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Interno organizzazione (Terry)
Q uaderni per la Formazione “L’organizzazione” dell’Organizzazione di Volontariato Logiche e strumenti organizzativi per il volontariato CELIVO Centro Servizi al Volontariato Quaderni per la Formazione “L’ORGANIZZAZIONE” DELL’ORGANIZZAZIONE DI VOLONTARIATO Logiche e strumenti organizzativi per il volontariato Pubblicazione a cura di: Celivo, Centro Servizi al Volontariato Testi di: Teresina Torre 1, professore incaricato di Organizzazione del lavoro presso la Facoltà di Economia di Genova e collaboratore del Cenpro - Centro di ricerca sulle organizzazioni senza scopo di lucro. SERIE QUADERNI PER LA FORMAZIONE CELIVO 1 L’autrice è professore di organizzazione aziendale presso la Facoltà di Economia dell’Università di Genova; ha collaborato con il Cenpro-Centro di Ricerca sulle Organizzazioni senza scopo di lucro della stessa Università ed è da sempre interessata agli approfondimenti sulle questioni organizzative nel mondo del volontariato; è anche componente del Comitato Scientifico di Celivo. Quaderni per la Formazione Indice Una prima premessa: tanti buoni motivi per occuparsi di organizzazione 3 Una seconda premessa: organizzazione e volontariato, buon senso e buon cuore 8 1 A cosa serve l’organizzazione? 12 1.1 Tra l’ovvio ed il meno ovvio 13 1.2 Almeno due prospettive 15 1.3 Una possibile delimitazione del campo (nel panorama delle definizioni) 17 1.4 La questione dei fini dell’organizzazione 18 1.5 Efficacia ed efficienza, condizioni organizzative 20 1.6 Un criterio “non organizzativo” 22 1.7 Tirando le fila 23 2 I fondamenti organizzativi 24 2.1 I concetti in gioco 24 2.2 Differenziazione ed integrazione 25 2.3 Coordinamento ed interdipendenza 27 2.4 L’organizzazione e i comportamenti individuali 32 2.5 La coerenza, un criterio fondamentale 33 2.6 Un breve riepilogo 34 3 La progettazione organizzativa 34 3.1 Logiche e metodologie di progettazione 36 3.2 Forme e strutture organizzative 38 3.3 Le determinanti del comportamento organizzativo 40 3.4 Il potenziale di opportunismo e l’incertezza 42 3.5 Cambiamento e stabilità in equilibrio dinamico 44 4 Le funzioni essenziali 46 4.1 Le attività primarie 47 4.2 Le “altre” attività 49 4.3 I sistemi operativi 50 1 Quaderni per la Formazione 5 L’organizzazione del lavoro (dei volontari) 52 5.1 Di cosa stiamo parlando? 53 5.2 I concetti di base 53 5.3 Quali approcci? 56 5.4 Lavoro volontario e lavoro professionale 57 5.5 Lavoro volontario e nuove tecnologie 58 5.6 Qualche suggerimento operativo 59 In conclusione: l’organizzazione per uno scopo, 2 lo scopo per l’organizzazione 60 Riferimenti bibliografici (e dintorni...) 62 Quaderni per la Formazione “Se vuoi costruire una nave non radunare gli uomini per raccogliere la legna e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito” (A. Saint-Exupery, 1943) UNA PRIMA PREMESSA: TANTI BUONI MOTIVI PER OCCUPARSI DI ORGANIZZAZIONE... Nella percezione diffusa il termine organizzazione (e le tanti varianti, annesse e connesse, che la lingua italiana ci mette a disposizione in quanto verbi, aggettivi ed avverbi) evoca l’idea di qualcosa che funziona (tendenzialmente bene, ma questa precisazione rientra già in una sfera di valutazione soggettiva su cui si potrebbe discutere..), di qualcosa che produce risultati, dando l’impressione che siano di più e migliori di quelli che ciascuno otterrebbe con il proprio impegno, risultati buoni (vale a dire, qualitativamente apprezzabili e - perché no? – anche quantitativamente interessanti, tali da giustificare l’esistenza di un’organizzazione, appunto) il cui ottenimento rende immediata la correlazione tra tali esiti ed una qualche misura organizzativa (magari non precisamente chiara) che, però, li spiega. E’, potremmo azzardare, una parola “solida”, “robusta”, che si tende comunque ad associare a giudizi positivi, per sottolinearne la bontà, la validità, la consistenza e l’effettività. L’organizzazione, l’essere organizzato di qualcuno o di qualcosa, ci predispone favorevolmente, fa scattare un “pregiudizio” (inteso nel valore etimologico del termine e quindi di giudizio che viene prima, che in ciò affonda le sue radici, nelle esperienze fatte, nelle comunicazioni ricevute…), pregiudizio favorevole e, pertanto, aperto ad apprezzarne ogni spunto. Spesso un po’ magicamente evocata come ragione esplicativa ed esaustiva di ciò che procede e fila per il meglio, l’organizzazione – ma anche l’essere organizzata (per richiamare già da ora la polivalenza del termine che riprenderemo più avanti) di un’associazione, di un gruppo, di una aggregazione più o meno spontanea di volontari (ma non solo di volontariato, potremmo osservare, per sottolineare come la questione organizzativa, in un certo qual modo, travalichi i tradizionali confini tra ambiti istituzionali e prescinda da quelle che sovente consideriamo le spiegazioni all’origine delle varie realtà) – sembra materializzarsi quasi per magia, senza che ci si attardi a chiedersi da dove salti fuori (quanto meno sino a quando non vacilla e se ne percepisce la mancanza), quale prodigio (o, forse sarebbe meglio dire, quale impegno) la renda possibile, quali condizioni (predisposte ed accettate) la producano. Al contempo, però, la sua (eventuale, ma ahimé non rara) assenza viene sottolineata bonariamente, quasi potesse – all’occorrenza – diventare un attributo aggiuntivo non necessario (lo scopo che preme, la “causa” che si sostiene possono essere raggiunti ugualmente senza una buona organizzazione e comunque contano di più di una buona organizzazione); anzi, essa – la buona organizzazione - appare (pensiero, forse, non palesemente esternato, ma sottilmente formulato nella mente di chi è impegnato nella nobile “causa” di un’associazione di volontariato) quale meta ardua da raggiungere per chi, per vocazione e mestiere, fa altro, si occupa della “causa” 3 Quaderni per la Formazione e del raggiungimento degli obiettivi concreti, come se questi potessero “prescindere da”: prescindere dalla dimensione organizzativa, da ciò che questa, nei fatti, comporta in quanto condizione basilare per lo svolgimento delle attività, in quanto requisito di funzionamento delle iniziative ed anche in quanto presupposto per un impiego ottimale di tutte le risorse (anche di quelle che – non implicando esborsi monetari – sembrano non incidere, sembrano valere poco..). Insomma, per qualsiasi verso si rigiri la “faccenda”, le questioni di tipo strettamente organizzativo (ci si accontenti, per il momento, di questa formulazione generica, perché già il dettagliare meglio cosa l’espressione “questioni organizzative” significhi richiederà un po’ di spazio e di riflessioni) costituiscono uno dei versanti delicati del mondo del volontariato, di cui con sempre maggior frequenza si percepisce la rilevanza. Per quella sua parte formata da associazioni di dimensioni più modeste, un assetto organizzativo adeguato (e l’aggettivo - che una qualsiasi grammatica ci spiegherebbe essere qualificativo è importante proprio nella sua dimensione linguistica, qualificante: adeguato, cioè, lo si ribadirà sino alla noia, idoneo, confacente, consono allo scopo) può divenire un obiettivo impegnativo (che finisce nei fatti per essere accantonato, perché troppo arduo da perseguire) simile ad un irraggiungibile miraggio che, con il passare del tempo, appare prospettiva sempre più seducente quanto irrealizzabile e, quindi, trasformato implicitamente in un limite allo sviluppo dell’associazione, che su altro dovrebbe impegnarsi. Per le altre associazioni – quelle di maggior dimensioni che non possono, nei fatti e per i loro numeri, sottrarsi al confronto costante e continuo con gli aspetti organizzativi - può emergere il rischio che l’attenzione alla macchina organizzativa prevalga e, a poco a poco, si sostituisca alla cura (sempre necessaria, essenziale) per la ragione esistenziale (la mission), trasformando (quasi inconsapevolmente) l’organizzazione da strumento a scopo, in forza di una (pur nobile) tensione al funzionamento ed alla sua sempre migliorabile azione, che via via distoglie l’attenzione dalla forza ideale, dirompente motore di un volontariato che sa perchè esiste e che trova in questa consapevolezza la ragione per far procedere la macchina (o l’organismo, per richiamare due delle più note metafore organizzative che enfatizzano, la prima, l’efficienza e la precisione e, l’altra, l’adattabilità e la mutabilità), per concentrarsi sugli ingranaggi (o sui meccanismi) del funzionamento. Insomma, riconosciuto come problematico innanzitutto degli stessi operatori che il volontariato vivono, il nodo organizzativo (che è innanzitutto questione interna ma non è scevro dalle ripercussioni prodotte nei confronti del mondo e degli interlocutori esterni) viene, in parte, spiegato dalle caratteristiche di prevalente attenzione alla dimensione operativa e di marcata proiezione verso l’obiettivo e, in parte, collegato ad una effettiva carenza di strumenti (semplici) adeguatamente declinati, vale a dire correttamente pensati (per il volontariato) ed impostati in maniera finalizzata (alle concrete realtà, agli scopi ed ai vincoli del volontariato), proposti con snellezza e chiarezza, mirati alla loro efficacia in contesti naturalmente (e verrebbe da dire fortunatamente, come si avrà modo di chiarire oltre) poco propensi alla strutturazione (che finisce per irrigidi- 4 Quaderni per la Formazione re l’assetto ed assorbire energie oltre ogni lecito) e dotati, comunque, di risorse scarse, la cui entità tende a diminuire ancora (per scelta e per condizione) quando si tratta di destinarne ad attività di supporto, che non siano percepite come assolutamente indispensabili e, quindi, degne di sottrarre mezzi alla nobile causa di impegno prioritario. Ecco allora che l’ambizione del presente testo è proprio quella di fornire alle organizzazioni (più o meno organizzate che siano) un’occasione che consenta loro di conoscere i tanti volti dell’organizzazione e dell’agire organizzativo, apprezzarne le specificità, scegliere orientamenti e dispositivi organizzativi che ne favoriscano la crescita ed il consolidamento, impegnando in ciò consapevolmente le risorse necessarie (quelle necessarie e non di più) e creando, quindi, le premesse per liberarne altre e, soprattutto, per migliorare l’azione (verso il proprio interlocutore prioritario, i portatori dei bisogni cui si intende dare risposta) ed il clima (l’aria che si respira nelle associazioni stesse). Condizioni, queste, non scindibili, quanto meno nel medio e lungo termine, quando cioè diventa sempre più evidente che il grado di soddisfazione di colui al quale ci rivolgiamo dipende dal grado di soddisfazione di colui che è il nostro tramite (il volontario che opera e che opera meglio, in condizioni più soddisfacenti, laddove il suo agire si collochi in un ordine ed in una chiarezza di premesse e di scopi, garanzia per sé e per il buon nome dell’associazione, uno degli elementi del “patrimonio” che possediamo e di cui occorre aver cura). La premessa implicita, il giudizio di valore che sottosta a tutto il ragionamento, è la positività riconosciuta al (ma prima ancora incarnata nel) mondo del volontariato, in forza della quale è interessante preoccuparsi del suo buon funzionamento. Non occorre, ovviamente, attardarsi a spiegarlo, basti precisare che esso esiste non come residuale “tappabuchi” rispetto al panorama degli interventi gestiti da Stato e Mercato, dal soggetto pubblico in prima persona o dalle imprese. Esiste come originale presenza, come espressione di tentativi di risposta a nuove esigenze e a rinnovati bisogni, sia di tipo economico che sociale, la cui capacità di interpretazione la storia ben documenta, proprio nel nostro paese. La questione è, quindi, come favorire il perdurare di una tensione verso i luoghi in cui le urgenze si manifestano, come stimolare una sensibilità verso il tessuto di appartenenza, limitando il rischio di involuzione anche per ragioni di incapacità organizzativa. Da dove iniziare, quindi, ad avvicinarsi ai temi organizzativi? E’, come spesso accade, la domanda più difficile cui dare risposta. Ma quando si arriva a porsela, in maniera non rituale né retorica, significa che si è gia a buon punto. E’ la domanda che nasce quando dall’entusiasmo dell’avvio - magari impetuoso - di un’avventura di volontariato - si passa alla consapevolezza dell’esigenza di darsi un assetto, di sistemare le parti per garantire continuità e regolarità, per non essere sempre con l’affanno nell’azione e con il fiato sospeso rispetto all’esito. E’ una bella sfida: come affrontarla? Per quanto scontata possa apparire la risposta (sennò non saremmo qui impegnati a declinarne ogni sfumatura possibile), la soluzione al quesito parte da 5 Quaderni per la Formazione questo “manuale”. Leggendo con attenzione le pagine seguenti (che scommettono sulla loro capacità di essere utili), per fare quel lavoro di paragone con la propria realtà, per riflettere su come farlo e, quindi, su come sia possibile provare ad utilizzare qualche chiave interpretativa e qualche strumento operativo. Certo, non si troveranno qui risposte esaustive a tutti i problemi. Non sarebbe possibile e non è neppure l’intento perseguito. Ogni organizzazione di volontariato è diversa dall’altra e quello che va bene per l’una non è detto funzioni per l’altra. Ciascun contesto è specifico e solo chi lo vive quotidianamente lo conosce davvero; piuttosto, quel qualcuno ha bisogno di “occhiali” per mettere a fuoco quello che ha davanti agli occhi e vederlo meglio: quante volte ci si accorge di aver bisogno di “una cassetta per gli attrezzi” e, soprattutto, di “istruzioni per l’uso” di questi attrezzi. Le soluzioni di rapida applicazione di “quello che ha funzionato per altri” non sempre garantiscono soluzioni efficaci. Ci si consenta un esempio banale, ma di sicura eco nell’esperienza di ciascuno: è come quando si soffre di un qualche disturbo e si tenta di curarlo utilizzando la prescrizione medica redatta per un’altra persona, la cura sarà anche quella corretta, ma spesso non risolve perché non è stata applicata alle caratteristiche di quel nuovo paziente ….. Il testo che viene proposto nelle pagine successive è stato scritto con la consapevolezza che la complessità e la varietà del mondo del volontariato sono tali da non poter essere ridotte senza semplificazioni che finiscano per essere distorcenti. La sua ambizione è quella di essere letto con interesse da quanti nelle organizzazioni di volontariato si sentono stimolati a chiedersi le ragioni dell’impegno volontario e a tentare di organizzare, passo dopo passo, risposte a questo, che abbiano come motivazione prioritaria quella di facilitare tale impegno, nella sua dimensione sorgiva come in quella quotidiana . Chi si occupa di volontariato esprime spesso (e se non lo comunica apertamente, lo lascia di norma trasparire) la convinzione (fondata?) che il mondo del volontariato “è un’altra cosa, che qui ci si arrangia, che bisogna accontentarsi di fare come si può”. L’organizzazione, quella “nobile e altisonante” è riservata per altri tipi di realtà. E’ proprio così? Vorremmo, almeno, instillare il dubbio e proporre un approccio diverso. Quello che il Giorgio Gaber (ci si perdoni il riferimento poco accademico, ma molto personale e, spero, condiviso) definirebbe del “si può” (qualcuno ha sicuramente presente quella sua canzone, contenuta nell’album “La mia generazione ha perso”). “Si può, siamo liberi come l’aria, si può siamo noi che facciam la storia, si può…” Se da tempo è diffusa la consapevolezza che la gestione è necessaria (non distoglie dalla mission) e non può essere affidata all’improvvisazione (anche piena di buona volontà) di qualcuno e se sono in molti - tra coloro che operano nel volontariato - ad aver imparate dalla propria esperienza che di management c’è bisogno, spesso manca però la mentalità, si resta come disorientati davanti all’esigenza di approcciare un problema. Per fare meglio il mestiere che l’organizzazione non profit si è scelta - è necessario, insomma, 6 Quaderni per la Formazione fare bene anche un altro mestiere, quello di colui che utilizza e combina le risorse, scarse e preziose. Anche se – e questo non ci si stancherà di rimarcarlo - tale mestiere va praticato con attenzione alle peculiarità del mondo del volontariato. Che fare? Da dove iniziare? Come muoversi? E’ innanzitutto importante imparare a conoscere la propria organizzazione, imparare ad organizzare le attività in forza delle esigenze strutturali e delle disponibilità, imparare a suddividere i compiti, a fissare delle regole che facilitino (nei fatti e non solo nei proclami) l’agire di ciascuno (ed a fare in modo che così siano percepite da tutti, vecchi e nuovi) perché ciascuno possa contribuire ad andare avanti al meglio. Apprendere, insomma, a curare ogni aspetto, perché occupandosi di ogni aspetto si fa crescere l’organizzazione e più ci si avvicina all’obiettivo che essa si è posta. Insomma, occorre prendere sul serio l’organizzazione dell’organizzazione… Chi si approssima ai temi di organizzazione non necessita di esposizioni sulla storia del pensiero, né di accattivanti ricette applicative, gli occorrono strumenti di lettura della complessità organizzativa e criteri utili ad orientare l’attività progettuale e l’intervento. Sappiamo che gli assetti organizzativi non si progettano a tavolino (magari…), ma si realizzano mediante interventi sempre esposti all’interazione sociale ed alle scelte di comportamento espresse dai diversi soggetti che si fondano, però, su criteri e strumenti per un disegno razionale di strutture e meccanismi consapevolmente messi in atto per costruire l’organizzazione. Ci si ripropone, in altri termini, di far fiorire da queste pagine un’attenzione “aperta” alle ragioni che stanno dietro l’esistenza di un’organizzazione, nella convinzione che solo il paziente ed umile impegno a tradurre nella propria realtà le tante possibili indicazioni possa dare esiti, il che significa condizioni che consentano alla nostra organizzazione (appunto) di far meglio il mestiere che si è scelto. L’organizzazione è a servizio di uno scopo, non può essere lo scopo: proprio per questo – per l’importanza dello scopo - occorre farla bene. L’organizzazione. 7 Quaderni per la Formazione “Ciò che la persona vuole e ama influenza ciò che la persona vede e ciò che vede influenza ciò che vuole e ama” (H. Simon, 1947) UNA SECONDA PREMESSA: ORGANIZZAZIONE E VOLONTARIATO, BUON SENSO E BUON CUORE… Per quanto sia a tutti (ai destinatari primi di questo volume, certamente, agli altri che lo vorranno leggere, auspicabilmente) noto cosa significhi l’espressione “organizzazione di volontariato” e cosa si intenda con ciascuno dei due termini che la compongono - “organizzazione” e “volontariato” - può essere utile introdurre le considerazioni in tema, che verranno sviluppate nei capitoli seguenti, con una ripresa dei riferimenti normativi di base ed alcune riflessioni di contorno, per metterci d’accordo sul significato e sul valore degli stessi e inquadrare l’oggetto di questo volume. Sulla definizione di organizzazione di volontariato ci viene incontro la legge n. 266/1991 intitolata “Legge quadro sul volontariato” – della cui revisione da tempo si discute, ma che resta per il momento il punto normativo di riferimento. Tale legge, come è risaputo, la descrive all’art. 3 in questi termini: “è considerato organizzazione di volontariato ogni organismo liberamente costituito al fine di svolgere l’attività di cui all’art.2 (vale a dire – riprendendo ancora il testo - quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito ... esclusivamente per fini di solidarietà) che si avvalga in modo determinante e prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri aderenti”. La legge n. 383/2000 - dedicata alla “Disciplina delle associazioni di promozione sociale” presenta una formulazione analoga, pur non usando il termine organizzazione, ma impiegando nel testo già una delle possibili declinazioni giuridiche - uno dei vestiti, potremmo dire, che l’organizzazione può indossare, e che di fatto viene di norma utilizzata come sinonimo (anche se non sempre con il massimo del rigore terminologico, ma in forza del riscontro oggettivo in base al quale questi tipo di organizzazioni è prevalentemente un’associazione). L’art. 2 si esprime nei termini seguenti: “Sono considerate associazioni di promozione sociale le associazioni riconosciute e non riconosciute, i movimenti, i gruppi e i loro coordinamenti o federazioni costituiti al fine di svolgere attività di utilità sociale a favore di associati o di terzi, senza finalità di lucro e nel pieno rispetto della libertà e dignità degli associati “ e l’art. 18 precisa che esse “si avvalgono prevalentemente delle attività prestate in forma volontaria, libera e gratuita dai propri associati per il perseguimento dei fini istituzionali”. 