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Sotto le stellette
SOTTO LE STELLETTE
ARTICOLO 52 DELLA COSTITUZIONE
LA DIFESA DELLA PATRIA È SACRO DOVERE DEL CITTADINO.
IL SERVIZIO MILITARE È OBBLIGATORIO NEI LIMITI E MODI STABILITI DALLA LEGGE. IL SUO ADEMPIMENTO NON
PREGIUDICA LA POSIZIONE DI LAVORO DEL CITTADINO, NÉ L'ESERCIZIO DEI DIRITTI POLITICI.
L'ORDINAMENTO DELLE FORZE ARMATE SI INFORMA ALLO SPIRITO DEMOCRATICO DELLA REPUBBLICA.
1 Indice
p.3 6 Introduzione PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Faccia a faccia nel quartiere Militari e sinistre 10 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO 13 Le prime lotte 14 Il Caso Sotgiu 19 Un sergente di colore 20 Un sergente anarchico 22 Nell’aeroporto degli Hercules 27 Sergenti laureati 30 Nella marca orientale 33 Un maresciallo da tremila voti 35 Un sergente licenziato LA COSTITUZIONE DIMENTICATA PARTE TERZA 38 Dal Regolamento‐Andreotti alla bozza‐Forlani 41 Ma io a cosa servo? 43 Obbedienza pronta e assoluta 48 La politica come tabù PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE 51 Posizione giuridica 52 Orari e retribuzione 53 La casa 53 La sanità 55 La cultura 57 Le rappresentanze 59 CONCLUSIONE 2 INTRODUZIONE La questione militare è uno dei nodi più delicati, se non il più delicato, della vita di una
collettività. I cittadini in divisa sono il braccio armato delle istituzioni: possono rappresentare una solida garanzia per la loro difesa come possono diventare una minaccia
per l'ordine democratico. Dipende da come sono concepite le funzioni, la natura, le
finalità delle forze armate. La Costituzione, all'articolo 52, dice che l'ordinamento delle
forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica. Tuttavia l'ordinamento
delle forze armate si regge su un codice militare penale di pace del 1941, fascista.
È questa la contraddizione di fondo che sta all'origine dei conflitti di ruolo, dei
comportamenti schizofrenici di chi porta le stellette: in sostanza i militari dovrebbero
proteggere le libertà costituzionali degli altri mentre queste stesse libertà sono a loro
negate da norme fasciste. È abbastanza naturale, dunque, che il militare viva come
frustrante la propria condizione e che in lui scatti un meccanismo psicologico di rivalsa
nei confronti di una società che lo respinge ai margini, lo priva di diritti fondamentali;
così come è naturale che si ponga in antagonismo verso la società dei borghesi e
diventi potenzialmente disponibile ad avventure golpiste.
L'Italia ha avuto i suoi De Lorenzo, gli Henke, i Miceli, gli alti gradi delle forze armate
implicati in trame eversive. Tuttavia la classe dirigente politica - sinistre comprese - non
è riuscita o non ha voluto andare al fondo della questione, che è molto semplice: la vita
dei borghesi è regolata da norme che discendono dalla Costituzione repubblicana,
quella degli uomini in uniforme da norme del passato regime. Ci sono voluti quasi
trent'anni, con tanto di trame eversive e golpe falliti, perché i partiti della sinistra
avvertissero la portata di un problema vitale per la democrazia. Le sinistre storiche,
socialisti e comunisti, hanno guardato fino a ieri con diffidenza all'universo militare concedendo spazio alla destra, ai conservatori, ai reazionari che, per decenni ormai, si
sono fatti portavoce del malessere, del disagio di caserme, navi, aeroporti. C'è voluto il
Sessantotto e quello che ne è seguito, c'è voluta la protesta dei cosiddetti «proletari in
divisa», soldati di leva arrivati sotto le armi con alle spalle il bagaglio della
contestazione, perché le sinistre avvertissero l'importanza della questione. Così ora il
Psi ha in Parlamento un comandante di marina, Falco Accame, e il Pci il generale Nino
Pasti. Oggi della questione militare si parla nelle sezioni socialiste e comuniste, nei
3 INTRODUZIONE circoli Arci ma i sospetti, le diffidenze fra gente di sinistra e sinistre in divisa
permangono e saranno duri a scomparire.
Se ieri si riteneva che le rivendicazioni dei militari fossero corporative e sostanzialmente
reazionarie, oggi la sinistra tradizionale teme che sotto la divisa del sergente o del
maresciallo contestatore batta un cuore gruppettaro, avventurista e così guarda con
sospetto alle battaglie per democratizzare l'ordinamento delle forze armate condotte in
particolare dai sottufficiali dell'aeronautica che per primi fra i militari di carriera si sono
organizzati in un Coordinamento nazionale.
Questo libro è stato scritto anche per contribuire a superare queste barriere: per fornire
ai lettori e ai dirigenti dei partiti una testimonianza viva di quanto è successo negli ultimi
due anni fra i sottufficiali che sono la spina dorsale delle forze armate. Dalle loro storie,
dalle loro testimonianze emerge la voglia di partecipazione e il rifiuto della separazione
del cittadino in divisa. È un dato reale, di grande novità politica: nelle caserme, nelle
basi aeree, sulle navi è nato il dissenso ed è stato gestito con civiltà e senso di
responsabilità, nel rispetto delle leggi dello Stato repubblicano anche se non sempre nel
rispetto delle norme disciplinari vigenti che sono eredità di Mussolini.
Questo libro non pretende di esaurire la problematica della questione militare. Anzi,
volutamente, si ferma ad analizzare un aspetto particolare ma significativo: la storia del
movimento nato nel 1975 fra i militari.
Si apre con la cronaca di un dibattito in un circolo Arci di Pisa dove per la prima volta,
nella città di punta della protesta militare, è avvenuto un franco dialogo fra civili di
sinistra, sergenti e marescialli: dai loro interventi, senza bisogno di commenti, si può
cogliere la portata dello scollamento ancora esistente fra le aspirazioni dei militari e le
preoccupazioni dei partiti.
Dopo questo flash, una prima parte del libro racconta la storia del movimento dei
sottufficiali democratici: come si è organizzato e come sia lievitato con la dura risposta
delle basi dell'aeronautica dopo l'arresto e la condanna del sergente Giuseppe Sotgiu
nell'estate '75. Le cronache degli avvenimenti sono alternate ad interviste con i
4 INTRODUZIONE protagonisti, vicende individuali che danno un'immagine, costruita su esperienze di vita,
del malessere dell'italiano in divisa.
È la storia di un movimento nato dal basso, cresciuto senza la mediazione delle forze
politiche: lo abbiamo scelto da raccontare proprio perché i sottufficiali, sergenti e
marescialli, sono le figure più emblematiche del disagio delle forze armate. Senza la
gratificazione del comando che spetta agli ufficiali, senza la prospettiva di tornare a
casa dopo quindici mesi dei soldati di leva, i sottufficiali di carriera si trovano nella
condizione psicologicamente più scomoda. Le loro manifestazioni (per le quali in molti
hanno dovuto scontare giorni di cella di rigore oppure abbandonare le forze armate
perché dopo sei anni di ferma non si sono visti riconfermare in servizio) sono sempre
state composte; non c'erano manifestanti in divisa con il fazzoletto sulla bocca (che poi
non si sa se siano realmente militari o provocatori infiltrati).
Hanno chiesto e chiedono, attraverso documenti, organi di stampa, convegni, il
ripristino dei diritti civili per chi sta in divisa. Chiedono che il Parlamento si occupi di
loro. C'è stata una bozza-Forlani nel '75 varata in tutta fretta per arginare la protesta dei
militari che prefigurava un ordinamento delle forze armate diverso rispetto a quello che
si richiama a leggi fasciste. È stata ritirata per l'indignata reazione dei militari che si
vedevano riproporre riverniciate le stesse limitazioni dei diritti civili del passato. Da un
anno, c'è un progetto di legge Lattanzio, ministro della difesa del governo Andreotti, che
il Parlamento, a metà del 1977, non ha ancora messo all'ordine del giorno e che non si
discosta di molto dalla bozza-Forlani. I militari democratici chiedono un ribaltamento
radicale dell'ordinamento delle forze armate che ritengono iniquo e anticostituzionale.
Nella seconda parte del libro analizziamo, regolamento militare alla mano, il quadro
legislativo, disciplinare e normativo a cui i cittadini in divisa sono soggetti e che non
accettano più. Di fronte alla base in fermento di un settore tanto delicato della vita
pubblica, il Parlamento ha continuato con ostinazione a ignorare la questione militare. A
qualche deputato o senatore, queste pagine, possono essere utili se non altro perché
s'informi.
5 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO PARTE PRIMA
IL MILITATE DIVERSO
Faccia a faccia nel quartiere
Lunedì 7.2.77 alle ore 21 presso il Circolo ARCI Alberone si terrà un incontro dibattito sul tema:
Coordinamento Democratico Sott/li A.M.; esperienze prospettive in relazione ai problemi generali di
riforma delle FF.AA.
Alla manifestazione interverranno: rapp. ANPI, rapp. del Collegio di difesa dei sott/li incriminati, rapp. del
Coordinamento Sott/li A.M.
L'ANPl e il Circolo ARCI Alberone nel promuovere l'iniziativa intendono chiamare tutti i cittadini alla
solidarietà attiva e all'impegno per portare avanti in modo efficace una effettiva riforma delle FF.AA.
conforme ai principi della Costituzione repubblicana.
La cittadinanza, le forze politiche democratiche e associative del quartiere sono invitate.
IL CIRCOLO ARCI
« Alberone »
S. GIUSTO
San Giusto è la borgata di Pisa attigua all'aeroporto, un vecchio quartiere popolare con
passato antifascista, di lunga tradizione rossa. Il circolo « Alberone » è un punto di
riferimento per la gente di San Giusto: prende il nome da una gigantesca quercia che
sta al centro del cortile antistante l'ingresso. Sulla cancellata una luminosa col simbolo
del partito comunista. Dentro, il bar, i biliardi, un piccolo bowling, tavolini per giocare a
carte, qualche ufficio e un'ampia sala riunioni.
Il 7 febbraio del '77 è una data importante per San Gíusto. È la prima volta che i
sottufficiali della 4Ga aerobrigata, che prestano servizio nel vicino aeroporto e in parecchi abitano nel quartiere, vi mettono piede pubblicamente per discutere con i civili: per
discutere con le stesse persone di cui hanno sposato le figlie o le sorelle, con cui vanno
a scuola i loro figli, persone con le quali i sottufficiali s'incontrano nei consigli dei genitori
o prendono il caffè allo stesso bar tutti i giorni; ma con le quali non è mai esistito un
dialogo sui problemi di quella categoria, i militari, che riveste tanta importanza
nell'economia di un quartiere povero, che deve molto alla vicinanza dell'aeroporto.
S'incontrano per la prima volta, dopo che da quasi due anni la protesta dei sottufficiali di
San Giusto (e di tante altre basi) contro le storture delle forze armate è stata al centro
delle cronache nazionali. In sala riunioni, la maggioranza è costituita da militari in
borghese, alcuni dei quali accompagnati dalle mogli. Sono vestiti come gli altri, ma si
riconoscono per il contegno, per la compostezza e il riserbo; si riconoscono per la
tensione dei volti attenti e compresi che non si lasciano sfuggire un sorriso, una battuta,
una parola bisbigliata all'orecchio del vicino di sedia. Per loro è un'occasione
importante: si trovano per la prima volta al centro dell'attenzione di gente che li ha
accettati, non li ha respinti, ma li ha sempre considerati una componente aggiunta del
quartiere, in qualche modo diversa, anche per l'antica diffidenza delle sinistre verso chi
porta la divisa.
6 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Al tavolo della presidenza, Diomelli, vecchio capo partigiano, in rappresentanza
dell'ANPI, l'avvocato Arnaldo Massei, che ha difeso molti di questi militari in processi a
loro carico, rappresentanti dell'Arci e anche un sergente maggiore dell'aeronautica,
Pasquale Totaro.
Dopo una prolusione degli ospitanti, seguono a raffica gli interventi dei militari, alcuni
dei quali ci chiedono di non riportare il loro nome. Parlando in quella sede, stanno
violando il regolamento di disciplina e sono passibili di punizione. Il primo, maglione
marrone girocollo, giacca beige, accento meridionale, sui quarantacinque, esordisce:
«Sono un sottufficiale della 46ª aerobrigata di Pisa». S'interrompe. «Scusate sono un
po' emozionato». Poi si riprende e parla di sé: «Mi sono arruolato nel '50. Per necessità,
c'era tanta disoccupazione e c'erano pochi impieghi: non venivo da una famiglia medio
borghese. Avere uno stipendio mi bastava, non pensavo alla politica. Poi alcuni fatti mi
hanno aperto gli occhi. Nel '53 un mio collega, il miglior elemento del reparto, uno dei
migliori specialisti, viene congedato senza motivo: vengo a sapere che l'avevano
cacciato perché nell'osteria di suo padre bazzicava gente del partito socialista e del
partito comunista. Fu la prima sveglia. La seconda l'ho avuta più avanti, quando mi
sono reso conto che nelle forze armate c'era chi tramava contro lo Stato. Chi sta dentro
e tiene gli occhi aperti certe cose le capisce al volo, anche se non parla per tante paure.
Ho capito allora che non lavoravo per tutto il paese, ma per un'istituzione di parte:
capivo che i gruppi di potere che hanno conquistato l'egemonia nel dopoguerra si erano
creati un esercito proprio».
Dal tavolo della presidenza si alza e va al microfono Pasquale Totaro, che non ha
turbamenti. Ha fatto il '68 all'Università, benché militare di carriera nella Pisa di Sofri e di
Lotta Continua. Parla con spiccato accento pugliese, barba scura, maglia blu girocollo,
giubbotto blu con cerniera, jeans.
Attacca riprendendo le frasi del collega più anziano: «Abbiamo cominciato a mobilitarci
quando si è avuta la sensazione precisa che spesso il superiore è disonesto. Prima non
eravamo coscienti dei tentativi di golpe o delle truffe. Anzi, noi stessi eravamo convinti
di quanto dicevano i superiori, che fuori c'è il caos e che ci vuole ordine. Poi, quando
abbiamo toccato con mano quello che hanno fatto i Miceli, gli Henke, i Fanali, siamo
entrati in crisi. Se chi ci comanda è un farabutto, noi che facciamo? È stata la perdita di
credibilità dei capi a farci muovere, ma abbiamo trovato difficoltà a farci capire anche
dai democratici in borghese. Vi dobbiamo rendere onore, grazie per l'incontro di questa
sera. Più volte abbiamo chiesto di incontrarci con le componenti politiche del quartiere,
ma invano. Ci conosciamo personalmente, sapete chi siamo, sapete che non siamo
golpisti, ma quello che mancava era un atteggiamento di fiducia da parte vostra verso di
noi. Vogliamo contatti con tutti i circoli e le associazioni della città, partecipare ai
seminari nell'università: in un convegno volevamo parlare, ma i comunisti non ce
l'hanno permesso e questo è grave. Ciò capita perché non sapete, non conoscete
quello che avviene in aeroporto: ci dicono che fuori è il caos, ci sono i sindacati e i
contestatori che rovinano il paese e che bisogna mantenere l'ordine. Si è arrivati a
sequestrare proprio due giorni fa a un sottufficiale un volume che conteneva la
Costituzione e lo Statuto dei lavoratori! Comunque a noi fa piacere che al circolo Arci,
questa sera, siamo più militari che civili. Ci fa piacere avere parlato qui prima di tornare
a casa o in aeroporto».
7 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Al microfono va un tipo tutto diverso da Totaro. Grande e grosso, rosso in volto, accento
veneto, sui quarant'anni, ventidue di servizio, con barba di stampo austroungarico. Il
maresciallo tutto d'un pezzo come lo vorrebbero le caricature militari: a volte bonario e
paternalista a volte cerbero intransigente. È quello che sembra. Invece gli trema la
voce. «Scusate, sono emozionato: non ho mai parlato in pubblico di fronte ai civili.
Sono, oggi, un neonato della vita pubblica ma vi assicuro che quando tornerò a casa
avrò il coraggio di guardare in faccia i miei figli con dignità, come mai mi è successo.
L'invito del dibattito parla di esperienze e prospettive del Coordinamento sottufficiali
aeronautica militare. Le mie esperienze sotto le armi? Sono le più grandi umiliazioni che
ho subito nella vita. Non vi dico il mio nome perché non sono nessuno. Sono un numero
di matricola, il 380273. Voglio ringraziare il quartiere di San Giusto dove vivo da quindici
anni e mi trovo bene. Mi sono sposato nella chiesa di San Giusto con una di qui. Ma io
mi chiamo Romano e sapete che cosa vuol dire, capite qual è stata la mia formazione in
una famiglia che, a parte il passato regime, è da generazioni democristiana. E io,
ventidue anni di servizio, ho sempre agito secondo i principi che mi hanno insegnato a
casa. Finché un giorno ho fatto delle osservazioni per piccole cose che avvenivano in
caserma. Mi hanno dato del delinquente, del disfattista e ho dovuto subire perquisizioni
a casa mia. Mi sono allora chiesto perché capitava a me, che non ho mai abiurato la
gerarchia e la disciplina. Ed ho capito che ciò avviene perché qualcuno specula sulla
disciplina strumentalizzando centomila persone, quanti sono i sottufficiali in Italia: un
ristretto giro di potenti che tutti sanno quanto sono pericolosi».
Applausi composti dei colleghi e del pubblico. La testimonianza di Romano, uomo che
viene da destra per idee e tradizione familiare ma sfida le gerarchie parlando
pubblicamente in un circolo che reca all'ingresso la luminosa col simbolo del Pci, crea
imbarazzo e ripensamenti. Il presidente dell'assemblea invita il pubblico a intervenire,
ma nessuno alza la mano. Parla allora il presidente del comitato di quartiere, che elogia
l'iniziativa, spiega che i militari si sono inseriti nella vita di San Giusto come dimostra la
presenza di sergenti e marescialli nei consigli scolastici.
L'assemblea resta zitta. Il presidente incalza: «Qui mica tutti siete militari, almeno le
donne! »
Una biondina dal fondo: «Lo siamo anche noi per la nostra metà. L'unica differenza è
che non portiamo il numero di matricola ».
