragionamento: nel riquadro seguente,
se ne fornisce una breve descrizione.
I termini chiave
Operazione elementare, vale a dire la singola azione in cui è possibile scomporre una qualsiasi attività;
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Quaderni per la Formazione
Compito, termine con il quale si identifica un insieme di operazioni (umane) elementari tra
loro necessariamente collegate, per ragioni tecniche o psicologiche;
Mansione, (o, per riportare la terminologia inglese di frequente uso, il job), che qualifica un
insieme ordinato di compiti assegnati ad una persona;
Sistema primario di lavoro, che è costituito dall’insieme delle mansioni che in maniera interdipendente conducono alla realizzazione di un risultato identificabile.
Se l’operazione elementare costituisce l’unità minima, il compito - vale a dire ciò che si ottiene
dall’aver messo insieme più operazioni – può derivare da due diverse modalità di composizione: una di tipo tecnico, che riguarda l’impossibilità (o comunque la non convenienza) a separare lo svolgimento di date attività; l’altra di natura psicologica, che si riferisce alla percezione che
l’individuo ha delle azioni che deve compiere (potremmo dire che l’impressione di senso e di
compiutezza traibile da chi è addetto ad un certo compito prevale sulla eventuale ragionevolezza della separazione).
La mansione - termine che può anche risultare poco gradito al mondo del volontariato, per la sua
facile e storica associazione con il mondo profit – rappresenta il nucleo centrale attorno al quale
ruota l’interesse delle persone e l’assetto finalizzato allo scopo dell’organizzazione: in casi di
massima frammentazione può coincidere con il compito. La mansione si connota per una molteplicità di caratteristiche.
Le dimensioni della mansione
varietà, conseguenza della numerosità e della diversità delle operazioni riunite, la cui ampiezza determina l’appetibilità della mansione stessa, ma anche il tempo richiesto per il suo svolgimento;
discrezionalità, nelle sue due connotazioni di tecnica (quali strumenti scegliere per svolgere le
operazioni) e di decisionalità (relativamente all’impiego delle risorse disponibili ed alla programmazione del lavoro);
varianza, che indica l’ampiezza delle eccezioni e degli imprevisti che possono emergere;
specificità delle conoscenze, che sono necessarie per svolgere un dato compito;
contributo, con il quale si identifica la visibilità dell’apporto, dimensione utile sia per il volontario che vede il risultato del suo impegno, che per l’organizzazione che può valutare il raggiungimento dei risultati;
feedback, che misura le informazioni di ritorno sul gradimento e sull’efficacia dell’azione svolta.
E’ intuitivo pensare che, a seconda delle diverse combinazioni possibili si avranno mansioni più
o meno varie, più o meno interessanti, più o meno impegnative e che quindi la loro progettazione risulta assolutamente centrale per il gradimento che possono suscitare nei volontari cui
saranno affidate. Si capisce subito quanto la cura da riporre nella comprensione dei contenuti
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Quaderni per la Formazione
del lavoro sia essenziale per l’organizzaizone.
Il sistema primario di lavoro è, infine, costituito dall’insieme delle diverse mansioni in cui si articola l’attività dell’organizzazione (o della singola unità organizzativa) e che, in maniera diretta
ed indiretta, contribuiscono a costruire il risultato atteso: su questo versante giocano un ruolo fondamentale le interdipendenze, di cui abbiamo già discusso e che dipendono essenzialmente
dalla complessità del servizio prodotto e che comportano forme di coordinamento diverse.
Un utile, quanto semplice, indicazione generale ci porta a dire che è conveniente ed interessante pensare a mansioni che massimizzino le interdipendenze al loro interno (vale a dire che raccolgano compiti in qualche misura collegati) e minimizzino le interdipendenze con le altre mansioni. Si pensi, ad esempio, alla possibilità di ricomprendere nella stessa mansione tutti i compiti che riguardano la gestione degli approvvigionamenti in una mensa per poveri, inserendovi
anche quelli di tipo contabile. Oppure, una mansione di presidio del territorio che unifichi ogni
attività preventiva, di segnalazione e di intervento sotto una stessa etichetta.
Sino ad ora abbiamo esaminato l’aspetto contenutistico e analitico del lavoro che i volontari svolgono. C’è un altro termine molto in voga con il quale fare i conti: ruolo; lo abbiamo già utilizzato ed è ora necessario inserirlo nel ragionamento.