8 Quaderni per la Formazione Entrambi i soggetti - le organizzazioni di volontariato propriamente dette e le associazioni di promozione sociale - perseguono un fine (solidale in un caso, di utilità sociale, nell’altro) avvalendosi in modo determinante e prevalente (prevalentemente) di prestazioni volontarie e gratuite (“personali” per la prima norma, “libere”, precisa la seconda): finiscono per essere, entrambe, “organizzazioni di volontariato”, quanto meno dalla prospettiva che qui ci interessa sottolineare. In altri termini: organizzazioni, cioè ambiti in cui si sviluppano processi di azione e di decisione, in cui l’organizzazione ed i soggetti non si separano e in cui prevalgono ordine, regole verso uno scopo; di volontariato, cioè che impiegano quella preziosa risorsa che non viene remunerata per l’impegno che profonde. Per l’argomento che ci siamo riproposti di esaminare in questo testo, vale a dire gli aspetti organizzativi, non è rilevante la natura della finalità ultima (fini di solidarietà o di utilità sociale, che peraltro giudichiamo nobili entrambi per la nostra cultura e nella nostra società): poco cambia, rispetto alle questioni che riguardano il come “organizzare l’organizzazione”, che la nostra organizzazione ricada sotto la giurisdizione della L.266/91 o che si muova sul terreno delimitato dalla L.383/00. Entrambe hanno problemi organizzativi e gestiscono i loro problemi organizzativi facendo ricorso ad una risorsa, preziosa da una molteplicità di punti di vista, ideali ed economici. Organizzazione, volontariato. Organizzazione di volontariato: propongo, nell’ambito della presente esposizione, di considerare il legame tra questi due mondi come “co-sustanziale”. L’organizzazione come sintesi espressiva di efficacia, efficienza e quanto altro ci venga in mente per sostenere l’idea forte di un agire razionale (verso uno scopo); il volontariato come esperienza di gratuità e verso la gratuità. Facilitato, non solo: favorito e coltivato laddove l’organizzazione (a tutto tondo) entra in campo. In altri termini, la sottolineatura che preme mettere in evidenza in modo chiaro è che organizzazione di volontariato, volontario e gestione dell’organizzazione costituiscono tasselli di uno stesso mosaico. L’organizzazione di volontariato (ma è una prerogativa dell’organizzazione in quanto tale) potenzia l’azione volontaria, ne moltiplica gli effetti a 360°, ma senza una gestione, una semplice gestione - che in qualche modo sottragga allo scudo dell’alibi del “non ne siamo capaci” (vale a dire, senza un’azione che favorisca il raggiungimento dello scopo prefisso nelle condizioni migliori), rischia di far disperdere energie e di ostacolare, nei fatti anche se non nelle dichiarazioni di intenti, il raggiungimento dei risultati prefissati. Almeno qualche volta, è capitato a tutti di osservare una bella e nobile iniziativa e di riflettere sul fatto che avrebbe potuto dare di più se fosse stata meglio gestita, ma che, ahimè, ci si accontenta di qualcosa di meno sulla scia del fatto che la fatica del volontario non costa (quanto meno, non in modo diretto), che il buon funzionamento richiede logiche diverse, che alla buona volontà si guarda con occhio meno severo, abbassando il livello delle aspettative proprio sull’ottimalità dell’uso delle risorse…… 9 Quaderni per la Formazione Il solo riferirsi all’organizzazione rimanda all’azione organizzativa, vale a dire all’approccio intenzionale dei soggetti che la generano ed alla dimensione cooperativa dell’organizzazione, per la cui esistenza occorre l’attiva e fattiva collaborazione di tutti quelli che la compongono: Chester Barnard, uno tra gli studiosi di organizzazione più interessanti e che avremo modo di conoscere meglio, ci rammenta che un’organizzazione esiste quando ci siano persone in grado di comunicare le une con le altre, disposte a dare un contributo individuale con l’intento di perseguire un fine comune. Si tratta di una definizione semplice, forse anche intuitiva, ma ricca di spunti che ci consentono di cogliere gli aspetti centrali del ragionamento che si svilupperà nel corso del volume. Le condizioni per l’esistenza di un’organizzazione sono tre, al margine di una (meno ovvia di quanto possa apparire, come tra breve si rimarcherà): occorrono persone (presupposto non ovvio) che comunichino (dove il comunicare si declina in una pluralità di sfumature) e che offrano il proprio apporto (lo diano, cioè non si limitino a proclamare di farlo, e che sia un contributo reale, non diretto ad altro) rivolto ad uno scopo condiviso (quello su cui si sostanzia la mission dell’associazione). Le persone: pare banale, ma tutti sappiamo quanto non sia poi così facile attirare volontari, nonostante i tanti annunci sulla propensione degli italiani a fare volontariato… Non è questo l’argomento a tema e non ci si addentrerà in alcuna considerazione. Ci si limiterà ad osservare che il lavoro della ricerca e della cura dei volontari è facilitato dove un livello organizzativo minimale è presente. Allora, la gestione diventa l’azione naturale e spontanea dell’organizzazione, anche se non del tutto intuitiva, da imparare, da prendere sul serio. Ma anche le cose che più ci sembrano evidenti, spesso, necessitano di essere apprese, interiorizzate rielaborate. Certo, una predisposizione innata alle relazioni umane, all’ordine aiutano e favoriscono un approccio maggiormente “organizzato”, ma c’è una dimensione culturale di sensibilità e di attenzione, che va coltivata per creare le precondizioni di contesto, e una dimensione di “tecniche”, che possono essere utilmente impiegate, su cui qualche considerazione specifica può essere utile. Come cercheremo meglio di capire, una buona organizzazione serve soprattutto perché efficacia ed efficienza (gli slogans che tutto sembrano magicamente riassumere, invocati come parola d’ordine risolutiva, ma che davvero indicano un buon funzionamento, se ben capiti nella loro complementarietà…) siano contemporaneamente perseguite. Nella dinamica del mondo cd. profit è l’equilibrio tra costi e ricavi che consente di verificare la bontà dell’andamento. Laddove, come nelle nostre organizzazioni di volontariato, questo non è – perché la dinamica dei valori d’uso segue logiche diverse – manca un indicatore (rozzo, ma utile) che suggerisce se stiamo gestendo bene o male (e questo è fondamentale perchè significa sprecare risorse…) ecco che l’attenzione all’organizzazione diventa indispensabile (e non solo perché porta acqua al mulino di questo manuale…) E’ questo uno degli aspetti sui quali maggiormente si vorrebbe richiamare l’attenzione: lo spreco di risorse, la possibilità che con un buon assetto organizzativo, questo sia ridotto al minimo (e - 10 Quaderni per la Formazione perché no? - anche cancellato). Ecco che allora l’ordine, le regole, le procedure non sono per un puro gusto estetico (maniacalmente perseguito da chi trova, in questo, soddisfazione alla propria personale inclinazione) ma sono al servizio di altro. Non è il semplice richiamo “moralistico” ad un’alternativa (sempre possibile) di migliore utilizzo, ma è la tensione a far sì che nulla sia gettato. In fondo è proprio lo sperpero di ciò di cui disponiamo (il tempo, innanzitutto….) ad ostacolare la creazione di valore. C’è una frase di Madre Teresa di Calcutta che aiuta a capire il concetto che si vorrebbe comunicare “quello che mi scandalizza non è che esistano i ricchi ed i poveri. E’ lo spreco”, di ogni risorsa: ecco che diventa importante, anzi indispensabile evitare che questo accada: la ragione per occuparsi di organizzazione, in fondo, potrebbe risiedere tutta qua… Questo significa anche, ad esempio, valutazione delle esternalità prodotte, quello che direttamente ed indirettamente si genera: questo è l’output del volontariato e del mondo del non profit in genere. Lo sforzo è rivolto verso l’ampiezza dei soggetti che traggono beneficio dalla presenza e dall’operato delle associazioni. C’è un altro modo per presentare i concetti su cui si siamo attardati. Utilizza due espressioni di quotidiana misura: il buon senso ed il buon cuore. L’una esprime una componente fondamentale dell’organizzazione, l’altra spiega la natura del volontariato. Il buon senso costituisce la dimensione della ragionevolezza che consente di applicare gli criteri opportuni alle questioni della quotidiana vita organizzativa. E’ la logica per la quale il metodo è dettato dall’oggetto (e non dalla astratta preferenza per un approccio) e, nell’incontro con la realtà, occorre tener conto di tutti i fattori che la compongono (che non significa necessariamente poterli tutti ricondurre allo scopo, ma significa essere consapevoli della loro esistenza e della strutturale razionalità limitata con la quale l’essere umano agisce, come avremo modo di meglio precisare). Il buon senso, però, senza il buon cuore - senza quell’ultima radice che rende l’uomo compagno all’uomo (più o meno bisognoso di bisogni più o meno concreti) perché portatore dello stesso desiderio di felicità e pienezza - rischia di ridursi alla grettezza dell’allocazione di ciò che vedo. Se il buon senso è necessaria premessa all’organizzazione, il buon cuore è costitutivo del volontariato, è il punto sorgivo che tende all’apertura ed alla condivisione del bisogno. Tenerli insieme è condizioni per il perdurare della possibilità di esperienze di gratuità, per chi dà e per chi riceve. 11 Quaderni per la Formazione “C’è molta soggettività nella razionalità umana” (H. Simon, 1947) 1. A COSA SERVE L’ORGANIZZAZIONE? La domanda potrà sembrare banale, forse scontata, anzi sicuramente le si adattano sia l’uno che l’altro aggettivo. E’ evidente che l’azione collettiva - vale a dire quella forma di opera cui di norma attribuiamo l’etichetta di “organizzazione” – serve. Serve. Perché serve? Perché riesce ad attenere risultati che l’azione individuale non otterrebbe? Chissà se è sempre così…. Perché riesce a fare “cose” che i singoli o i gruppi (quelli che siamo soliti definire spontanei, quelli non organizzati appunto, quanto meno in maniera minimamente duratura e stabile) non riescono a fare? Questa è la magia dell’organizzazione.. Del resto, il buon senso comune (pensiamo a espressioni del tipo “l’unione fa la forza”…) sostiene che sia così – e di solito la nostra esperienza documenta situazioni in cui tale tesi trova conforto (e questo fatto costituisce sicuramente una ragione interessante). Ma perché ci riesce? Perché indirizza il comportamento degli individui verso una certa direzione.. Beh, quanto meno ci prova (e spesso ci riesce anche…), ma come fa? Per la docilità delle persone o per altre dinamiche?... E che ruolo gioca la regia del tutto? …. Tante le domande che scaturiscono da una prima, messa lì quasi con sapore retorico. Ancor di più sono le risposte possibili, tutte, in prima istanza, fondate e ragionevoli. Insomma, pare proprio che si possa sostenerne l’utilità, dell’organizzazione (ma in fondo ne eravamo già convinti, sennò ciascuno si impegnerebbe per conto proprio a fare “qualcosa di buono”, il volontariato non è prerogativa esclusiva delle associazioni..). Resta da spiegare in che termini è utile, a quali condizioni e come si fa a renderla sempre più utile. Sono questioni, queste, che richiedono forse qualche riflessione, non così immediata, per aiutarci a capire le “condizioni” e le “regole” di funzionamento di questo oggetto (misterioso, ma non troppo). Propongo, pertanto, di rispondere al quesito che costituisce il titolo di questo primo capitolo attraverso alcuni passaggi logici. Prima, però, una precisazione. Ciò di cui ci occupiamo, il nostro oggetto di interesse, è l’organizzazione di volontariato (e non ce lo dimenticheremo mai), ma la “faccenda” che ora va dipanata è una questione a monte, più ampia – che, in quanto tale, riguarda anche il volontariato (mi si lasci sostenere più di altre realtà che su questo terreno da tempo si confrontano): concerne l’organizzazione tout court, cosa fa sì che essa (anche nell’ambito della gratuità) costituisca un passaggio fondamentale della vita aggregativa (e quindi della società) e quali sono le caratteristiche costitutive che la definiscono (e come si presenta nel mondo del cd. non profit). Da dove partire? Il punto di partenza non può che essere il tentativo di sistemare quello che normalmente ci pare di sapere dell’organizzazione, per vedere se ci basta e per fare ordine tra la 12 Quaderni per la Formazione molteplicità dei punti di vista. A questo punto, proveremo a intenderci su cosa connoti realmente il termine organizzazione, soffermandoci poi su un aspetto assolutamente centrale per l’essenza dell’organizzazione, ma organizzativamente insufficiente a definirla, vale a dire la questione dello scopo, e passando in successione ad esaminare due dimensioni, l’efficacia e l’efficienza, che molto hanno da dire in merito all’organizzazione. Le ultimissime (rapide, solo accennate) considerazioni hanno un valore emblematico: verranno riprese in chiusura del percorso, ma costituiscono un aspetto assolutamente rilevante delle riflessioni proposte e che le deve costantemente accompagnare. Può sembrare paradossale, ma ciò che sostiene l’organizzazione non è l’agire organizzativo; è la ragione (che sa rendere ragione) delle ragioni per cui vale la pena. Il gioco sulla polivalenza della parola “ragione” ci introduce a quello non meno ricco di sfumature e di implicazioni sulle molte facce dell’organizzazione. … Ma andiamo con ordine… 1.1 Tra l’ovvio ed il meno ovvio Se riflettiamo un attimo sulla vita di ciascuno di noi, ci rendiamo immediatamente conto che essa si dipana in un contesto pullulato da organizzazioni. Le nostre giornate sono segnate dalla presenza (più o meno incombente) dell’una o dell’altra, sono accompagnate dal passaggio da un’organizzazione all’altra; con ognuna interagiamo in misura diversa, interpretando ruoli diversi, con possibilità diverse di influenzarne ed indirizzarne il comportamento e con livelli di coinvolgimento personale diversi; con alcune abbiamo rapporti inevitabili, con altre scegliamo liberamente di entrare in contatto (è il caso delle nostre organizzazioni). Il panorama, appena abbozzato (e peraltro di comune esperienziale osservazione), è quindi assai variegato: utilizziamo, comunque, uno stesso termine (organizzazione) per identificare realtà che sono palesemente differenti. Eppure lo facciamo, tranquillamente convinti che di organizzazioni sempre si tratti. Eppure, sappiamo altresì che sono diverse: che la nostra associazione sia differente dall’azienda della quale siamo dipendenti (fosse anche, paradossalmente, operante nello stesso ambito o settore) ci pare evidente e non solo perché dall’una riceviamo una contropartita monetaria per il nostro impegno e dall’altra no, ma altresì per molte altre ragioni (chissà se più o meno rilevanti per spiegarne il funzionamento, ma certamente presenti). Sicuramente, tutte le organizzazioni condividono il problema di coordinare gli sforzi dei loro componenti per raggiungere i migliori risultati possibili, impiegando risorse che sono scarse per definizione – e chi di noi oserebbe sostenere il contrario, proprio in base alla propria esperienza nel mondo del volontariato… - e questo è ciò che in prima battuta sembra giustificare l’uso di uno stesso termine per “cose” diverse. Le organizzazioni, di diverso tipo e natura, sorgono quindi per ottenere un determinato risultato (ciò che la mission intende esprimere) attraverso l’utilizzo di mezzi organizzati, vale a dire progettati, regolati, coordinati: questa declinazione (incompleta, ma già spessa) dell’aggettivo ci per- 13 Quaderni per la Formazione mette di sottolineare, già da ora, che tutto si può dire dell’organizzazione, dell’agire dell’organizzazione e dell’agire dei suoi componenti, ma non che sia interpretabile in chiave semplice ed univoca, attraverso la ricerca della variabile (o del processo) capace di spiegare come il tutto procede. La complessità (concetto sin troppo frequentemente richiamato, quasi come rassegnata ammissione di inaccessibilità) salta, di norma, fuori per giustificare l’impossibilità di capire a fondo un fenomeno e non, come ci pare indispensabile sottolineare, in quanto parametro di riferimento per l’evidenza empirica con cui fare i conti. Questo ci conduce innanzitutto ad accettare l’interconnessione tra i diversi fenomeni, senza sprecare energie concentrando gli sforzi (vani) nel ricondurre tutto a relazioni lineari di causa-effetto, magari anche ottimali, che però ci fanno perdere per strada qualche pezzo. Abbiamo avuto bisogno dell’apporto di un grande e famoso studioso, Herbert Simon, per prendere atto di un dato strutturale per l’essere umano: il suo agire secondo razionalità limitata (e non assoluta, dove assoluto significa informato su tutte le possibili scelte e dotato di un sistema di preferenze sicure e stabili) e delle implicazioni che nella “realtà reale” questo genera. Cosa significa questo in concreto e cosa c’entra con l’organizzazione? Significa che ciascuno di noi dispone, pensa ed agisce facendo i conti, per ogni decisione - piccola o grande che sia, privata o legata alla vita dell’organizzazione - con l’impossibilità di una razionalità totale e accettando, quindi e sempre, un margine (magari modesto) di rischio e di soggettività. C’è una lunga lista di fattori che restringono la razionalità umana; ne possiamo osservare di natura: oggettiva, quelli che rendono impossibile prevedere tutte le conseguenze di una decisione, ad esempio perché molte sono indirette; cognitiva, che hanno a che fare con il fatto che le preferenze umane indirizzano le scelte, riducendo le opzioni prese in considerazione; etico e culturale, per cui principi, valori, credenze limitano la gamma di scelte, già a priori; sociale, quelli legati alla necessità di dover mediare con le altre persone coinvolte arrivando a compromessi, e producendo esiti ovviamente non allineati sulla pura razionalità. Detto in altri termini, nella realtà le decisioni sono prese non secondo il criterio della massima efficienza, ma secondo il principio della sufficienza. C’è un famosissimo esempio che rende bene l’idea che si sta presentando: “Si pensi alla differenza tra il cercare in un pagliaio l’ago più aguzzo o cercarne uno aguzzo a sufficienza da essere usato per cucire”. Se l’obiettivo è cucire , non occorre proseguire nel tentativo cercare l’ago più appuntito (anche se non necessariamente ne siamo esentati); basta avere quello che è adeguato allo scopo. Questo, tra l’altro, ci permette di decidere (o ci costringe a farlo, potremmo anche dire, pensando a quante volte l’assunzione di una decisione difficile tende ad essere rimandata dal farsi scudo della ricerca di qualcosa di più..). Cosa c’entra con l’organizzazione? Per capire ciò che avviene nelle organizzazioni occorre partire dall’azione dei soggetti, cioè da 14 Quaderni per la Formazione ciò che essi decidono, che spesso travalica i moventi e non è neppure interpretato dalle “declaratorie” del ruolo (ammesso che ci siano). Ci torneremo sopra più avanti, ma il nodo chiave sta proprio nel passaggio dalla “partecipazione” all’organizzazione, in forza di ragioni che spingono ad aderire e collaborare, alla “costruzione” delle organizzazioni, fondate su razionalità, ma razionalità umana, e quindi limitata. 1.2 Almeno due prospettive Il ragionamento condotto sino a questo punto ha lasciato per implicita una precisazione che è ora il momento di far emergere. In cosa consista veramente l’organizzazione. Il nodo non è facile da sciogliere perché il fenomeno organizzativo può essere osservato da almeno due diverse prospettive. Oggetto di osservazione possono essere tanto le strutture organizzative, quanto i processi organizzativi. Le prime sono realtà date, che si caratterizzano per una certa intrinseca persistenza nel tempo: un certo ufficio, una normativa, una procedura, un sistema di comunicazione sono esempi di “organizzazioni” da questa angolatura. I processi sono, invece, realtà in corso, in divenire, mutevoli per intrinseca natura: la loro rilevanza è tanto più evidente quanto più l’organizzazione è piccola, per cui è osservabile (anche dall’esterno) come sia la persona ad attivare (possa, riesca ad innescare) processi che conducono - in maniera lenta e progressiva o con impeto dirompente - a modificare l’assetto. In sintesi, l’organizzazione - il fenomeno che stiamo cercando di capire - presenta due dimensioni, costantemente presenti, distinte ma inevitabilmente connesse e della cui duplicità di natura spesso non siamo consapevoli, mettendoci a rischio di confondere i piani e di muoverci sull’uno con strumenti ed atteggiamenti adatti all’altro. LE DUE DIMENSIONI DELL’ORGANIZZAZIONE La STRUTTURA indica l’aspetto statico di un’organizzazione Il PROCESSO indica l’aspetto dinamico di un’organizzazione Si tratta di una ambivalenza che è più facile cogliendo soffermando l’attenzione sul valore del sostantivo e del verbo: il primo fotografa la struttura e tende a proiettare durabilmente gli aspetti che la connotano nell’istante alla ricerca di una stabilità; il secondo introduce la dimensione in evoluzione ed in movimento, l’aspetto processuale propriamente detto. In buona sostanza, ciò che si intende sottolineare è che le organizzazioni non sono (semplicemente) delle realtà che preesistono agli individui e che da questi non possono essere plasmate (se non transitoriamente per alcuni “privilegiati” che occupano posizioni particolari, basti pensare al caso del fondatore di un’associazione): l’organizzazione è (anche qui anticipiamo un’osservazione che ci sarà utile tra breve) un organismo vivente, un brulicare di persone, collocate in maniera tendenzialmente predefinita dall’assetto ma non immobili, che anzi interpretano ruoli in parte prevedibili ma con un apporto soggettivo notevole. Spesso, per spiegare questa idea, si 15 Quaderni per la Formazione ricorre alla metafora teatrale: l’agire delle persone si svolge secondo una sorta di copione di una commedia che definisce la trama, ma lascia molta libertà agli interpreti, generando quella strana situazione di ripetitività e di innovazione che convivono. O meglio ancora: potremmo dire che quanto più convivono, tanto più rendono evento ogni replica. In fondo, se ci pensiamo, è questo un aspetto assolutamente affascinante: la possibilità che accada qualcosa di nuovo, in uno scenario noto (ma questo sarà ripreso alla fine di questo capitolo). In altri termini, le organizzazioni (in quanto struttura) condizionano l’agire dei soggetti (potremmo dire che esse esistono proprio per questo, come il già citato Simon sostiene e come riprenderemo tra breve) ed i soggetti (a seconda di come si muovono e di come interpretano le indicazioni e le regole formulate dall’organizzazione) modificano l’organizzazione stessa, dando vita a quel processo di strutturazione, così denominato da un altro studioso, Antony Giddens, che sottolineando la costruzione in corso, ne rimarca la mutevolezza. L’autore utilizza, per spiegare il proprio pensiero, una metafora semplice quanto intuibile, quella della lingua parlata. La lingua è una struttura in quanto condizione per il dialogo, ma essa è anche una conseguenza non intenzionale di ciò che il discorrere ed il verificarsi del dialogo producono. Parliamo utilizzando delle parole, un assetto grammaticale, una sintassi, delle espressioni idiomatiche; ma, al tempo stesso, è proprio attraverso l’utilizzo di tutti questi strumenti e l’impiego personale che modifichiamo la lingua: in ciò consiste la strutturazione, nel creare e consolidare il “nuovo” attraverso l’uso del “vecchio”, plasmato. Una solidità adattabile ed una durabile mutevolezza sono le caratteristiche delle organizzazioni, soprattutto (verrebbe da dire) di quelle di volontariato dove spontaneità e libertà possono dare il meglio di sé, se utilizzate nel contesto di un alveo che ne indirizza la potenza. Nell’affrontare la varietà che caratterizza il fenomeno organizzativa, altre angolature vengono proposte. Scaturisce, così, il seguente quadro, che da una prospettiva più oggettivabile, vale la pena di introdurre per documentare ulteriormente quella complessità sopra richiamata. I TANTI SIGNIFICATI DI ORGANIZZAZIONE Organizzazione come Subsistema, parte di un più vasto sistema sociale con il quale interagisce Struttura, assetto stabile e tendenzialmente conservativo Management, specifica attività di indirizzo e di governo Organismo personale, come insieme di individui che collaborano al risultato A parte la declinazione strutturale, di cui abbiamo già sufficientemente detto, le altre mettono in evidenza questioni che andranno sempre tenute presente (anche se forte è la tentazione nella quotidiana realtà di dimenticarsene qualche pezzo): innanzitutto che ogni singola organizzazione è inserita in un sistema, in un contesto (sociale, economico, culturale, politico, istituzionale..) 16 Quaderni per la Formazione con il quale dialoga, dal quale trae le proprie risorse, e che l’attività di management, vale a dire di governo e di indirizzo, non è disgiunta delle dinamiche organizzative in senso stretto ma è finalizzata ad indirizzarle; da ultimo, ma così rilevante che vi dedicheremo un apposito capitolo – il quinto - la persona è nei fatti la variabile critica: singoli e gruppi dei quali il sistema si compone rappresentano condizione di esistenza e di vitalità; è attraverso di essi che l’organizzazione produce l’energia e la forza per agire nell’ambiente. 