La battuta della donna, polemica nei confronti della sezione civile dell'assemblea, fa
scattare un sergente maggiore, che raccomanda di non nominarlo. Il sergente maggiore
R. P., jeans, maglione blu a collo alto, giaccone blu con cerniera, la stessa divisa in
borghese di Totaro, dice con accento toscano: «Troppe volte quando abbiamo cercato
di partecipare a manifestazioni della società non in divisa la gente ci guardava male,
proprio perché eravamo in uniforme. Mentre guardavamo dal marciapiede gli operai
della St-Gobain in corteo e magari avremmo voluto essere solidali con loro, c'erano
manifestanti che ci sputavano addosso e ci dicevano fascisti soltanto perché eravamo
in divisa. Abbiamo capito che soltanto la nostra iniziativa poteva ridarci credibilità
presso la gente. Abbiamo detto - ma nessuno fuori dell'aeroporto l'ha capito - che il
nostro problema non è quello dei soldi, anche se non stiamo bene finanziariamente.
Vogliamo essere nella condizione di poter denunciare gli abusi, come quello del
generale che usa la vettura di ordinanza per accompagnare i figli a scuola, tanto per
8 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO stare alle piccole cose. Noi siamo pubblici dipendenti e come tali, abbiamo il dovere di
denunciare gli abusi amministrativi. Però, se lo facciamo, ci mandano in galera, soltanto
per aver adempiuto a un dovere specifico dei dipendenti dello Stato.
Abbiamo fatto semplicemente il nostro dovere e ci hanno accusato di voler politicizzare
le forze armate. Questo non è vero - grida nel microfono il sergente maggiore R. P. -,
non abbiamo alcuna volontà di fare del movimento un monopolio di partito. Siamo
pluralisti. Fra di noi ci sono comunisti, socialisti, democristiani, anche fascisti [...] forse
fascisti non è esatto, è meglio dire qualunquisti perché i fascisti veri stanno ai gradi più
alti: sono quei superiori che ci ripetono che chi è comunista deve andarsene dalle forze
armate. Per loro è naturale dire "abbiamo sempre servito un padrone, e adesso che si
fa? volete cambiare? " Ci accusano di volere il sindacato dei militari, ma non è vero. Se
i sottufficiali lo creassero, lo creerebbero anche i generali, i colonnelli e avremmo tante
inutili, pericolose corporazioni. Vogliamo soltanto delle rappresentanze che controllino e
denuncino quanto avviene di storto nelle forze armate ».
R. P. si accalora fra gli applausi dei civili e dei colleghi: «Il movimento è nato negli
aeroporti e non nelle caserme dell'esercito perché noi abbiamo maggiori contatti con
l'esterno. In caserma ti stroncano subito. Nella marina è ancora peggio: quando sono
sorti i primi gruppi del Coordinamento a La Spezia, hanno prelevato i promotori dalla
nave con l'elicottero e li hanno trasferiti in un battibaleno chi a Taranto chi ad Ancona.
Con noi non possono farlo perché siamo cresciuti e sappiamo come rispondere, ma
attenzione! Esiste un pericolo preciso, una minaccia che non riguarda soltanto noi
militari, ma tutta Pisa. Si parla con sempre maggiore insistenza di smembrare
l'aerobrigata: una parte di noi andrà in una sede, una parte in un'altra, per toglierci da
questa città di sinistra che si vuole punire perché ha appoggiato il Coordinamento.
Invitiamo su questo punto, che riguarda l'intera cittadinanza, tutte le forze politiche a
prendere posizione».
Al sergente maggiore, replica l'anziano esponente partigiano Diomelli: parla di
«masochismo non giustificato» dei sottufficiali. Le signore in sala ridono a denti stretti e
commentano amaro. Diomelli parla di conquiste della classe operaia, delle vittorie che
essa ha conseguito contro la legge truffa del '53 e contro Tambroni nel '60, e invita i
militari a considerare il futuro con ottimismo. Sotto la guida della classe operaia gli
obbiettivi saranno raggiunti, con prudenza, grado per grado. «Non si può volere tutto e
subito». Sembra quasi preoccupato che sotto le divise batta il cuore avventurista del
gruppettaro. Poi il dibattito si smorza e il dialogo continua fra civili, sottufficiali e signore
al bar, ai tavolini, vicino ai biliardi. La gente di San Giusto ha quasi l'impressione che i
militari esagerino: gli esponenti politici invitano a ragionare, ad evitare spontaneismi
poiché ogni movimento di base per avere successo deve svilupparsi nel quadro
generale «della strategia di classe dei lavoratori», come ha detto in chiusura il
presidente dell'assemblea.
9 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Militari e sinistre
Le diffidenze e le incomprensioni fra militari e sinistre hanno radici lontane, difficili da
eliminare come l'incontro del 7 febbraio a Pisa dimostra. Quando il 27 marzo del 19761,
il Coordinamento nazionale dei sottufficiali dell'aeronautica militare tenne una grande
manifestazione a Milano, con l'adesione dei sindacati (Cisl e Uil, mentre la Cgil all'ultimo
momento si è ritirata), «l'Unità» intitolava così un corsivo: Una manifestazione che isola
i sottufficiali. E scriveva: «Non possiamo condividere forme di lotta come quella di oggi
che prevede un corteo di militari e sottufficiali: cittadini cioè che fanno parte di un corpo
armato a cui la Costituzione impone una particolare disciplina a garanzia e difesa delle
istituzioni della nostra Repubblica. In una simile manifestazione è facile prevedere
l'infiltrazione di gruppi estremistici e avventuristici non certo disponibili alla causa della
democrazia». I segretari provinciali della Fim-Cisl e della Film-Uil rispondevano: «La
decisione presa su pressioni della Camera del lavoro e del Pci milanese di negare ogni
appoggio anche indiretto alla manifestazione è un atto cinico di irresponsabilità civile. Ci
troviamo di fronte evidentemente a una diversa concezione della democrazia».
Intervistato da «Epoca», il senatore comunista Ugo Pecchioli, portavoce del Pci per gli
affari militari, dichiarava: «Il problema delle forze armate va affrontato e risolto con
urgenza. Ma c'è un principio dal quale non si può derogare: le forze armate devono
essere soggette al potere politico, non hanno alcun diritto di farsi giustizia da sé. Per
questo motivo il Pci non approva certe manifestazioni di lotta. È legittima ogni presa di
posizione, certo. Ma nella misura in cui le forze armate sono un corpo atipico, tra l'altro
armato, i loro problemi devono venire risolti dal Parlamento. Altrimenti non si sa dove si
va a finire».
Il fatto è, dicevano i sottufficiali di Pisa nell'assemblea del 7 febbraio, che il Parlamento
non ne ha ancora discusso: il regolamento Andreotti del 1964 è passato per decreto
presidenziale, la bozza Forlani del 1975 per un nuovo regolamento stava per passare
allo stesso modo, la legge Lattanzio non è ancora arrivata alle Camere. E al
Parlamento, dicevano, ci sono anche i comunisti, e tanti.
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Alla manifestazione del 27 marzo di Milano parteciparono oltre tremila militari democratici di tutte le armi
alla testa di un corteo di migliaia di persone. Portarono la loro adesione decine di consigli di fabbrica in
tutta Italia, federazioni sindacali di categoria, alcune sezioni dell'Anpi (tra cui quella di Bergamo), la UiI.
Tra i partiti partecipavano rappresentanze del Psi, Ao, Lc, Pdup, Pli. Al comizio conclusivo in piazza
Castello intervennero vari rappresentanti dei militari democratici, la moglie di un sottufficiale, la vedova di
un ufficiale caduto con il proprio aereo e a chiusura Giorgio Benvenuto. A distanza di oltre un mese dalla
manifestazione dieci sottufficiali (sette di Monte Venda, tre del Comando della prima regione aerea di
Milano) vennero denunciati alla procura militare; un ufficiale, il capitano Zangardi Gianni, espulso
dall'aeronautica. Le reazioni dei sottufficiali furono immediate: in pochi giorni, solo nelle Tre Venezie, oltre
duemila sottufficiali si autodenunciarono.
10 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO Questo primo scenario, il dibattito al circolo Alberone di Pisa, non è stato scelto a caso
per cominciare a raccontare la storia dei sergenti e dei marescialli «ribelli» che da due
anni ha investito le caserme, ma per motivi precisi: la 46ª aerobrigata di Pisa è la punta
di diamante del movimento; il dibattito ha chiarito le ragioni della crisi che investe il
Csdarn (Coordinamento sottufficiali dell'aeronautica militare), crisi dovuta alla difficoltà
di dialogo fra cittadini in divisa e cittadini in borghese. Difficoltà che l'iniziativa dell'Arci
pisano si è sforzata di superare ma che la serata del 7 febbraio ha reso palpabile al di là
dei complimenti e delle espressioni di solidarietà. Il senatore comunista Pecchioli
parlando di «corpo atipico» in riferimento alle forze armate accoglie la filosofia del
cittadino in divisa come «diverso». Ed è la stessa filosofia che ispira il regolamento e le
gerarchie che lo applicano. Eccone la conferma. «Fino a quando il Parlamento e il
Governo non mi daranno strumenti per mantenere la disciplina nelle forze armate, per
me sono sempre validi il regolamento di disciplina e il codice militare di pace [...] chi
sceglie liberamente di venire a fare il militare, sa in partenza che deve rinunciare,
almeno in parte, ai diritti costituzionali del cittadino». Sono parole del generale di
divisione aerea Piero Piccio vicecomandante della prima regione aerea (che comprende
tutto il Nord, fino a una linea che va da La Spezia a Falconara), pronunciate nel corso di
un'intervista al settimanale «Epoca» dell'aprile 1976 in occasione della prima giornata
nazionale di lotta per la riforma delle forze armate indetta dal Coordinamento nazionale
sottufficiali democratici il 27 marzo del '76.
Il generale Piccio vuol dire che chi decide per propria scelta di fare il militare di carriera
decide anche di essere un cittadino diverso, si colloca cioè in una specie di zona franca
della comunità nazionale in cui il cittadino non è tutelato, almeno in parte, dalla
Costituzione repubblicana. È lo stesso concetto di « corpo atipico » sostenuto dal
senatore comunista Pecchioli. Nella medesima intervista ad «Epoca» alcuni sottufficiali
del Coordinamento replicano al generale: «Già, la libera scelta. Come se uno a diciotto
anni sapesse chiaramente che cosa vuole fare. Per l'80 per cento noi proveniamo dal
Centro-sud. Il che significa famiglie povere, niente cultura, nessuna preparazione. E in
queste condizioni, a un ragazzo che cosa resta da fare?»
Dicono: «non sapevamo che cosa ci aspettava quando ci siamo arruolati e lo abbiamo
fatto per necessità». Sono giustificazioni che possono avere rilievo sociologico, ma sul
piano giuridico il discorso del generale Piccio non fa una grinza. Dice la verità: per lui
conta il regolamento. Quello in vigore, emanato con decreto presidenziale nel 1964 e
firmato dall'allora ministro della difesa Giulio Andreotti, non fa alcun riferimento alla
Costituzione repubblicana, mentre il preambolo si richiama soltanto a una legge
fascista. Dice: «Il presidente della Repubblica VISTO l'art. 38 del Codice penale militare
di pace; SENTITO il Consiglio Superiore delle forze armate; SULLA PROPOSTA del
Ministro per la Difesa; DECRETA: è approvato l'annesso regolamento di disciplina
militare, visto dal Ministro della Difesa».
Tale regolamento contiene, come vedremo, numerose norme che sono palesemente in
contrasto con la Costituzione: ma non potrebbe essere diversamente dato che il
preambolo si riferisce soltanto all'articolo 38 del codice penale militare di pace
approvato il 20 febbraio del 1941 «con decreto di Sua Maestà Vittorio Emanuele III Re
d'Italia e Albania, imperatore d'Etiopia, sulla proposta del Duce del Fascismo, Capo del
Governo, Ministro della Guerra della Marina e dell'Aeronautica».
11 PARTE PRIMA IL MILITARE DIVERSO I militari di carriera, al momento di arruolarsi, dovevano sapere che cosa li aspettava,
secondo il generale Piccio, e non dovrebbero protestare a posteriori: a scuola, però,
nell'ora di educazione civica, viene studiata, con minore o maggiore efficacia secondo
l'insegnante, la nostra Carta costituzionale. Non si fa lezione sul codice militare di pace,
tantomeno sul Regolamento-Andreotti, tantomeno ancora sulla bozza-Forlani del luglio
1975 che propone un nuovo regolamento di disciplina. Chi si arruola ha potuto
conoscere la Costituzione, non i decreti presidenziali che la ignorano.
Entrando in caserma, maturando giorno per giorno lo stillicidio di vessazioni, di
limitazioni della libertà personale, di punizioni, di soprusi, tutti legittimi a norma di
regolamento, il militare di carriera scopre come una sorpresa la propria condizione di
diverso per ciò che riguarda i diritti civili.
La Costituzione, per chi a scuola l'ha conosciuta, non contempla questa diversità.
All'articolo 52, incluso nel Titolo quarto - rapporti politici, parla delle forze armate e del
«sacro dovere del cittadino» di difendere la patria. Lo stesso articolo dichiara che il
servizio militare «non pregiudica la posizione di lavoro del cittadino, né l'esercizio dei
diritti politici» e che «l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico
della Repubblica». Un regolamento, quindi, che limita il diritto di associazione, che vieta
ai militari di esprimere liberamente il loro pensiero e così via, non può che fare a pugni
con il dettato costituzionale: e il preambolo Andreotti del '64 si riferisce a una legge
fascista, non alla Costituzione repubblicana.
L'aspetto più interessante, però, dell'articolo 52 è che esso non delega al cittadino in
divisa la difesa della patria: parla invece di «sacro dovere del cittadino» sia o non sia
militare. La Costituente si era preoccupata di non configurare le forze armate come un
corpo separato avulso dalla società civile: pensava invece a un'organizzazione nata da
quella società e perciò ad essa strettamente collegata, retta dai principi democratici
dell'ordinamento giuridico dello Stato repubblicano. Invece la legge, a cui fa riferimento
il regolamento di disciplina militare è ancora quella fascista.
Dagli atti dell'Assemblea costituente emerge la preoccupazione dei patres di dare
all'ordinamento militare un assetto completamente diverso rispetto a quello del passato
regime: emerge la volontà di fare delle forze armate un vero «esercito di popolo»,
organizzato in maniera democratica dove la circolazione delle idee e la consapevolezza
di essere parte di un corpo non sganciato dalla società civile pongano i militari al riparo
da tentazioni autoritarie.
La contraddizione è ovvia: il regolamento che discendeva da leggi fasciste parte dal
presupposto che i principi democratici non si accordano con l'esigenza di funzionalità
Alle forze armate, mentre la Costituzione afferma categoricamente che l'«ordinamento
militare si informa allo spirito democratico della Repubblica». Sono due filosofie
inconciliabili che coabitino nella nostra giurisprudenza.
12 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO PARTE SECONDA
COME NASCE IL MOVIMENTO
Le prime lotte
Hanno cominciato i soldati di leva negli anni 1971-72 a mettere in discussione
l'ordinamento militare. Ventenni che arrivano sotto le armi già politicizzati si trovano
invischiati in strutture rigide, spesso repressive, ancorate a vecchie regole, aggiornate
solo in piccola parte. Scoprono che esiste un abisso fra il mondo della scuola o della
fabbrica e quello della caserma.
Così gli estremisti, gli extraparlamentari in divisa cominciano a partorire una serie di
slogan del tipo «la libertà non vogliamo cercarla solo fuori della caserma, la vogliamo
anche dentro» oppure «Naja uguale a repressione sessuale più qualunquismo». Ma il
disagio fra i soldati di leva supera presto i limiti dell'infantilismo e dell'estremismo
politico: si manifesta attraverso lettere ai giornali, scioperi della fame, casi di
insubordinazione non violenta che finiscono per raddoppiare la media delle presenze
nel carcere militare di Peschiera.
Poi scendono in campo i sergenti e i marescialli dell'aeronautica che sono 35.000 su un
totale di 96.000 sottufficiali.
All'inizio del '75 a Milano e a Roma nascono le prime forme di coordinamento, comitati
aventi lo scopo di affrontate í problemi economici e normativi dei sottufficiali. Ben presto
il discorso si allarga al regolamento di disciplina e alla funzione delle forze armate. « In
tutti noi - dicono - c'era la volontà di colmare la frattura esistente tra caserma e società».
Si pone subito il problema del collegamento fra le diverse sedi: è impossibile usare il
telefono o le telescriventi per comunicare. Inoltre cominciano a circolare gli uomini del
Sios (Servizio interno operazioni segrete) che spiano ogni movimento dei sottufficiali
sospetti. Presto le comunicazioni non sono più un problema: ha cominciato a funzionare
radio-scarpa, un sistema di staffette, interne ed esterne, rapidissimo e sicuro. «Sono
mezzi da carboneria - commenta una staffetta - ma indispensabili. In questi giorni non ci
si può avvicinare al telefono, senza vedersi subito un'ombra alle spalle che controlla».
Radio-scarpa è efficace. Funzionerà perfettamente nel giugno e nel luglio del 1975,
quando avviene la svolta decisiva per i sottufficiali, quando dilaga simultaneamente in
tutti gli aeroporti d'Italia la protesta per l'arresto e la successiva condanna del sergente
dell'aeronautica Giuseppe Sotgiu. È il momento decisivo per la crescita del movimento
che da quella estate si allarga in tutta l'aviazione militare.
13 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Il caso Sotgiu
Giovedí 26 giugno 1975, Roma: circa trecento sottufficiali dell'aeronautica militare si
radunano a piazza Venezia per una manifestazione di protesta: chiedono la modifica
del metodo di avanzamento nel grado, indennità di volo, di controllo, di mensa, turni di
servizio meno gravosi, insomma tutta una serie di rivendicazioni a carattere economico
e normativo. È una delle poche manifestazioni, per lo più pacifiche, ordinate, senza
slogan e cartelli che i sottufficiali dell'aeronautica hanno tenuto in questi mesi. «Questa
volta però entrano in scena le cineprese e le macchine fotografiche dei carabinieri riferisce sul "Corriere della Sera" Giampaolo Pansa. - Non ci sono assassini da
scoprire, ma in compenso ci sono un po' di sergenti da sorvegliare e magari da
schedare e trasferire. Uno dei sorvegliati, il Sotgiu, se la prende con gli operatori che si
qualificano chi giornalista, chi appassionato di fotografia. Quando il sottufficiale si ribella
e scopre di avere di fronte militari e ufficiali dei carabinieri, è troppo tardi: finisce dentro
accusato di insubordinazione pluriaggravata contro superiori (la pena va da cinque a
dodici anni di galera)».
Giuseppe Sotgiu viene trasferito in attesa di processo, al carcere di Forte Boccea. Vi
rimarrà fino al 4 luglio quando si presenterà in aula. Nel frattempo la risposta dei suoi
colleghi dilaga a macchia d'olio. Ecco alcuni flash dai giornali di quei giorni.