Il ruolo identifica il modello di comportamento stabile dell’individuo, deriva dalle aspettative dell’organizzazione e dei componenti del gruppo e dalla personale interpretazione: è, in altri termini, la dimensione dinamica dell’interazione tra dimensione oggettiva (compiti, mansioni, sistema primario del lavoro come sopra accenntato) e soggettiva (professionalità, competenze ed
aspettative individuali). Rimanda, quindi, alla capacità dell’individuo di rispondere in modo proprio, con le risorse di cui dispone, alle richieste di un sistema che deve tentare il più possibile di
dipendere il meno possibile dal singolo, come garanzia della durabilità nel tempo dell’organizzazione.
Il ruolo si contraddistingue per una pluralità di dimensioni; in particolare:
Le dimensioni del ruolo
Tecnica, identifica la complessità intrinseca dei processi e l’entità delle conoscenze scientifico-metodologiche necessarie;
Relazionale, sottolinea la complessità delle relazioni da gestire, senza ricorrere alla leva
gerarchica;
Gestionale, precisa la complessità delle responsabilità decisionali e di utilizzo delle risorse
di cui occorre avere consapevolezza.
Le tre dimensioni si incrociano con l’aspetto oggettivo del lavoro, che ne influenza il peso: un
insieme di compiti altamente specializzati implicherà una forte dimensione tecnica; mentre compiti più di coordinamento necessiteranno di sviluppare la dimensione relazionale.
Come è intuibile, nessuna delle tre è mai totalmente assente; esse si combinano con dosaggio
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Quaderni per la Formazione
diversi, anche se in qualche caso una può essere così rilevante da dominare sulle altre e da determinare le scelte a valle. I mix che ne vengono fuori danno vita ad una gamma molto ampia di
possibilità, schematizzabili con scarsa utilità. Molto più interessante è invece riflettere su come si
possano gestire le diverse componenti: ed è quello su cui concentriamo ora l’attenzione.
5.3 Quali approcci?
Le decisioni connesse a quanto sopra introdotto possono essere assunte muovendosi tra due posizioni estreme, che (come tali) non sono praticamente mai presenti nella realtà, a maggior ragione
nelle organizzazioni di volontariato, ma la cui identificazione aiuta a schematizzare le opzioni.
Da una parte, potremmo collocare l’approccio oggettivista e, all’opposto, quello soggettivista.
Il primo privilegia i contenuti del lavoro da svolgere e imposta le regole organizzative in funzione dell’efficienza ottenibile: per cui, ad esempio, la divisione del lavoro dipende innanzitutto dalla
sua divisibilità tecnica e dalle dimensioni della domanda cui si offre risposta - al cui crescere si
risponde con un aumento della divisione del lavoro che consente di beneficiare delle economie di
specializzazione (vale a dire quelle prodotte dall’aumento della destrezza dell’operatore) e le
economie di scala (vale a dire la possibilità di sfruttare al meglio il tempo dell’operatore e dei
supporti utilizzati).
Il secondo metodo preferisce favorire la corrispondenza tra la proposta di impegno fatta ed i
bisogni che spingono la persona ad aderire all’organizzazione e, di conseguenza, pone in
secondo piano l’ottimizzazione dell’efficienza organizzativa.
Non è necessario precisare che il mondo del volontariato utilizza questa seconda via, anche se
spesso lo fa in maniera non consapevole ma come esito di approssimazioni successive.
Vale, peraltro, la pena rimarcare in questa sede che, se il primo orientamento - di per sé - poco
garantisce in generale del successo nel medio e lungo termine dell’organizzazione anche per
ragioni strettamente economico-organizzative (basti pensare ai tempi di inattività ed ai costi di
comportamenti non coerenti, che pesano fortemente sui risultati), figuriamoci cosa possa generare laddove è il grado di soddisfazione intrinseca, traibile dall’operatore, a determinare l’efficacia del risultato.
E’ evidente che l’organizzazione del lavoro non può essere impostata solamente per soddisfare
chi lo deve svolgere, ma è altresì incontestabile che la soddisfazione del volontario - quella
dimensione direttamente ricavata dall’espletamento del compito assegnato - produca effetti positivi sul risultato da conseguire e sarebbe assai illogico non tenerne conto.