1.3 Una possibile delimitazione del campo (nel panorama delle definizioni) Abbiamo introdotto, all’inizio di questo capitolo, l’idea che l’organizzazione sia un’azione collettiva. Altri studiosi precisano, ulteriormente, che occorre intenzionalità esplicita (idea che alcuni associano alla costituzione formale) e che si richiede un fine, più o meno comune. Vediamo ora di capire se questa declinazione - sulla quale è peraltro facile concordare - sia sufficiente o meno per capire la portata dei problemi organizzativi o se necessiti di precisazioni atte a proseguire il ragionamento con utilità nella direzione in cui ci siamo prefissi di muoverci. Azione: questo costituisce sicuramente un punto qualificante, proprio alla luce di quello che abbiamo precisato nel paragrafo precedente, la dimensione dinamica dell’organizzazione (in assenza della quale anche l’organizzazione, come dato strutturale, perde di vita). Collettiva: identifica un insieme di persone che, insieme (l’idea evocata è proprio quella di collegialità e di unità), si muovono. Per un obiettivo. Quale obiettivo? Quello esplicitato, reso consapevole e condiviso che diviene proprio dell’organizzazione. Semplice, no? Ne siamo sicuri? Qualcuno ha sostenuto (dopo averci studiato e ragionato un bel po’) che le organizzazioni, in quanto tali, non hanno fini, ma solo gli individui li hanno e spesso questi sono via via mutevoli, differenziati tra loro ed anche contradditori. Del resto, se osserviamo le organizzazioni nel tempo ci accorgiamo che facilmente, al cambiare delle persone, cambiano anche i loro orientamenti, i loro comportamenti: anzi, spesso i ricambi sono favoriti in forza del desiderio di vedere cambiare non tanto i volti, quanto ciò che essi fanno, l’impostazione che adottano, lo stile che impiegano. Potremmo, a questa linea di pensiero, obiettare che il fine dell’organizzazione ha anche questa non secondaria ricaduta: ricondurre i tanti e diversi fini individuali a quello che concordemente attribuiamo dell’organizzazione, sul quale ci riconosciamo e cui abbiamo dato la nostra adesione. E’ sicuramente così (e per le organizzazioni di volontariato lo è in misura maggiore che per altre organizzazioni). Quello che si vuole rimarcare è, innanzitutto che persone insieme con uno stesso fine non necessariamente fanno un’organizzazione; quindi, che l’equilibrio tra le due diverse fonti di fini non è facile e semplice da ottenere, anche perché il rischio che quelli che chiamiamo, per consuetudine e semplicità, i fini dell’organizzazione siano spesso i fini degli attori più potenti non è poi così remoto. Ma ci ritorneremo, perché la questione è, come evidente, di fondamentale importanza e va chiarita. 17 Quaderni per la Formazione Al momento, interessa concentrare l’attenzione su ciò che costituisce l’essenza ultima dell’organizzazione. Allora, possiamo (riprendendo la proposta di due autori, Massimo Ferrante e Stefano Zan) definire l’organizzazione nei termini seguenti. l’organizzazione è una forma di azione collettiva, che si ripete nel tempo, basata su processi di differenzizione e di integrazione che siano tendenzialmente stabili e intenzionali. L’interesse per questa definizione sta proprio nel suo fondarsi sull’aspetto prettamente organizzativo: i processi di differenziazione di integrazione Peraltro, che l’organizzazione sia definibile semplicemente come il complesso delle modalità secondo cui viene effettuata la divisione del lavoro in compiti distinti e, quindi, viene realizzato il coordinamento tra tali compiti è idea ormai da tempo consolidata, anche tra studiosi di matrice diversa. Questa caratterizzazione ha il pregio di essere estremamente lineare e di focalizzare l’attenzione su due termini essenziali quanto pragmatici, che sottolineano come alla base di ogni assetto organizzativo si ponga il “come si fanno le cose” (a ciò riconducendosi infatti la differenziazione e l’integrazione). Peraltro, si è soliti dire che la scelta del “cosa” compete l’ambito strategico (la vision, la mission, la declinazione in obiettivi), mentre il “come” attiene al terreno dell’organizzazione, vale a dire il terreno sul quale ci muoviamo ora. E’, in buona sostanza, una caratterizzazione che ben si adatta agli obiettivi “organizzativi” di questo manuale: ci suggerisce da dove partire per capire come possano e debbano operare le organizzazioni (anche quelle di volontariato, che troppo spesso se ne dimenticano). Per questo, la questione sarà oggetti di accurato approfondimento nel capitolo seguente. Ma prima di passare oltre, urge qualche considerazione sul punto dello scopo, proprio per la sua rilevanza. E’ su questo, infatti, che ci soffermiamo ora. 1.4 La questione dei fini dell’organizzazione Perché nasce un’organizzazione? Per realizzare uno scopo. L’organizzazione potrebbe sembrare un semplice supporto “tecnico” a servizio di una finalità data (sia pur quella che l’organizzazione stessa si è scelta) in una logica che potremmo qualificare di strumentalità. L’esperienza ci suggerisce, ancora una volta, che la faccenda non è così semplice. In realtà, i fini di un’organizzazione sono dentro il problema organizzativo, perché il chi decide i fini dell’organizzazione ed il come li si debba perseguire non sono soggetti separabili da quelli che dentro l’organizzazione si muovono (pur avendone titoli diversi e quindi possibilità di condizionamento differenti). Abbiamo già ricordato che Barnard - definendo l’organizzazione come sistema cooperativo, come luogo in cui gli individui operano insieme per il raggiungimento di un fine comune - non concepisce l’organizzazione senza le persone (anzi, sembra quasi che “l’or- 18 Quaderni per la Formazione ganizzazione sia le persone”) e le attribuisce il possesso di uno scopo: pertanto, le organizzazioni hanno dei fini. Quello che preme mettere in evidenza è che esistono moventi personali per ciascuno dei partecipanti ad un’organizzazione che non possono essere dimenticati; al contrario, occorre che a questi sia data soddisfazione proprio per il migliore perseguimento di quelli dell’organizzazione. L’autore citato ricorre nel suo ragionamento ad una metafora, la cd. metafora del “masso”, che pare assai appropriata per le organizzazioni di volontariato. Una persona, nel suo itinerario, si imbatte in un enorme masso che impedisce il cammino; è un ostacolo talmente pesante che non riesce a spostarlo da sola e che la spinge a ricercare la collaborazione di altri, sopraggiunti nel frattempo e ugualmente impediti a proseguire, o – se questi non fossero sufficienti - di altri ancora che, non avendo alcun interesse diretto alla rimozione del masso si convincono ad aiutare (per ragioni le più varie, non ultima l’entità della ricompensa). La cooperazione di più persone interessate a spostare quel masso riesce nell’intento. Quali riflessioni ci suggerisce questa provocazione, così vicina alla dinamica di molte associazioni di volontariato? Quante di esse nascono perché qualcuno si imbatte in una “causa” grande e pesante come un macigno e si mette insieme ad altri, più o meno pressati dall’esigenza di superare quel macigno? Nessuno dimentica le proprie motivazioni, anzi la cogenza di queste spiegherà l’intensità del coinvolgimento su tutti i piani, da quello emotivo a quello operativo. Quali riflessioni, dicevamo.. Innanzitutto: il masso viene spostato perché il gruppo si è organizzato, dapprima informalmente attraverso lo scambio di idee e pareri attraverso il quale si arriva a capire in che misura sia possibile cooperare, per giungere poi così alla decisione formale di impegnarsi al massimo per spostarlo, coinvolgendo altri che fossero in grado di aiutare, anche se direttamente non interessati. Nel momento in cui il fine comune viene perseguito attraverso l’organizzazione formale diventa il fine dell’organizzazione. Lo scopo dell’organizzazione, però, va tenuto distinto da quello degli individui, anche se possono esserci ampie aree di sovrapposizione: la coincidenza dei fini non può essere data per scontata, errore che troppo spesso si commette in forza della nobiltà e della rilevanza dello scopo. Spesso, infatti, si obietta che nel mondo del volontariato questa duplicità non esiste: tutti coloro che aderiscono ad un’organizzazione di volontariato lo fanno perché interessati ed affascinati al fine ultimo per il quale essa è nata. Nessuno si permetterebbe di mettere in discussione la carica ideale che spinge i fondatori e gli aderenti ad un’associazione che si sostanzia nello scopo; ma se osserviamo con realismo le nostre situazioni ci accorgiamo che molti sono gli intrecci. In ogni caso, poiché l’organizzazione è un sistema (intrinsecamente) cooperativo – che diviene tale proprio perché lo scopo non è più delle singole persone ma dell’organizzazione, la partecipazione deve essere ottenuta attraverso il consenso, vale a dire attraverso la mediazione della molteplicità di scopi e moventi individuali. Simon, però, invita non solo a tenere conto delle tante spinte, ma anche del fatto che sono i soggetti a costruire le organizzazioni, nel modo più razionale possibile, ma con tutti i limiti che li connotano. Le organizzazioni, lo abbiamo già osserva- 19 Quaderni per la Formazione to, non sono entità dotate di vita propria indipendente dall’azione umana: esse sono sempre il frutto dell’iniziativa umana e dei comportamenti umani (anche se l’organizzazione serve anche per indirizzarli, questi comportamenti). Le decisioni che concernono i fini si fondano su giudizi di valore, vale a dire quelli che esprimono una preferenza (e quindi si connotano per soggettività), mentre i mezzi per raggiungere o scopo derivano da giudizi di fatto, verificabili in maniera oggettiva. La decisione sull’ambito in cui dovrà operare la nostra associazione si innesta su un giudizio di valore, l’interesse (non discutibile) per i bambini piuttosto che per i senza dimora: e chi se la sentirebbe di metterli in ordine di priorità.. Il come farlo attiene all’ambito dei giudizi di fatto, dei calcoli che possiamo fare sull’adeguatezza e la fattibilità. In realtà, però, il rapporto tra mezzi e fini genera una sequenza: un fine raggiunto in base ad una decisione di valore, si trasforma in un mezzo per raggiungere un fine successivo, per cui è praticamente impossibile distinguere la bontà di uno scopo senza valutare i mezzi che occorrono per raggiungerlo. Questo significa che la desiderabilità degli scopi non può essere valutata a prescindere dai mezzi, in base a criteri di razionalità, quella razionalità limitata di cui abbiamo già parlato. Quest’ultima considerazione ci permette di aggiungere una sottolineatura. In realtà, sono i rapporti informali a creare le condizioni in cui può sorgere l’organizzazione formale, senza la quale la dimensione informale si rivela aleatoria ed è destinata a non durare. I rapporti informali sono, quindi, l’anima che dà senso e tono alle strutture formali (che diversamente restano delle scatole vuote accanto al fluire delle attività e dei rapporti), mentre l’organizzazione formale diventa il luogo dove si definisce lo scopo e dove nascono altri rapporti informali, che dinamicamente alimentano il processo vitale. 1.5 Efficacia ed efficienza, condizioni organizzative La distinzione tra fini dell’organizzazione e moventi personali consente di individuare due importanti dimensioni dell’azione organizzativa, efficacia ed efficienza. I due termini tornano costantemente nei discorsi economici e sempre più spesso anche nel mondo del volontariato vengono citati per esprimere, in sintesi, le buone condizioni di funzionamento di un’organizzazione. Non ci interessa in questa sede entrare nel merito, non è competenza “organizzativa” identificare indicatori e parametri per misurarli e determinare le modalità di calcolo e di stima. E’, invece, essenziale alla comprensione dell’organizzazione capirne significato e utilizzabilità. I concetti di: * efficacia: misura il grado in cui l’organizzazione raggiunge i suoi obiettivi, in termini di coordinamento ottimale delle risorse disponibili * efficienza: indica l’intensità con cui le motivazioni personali a far parte di un sistema (cooperativo per definizione) sono perseguite 20 Quaderni per la Formazione Sull’efficacia è facile allinearsi, è un concetto di uso comune e di condivisa interpretazione. Siamo, invece, soliti pensare all’efficienza in termini diversi (un po’ riduttivi), come rapporto tra risorse impiegate e risultati ottenuti: quando c’è equilibrio (o addirittura una sovrabbondanza di esiti) tra le due entità significa che non abbiamo sprecato nulla, ma che abbiamo valorizzato al meglio ogni apporto. Non sprecare nulla significa anche non disperdere le attese di soddisfazione delle persone che partecipano (con il loro tempo, con le loro capacità…) e che essi misurano in termini di rapporto tra contributo che percepiscono di dare e l’insieme delle ricompense (morali e materiali) che ne ricevono in cambio. Dense sono le sottolineature implicate in questa logica. Ci sono delle aspettative presenti in un soggetto; c’è un apporto da questi offerto, non necessariamente valutato in misura uguale da lui stesso e da chi lo riceve; l’eventuale differenza di apprezzamento sta alla base di possibili fonti di distorsione tra le ricompense offerte (ritenute, si presume, adeguate da chi le propone) e quelle tratte (da chi le riceve), che inevitabilmente tendono a rendere meno efficiente nel tempo l’attività, proprio perché il legame tra soddisfazione personale e qualità del servizio è forte. Questo ci porta ad osservare come non sempre efficacia ed efficienza siano contemporaneamente presenti nell’organizzazione. Tentando di schematizzare, potremmo individuare quattro situazioni possibili. Le possibili combinazioni tra efficacia ed efficienza * l’organizzazione è al tempo stesso efficace ed efficiente: è la situazione ideale, offre il quadro ottimale cui tendere * l’organizzazione è efficace ma non efficiente, vale a dire raggiunge i suoi obiettivi ma non soddisfa le persone * l’organizzazione è efficiente ma non efficace: cioè non raggiunge gli obiettivi che si era prefissa, ma soddisfa le persone * l’organizzazione non è né efficace né efficiente, perché non raggiunge i suoi obiettivi e neppure riesce a gratificare le persone L’ultima ipotesi è, come ovvio, quella che descrive il panorama peggiore, quello che fa sorgere spontanea la domanda sul come l’organizzazione riesca ancora a sopravvivere (ma spesso le forze inerziali prevalgono…). Se riflettiamo sulle nostre esperienze, ci rendiamo facilmente conto che la situazione ottimale non è scontata o garantita per il solo fatto di operare in un ambito di volontariato; molto più spesso nelle organizzazioni ci si dibatte nel tentativo di conciliare le due spinte, quella che si protende verso il massimo dei risultati conseguibili e quella che si occupa di privilegiare i moventi personali, trasmettendo sovente l’idea che la cooperazione stabile sia la condizione anormale (e questo spiega in parte le tensioni che è facile osservare all’interno delle associazioni). Barnard ci spiega che un individuo contribuisce ad un’organizzazione confrontando vantaggi e 21 Quaderni per la Formazione svantaggi che questo comporta per lui: se i benefici che egli ritiene di ricevere (si noti bene la soggettività della valutazione e l’ampio significato che è attribuibile al termine) oltrepassano i “costi” (l’insieme di tutto quello che comporta l’impegno, il tempo sottratto ad altro, la fatica aggiuntiva, le tensioni sopportate, gli eventuali costi effettivi …) continuerà a partecipare e a contribuire fattivamente. Diversamente lascerà l’organizzazione. Come quest’ultima può agire per favorire il proseguimento del rapporto, viene allora da chiedersi? L’organizzaione può contare su due strumenti per garantirsi gli sforzi necessari alla sua esistenza: il sistema degli incentivi e quello della persuasione. Gli incentivi sono fattori “oggettivi” che mirano a soddisfare le aspettative delle persone e possono essere sia di natura materiale che immateriale. Un incentivo tipico del volontariato è, ad esempio, l’impegno per il prossimo, ritenuto di per sé gratificante e che, oggettivamente, può essere goduto solamente tramite l’adesione a quell’organizzazione (o ad una similare). Sino a quanto gli incarichi affidati, gli sforzi sollecitati consentiranno di beneficiare della soddisfazione derivante dal ricolmare questo bisogno, il nostro volontario sarà attivamente presente: ma è evidente che si tratta di un equilibrio instabile….da controllare costantemente (se ci preme che il rapporto prosegua..) La persuasione agisce, invece, sul lato soggettivo del rapporto tra organizzazione e individuo: tende a modificare le aspettative esistenti e a favorire nei soggetti nuovi moventi; lo può fare ricorrendo ad una gamma ampia di strumenti, che vanno (quanto meno dal punto di vista teorico) dalla coercizione, più o meno palese (e comunque poco significativa, nel volontariato), alla mobilitazione “ideale”. Non dimentichiamo mai che ciò che è importante non è quello che l’apporto individuale significa per ciascun partecipante all’organizzazione personalmente, bensì quello che egli pensa significhi per l’organizzazione nel suo complesso: sembra una distinzione sottile, ma è assolutamente centrale perché posiziona la dimensione soggettiva su quella oggettiva, che mai potrà essere accantonata. 1.6 Un criterio “non organizzativo” Le considerazioni proposte ci hanno condotto ad un punto di non ritorno, che va ora esplicitato. Il costante richiamo all’essere l’organizzazione un terreno di azione umana, assai poco scindibile dalle persone che si aggirano al suo interno, rappresenta un’acquisizione importante, che - se può facilmente essere data per scontata laddove questa natura, per dimensioni e per prevalenza di informalità, appare come l’unica possibile - tende di norma a tradursi in un disinteresse per l’approccio organizzativo, ritenuto appropriato ad altre situazioni. E’, a questo punto, chiaro che così non è; che anche la più piccola organizzazione racchiude tutte le complesse dinamiche che abbiamo segnalato. L’acquisizione appena sottolineata ci introduce, altresì, a due ordini di conseguenze. Una prima (che verrà ripresa nel cap. 3) mette in evidenza l’esigenza che, per il suo bene, l’organizzazio- 22 Quaderni per la Formazione ne debba tentare di evitare ogni possibile forma di eccessiva personalizzazione (rischio che sappiamo forte ed incombente per molte associazioni) per indirizzarsi verso una logica organizzativa più ampia che collochi il legame costitutivo con le persone in un sistema coordinato di ruoli. La seconda si pone in positivo. Fa, cioè, emergere quanto le persone - ciò che esse hanno a cuore, ciò che le muove, ciò che le caratterizza come passione, temperamento, competenze – si trasfondano nell’organizzazione. In questo senso, la radice ultima dell’organizzazione di volontariato sta nel suo essere un luogo in cui il bisogno di bene depositato nel cuore dell’uomo trova come un’opportunità di esprimersi. Per questo, la fonte vera dell’organizzazione è un “criterio non organizzativo”: per dirla con un’efficace espressione “il visibile nasce sempre dall’invisibile”. Ogni particolare organizzato, ogni dinamica fluisce per questo scopo che si manifesta nello specifico dell’associazione, che si declina attraverso questo, ma che tende ad altro. Come esprimerlo? Voler bene all’umanità passa attraverso il concreto aiuto ai poveri del proprio quartiere, il sostegno alla ONG che opera in un paese povero, l’impegno a creare condizioni più favorevoli… Tante forme, ciascuna implicante un assetto organizzativo, generante delle dinamiche organizzative che nessun senso avrebbero (anzi, neppure scatterebbero) in assenza di quella tensione. E’ quella tensione, che va custodita. 1. 7 Tirando le fila La densità delle argomentazioni introdotte suggerisce di riassumerne schematicamente i passaggi salienti che sono stati proposti, prima di entrare decisamente dentro le dimensioni di operatività organizzativa, di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo e nei seguenti, via via spostandoci dal piano delle “logiche organizzative” a quello degli “strumenti organizzativi”, nella consapevolezza che l’utilizzo di questi ultimi sarà realmente proficuo solo se conseguente ad argomentazioni assennate ed appropriate. Nella tabella seguente sono, quindi, indicati i termini essenziali ed i nessi logici che questo primo capitolo ha introdotto e sviluppato. Il quadro di insieme • Tante organizzazioni diverse: cosa hanno in comune? • Organizzazione come moltiplicatore degli sforzi personali • Tante prospettive: organizzazione e organizzare • I fini dell’organizzazione ed i fini degli individui: come stanno insieme? • Le misure dell’organizzazione: efficacia ed efficienza come obiettivi • Dentro ed oltre l’organizzazione: la “ragione” prima ed ultima 23 Quaderni per la Formazione 2 I “FONDAMENTI” ORGANIZZATIVI Il titolo, forse, rischia di intimorire un po’: i “fondamenti organizzativi”, vale a dire le basi, i principi, i rudimenti di questo strano oggetto che è l’organizzazione (perché bene bene, sino ad ora, mica si è capito cosa sia, questa organizzazione…). Sembra roba da studi universitari (gran bella cosa, ma noi qui - nel mondo del volontariato abbiamo cose ben più concrete di cui occuparci…). Per chi non è un addetto ai lavori (cioè, come dire, la totalità dei lettori), l’espressione potrebbe, in altri termini, evocare il riferimento a lontane teorie, a complessi ragionamenti, a intricate elucubrazioni che, per essere avvicinate alla realtà e calatele dentro, debbono far fare al destinatario una lunga strada, che forse non ha neppure troppo interesse a percorrere. Ciò che occorre sono risposte operative, indicazioni applicabili. La scommessa di queste pagine sta proprio nel voler tentare di mettere in luce la comprensibilità e l’utilità dei concetti basilari attorno ai quali gli assetti organizzativi e le decisioni organizzative si dipanano, rendendoli più consapevoli proprio agli occhi di chi l’organizzazione costruisce. Ci riproponiamo, pertanto di esaminare come nasce il problema organizzativo, quali siano i concetti che lo determinano e come la loro comprensione ci aiuta a capire le nostre organizzazioni, quelle realtà che - come abbiamo proposto nel capitolo precedente - si qualificano come “forme di azioni collettive continuative fondate sui processi di differenziazione ed integrazione, che abbiano una connotazione di stabilità e di intenzionalità” e che fondano la loro ragione d’essere su un mission “speciale”, quella che, per convenzione, definiamo una “buona causa”. 2.1 I concetti in gioco Abbiamo quindi sostenuto che l’organizzazione nasce per effetto della divisione del lavoro; nasce cioè dal rendersi conto che è più conveniente che ciascuno si concentri su una fase (del più articolato processo produttivo di beni o servizi) o su di un’attività - specializzandosi così in quello perché questo si rivela più produttivo che l’impegno frammentato in una pluralità di attività generiche. La divisione del lavoro si accompagna all’esigenza di integrazione, vale a dire alla necessità di ricomposizione dei singoli frammenti in un tutto affinché ciò che ne deriva sia quello che effettivamente si voleva e sia realizzato a “regola d’arte”, come dire bene. Il coordinamento - vale a dire l’azione di corretta combinazione dei singoli tasselli - è, in questa prospettiva, l’aspetto più delicato dell’organizzazione. In un certo qual senso, potremmo affermare che l’organizzazione si qualifica come funzione di coordinamento di attività specializzate, anche se a questo aggettivo attribuiamo un significato non così forte come si è spesso propensi a fare Semplificando un po’ (ma non troppo), potremmo sostenere che obiettivi (da perseguire per dare sostanza alla nostra mission), conoscenze (competenze ed abilità necessarie) e tecnologia (i supporti utili) siano dati e che il problema (quello con la “P” maiuscola da gestire) sia come distribuire i compiti nella maniera più efficace ed efficiente. 