30 giugno, Treviso: «Quattrocento sottufficiali della base aerea militare di Istrana hanno
inscenato una clamorosa manifestazione svoltasi tuttavia compostamente e
correttamente. In sostanza i militari hanno rifiutato il rancio distribuito alla mensa
sottufficiali e che di conseguenza è andato perduto costringendo inoltre
l'amministrazione militare a rimborsare le spese di vitto. La protesta avrebbe interessato
quattrocento dei seicentocinquanta sottufficiali in servizio. Una delegazione si è portata
presso le sedi delle federazioni provinciali del Pci e del Psi illustrando le motivazioni
della protesta» (dal «Corriere della Sera»).
30 giugno, Novara: «I duecento sottufficiali della base aerea di Cameri hanno fatto lo
sciopero della fame per protestare contro l'arresto del sergente Giuseppe Sotgiu [...]. Le
notizie che filtrano dalla base di Cameri sono molto scarne perché c'è il timore di
conseguenze. Si sa comunque che tutti i sottufficiali hanno aderito alla manifestazione
di protesta rinunciando al cibo della mensa » (dal « Corriere della Sera»).
30 giugno, Pordenone: «Per solidarietà con il sergente Giuseppe Sotgiu, una ventina di
sottufficiali del poligono di tiro dell'aviazione militare di Maniago hanno messo in atto lo
sciopero della fame» (dai «Corriere della Sera»).
3 luglio: « ... anche ieri è proseguita in parecchi reparti, in ogni parte del paese - anche
a Rivolto, sede della pattuglia acrobatica nazionale - l'astensione dalle mense; mentre
sono continuate le riunioni a sostegno delle rivendicazioni di carattere morale ed
economico della categoria. Il fatto nuovo della giornata che potrebbe portare allo
sblocco o almeno in parte a un allentamento dell'agitazione è stata la convocazione, da
parte dello stato maggiore dell'aeronautica di una settantina fra marescialli e sergenti, in
rappresentanza di tutti i reparti in servizio. I sottufficiali sono stati ricevuti dal generale
14 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Pesce, sottocapo di stato maggiore [...). Manifestazioni di protesta si sono avute alla
base aerea Nato di Vicenza e presso il gruppo intercettatori di stanza a Chioggia» (dal
«Corriere della Sera»).
4 luglio, Milano: proprio il giorno in cui Giuseppe Sotgiu deve comparire in aula, si tiene
un'assemblea al circolo sottufficiali dell'aeroporto di Linate. «Il maresciallo presidente
della mensa - riporta "Il Giorno" -, di ritorno ieri sera da Roma, dove ha partecipato
all'incontro con il sottocapo di state maggiore generale Giuseppe Pesce ha riferito ai
sottufficiali dipendenti dal comando di Linate sui risultati dei colloqui. I risultati - ha detto
un sottufficiale interpellato - sono completamente negativi: qualche generica proposta in
merito alle rivendicazioni e niente di più. Abbiamo perciò deciso di continuare la
protesta studiando forme di lotta sempre più efficaci, quale potrebbe essere l'astensione
dal lavoro». Per la prima volta, dunque, nelle forze armate italiane, disciplinate secondo
il principio dell'«obbedienza pronta e assoluta», compaiono forme embrionali di
rappresentanza che trattano con i superiori. C'è chi lo considera un avvenimento
rivoluzionario, e in un certo senso lo è: così come la minaccia di sciopero dei militari,
che in Italia non ha precedenti. L'astensione dal lavoro dei sottufficiali significherebbe la
paralisi completa degli aeroporti. Dice un militare: «se si fermerà il lavoro in un certo
ufficio della Malpensa sarà impedito il traffico aereo di mezza Europa. Ufficialmente
daranno la colpa a motivi tecnici. Invece sarà il nostro sciopero a bloccare tutto [...].
Sotgiu deve tornare libero».
I militari esigono la liberazione del compagno e la relativa assoluzione, così come il
blocco dei trasferimenti con i quali si tenta di dividere gli animatori della protesta. La
macchina della repressione, dopo la prima sorpresa, comincia a mettersi in moto. Due
giorni prima a Linate, un sergente maggiore e un maresciallo sono stati trasferiti. A
piazza Novelli (sede del comando della prima regione aerea, a Milano) gira tra gli
ufficiali superiori una lista con trentacinque nomi sospetti.
L'elenco delle reazioni potrebbe continuare a lungo: l'arresto di Sotgiu è la scintilla che
fa divampare l'incendio. Gli aspetti che più colpiscono l'opinione pubblica, oltre alla
vastità della protesta, sono la simultaneità della reazione e l'omogeneità delle forme di
lotta (lo sciopero della mensa) in tutto il territorio nazionale. Ciò prova la maturità e
l'organizzazione raggiunte in pochi mesi da un movimento di cui poco o niente era noto
fuori dalle caserme.
4 luglio, Roma: comincia il processo. I colleghi del militare incriminato hanno chiesto al
professor Giuseppe Sotgiu (omonimo del sergente) di assumere la difesa. II penalista
chiede e ottiene il rinvio della causa per pochi giorni: fino a martedí 8 luglio. Nel
frattempo conta di incontrarsi in carcere con il sergente. Nell'aula del tribunale militare di
viale delle Milizie, mescolati tra la folla, una ventina di sottufficiali: a conclusione della
breve udienza scendono quasi di corsa le scale per poter salutare all'uscita il loro
compagno che viene ricondotto al carcere di Forte Boccea. Uno di loro dice ai
giornalisti: «È innocente, c'eravamo anche noi in piazza Venezia e sappiamo come
sono andate le cose [...] ma non possiamo testimoniare altrimenti rischiamo la stessa
sorte. Sarebbe un inutile suicidio. Dovremmo venire qui in aula in trecento martedí
prossimo e questo non è possibile. Ma qualcosa senz'altro faremo». Si ritorna a parlare
di sciopero nelle basi aeree.
15 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO 8 luglio, Roma: in via delle Milizie, alle 9 si apre l'udienza. I difensori chiedono che il
tribunale rinunci al rito per direttissima per poter aver modo di approfondire meglio tutti
gli aspetti del processo (tra le richieste: vedere i filmati che i carabinieri avevano girato
quel pomeriggio; cercare con più calma i testimoni in grado di raccontare come si sono
svolti i fatti; ascoltare la deposizione di altri carabinieri in borghese che si trovavano a
piazza Venezia per filmare i manifestanti). La corte risponde che tutto si sarebbe dovuto
svolgere in giornata. C'è fretta insomma di chiudere il caso in modo da arginare
l'agitazione nelle basi aeree. «Una decisione che non serve a nulla - commenta il
professor Sotgiu - e che soprattutto non serve la giustizia ».
Verso le 13 inizia la requisitoria del pubblico ministero Scandurra con una difesa del
«codice militare di pace» definito «proiettato verso il futuro» (è datato 1941: e porta la
firma di Benito Mussolini!) Il pubblico ministero presenta il sergente come «un emotivo
che sotto una spinta delinquenziale si è posto in contrasto con l'autorità del maggiore
dei carabinieri ». Per poter sostenere la tesi di un Sotgiu «impulsivo, riottoso,
detonatore di una situazione incandescente », il pubblico ministero non esita a
contrapporlo alla massa dei colleghi paragonati da lui a «timide giovanette che quasi si
vergognavano di essere lí» e che a un certo punto si «sarebbero adunati davanti
all'Altare della Patria volgendo lo sguardo al simulacro e le spalle alla piazza, al
sindacalismo, agli extra». (Seguiamo questa requisitoria nel dettaglio perché è
sintomatica della filosofia che ispira la giustizia militare e del linguaggio in uso presso i
tribunali con le stellette). Dopo aver sferrato un ulteriore, inesatto attacco all'imputato
«giunto qui dalla natia Sardegna con la sola licenza elementare» (in realtà il sergente
ha conseguito un diploma professionale di elettromeccanico) e dopo aver sostenuto che
Sotgiu era l'« anima nera» di quella manifestazione, un trascinatore rissoso che aveva
fatto degenerare quella forma di protesta, Scandurra chiede la condanna a tre anni con
le attenuanti generiche.
Prendono la parola i difensori Marotta e Sotgiu, che puntano il dito su tre fatti: primo, la
mancanza della certezza che Sotgiu abbia udito i carabinieri qualificarsi come tali (tre
ufficiali dei carabinieri hanno giurato che il sergente urlò, rivolto a loro «buffoni, fate
schifo» ben sapendo chi fossero nonostante gli abiti civili: di qui l'arresto, con tanto di
pistola in pugno per paura della reazione dei compagni); secondo, che se anche Sotgiu
avesse pensato al Sid, bisogna tenere conto che «questo nome suona ormai molto
male nelle orecchie di tutti gli italiani a causa delle irregolarità che sono saltate fuori in
questo istituto»; terzo, che il fatto accaduto non riveste carattere militare riguardando il
diritto di tutti i cittadini a difendere i loro interessi. « Se scioperano i magistrati, non c'è
da scandalizzarsi se i sottufficiali hanno rivendicazioni economiche da sollecitare», dice
l'avvocato Marotta. I magistrati, però, non portano le stellette e non sono considerati
diversi come chi le porta.
Dopo tre quarti d'ora di camera di consiglio, la sentenza: «una condanna a due anni di
reclusione con la sospensione della pena per cinque anni» e l'ordine d'immediata
scarcerazione dell'imputato. Nonostante la condanna Sotgiu è libero e può riprendere
servizio.
La prima reazione è un applauso della durata di cinque minuti, ma non è di
approvazione: «Ci è scappato per la contentezza di vedere Sotgiu libero, - spiegano i
16 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO suoi compagni, - non era certo diretto alla sentenza contro cui gli avvocati della difesa
hanno già presentato appello. È stato un compromesso per salvare capra e cavoli».
La condanna di Sotgiu acuisce il malcontento dei sottufficiali è il titolo del « Corriere
della Sera » del giorno dopo. Qualcuno sperava che la liberazione del sergente
gettasse acqua sul fuoco, invece capita l'opposto. Riunioni in quasi tutti gli aeroporti,
ondata di proteste; telefonate ai giornali come questa: « qui l'aeroporto di Rivolto, quello
della pattuglia acrobatica nazionale: la condanna spezza la carriera di Sotgiu che sarà
costretto a lasciare il servizio senza neppure la pensione; non la possiamo accettare,
stiamo preparando qualcosa di grosso ».
Da Cagliari i sottufficiali di stanza in Sardegna, la regione di Sotgiu, annunciano una
manifestazione in piazza del Carmine: « è assurdo - dicono - che si sia applicato il
codice militare per reati commessi durante una pacifica manifestazione per questioni
economiche e normative: con la condanna di Sotgiu si vuole colpire tutto il movimento
che è nato spontaneamente nelle caserme».
A Linate dicono: «Vogliamo battere il ferro finché è caldo. Le promesse non ci bastano
più ». Questa volta si muovono anche i sindacati, sino ad allora piuttosto tiepidi rispetto
a quanto avviene nelle caserme: «La protesta ormai diffusa fra i militari di leva e anche
fra i militari di carriera - dice un comunicato della Federazione metalmeccanici di Milano
- è il sintomo del rifiuto di una concezione esclusivamente autoritaria delle forze armate
che opera una netta frattura fra il militare e il cittadino, fra le forze armate e il paese.
venendo meno al dettato della Costituzione che vuole l'adeguamento delle forze armate
allo spirito democratico della Repubblica, nata dalla Resistenza». Tanta indignazione,
solidarietà, impegni solenni, ma per lungo tempo ancora i militari rimarranno soli nelle
loro battaglie.
Dopo il caso Sotgiu sono avvenute numerose altre vicende analoghe: questa è stata la
prima, la più clamorosa, che ha dato ai sottufficiali la coscienza della propria forza e che
ha suonato la prima sveglia ai partiti e ai sindacati. Una storia politica cominciata con un
ragazzo sardo di venticinque anni che aveva risposto male al carabiniere in borghese
che lo stava spiando. Forse nemmeno lui si è reso conto del perché di tanto clamore:
certamente non sua madre Bibbiana, commossa, confusa, in lacrime alla lettura della
sentenza. Per assistere al processo ha lasciato per la prima volta il paese dov'è sempre
vissuta, Osidda, provincia di Nuoro, ma non ha capito molto: ha sentito Scandurra
pronunciare cose terribili sul conto del ragazzo, « rissoso », « anima nera » e così via.
Chissà di quali colpe si è macchiato? Ma ora è libero e questo le basta: ora può tornare
tranquillizzata in Sardegna dove l'aspettano nove figli.
La vita di Giuseppe Sotgiu è molto simile a quella di tanti altri commilitoni: è una storia
di famiglie numerose e di tanta miseria, una povertà che solo alcune zone della
Sardegna conoscono a fondo. A Osidda, nel nuorese, Giuseppe Sotgiu ha passato tutta
l'infanzia in una famiglia dove le donne erano in netta maggioranza (due fratelli, sei
sorelle. Lui era il primogenito). Ha fatto le elementari al paese. Poi, racconta con un pò
di rimpianto, «avevo anche ricevuto una borsa di studio per le medie, ma i soldi per
proseguire gli studi chi ce li dava?»
«Così la mia scelta è caduta su una scuola professionale che garantiva un posto nelle
grandi fabbriche del Nord». Quattro anni di sveglia alla mattina alle 6 per andare a
scuola a Bitti, un paese distante qualche chilometro da Osidda e mal collegato, quattro
17 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO anni di pomeriggi passati tra lo studio e il lavoro («ormai c'ero abituato: da quando
avevo nove anni aiutavo mio padre bracciante nei campi dei signorotti della zona»). Poi
il diploma di elettromeccanico e l'incertezza del futuro. Una sola cosa certa: il lavoro in
Sardegna non c'era e anche lui, come due delle sorelle emigrate in settentrione a fare le
cameriere, avrebbe trovato da sfamarsi in qualche periferia industriale.
«Poi, a diciassette anni, mi venne in mente l'aeronautica, un'occasione d'oro secondo
mio padre». Una domanda, e nel giugno del 1969 va a fare l'operatore telex a Taranto.
«Per 18 mesi a 9.500 lire mensili, - racconta, -come se non bastasse l'obbligo di dire
sempre si a qualsiasi stupidaggine. Di essere uno sfruttato mi sono reso conto subito,
avrei voluto tornare in Sardegna ma per non dare un dispiacere ai miei sono rimasto».
Così Sotgiu si è fatto parecchi anni nell'aeronautica, mandando giù bocconi amari come
fanno molti suoi colleghi; altre volte ha reagito contro quelle che gli sembravano le
ingiustizie della disciplina militare. «Chi dice che ho la capoccia dura - è il sardo
orgoglioso che parla - non ha capito niente di me, io credo soltanto di avere una dignità
di uomo che m'impedisce d'obbedire sempre e ciecamente anche agli ordini più
assurdi». È con queste convinzioni che giovedí 26 giugno 1975 si era recato in piazza
Venezia, per dimostrare civilmente assieme a centinaia di colleghi il proprio
malcontento. «In questi anni, in continente, ho capito che si può lottare contro una
realtà ingiusta - conclude Giuseppe Sotgiu. - In Sardegna questo non lo sanno ancora,
cullati come sono da preti e padroni che vogliono far continuare il sonno di un popolo
che dorme da troppi anni. È proprio lí che voglio tornare».
18 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Un sergente di colore
Pochi mesi dopo, sempre a Roma, avviene il bis del caso Sotgiu. Il protagonista, questa
volta, è un ragazzo di colore, nato all'Asmara, ventisette anni fa, da padre italiano e
madre eritrea. Era la fine di settembre del 1975: giornate tragiche per il suo paese
d'origine, dove sempre più aspra era la lotta fra gli abissini e i partigiani eritrei. Augusto
Mauri si era recato all'aeroporto per attendere un aereo militare che trasportava
profughi italiani che rimpatriavano dall'Asmara in seguito alla guerra civile. Sperava di
incontrare la madre o altri parenti dei quali non aveva notizie. Secondo l'accusa, Mauri
avrebbe rifiutato di appuntarsi una coccarda tricolore che gli veniva offerta da gente che
attendeva í profughi. Avrebbe reagito con veemenza a chi gli ricordava che «tutto
sommato noi ti sfamiamo», sottolineando che il suo mestiere di soldato di carriera era
dovuto più a esigenze di lunario che non a vocazione. L'accusa sostiene che il giovane
di colore fu sentito gridare a più persone queste frasi: «sono un militare rivoluzionario,
della divisa che porto non so che farmene; questa divisa ce la fanno indossare per
fame».
Mauri si giustifica sostenendo che il senso delle sue parole è stato totalmente travisato.
«Aspettando l'aereo, sentii delle persone che parlavano male della mia gente. Dicevano
che gli etiopici facevano bene a tenerci sotto il tallone e che era un peccato che ai suoi
tempi Graziani non avesse avuto sufficienti gas asfissianti, altrimenti l'Eritrea sarebbe
stata ancora italiana. Intervenni nella discussione. Dissi che i fascisti avevano fatto
strade e case ma le avevano costruite sfruttando gli eritrei. Alcuni si meravigliarono del
fatto che un negro potesse indossare la divisa dell'aeronautica militare. Ribattei che ero
stato costretto a portare l'uniforme per non morire di fame, perché non ero riuscito a
trovare un lavoro migliore».
Non staremo qui a ricostruire il processo né la grande mobilitazione nei luoghi militari
che ne è derivata, con scioperi delle mense e così via, proprio come avvenne per
Sotgiu1. Ci limiteremo a ricordare un'eccezione significativa avanzata dalla difesa di
Mauri, composta dal deputato socialista Loris Fortuna e dai radicali De Cataldo e
Mellini: «Riproporremo - disse Mellini - le solite e molteplici questioni di incostituzionalità
che riguardano l'esistenza dei tribunali militari insieme ad un'altra eccezione inedita. Il
reato di grida sediziose è già previsto dal codice civile e non lo si può discutere in un
tribunale militare soltanto perché l'accusato porta le stellette. Sarebbe come introdurre il
reato di adulterio militare per i soldati che tradiscono la moglie. È un assurdo».
1
L'udienza venne sospesa per un'ordinanza della Corte che imponeva nuovi accertamenti e l'escussione
di testimoni residenti all'estero (uno in Australia). Uno stratagemma, secondo Mauro Mellini, per evitare
un processo politico che, a metà 1977, non si è ancora celebrato.
19 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Un sergente anarchico
Un militare che ha avuto un ruolo di primo piano nelle manifestazioni di solidarietà per
Augusto Mauri è Giovanni Maggi, ventinove anni, laziale, sposato, una figlia di due anni,
sergente maggiore in servizio all'infermeria di Ciampino.