Che fare? E’ su questo che rifletteremo ora. L’organizzazione classica del lavoro propone alcuni
suggerimenti che possono essere opportunamente impiegati anche per le forme di lavoro volontario.
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Quaderni per la Formazione
Le modalità per ripensare il lavoro
Job enlargement, consiste nell’ampliamento del numero delle operazioni elementari assegnate;
Job rotation, implica lo spostamento periodico da un compito all’altro;
Job enrichment, presuppone l’inserimento in una data mansione di compiti più interessanti e
più gratificanti (anche di maggiore responsabilità, nella sua formulazione originale);
Work group, prevede l’assegnazione ad un gruppo di un sistema di lavoro che si autoorganizza, utilizzando tutte le opzioni precedenti, per svolgerlo.
L’idea che sta dietro alle ipotesi indicate è quella di rendere il singolo job - che deriva dall’analisi del lavoro, dalla sua scomposizione e ricomposizione in insiemi ordinati, attività questa non
sempre svolta - sempre più adeguato alle esigenze anche di tipo motivazionale del volontario. La
prima indicazione rappresenta un suggerimento di base: tener conto dell’insieme di cose che si
assegnano al singolo volontario, della compiutezza che le caratterizza; in maniera coerente, il
job enrichment si preoccupa anche della qualità del lavoro da svolgere, che può essere apprezzata anche laddove si introducano forme di responsabilizzazione. L’alternanza sui compiti funziona se gli stessi sono facilmente appresi e se non implicano interfacce con i destinatari: se poter
spaziare da una tipologia di servizi ad un’altra, da un ambito ad un altro può essere stimolante, utile e coinvolgente, questo non deve andare a scapito dei nostri utenti, soprattutto se il contenuto relazionale costituisce una particolarità qualificante della nostra associazione e di quel
contesto specifico. Il lavoro per gruppi rappresenta una delle esperienze più diffuse: erroneamente considerato come soluzione semplice, esso sgrava l’organizzazione dalla funzione di assegnazione dei compiti lavorativi diretti e di quelli di coordinamento e li sposta sulla compagine che
si assume la responsabilità del risultato complessivo. Non occorre rimarcare le difficoltà relazionali, di affinità, sintonia che possono manifestarsi in un gruppo che non sia più che ben assortito, risultato non facile da ottenere e preziosissimo quando si presenta.
E’ chiaro anche che le decisioni relative alle caratteristiche dei compiti vanno assunte assumendo
come vincolo le peculiarità dei nostri volontari ed associando a ciascuna “macro tipologia
umana” la modalità più appropriata e gradita: il volontario tranquillo, che ama la certezza del
proprio impegno, che non può dare più di tanto sarà sicuramente rassicurato da un quadro di
compiti predefiniti, per i quali sa cosa dare e sa cosa aspettarsi; chi, al contrario, chiede ad un’esperienza di volontariato di essere un’occasione di arricchimento personale (e perché no, anche
professionale) sarà molto probabilmente più disponibile ad assumersi via via incarichi più complessi e vari, sarà interessato a diversificare le proprie esperienze.
5.4 Lavoro volontario e lavoro professionale
Una dei problemi maggiormente sentiti nelle organizzazioni riguarda il rapporto tra i volontari
e quei collaboratori che apportano competenze professionali specificamente necessarie all’orga-
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nizzazione per il proprio ambito (i medici per le ambulanze, per le terapie nei confronti dei malati terminali, gli psicologi per i soggetti problematici, l’esperto in logistica per il Banco
Alimentare..) e lo fanno in cambio di un compenso monetario.
Queste risorse si caratterizzano per:
•il possesso di conoscenze teoriche e tecnologiche strutturate;
•il contributo allo sviluppo ed all’integrazione di conoscenze rilevanti per i processi organizzativi in cui operano;
• l’assunzione di responsabilità professionali verso i loro interlocutori sia interni che esterni.