24 Quaderni per la Formazione Questo, lo abbiamo già visto in precedenza; si traduce in un problema di “struttura organizzativa”, che esiste ma non è il solo, e neppure quello più complesso. Se, in realtà, gli obiettivi sono da definire (perché la mission può essere declinata in più modi e quello che interessa alle persone anche), e ugualmente vale per le strategie (vale a dire il modo per perseguirli, gli obiettivi) se la conoscenza e la tecnologia sono esiti dell’azione organizzativa (come peraltro, l’esperienza individuale ci permette di documentare), allora il coordinamento non è solo un meccanico incastro dei pezzi del puzzle. La sua natura si trasforma in qualcosa di più, perché il ruolo dell’organizzazione non è più di tipo prevalentemente prescrittivo e procedurale, ma si sposta sul terreno della sperimentazione e dell’innovazione, terreno - questo - su cui le organizzazioni di volontariato vengono, a buon conto, accreditate di notevoli capacità. Se a questo si aggiunge il fatto che individui e gruppi, all’interno dell’organizzazione, hanno preferenze, informazioni, interessi e competenze diversi (e magari anche confliggenti), il punto centrale - quello organizzativamente qualificante - diventa indirizzare ogni sforzo verso una stessa meta in maniera coerente, laddove la coerenza diventa la parola chiave dell’organizzazione. Non esiste, come ben sappiamo, l’organizzazione perfetta in quanto modello da utilizzare per garantirsi il buon funzionamento del tutto. Esistono combinazioni possibili di divisione del lavoro e di forme di integrazione, più o meno adatte all’ambiente esterno (gli interlocutori dell’organizzazione) ed a quello interno (le persone che collaborano) da costruire: e ciò che interessa, di queste combinazioni, è proprio il grado di armonia interno. Con quale logica si scelgano è quanto ci accingiamo ad esaminare. 2.2 Differenziazione ed integrazione Partiamo dai due processi che, operativamente, generano l’agire organizzativo: li abbiamo introdotti nel capitolo precedente, quando abbiamo proposto un modo per capire la specificità dell’organizzazione, come il suo nucleo fondamentale. I processi organizzativi di base Differenziazione, evidenziazione ed enucleazione di aree di attività e di competenza da presidiare, premessa alla divisione del lavoro, che genera specializzazione; Integrazione, livello e qualità della collaborazione tra persone (o tra unità organizzative) necessaria per svolgere un’attività non elementare Proviamo ad entrare più profondamente nel significato (e nell’utilità) di questi concetti. L’essenza della differenziazione risiede nella divisione del lavoro e nella specializzazione; si traduce, in altri termini, in un assetto organizzativo che trasforma un insieme indifferenziato di persone in un insieme coordinato di ruoli. Di solito si dice che la differenziazione si qualifica come il processo organizzativo attraverso il quale un gruppo può ottenere risultati superiori alla somma degli sforzi dei singoli (se così non fosse non si capirebbe a cosa serva organizzarsi con compi- 25 Quaderni per la Formazione ti complementari). Non importa quanto questo assetto sia raffinato e la divisione approfondita (dipenderà dal tipo di organizzazione e soprattutto dalle sue dimensioni), importa sottolineare che l’organizzazione (ciò che in premessa abbiamo richiamato come nostra esperienza di organizzazione) nasce proprio da qua, dall’attribuzione di compiti - che abbisognano di più o meno ampie ed approfondite competenze, che richiedono modalità di comportamento più o meno rigorose, che necessitano di un grado di adesione più o meno convinto - assolvere ai quali significa interpretare un ruolo, cioè giocare la partita della squadra. Insomma - al di là del dimensionamento delle singole caratteristiche che dipendono da una varietà di fattori essenzialmente legati all’ambito ed alle condizioni di operatività come vedremo nel prossimo capitolo - il primo (e, forse, proprio per questo il vero) problema organizzativo è l’impostazione del processo di differenziazione, perché esso determina fortemente le capacità dell’organizzazione di cogliere e valorizzare tutte le sue potenzialità: gestire in maniera equilibrata la divisione del lavoro significa innanzitutto aver ben compreso l’insieme del processo, e in forza di questo poter affidare alle risorse che se ne occupano dei compiti precisi. La differenziazione consente di utilizzare alcune cd “economie” (vale a dire risparmi, migliore utilizzo e, quindi, fenomeni di cui ogni organizzazione, anche la più semplice, dovrebbe tendere ad usufruire in base al buon senso per cui non sprecare nulla significa poter fare di più); in particolare possiamo mettere in evidenza le seguenti. Le possibili fonti di “economie” Economie di specializzazione, che generano rendimenti ottimali proprio in forza del fatto che ci siano unità e persone dedicate ad un certo tipo di attività; Economie di apprendimento, che si associano al ripetere più volte una stessa operazione sino alla familiarizzazione con quella operazione Economie di scala, che derivano dalla possibilità di saturare al meglio strutture, tempi, risorse, in forza di una produzione più abbondante. Cosa significano queste potenziali “economie”? In buona sostanza, convogliare attenzione e impegno su un dato tipo di attività produce confidenza e dimestichezza con quella attività e rende più veloci nello svolgerla: quindi, concentrare l’impegno e imparare sono due fenomeni esperienziali che viaggiano strettamente connessi. Su un piano diverso, si muove invece il terzo gruppo di economie (sono anche quelle più difficilmente conseguibili nella frammentazione del mondo del volontariato), anche se non vanno sottovalutate: laddove, per esempio, si dovesse decidere di aumentare la gamma di servizi forniti varrebbe la pena di domandarsi se questa scelta possa essere effettuata in condizioni ragionevoli, in quanto, ad esempio, a rischio di non pieno utilizzo delle strutture di cui occorre disporre; o ancora, le economie di scala possono essere una preoccupazione che ci aiuta ad immaginare 26 Quaderni per la Formazione come meglio utilizzare risorse condividendole. Se la differenziazione è il passaggio preliminare, i risultati si ottengono (si vedono) però attraverso il processo di integrazione, vale a dire quello che riconduce ad unità gli sforzi e il lavoro dei singoli. Non occorre molto per documentare il fatto che l’impegno del singolo volontario, in assenza (per le ragioni più diverse, derivanti da non adeguata organizzazione o provocati da problemi sopraggiunti) di un quadro di insieme al tempo stesso realistico, preciso e coordinato, si vanifica generando in lui delusione e provocando danni all’associazione. Questo è tanto più vero laddove la divisione del lavoro tende ad essere piuttosto spinta a causa della limitata disponibilità di tempo offerta dal volontario, come si esaminerà meglio nel cap. 5. Sicuramente, una buona impostazione della divisione rappresenta la pre-condizione perché la riconduzione ad unità sia possibile. Questo significa una buona progettazione, ben calibrata con il suo “oggetto” (e quindi dettagliata quanto basta), questione che riprenderemo nell’apposito capitolo (il successivo, per la precisione). Già da ora, però, vale la pena soffermarsi sulle modalità con le quali la riconduzione ad unità di ciò che la divisione del lavoro ha separato viene resa possibile. 2.3 Coordinamento e interdipendenza Una efficace e semplice schematizzazione dei diversi modi attraverso i quali si affronta la questione del coordinamento è quella proposta da Henry Minzberg, che andiamo ora a presentare ed a commentare. I principali meccanismi di coordinamento adattamento reciproco: implica coordinamento nell’azione e implica relazioni orizzontali supervisione diretta: implica controllo e richiede anche relazioni verticali standardizzazione delle capacità: implica l’individuazione “prima” delle caratteristiche necessarie a svolgere un compito standardizzazione dei processi di lavoro: implica la pre-definizione del modo in cui si effettua un lavoro standardizzazione degli output: implica la previsione del risultato atteso Questi meccanismi (che non a caso vengono definiti tali, in quanto congegni che permettono il funzionamento) hanno il pregio di formalizzare le diverse possibilità in un ordine preciso di complessità crescente che ciascuno contribuisce ad affrontare. Anche se, probabilmente, si intuisce in cosa consistano, può essere opportuna qualche precisazione che ci aiuti a contestualizzarli meglio e a capirne il tipo di uso che ogni organizzazione ne fa o può farne (sovente già vi si ricorre magari inconsapevolmente, perché corrispondenti ad un istintivo modo di porsi, in altri casi probabilmente da introdurre come supporto ulteriore per 27 Quaderni per la Formazione migliorare la funzionalità complessiva). Il primo dell’elenco - l’adattamento reciproco - si fonda sulla dinamica della comunicazione informale tra coloro che collaborano al raggiungimento di uno stesso esito: ciascuno mantiene il controllo del lavoro (compito piccolo o grande non importa) che gli è affidato e insieme ci si accorda sull’azione. E’ la modalità basilare; molto semplice da immaginare nel suo svolgimento, questa prassi non è scevra da complicazioni derivanti da possibili difficoltà relazionali e dalla capacità (e volontà) dei diversi operatori di adattarsi al contesto in cambiamento, ostacoli che possono pesantemente influire sul funzionamento dell’organizzazione, come troppo spesso accade. Se il pregio dell’informalità di questo strumento di coordinamento non va mai sottovalutato (è sicuramente molto più semplice gestire qualcosa attraverso l’accordo di coloro che sono chiamati a contribuirvi, rispetto al dover presidiare relazioni e contenuti), la sua eccessiva dominanza rischia di contrastare la logica organizzativa di perseguimento di un obiettivo, proprio perché l’informalità presuppone elevata sintonia tra coloro che collaborano (sintonia che può scaturire su piani assai diversi, dalla consonanza ideale, a quella caratteriale, dall’abitudine alla collaborazione alla condivisione di un modus operandi di natura professionale). Quando un’organizzazione supera il suo stadio più semplice ed inizia a raccogliere numeri non proprio modestissimi di volontari e di collaboratori, diventa inevitabile introdurre il secondo meccanismo, la supervisione diretta: tale prassi persegue il coordinamento del lavoro attraverso una persona che assume la responsabilità del lavoro altrui, fornendo indicazioni (in alcuni casi anche ordini) e controllando (con maggiore o minore frequenza ed intensità) le azioni. Tipicamente, possiamo pensare ad un gruppo di volontari impegnati in una iniziativa specifica – un momento pubblico di fund raising, ad esempio, o ancora la gestione della copertura dei turni di una casa di accoglienza - che si muove, in parte, seguendo le indicazioni del proprio responsabile (o chiamandolo in causa se abbisogna), ma anche utilizzando i rapporti interpersonali accordarsi sul da fare e definendo le rispettive azioni. Le forme ulteriori con le quali si definisce il coordinamento si costruiscono attorno all’idea di standardizzazione. Al di là dell’immediata repulsione che questo termine potrebbe suscitare (lo usiamo spesso in negativo, per sottolineare la mancanza di personalizzazione, la prevalenza di uniformità, la ripetitività, l’allineamento ad uno standard, appunto, come tra breve preciseremo, fatto non necessariamente da disprezzare), la standardizzazione va apprezzata proprio per il suo contenuto di predefinizione, di individuazione preliminare di parametri adeguati, che consentano di prevedere cosa ci si debba aspettare e come sia possibile mantenere nel tempo un certo risultato. Il suo valore risiede, in altri termini, nel fatto che limita i rischi di improvvisazione (che, se da un lato può essere interpretata come un indicatore di creatività, dall’altro espone a rischi non banali di approssimazione e di genericità, soprattutto nelle nostre associazioni, dove l’alternarsi di volontari è un fenomeno intenso non necessariamente da contrastare ma che non deve indotte inversioni di rotta non indotte dall’estro creativo di qualcuno). Tre sono i livelli su cui si gioca la possibilità di definire standard predeterminati di riferimento: si 28 Quaderni per la Formazione può intervenire sui processi operativi, sugli output attesi del lavoro o sugli input. Ancora una volta, non ci si spaventi per la terminologia utilizzata. I processi di lavoro, vale a dire la sequenza delle azioni da compiere per ottenere un certo risultato, vengono standardizzati quando si specificano e si programmano i contenuti di quelle stesse azioni: questo è sicuramente utile ed efficace in presenza di una elevata turnazione sui compiti e per compiti ripetitivi, perché limita (anche se fortunatamente non può eliminare del tutto) il rischio di soggettività troppo dirompenti, di comportamenti eccessivamente pieni di iniziativa che possono minare il buon funzionamento, pur spinti da buona volontà. La sua efficacia è condizionata dalla accuratezza e dall’intelligenza con cui il processo viene “standardizzato”: istruzioni semplici e chiare, facilmente applicabili e il più possibile agevolmente comprensibili (sia nelle ragioni che le determinano, sia nella loro applicabilità) rappresentano un’esigenza insopprimibile affinché l’introduzione di dosi (modeste) di standardizzazione contribuiscano a migliorare l’operatività e non ad appesantire la gestione. Di notevole aiuto in questa direzione è l’apporto della tecnologia che può “costringere” a seguire una sequenza predefinita, a non saltare alcun passaggio e ad arrivare alla fine in maniera coerente allo stile dell’organizzazione: si pensi alla compilazione di moduli per i primi contatti piuttosto che alla annotazione delle richieste ricevute, attività che possono oggi essere impostate con programmi informatici semplici ma vincolanti. La seconda forma è quella della standardizzazione degli output: questa interviene quando si specificano i risultati da ottenere e si lascia a chi lo svolge di scegliere la modalità più utile, efficace o semplicemente quella praticabile per farlo. E’ di tutta evidenza la frequenza di utilizzo di questa modalità, assai praticata nel mondo del volontariato, soprattutto laddove il risultato che interessa perseguire deriva dall’interazione con un interlocutore, ad esempio quando i nostri volontari si trovano ad aiutare persone in difficoltà, le cui esigenze vanno capite attraverso il dialogo ed il rapporto va costruito con forte attenzione a quella specifica situazione. Il ricorso alla standardizzazione degli input, infine, si traduce nella predefinizione delle caratteristiche, delle capacità e delle conoscenze richieste agli operatori chiamati a collaborare per un certo risultato: queste diventano, al tempo stesso, premessa e garanzia per l’ottenimento del risultato sperato. Se le altre due forme di standardizzazione agiscono in maniera diretta, in questo terzo caso l’intervento è indiretto: si dà per scontato (soprattutto laddove le regole sul “come fare” non funzionano, oppure laddove il risultato non è a priori conosciuto e neppure con certezza definibile) che chi presenta certe attitudini, certe competenze possa muoversi nella direzione voluta. Poche considerazioni ulteriori. Se ci si riflette un attimo, si può notare che i vari modi per gestire il processo di integrazione corrispondono ad un percorso evolutivo connotato da gradi crescenti di complessità, il cui manifestarsi suggerisce di ricorrere ad un ulteriore meccanismo: essi sono, quindi, tutt’altro alternativi, ma è assolutamente normale la loro co-presenza. E’ attraverso l’uso congiunto (ed appropriato, soprattutto) che l’assetto dell’organizzazione si stabilizza: in determinate condizioni un’organizzazione ne privilegerà uno oppure ricorrerà ad un altro. C’è 29 Quaderni per la Formazione un’ulteriore caratteristica, che la figura seguente evidenzia: accentramento e decentramento si accompagnano direttamente alle due forme di base, mentre le diverse standardizzazioni si collocano all’interno della traiettoria. Accentramento orizzontale Decentramento orizzontale Supervisione Standardizzazione Standardizzazione Standardizzazione Adattamento diretta dei processi di degli output delle capacità reciproco lavoro Il volontario che lavora da solo gestisce nella propria mente il coordinamento delle azioni che deve compiere. Se gli si affianca un altro individuo, al crescere quantitativo dell’impegno richiesto, ecco che l’adattamento reciproco tra i due diventa il mezzo privilegiato per dar corso all’impegno. Non avrebbe molto senso fornire istruzioni dettagliate da applicare (le energie assorbite in questa attività sarebbero sproporzionate e non offrirebbero neppure garanzie di un buon funzionamento). Molto meglio impegnarsi nella scelta delle persone giuste da affiancare (e quindi assolvere bene al compito della ricerca e dell’inserimento del volontario). Mano a mano che il piccolo gruppo cresce diventa sempre meno capace di coordinarsi in maniera informale garantendo efficacia. Emerge il bisogno di un leader (prima che di un capo formalizzato come tale e magari percepito come una imposizione). Il controllo del lavoro del gruppo passa, allora, a chi se ne assume la responsabilità e interviene regolando l’agire altrui nelle modalità che gli saranno più consone, secondo il proprio stile. Al crescere dei numeri (delle persone coinvolte, degli interventi da eseguire) e delle interconnessioni tende a manifestarsi l’esigenza di un’altra importante modifica, quella verso la standardizzazione. Quanto più le attività (comunque consistenti) si connotano per la loro semplicità e ripetitività, tanto più immediato sarà il ricorso alla predefinizione di un insieme di regole del processo lavorativo cui attenersi; mentre in presenza di compiti ad alta complessità ed elevata incertezza saranno le qualità degli operatori a diventare centrali; la focalizzazione sui risultati lascia ampio spazio all’operatore di muoversi a suo piacimento. C’è un altro meccanismo di integrazione, che si colloca su un piano diverso rispetto a quelli che abbiamo sino ad ora presentato e che agisce potenziando l’efficacia di tutti questi: è l’insieme dei valori che fondano l’organizzazione, in forza dei quali l’azione di ciascuno non può che svolgersi nell’aveo “giusto”. La rilevanza del sistema dei valori può esprimersi in due direzioni diver- 30 Quaderni per la Formazione se e complementari. La prima attiene al sistema complessivo e generale dei valori che caratterizzano un’organizzazione: quanto più intensa è questa dinamica, tanto più l’integrazione è garantita dal fatto che i componenti orientano i loro comportamenti inferendo quali sono le azioni corrette ed opportune a partire dai macro valori, dagli ideali e dalle prospettive centrali per l’organizzazione: in questo modo si riporta ad unità azioni che rischierebbero di essere episodiche e non sistematiche. Il secondo attiene a valori più propriamente professionali, in quanto hanno a che fare con quell’insieme di conoscenze, competenze e modalità di azione apprese come proprie dal contesto professionale. L’esigenza di coordinare le attività, può sembrare ovvio ma è opportuno ribadirlo, nasce dal fatto che esse sono legate da interdipendenza. L’interdipendenza è un’altra delle dimensioni fondamentali e caratterizzanti l’organizzazione: essa sta a sottolineare il tipo di legame che esiste tra le parti che compongono l’organizzazione. Una delle classificazioni più semplici, ma efficaci, è quella proposta nello schema seguente. Le tipologie di interdipendenza Generica, quella che si manifesta tra ambiti diversi che utilizzano risorse comuni, nei confronti di un’unità centrale Sequenziale, quella che si esplicita quando il flusso dell’attività segue una direzione unica e dove una variazione di comportamento di una parte richiede adattamenti da parte dell’altra Reciproca, quella che si genera tra due soggetti o tra due attività in maniera bidirezionale Intensiva, detta anche “da azione comune”, è quella che si palesa tra più soggetti, tutti collegati da flussi bidirezionali, che co-agiscono sviluppando scambi informativi in parallelo. Nell’ordine in cui sono stati indicati, i quattro tipi di interdipendenza risultano progressivamente più difficili da coordinare in quanto si caratterizzano per gradi crescenti di contingenza e di complessità: una interdipendenza superiore ingloba anche quelle più semplici, per cui i meccanismi che occorre impiegare sono di più e più articolati. Possiamo ricorrere allo schema seguente, che collega tipologie di interdipendenza e forme di coordinamento utili a gestirle, per chiarire la questione. Collegamenti tra Tipologie di interdipendenza Generica Sequenziale Reciproca Intensiva Meccanismi di coordinamento Standardizzazione dell’output Standardizzazione del processo Reciproco adattamento Supervisione diretta Standardizzazione delle capacità 31 Quaderni per la Formazione 2.4 L’organizzazione e i comportamenti individuali L’interdipendenza di cui ci siamo appena occupati sta anche a sottolineare che c’è un certo tipo di legame tra un ruolo e l’altro, la cui azione congiunta è, nei fatti, la condizione di operatività dell’organizzazione. In questa prospettiva possiamo evidenziare come i due processi che abbiamo sopra esaminato – divisione e integrazione - generino un sistema di ruoli, più o meno intensamente collegati, che influisce sui comportamenti individuali. La questione va ben capita. E’ sotto gli occhi di tutti quanto ognuno tenda a modificare il proprio comportamento in base al ruolo che lo caratterizza: questo, sia ben chiaro, sottolineato nella sua valenza positiva, di comportamento atteso (giustamente atteso). L’ammalato va dal medico e si aspetta che questi lo visiti, faccia la diagnosi e gli proponga una cura: questo è il comportamento atteso, in assenza del quale il giudizio su quel medico sarà quanto meno sospeso. La persona senza dimora che si avvicina all’organizzazione di volontariato si aspetta (dovrebbe aspettarsi) che il volontario che ha di fronte lo tratti con dignità; se questo non dovesse accadere è probabile che il clochard non reagisca, ma a causa dello stato di prostrazione nel quale versa (è probabilmente abituato a vedere deluse le proprie aspettative) e non perché questo sia coerente con ciò che è ragionevole attendersi come esito del contatto con un’associazione di volontariato la cui mission è occuparsi dei diseredati. Ciò che si intende mettere in evidenza è, in buona sostanza, proprio che le organizzazioni sono sempre e comunque meccanismi di influenza dei comportamenti individuali, sia perché coloro con i quali ci rapportiamo si aspettano condotte di un certo tipo da chi occupa una data posizione, sia perché ciascuno di noi tende a comportarsi in maniera diversa a seconda dei diversi ruoli che si trova a ricoprire. Non vale neppure la pena rimarcare quanto danno provochino volontari non “allineati” proprio rispetto a questa dinamica: la consapevolezza delle aspettative in chi si avvicina ad un’organizzazione di volontariato esattamente come (in maniera speculare) la consapevolezza del ruolo che si sta interpretando sono dimensioni basilari. Proviamo ad estremizzare ipotizzando qualche situazione, per chiarire la rilevanza della questione. L’approccio poco serio di chi considera il proprio impegno nel volontariato come un spazio flessibile, al limite del sopprimibile, provoca disagi in chi trova risposta al proprio disagio nella fedeltà della risposta di quell’associazione. Il burbero manager, avvezzo a condurre il proprio staff in maniera direttiva, troverà sicuramente poco seguito se trasporrà questa sua modalità nel gruppo dei volontari della mensa a cui offre un po’ del proprio tempo libero… Questi comportamenti, oltre ad essere riprovevoli da molti punti di vista, sono in netto contrasto con quanto caratterizza il contesto nel quale sono messi in atto. Insomma, il gioco dei ruoli è, al tempo stesso, risultato e precondizione per l’agire dell’organizzazione: se cosi non fosse l’organizzazione non sarebbe possibile. Se è vero che l’organizzazione si basa sui processi di differenziazione e integrazione (e conseguentemente su un sistema di ruoli che identifica “chi fa cosa”) la possibilità per esplicitare tutte le potenzialità risiede nel 32 Quaderni per la Formazione fatto che ciascun partecipante indirizzi il proprio comportamento sulla base di quanto previsto per quel ruolo. Non pensiamo al ruolo come a qualcosa di improprio per il volontariato; è un termine impegnativo, ma per la serietà che richiede più che per le competenze associatevi (che spesso ne costituiscono la parte residuale): il ruolo è semplicemente la posizione in cui mi colloco (potrà essere più o meno professionalizzato, ma questa è un’altra storia, che non può essere confusa). E’ il sì che un volontario risponde ad una proposta (di un turno di presenza nell’accoglienza, ad esempio) ed il conseguente atteggiamento coerente (non posso presentarmi in un giorno diverso senza creare disagio, non posso farlo palesando imbarazzo e malessere…). I margini di autonomia ci sono, ma sono per definizione limitati, perché l’organizzazione è per definizione legami, più o meno intensi. In alcuni casi sono tali da mettere in discussione il raggiungimento dell’obiettivo, in altri meno. Dipende – appunto – dall’interdipendenza tra i ruoli. Peraltro, ricordiamo che Simon, lo studioso che abbiamo già citato, definisce l’organizzazione come “un campo strutturato di premesse”. Campo: cioè terreno di azione; di premesse: vale a dire, qualcosa che precede l’azione, che consente all’individuo di assolvere al compito che gli compete in forza delle “indicazioni” fornitegli per agire. Indicazioni che sono condizione necessaria e sufficiente per decidere il da farsi quando gli occorre e decidere in maniera soddisfacente (in quanto coerente con il disegno generale dell’organizzazione). 