Andiamo a trovarlo una mattina, a casa, in una borgata romana vicino all'aeroporto. Sta
dando la prima colazione alla bambina. La moglie è andata al lavoro. Abbiamo la
sorpresa di trovare tutte le pareti tappezzate da manifesti anarchici, pacchi di «Umanità
Nuova», volantini, ritratti di Bakunin e Malatesta. Gli anarchici non sono certo ben visti
dalle gerarchie militari ed è abbastanza curioso che un giovane di idee libertarie così
evidenti porti la divisa. È per lo meno in contraddizione con la tradizione antimilitarista
dell'anarchismo. Maggi sorride divertito, quando gli chiediamo se possiamo fare il suo
nome scrivendo queste cose o se preferisce le iniziali per evitare punizioni e grane.
Risponde di avere ormai tre denunce, che di lui sanno tutto e che non ha nulla da
perdere.
Ma un anarchico come si sente in divisa? «Non l'ho mica indossata per libera scelta: ho
dovuto, per necessità. La toglierei se qualcuno mi trova un posto sicuro». E mi racconta
la sua storia, simile a quella di tanti altri sottufficiali, con la parlata colorita della
provincia laziale.
«Vengo da Bassano Romano dove son tutti contadini: anche i miei lo erano, tranne mio
padre invalido che fa l'usciere all'università. Son posti quelli dove fai il contadino e la
fame, o emigri; e dove vai con questi chiari di luna? A fare il militare o a fare il
delinquente. A diciotto anni ho presentato due domande, una alla polizia e una
all'aeronautica, perché avevo visto quei bandi di concorso che ti promettono mari e
monti: della fregatura ti accorgi dopo».
Quando ha cominciato, Maggi, ad occuparsi di politica? «Andavo sempre alla facoltà di
medicina: quando è nata la contestazione mi sono fatto prendere la mano. Dal contatto
con gli studenti del Sessantotto è nato il mio interesse per la politica, la mia ansia di
partecipazione. Tanto, si pensava allora, è impossibile cambiare le forze armate:
cerchiamo di realizzarci in altro modo. Come me, tanti altri». Un anarchico dovrebbe
volere l'abolizione di tutti gli eserciti: Maggi, lavorando per il Coordinamento dei
sottufficiali, si batte per cambiarli o per abolirli?
«Dato che ci sono le forze armate, lavoriamo per cambiarle portandoci la politica dentro.
È vero che la nostra protesta è nata da rivendicazioni di tipo economico ma poi si è
capito subito che il problema era politico. Non vogliamo una democratizzazione in
senso generico come quella che propongono i comunisti con i quali spesso i nostri
rapporti sono tesi: devono capire anche loro che vogliamo essere considerati lavoratori
prima che militari, uomini, cittadini che lavorano. L'essere militari è una qualità
accessoria. Vogliamo libertà di associazione, di stampa, di movimento, di dibattere, non
vogliamo più restrizioni, tribunali speciali, Cps, Cpr, galere militari, codici militari, giudici
militari. Basta, andare in galera per un regolamento che nulla ha a che fare con la
Costituzione, basta essere puniti senza possibilità di difesa... »
20 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Ma in aeroporto, Giovanni Maggi dice apertamente le stesse cose e in questi termini?
«Certo, ed è proprio per i discorsi che facevo con i colleghi più politicizzati che mi sono
beccato, sia pure sotto altri pretesti, dieci giorni di rigore nell'ottobre del '74, che sono
stato più volte punito, trasferito e tenuto in libertà vigilata a partire dal gennaio del '75.
Ero a Montecavo, presso Rocca di Papa, dal '69: poi il colonnello si è rotto le scatole di
me e ha trovato il modo di trasferirmi all'infermeria di Ciampino, presso il 15° stormo,
dove venivo controllato in maniera assurda. Una volta hanno punito un sergente perché
non mi sorvegliava con abbastanza cura. Quando stavo per uscire dovevo prima
presentarmi al sottufficiale d'ispezione e, se rimanevo fuori, dovevo dire dov'ero. Anche
da Ciampino, però, presto mi volevano cacciare. È avvenuto proprio dopo il caso Mauri.
Avevo letto un telegramma di solidarietà nell'assemblea di una fabbrica occupata, la
Liton, sulla via Cristoforo Colombo. Il comandante del 15° stormo colonnello Poponi,
predispose un'inchiesta; fu il momento di crescita più grossa del reparto. Si trattava di
solidarizzare con un collega messo in galera per un reato d'opinione. Gli stessi
marescialli anziani dicevano: ma non vi rendete conto che sono quarant'anni che ci
hanno messo i piedi in testa? Fatto sta che hanno proposto il mio trasferimento dal 15°
stormo all'infermeria del Comando».
E le denunce? Giovanni Maggi prima ne accennava a tre. «Ci sono tutte: la prima il 26
marzo del 1976 per concorso in manifestazione aggravato. Ero in macchina a
megafonare le solite cose, mi hanno visto e punito. La seconda, il 25 aprile mattina
dello stesso anno a Ciampino paese (30.000 abitanti) per essere salito sul palco dove
gli esponenti di tutti i partiti ricordavano la Resistenza. Ho solamente annunciato che il
pomeriggio i militari del Coordinamento avrebbero deposto. durante una manifestazione
ufficiale alla Basilica di San Paolo, una corona ai caduti. La terza, il 25 aprile pomeriggio
per essere andato a deporre la corona stessa».
C'è una richiesta di rinvio a giudizio da parte del procuratore militare Scandurra, quello
del processo Sotgiu, per «concorso in manifestazione e per partecipazione a
manifestazione politica». Se non la divisa militare, almeno il fatto di essere
pluridenunciato, spesso agli arresti e sottoposto a libertà vigilata rientra nelle tradizioni
dell'anarchia: la coscienza libertaria di Maggi è a posto. Un'ultima domanda: quanto
guadagna? «Sono un sergente maggiore, con figlio a carico,dieci anni di anzianità.
Stipendio 280.000 lire: ultima tredicesima, dove molte indennità non contano come per
la liquidazione, lire 89.000».
21 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Nell'aeroporto degli Hercules
La base di San Giusto, a Pisa, dov'è di stanza la 46ª aerobrigata, accoglie tutti i
quattordici aerei Hercules acquistati dalla Lockheed che sono al centro del più
clamoroso scandalo di Stato della storia della Repubblica. Ora sono tredici perché uno
di questi gioielli da decine di miliardi è andato a schiantarsi contro una montagna il 3
marzo del '77 con a bordo quarantaquattro allievi. Su tredici ne volano soltanto cinque,
per mancanza di pezzi di ricambio. « Forse i 7000 chilometri di autonomia servono per
andare a prendere i pezzi in America », è la battuta che circola nella base a proposito
dell'acquisto di questi aerei non da ora giudicati inutili per le esigenze della nostra
aeronautica: tant'è vero che si vedono decollare e atterrare quasi soltanto i vecchi
C-119.
Il fatto che nella base pisana, anche prima della tragedia dell'Hercules schiantato e
prima dello scandalo, si discutesse abbastanza liberamente e con spregiudicatezza di
queste cose, si spiega con le vicende dei militari di una base che costituisce (come già
abbiamo detto) la punta di diamante del movimento: a Pisa circola la voce che gli alti
comandi intendano smembrare la 46ª a aerobrigata (così scomoda anche se di elevata
specializzazione) mandandone una parte di qua una parte di là, disperdendo per tutta
l'Italia questo nucleo di militari così unito e omogeneo.
A Pisa, come nelle altre basi, il Coordinamento sottufficiali democratici ha cominciato a
prendere consistenza nel 1975, anche se il dibattito politico era cominciato anni prima
all'interno della base con relative sanzioni disciplinari. Anche a Pisa, la risposta alle
condanne di Giuseppe Sotgiu e di Augusto Mauri, lo sciopero della mensa e altre forme
di lotta non violenta sono stati momenti decisivi per lo sviluppo del movimento. La presa
di coscienza dei militari pisani, però, ha una data di nascita ben precisa, l'11 febbraio
del 1976, quando il capo di stato maggiore dell'aeronautica, generale Ciarlo, giunge alla
base per incontrare i sottufficiali. Svolge la relazione e chiede ai presenti di replicare:
nessuno si fa avanti. «Qualcuno domanda a un accompagnatore del generale se questi
è disponibile per uno scambio di idee più ristretto, ad incontrarsi cioè con una
delegazione - spiega l'avvocato di Písa Arnaldo Massei che difende i sottufficiali.
Delusi e irritati dalla relazione del generale, non volevano esporsi alle misure repressive
che sarebbero scattate automaticamente se avessero espresso con sincerità tutta la
loro insoddisfazione ». A sua volta, il generale, contrariato, abbandona l'assemblea.
«Certo, chiedevamo anche l'adeguamento degli organici e delle competenze, ma non
soltanto misure normative ed economiche. Mettevamo sul tappeto soprattutto il
problema dei comportamenti, dei rapporti con i superiori. Chiedevamo chiarimenti su
certi episodi mai dimenticati come gli schiaffi che un nostro collega si buscò da un
tenente colonnello mai punito», spiega un militare che vuole restare anonimo.
«Gli 825 sottufficiali di San Giusto - continua - hanno fatto sentire la loro voce più volte,
in tanti modi e sempre correttamente, finché non arriva da Roma il capo di stato
22 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO maggiore generale Ciarlo, ci convoca tutti in assemblea per darci le solite vaghe
assicurazioni... »
Il generale se n'è appena andato con il suo seguito quando prende la parola il sergente
maggiore Pasquale Totaro il quale spiega le ragioni del silenzio. Per quello che dice
scatta una denuncia alla Procura militare: «ingiuria nei confronti di superiore assente».
Per il fatto di aver continuato a discutere scatta la denuncia per «adunata arbitraria».
«Alchimie accusatorie, - commenta l'avvocato Massei, se il processo si farà dovrà
trasformarsi in un processo contro questo codice militare».
Ma che cosa aveva detto di tanto grave Pasquale Totaro? Non eravamo presenti e non
possiamo testimoniare. Stiamo ai documenti giudiziari. Dal verbale dell'interrogatorio del
18 marzo 1976 in sede di istruttoria, Totaro: «Nel mio discorso non dissi "tutto quello
che ha detto il capo di stato maggiore sono puttanate". Ritengo che ciò sia stato riferito
da qualcuno che ha assistito al mio intervento e che, avendo a mente la sostanza del
mio discorso, ha fatto uso di termini di sintesi del tipo di quelli contestatimi». Più avanti
Totaro, a domanda risponde: «escludo di aver usato espressioni analoghe del tipo di
quelle contestatemi, quali "il Capo di Stato Maggiore ha detto cazzate" ».
Fatto sta che l'indomani viene diffuso un volantino a cura del Coordinamento
democratico sottufficiali di Pisa, nel quale vengono motivate le ragioni della mancata
replica a Ciarlo: ecco una parte del testo: «Il discorso da lui fatto non permetteva
discussioni se non in termini di offesa per mancanza di verità. Se noi guardiamo al
passato e vediamo quante altre volte, quanti altri capi di Stato Maggiore hanno fatto gli
stessi discorsi, ci viene un senso di nausea e di rabbia. Ma questo oggi non deve più
succedere, ci si deve ancora più rafforzare nella convinzione che l'unica possibilità di
dialogo con loro potrà avvenire per fatti concreti e non su promesse per giunta non
vere. Quando realmente le autorità e le gerarchie militari avranno dimostrato volontà di
modificare la reale situazione del personale abolendo le denunce, i congedamenti, le
note caratteristiche e le punizioni, allora si potrà incominciare a dialogare e magari
rispondere all'invito anche del Capo di Stato Maggiore. Qualcuno si sarà sentito
menomato per questa occasione mancata: mancata per quale motivo? Perché il sig.
Ciarlo non ha potuto ascoltare da buon padre di famiglia i nostri piagnistei, le nostre
lamentele ed i nostri sospiri di giustizia!!! Oppure qualcuno la considera una mancata
occasione per non aver potuto rinfacciargli tutti i torti che Lui e le alte gerarchie militari
ci fanno? Noi abbiamo ritenuto che l'unica risposta valida era il silenzio. Se il sig. Ciarlo
e tutti i nostri colleghi vogliono ascoltare le nostre risposte, vengano il 21/2/76 al Teatro
Verdi di Pisa ore 15...
La dignità non si contrabbanda con un bitter e con la forza di affrontare lo staff del capo
di stato maggiore e del comandante di base, ma col silenzio più significativo di qualsiasi
altra risposta.
Silenzio che vuol dire basta con le promesse, basta con le adunate plateali, basta con
le false ipocrisie che un uomo, pur capo di stato maggiore, possa essere imputato di
tutto il nostro malessere. Noi dobbiamo rivolgerci al paese, alle forze sociali, uniche
capaci di modificare l'attuale struttura delle forze armate».
Il volantino non fa complimenti: dopo l'episodio di Totaro del giorno prima, il
meccanismo dell'inchiesta si mette in moto immediatamente. «Alla base piomba il
generale Bertolaso, comandante della seconda regione aerea, - scrive "Paese sera" 23 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Interroga, ascolta, raccoglie dati e alla fine se ne va rassicurato, soddisfatto dei risultati
raggiunti. La questione sembra già archiviata quando il 19 febbraio dalla Procura
militare di La Spezia arrivano due magistrati con otto avvisi di reato per altrettanti
sottufficiali. Si richiamano agli articoli 212 e 191 del Codice militare di pace dove si parla
di "istigazione a commettere reati militari e di minaccia o ingiuria". Oltre a Pasquale
Totaro, sono accusati i marescialli Roberto Pignatelli, Cesare Perrotta, Giulio Piacentini,
Romano Frittoli, Aldo Stilli, i sergenti Giovanni Manecchia e Antonio Girgenti. Si
muovono i carabinieri, vanno a perquisire le abitazioni e gli stipetti degli otto alla ricerca
della matrice del famoso volantino. L'originale non si trova: viene sequestrato altro
materiale fra cui sembra - forse perché indizio di un reato ideologico - un documento del
deputato comunista Boldrini sulla riforma delle forze armate. È abbastanza frequente,
dicono i sottufficiali di Pisa, che durante le perquisizioni vengano requisiti documenti e
giornali politici di sinistra, in particolare del Pci.
Un esempio: in un verbale dei carabinieri del 23 febbraio 1976 si legge che
nell'abitazione del maresciallo dell'aeronautica Pignatelli Roberto vengono sequestrati:
«Ciclostilato: documento sulla rappresentatività del Csdam della 46ª aerobrigata.
Ciclostilato: giornate di mobilitazione di tutti.
Ciclostilato: il nuovo regolamento di disciplina militare.
Ciclostilato: relazione dell'on. D'Alessio (Pci), Teatro Verdi 31/10/75».
Le incriminazioni per il volantino aumentano: alle prime otto se ne aggiungono altre
dieci, poi altre quattro. In tutto arriveranno a ventidue. Colpiscono i membri di una
Commissione di studio per le riforme eletta l'estate precedente con l'approvazione del
comando. Sono tra i più qualificati elementi della base, alcuni laureati, altri laureandi,
molti con encomi speciali. L'intento è chiaro - dicono a Pisa: - si vogliono decimare i
capi sia per decapitare il movimento sia come azione esemplare nei confronti di tutti gli
altri. Gli altri tuttavia non si lasciano intimidire: quando i giudici di La Spezia arrivano a
San Giusto per interrogare i primi incriminati, la reazione della base è immediata. La
notizia si diffonde in un battibaleno. In cinque minuti tutti i sottufficiali abbandonano i
reparti per riunirsi sotto la palazzina dove si svolgono gli interrogatori. L'atmosfera è
sovraeccitata: c'è chi propone di occupare la pista di atterraggio.
Devono intervenire proprio gli accusati a placare gli animi invitando i colleghi a tenere
un'assemblea in un hangar. La protesta investe tutta la base, comprese le mogli dei
sottufficiali.
Un episodio singolare: molte signore la domenica si riuniscono come al solito al circolo
sottufficiali di San Giusto e cominciano a discutere della vicenda dei loro mariti. Una va
al microfono per farsi capire meglio ma viene interrotta dal generale Cartocci
comandante della base, con frasi non propriamente femministe: «Qui le signore sono
gradite a condizione che parlino di fiori e di messa in piega. Mi appello al buon senso
dei loro mariti». Risposta di una fra le più combattive: «Praticamente il circolo è ristretto
alle donne-oche. Non solo volete condizionare i militari ma anche le loro famiglie».
24 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Intanto, accanto ai provvedimenti della procura militare di La Spezia, sta andando
avanti un altro tipo di repressione più silenziosa. Molti militari che fino ad allora avevano
ottime qualifiche si vedono oggi classificare «sotto la media». Pasquale Totaro che due
mesi prima era stato classificato «superiore alla media» è ora «inferiore» ; il sergente
Michele Urso che aveva chiesto a suo tempo la rafferma per entrare in carriera alla fine
della ferma che scadeva il 18 novembre del 1975, riceve una lettera con la quale gli
viene comunicato che era congedato appunto dalla data del 18 novembre. In altre
parole non viene «raffermato» cosa che, salvo eccezioni, secondo i sottufficiali, avviene
di regola. Le motivazioni? Non sono obbligatorie per respingere il rinnovo di una
«ferma». Michele Urso, faceva parte del Coordinamento.
La vicenda di San Giusto diventa ancora più clamorosa il 23 marzo del 1976, quando i
sottufficiali della base adottano una forma di contestazione fra le più tipiche nelle
battaglie per i diritti civili: l'autodenuncia.
Nella sala della Provincia, affollata dai diretti interessati e dalle mogli, parlano gli
avvocati difensori Marcello Pedrazzoli di Bologna, Arnaldo Massei di Pisa, Rinaldo
Pelagotti di La Spezia. Parlano i legali e non i militari anche perché in sala è stata
notata la presenza di un informatore e ogni parola può essere registrata. Gli avvocati
annunciano che 467 sottufficiali hanno firmato un atto di autodenuncia in cui si
dichiarano responsabili degli stessi reati per i quali sono stati incriminati i loro colleghi.
Si prevede che al ritorno dalle missioni all'estero firmeranno altri: il numero delle
autodenunce arriverà a 500 o a 600.
Ecco una sintesi del documento: I sottoscritti sottufficiali della 46ª aerobrigata di San
Giusto «... si assumono la piena responsabilità delle dichiarazioni succitate, anche nella
forma con cui sono state espresse nel volantino dal sergente maggiore Totaro e le
fanno proprie». Il volantino è da ritenere « ... risultato di una discussione organica alla
cui elaborazione i sottofirmati hanno collettivamente contribuito seppur in varia misura».
L'autodenuncia in massa è un fatto senza precedenti nella nostra storia militare. Si
domanda ai legali se essa costituisca o meno reato secondo il codice militare.