Quando queste figure sono presenti in maniera continuativa è chiaro che si rapportano con l’associazione come farebbero nei confronti di un datore di lavoro (altro è il caso dell’esperto che
una volta ogni tanto, o in particolari occasioni, si mette a disposizione); i volontari hanno un
atteggiamento giustamente diverso. La differenza va coltivata, accuratamente: anche laddove
dovesse essere elevato il grado di interazione (si pensi ad un’équipe che segue persone ammalate), ciascuno dovrà avere ben chiaro cosa gli compete e quale è il ruolo che svolge; ci si dovrà
soprattutto assicurare della stima reciproca e della vicendevole valorizzazione, ci si dovrà preoccupare che contributi e incentivi siano percepiti come adeguati (la lezione di Barnard di cui
abbiamo parlato nel primo capitolo è fondamentale). Sicuramente, sarà inopportuno considerare (anche solo in casi eccezionali) interscambiabili i ruoli: se così fosse, cadrebbe la ragione per
la quale il “professionista retribuito” non è qualitativamente un volontario. Al tempo stesso, è utile
che i volontari dedichino all’associazione un tempo ragionevole (mai un numero elevato di turni)
e che il loro impegno non sia massiccio, tale da non alimentare false aspettative.
5.5 Lavoro volontario e nuove tecnologie
Senza alcuna pretesa di esaminare un tema dalla portata vastissima - quello delle nuove tecnologie, la cui pervasività non tralascia il mondo delle organizzazioni di volontariato - interessa in
questa sede richiamare alcune questioni.
Ciò che per effetto delle tecnologie muta è innanzitutto il rapporto con lo spazio e con il tempo,
che dilatano le modalità di espletamento di molte forme di attività volontaria, soprattutto tutte
quelle di tipo interno, di scambio informativo e di coordinamento, di gestione. In questo senso,
costituiscono un’opportunità non ancora adeguatamente valorizzata, che libera energie e sviluppa prassi innovative che possono contribuire a cementare lo spirito associativo, la condivisione
valoriale. Si rifletta, ad esempio, sull’opportunità di redigere una newsletter, con la quale veicolare i nostri contenuti, tenere aggiornati i nostri finanziatori e informati i vari stakeholders: l’utilizzo delle tecnologie probabilmente fa la differenza tra il riuscirci o meno. Sicuramente troveremo qualche volontario interessato a questa attività, ma dovremo spiegargli bene che lo scopo non
è il riscatto di un giornalista mancato e dovremo trovare il modo per un’adeguata gratificazione
(visto che si tratta di un lavoro dietro le quinte).
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Quaderni per la Formazione
Sono quindi, le stesse organizzazioni che possono ricorrere alle nuove tecnologie per quanto
riguarda la loro funzionalità - se dispongono di risorse umane la cui mentalità è orientata adeguatamente - facilitando moltissimo il rapporto con i propri volontari, comunicando e creando
consenso.
Nascono opportunità nuove di partecipare alla vita dell’associazione, proprio in forza dell’opportunità di lavorare in remoto che le tecnologie offrono. Quanto lavoro di coordinamento può
essere svolto in questa maniera con maggiore efficacia.
5.6 Qualche suggerimento operativo
E’ sin troppo ovvio ribadire che questo tema costituisce uno dei nodi centrali della vita delle organizzazioni di volontariato. Esse si trovano (come ben sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con una di queste) a dover gestire (o subire, come spesso accade) una complessità particolarmente elevata proprio su questo versante che è, ribadiamolo ancora una volta, assolutamente centrale. L’organizzazione di volontariato nasce per il desiderio di proporre una risposta
a quei bisogni cui la nostra sensibilità ci rende più attenti e per avventurarsi su questa via non
può che coinvolgere altri, o meglio la libertà (le motivazioni ed i vincoli) degli altri. Si tratta di un
impegno che si affianca ad altri della vita individuale e che con questa si misura producendo
gradi di coinvolgimento diversi che evolvono nel tempo.
La sola presenza dei nostri tanto amati volontari rende totalmente problematica l’azione, che può
in misura assai modesta fondarsi sul strumenti di tipo coercitivo (per la loro sostanziale inefficacia, oltre che per le discutibili opportunità ed utilità del loro impiego in questo contesto).
Dobbiamo convincere che la nostra associazione è la migliore opportunità, ma poi la dobbiamo
offrire concretamente e questa offerta si compone anche di condizioni operative.