2.5 La coerenza, un criterio fondamentale Se è vero che differenziazione e integrazione costituiscono i due perni attorni ai quali ruota l’organizzazione, il suo funzionamento è garantito dal grado di congruenza tra le scelte che informano l’uno e l’altro processo. Il punto centrale non è tanto il come si procede a definire l’assetto, l’accuratezza e la precisione con la quale la divisione viene condotta e quanto le modalità di coordinamento siano ben soppesate. La questione principale riguarda la coerenza tra le scelte sull’uno e sull’altro versante. Si tratta di un criterio intrinseco ad ogni singola realtà, che non consente di predefinire un modello di funzionamento (che in quanto tale - modello studiato e proposto con qualche timbro di garanzia – assicuri l’esito); si tratta, al contrario, di presidiare l’insieme dei processi (le cose da fare ed il come è meglio siano fatte) e di aver cura che l’insieme si sviluppi armonicamente. Quale è l’organizzazione preferibile? Quella che ha meglio organizzato il proprio processo di differenziazione e quello di integrazione? Quella in cui gli individui si attengono sempre alle previsioni di ruolo e le interdipendenze scorrono via tranquille? Sappiamo tutti che la risposta a questi quesiti è negativa, lo sappiamo per esperienza. E allora? Le nostre considerazioni sull’organizzazione cadono? Valgono, eccome, ma interpretate da una coerenza di fondo, che è coerenza con lo stile, con la 33 Quaderni per la Formazione storia, con le sensibilità proprie della singola associazione. Non si pensi che si stia andando alla deriva, su un terreno troppo impalpabile. La coerenza costituisce un obiettivo da costruire sulla concretezza delle cose da fare nell’organizzazione, è il criterio ultimo che definisce le traiettorie del futuro sulla solidità del passato. 2.6 Un breve riepilogo Anche questo capitolo ha messo in campo molte questioni, per cui conviene riprendere in forma schematica ciò che si è, passo dopo passo, presentato. La tabella seguente riassume per sommi capi i passaggi salienti attraverso i quali si è sviluppato il ragionamento. Organizzazione - processo di differenziazione divisione dei compiti specializzazione sistema di ruoli interdipendenza - processo di integrazione meccanismi di integrazione e di coordinamento valori - i comportamenti individuali - la coerenza organizzativa 3. LA PROGETTAZIONE ORGANIZZATIVA Su un qualsiasi manuale di organizzazione che si voglia consultare, la progettazione organizzativa viene definita come una “complessa” (e già si inizia bene, perché le cose complesse non sempre entusiasmano chi se ne dovrebbe occupare, soprattutto se quel qualcuno ha altri obiettivi, fare volontariato, ed ha netta la percezione della scarsità di tempo e di energie da dedicare ad un impegno aggiuntivo di cui non sempre si intravede l’utilità)… complessa attività attraverso la quale “l’idea” - la causa che abbiamo enucleato nella nostra mission e di cui gli obiettivi che ci siamo ripromessi di perseguire rappresentano immediata declinazione - viene tradotta in strutture, ruoli, procedure, simboli e significati relativamente stabili, in grado di attirare le risorse necessarie e di fornire le prestazioni attese dagli attori e dall’ambiente istituzionale. Come dire, occuparsi di tutto quello che occorre per passare da un’idea progettuale (nel nostro caso, la “causa” che ci ha interessati) ad un progetto operativo (che ogni giorno consente di muoversi per contribuire a risolvere la causa), in cui le strutture (vale a dire i modi in cui si gestiscono i processi di differenziazione e di integrazione), i ruoli (vale a dire la parte, che coloro che 34 Quaderni per la Formazione cooperano, sono richiesti interpretare), le procedure (vale a dire i procedimenti che debbono essere seguiti nel fare ciò che c’è da fare), i simboli (vale a dire la dimensione evocativa che rappresenta l’organizzazione) ed i significati (vale a dire, la comune interpretazione di fatti ed eventi) permettono all’associazione di funzionare (bene o arrancando, sarà poi conseguenza di come, nel tempo, tutto questo insieme di fattori si amalgama ed evolve con coerenza, quella coerenza che abbiamo rimarcato essere connotato fondamentale). Tradotta in questi termini, diventa probabilmente evidente che la progettazione organizzativa è un impegno, un compito al quale non è possibile sottrarsi, perché imprescindibile (nei fatti) dallo stesso fare organizzazione: accantonarla significa rinunciare ad una visione d’insieme e ad un qualsiasi criterio di buon senso (prima ancora che di raffinatezza e di ambizioni “psedo” aziendalistiche...). Il richiamo alla dimensione esperienziale, al come abbiamo cercato di fare quando ci siamo ritrovati a mettere in piedi la nostra associazione, ci consente di sottolineare che quasi mai la progettazione si configura come un processo con la P maiuscola, imponente ed assorbente al punto da diventare immutabile e neppure essa consiste in una decisione visibile e determinata, salvo pochi tasselli collegati esplicitamente a momenti ed occasioni formali e deliberati (la costituzione con atto notarile..). Ciò che caratterizza l’assetto che possiamo osservare (oggi e in qualsiasi momento ci capiti di riflettere su questi argomenti) deriva dal dipanarsi di scelte, di processi che si mescolano con il susseguirsi delle attività, con qualcosa che assomiglia di più ad una vita che si svolge che ad un progetto che si srotola. Certo, quando - dai primi tentativi - si passa alla costituzione formale, si segna un momento forte che marca obiettivi e responsabilità. Ma subito dopo, la dimensione reale e quella percepita dai protagonisti prendono il sopravvento su quella formale - che pur costituisce l’alveo di riferimento - per cui disegno strutturale, ruoli, compiti, procedure coprono solo una parte di ciò che effettivamente rileva. Ciò che vorremmo fosse assolutamente chiaro, addentrandoci nel tentativo di esporre alcune considerazioni in tema, è che la progettazione si connota più come un tentativo di razionalizzazione, di fare ordine in un luogo che continua ad operare, in cui non è possibile fermare l’azione. Ciclicamente si riavvia il processo che tende a ricondurre la dimensione formale a quella reale, che a sua volta è percepita e rielaborata dalle persone, che tessono la dimensione informale… In buona sostanza, ci riproponiamo nelle pagine che seguono di descrivere la traiettoria che consente ad ogni associazione di definire per sé: forma, strutture, ruoli, procedure, simboli e significati, perché questi aspetti qualificano la specificità di ogni organizzazione. Sottolineiamo, in particolare, che si è soliti utilizzare il termine macroprogettazione riferendosi al livello della forma e della struttura (argomento a tema nel par. 3.2) e quello di microprogettazione alludendo ai ruoli ed allo specifico del lavoro delle persone, che ad ogni titolo operano (argomento che tratteremo a sé per la sua delicatezza e la sua importanza, nel cap. 5); le procedure appartengono all’ambito operativo, per cui le introdurremmo in questa sede, rimandando al capitolo successivo per 35 Quaderni per la Formazione una migliore puntualizzazione in quanto strumenti dei sistemi operativi. Simboli e significati, infine, attengono al mondo della “cultura organizzativa” (affascinante e stimolante, quanto intricato, tema) ed alle dinamiche di potere che - al di là dell’accezione negativa con cui normalmente percepiamo la presenza di questo fenomeno - intervengono normalmente nei rapporti interni di un’organizzazione. Da ultimo, alcune considerazioni sulla dialettica tra cambiamento e stabilità cercheranno di riportare l’attenzione sulla prospettiva evolutiva in cui i diversi tasselli si innestano. 3.1 Logiche e metodologie di progettazione Il primo passaggio che, anche dal punto di vista logico, occorre affrontare è quello che è stato indicato come la “traiettoria che consente di definire…”. Ci occupiamo, quindi, di indicare quali siano le modalità attraverso le quali si forma l’orientamento che condiziona le scelte operativo gestionali della nostra associazione. Si è soliti definire le logiche di progettazione organizzativa, come i diversi approcci che possono essere seguiti nel processo o le diverse prospettive secondo le quali l’analisi e la progettazione stessa possono essere condotte: esse dipendono dalla natura del problema organizzativo, ma anche dal modo in cui ci si pone di fronte al problema stesso. In maniera sufficientemente schematica, le principali alternative sono quelle indicate qui sotto. Come spesso accade, nella realtà le contrapposizioni sono assai meno nette, ma in questa sede si privilegia un’impostazione didattica che, contrapponendo le due forme, ne facilita la descrizione. Le logiche alternative di progettazione Bottom-up e top down Greenfield e brownfield Radicale e incrementale La prima distinzione identifica le due diverse direzioni di marcia seguibili nell’espletamento delle attività caratterizzanti la progettazione. La logica bottom-up - dal basso verso l’alto - procede per aggregazioni, partendo dai compiti (assegnati o comunque svolti) e passa a definire via via le mansioni, i meccanismi di coordinamento più opportuni e, quindi, le unità organizzative attorno alle quali consolidare un assetto: è una logica empirica, che parte dai dati reali e che si manifesta assai adatta ad affrontare situazioni di razionalizzazione e di sviluppo. La sua alternativa logica - quella top down, dall’alto verso il basso - procede invece per disaggregazioni, partendo dall’insieme delle attività che occorre svolgere e dal campo di azione complessivamente inteso, per definire i livelli più bassi in cui si può scomporre il compito generale. La prima direzione sembra adatta ai momenti di cambiamento di orientamento e di strategia, mentre la seconda si confà a mutamenti più localizzati, ad esempio quando si introducono innovazioni tecnologiche o 36 Quaderni per la Formazione nelle componenti direttamente operative dell’organizzazione quando, cioè, la visione d’insieme degli effetti è condizione indispensabile per un riassestamento generale. La logica greenfield - o del terreno verde, per usare la traduzione letterale - è comprensibilmente e tipicamente utilizzabile nei momenti di avvio di un’iniziativa, quando tutto è da mettere in piedi e non esistono vincoli e condizionamenti derivanti dal passato in grado di intervenire (nel bene o nel male). Il suo opposto - denominato brownfield, etimologicamente campo marrone, cioè già calpestato - costituisce via quasi obbligato quando si tratta di modificare una situazione esistente, laddove in altri termini occorre trovare soluzioni che facciano i conti con la situazione presente e siano palesemente il frutto dello storia (e non in rottura con questa): concentrare l’attenzione sulle soluzioni immaginabili come ragionevolmente praticabili, in quanto logica e diretta conseguenza di come si è agito e di quanto si è fatto sino a quel momento, comporta rinunciare (in modo consapevole) alle alternative teoricamente possibili (magari anche migliori), ma non accessibili senza incontrare resistenze forti e bloccanti. Quest’ultima precisazione spiega perché, nella logica brownfield, occorra mettere in linea di conto un’incidenza dei costi di cambiamento, in termini di rilevanza delle resistenze al cambiamento stesso e di impegno diretto nella stessa gestione del cambiamento, assai maggiore di quanto ne comporti agire in logica greenfield. Questo chiarisce perché possa spesso essere più saggio optare per una “nuova” progettazione, sicuramente più libera nella sua fase immaginifica, anche se più povera del patrimonio che l’esperienza ha prodotto. L’ultima dicotomia - logica radicale e logica incrementate, la cui differenza è sicuramente chiara già a livello intuitivo - si fonda sul ruolo giocato nelle diverse situazioni da numerosi fattori, quali: • l’estensione del cambiamento che si va a suggerire, vale a dire ad esempio quante persone e quante unità operative sono coinvolte; • la profondità, in termini di ampiezza e incidenza dell’innovatività; • il timing, vale a dire il tempo di cui si può disporre per la progettazione e l’implementazione del cambiamento; • l’entità dell’investimento, per quanto riguarda le risorse sia fisiche che mentali necessarie; • il tipo di attività e di competenze interessate dal cambiamento, vale a dire la loro centralità rispetto agli obiettivi dell’organizzazione; • gli attori del cambiamento, vale a dire le persone che se ne fanno promotori, e il peso che questi hanno all’interno dell’organizzazione, tale da poter imporre o meno svolte nette. La logica incrementale procede, come evidente, per piccoli aggiustamenti, laddove si evidenziano disfunzioni nei processi operativi o dove è necessario tenere conto di adeguamenti normativi (per esemplificare, si pensi alle norme sulle assicurazioni o a quelle in tema di sicurezza). La logica radicale si accompagna, invece, a riorientamenti di fondo, di declinazione della strategia che, senza essere dirompentemente innovativa, necessita però di cambiamenti evidenti, che siano tali anche come segnali percepibili da tutti, dentro e fuori. Le opzioni sin ora presentate vanno ad essere esercitate su una data realtà (embrionale o matu- 37 Quaderni per la Formazione ra, vivace o stanca..) che va innanzitutto osservata con riferimento ai seguenti fattori: 1. la complessità del sistema organizzativo, le cui dimensioni derivano dalla articolazione più o meno ampia delle attività e dalla varietà dei rapporti con l’ambiente di riferimento; 2. il grado di dinamismo del contesto operativo ed il conseguente fabbisogno di adattamento ed innovazione; 3. la differenziazione negli assetti organizzativi delle diverse unità operative; 4. il grado di interdipendenza e le necessità di integrazione tra i servizi offerti o tra le fasi; 5. l’impatto delle esigenze di coerenza tra le variabili organizzative ed i fattori individuali; 6. l’ampiezza del controllo che è necessario (si pensi alle implicazioni derivanti da eventuali con venzioni con un ente pubblico che impongono determinati standard verificabili) o opportuno (in forza di scelte interne, comunque da rispettare). La complessità merita alcune precisazioni. Essa dipende essenzialmente dalle caratteristiche dei propri utenti, del territorio di riferimento (nell’accezione più ampia che ricomprende la dimensione fisica e soprattutto quella sociale) ed anche dalle tecnologie utilizzabili. Una fonte importante è quella che deriva dagli interlocutori esterni, siano essi istituzioni pubbliche che finanziatori (potenziali o reali). Si tratta, quindi, di una serie di elementi che richiedono considerazione nel momento in cui si intende progettare (o riprogettare) l’assetto associativo. In particolare, occorre bilanciare le risposte ai fabbisogni presenti sui diversi versanti, tenendo conto dei costi di un’eccessiva articolazione di strutture e meccanismi. Nel mentre si analizzano i fattori di complessità, può valere la pena interrogarsi su quanto siano prevedibili esigenze di cambiamento e, quindi, su quanto sia forte la necessità di mettere in linea di conto una particolare attenzione verso l’innovazione: quanto maggiore, ad esempio, deve essere la cura da riporsi nell’anticipare la dinamicità dei bisogni dei nostri destinatari, tanto più sarà necessario impostare le attività in termini flessibili, valorizzando e stimolando ogni forma di apprendimento nei nostri volontari che li renda sempre più responsabilmente coinvolti. 3.2 Forme e strutture organizzative Il tentativo di inquadrare tutti gli elementi che sono presenti sullo scenario della nostra organizzazione di volontariato ci pone di fronte le indicazioni utili per darle una prima forma e per delinearne un profilo strutturale. La forma organizzativa rappresenta in un certo qual modo l’anima, il carattere dell’organizzazione, ciò che ne influenza il comportamento, il modo di essere e di reagire agli stimoli del suo ambiente. Le strutture rappresentano, invece, le soluzioni adottabili, le risposte già più operative. Per quanto riguarda le forme, due dicotomie sono di aiuto nel descrivere le caratterizzazioni più marcate. Le forme organizzative Meccanica versus organica A legami deboli versus legami forti 38 Quaderni per la Formazione La prima alternativa prende origine dalla contrapposizione tra due modi di essere simbolicamente evocabili attraverso due metafore: l’orologio e l’organismo. La forma meccanica è quelle che tende a funzionare con precisione, come un ingranaggio bene oleato, tramite una divisione dei compiti accurata e ben interiorizzata, le modalità di comunicazione sono soprattutto verticali e prevalentemente di tipo direttivo (dall’alto verso il basso) e “per eccezione” , cioè si pone il problema al responsabile (dal basso verso l’altro). La forma organica assomiglia ad un organismo che si adatta all’ambiente, che trova sempre una risposta alle pressioni esercitate nei suoi confronti, i compiti individuali non sono rigidi ma si ridefiniscono continuamente e la comunicazione avviene a tutto tondo, è prevalentemente a carattere consultivo, il raggiungimento degli obiettivi è la priorità. Ancora una volta ribadiamo che non è definibile quale sia meglio, ma che il criterio di giudizio risiede nella coerenza che la forma manifesta con le esigenze interne ed esterne: se il nostro gruppo di volontari mostra preferenze per una precisa delimitazione dei propri impegni, per incarichi dai contorni precisi e stabili nel tempo, per una ripetitività che offra tranquillità e se i nostri servizi si caratterizzano per presidio costante e regolare, è chiaro che la forma organica assume una valenza fortemente positiva. Ugualmente, tutta la flessibilità e la propensione all’adattabilità della forma organica, necessitano di un sostegno sul piano dei valori e delle competenze per non essere dispersive e inefficaci. La seconda dicotomia evidenzia le diverse intensità che - connotando diverse realtà organizzate - caratterizzano i legami interni. Con l’espressione forma a legame debole si intende sottolineare un modo di essere dell’organizzazione, per cui le varie unità sono dotate di autonomia e indipendenza (si caratterizzano, rifacendoci ad un concetto già utilizzato, per interdipendenza generica) e ciò che viene agito in un punto genera conseguenze limitate sul resto dell’organizzazione: immaginiamo un’associazione che gestisca più case di accoglienza, quello che in una di queste fanno i volontari è in gran parte indipendente da quello che fanno altri in un’altra (se non per l’influenza del sistema dei valori che deve essere comune). La forma forte caratterizza quelle organizzazioni in cui la discrezionalità è necessariamente modesta: pensiamo, ad esempio, ad un’associazione che opera nel settore della protezione civile, la sua efficace azione dipende da quanto gli addetti alla logistica saranno precisi e rigorosi e una loro mancanza provoca effetti a cascata sulle operazioni. Le situazioni proposte dimostrano che le due configurazioni hanno connotati diversi, ancora una volta: non c’è un meglio, c’è una migliore adattabilità ad uno specifico contesto, anche se il rischio di patologiche degenerazioni (verso forme anarchiche) suggerisce di intervenire “irrigidendo i legami”. Cogliere le differenze, ci consente di distinguere tra diversità di situazioni: un’organizzazione che (intrinsecamente o per scelta) preferisce sviluppare legami deboli e un’altra che invece tende a consolidarli in maniera più rigida svilupperanno comportamenti coerenti che, interpretati in chiave opposta, generano tensioni inutili. E’ probabilmente evidente, a questo punto, che la struttura organizzativa (il modo con cui si gesti- 39 Quaderni per la Formazione scono e governano i processi di differenziazione e integrazione) appare come conseguenza del modo di porsi dell’organizzazione. Strutture elementari, con una divisine del lavoro non particolarmente spinta, assai poco gerarchizzate e scarsamente formalizzate sono adatte a quelle organizzazioni organiche, molto inserite nel contesto locale e in grado di rapportarsi flessibilmente con questo. Per converso, una forma meccanica a legami forti - un’associazione che opera nel campo dell’assistenza agli ammalati terminali - richiederà un assetto strutturale per ruoli ben definiti e più proceduralizzato, esprimerà maggior rispetto per un orientamento gerarchico che salvaguardi le competenze. 