«Espressamente l'ipotesi non è prevista - risponde l'avvocato Massei. Al massimo il
fatto può essere assimilato a un reclamo collettivo. Secondo noi però si tratta di un atto
tendente a un chiarimento e quindi consentito ».
Allora i casi sono due: un processone senza precedenti che porterebbe sul banco degli
imputati l'80 per cento degli specialisti di San Giusto, paralizzando l'intera attività della
base aerea più attrezzata ed efficiente d'Italia, oppure si archivierà tutto.
Avviene così: il giudice istruttore di La Spezia motiva rapidamente l'archiviazione col
fatto che « è materialmente impossibile che tutti i 467 avessero partecipato alla stesura
del volantino».
Replica l'avvocato Massei: se questo è vero si configurano altri due reati: quello di
«autocalunnia» e quello di «apologia di reato», data l'adesione di tutti e 467 al
contenuto del volantino dello scandalo. Se quest'azione legale di massa non ha avuto
effetti immediati, li avrà più avanti influendo politicamente nel corso dell'istruttoria, i cui
atti vengono depositati dal procuratore militare dello Stato nelle mani del giudice
istruttore di La Spezia nel dicembre 1976. Le richieste sono tutte assolutorie: si vuole
evitare il processo politico che sia l'avvocato Massei, sia i sottufficiali stanno cercando
per mettere sotto accusa l'intero ordinamento giudiziario militare.
25 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Per Pasquale Totaro viene chiesta l'assoluzione dall'accusa di ingiuria a superiore
assente: insufficienza di prove. In sostanza si afferma che se è vero che le parole da lui
pronunciate a proposito di quanto detto dal generale Ciarlo («puttanate», «cazzate»)
costituiscono un'ingiuria, è da dubitare che il sergente se ne rendesse conto, dato il
momento particolare. Ecco testualmente che cosa fra l'altro si legge e a quali
sottigliezze si arriva nel testo della richiesta: «... Non va comunque, sottaciuto che il
termine "puttanate", pur essendo stato certamente usato dal Totaro con riferimento alle
argomentazioni svolte dal Capo di Stato Maggiore, non è servito a colorire un'invettiva
ma si è inserito nel contesto di un intervento dotato di una certa articolazione».
Se Totaro ha parlato in un momento particolare, per gli altri imputati il discorso non vale,
replica Massei, poiché il volantino è stato steso a freddo, non nel clima surriscaldato
dell'assemblea. Qui però la richiesta di proscioglimento è motivata dal fatto che non
sussistono prove sufficienti a indicare chi fra gli accusati abbia materialmente
partecipato alla stesura del volantino. Insomma il reato sussiste ma non si può
individuare quale soggetto l'abbia commesso. L'unico individuabile è un sergente che
ha affisso il volantino a Firenze ma nemmeno contro di lui si procede perché il fatto
(affiggere un volantino la cui stesura è considerata reato) non costituirebbe a sua volta
reato.
«Un eccesso di garantismo, veramente acrobatico - dice Massei - per evitare un
dibattimento politicizzato. A noi non dispiacerebbe andare in aula. Per il momento il
giudice istruttore non si è pronunciato ed è passato parecchio tempo dal deposito della
requisitoria. Il processo potrebbe farsi e così avremmo modo di sostenere la tesi che gli
imputati vanno assolti non per insufficienza di prove ma perché il fatto non costituisce
reato, provocando un dibattito politico generale sulla democrazia nelle forze armate».
26 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Sergenti laureati
Il nome del sergente maggiore Pasquale Totaro ricorre spesso nelle cronache delle
lotte dei sottufficiali di Pisa. Non è un personaggio soltanto per le parole «da caserma »
con le quali avrebbe commentato il discorso del capo di stato maggiore dell'aeronautica,
ma per la spiccata personalità formatasi attraverso le dure esperienze di una vita
cominciata in un paese vicino a Brindisi, San Pancrazio Salentino, il 7 aprile 1942, sotto
il segno dell'Ariete, di cui porta impresse l'irruenza e la combattività.
È la storia esemplare di come può avvenire la politicizzazione e la maturazione civile di
un ragazzo povero del profondo Sud. Lo ascoltiamo a casa di un collega che abita
proprio a San Giusto, vicino all'aeroporto. Totaro non abita a Pisa, ma a Torre del Lago
perché in città gli affitti sono cari.
«Sono il secondo di sei figli: mio padre era contadino, ora fa il guardiano notturno,
voleva farmi studiare: frequentai a Lecce ragioneria, fino alla seconda. Ma non c'erano i
soldi per pagarsi la scuola, non potevo gravare sulla famiglia, così ho dovuto smettere.
Che fare? Mi era venuta la passione per gli aerei guardando le partenze e gli atterraggi
al vicino aeroporto di Brindisi. Avevo voglia di volare. Così mi sono arruolato a Caserta,
corso per marconista, l'11 gennaio del 1960.
Già alle prime esperienze qualcosa mi disturbava, per esempio il concetto per cui
"quello che è giusto si potrebbe fare ma non si deve fare perché sta scritto così": un
modo di ragionare che mi sarei ritrovato ancora tante volte di fronte durante la carriera.
Finito il corso mi trasferirono al Nord, prima a Udine, poi a Padova: dovevo sacrificarmi
per studiare privatamente a un corso serale di ragioneria. In tre anni ero ragioniere. Il
lavoro intanto, non mi dava nessuna soddisfazione: perdevo la sensazione di essere
persona, mi sentivo un numero. C'era un colonnello che mi concedeva i permessi per
andare a scuola, ma c'era un maggiore che mi creava ogni difficoltà. Avevo chiesto il
trasferimento a Pisa, ma lui continuava a farmi attendere strappando ogni volta la
domanda. Finalmente ottenni il trasferimento e nel 1965 mi potei iscrivere ad Economia
a Firenze, prestando servizio a Pisa. L'università è stata per me un trauma; quando gli
studenti mi chiedevano un'opinione, un giudizio su qualcosa, non sapevo cosa
rispondere perché ero completamente disinformato su ciò che avveniva fuori dal mondo
militare.
Durante gli anni caldi del '68 e del '69, il conflitto fra la realtà esterna e la realtà interna
mi procurò un esaurimento nervoso. Quando potevo dormivo fuori. Dato che
frequentavo gli studenti i commilitoni mi chiamavano "il maoista", oppure mi sfottevano
dicendo "arriva l'intellettuale". Qualcuno mi ha anche promesso di farmi la pelle: durante
una discussione politica un maresciallo mi ha puntato il coltello. Si, perché in aeroporto
prima di un'elezione, non mi ricordo quale, su iniziativa mia e di un altro
militare/studente dell'Azione Cattolica (avevamo idee politiche diverse ma eravamo
d'accordo sulla necessità di cambiare le forze armate) si teneva ogni sera alle sette una
discussione preelettorale. Eravamo in due o tre da una parte e in cinquanta dall'altra.
Poi, discutendo, discutendo, per sei, sette anni le cose sono cambiate come dimostrano
27 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO le centinaia di militari che hanno abbandonato i reparti per solidarietà con gli estensori
del volantino incriminato e le cinquecento autodenunce.
Siamo cambiati soprattutto per i contatti col mondo esterno. Si dice che qui il
movimento si è sviluppato perché Pisa è una città rossa, perché è stata il covo di Sofri e
di Lotta Continua, ma quando quelli di Lc che sono in contatto con i soldati di leva,
hanno proposto di aprire un discorso comune con noi sottufficiali, abbiamo chiarito
subito che un legame organico sarebbe stato deleterio perché ci avrebbe divisi. Certo,
ci sono figli di marescialli che vanno all'università, militanti di Lotta Continua o di altre
forze giovanili di sinistra, che hanno fatto circolare in casa certe idee. E questo conta.
Quando è arrivato il '75, che è stato un po' il '68 di noi militari, eravamo già preparati.
Io, per esempio, come altri, ero già laureato e avevo maturato esperienza politica
all'università »,
Totaro passa il microfono del registratore all'altro sergente maggiore, Mario Ferro, di cui
siamo in casa. Lui abita a Pisa malgrado gli affitti ma ha la moglie che lavora e una figlia
sola: più o meno riesce a quadrare i conti alla fine del mese. Trent'anni, di Careri
(Reggio Calabria), combattivo come il collega (l'avevamo sentito provocare polemicamente il pubblico che taceva al dibattito organizzato il 7 febbraio dall'Arci al circolo
Alberone). È il primogenito di otto fratelli.
«A Careri mio padre lavorava saltuariamente - racconta - poi trovò un impiego statale in
Campania, quando io ero già fuori di casa. Avevo studiato fino alla terza avviamento e
poi avevo continuato con due anni di elettrotecnica. Fui costretto ad arruolarmi per
necessità: allora non avevo idee politiche.
Ho seguito il corso aeronautica a Macerata: volevo diventare specialista tecnico dato
che avevo studiato elettrotecnica e invece mi hanno fatto assistente contabile, io che di
conti sapevo poco o niente. Come facciano certe prove attitudinali non lo capirò mai.
Finito il corso ho cercato di andare lontano da casa perché restando nel proprio
ambiente si finisce con l'adagiarsi. Volevo una collocazione del tutto autonoma rispetto
alla famiglia. Così, eccomi a La Spezia: era il periodo cruciale della contestazione. '6768, ma io non ero estremista, manifestavo soltanto le mie impressioni politiche anche
sul luogo di lavoro. Un giorno tiro uno scherzo veniale a un maresciallo: gli faccio avere
una tessera del Pci (una vecchia tessera che ci era capitata fra le mani). Vengo
richiamato all'ordine dal Sios (Servizio interno operazioni segrete) e punito. Volevo
congedarmi, ma sono rimasto per anni in attesa di un lavoro che non ho trovato ed
eccomi ancora qui ad aspettare il momento in cui la realtà militare diventerà qualcosa di
diverso. Certo, il clima è mutato: una volta a Pisa ci faceva paura uscire in divisa,
evitavamo il contatto con la gente se non eravamo in borghese. Chi avrebbe potuto
sognarsi di assistere al passaggio d'un corteo di studenti o di operai portando le stellette
senza essere provocato, insultato, dileggiato. Oggi, anche per merito nostro, è diverso».
I due sergenti maggiori s'infervorano nel raccontare episodi sulla vita militare a San
Giusto di Pisa: storie di punizioni, ingiustizie o favoritismi da parte di questo e quel
superiore, le loro conquiste, i contrasti col comandante, le incomprensioni e i nuovi
rapporti con il quartiere e con le forze politiche. Non è possibile registrare tutto.
Un episodio però è significativo dato che siamo nella base dove stanno gli aerei della
Lockheed. I due raccontano: «C'era una perdita di carburante ai C-130 Hercules. Alcuni
nostri sottufficiali specialisti li esaminano, si aggiornano e si accorgono di lavorare in
28 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO condizioni di estremo pericolo. Il liquido usato per incollare è caustico e comporta seri
rischi per chi ci lavora. Presentano una relazione al comando. Li mandano in Germania
a vedere come gli americani svolgono queste operazioni. Tornano, riferiscono e il
sottufficiale che guida la squadra chiede al comando l'applicazione delle norme di
sicurezza. Domanda respinta. Anzi il sottufficiale viene allontanato e il diretto superiore
lo trasferisce ad altro reparto: l'unico tecnico esperto del problema, cioè, viene mandato
a fare altre cose. Dopo due mesi arriva una commissione americana per compiere
quello stesso lavoro insieme ai nostri: chiedono e ottengono le stesse norme di
sicurezza che volevano gli specialisti di Pisa. Perché sono dovuti arrivare gli americani?
Perché non si poteva ammettere che il comandante aveva sbagliato respingendo la
richiesta del sottufficiale. Va bene che gli Hercules, all'Italia, servono poco ma tenerli
fermi tanti mesi, con tutto quello che sono costati... »
29 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Nella marca orientale
Sant'Angelo e Istrana, due aeroporti militari vicini a Treviso, un distaccamento
aeroportuale a Venezia Tessera; siamo alle pendici del massiccio armato della «marca
orientale» che culmina nella grande concentrazione di unità militari in terra friulana, ma
siamo anche in uno dei poli più vivi del fermento dei sottufficiali, dove il malessere
generico dei militari si è meglio tradotto in protesta organizzata. Non a caso è proprio
nel Veneto orientale che si stampa il mensile «FF.AA, e società», a Vo' Euganeo
(Padova), organo nazionale dei coordinamenti delle forze armate (6000 copie di tiratura,
abbonamento annuo 4000 lire). Qui il collegamento fra militari e sindacati è più saldo
che altrove: il Coordinamento triveneto per esempio ha sede presso la Camera del
lavoro di Mestre; e un Collettivo mogli sottufficiali ha per indirizzo «Sindacato unitario
Cgil-Cisl-Uil (Mestre)». E proprio nelle circoscrizioni venete si sono presentati candidati
del Coordinamento alle elezioni del 20 giugno: Paolo Bettin, maresciallo (collegio
Venezia-Treviso per il Psi); Carlo Di Carlo, sergente maggiore (collegio VeneziaTreviso, Democrazia proletaria); Piero Lai (collegio Padova-Verona-Vicenza-Rovigo,
Psi).
A Treviso, il 4 ottobre del 1975, si era svolta una manifestazione di sottufficiali: un'altra
poche settimane dopo, il 23 ottobre. Con la seconda si protestava per la «risposta
repressiva e per le punizioni inflitte ad alcuni dei militari che avevano partecipato alla
prima».
Ecco come un comandante, in quell'occasione, ha spedito agli arresti di rigore per dieci
giorni un sottufficiale, reo di avere partecipato a una pubblica riunione sulla democrazia
nelle forze armate. La prosa del comandante serve il suo scopo con burocratico rigore:
il colpevole, «facente parte di un sodalizio vietato dall'ordinamento in vigore perché in
contrasto con i fini delle forze armate », «si allontanava per partecipare a una riunione
di tale sodalizio». Non solo, ma una volta giunto sul luogo della riunione, «prendeva la
parola senza autorizzazione dell'autorità gerarchica superiore », ed « evidenziava nella
circostanza insofferenza per la disciplina militare...» Il sodalizio in questione è il
Coordinamento di cui il sottufficiale è un esponente.
Commenta un suo collega che vuol restare anonimo: «Sodalizio in contrasto con i fini
delle forze armate? Ma questi fini non comprendono forse la difesa delle istituzioni
democratiche della Repubblica? E queste istituzioni non sono quelle che la Costituzione
stabilisce nella lettera e consacra nello spirito? Bene, noi non chiediamo altro che
l'applicazione alle forze armate della lettera e dello spirito della Costituzione». Il
sergente maggiore cita il secondo comma dell'articolo 52 dove si dice che
l'adempimento del servizio militare «non pregiudica... l'esercizio dei diritti politici» e il
terzo comma: «l'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della
Repubblica». E poi rileva: «Il mio collega inoltre non partecipò a una riunione del
sodalizio incriminato ma ad una pubblica manifestazione organizzata da partiti e
sindacati, con l'avallo della stessa Regione veneta. Sa che cosa vuol dire questo? Vuol
essere un avvertimento alle forze politiche e sindacali che organizzano incontri e prese
di contatto con noi».
30 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Il risultato produsse l'effetto contrario: questo come altri provvedimenti non fecero che
rinsaldare nel Veneto i legami fra militari, partiti e sindacati, al punto che alcuni
sottufficiali, come abbiamo visto, entreranno in liste di sinistra e che il Coordinamento
farà capo alla Camera del lavoro di Mestre. Non solo, ma i provvedimenti per la
manifestazione del 4 ottobre provocarono per il 23 una seconda manifestazione ancora
più massiccia: trecento sergenti e marescialli in corteo a Treviso, provenienti dalla base
aerea Nato di Istrana. Il corteo si mosse verso le z9. Nelle file dei dimostranti si erano
inseriti parecchi giovani di sinistra, alcuni dei quali distribuivano ai passanti volantini
ciclostilati. Nessun incidente, la manifestazione si svolgeva senza clamori, sotto la
sorveglianza di poliziotti e carabinieri in borghese. Giunti in piazza della Borsa i militari,
ascoltate le parole di un sindacalista, si scioglieva tranquillamente. Alla base qualcuno
di loro troverà i soliti giorni di rigore.
Non sempre tuttavia i tribunali danno ragione ai comandi, soprattutto dopo la crescita e
il rafforzamento del movimento. È avvenuto per esempio nel caso del sergente
maggiore Claudio Melatti, in servizio permanente effettivo a Venezia-Tessera, che
partecipò alla manifestazione del 4 ottobre 1975 di cui si è detto: presenziò anche ad
una pubblica riunione indetta dai metalmeccanici presso l'aula magna del liceo
scientifico di Treviso, dove prese anche la parola. Il Comando ravvisò nel suo
comportamento gli estremi dell'illecito e gli inflisse dieci giorni di Cpr con la solita
motivazione, «per avere partecipato ad un sodalizio vietato dall'ordinamento in vigore
prendendo la parola senza la prescritta autorizzazione di cui all'art. 40 del Regolamento
di Disciplina». Un mese dopo, provvedimento del 13 novembre, il Comando rincarò la
dose infliggendo a Claudio Melatti altri cinque giorni di sala di punizione di rigore per
avere partecipato «ad una adunanza di militari senza l'autorizzazione delle competenti
autorità».
I due provvedimenti vennero impugnati immediatamente dagli avvocati Alberto Borello
di Treviso e Alfredo Bianchini di Venezia, che ne sostennero l'illegittimità perché fondati
su un regolamento di disciplina militare incostituzionale, illegittimo, inefficace. In
particolare tali misure urtano con quei principi costituzionali (eguaglianza di tutti i
cittadini, adeguamento di ogni legislazione speciale ai principi e ai metodi della
legislazione della Repubblica, il diritto di riunione, il diritto di associazione, di libertà di
pensiero, l'inviolabilità della libertà personale), la cui drastica limitazione crea un
diaframma di notevole spessore fra il cittadino militare e il resto del paese.
L'avvocato dello Stato che, nella causa Melatti, rappresentava il comando della prima
regione aerea invece sosteneva: «Le FF.AA, assumono per i loro compiti e funzioni un
particolare rilievo che si distingue da altre istituzioni, e di conseguenza nel servizio
militare deve considerarsi determinante un vero e proprio status che incide sulla libertà
personale e su altre libertà fondamentali, le cui limitazioni debbono pertanto
considerarsi legittime nel quadro del rapporto speciale di supremazia proprio di
quell'ordinamento regolato e ammesso attraverso l'art. 52 della Costituzione ». Niente di
nuovo, si ribadisce cioè la diversità del militare, si ribadisce che il suo status non può
non incidere sui diritti civili e limitarli.