La predisposizione di un quadro completo e preciso delle proposte di volontariato (che presuppone un’analisi del lavoro, così come suggerito nel par. 5.2 ) costituisce una precondizione: consistendo nella mappatura delle opportunità e delle relative caratteristiche (oggettive e soggettive),
essa offre all’associazione l’opportunità di conoscersi meglio e di mettere ordine ed ai volontari
vecchi e nuovi la possibilità di scegliere con chiarezza, sentendosi accolti e vedendo il proprio
impegno finalizzato.
Conoscersi per meglio organizzarsi.
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Quaderni per la Formazione
“E alla fine di tutto il nostro esplorare torneremo al punto di partenza .
E lo vedremo per la prima volta”
(T.S. Eliot, 1929)
IN CONCLUSIONE: L’ORGANIZZAZIONE PER UNO SCOPO, LO SCOPO
PER L’ORGANIZZAZIONE…
In chiusura di questo nostro ragionamento sull’organizzazione e sull’organizzare (differenza che
ormai abbiamo colto), sugli aspetti – quanto meno, a parere di chi scrive – più importanti e rilevanti per il funzionamento dell’organizzazione di volontariato e sulle dinamiche di azione e decisione che ne rappresentano l’essenza, preme ribadire alcune considerazioni.
Esse sono state già introdotte nel corso del ragionamento e in mezzo alle riflessioni che lo sviluppavano; ma per la loro primaria rilevanza (sempre ed in qualunque contesto) vale la pena
spendervi ancora qualche parola. Nel mondo del volontariato (e questa è la ragione più forte che
spiega l’enfasi attribuita a queste ultime pagine) esse assumono una centralità (verrebbe da sostenere, se non si avesse timore di eccedere nello slancio) quasi emblematica.
La assumono - questa centralità - perché il volontariato (le sue manifestazioni, la sua incidenza
nel contesto socio-economico, la considerazione non rituale di cui gode) può essere considerato
uno degli indicatori più interessanti della capacità di una società (e di una civiltà) di farsi carico
dei propri bisogni e di generare risposte che, per reggere nel tempo, necessitano di strutturarsi e
consolidarsi, farsi forma concreta, duratura nel tempo e riproducibile.
In questa prospettiva, il passaggio verso l’organizzazione (vale a dire, sia verso una forma stabile e durevole, con quello che questo comporta, sia verso atteggiamenti e comportamenti che ne
ottimizzino la presenza) diventa inevitabile ed è quanto si è cercato di documentare nel corso dell’esposizione. La ragione per la quale vale la pena di occuparsi di organizzazione risiede, però,
nel suo essere a servizio di uno scopo, nel suo facilitare il raggiungimento di tale scopo.
Le ragioni dell’organizzazione, insomma, non possono mai essere fine a sé stesse. Se così dovesse accadere (e purtroppo accade, occorre onestamente ammetterlo) significherebbe che si sta
avviando un processo di istituzionalizzazione, un processo per il quale la ragione dell’esistenza
dell’organizzazione diviene il proprio perpetuarsi nel tempo: ciò che conta non è il risultato che
si intende perseguire e che ne alimenta il circolo virtuoso, ma essa stessa. L’organizzazione
perde, a poco a poco, il proprio carattere strumentale e vede avviata una sorta di “sostituzione
dei fini” (mai conclamata) per cui, da mezzo per raggiungere un fine, diventa fine in sé.
Si tratta di un processo involutivo che molto è stato studiato e che trova nelle nostre organizzazioni documentazione, esempi (non esemplari) di realtà che perpetuano la propria presenza in
forza di una sorta di inerzia o di una incapacità a contrastare un mito, cioè un sistema di credenze diffuse e condivise ma non necessariamente documentate. Molti sono i segnali del potenziale rischio del manifestarsi di una simile involuzione, troppo spesso deboli e nascosti dalla man-
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Quaderni per la Formazione
canza di riscontri economico-finanziari che potrebbero palesarne l’inutilità.
Spesso accade che il rituale della bontà (autoreferenzale e intoccabile) dell’azione volontaria
appanni (magari in maniera non troppo consapevole) la possibilità di prendere coscienza della
sua crescente inconsistenza o della sua inutilità, in quanto non più capace di rispondere alle
nuove forme di manifestazione del disagio e dei bisogni della società civile. Allora, il rinnovarsi
(non scontato ed abitudinario) della domanda sullo scopo, sulla ragione forte che costituisce il
nucleo della mission diventa il modo per tener in vita ciò che è utile resti in vita, anche nel mondo
del volontariato: l’organizzazione dà gambe agili a questo.