3.3 Le determinanti del comportamento organizzativo Nel paragrafo precedente ci si è preoccupati di sottolineare, ancora una volta, che è razionale progettare l’organizzazione solo considerando i suoi componenti come soggetti direttamente interessati, come “attori strategici”, cioè portatori di interessi e di orientamenti. Ribadire questo significa confrontarsi con il ruolo svolto da due variabili particolari, la cultura ed il potere, che sono in grado di spiegarci una serie di comportamenti che non derivano direttamente e meccanicamente dall’assetto strutturale, vale a dire dal come è stato definito il “chi fa cosa”. L’organizzazione è un meccanismo di influenza dei comportamenti individuali, come abbiamo visto nel par. 2.4, proprio perché al suo interno operano simboli, valori, assunti e dinamiche di equilibrio tra le persone (tra i volontari, più o meno coinvolti, e tra i volontari ed i retribuiti): esistono, cioè, una data cultura e un dato assetto di potere. Si è soliti definire la cultura di un’organizzazione – sull’onda del pensiero di E. Schein - come quell’insieme di simboli, valori ed assunti (essendo questi ultimi valori invisibili, quelli inconsci e dati per scontati) che un gruppo ha sviluppato nell’affrontare problemi e situazioni e che ha funzionato permettendo all’organizzazione di sviluppare i propri orientamenti, così da poter essere considerati validi e trasmessi ai nuovi arrivati come il modo adeguato di affrontare le diverse circostanze. E’ di tutta evidenza che un ruolo importante nel processo di creazione e identificazione di questo complesso di elementi che rientrano nella cultura, è giocato dai leader, in particolare – è questo è innegabile nelle nostre associazioni – dai fondatori: è loro la sensibilità che connota il modo d’essere e di porsi nei confronti degli obiettivi, è loro l’intonazione sulla cui lunghezza d’onda si agisce. Attorno al coagulo di valori proclamati e assimilati si forma un modo specifico di operare, un modo di scegliere le priorità e di sviluppare comportamenti che nel tempo si consolida come lo stile proprio dell’associazione. L’aspetto paradossale sta nel fatto che quanto più questo insieme ha funzionato, avuto successo (nel senso di adeguata corrispondenza alla mission) tanto maggiore sarà l’incapacità di rinnovamento manifestata da chi, quell’approccio, ha visto crescere e dare frutti. Per questo la cultura organizzativa costituisce uno dei fattori fondamentali della progettazione organizzativa e di ogni processo di cambiamento: quanto più è solida e condivisa da un nucleo robusto di volontari 40 Quaderni per la Formazione (magari in posizioni chiave) tanto più rischia di trasformarsi in una sorta di gabbia, che impedisce di vedere che la realtà sta cambiando, che i bisogni stanno cambiando, che il tessuto sociale sta cambiando ...., e che continua a riproporre il proprio modo come “il” modo adeguato, anche laddove dovesse essere sempre più evidente che così non è. Non occorre dilungarsi nel documentare quanto questa risorsa potente che è la cultura incida nell’assetto, nelle scelte operative – pensiamo alla rilevanza che hanno i valori condivisi nell’agire quotidiano proprio in quanto efficaci meccanismi di coordinamento – e quanto, al tempo stesso, una sottovalutazione del suo potenziale ruolo conservativo impedisca un cambiamento reale o agisca come difesa, ma non di valori irrinunciabili, quanto di attaccamento al modo di vedere e sentire di chi ne è portatore. In questo senso, la progettazione organizzativa è creazione di cultura. Un ruolo analogo è giocato dal potere. La sua esistenza è intrinseca all’esistenza dell’organizzazione. Come abbiamo, infatti, ancora una volta sottolineato l’organizzazione indirizza i comportamenti, cioè - come una semplice e neutra definizione di potere ci fa dire - l’organizzazione “fa fare a qualcuno qualcosa che questi non avrebbe fatto senza l’intervento dell’organizzazione” (per l’intermediazione di colui che rappresenta l’organizzazione in quel momento ed in quel luogo). In questo senso, l’organizzazione (e chi agisce in nome e per conto) dispone di un potere nei confronti di tutti coloro che vi aderiscono. Come tutti ben sappiamo, avendolo sperimentato, il potere non è solo manifestazione ragionevole di un ordine cui ciascuno può scegliere di aderire se vuole raggiungere lo scopo che è praticare volontariato. Occorre, allora, discriminare tra le diverse manifestazioni di potere, non essendo queste tutte uguali e dando origine a comportamenti diversi. Nessun volontario, anche il più motivato e meglio intenzionato, farà quello che gli è stato indicato (vale a dire obbedire all’ordine del proprio superiore come potrebbe accadere in azienda) se questa istruzione non è coerente con quello che lui farebbe spontaneamente o se è fornita da qualcuno che lui stesso non riconosce autorevole e competente in quello che sta facendo. Sono tre le forme in cui può declinarsi il fenomeno del potere. Il potere come Autorità, vale a dire come esercizio “legittimo” di una posizione superiore. Scambio, vale a dire come situazione di “baratto” tra disponibilità di risorse ed interessi diversi Influenza, vale a dire come capacità di intervenire nei processi mentali . Sul fronte del potere come manifestazione di autorità sono tre le sfumature che possiamo evidenziare, rifacendoci alle riflessioni in tema di Weber, altro grande studioso. La prima, sicuramente la più presente nel mondo del volontariato, deriva dal carisma, dal fascino individuale che diventa ragione sufficiente per seguire ed obbedire: è l’espressione positiva del potere, quella senza della quale le associazioni di volontariato probabilmente non nascerebbero neppure, quella cui è facile e ragionevole andar dietro. Esistono poi l’autorità tradizionale e quella legale: l’una deriva dalla consuetudine, l’altra dalle norme (anche solo sociali) e dalle leggi. Se nel caso del 41 Quaderni per la Formazione carisma, è la persona ad essere fonte di potere (perché c’è piena e perfetta coincidenza tra ruolo rivestito e competenza); negli altri due è il ruolo, vale a dire la posizione ricoperta, a prevalere: è in forza del fatto che per abitudine si dà ascolto a colui che ci è stato presentato come responsabile o perché tutti fanno così ed è più semplice adeguarsi, che i volontari manifestano la propria disponibilità ad adottare taluni comportamenti e a svolgere certi compiti. Non occorre neppure rimarcarlo, ma l’unica fonte duratura è la prima; le altre, in assenza di dinamiche vincolistiche su cui far leva (e l’assenza o la modestia di barriere all’entrata ed all’uscita ne vanifica per definizione la logica impositiva) sono destinate a non durare nel tempo. Il potere come scambio mette in evidenza, alla Barnard (che abbiamo citato nel capitolo precedente) quanto la partecipazione ad un’organizzazione dipenda proprio dal rapporto tra incentivi e contributi: laddove tale rapporto inizi a manifestare squilibrio, nascono situazioni di potere che possono degenerare nel patologico e che comunque danneggiano l’organizzazione. Ugualmente delicata è la terza forma: il potere come influenza si muove su un filo sottile, quello dell’arte del convincimento (sempre a rischio di degenerare in manipolazione con implicazioni deplorevoli sul piano etico, ma anche poco produttive rispetto all’efficacia nel tempo, obiettivo più importante per le nostre associazioni), che otterrà sì comportamenti coerenti con gli intendimenti del soggetto forte, ma che se non si tramuta in convinzione reale, effettiva, solida, resta esposto ad ogni dubbio che un’indicazione non pienamente condivisa, un atteggiamento non totalmente corrispondente alle attese possa far sorgere e trasformare in una certezza (quella che l’associazione non è adatta…). 3.4 Il potenziale di opportunismo e l’incertezza Definiamo opportunistico un comportamento che tradisce lo spirito di un accordo di cooperazione o di scambio - può trattarsi di promesse in cui non crede neppure chi le fa o di azioni rivolte al proprio esclusivo beneficio … I comportamenti opportunistici generano quella che si definisce come incertezza comportamentale - una sorta di indeterminatezza e di inaffidabilità in quello che è ragionevole attendersi dai nostri interlocutori - che, nei fatti, impedisce all’organizzazione di agire come meccanismo di influenza dei comportamenti individuali. Per questa ragione, l’argomento è di specifico interesse a questo punto dell’esposizione e vale la pena soffermarsi a riflettere su come si possa adeguatamente fronteggiarlo, dando per implicito che non si possa a priori escludere la sua presenza nelle organizzazioni di volontariato. Molte sono le fonti di potenziale di opportunismo; tra queste, quelle più interessanti per le associazioni possono essere considerate le seguenti: • il conflitto di interesse; • il grado di sostituibilità degli attori; • l’istituzionalizzazione dei comportamenti; • l’incertezza. 42 Quaderni per la Formazione La presenza di conflitto di interesse – vale a dire di forme di contrapposizione, anziché di complementarietà e convergenza, tra gli interessi che governano lo svolgimento delle attività – rappresenta sicuramente la più rilevante tra le motivazioni che generano opportunismo. La questione è delicata non solo perché la dimensione etica viene scossa fortemente, ma anche perché l’assetto organizzativo assume una forte ambiguità e influenza negativamente l’interesse per la causa. Ugualmente, una forte dipendenza da alcuni operatori (quindi scarsamente sostituibili) può favorire atteggiamenti opportunistici così come comportamenti che via via si irrigidiscono sulla formalità, sul doveroso ma non convinto rispetto di un ruolo manifestano il prevalere di interessi non allineati con quelli dell’organizzazione: un esempio per tutti. Nessuno si permetterebbe di mettere in discussione il valore e la bontà del volontariato, ma è a tutti noto che spesso il soggetto pubblico nasconde, dietro all’ossequio, un interesse marcato alla riduzione dei costi da sostenere per garantire certi servizi… Il tentativo di minimizzare l’impatto derivante dal rischio di opportunismo sulle scelte di progettazione organizzativa si configura, quindi, come opzione ragionevole e si traduce nell’adozione di soluzioni che consentano un maggior controllo della relazione e dei comportamenti della controparte. Tra quelle più utili si possono citare: • innanzitutto, l’internalizzazione delle attività, vale a dire la scelta di tenere il più possibile sotto il controllo diretto dell’associazione, attraverso i suoi operatori, le cose da fare ed i contributi anche specialistici necessari all’espletamento dei compiti; • una maggiore formalizzazione, sia in termini di fissazione di regole interne che di clausole precise nei confronti dei collaboratori; • la separazione fra attività, per tipologia di destinatario, che consente di non rendere troppo dipendente l’associazione “dall’esperto” impiegato a presidio di quella data attività. L’incertezza non riguarda però solo i comportamenti attesi. Essa può manifestarsi anche in altre forme. Quando aumenta l’incertezza del compito - e questo accade per moltissime ragioni, assolutamente frequenti e normali, quando ci si occupa di servizi alla persona, magari (come è normale) portatrice di una qualche forma di disagio - due alternative sono percorribili per garantire ugualmente la sua realizzazione efficace; si può: • agire per ridurre l’ammontare delle informazioni che debbono essere trattate; • agire per aumentare la capacità di trattamento delle informazioni. Entrambe si declinano ulteriormente in due modalità operative, che lo schema qui sotto inserito riassume. Le modalità di adattamento all’incertezza della quantità di informazioni necessarie Risorse di riserva Creazione di compiti autosufficienti Diminuzione 43 Quaderni per la Formazione Incremento della capacità di trattamento delle informazioni necessarie Sviluppo di canali di comunicazione verticale Introduzione di rapporti laterali Vediamo di cosa si tratta più nel dettaglio, per capirne l’uso nel mondo delle associazioni. La creazione di risorse di riserva, a fronte di una incertezza nella quantità di domanda da fronteggiare, è una delle opzioni più praticate, anche perché apparentemente a costo zero (tengo pronto un numero di volontari, maggiore rispetto a quanti di solito ne destino ad un dato servizio, se ho sentore che la richiesta possa aumentare). Il costo che realmente si paga è legato al rischio di potenziale demotivazione di chi non riesce ad esercitare pienamente la propria disponibilità. Certamente, un’accurata azione informativa sulla ragione di un simile orientamento attenua il rischio (ma non lo elimina). Un altro modo implica, invece, intervenire sulle modalità di definizione dei compiti, per esempio diminuendo il grado di divisione del lavoro e di specializzazione (e riducendo conseguentemente la necessità di trasferire informazioni da un operatore all’altro); questo implica correre il rischio di non utilizzare al meglio le singole disponibilità o di perdere i benefici di un apporto specialistico. Se, sino ad ora, ci si è mossi con l’intento di ridurre l’ammontare di informazioni (e di scambi informativi) necessari, è altresì possibile orientarsi in maniera opposta. La situazione specifica può richiedere, cioè, non di limitare l’impegno, ma di accrescerlo. Si può, in altri termini riscontrare che occorrono risorse dedicate, che presidino il luogo di formazione delle informazioni, con il compito di trasmetterle velocemente a chi deve decidere perché lo faccia tenendo in debita considerazione i mutamenti in corso: questa impostazione funziona se le informazioni sono in qualche modo quantificabili e formalizzate (ad esempio, un incremento nella domanda di pasti, piuttosto che una crescita nelle presenze ad una data proposta di servizio). Se, al contrario i segnali sono ambigui e qualitativi (stanno cambiando i comportamenti dei frequentatori della nostra mensa, le loro esigenze), occorrerà intervenire direttamente stimolando la formazione della decisione in chi opera nel punto dove si manifesta il bisogno (e quindi favorendo l’assunzione di responsabilità ed il coinvolgimento). Un’altra modalità prevede l’inserimento di collegamenti laterali tra gruppi autosufficienti, fenomeno informale piuttosto diffuso che può essere utile favorire, “esplicitandone” l’esistenza proprio in quanto elemento di connessione tra gruppi che si muovono con margini di discrezionalità che non possono scivolare verso un’eccessiva autonomizzazione. 3.5 Cambiamento e stabilità in equilibrio dinamico Ben lontani dell’essere sistemi statici e stabili di facile progettazione e di ugualmente facile gestione, le organizzazioni vivono ed operano in una continua oscillazione tra spinte alla loro trasformazione e pressioni rivolte al loro mantenimento. Siamo, peraltro, abituati a ragionare in termini di progressismo e conservatorismo intendendo sottolineare con queste categorie concettuali la 44 Quaderni per la Formazione propensione a resistere o favorire un processo comunque inevitabile. Così come ciascuno di noi osserva su sé stesso (il fenomeno, in effetti, si manifesta innanzitutto a livello personale), la convivenza tra le due forze è tutt’altro che pacifica: l’evidenza empirica, legata anche solamente ad un’osservazione superficiale di una qualsiasi organizzazione, ci offre un’idea di continua elaborazione di strategie più o meno palesate o sommerse che medino, da un lato, la conservazione e, dall’altro, la trasformazione di quanto i diversi punti di vista considerino degno di perdurare o destinato ad essere accantonato. Ancora l’esperienza ci aiuta a capire meglio quanto, nelle singole situazioni, sia arduo scegliere l’una o l’altra via. Occorre, però rimarcare un dato: il cambiamento è inevitabile, perché implicito nel trascorrere del tempo e prodotto dall’azione (peraltro, se nulla cambiasse, potremmo dubitare dell’utilità della nostra organizzazione); per cui, semmai, occorrerà valutare quanto accompagnarlo e quanto, opponendovi resistenza, tentare di rallentarlo perché non gradito, non allineato con la nostra visione di come dovrebbero andare le cose. Se, però, osserviamo il cambiamento nella sua potenzialità, ci accorgiamo che è molto più ragionevole assecondarlo: cambiare adeguandosi ai nuovi bisogni, al nuovo contesto, utilizzando quanto l’esperienza ci ha insegnato e valorizzando, pertanto, l’apprendimento e la proattività dei soggetti appare allora una strategia più coerente con il ruolo che storicamente il volontariato ha assolto di quanto non sia la scelta di arroccarsi sulla difesa di un processo inevitabile. Per tali ragioni, vanno presi sul serio motivi che tendono ad ostacolare il cambiamento. Volendo presentare in forma schematica i principali, la tabella seguente ne offre una sintetica panoramica. Cause di resistenza al cambiamento Costi, quelli che si debbono sostenere quando gli interessati non percepiscono i vantaggi del cambiamento (per scarsa comunicazione o per reale conseguenza) Rigidità ed inerzie, derivanti da abitudini individuali o da norme di gruppo Paura dell’ignoto e del rischio che spesso accompagna gli individui Scarsità di risorse, sia individuali che organizzative, fanno sì che il cambiamento I problemi di potere, legati alla rottura di equilibri o di situazioni consolidate Il cambiamento spesso incute timore, come accade per le novità se non le si accoglie con consapevolezza: ed è su questo versante che occorre intervenire. Non a caso, i motivi che provocano il fallimento dei processi di cambiamento, come sotto specificato, derivano in maniera più o meno diretta da questo fatto. Motivi di insuccesso del cambiamento Non comunicare il senso di urgenza Non coagulare un sufficiente supporto Non avere una visione chiara del futuro 45 Quaderni per la Formazione Non comunicare la visione Non eliminare gli ostacoli Non individuare traguardi intermedi e a breve termine Non essere attenti al lungo termine Non istituzionalizzare il cambiamento E’ chiaro che il cambiamento va gestito, nel tempo (perché in caso contrario saranno le sue forze inerziali a travolgere l’organizzazione). Allora è necessario considerarlo come un processo da organizzare, raccogliendo consenso e preparando il terreno adatto. Dire questo significa misurarsi con la successione di fasi indicate nello schema seguente. E’ facile declinare attraverso esempi in cosa si declinano: basti immaginare di dar corso all’esigenza di rinnovamento della classe dirigente della nostra associazione, oppure a quella di innovare i servizi offerti, il modo di porsi della nostra associazione nei confronti della ricerca dei nuovi volontari….. Sappiamo per esperienza che tentare di accelerare, saltando un passaggio, non produce esti soddisfacenti.. Il cambiamento come processo Fase di unfreezing, intervento di scongelamento della situazione presente - quella che deve essere modificata - e di raccolta delle spinte e delle forze favorevoli; è fondamentalmente una operazione di preparazione Fase di changing, quella in cui si attua la riprogettazione, si mettono in campo le ragioni dei nuovi orientamenti, si formulano e si verificano le proposte; Fase di refreezing, quella in cui si tende a consolidare il nuovo assetto, intervenendo con eventuali aggiustamenti a consolidare un nuovo modello. 4. LE FUNZIONI ESSENZIALI Cosa connota un’organizzazione dal punto di vista del suo assetto interno? Abbiamo risposto, i processi di differenziazione e di integrazione. Abbiamo anche cercato di rimarcare che l’assetto organizzativo dipende da come ogni organizzazione si pone, da come si “organizza” per funzionare, suggerendo che è meglio che questo avvenga nell’ambito dell’efficienza e dell’efficacia. Come dire: l’assetto interno serve per garantire la propensione verso l’esterno che l’organizzazione manifesta; la mission (e gli obiettivi in cui si declina) si identificano proprio in quanto ragion d’essere riconosciuta al di fuori dei propri confini. Tutto quello che trova collocazione dentro ha la sua ragion d’essere nell’apporto che offre a questo. Si tratta, quindi, di capire cosa occorre “mettere dentro”, in che ordine, con quali rapporti e con quale finalizzazione: si tratta, in buona sostanza, di capire quali funzioni – cioè quali insiemi di operazioni omogenee – servono per realizzare il proprio oggetto. Esaminare le funzioni rappresenta un modo naturale per interpretare il funzionamento di un’or- 46 Quaderni per la Formazione ganizzazione: ciascuna deve necessariamente pensare e progettare i suoi servizi, realizzarli effettivamente, procurarsi le risorse che le occorrono e così via. Ogni insieme di operazioni omogenee viene, di norma, svolto da persone raggruppate in una stessa unità: per esprimere la logicità di questa impostazione si può ricorrere ad un’analogia con il mondo biologico, nel quale le stesse funzioni sono svolte da organi specifici specializzati in quella funzione: è quello che abbiamo già più volte rimarcato, sottolineando la rilevanza dei processi di differenziazione. Proponiamo, allora, di sviluppare il ragionamento sottolineando alcuni aspetti della distinzione (fondamentale dal punto di vista logico ed altresì da quello organizzativo) tra attività primarie – quelle caratterizzanti il mestiere dell’associazione e, quindi, inevitabilmente le più varie perché specifiche a seconda del settore di riferimento e della tipologia di destinatario privilegiata - ed attività di supporto - quelle che aiutano la realizzazione delle prime, senza manifestare significative peculiarità, ma fondamentali per il corretto funzionamento dell’organismo nel suo insieme. Capirne l’importanza, ad esempio, di queste ultime è strategico per un’organizzazione di volontariato, perché, se le prime - quelle core, quelle caratterizzanti - attraggono i volontari perché concretizzano la “causa”, mettono sul campo, perchè offrono l’opportunità di svolgere un servizio percepito immediatamente come utile, solitamente le seconde si propongono come assai meno affascinanti (che lo siano davvero?) e restano sovente un territorio non presidiato (o mal garantito, che non è meglio) costringendo le organizzazioni a pagare prezzi in termini di efficienza e di immagine, che possono ripercuotersi anche sulla prima linea: posso avere i volontari più bravi e motivati ma se a questi mancano informazioni e input sarà quanto meno più impegnativo realizzare il loro compito. L’ultimo paragrafo introduce con pochi cenni un argomento “tecnico”, quello dei sistemi operativi. L’etichetta che li definisce è espressione, di per sé, della loro finalizzazione: essi servono per far funzionare la dimensione quotidiana e sono sistemi perché non si può dimenticare l’esistenza di forti legami all’interno di ciascuno e tra l’uno e l’altro, legami che - se non adeguatamente coordinati ed opportunamente finalizzati - influenzano negativamente il funzionamento. 