Se il tribunale amministrativo regionale non ha voluto entrare in materia di legittimità
costituzionale, non ha potuto esimersi dal prendere in considerazione le altre ragioni
31 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO degli avvocati di Melatti, i quali parlavano di «eccesso di potere per travisamento dei
fatti, difetto dei presupposti e di motivazioni, eccesso di potere per violazione del diritto
della difesa ».
Così, alla fine, la sentenza asseriva che, salvo gli obblighi di servizio, è liberamente
consentita, anche ai militari, la partecipazione a una pubblica riunione e che, pur
«essendo l'esercizio del potere disciplinare largamente discrezionale, l'esigenza di
motivazione ridotta al minimo, la motivazione deve essere redatta in forma sintetica e
chiara in modo da porre ogni cura affinché la mancanza risulti esattamente
configurata».
Fatto sta che il Comando della prima regione aerea s'è visto annullare il provvedimento
disciplinare e ha dovuto pagare le spese processuali e gli onorari per la somma di
500.000 lire. Quello del sergente Melatti, dopo la crescita del movimento dei militari,
non è più un caso tanto isolato. Nel medesimo giorno di Melatti, per analoghe
imputazioni, lo stesso tribunale amministrativo regionale si era pronunciato sul ricorso
del sottufficiale Rodolfo Stangher dando torto al Comando.
32 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Un maresciallo da tremila voti
Raccontando le vicende dei militari della «marca orientale», sono comparsi i nomi di tre
sottufficiali che si sono presentati alle elezioni politiche del 20 giugno, il più anziano dei
quali è Paolo Bettin, quarantacinque anni, ventisei di servizio, in forza alla prima
aerobrigata missili di Treviso come maresciallo di primo grado, il massimo della carriera
d'un sottufficiale.
Può apparire singolare incontrare, fra tanti giovani sergenti irrequieti, un militare maturo,
che ha passato più di metà della sua vita nelle forze armate. È invece uno dei principali
animatori del Coordinamento nelle Tre Venezie. Come mai? «È giusto che io sia fra i
più esposti. Fra di noi abbiamo stabilito una scala di rischio: chi è, come me, più vicino
al congedo e non ha problemi di avanzamento può rischiare di più; mentre i più giovani,
quelli che possono essere licenziati, è meglio che stiano al coperto. Io non ho più niente
da perdere. Quando uno si arruola gli fanno un contratto di quattro anni, poi deve
presentare domanda per altri due anni di apprendistato. Dopo i sei anni scade la ferma.
Non la rinnovano a tutti perché mancano i posti: e allora vengono scartati quelli di idee
politiche scomode. Nei primi sei anni puoi essere licenziato senza giustificazione e
senza liquidazione. Io sono al sicuro ed è giusto che mi esponga di più».
Il maresciallo Bettin, in ventisei anni di carriera, è sempre stato critico nei confronti
dell'attuale ordinamento militare oppure ha scoperto soltanto dopo i quaranta la
vocazione alla protesta? «I superiori mi hanno sempre trovato polemico perché, almeno
dal 1960, non ho accettato come persona la filosofia del credere, obbedire, combattere
e mi sono battuto per migliorare la condizione dei sottufficiali anche se non ero molto
politicizzato. Chi mi ha aperto gli occhi, due anni fa, è stata mia figlia maggiore, Marina
di diciassette anni (ne ho un'altra, Miriam di quindici): entrambe fanno le magistrali e
parlano in casa dell'esperienza scolastica: consigli di classe, assemblee, dove si discute
di tutto. "Papà, - mi ha detto Marina, - noi discutiamo con il preside e i professori dei
nostri problemi: voi in aeroporto non potete parlare con i comandanti dei vostri diritti".
Erano frasi polemiche ma io accettavo. Aggiungevano: "noi svolgiamo un'azione
rivendicativa nella scuola, voi non potete". Un giorno mia figlia legge il regolamento
militare e mi dice "papà, ma tu per quello che dici dovresti andare in galera". Dopo tante
díscussioni ho capito che esiste un modo di vivere diverso da quello del militare. In
sostanza, io non lavoravo per le forze armate ma per la carriera dei superiori, ero il
supporto di interessi personali. Allora ho cominciato a partecipare a riunioni segrete con
i colleghi nelle osterie del trevigiano: parlavamo dei soprusi, del regolamento, del
trattamento economico, degli abusi dei superiori. Tutti sanno che alcuni alti gradi usano
aerei e automobili a scopi personali. Credevo fosse un loro diritto: poi mi resi conto che
era un abuso. Passavamo dalle osterie del Montello a Quinto, continuavamo a
cambiare zona perché i carabinieri mandati dal Sid ci controllavano. Così ho preso
coscienza politica, e mi sono candidato come indipendente nelle liste del Psi per il
collegio Venezia-Treviso, dove ho avuto 3000 preferenze quasi tutte di borghesi: questo
è importante perché vuol dire che la questione militare, quando esiste una
mobilitazione, riesce a coinvolgere tutta la comunità e ad abbattere i diaframmi tra
33 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO esercito e società. Ho fatto decine di comizi, anche con il comandante Accame, tutti
puntualmente registrati al magnetofono dalla squadra politica ».
Ci sono state conseguenze disciplinari? «Fino a un anno fa ero giudicato "eccellente":
in passato avevo anche ricevuto una medaglia d'oro come miglior specialista delle Tre
Venezíe. Poi, nei rapporti informativi sono stato definito "elemento disgregatore delle
forze armate", di "poca affidabilità", "fonte di disservizio". Stanno raccogliendo prove su
di me e credo si arriverà a una denuncia, anche perché di recente ho avuto un
battibecco di un'ora con il colonnello. Intanto cercano di fare terra bruciata, colpendo i
più deboli, i sergenti più giovani per isolare i leader».
II maresciallo Bettin è sposato dal 1959: ha dovuto chiedere permessi per prendere
moglie? «Certo, allora bisognava inoltrare domanda al ministero della difesa. I
carabinieri hanno chiesto informazioni circa la mia futura moglie (al parroco, alla
portinaia, ai negozianti), ma non c'era niente da poter scrivere e ho avuto il permesso. È
capitato invece che alcuni miei colleghi si sono sentiti dire "non ti puoi sposare". Ora è
diverso, le informazioni le prendono dopo il matrimonio e, se risultano negative, ti
emarginano in qualche settore appartato dove non arrivano i segreti di Pulcinella ».
34 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO Un sergente licenziato
Il maresciallo Bettin di Treviso dice che i comandi tendono a punire i sergenti più
giovani per isolare i leader, a punire quelli che non sono ancora entrati in carriera e
possono essere tranquillamente licenziati: ecco la storia di uno di loro, Giuliano Spagnul
di Latina, che ha prestato servizio per quattro anni a Milano presso il Comando della
prima regione aerea.
Ora Spagnul è in borghese, vive a Milano in una vecchia casa di Città Studi, fa il
venditore di fotografie per un'agenzia. Come la maggioranza dei sottufficiali, viene da
una famiglia di contadini: lavorano i campi, presso Latina, nella zona della bonifica.
Come quasi tutti gli altri, si arruola per necessità economica ma anche per uscire dal
paese e fuggire al Nord: così arriva a Milano, alla caserma di piazza Novelli, dopo aver
seguito un corso a Macerata. Diventa sergente nel gennaio del 1975 ed entra in servizio
all'aeroporto di Linate:
«Qui sono esploso - dice - Avevo già le mie idee politiche, un pò radicali, un pò vicine al
Manifesto, ma niente di preciso, non militavo in nessun gruppo. È stato grazie ai contatti
col mondo esterno (che ho avuto a partire dal luglio 1975, quando sono entrato in
servizio presso il nucleo avieri e dovevo occuparmi dei militari di leva) che mi sono reso
conto delle lotte dei soldati. Poco a poco ho compreso le ragioni delle loro rivendicazioni
per un ordinamento militare diverso e sono passato all'impegno diretto.
Da allora sono fioccate le punizioni: il 4 dicembre 1975 fui indicato fra gli organizzatori
di una manifestazione in piazza del Duomo a Milano ed ebbi dieci giorni di rigore». Ecco
il testo della motivazione stilato dal Comando.
Oggetto: Manifestazione del 4-12-1975 alle ore 20:00 in Piazza del Duomo a Milano, a
cui hanno partecipato, in uniforme anche sottufficiali dell'Aeronautica Militare.
LA SERA DEL 4-12-1975, ALLE ORE 20 AVEVA LUOGO IN PIAZZA DUOMO UNA MANIFESTAZIONE
DEI MILITARI DEMOCRATICI, ORGANIZZATA DALLA CGIL CON L'APPOGGIO DI «LOTTA CONTINUA»
E «PROLETARI IN DIVISA».
VI PARTECIPAVANO CIRCA 150 SOTTUFFICIALI AM IN DIVISA, ALCUNI SOTTUFFICIALI IN
BORGHESE. NONCHÉ UNA DECINA DI SOLDATI IN DIVISA, PROVENIENTI DA VARI ENTI DI STANZA IN
LOMBARDIA. NOTEVOLE ERA LA PRESENZA DI CIVILI: CIRCA 300 ALL'INIZIO, VIA VIA AUMENTATI DI
NUMERO, FINO A RAGGIUNGERE IL MIGLIAIO. INALBERANDO STRISCIONI CON SCRITTE CONTRO IL
REGOLAMENTO FORLANI ED INNEGGIANDO ALL'UNIONE MILITARI-OPERAI, SI DISPONEVANO SULLE
GRADINATE DEL SAGRATO E FORMAVANO UNA SPECIE DI QUADRILATERO, ALL'INTERNO DEL
QUALE AFFLUIVANO UNA TRENTINA DI SOTTUFFICIALI AM IN DIVISA. QUINDI, ATTORNO AD UNA
500 CON ALTOPARLANTE - IL CUI INTERNO SERVIVA DA PALCO AL RIPARO DA OCCHI INDISCRETI VENIVANO EFFETTUATI VARI INTERVENTI, DI UN SOLDATO DEMOCRATICO, DI UN OPERAIO
DELL'INNOCENTI, NONCHÉ DI UN SOTTUFFICIALE DELL'AERONAUTICA MILITARE.
I VARI DISCORSI RIGUARDAVANO I PROBLEMI MILITARI INTESI COME MIGLIORAMENTI ECONOMICI E
DI CARRIERA, NONCHÉ COME UNA SENTITA DEMOCRATIZZAZIONE DELLE FF.AA., MEDIANTE
35 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO L'ABROGAZIONE DEL REGOLAMENTO DI DISCIPLINA VIGENTE E L'AVVERSIONE PER LA «BOZZA
FORLANI» IMPREGNATA, A LORO DIRE, DI ARTICOLI ANTICOSTITUZIONALI.
DOPO UN DISCORSO CONCLUSIVO I CIVILI COMINCIAVANO A SFILARE IN CORTEO E
RAGGIUNGEVANO PIAZZA CASTELLO, PERCORRENDO VIA OREFICI E VIA DANTE, SEGUITI, DOPO
UNA INIZIALE TITUBANZA, DAI SOTTUFFICIALI. QUINDI I SOTTUFFICIALI RIENTRAVANO ED I CIVILI,
DOPO AVERLI SALUTATI CON IL PUGNO CHIUSO, RICOMINCIAVANO A SFILARE COI SOLITI
STRISCIONI E SLOGANS. LA MANIFESTAZIONE SI CONCLUDEVA SENZA CHE SI VERIFICASSE ALCUN
INCIDENTE.
DA FONTE CONFIDENZIALE ATTENDIBILE, CHE NON DESIDERA ESSERE RIVELATA, LO SCRIVENTE
APPRENDEVA CHE ALLA MANIFESTAZIONE AVEVANO PARTECIPATO, IN UNIFORME, I SEGUENTI
SOTTUFFICIALI:
SERG. BONAFINI GIOVANNI
SERG. COLATEI ANDREA
SERG. SPAGNUL GIULIANO
SERG. MAGG. GIOIA GIULIO
SERG. MAGG. PILOTTI BRUNO
MAR.LLO 1ª CLASSE RIOLFI GIOVANNI
SERG. MAGG. PULLI CESARE
SERG. GASBARRO COSIMO.
RAVVISANDO NELLA CIRCOSTANZA L'INFRAZIONE PREVISTA E PUNITA DALL'ART. 184 DEL CODICE
PENALE MILITARE DI PACE AI SENSI DELL'ART. 260 C.P.M.P., CHE PUÒ ESSERE CONTENUTA
NELL'AMBITO DISCIPLINARE, LO SCRIVENTE INFLIGGEVA A CIASCUNO DEGLI ANZIDETTI
SOTTUFFICIALI UNA PUNIZIONE DI RIGORE DI GIORNI 10, CON LA SEGUENTE MOTIVAZIONE:
PARTECIPAVA, IN UNIFORME, AD UNA ADUNANZA DI MILITARI, SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLE
COMPETENTI AUTORITÀ.
Il documento, indirizzato «al Signor Procuratore Militare della Repubblica, presso il
Tribunale Militare Territoriale, Torino», meriterebbe un'analisi del linguaggio, perché
talune espressioni sono rivelatrici della mentalità diffusa nei comandi. I civili inalberano
striscioni « anti Regolamento Forlani » e inneggiano all'unione «militari-operai»:
gravissimo, criticare una proposta di Forlani mai arrivata in Parlamento è visto come
atto sovversivo, così come sembra innaturale che i militari debbano andare d'accordo
con gli operai. E ancora, i civili «formavano una specie di quadrilatero, all'interno del
quale affluivano una trentina di Sottufficiali». Sembra che si tratti di un'esercitazione: il
grave è che l'interno di una 500 «serviva da palco al riparo di occhi indiscreti ». Come
dire, «volevano fare i furbi ma li abbiamo beccati lo stesso». Come li hanno beccati?
«Da fonte confidenziale attendibile che non desidera essere rivelata». Il che significa
che i militari sono sorvegliati da spioni, da confidenti, le cui delazioni sono protette
dall'anonimato.
Quella del 4 dicembre 1975 è stata la prima punizione per Giuliano Spagnul. La
seconda è del 10 maggio 1976 per aver partecipato, in un Cineforum, alla proiezione
con dibattito del noto film sulla vita militare di Marco Bellocchío Marcia trionfale: altri
dieci giorni di rigore per essere andato al cinema. Infine, dieci giorni ancora per avere
36 PARTE SECONDA COME NASCE IL MOVIMENTO parlato in un'assemblea-spettacolo al centro sociale Leoncavallo, in occasione della
festa della Repubblica il 2 giugno 1976.
«Così, allo scadere dei primi quattro anni di servizio, non mi è stata rinnovata la ferma,
anche se risultavo superiore alla media come rendimento di lavoro. Motivi disciplinari».
Insomma licenziato.
Accanto a Giuliano Spagnul, c'è un ex collega che non volendo seguire analoga sorte,
prega di non trascrivere il nome. Ha una vicenda del tutto anomala rispetto alla
maggioranza dei commilitoni che dà la misura di come stiano cambiando le cose nelle
forze armate. È con le sue parole che concludiamo queste storie di soldati.
G. C. ha venticinque anni, è di Catania e non viene da famiglia povera, non è uno dei
tanti figli di padre e madre contadini che entrano nelle forze armate per lasciare i campi.
Suo padre è un impiegato statale che aveva i mezzi per farlo studiare. Ha fatto tre anni
di liceo classico, ma trovava «castrante» l'ambiente familiare e sociale in cui viveva.
Allora ha cercato l'evasione nell'aeronautica, per conquistare l'indipendenza economica,
per liberarsi dai condizionamenti di una società e di una città che trovava chiusa e
frustrante. Si è arruolato per libera scelta. Ha visto per la strada un bando di concorso
per allievi sottufficiali dell'aeronautica e il giorno dopo ha deciso di partire.
«Sono un impulsivo - dice -, era l'occasione buona per fuggire». Ha seguito la stessa
trafila degli altri: il corso a Macerata, trasferimenti a Roma, a Trapani, e infine a Milano,
dove si trova da un anno e dove fa lavoro politico. Anche lui, come gli altri, ha subito
punizioni, cella di rigore, umiliazioni: a differenza di tanti che, se potessero,
abbandonerebbero la divisa, G. C. vuole restare. Perché?
«Qui c'è tanto lavoro politico da fare: per democratizzare le forze armate e per togliere
di mano alle gerarchie golpiste il loro controllo. Dobbiamo poterle controllare dal basso.
Per me è importante restare: non trovo frustrante la divisa. Una volta coscienti delle
storture, questo diventa un posto di lotta eguale agli altri, come l'università, la Breda o la
Pirelli».
37 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA PARTE TERZA
LA COSTITUZIONE DIMENTICATA
Dal Regolamento-Andreotti alla bozza-Forlani
Il Regolamento del '64, a parte l'ignoranza della Costituzione, è inaccettabile, secondo il
movimento dei militari democratici, per la sua illegittimità e inefficacia giuridica.
L'illegittimità discende dalla violazione dell'articolo 1 della legge 31 gennaio 1926, n.
100, che attribuisce al potere esecutivo la facoltà di emanare norme giuridiche.
L'articolo 1 stabilisce che «sono emanate con decreto reale, previa deliberazione del
Consiglio dei ministri e udito il parere del Consiglio di Stato le norme giuridiche
necessarie per disciplinare l'esecuzione delle leggi e l'uso delle facoltà spettanti al
potere esecutivo». Il Regolamento del '64 riguarda sicuramente l'uso delle facoltà
spettanti al potere esecutivo, ma non è passato attraverso la necessaria delibera del
Consiglio dei ministri (che quindi non lo ha discusso), né è stato vagliato dal Consiglio di
Stato: il preambolo recita infatti che esso è stato decretato dal presidente della
Repubblica su proposta del ministro della difesa, sentito il parere del Consiglio
superiore delle forze armate.
In un convegno nazionale organizzato dal Coordinamento dei sottufficiali (Venezia, 5-6
giugno 1976) si è detto che tutta questa procedura (fra l'altro il Decreto presidenziale 31
ottobre '64 non è mai stato inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti, né è
stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale come prescrive la legge 24 settembre 1931 ed
è quindi inefficace) «indica chiaramente come l'affare delle forze armate non sia stato
considerato come un problema del paese ma come un affare personale del ministro e
del presidente della Repubblica ».