E’ sin troppo evidente che tale questione (essenziale) non è chiusa in se: rimanda ad almeno due
temi, ugualmente caldi in questo mondo, quello della leadership - cui si è fatto cenno nell’ambito della progettazione, per sottolineare la non prevalenza della dimensione ingegneristica in questo delicato campo - e quello, ancora piuttosto inesplorato, del ricambio generazionale. Due temi
spesso in collisione tra loro: sovente è proprio la presenza di una leadership forte e coinvolgente a rallentare i processi di rinnovamento nelle risorse coinvolte, anche se la costruzione di una
successione che garantisca il perpetuarsi nel tempo dell’idealità sorgiva è costitutivamente intrinseca ad una capacità di trascinamento reale e forte.
Queste condizioni, peraltro, rappresentano premessa per l’equilibrato mantenimento di alcune
caratteristiche che costituiscono le specificità delle organizzazioni di volontariato. Esse, nella molteplicità delle proprie manifestazioni, hanno una finalità sociale e umanitaria, operano per il
beneficio della collettività, contribuendo allo sviluppo della società: questo attiva un circuito virtuoso tra destinatari dell’impegno e coloro che lo profondono. Il carattere informale è forse uno
degli elementi più delicati e più marcatamente ambivalenti: il ruolo dell’informalità come elemento che libera energie e coinvolge gli interessati è sicuramente centrale e da valorizzare, all’interno però di un quadro che non si spinga troppo verso l’anarchia, non tanto per un negativo
giudizio di valore, quanto per gli ostacoli che frappone al perseguimento di un obiettivo condiviso.
Invero, “la realtà reale” assomiglia molto alla pratica dell’improvvisazione tipica, ad esempio,
della musica jazz: come i cultori ben sanno (e come gli altri sicuramente non faranno fatica ad
immaginare), l’improvvisazione non è un tentativo estemporaneo e approssimativo, è il “rimaneggiare materiale già composto su idee mai anticipate, concepite e formate e trasformate nelle
particolari condizioni dell’esecuzione, le quali aggiungono caratteristiche uniche ad ogni creazione”, come ben commenta Weick; nel contesto l’improvvisazione si declina in interpretazione,
abbellimento, variazione. L’improvvisazione è quindi una miscela di precomposto e spontaneo,
proprio come l’azione organizzativa mescola controllo e spontaneismo, routine e non routine,
automatismo e innovazione. L’improvvisazione, intesa in questa chiave (e perciò fatta di “momenti di rara bellezza inframmezzati da errori e vuoti”), ci insegna che oltre la routine, oltre la formalizzazione c’è la vita. Vedere la bellezza nelle possibilità mancate è imparare un’importante
lezione.
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Quaderni per la Formazione
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (E DINTORNI…)
Come si conviene in chiusura di ogni lavoro, per correttezza (ma anche con la nascosta speranza che essa diventi un ulteriore strumento di lavoro), anche in questa sede si dà spazio alle fonti
alle quali si è debitori per i contenuti proposti.
La lista, di seguito riportata, costituisce la tradizionale (ma fondamentale) bibliografia. Essa
ricomprende quei testi che l’autrice considera fondamentali nei propri studi di matrice organizzativa e che paiono maggiormente interessanti per chi voglia approfondire la complessa ed affascinante questione “organizzativa”; questione organizzativa che, come si è avuto modo di
apprezzare nel corso dell’esposizione, si qualifica come assai intrigante per le organizzazioni di
volontariato, per evidente esperienza (quanto sovente chi opera nel mondo del volontariato
avverte la rilevanza degli aspetti organizzativi, magari senza neppure riuscire a inquadrarli nitidamente), e per una certa carenza di approfondimenti mirati, di supporti che, in altri termini,
declinino con riferimento alla specifica tipologia dell’organizzazione di volontariato (ed alle sue
numerose particolarità) le tematiche propriamente organizzative, cosa che – in questa sede – si
è propriamente tentato di fare. Per queste ragioni, i volumi indicati sono quelli che con maggior
interesse l’autrice ha letto, che con assiduità vengono consultati alla ricerca di spunti per capire
la realtà che si ha davanti e che vengono proposti a chi volesse addentrarsi nella letteratura specialistica (ma accessibile ed anzi, si potrebbe sostenere, gradevole, sia come leggibilità che come
comprensibilità), senza quindi nulla togliere ai molti altri autori cui si potrebbe far riferimento e
che peraltro sono abbondantemente disponibili in ogni biblioteca.