4.1 Le attività primarie Si definiscono attività primarie quelle che caratterizzano l’organizzazione, quelle senza delle quali semplicemente la nostra associazione non sarebbe quello che è (e vuole essere): la preparazione dei cibi e la cura della mensa per l’associazione che si occupa dei poveri, il doposcuola per i bambini per quella che opera nel quartiere a rischio, il trasporto dei malati per la pubblica assistenza e così via… Rappresentano normalmente dei processi, vale a dire una sequenza di azioni che, disposte in ordine, mettono in evidenza impegni e necessità. La prima banale e ovvia considerazione è che ogni associazione ha un proprio elenco di attività, legato al modo in cui la mission viene tradotta, e su quello occorre ragionare. Ciò che è importante conoscere bene non sono tutte le attività che potrebbero, a rigor di logica, essere inserite 47 Quaderni per la Formazione nella struttura organizzativa, ma solo quelle che costituiscono gli assi portanti del sistema, cioè le attività chiave, quelle nelle quali è necessario raggiungere l’ottimo per conseguire gli obiettivi prefissati ed, anzi dove, prestazioni insufficienti potrebbero mettere in pericolo la stessa sopravvivenza dell’organizzazione. Distinguere tra ciò di cui occorre assolutamente avere cura e che va inserito tra le priorità e ciò che può essere lasciato in secondo piano è un modo semplice per fare i conti con le risorse limitate, anche se spesso è facile che così non accada: siamo più affezionati a ciò che facciamo, a ciò che dal nostro singolo punto di vista è importante, che all’insieme (che fatichiamo a vedere). Potremmo essere efficacissimi nelle attività di promotion e di accoglienza, ma se la mensa o il doposcuola non funzionano, qualche dubbio sorge spontaneo. Questo ci permette di sottolineare che è indispensabile focalizzare l’attenzione e concentrare le energie. Questo, si badi, non è un comportamento spontaneo: è molto più frequente incontrare associazioni che, invece che concentrarsi nel fare meglio quello che stanno facendo (quanto meno sino a quando non sembri opportuno prendere atto della necessità di un cambiamento nella mission e negli obiettivi), tendono a rincorrere nuove iniziative, rischiando di disperdere energie e di non riuscire mai a raggiungere elevati livelli di prestazione. C’è, poi, un aspetto che abbiamo già citato per la sua evidente rilevanza e che occorre ora ancorare al livello organizzativo perché sia effettivamente incidente: si tratta dei valori qualificanti. Perché questi permeino il tessuto e influenzino le azioni occorre che ci sia una componente organizzativa responsabile, importante tanto quanto quelle che si occupano delle attività operative e che, in quanto tale, si qualifica come componente chiave. Tutto quello che non è direttamente rivolto a questo – a tutelare il cuore dell’organizzazione - per quanto importante, non è di prioritario presidio. Occorrerà occuparsene, certamente e al meglio ma mai a scapito del presidio del valore. Se tutto quello che concerne le attività primarie rappresenta la parte visibile e operativamente impegnativa, la parte non visibile è ancora più impegnativa: perchè tocca le ragioni e il modo. Abbiamo detto poco sopra che ciascuna delle nostre associazioni possiede una propria configurazione. Lo schema qui riportato presenta una classificazione che può essere utilizzata come chiave interpretativa. In essa, si distinguono tre macro ambiti di attività in funzione della essenzialità o meno del contributo. Un inquadramento delle tipologie di attività Attività che producono risultati Quelle direttamente operative sulla mission Quelle di innovazione Quelle di informazione Attività di sostegno, che – necessarie ed essenziali – vengono “utilizzate” da chi produce risultati, migliorandoli 48 Quaderni per la Formazione Quelle di “coscienza” Quelle di consulenza e formazione Attività sussidiarie, che non contribuiscono al risultato ed alla prestazione, ma il cui precario funzionamento danneggia l’organizzazione Quelle di tipo amministrativo Quelle di servizio interno Due soli approfondimenti in commento allo schema proposto. Il primo consiste in una precisazione di tipo terminologico e sostanziale. L’espressione “attività di coscienza” tra quelle di sostegno - espressione che è sicuramente forte e che può esser percepita come inappropriata, proposta da Drucker, studioso di management anche nel non profit - viene usata per sottolineare l’esigenza che il sistema di valori si trasfonda in standard conseguenti realmente operativi. Anche la più piccola organizzazione necessita di questa funzione: è un compito delicato incompatibile con il lavoro operativo, tipicamente affidabile ad un singolo individuo riconosciuto autorevole e degno di rispetto. Il suo compito è quello di ricordare continuamente ciò che l’organizzazione dovrebbe fare e non fa, di essere scomodo in un certo senso, tenere alti gli ideali contro la realtà quotidiana, difendere e presidiare il valore simbolico. Il secondo risponde ad una preoccupazione metodologica. L’utilità dello schema risiede nella declinazione che ogni singola organizzazione può fare inserendo le proprie attività in un gruppo o in altro. L’operazione in questione produce effetti sicuramente positivi: innanzitutto, conduce a meglio conoscere la propria associazione, perché la collocazione all’interno dello schema di classificazione è assolutamente tipica, deriva dall’importanza attribuita, dalle risorse disponibili, evidenzia uno specifico modo per svolgere il proprio mestiere; le consente di disporre di un quadro chiave delle attività su cui è necessario investire. 4.2 Le “altre” attività Dal punto di vista definitorio, le “altre” attività consistono in tutte quelle che forniscono supporti al flusso di lavoro operativo, che svolgono funzioni specifiche (anche specializzate in molti casi) e non necessariamente debbono essere collocati all’interno dell’assetto organizzativo: se ciò che definisce concretamente la ragion d’essere dell’organizzazione non può che essere controllato pienamente sia sul piano della coerenza valoriale che del processo operativo, tutto questo variegato mondo può invece essere gestito in maniere diverse, quanto meno a seconda del peso che queste attività occupano e della professionalità che esse richiedono (non facilmente reperibile tra i volontari). Le diverse combinazioni possono essere rappresentate secondo quanto riportato nella matrice qui sotto. 49 Quaderni per la Formazione Alternative di approccio ai servizi Frequenza/volume dei processi di servizio alti bassi Gestione centralizzata Ricorso a fornitori stabili Gestione decentrata Acquisto occasionale di servizi basso alto Livello di professionalità richiesto 4.3 I sistemi operativi Con questa espressione si intende di norma riferirsi ai “sistemi”di relazioni costruiti per mettere in collegamento le unità individuate dalla struttura e far fluire le attività, co-finalizzandole agli obiettivi “istituzionali”. Alcuni usano l’espressione meccanismi operativi immaginandoli come software di collegamento tra struttura e componenti dell’organizzazione, che agevolano il suo funzionamento e indirizzano i comportamenti. Per altro, il termine sistemi non è altro che la trasposizione dell’inglese systems, che indica come queste attività di supporto e di vivificazione dell’organizzazione sono progettate ed affidate in misura maggiore o minore ad un insieme di procedure (anche snello, anzi ancor meglio se agile e scarno, ma ben definito e quindi garanzia di funzionamento oltre l’impegno del singolo volontario che se ne è sino al momento occupato e che conoscendo a fondo come le cose possono essere fatte, può diventare il primo incaricato di questo compito). In buona sostanza, se teniamo conto delle finalità che perseguono , possiamo schematizzare l’apporto che i sistemi operativi forniscono nei termini seguenti. Gli scopi dei sistemi operativi Specificare per ogni unità operativa gli obiettivi da raggiungere e le risorse disponibili • • Fornire alle persone che operano le basi conoscitive e di giudizio necessarie per le decisioni che debbono essere assunte • Determinare le dimensioni, la struttura e la dinamica del presidio sulle risorse umane • Determinare la struttura e la dinamica delle ricompense dei collaboratori I principali sistemi operativi riguardano: • il processo di formulazione strategica e di sviluppo della mission • i processi di gestione dei volontari • i processi di comunicazione • i processi di controllo Un primo sistema operativo è quello dell’iter per la formulazione strategica e per la conseguente pianificazione, intese come l’insieme di passi per tradurre la missione dell’organizzazione e la visione desiderata del futuro in obiettivi più operativi che si dispiegano nel tempo e sono otteni- 50 Quaderni per la Formazione bili attraverso un percorso di interazione con le varie parti dell’ambiente sociale, istituzionale, economico, legale, culturale… I processi di gestione dei volontari - reclutamento, selezione, inserimento, sviluppo, valorizzazione - costituiscono un altro dei fondamentali sistemi operativi, il cui scopo primario è quello di sostenere gli obiettivi dell’organizzazione attraverso adeguata cura delle persone coinvolte. Si tratta sicuramente del sistema più articolato e composito in quanto a strumenti e metodi: normalmente trattato come un mondo a sé (per le ovvie considerazioni sulla rilevanza dei volontari nell’organizzazione di volontariato), è stato qui citato proprio a sottolineare l’unitarietà della gestione. Per gli approfondimenti del caso si rimanda ad un altro testo2. Con un minimo di rigorosità, si può definire il sistema di comunicazione come l’insieme dei contenuti, degli strumenti e dei metodi che i partecipanti ad un’organizzazione impiegano per gestire i flussi informativi sia di tipo interno che verso l’esterno. Non è necessario ribadire quanto questi flussi siano importanti e quanto, nelle organizzazioni di volontariato, siano complessi, per disomogeneità di fonti e di direzione, per la presenza di diverse sensibilità, per natura e così via. La loro importanza strategica richiede un adeguato presidio, sia pur in termini assai flessibili concentrato sui contenuti, lasciando a chi opera la scelta delle modalità e degli strumenti. Un aiuto da non sottovalutare è fornito dalle nuove tecnologie, oramai di facile accesso e progressivamente assimilate dalla mentalità dei volontari anche “meno moderni”: le loro potenzialità ed i bassi costi che comportano (pensiamo ad esempio alla differenza tra redigere una newletter in veste tradizionale, con relativa fase di imbustamento, e inviarla via e-mail...) ne fanno un’occasione unica. Sulla comunicazione interna vi è una robusta tradizione (talvolta perfino eccessiva, se teniamo conto del fatto che spesso le riunioni di coordinamento operativo e l’auspicata democraticità dell’indirizzo si trasformano in appesantito assemblearismo) da tutelare e magari snellire, ma senza disperdere una funzione così essenziale. Il sistema operativo di controllo, come è implicito nel nome stesso, ricomprende tutto quello che cerca di verificare l’andamento delle azioni e la loro coerenza rispetto ai più diversi parametri (quantitativi, qualitativi, temporali..) orientare i comportamenti, permettendo un confronto tra risultati attesi e raggiunti, con l’obiettivo di avviare azioni correttive se necessarie. Da ultimo, anche la risoluzione dei conflitti, così come i percorsi di apprendimento e cambiamento organizzativo apparterrebbero all’universo dei sistemi operativi, anche se spesso nel mondo del volontariato sono affidati all’informale intervento della leadership, mancando quindi di quel minimo di formalizzazione e di investitura ufficiale che ne garantirebbe la prosecuzione nel tempo, laddove il leader dovesse trovarsi impegnato sul fronte esterno e impossibilitato a presidiare lo sviluppo delle situazioni interne. 2 Si tratta di “Caro volontario... Suggerimenti per un’efficace gestione delle risorse umane nelle organizzazioni di volontariato” di Teresina Torre, Collana “Quaderni per la formazione” edita dal Celivo. 51 Quaderni per la Formazione In generale, i sistemi operativi si fondano su un sistema di procedure e prassi: le prime più formalizzate, le seconde più incentrate sul consolidamento delle abitudini. Se è ovviamente da evitare con cura l’eccessivo ricorso alla stesura di documenti di dettaglio che indichino il come fare, è altresì evidente che un livello minimale va salvaguardato (o introdotto, se del caso), innanzitutto per salvaguardare l’esperienza fatta e l’apprendimento attivato. E solo in questa prospettiva che ha senso impegnarsi su questo versante. 5. L’ORGANIZZAZIONE DEL LAVORO (DEI VOLONTARI) Come abbiamo già avuto modo di precisare, la progettazione organizzativa (espressione con la quale siamo ormai un po’ più in confidenza) si sviluppa a due livelli: un primo si occupa della definizione della macrostruttura (espressione che non ci spaventa più perché abbiamo capito che anche le nostre associazioni, per il solo fatto di esistere, hanno un assetto strutturale d’insieme), dei sistemi operativi (ciò che permette il funzionamento) delle modalità di collaborazione con altre organizzazioni e, quindi, di quelli che si definiscono i confini organizzativi (elemento assai rilevante per il mondo del volontariato che spesso si occupa di fornire servizi lungo una filiera assai complessa), in buona sostanza: gli argomenti che abbiamo esaminato nelle pagine precedenti. Il secondo livello, quello con cui ci confrontiamo ora, entra nel merito del “come si fanno le cose”, del come le attività - reputate necessarie al raggiungimento dei fini dell’organizzazione - possano essere svolte in modo corretto, vale a dire in maniera adeguata allo scopo e secondo l’approccio più consono allo stile dell’organizzazione. Della delicatezza di questo livello della problematica - a differenza dell’altro, la cui percezione si presenta solitamente assai più sfumata - è diffusa la consapevolezza: è evidente che, siccome abbiamo da fare delle cose, il come le si fanno non è irrilevante ed è evidente che è proprio su questa dimensione che si giocano le difficoltà quotidiane ed operative. Per sviluppare l’argomento sarà opportuno, innanzitutto, richiamare (ovviamente in termini definitori e puramente descrittivi, non essendo in questa sede utile un approfondimento più accurato) la terminologia appropriata, quindi introdurre gli “strumenti di base” e le variabili che li influenzano per poi descrivere (sempre molto brevemente) i diversi approcci che possono ispirare le scelte di progettazione a questo livello, entrando quindi- con gli strumenti identificati - nel merito delle problematiche tipiche dell’organizzazione di volontariato che, anche su questo versante, richiede opportune ed importanti riflessioni: non dimentichiamo che le modalità organizzative del lavoro dei volontari incidono, da un lato, sulle dinamiche motivazionali che stanno alla base delle scelte di adesione all’organizzazione da parte della singola persona e sul livello di gratificazione che ella trae dall’esperienza in atto e, dall’altro, sulle possibilità di maggiore (o minore) efficacia per l’azione dell’organizzazione, rispondendo quindi alle aspettative dei suoi interlocutori e generando circoli virtuosi per il ruolo della stesa organizzazione, le sue possibilità di essere una presenza incidente e di svilupparsi. 52 Quaderni per la Formazione 5.1 Di cosa stiamo parlando? Nell’ambito della dimensione organizzativa, lo specifico dell’organizzazione del lavoro rappresenta la fase che si pone il centrale problema organizzativo del “come fare a fare quello che c’è da fare”, e quindi di dividerlo tra le persone per partecipano all’organizzazione, garantendo che - nel rimettere insieme il lavoro di ognuno - il risultato sia il lavoro che l’organizzazione si era ripromessa o, ancor più energicamente, impegnata a svolgere; implica attenzione alla dimensione oggettiva (i contenuti) ed a quella soggettiva (le attitudini e le capacità) ed alle connessioni tra i due piani, attraverso l’impiego degli opportuni meccanismi di coordinamento. Si tratta di una questione tutt’altro che secondaria nel ragionamento che stiamo svolgendo, per ragioni forse ovvie, ma che brevemente richiamiamo. L’organizzazione è le persone che la fanno, l’organizzazione esiste se le persone continuano a considerare interessante il loro coinvolgimento, l’organizzazione raggiunge gli obiettivi per cui esiste se le persone fanno ciò che serve e come serve. Sappiamo, per esperienza, diretta che tutto questo non è sempre così pacificamente acquisito. Stiamo, in altri termini, entrando nella dimensioni più delicata ma cosostanziale. Nella sostanza operativa, stiamo parlando del modo con il quale si definiscono (non necessariamente in maniera formalizzata dal ricorso a “manuali e procedure” scritte) le modalità di base per la realizzazione dei processi operativi. Due sono i riferimenti da prendere in considerazione in questo percorso: •le caratteristiche delle attività da organizzare, in funzione delle quali possono essere articolati i criteri di divisione del lavoro ed i metodi per la sua assegnazione; •le relazioni tra queste attività, la cui natura e la cui entità determinano le modalità di coordinamento più opportune. Da dove possiamo partire per capire come gestire queste due dimensioni, la cui rilevanza è così intuitiva da sembrare banale, ma la cui declinazione si rivela - nei fatti – talmente delicata da essere all’origine di molti dei problemi di funzionamento operativo, se non adeguatamente comprese? Chiariamo, innanzitutto, l’aspetto terminologico per predisporre il campo alle riflessioni che saranno necessarie. 5.2 I concetti di base Sono quattro gli elementi di base attorno ai quali ruota il ragionamento: nel riquadro seguente, se ne fornisce una breve descrizione. I termini chiave Operazione elementare, vale a dire la singola azione in cui è possibile scomporre una qualsiasi attività; 53 Quaderni per la Formazione Compito, termine con il quale si identifica un insieme di operazioni (umane) elementari tra loro necessariamente collegate, per ragioni tecniche o psicologiche; Mansione, (o, per riportare la terminologia inglese di frequente uso, il job), che qualifica un insieme ordinato di compiti assegnati ad una persona; Sistema primario di lavoro, che è costituito dall’insieme delle mansioni che in maniera interdipendente conducono alla realizzazione di un risultato identificabile. Se l’operazione elementare costituisce l’unità minima, il compito - vale a dire ciò che si ottiene dall’aver messo insieme più operazioni – può derivare da due diverse modalità di composizione: una di tipo tecnico, che riguarda l’impossibilità (o comunque la non convenienza) a separare lo svolgimento di date attività; l’altra di natura psicologica, che si riferisce alla percezione che l’individuo ha delle azioni che deve compiere (potremmo dire che l’impressione di senso e di compiutezza traibile da chi è addetto ad un certo compito prevale sulla eventuale ragionevolezza della separazione). La mansione - termine che può anche risultare poco gradito al mondo del volontariato, per la sua facile e storica associazione con il mondo profit – rappresenta il nucleo centrale attorno al quale ruota l’interesse delle persone e l’assetto finalizzato allo scopo dell’organizzazione: in casi di massima frammentazione può coincidere con il compito. La mansione si connota per una molteplicità di caratteristiche. Le dimensioni della mansione varietà, conseguenza della numerosità e della diversità delle operazioni riunite, la cui ampiezza determina l’appetibilità della mansione stessa, ma anche il tempo richiesto per il suo svolgimento; discrezionalità, nelle sue due connotazioni di tecnica (quali strumenti scegliere per svolgere le operazioni) e di decisionalità (relativamente all’impiego delle risorse disponibili ed alla programmazione del lavoro); varianza, che indica l’ampiezza delle eccezioni e degli imprevisti che possono emergere; specificità delle conoscenze, che sono necessarie per svolgere un dato compito; contributo, con il quale si identifica la visibilità dell’apporto, dimensione utile sia per il volontario che vede il risultato del suo impegno, che per l’organizzazione che può valutare il raggiungimento dei risultati; feedback, che misura le informazioni di ritorno sul gradimento e sull’efficacia dell’azione svolta. E’ intuitivo pensare che, a seconda delle diverse combinazioni possibili si avranno mansioni più o meno varie, più o meno interessanti, più o meno impegnative e che quindi la loro progettazione risulta assolutamente centrale per il gradimento che possono suscitare nei volontari cui saranno affidate. Si capisce subito quanto la cura da riporre nella comprensione dei contenuti 54 Quaderni per la Formazione del lavoro sia essenziale per l’organizzaizone. Il sistema primario di lavoro è, infine, costituito dall’insieme delle diverse mansioni in cui si articola l’attività dell’organizzazione (o della singola unità organizzativa) e che, in maniera diretta ed indiretta, contribuiscono a costruire il risultato atteso: su questo versante giocano un ruolo fondamentale le interdipendenze, di cui abbiamo già discusso e che dipendono essenzialmente dalla complessità del servizio prodotto e che comportano forme di coordinamento diverse. Un utile, quanto semplice, indicazione generale ci porta a dire che è conveniente ed interessante pensare a mansioni che massimizzino le interdipendenze al loro interno (vale a dire che raccolgano compiti in qualche misura collegati) e minimizzino le interdipendenze con le altre mansioni. Si pensi, ad esempio, alla possibilità di ricomprendere nella stessa mansione tutti i compiti che riguardano la gestione degli approvvigionamenti in una mensa per poveri, inserendovi anche quelli di tipo contabile. Oppure, una mansione di presidio del territorio che unifichi ogni attività preventiva, di segnalazione e di intervento sotto una stessa etichetta. Sino ad ora abbiamo esaminato l’aspetto contenutistico e analitico del lavoro che i volontari svolgono. C’è un altro termine molto in voga con il quale fare i conti: ruolo; lo abbiamo già utilizzato ed è ora necessario inserirlo nel ragionamento. Il ruolo identifica il modello di comportamento stabile dell’individuo, deriva dalle aspettative dell’organizzazione e dei componenti del gruppo e dalla personale interpretazione: è, in altri termini, la dimensione dinamica dell’interazione tra dimensione oggettiva (compiti, mansioni, sistema primario del lavoro come sopra accenntato) e soggettiva (professionalità, competenze ed aspettative individuali). Rimanda, quindi, alla capacità dell’individuo di rispondere in modo proprio, con le risorse di cui dispone, alle richieste di un sistema che deve tentare il più possibile di dipendere il meno possibile dal singolo, come garanzia della durabilità nel tempo dell’organizzazione. Il ruolo si contraddistingue per una pluralità di dimensioni; in particolare: Le dimensioni del ruolo Tecnica, identifica la complessità intrinseca dei processi e l’entità delle conoscenze scientifico-metodologiche necessarie; Relazionale, sottolinea la complessità delle relazioni da gestire, senza ricorrere alla leva gerarchica; Gestionale, precisa la complessità delle responsabilità decisionali e di utilizzo delle risorse di cui occorre avere consapevolezza. Le tre dimensioni si incrociano con l’aspetto oggettivo del lavoro, che ne influenza il peso: un insieme di compiti altamente specializzati implicherà una forte dimensione tecnica; mentre compiti più di coordinamento necessiteranno di sviluppare la dimensione relazionale. Come è intuibile, nessuna delle tre è mai totalmente assente; esse si combinano con dosaggio 55 Quaderni per la Formazione diversi, anche se in qualche caso una può essere così rilevante da dominare sulle altre e da determinare le scelte a valle. I mix che ne vengono fuori danno vita ad una gamma molto ampia di possibilità, schematizzabili con scarsa utilità. Molto più interessante è invece riflettere su come si possano gestire le diverse componenti: ed è quello su cui concentriamo ora l’attenzione. 