Anticostituzionale, illegittimo, inefficace: sono i tre aggettivi con cui i sottufficiali
democratici hanno definito l'attuale, vigente regolamento delle forze armate nei loro
congressi con il conforto d'una giurisprudenza che ha avuto gioco facile nel mettere in
luce i tre dati, tanto sono evidenti anche per chi non mastica diritto. II detonatore, però,
che ha innescato la miccia della rabbia presso sergenti e marescialli sono le pezze che
vari governi hanno tentato di mettere allo sdrucito abito regolamentare delle forze
armate. Durante una manifestazione di sottufficiali e di cittadini, presenti le forze
politiche, a Roma, nel luglio 1975, viene arrestato il sergente Sotgiu, della cui vicenda
abbiamo parlato: in quasi tutte le caserme dell'aeronautica nasce una dura ma civile
protesta. Allora il ministro della difesa, Arnaldo Forlani, decide di presentare alla
Commissione difesa della Camera la «bozza» del nuovo regolamento di disciplina.
È stato il più grande servizio che il ministro poteva rendere alle sparute pattuglie che già
contestavano in caserma la costituzionalità del Regolamento.
La «bozza-Forlani» suscita sdegno. Di fronte all'innovazione legislativa si muovono
anche le coscienze più pigre. Abituati ad accettare quanto già stabilito da dieci anni, di
fronte alla novità nasce la voglia di discutere tutto, punto per punto. «È il nostro futuro, 38 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA si dice in caserma, - ma è un futuro nel quale, pur essendo nostro, non abbiamo potuto
metter bocca. Ora ce la vogliamo mettere». Così la contestazione dei soldati contagia i
sottufficiali e coinvolge più tardi anche gli ufficiali.
I militari, soprattutto quelli di carriera e i sottufficiali in particolare, si attendevano dalla
nuova disciplina norme che rimediassero all'incostituzionalità, all'illegalità, all'inefficacia
del Regolamento-Andreotti : per esempio la scomparsa dei concetti di disciplina fondati
sul «quando parlo fai silenzio», l'abbandono dell'obbedienza «pronta», «rispettosa»,
«assoluta» che il Regolamento-Andreotti ribadisce.
I sottufficiali del Coordinamento democratico nazionale dicevano - a Venezia nel
convegno del giugno '76 - che «non bisogna puntare sulla repressione e
sull'autoritarismo, bensí sul consenso». «Concetti che il ministro Forlani del tutto
ignora». Ecco un florilegio di questa famosa bozza che è stata il vero detonatore, come
abbiamo detto, della protesta nelle caserme e che ha innescato il meccanismo della
contestazione organizzata: che non è stata sedizione, perché la legalità costituzionale
da ripristinare è il principio informatore delle manifestazioni promosse dai gruppi che si
muovono democraticamente nell'ambito delle forze armate.
Ad esempio, nella bozza di Regolamento-Forlani, veniva considerato giusto il principio
per cui il superiore deve sindacare la vita privata del subalterno. Nella «bozza» restano
indicazioni sulla sposa, che «deve essere scelta con cura». Per andare a dormire a
casa con la moglie, occorre l'autorizzazione del comandante.
I sottufficiali del Coordinamento, sempre a Venezia, muovono queste critiche alla
«bozza » e aggiungono: « Per il ministro Forlani bisogna mantenere in vita le sanzioni
disciplinari che limitano la libertà personale. Che fine fa per il ministro l'articolo 13 della
Costituzione secondo cui soltanto una legge e non un regolamento può sancire pene di
tipo detentivo? Per il ministro Forlani è ancora valido il principio del "prima paga e poi si
vedrà" in materia di punizioni e reclami». Per limitarci a quest'ultima contestazione,
ricordiamo che l'articolo 41 del regolamento, comma 1, recita: «il militare che si crede
leso nei propri diritti può presentare reclamo anche nei confronti di un superiore. Se il
reclamo si riferisce a un ordine o ad una punizione, esso può essere presentato solo
dopo aver eseguito l'ordine o scontata la punizione ». In altre parole, anche di fronte a
un sopruso da parte dei superiori, il militare è inerte: il provvedimento viaggia, lui paga
di persona, reclamerà soltanto dopo quando non vorrà più farlo nel timore di ulteriori
rappresaglie contro le quali potrà protestare soltanto a posteriori: un circolo vizioso che
sembra costruito apposta per stroncare nel militare ogni velleità di reclamo, che gli
toglie ogni possibilità di difesa, che gli nega dunque un diritto, quello di difendersi prima
di essere punito, sancito dalla Costituzione.
La Costituzione, grande assente dal Regolamento-Andreotti del 1964, fa capolino nella
bozza-Forlani varata in gran fretta sull'onda delle prime clamorose proteste dei
sottufficiali dell'aeronautica dell'estate 1975. Gli estensori della «bozza» (il ministro
Forlani, in un'intervista al quotidiano « Il Giorno » nel gennaio 1976, cercò di prendere le
distanze affermando che la «bozza» è esclusivamente frutto del lavoro degli esperti: e
così la «bozza» ritorna nei cassetti del ministero. Meglio non parlarne più) si sono resi
conto che non si poteva continuare ad ignorare l'articolo 52 della Costituzione. Hanno
ritenuto di inserirlo, di riportarlo nella «bozza» ma con un'omissione significativa:
39 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA censurando cioè l'ultimo comma, proprio quello che recita: «l'ordinamento delle forze
armate si informa allo spirito democratico della Repubblica».
Se nel Regolamento del 1964, attualmente in vigore, la Costituzione era del tutto
ignorata a favore di una norma decretata nel '41 dal re su proposta del duce, nella
«bozza» del '75, dopo che il paese ha conosciuto il 12 maggio (referendum sul divorzio)
e il 15 giugno (grande avanzata delle sinistre), la Costituzione compare ma amputata
proprio nel comma decisivo per la riforma democratica delle forze armate.
La risposta del governo alla minoranza dei sottufficiali che già contestavano il
regolamento fascista, è stata un brusco risveglio anche per la maggioranza meno
sensibilizzata la quale si accorge che resta intatto il concetto delle forze armate come
corpo separato e avulso dalla società civile. L'ennesima frustrazione diventa
moltiplicatore politico del malcontento, del disagio generico, delle mortificazioni che il
sottufficiale non politicizzato accettava acriticamente a parte il mugugno.
La bozza-Forlani - si legge nella relazione introduttiva al convegno nazionale di Venezia
- fa scattare una crisi di identità fra i sottufficiali, produce in loro una sensazione di
isolamento che induce a riflettere: chi siamo, a chi serviamo, qual è il nostro compito?
«Probabilmente - dice la relazione -, senza la dura e meschina volontà di reprimere
manifestata ripetutamente dalle gerarchie e dal governo, il processo di maturazione
sarebbe stato molto più lento. Scoprire invece che non solo esistevano norme che
apparivano incredibili ma che esistevano anche uomini disposti ad avvalersene in
funzione repressiva ha fatto precipitare gli eventi».
È così che i militari democratici decidono di scendere in piazza. La repressione risulta
inutile, controproducente per chi vorrebbe mantenere le cose come stanno.
40 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA Ma io, a cosa servo?
La crisi di identità di sergenti e marescialli trae origine da mortificazioni antiche: fino ad
oggi, infatti, il sottufficiale non è stato che il braccio dell'istituzione militare: il suo
compito si è sempre esaurito nell'esecuzione meccanica di direttive oppure nel far
eseguire ordini alla comprensione dei quali non è mai stato chiamato. Il sottufficiale
trasmette al soldato semplice disposizioni di cui non è necessario comprenda le ragioni.
Se può essere frustrante ricevere ordini ed eseguirli meccanicamente, ancora più
frustrante è dare a terzi degli ordini di cui si ignora la motivazione e lo scopo. È
comprensibile che fra le tre componenti della struttura militare quella dei sergenti e dei
marescialli viva la condizione meno gratificante. L'ufficiale, se non altro, trova
gratificazioni nell'uso del comando, nella partecipazione all'elaborazione degli ordini, in
un trattamento economico meno umiliante, in uno status sociale più appagante. Il
soldato semplice subirà umiliazioni e angherie ma sa che in quindici mesi tutto finisce e
che si tratta soltanto di una parentesi nell'arco della vita. La componente, quindi, che
rappresenta la spina dorsale delle forze armate è quella che vive la condizione
esistenziale più alienante.
Mentre sino a qualche anno fa l'ha vissuta in modo inconsapevole o fatalista, ora non
l'accetta. I profondi mutamenti che ha subito la società civile a partire dal 1968, seppure
con ritardo, sono arrivati anche all'interno delle forze armate e i primi a coglierne il
significato sono stati i sottufficiali più sensibili, vuoi perché continuavano gli studi, vuoi
perché in contatto con ambienti di lavoro esterni. A poco a poco hanno capito che era
maturo il momento per iniziare una battaglia di largo respiro per un rinnovamento
strutturale delle forze armate.
Contro questa presa di coscienza e contro le nuove aspirazioni, ecco la bozza-Forlani,
un tentativo di continuare a gestire le forze armate come in passato con lo spolverino di
qualche concessione formale. La volontà di far passare la «bozza» senza che si aprisse
un dibattito parlamentare tale da trasformare uno strumento, finora concepito e gestito
in maniera autoritaria, in una legge che rispecchiasse il profondo mutamento avvenuto
nel paese e all'interno delle forze armate, è stata l'occasione che ha fatto prendere
consistenza alla lotta dei sottufficiali, in particolare dell'aeronautica (che rispetto ai
colleghi delle altre armi hanno una specializzazione tecnica più qualificata e sono più di
frequente a contatto con l'ambiente esterno e sono quindi la naturale avanguardia del
movimento).
Le prime proteste, si sa, hanno scatenato una repressione durissima, malgrado il
Coordinamento abbia più volte sottolineato il contenuto democratico delle
rivendicazioni. Il pugno di ferro, anziché sedare i fermenti, ha prodotto l'effetto contrario
perché ha fatto toccare con mano anche ai sottufficiali meno politicizzati e meno
sensibili la potenzialità repressiva, autoritaria delle norme disciplinari contenute nel
Regolamento. L'ondata di punizioni, trasferimenti, congedi forzati, denunce ha fatto
comprendere a un numero sempre maggiore di militari quanto pericoloso fosse, se
usato con asprezza, lo strumento giuridico che regola la loro vita e la loro attività.
41 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA Si legge in un documento del Coordinamento del gennaio 1976: «il tentativo di
soffocare le nostre richieste, con un disegno repressivo attuato su vasta scala, ne sia
l'esempio l'ondata di punizioni disciplinari e denunce comminate nella 1ª regione aerea,
non ha sortito altro effetto che radicalizzare in noi la volontà di proseguire la lotta. Se
alcune gerarchie fossero state al passo con i tempi avrebbero percorso un'altra strada.
Quella prescelta invece non è che l'indicazione del distacco esistente tra vertice e base,
distacco che impedisce di comprendere i veri motivi della nostra insoddisfazione che
non è, checchè se ne dica, solamente di carattere economico».
L'insoddisfazione, infatti, parte soprattutto dal ruolo alienante che il sottufficiale viene a
svolgere nella struttura militare. Che cosa chiedono sergenti e marescialli? Niente di
rivoluzionario: semplicemente la partecipazione alla esatta comprensione del perché di
determinate scelte o direttive, di passare cioè dalla funzione di tramite, inteso come
portatore-esecutore, a un ruolo di responsabilità direttivo-esecutivo. Benché coscienti
del proprio valore professionale, essi hanno accettato passivamente di non essere
riconosciuti come soggetti pensanti, anche perché trattenuti in soggezione dalla paura
dei trasferimenti e dalle preoccupazioni di carriera. Se si aggiunge una situazione
economica inadeguata e mortificante, otteniamo l'esatta immagine del sottufficiale
vecchia maniera.
Oggi, però, con la maturazione culturale raggiunta e con una più qualificata
specializzazione, il sottufficiale reclama nuove funzioni: quella di mediare
dialetticamente fra le altre due componenti, ufficiali e soldati, che sinora hanno guardato
l'intermediario non certo in una luce benevola e gratificante. Questa cerniera con
funzione dialettica, secondo i militari del Coordinamento, sarebbe utile anche nella
economia generale delle forze armate. Se esiste una frattura fra la componente direttiva
(ufficiale) e quella esecutiva (soldato), dovuta al fatto che l'una impartisce direttive con
visione più ampia e l'altra non può conoscere « il tutto» di tali direttive, tale frattura può
essere sanata appunto dalla cerniera, non meccanica, del sottufficiale che diventerebbe
un punto di riferimento sicuro sia per il superiore sia per l'inferiore.
42 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA Obbedienza pronta e assoluta
I militari del Coordinamento democratico dicono che tutte le aspirazioni tendenti a
rivalutare la funzione del sottufficiale e a modificare profondamente i rapporti fra
superiore e subalterno rimarranno nella stanza dei desideri sino a quando non sarà
eliminato il concetto di obbedienza pronta e assoluta e non sarà sostituito da quello di
obbedienza ragionata.
L'articolo 7 del regolamento attualmente in vigore recita al comma 1 : «L'obbedienza al
superiore in tutto ciò che si riferisce al servizio ed alla disciplina deve essere pronta,
rispettosa e leale». E al comma 2 : « È obbedienza leale quella rivolta con ogni mezzo e
senza riserve al conseguimento di ciò che viene ordinato. Il superiore deve pertanto
curare, di massima, che l'inferiore sia consapevole del fine da raggiungere perché
meglio si adempie ciò di cui si conosce la ragione». Al comma 3 : «il dovere dell'obbedienza è assoluto, salvi i limiti posti dalla legge».
Il concetto di obbedienza «pronta» è antitetico al concetto di obbedienza «ragionata».
La «prontezza» esclude il tempo per ragionare e, anche se il superiore deve rendere
l'inferiore consapevole delle finalità dell'ordine, non è previsto alcun momento dialettico
fra i due interlocutori. Anzi, per il superiore, quello di informare il destinatario sul fine
della direttiva, è un dovere «di massima» a cui quindi non è rigorosamente tenuto.
È questo un esempio di come il regolamento lasci ampi margini discrezionali, di
«valutazione» ai comandanti. L'assenza di norme certe, in molti casi, dà adito a dubbi
interpretativi che non possono non determinare comportamenti difformi fra superiore e
superiore. Salta la certezza del diritto e viene favorita l'abitudine assai diffusa di
procedere in base ad antipatia o simpatia, o peggio in base a discriminazioni politiche:
per esempio il rompiscatole sarà trattato diversamente dal «bravo ragazzo».
Non vi sono norme certe che specifichino quali sono i comportamenti tecnici da tenere,
che regolino la concessione di licenze, permessi e le sanzioni disciplinari. L'ampia
discrezionalità e le ambiguità del regolamento sono tanto più pericolose in quanto il
regolamento stesso consente al superiore di sindacare sul piano disciplinare anche la
vita privata del militare. Qui il margine di arbitrio è enorme. Leggiamo per esempio
l'articolo 23 del Regolamento, Norme di contegno. Comma 1 : «Il militare deve ispirare il
suo contegno a serietà e compostezza, astenendosi da ogni forma di esibizionismo o di
ostentazione», «deve essere benevolo e cortese verso i cittadini... », « deve astenersi
dal profferire imprecazioni, bestemmie, parole o discorsi ripugnanti al senso morale
nonché dal frequentare compagnie equivoche, bische, ambienti e ritrovi non confacenti
al decoro delle Forze Armate».
Dove sta in queste formulazioni la certezza del diritto? Tutt'al più potrebbero essere
raccomandazioni, buoni consigli al cittadino in uniforme: invece si tratta di norme e chi
trasgredisce a una norma incorre in una sanzione.
Chi ha il metro per giudicare se un individuo è composto o esibizionista? E in quale
ordinamento giuridico è punibile l'esibizionismo non inteso nello specifico significato di
atti osceni in luogo pubblico? Il militare vive uno status diverso da ogni altro cittadino, in
balia del superiore che può giudicarlo e punirlo anche perché «non è stato composto».
43 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA Inoltre deve (è una norma, quindi punibile in caso di trasgressione) essere «cortese e
benevolo verso i cittadini ». In nessuna legislazione esistono norme sulla benevolenza e
sulla cortesia. Il problema può legittimamente riguardare monsignor Della Casa ma non
il Regolamento-Andreotti del 1964. Inoltre, il militare deve astenersi dalle imprecazioni
(quali sono consentite e quali no? Il Regolamento dovrebbe almeno specificarlo con
un'accurata casistica: si può dire soltanto «accidenti» o anche «porca Eva»? È da
chiarire). Quali sono poi le «parole o i discorsi ripugnanti al senso morale» e chi
stabilisce che cos'è «il senso morale»? Sempre il superiore che diventa fonte di diritto,
arbitro delle parolacce, della morale, della cortesia, della compostezza e delle
compagnie che il militare frequenta. In base a queste regole può trovare in qualsiasi
momento il pretesto per punire, carta alla mano.
Chi stabilisce quali compagnie siano equivoche o no? Per un superiore può essere
equivoca la clientela di un locale frequentato da prostitute o da omosessuali, per un altro la clientela di un locale frequentato da extraparlamentari o da anarchici. Nell'uno e
nell'altro caso, a giudizio insindacabile del superiore (prima si sconta la punizione, poi
presenterai reclamo), il militare può essere colpito. Ed è il subalterno «scomodo»,
«rompiballe », a farne le spese: se il «bravo ragazzo obbediente» ogni tanto va a
puttane, si può chiudere un occhio. Fa parte della tradizione. Quali sono poi i ritrovi e gli
ambienti non confacenti al decoro delle forze armate? E chi lo stabilisce? L'articolo
parla di «bische» e sin qui nulla è da eccepire perché esiste una legge dello Stato sul
gioco d'azzardo. Altri «ambienti e ritrovi non confacenti» possono essere di qualsiasi
genere. A discrezione del superiore potrà essere un circolo anarchico o una casa
d'appuntamento, fatta salva la tradizione che voleva il militare dal più elevato al più
basso dei gradi come robusto frequentatore dei casini, in era fascista e repubblicana
fino alla chiusura del 1958, e mai perseguito per questo tipo di frequentazioni.
Bastano questi riferimenti sommari a un articolo del regolamento per rendersi conto di
come il militare sia considerato un cittadino a sé stante, soggetto a norme confuse e
vaghe, dove ogni arbitrio è legittimo. Ma c'è di peggio: il comma 5 recita: «È dovere di
ogni militare astenersi dall'esprimere considerazioni, apprezzamenti e giudizi che
possano essere interpretati contrari alla disciplina militare». È una formulazione che fa a
pugni con la Costituzione che sancisce la libertà di espressione e di pensiero. In base a
questo comma del Regolamento-Andreotti tutti quei sottufficiali che hanno espresso in
convegni, assemblee, o semplicemente al caffè con un amico delle critiche al
regolamento sarebbero perseguibili a norma del regolamento medesimo. Se un militare
scrivesse le stesse cose che si leggono in queste pagine sarebbe perseguibile e punito.