Barnard C. (1938), The funtions of an Executive, Harvard University Press, Cambridge,MA (trad.
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Ciborra C. (1996), a cura di, Lavorare assieme, Etaslibri, Milano
Costa G., Gubitta P. (2004), Organizzazione aziendale, Mc Graw Hill, Milano
Costa G., Nacamulli R.C.D. (1996), Manuale di organizzazione aziendale, vol. 5 Metodi e tecniche di analisi ed intervento, Utet, Torino
Costa G., Nacamulli R.C.D. (1997), Manuale di organizzazione aziendale, vol. 2 La progettazione organizzativa, Utet, Torino
Drucker P. F. (1973), Management: Tasks, Responsabilities, Practices, Heinemann LTD, Londra
(trad. it., 1978)
Drucker P., Managing the Non Profit Organizations, Harper Business, Neew York, 1992
Ferrante M., Zan S. (2000), Il fenomeno organizzativo, Carocci, Roma
Gasparre A. (2002), a cura di, Organizzazioni Non Profit: radici, problemi e prospettive, De
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Maggi B. (2003), De l’agir organizationel, Octares, Toulouse
Marmorato S. (2000), a cura di, Il management delle Organizzazioni Non Profit, De Ferrari,
Genova
Megginson L., Mosley D., Pietri P. (1994), Management, Franco Angeli, Milano
Mintzberg H. (1983), Structure in five, Prentice Hall, Englewood Cliffs, (trad. it 1985)
Normann R. (1984), La gestione strategica dei servizi, Etaslibri, Milano
Rebora G. (2005), Manuale di Organizzazione aziendale, Carocci, Roma
Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini, Milano
Simon H. A. (1947), Administrative Behaviour, Mac Millan, New York (trad. it. 1958)
Thompson J. D. (1967), Organizations in Action, McGraw Hill (trad. it. 1994)
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Weick K. (1969), The social psycology of Organizing, Random House, New York (trad. it. 1993)
Weick K. (1977), Enactment Processes in Organizations, St Clair Press, Chicago (trad. it. 1988,
a cura di Zan S.)
C’è, però, un'altra fonte, cui occorre riconoscere un debito. Di questa sarebbe quasi impossibile
fornire una lista esaustiva (e neppure mi cimento nel tentativo, certa della sua fallibilità). Essa è
rappresentata dalle tante organizzazioni che ho avuto il piacere di incontrare in questi anni e da
cui molto ho appreso, nel bene e nel male. Nel bene: perché osservare la vita delle organizzazioni, esaminare i loro problemi e le soluzioni approntate, vedere cioè all’opera le idee sulle quali
riflettere e le indicazioni che, tentativamente, possono essere formulate come risposte adeguate,
ne rende ulteriormente affascinante l’approfondimento. Nel male: perché è proprio vedendo in
azione tante organizzazioni che ho meglio capito quanto sia necessaria un’attenzione particolare alla dimensione organizzativa che raramente è esito spontaneo di un atteggiamento naturale (anche se la predisposizione all’ordine ed al metodo indubbiamente aiutano), più spesso
(molto più spesso) è il risultato di un lavoro, che possiamo definire di “management del volontariato” (anche se non è solo management, ma è anche management). A tutte queste, esprimo la
mia personale gratitudine, per l’aiuto che mi hanno (volontariamente o inconsapevolemente) fornito nel capire meglio la portata della questione organizzativa, indispensabile (giudizio di parte,
apertamente dichiarato – anche se sarà ormai chiaro al lettore che è arrivato sino a questo punto)
supporto per realtà che di sola organizzazione non potrebbero vivere.
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Progetto grafico: Silvia Folco
Stampa: Grafiche G7 - Busalla (Ge)
Finito di stampare nel mese di dicembre 2007
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