5.3 Quali approcci? Le decisioni connesse a quanto sopra introdotto possono essere assunte muovendosi tra due posizioni estreme, che (come tali) non sono praticamente mai presenti nella realtà, a maggior ragione nelle organizzazioni di volontariato, ma la cui identificazione aiuta a schematizzare le opzioni. Da una parte, potremmo collocare l’approccio oggettivista e, all’opposto, quello soggettivista. Il primo privilegia i contenuti del lavoro da svolgere e imposta le regole organizzative in funzione dell’efficienza ottenibile: per cui, ad esempio, la divisione del lavoro dipende innanzitutto dalla sua divisibilità tecnica e dalle dimensioni della domanda cui si offre risposta - al cui crescere si risponde con un aumento della divisione del lavoro che consente di beneficiare delle economie di specializzazione (vale a dire quelle prodotte dall’aumento della destrezza dell’operatore) e le economie di scala (vale a dire la possibilità di sfruttare al meglio il tempo dell’operatore e dei supporti utilizzati). Il secondo metodo preferisce favorire la corrispondenza tra la proposta di impegno fatta ed i bisogni che spingono la persona ad aderire all’organizzazione e, di conseguenza, pone in secondo piano l’ottimizzazione dell’efficienza organizzativa. Non è necessario precisare che il mondo del volontariato utilizza questa seconda via, anche se spesso lo fa in maniera non consapevole ma come esito di approssimazioni successive. Vale, peraltro, la pena rimarcare in questa sede che, se il primo orientamento - di per sé - poco garantisce in generale del successo nel medio e lungo termine dell’organizzazione anche per ragioni strettamente economico-organizzative (basti pensare ai tempi di inattività ed ai costi di comportamenti non coerenti, che pesano fortemente sui risultati), figuriamoci cosa possa generare laddove è il grado di soddisfazione intrinseca, traibile dall’operatore, a determinare l’efficacia del risultato. E’ evidente che l’organizzazione del lavoro non può essere impostata solamente per soddisfare chi lo deve svolgere, ma è altresì incontestabile che la soddisfazione del volontario - quella dimensione direttamente ricavata dall’espletamento del compito assegnato - produca effetti positivi sul risultato da conseguire e sarebbe assai illogico non tenerne conto. Che fare? E’ su questo che rifletteremo ora. L’organizzazione classica del lavoro propone alcuni suggerimenti che possono essere opportunamente impiegati anche per le forme di lavoro volontario. 56 Quaderni per la Formazione Le modalità per ripensare il lavoro Job enlargement, consiste nell’ampliamento del numero delle operazioni elementari assegnate; Job rotation, implica lo spostamento periodico da un compito all’altro; Job enrichment, presuppone l’inserimento in una data mansione di compiti più interessanti e più gratificanti (anche di maggiore responsabilità, nella sua formulazione originale); Work group, prevede l’assegnazione ad un gruppo di un sistema di lavoro che si autoorganizza, utilizzando tutte le opzioni precedenti, per svolgerlo. L’idea che sta dietro alle ipotesi indicate è quella di rendere il singolo job - che deriva dall’analisi del lavoro, dalla sua scomposizione e ricomposizione in insiemi ordinati, attività questa non sempre svolta - sempre più adeguato alle esigenze anche di tipo motivazionale del volontario. La prima indicazione rappresenta un suggerimento di base: tener conto dell’insieme di cose che si assegnano al singolo volontario, della compiutezza che le caratterizza; in maniera coerente, il job enrichment si preoccupa anche della qualità del lavoro da svolgere, che può essere apprezzata anche laddove si introducano forme di responsabilizzazione. L’alternanza sui compiti funziona se gli stessi sono facilmente appresi e se non implicano interfacce con i destinatari: se poter spaziare da una tipologia di servizi ad un’altra, da un ambito ad un altro può essere stimolante, utile e coinvolgente, questo non deve andare a scapito dei nostri utenti, soprattutto se il contenuto relazionale costituisce una particolarità qualificante della nostra associazione e di quel contesto specifico. Il lavoro per gruppi rappresenta una delle esperienze più diffuse: erroneamente considerato come soluzione semplice, esso sgrava l’organizzazione dalla funzione di assegnazione dei compiti lavorativi diretti e di quelli di coordinamento e li sposta sulla compagine che si assume la responsabilità del risultato complessivo. Non occorre rimarcare le difficoltà relazionali, di affinità, sintonia che possono manifestarsi in un gruppo che non sia più che ben assortito, risultato non facile da ottenere e preziosissimo quando si presenta. E’ chiaro anche che le decisioni relative alle caratteristiche dei compiti vanno assunte assumendo come vincolo le peculiarità dei nostri volontari ed associando a ciascuna “macro tipologia umana” la modalità più appropriata e gradita: il volontario tranquillo, che ama la certezza del proprio impegno, che non può dare più di tanto sarà sicuramente rassicurato da un quadro di compiti predefiniti, per i quali sa cosa dare e sa cosa aspettarsi; chi, al contrario, chiede ad un’esperienza di volontariato di essere un’occasione di arricchimento personale (e perché no, anche professionale) sarà molto probabilmente più disponibile ad assumersi via via incarichi più complessi e vari, sarà interessato a diversificare le proprie esperienze. 5.4 Lavoro volontario e lavoro professionale Una dei problemi maggiormente sentiti nelle organizzazioni riguarda il rapporto tra i volontari e quei collaboratori che apportano competenze professionali specificamente necessarie all’orga- 57 Quaderni per la Formazione nizzazione per il proprio ambito (i medici per le ambulanze, per le terapie nei confronti dei malati terminali, gli psicologi per i soggetti problematici, l’esperto in logistica per il Banco Alimentare..) e lo fanno in cambio di un compenso monetario. Queste risorse si caratterizzano per: •il possesso di conoscenze teoriche e tecnologiche strutturate; •il contributo allo sviluppo ed all’integrazione di conoscenze rilevanti per i processi organizzativi in cui operano; • l’assunzione di responsabilità professionali verso i loro interlocutori sia interni che esterni. Quando queste figure sono presenti in maniera continuativa è chiaro che si rapportano con l’associazione come farebbero nei confronti di un datore di lavoro (altro è il caso dell’esperto che una volta ogni tanto, o in particolari occasioni, si mette a disposizione); i volontari hanno un atteggiamento giustamente diverso. La differenza va coltivata, accuratamente: anche laddove dovesse essere elevato il grado di interazione (si pensi ad un’équipe che segue persone ammalate), ciascuno dovrà avere ben chiaro cosa gli compete e quale è il ruolo che svolge; ci si dovrà soprattutto assicurare della stima reciproca e della vicendevole valorizzazione, ci si dovrà preoccupare che contributi e incentivi siano percepiti come adeguati (la lezione di Barnard di cui abbiamo parlato nel primo capitolo è fondamentale). Sicuramente, sarà inopportuno considerare (anche solo in casi eccezionali) interscambiabili i ruoli: se così fosse, cadrebbe la ragione per la quale il “professionista retribuito” non è qualitativamente un volontario. Al tempo stesso, è utile che i volontari dedichino all’associazione un tempo ragionevole (mai un numero elevato di turni) e che il loro impegno non sia massiccio, tale da non alimentare false aspettative. 5.5 Lavoro volontario e nuove tecnologie Senza alcuna pretesa di esaminare un tema dalla portata vastissima - quello delle nuove tecnologie, la cui pervasività non tralascia il mondo delle organizzazioni di volontariato - interessa in questa sede richiamare alcune questioni. Ciò che per effetto delle tecnologie muta è innanzitutto il rapporto con lo spazio e con il tempo, che dilatano le modalità di espletamento di molte forme di attività volontaria, soprattutto tutte quelle di tipo interno, di scambio informativo e di coordinamento, di gestione. In questo senso, costituiscono un’opportunità non ancora adeguatamente valorizzata, che libera energie e sviluppa prassi innovative che possono contribuire a cementare lo spirito associativo, la condivisione valoriale. Si rifletta, ad esempio, sull’opportunità di redigere una newsletter, con la quale veicolare i nostri contenuti, tenere aggiornati i nostri finanziatori e informati i vari stakeholders: l’utilizzo delle tecnologie probabilmente fa la differenza tra il riuscirci o meno. Sicuramente troveremo qualche volontario interessato a questa attività, ma dovremo spiegargli bene che lo scopo non è il riscatto di un giornalista mancato e dovremo trovare il modo per un’adeguata gratificazione (visto che si tratta di un lavoro dietro le quinte). 58 Quaderni per la Formazione Sono quindi, le stesse organizzazioni che possono ricorrere alle nuove tecnologie per quanto riguarda la loro funzionalità - se dispongono di risorse umane la cui mentalità è orientata adeguatamente - facilitando moltissimo il rapporto con i propri volontari, comunicando e creando consenso. Nascono opportunità nuove di partecipare alla vita dell’associazione, proprio in forza dell’opportunità di lavorare in remoto che le tecnologie offrono. Quanto lavoro di coordinamento può essere svolto in questa maniera con maggiore efficacia. 5.6 Qualche suggerimento operativo E’ sin troppo ovvio ribadire che questo tema costituisce uno dei nodi centrali della vita delle organizzazioni di volontariato. Esse si trovano (come ben sa chiunque abbia un minimo di dimestichezza con una di queste) a dover gestire (o subire, come spesso accade) una complessità particolarmente elevata proprio su questo versante che è, ribadiamolo ancora una volta, assolutamente centrale. L’organizzazione di volontariato nasce per il desiderio di proporre una risposta a quei bisogni cui la nostra sensibilità ci rende più attenti e per avventurarsi su questa via non può che coinvolgere altri, o meglio la libertà (le motivazioni ed i vincoli) degli altri. Si tratta di un impegno che si affianca ad altri della vita individuale e che con questa si misura producendo gradi di coinvolgimento diversi che evolvono nel tempo. La sola presenza dei nostri tanto amati volontari rende totalmente problematica l’azione, che può in misura assai modesta fondarsi sul strumenti di tipo coercitivo (per la loro sostanziale inefficacia, oltre che per le discutibili opportunità ed utilità del loro impiego in questo contesto). Dobbiamo convincere che la nostra associazione è la migliore opportunità, ma poi la dobbiamo offrire concretamente e questa offerta si compone anche di condizioni operative. La predisposizione di un quadro completo e preciso delle proposte di volontariato (che presuppone un’analisi del lavoro, così come suggerito nel par. 5.2 ) costituisce una precondizione: consistendo nella mappatura delle opportunità e delle relative caratteristiche (oggettive e soggettive), essa offre all’associazione l’opportunità di conoscersi meglio e di mettere ordine ed ai volontari vecchi e nuovi la possibilità di scegliere con chiarezza, sentendosi accolti e vedendo il proprio impegno finalizzato. Conoscersi per meglio organizzarsi. 59 Quaderni per la Formazione “E alla fine di tutto il nostro esplorare torneremo al punto di partenza . E lo vedremo per la prima volta” (T.S. Eliot, 1929) IN CONCLUSIONE: L’ORGANIZZAZIONE PER UNO SCOPO, LO SCOPO PER L’ORGANIZZAZIONE… In chiusura di questo nostro ragionamento sull’organizzazione e sull’organizzare (differenza che ormai abbiamo colto), sugli aspetti – quanto meno, a parere di chi scrive – più importanti e rilevanti per il funzionamento dell’organizzazione di volontariato e sulle dinamiche di azione e decisione che ne rappresentano l’essenza, preme ribadire alcune considerazioni. Esse sono state già introdotte nel corso del ragionamento e in mezzo alle riflessioni che lo sviluppavano; ma per la loro primaria rilevanza (sempre ed in qualunque contesto) vale la pena spendervi ancora qualche parola. Nel mondo del volontariato (e questa è la ragione più forte che spiega l’enfasi attribuita a queste ultime pagine) esse assumono una centralità (verrebbe da sostenere, se non si avesse timore di eccedere nello slancio) quasi emblematica. La assumono - questa centralità - perché il volontariato (le sue manifestazioni, la sua incidenza nel contesto socio-economico, la considerazione non rituale di cui gode) può essere considerato uno degli indicatori più interessanti della capacità di una società (e di una civiltà) di farsi carico dei propri bisogni e di generare risposte che, per reggere nel tempo, necessitano di strutturarsi e consolidarsi, farsi forma concreta, duratura nel tempo e riproducibile. In questa prospettiva, il passaggio verso l’organizzazione (vale a dire, sia verso una forma stabile e durevole, con quello che questo comporta, sia verso atteggiamenti e comportamenti che ne ottimizzino la presenza) diventa inevitabile ed è quanto si è cercato di documentare nel corso dell’esposizione. La ragione per la quale vale la pena di occuparsi di organizzazione risiede, però, nel suo essere a servizio di uno scopo, nel suo facilitare il raggiungimento di tale scopo. Le ragioni dell’organizzazione, insomma, non possono mai essere fine a sé stesse. Se così dovesse accadere (e purtroppo accade, occorre onestamente ammetterlo) significherebbe che si sta avviando un processo di istituzionalizzazione, un processo per il quale la ragione dell’esistenza dell’organizzazione diviene il proprio perpetuarsi nel tempo: ciò che conta non è il risultato che si intende perseguire e che ne alimenta il circolo virtuoso, ma essa stessa. L’organizzazione perde, a poco a poco, il proprio carattere strumentale e vede avviata una sorta di “sostituzione dei fini” (mai conclamata) per cui, da mezzo per raggiungere un fine, diventa fine in sé. Si tratta di un processo involutivo che molto è stato studiato e che trova nelle nostre organizzazioni documentazione, esempi (non esemplari) di realtà che perpetuano la propria presenza in forza di una sorta di inerzia o di una incapacità a contrastare un mito, cioè un sistema di credenze diffuse e condivise ma non necessariamente documentate. Molti sono i segnali del potenziale rischio del manifestarsi di una simile involuzione, troppo spesso deboli e nascosti dalla man- 60 Quaderni per la Formazione canza di riscontri economico-finanziari che potrebbero palesarne l’inutilità. Spesso accade che il rituale della bontà (autoreferenzale e intoccabile) dell’azione volontaria appanni (magari in maniera non troppo consapevole) la possibilità di prendere coscienza della sua crescente inconsistenza o della sua inutilità, in quanto non più capace di rispondere alle nuove forme di manifestazione del disagio e dei bisogni della società civile. Allora, il rinnovarsi (non scontato ed abitudinario) della domanda sullo scopo, sulla ragione forte che costituisce il nucleo della mission diventa il modo per tener in vita ciò che è utile resti in vita, anche nel mondo del volontariato: l’organizzazione dà gambe agili a questo. E’ sin troppo evidente che tale questione (essenziale) non è chiusa in se: rimanda ad almeno due temi, ugualmente caldi in questo mondo, quello della leadership - cui si è fatto cenno nell’ambito della progettazione, per sottolineare la non prevalenza della dimensione ingegneristica in questo delicato campo - e quello, ancora piuttosto inesplorato, del ricambio generazionale. Due temi spesso in collisione tra loro: sovente è proprio la presenza di una leadership forte e coinvolgente a rallentare i processi di rinnovamento nelle risorse coinvolte, anche se la costruzione di una successione che garantisca il perpetuarsi nel tempo dell’idealità sorgiva è costitutivamente intrinseca ad una capacità di trascinamento reale e forte. Queste condizioni, peraltro, rappresentano premessa per l’equilibrato mantenimento di alcune caratteristiche che costituiscono le specificità delle organizzazioni di volontariato. Esse, nella molteplicità delle proprie manifestazioni, hanno una finalità sociale e umanitaria, operano per il beneficio della collettività, contribuendo allo sviluppo della società: questo attiva un circuito virtuoso tra destinatari dell’impegno e coloro che lo profondono. Il carattere informale è forse uno degli elementi più delicati e più marcatamente ambivalenti: il ruolo dell’informalità come elemento che libera energie e coinvolge gli interessati è sicuramente centrale e da valorizzare, all’interno però di un quadro che non si spinga troppo verso l’anarchia, non tanto per un negativo giudizio di valore, quanto per gli ostacoli che frappone al perseguimento di un obiettivo condiviso. Invero, “la realtà reale” assomiglia molto alla pratica dell’improvvisazione tipica, ad esempio, della musica jazz: come i cultori ben sanno (e come gli altri sicuramente non faranno fatica ad immaginare), l’improvvisazione non è un tentativo estemporaneo e approssimativo, è il “rimaneggiare materiale già composto su idee mai anticipate, concepite e formate e trasformate nelle particolari condizioni dell’esecuzione, le quali aggiungono caratteristiche uniche ad ogni creazione”, come ben commenta Weick; nel contesto l’improvvisazione si declina in interpretazione, abbellimento, variazione. L’improvvisazione è quindi una miscela di precomposto e spontaneo, proprio come l’azione organizzativa mescola controllo e spontaneismo, routine e non routine, automatismo e innovazione. L’improvvisazione, intesa in questa chiave (e perciò fatta di “momenti di rara bellezza inframmezzati da errori e vuoti”), ci insegna che oltre la routine, oltre la formalizzazione c’è la vita. Vedere la bellezza nelle possibilità mancate è imparare un’importante lezione. 61 Quaderni per la Formazione RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI (E DINTORNI…) Come si conviene in chiusura di ogni lavoro, per correttezza (ma anche con la nascosta speranza che essa diventi un ulteriore strumento di lavoro), anche in questa sede si dà spazio alle fonti alle quali si è debitori per i contenuti proposti. La lista, di seguito riportata, costituisce la tradizionale (ma fondamentale) bibliografia. Essa ricomprende quei testi che l’autrice considera fondamentali nei propri studi di matrice organizzativa e che paiono maggiormente interessanti per chi voglia approfondire la complessa ed affascinante questione “organizzativa”; questione organizzativa che, come si è avuto modo di apprezzare nel corso dell’esposizione, si qualifica come assai intrigante per le organizzazioni di volontariato, per evidente esperienza (quanto sovente chi opera nel mondo del volontariato avverte la rilevanza degli aspetti organizzativi, magari senza neppure riuscire a inquadrarli nitidamente), e per una certa carenza di approfondimenti mirati, di supporti che, in altri termini, declinino con riferimento alla specifica tipologia dell’organizzazione di volontariato (ed alle sue numerose particolarità) le tematiche propriamente organizzative, cosa che – in questa sede – si è propriamente tentato di fare. Per queste ragioni, i volumi indicati sono quelli che con maggior interesse l’autrice ha letto, che con assiduità vengono consultati alla ricerca di spunti per capire la realtà che si ha davanti e che vengono proposti a chi volesse addentrarsi nella letteratura specialistica (ma accessibile ed anzi, si potrebbe sostenere, gradevole, sia come leggibilità che come comprensibilità), senza quindi nulla togliere ai molti altri autori cui si potrebbe far riferimento e che peraltro sono abbondantemente disponibili in ogni biblioteca. Barnard C. (1938), The funtions of an Executive, Harvard University Press, Cambridge,MA (trad. it. 1970) Bonazzi G. (2002), Come studiare le organizzazioni, Il Mulino, Bologna Butera F., Donati E., Cesaria R. (1997), I lavoratori della conoscenza, Franco Angeli, Milano Butler R. (1998), Progettare le organizzazioni, Mc Graw Hill, Milano Cafferata R. (2000) a cura di, Management e organizzazione aziendale, Aracne, Roma Ciborra C. (1996), a cura di, Lavorare assieme, Etaslibri, Milano Costa G., Gubitta P. (2004), Organizzazione aziendale, Mc Graw Hill, Milano Costa G., Nacamulli R.C.D. (1996), Manuale di organizzazione aziendale, vol. 5 Metodi e tecniche di analisi ed intervento, Utet, Torino Costa G., Nacamulli R.C.D. (1997), Manuale di organizzazione aziendale, vol. 2 La progettazione organizzativa, Utet, Torino Drucker P. F. (1973), Management: Tasks, Responsabilities, Practices, Heinemann LTD, Londra (trad. it., 1978) Drucker P., Managing the Non Profit Organizations, Harper Business, Neew York, 1992 Ferrante M., Zan S. (2000), Il fenomeno organizzativo, Carocci, Roma Gasparre A. (2002), a cura di, Organizzazioni Non Profit: radici, problemi e prospettive, De 62 Quaderni per la Formazione Ferrari, Genova Maggi B. (2003), De l’agir organizationel, Octares, Toulouse Marmorato S. (2000), a cura di, Il management delle Organizzazioni Non Profit, De Ferrari, Genova Megginson L., Mosley D., Pietri P. (1994), Management, Franco Angeli, Milano Mintzberg H. (1983), Structure in five, Prentice Hall, Englewood Cliffs, (trad. it 1985) Normann R. (1984), La gestione strategica dei servizi, Etaslibri, Milano Rebora G. (2005), Manuale di Organizzazione aziendale, Carocci, Roma Schein E. (1990), Cultura d’azienda e leadership, Guerini, Milano Simon H. A. (1947), Administrative Behaviour, Mac Millan, New York (trad. it. 1958) Thompson J. D. (1967), Organizations in Action, McGraw Hill (trad. it. 1994) Taylor W. F. (1911), The Principles of Scientific Management, Harper & Brother, New York (trad. it. 1967) Tosi H., Pilati M., Mero N., Rizzo J., Comportamento organizzativo, Egea, Milano, 2002 Weick K. (1969), The social psycology of Organizing, Random House, New York (trad. it. 1993) Weick K. (1977), Enactment Processes in Organizations, St Clair Press, Chicago (trad. it. 1988, a cura di Zan S.) C’è, però, un'altra fonte, cui occorre riconoscere un debito. Di questa sarebbe quasi impossibile fornire una lista esaustiva (e neppure mi cimento nel tentativo, certa della sua fallibilità). Essa è rappresentata dalle tante organizzazioni che ho avuto il piacere di incontrare in questi anni e da cui molto ho appreso, nel bene e nel male. Nel bene: perché osservare la vita delle organizzazioni, esaminare i loro problemi e le soluzioni approntate, vedere cioè all’opera le idee sulle quali riflettere e le indicazioni che, tentativamente, possono essere formulate come risposte adeguate, ne rende ulteriormente affascinante l’approfondimento. Nel male: perché è proprio vedendo in azione tante organizzazioni che ho meglio capito quanto sia necessaria un’attenzione particolare alla dimensione organizzativa che raramente è esito spontaneo di un atteggiamento naturale (anche se la predisposizione all’ordine ed al metodo indubbiamente aiutano), più spesso (molto più spesso) è il risultato di un lavoro, che possiamo definire di “management del volontariato” (anche se non è solo management, ma è anche management). A tutte queste, esprimo la mia personale gratitudine, per l’aiuto che mi hanno (volontariamente o inconsapevolemente) fornito nel capire meglio la portata della questione organizzativa, indispensabile (giudizio di parte, apertamente dichiarato – anche se sarà ormai chiaro al lettore che è arrivato sino a questo punto) supporto per realtà che di sola organizzazione non potrebbero vivere. 63 Progetto grafico: Silvia Folco Stampa: Grafiche G7 - Busalla (Ge) Finito di stampare nel mese di dicembre 2007 CELIVO Centro Servizi al Volontariato Piazza Borgo Pila, 4 - 16129 Genova Tel 010 5956 815 - Fax 010 5450 130 E-mail: [email protected] Sito: www.celivo.it Vietata la riproduzione anche parziale senza l’autorizzazione del Celivo. Questa pubblicazione è stata stampata su carta di pura cellulosa ecologica ECF (Elemental Chlorine Free). CELIVO Centro Servizi al Volontariato Piazza Borgo Pila, 4 - 16129 Genova Tel 010 5956 815 - Fax 010 5450 130 E-mail: [email protected] Sito: www.celivo.it