Per noi non è possibile, perché in quanto civili siamo tutelati dalla Costituzione, mentre
per loro non è così in quanto soggetti a un regolamento (che alla Costituzione non fa
riferimento, ma si richiama a una legge fascista) che vieta ogni giudizio contrario al
regolamento stesso. Bell'esempio di statuto democratico.
Per continuare nel florilegio, ecco il comma 6 dell'articolo 23, il più umoristico: «È vietato
al militare di prestarsi a esperimenti pubblici di suggestione ipnotica e di lettura del
pensiero». Illegalità della parapsicologia.
Ma passiamo all'articolo 25. Il comma 1 recita: «il militare ha l'obbligo di curare ed
accrescere la personale efficienza fisica. Pertanto deve metodicamente dedicarsi ad
44 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA appropriati esercizi fisici ed astenersi da ogni intemperanza per mantenere integre le
energie e poterle riservare all'adempimento dei propri doveri».
Come consiglio o raccomandazione, il comma 5 potrebbe anche ritenersi utile. A chi
infatti, impiegato del catasto o ardito, non giova l'esercizio fisico, la ginnastica, la tutela
del proprio corpo? Ma ciò che non quadra con la Costituzione è il concetto di obbligo a
compiere tutti gli esercizi possibili per essere un superman in divisa. E se qualcuno si
sottrae a quest'obbligo, magari perché preferisce alla ginnastica studiare fino a tarda
notte i problemi di strategia militare, le teorie di Klausewitz o la difesa di Stalingrado e
non si sente in grado di fare capriole o di proiettarsi nel cerchio di fuoco com'era vanto
dei gerarchi della Milizia? Costui, ha letto troppo di notte e non potrà dedicarsi agli
appropriati esercizi fisici: quindi si sottrae all'obbligo e va contro il regolamento. Ed è
perseguibile, a discrezione dei superiori. Stando alle norme uno potrebbe essere un
genio della strategia militare, ma se non sa fare i piegamenti resta una nullità.
Andiamo avanti, sempre nell'articolo 25, Cura della persona, comma 2: «Il militare, pur
curando al massimo la pulizia della persona e la proprietà del vestire, deve evitare ogni
eccentricità o eccessiva ricercatezza, anche se indossa l'abito civile». È un articolo che
si commenta da solo e che assegna ai superiori la funzione di esperti di moda. Quello
che era eccentrico nel 1964, anno della stesura del vigente regolamento, oggi può non
esserlo. E non si capisce perché un ufficiale debba seguire per dovere d'ufficio le
tendenze delle boutiques e dei negozi di abbigliamento. Certo, se non gli va come si
veste in borghese un sottoposto che gli ha dato fastidi di altro genere, il regolamento gli
offre la possibilità di punirlo per le scarpe, i pantaloni o la maglietta-poster.
Proseguendo, il comma 3 dell'articolo 25 del regolamento (Cura della persona) recita:
«il militare può lasciarsi crescere i baffi e la barba, purché corti». Il concetto di «corti» è
generico: il superiore preposto al controllo del pelo dovrebbe reclamare disposizioni più
precise. Qual è il millimetro di pelo oltre il quale viene violato il regolamento? Si
stabilisce di volta in volta: e le misure possono arbitrariamente variare a seconda che i
ciuffi appartengano a un dipendente più o meno obbediente, a un bravo ragazzo
piuttosto che a un pericoloso sovversivo.
Completando l'articolo 25 : «Il militare può lasciarsi crescere i baffi e la barba, purché
corti di moderata lunghezza e che lascino bene scoperti il collo, gli orecchi e la fronte».
Forse gli orecchi devono rimanere scoperti in modo da cogliere gli ordini al volo, ma
l'importanza strategica del collo e della fronte restano un mistero. L'unico dato certo che
si può ricavare da queste norme, fra l'umoristico e l'aberrante, è che il cittadino in divisa
è soggetto a regole che ledono la dignità della persona, lo pongono nella condizione di
diverso rispetto alla società civile, relegato in una zona franca dove la Costituzione della
Repubblica è estranea.
Scorrendo gli articoli del regolamento c'è soltanto da scegliere fra le «perle». L'articolo
38, comma 3, riguarda la maldicenza, il parlare male degli altri. Recita così: «La
maldicenza, vizio riprovevole per tutti, lo è maggiormente nel militare, nel quale devono
essere spiccate le doti di franchezza e di lealtà; quando poi è esercitata contro il
superiore, diventa grave colpa, perché intacca i fondamenti della disciplina». Di un
cittadino qualsiasi è bene non parlar male dietro le spalle, ma se ciò avviene nei
confronti di un superiore la colpa è grave. Insomma, come cittadino non militare, se io
45 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA esprimo dei dubbi sulla onestà della persona «x» posso farlo liberamente, salvo la
possibilità della controparte di denunciarmi per calunnia o diffamazione. Se invece sono
militare ed esprimo giudizi negativi nei confronti di un superiore, allora si tratta di
maldicenza. La controparte può punirmi subito, a norma di regolamento, perché la carta
che regola la vita militare recita all'articolo 38 che: «il militare che si crede leso nei
propri diritti può presentare reclamo anche nei confronti di un superiore. Se il reclamo si
riferisce ad un ordine o ad una punizione, esso può essere presentato solo dopo aver
eseguito l'ordine o scontata la punizione ».
Ma i divieti che rendono il cittadino in divisa diverso da quello che non la porta non si
fermano ai cosiddetti reati d'opinione: investono la sfera privata, la legge dei soldati
irrompe in quella che dovrebbe essere la zona franca degli affetti. Articolo 49, comma 1:
«Il militare per contrarre matrimonio deve attenersi alle particolari norme stabilite dalle
leggi e regolamenti in vigore. Comma 2: «Contratto matrimonio, il militare in servizio
permanente e gli altri militari in attività di servizio debbono darne sollecita
comunicazione all'autorità da cui dipendono». Comma 3 : «Gli ufficiali e sottufficiali in
servizio permanente devono porre particolare cura nella scelta della sposa, tenendo
presente l'ambiente del quale la sposa stessa verrà a far parte».
Dunque, il cittadino in divisa non può seguire i propri sentimenti. Se la donna a cui vuole
bene e che gli vuole bene, non ama l'ambiente militare non dovrà sposarla perché
andrebbe contro il regolamento. Una donna può innamorarsi di un soldato senza amare
le forze armate, magari essere una testimone di Geova e credere nell'obiezione di
coscienza oppure giudicare retrivo e fascista il nostro ordinamento militare, e al tempo
stesso può voler sposare il militare di cui è innamorata. Potrà farlo, ma dovrà occultare
le proprie convinzioni, non partecipando per esempio a manifestazioni politiche alle
quali altrimenti sarebbe andata. Riverniciata da «brava ragazza» non sarà fonte di guai
per il sergente, anche se non avrà mai accettato l'«ambiente » come il regolamento
vorrebbe imporle.
Si potrebbe continuare a lungo, ma bastano questi esempi per comprendere come il
militare è assoggettato a norme che contraddicono la Costituzione e che questo
avviene con il beneplacito della classe politica, senza che al Parlamento, sia stata data
occasione di discutere le norme che avrebbero regolato il più delicato dei settori della
vita pubblica. È questo stesso regolamento a vietare ai militari in attività li servizio «di
svolgere attività o propaganda a favore o contro partiti o candidati politici. Tale divieto continua l'articolo 47 - è sospeso in caso di accettazione di una candidatura alle elezioni
politiche; in questo caso l'attività del candidato dovrà essere svolta in abito civile e al di
fuori dell'ambiente militare ».
Insomma, o ti presenti candidato alle elezioni o non ti puoi occupare di politica. Se c'è
un sergente o un maresciallo che si è presentato alle elezioni e un militare lo vuole
sostenere perché lo stima e ne condivide le idee, c'è il rischio della sanzione
disciplinare. Durante le elezioni del 20 giugno, il Coordinamento sottufficiali ha rivolto un
appello a tutti i partiti (Msi escluso, «non siamo generali golpisti» hanno tenuto a
specificare in un volantino) perché accettassero di presentare nelle loro liste, come
indipendenti, alcuni esponenti dei sottufficiali democratici: si sono presentati, come
abbiamo detto, Paolo Bettin, maresciallo (collegio Venezia-Treviso per il Psi), il
sergente maggiore Carlo Di Carlo (Democrazia proletaria, collegio Venezia-Treviso) e
46 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA Piero Lai (sergente, per il Psi nel collegio PadovaVerona-Rovigo-Vicenza). Dunque chi
ha dato loro appoggio, vestendo l'uniforme, in sede di campagna elettorale, ha violato il
Regolamento-Andreotti ed è passibile di punizione. Non si sa bene quale, data
l'incertezza di queste norme. Qualunque borghese avesse fatto propaganda per Bettin,
Di Carlo o Lai esercitava un suo diritto. Chiunque l'avesse fatto sotto le armi era
passibile di punizione. Ennesima dimostrazione di come i diritti civili sanciti dalla
Costituzione non siano contemplati ma siano addirittura negati dall'attuale ordinamento
militare.
Non soltanto l'attività politica, ma anche le « pubbliche manifestazioni del pensiero» (art.
48) sono assoggettate a pesanti condizionamenti per il militare. L'articolo 48 esordisce
democraticamente: «il militare in servizio permanente e gli altri militari in attività di
servizio possono trattare, a mezzo della stampa, qualsiasi argomento di carattere non
riservato, senza chiedere preventiva autorizzazione». L'articolo, in partenza liberale,
continua così: « devono, però, riflettere sulle responsabilità che assumono e quindi,
attenendosi alle norme e allo spirito della disciplina, devono contenere i propri giudizi in
un riserbo tanto più prudente quanto maggiori sono l'importanza e la delicatezza».
Insomma i giudizi che, per esempio in un articolo di giornale, il militare può esprimere
devono essere «contenuti»: non può dire liberamente la propria opinione, ma deve
osservare « riserbo » e « prudenza » soprattutto se la materia è delicata e importante.
Non è quindi un cittadino come gli altri, a cui la Costituzione garantisce il diritto di
manifestare in piena libertà il proprio pensiero.
Lo stesso articolo 48 concede ai militari la possibilità di tenere conferenze in pubblico,
ma «previa autorizzazione» e «con i criteri e le limitazioni previste per le pubblicazioni a
stampa». È interessante notare come il Regolamento ammetta che quanto stabilito per
la stampa è una « limitazione », una limitazione della libertà di pensiero, e che quindi lo
stesso regolamento è reo confesso di anticostituzionalità. Non è finita: « l'autorizzazione
deve essere richiesta per via gerarchica. La richiesta deve contenere l'indicazione
dell'argomento della conferenza e dei limiti nei quali la trattazione sarà contenuta».
Deciderà, dunque, il superiore: concederà al sottoposto l'autorizzazione a parlare in
pubblico in base a criteri vaghi e confusi che lasciano spazio agli orientamenti politici,
alle simpatie e alle antipatie, vale a dire all'arbitrio.
Il contrasto più clamoroso fra regolamento militare e Costituzione, in tema di diritti civili,
s'incontra all'articolo 46: stabilisce che i militari non possono appartenere ad
associazioni i cui fini o la cui attività possano costituire un ostacolo alla rigorosa
osservanza della disciplina. Esso è in flagrante contrasto con l'articolo 18 della
Costituzione secondo cui i «cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza
autorizzazione, per fini che non siano vietati ai singoli dalla legge penale». Soltanto una
legge penale può limitare il diritto di associazione; la circostanza che i fini o l'attività
possano costituire ostacolo alla rigorosa osservanza della disciplina non è contemplata
nella Costituzione.
47 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA La politica come tabú
L'unico limite previsto dalla Costituzione per i militari è quello introdotto dall'articolo 98, il
quale riserva alla legge la possibilità di introdurre limitazioni al diritto di iscriversi a partiti
politici. Dato che non esiste alcuna legge che vieti ai militari di prendere la tessera di un
partito, non vi dovrebbe essere alcun ostacolo salvo quello frapposto da un
regolamento incostituzionale, illegittimo e inefficace.
Questo sul piano del diritto. Sul piano politico i militari democratici hanno sollevato una
serie di perplessità; in un documento del Coordinamento triveneto presentato a Pisa il
21 febbraio del 1976, si legge: «Si ha paura di politicizzare le forze armate e di
trasformare i luoghi militari in luoghi di disputa politica. Non vogliamo entrare nel merito,
ma ad evitare tale pericolo basterebbe il divieto di fare politica all'interno degli ambienti
militari. Il fatto è che certa classe politica ha tutt'ora l'interesse a mantenere le forze
armate nella cosiddetta apoliticità.
Apoliticità valida, s'intende, soltanto per le basse sfere, se è vero com'è vero che i
generali che contano sono sempre stati nominati dal potere politico in base a valutazioni
politiche ».
«Emarginare i militari dalla vita politica - continua questo documento - inculcando in loro
il concetto di politica intesa come "affare sporco", vuol dire porli in una pericolosa
posizione di spettatori e di custodi che non può non far sorgere in loro la tentazione di
intervenire a correggere quei processi politici che, distaccandosi da posizioni
tradizionali, potrebbero apparire loro processi rivoluzionari. È quindi vitale che anche i
militari partecipino attivamente alla vita politica e siano messi in condizione di
comprenderla.
Ribadiamo il concetto che i soli limiti razionalmente accettabili sarebbero quelli di fare
politica all'interno degli ambienti militari e quello di avere cariche politiche (oltre a quello
di formare un partito essi stessi) ».
Che l'universo militare non sia chiuso in se stesso, avulso dal contesto sociale, che la
caserma divenga un luogo aperto alla circolazione delle idee non è soltanto
un'aspirazione delle avanguardie in divisa, ma è la maggior garanzia perché le forze
armate non costituiscano una reale minaccia per le istituzioni democratiche. Se i valori
espressi dalla società militare sono diversi e spesso in contrasto con quelli espressi
dalla società civile, la conseguenza naturale è che le due società si vengano a trovare
l'una contro l'altra. È per questo motivo che i soldati democratici mirano a superare
l'attuale spaccatura fra militari e civili. L'educazione che viene attualmente impartita al
cittadino in divisa tende infatti ad affermare come validi soltanto i valori di cui sono
depositarie esclusive le forze armate. Si verificano così sempre più frequenti le crisi di
identità, i drammi personali di tanti giovani che per anni hanno creduto nei valori della
democrazia, della libertà, della partecipazione, dell'impegno civile e che
improvvisamente vengono assoggettati ad un'educazione che rinnega tutto questo.
Punizioni, ricatti, minacce, l'amministrazione stessa dei permessi e delle licenze, tutto
l'armamentario fascista del regolamento è impiegato per far loro comprendere che
devono mutare pensiero e comportamento.
48 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA Si legge nella relazione introduttiva del convegno del Coordinamento sottufficiali tenuto
a Venezia nel '76, a proposito del condizionamento culturale di cui è oggetto chi indossa
la divisa: «Deve essere umile e rassegnato, non deve pensare; non deve parlare in
pubblico; non deve fare politica. Deve arrangiarsi. La sua giornata è un vuoto girare a
vuoto, un continuo fare di cui nessuno gli spiega il senso. La politica è una cosa sporca;
i sindacati e i lavoratori hanno rovinato l'Italia. Il giovane deve imparare ad apprezzare
invece il cameratismo, lo spirito di corpo, l'onore, il decoro. Può il popolo italiano
accettare come maestri di onore o come depositari di "verità eterne" generali come
Fanali, De Lorenzo, Miceli e chissà quanti altri ancora, ricorrentemente sospettati dalla
autorità giudiziaria come golpisti, corruttori, concussori?!»
Sono parole rivelatrici della rabbia, dell'esasperazione dei sottufficiali: l'avere espresso
l'aspirazione ad una caserma aperta, in cui il militare abbia rapporti con la società civile,
con i circoli culturali, la scuola, i sindacati, gli enti locali, ha portato in cella di rigore
centinaia di giovani.
Il rifiuto di vivere in una società separata («soltanto così al militare che vede un mondo
cambiare senza che egli si senta minimamente parte di tale cambiamento passerà la
smania di dover intervenire a ristabilire l'unico ordine che conosce: quello fascista » del
codice di pace del '41 e del regolamento-Andreotti che ad esso si richiama) ha
provocato punizioni, trasferimenti, abbassamenti di qualifica, ha fatto saltare
promozioni. Decine di sergenti sono stati congedati e si trovano senza lavoro. La
requisitoria del Coordinamento è durissima: «Le gerarchie militari - continua il
documento di Venezia -, dando prova di uno sconfinato cinismo hanno approfittato del
fatto che l'opinione pubblica era concentrata sul disastro provocato dal terremoto in
Friuli per punire indiscriminatamente i sottufficiali che avevano partecipato alla
manifestazione di Milano (27 marzo 1976)».
Sarà un caso ma proprio dal Friuli è arrivata la dimostrazione più autentica di cosa
dev'essere un esercito e di cosa non dev'essere. I soldati che hanno aiutato
fraternamente la gente colpita dal terremoto hanno ritrovato proprio in quell'occasione i
valori della solidarietà civile. Un'occasione, quella drammatica del terremoto, che ha
consentito al cittadino in divisa di uscire dall'apartheid che gli viene imposto e di stabilire
con la gente quel rapporto d'interscambio di sensazioni, di idee, di esperienze che gli
viene negato dai regolamenti e dalla vita di caserma. In quei giorni, nelle zone
terremotate, i soldati democratici si riunivano in assemblee tra la solidarietà della gente,
delle forze politiche e sindacali, commettendo un reato dato che il codice penale militare
prevede fino a sei mesi di reclusione per il «militare che promuove un'adunanza e vi
partecipa per discutere cose attinenti al servizio e alla disciplina».
La speranza di vedere presto cambiata la propria condizione è - secondo i militari
democratici - ancora lontana. Dopo la bozza Forlani, ritirata in tutta fretta nel gennaio
1976 vista l'accoglienza indignata delle caserme, ecco la legge Lattanzio (d. d. l. 407,
settembre 1976), ministro della difesa del governo Andreotti, che dovrebbe nelle
intenzioni cambiare la qualità della vita del cittadino in uniforme. È ancora in sospeso,
non si sa quando le Camere la discuteranno, ma il progetto è già duramente contestato,
così come oggetto di polemiche è il «libro bianco» sulla sicurezza nazionale e le forze
armate presentato dallo stesso ministero nell'aprile 1977.
49 PARTE TERZA LA COSTITUZIONE DIMENTICATA In un commento al testo-Lattanzio, il Coordinamento sottufficiali delle Tre Venezie lo
definisce una «legge di principio che dimentica alcuni principi». In una loro
pubblicazione, sotto il titolo Ma tutto resta come prima, il sommario dice: «rientra dalla
porta la bozza-Forlani gettata dalla finestra dai movimenti dei militari democratici.
Cambiare sí, ma non in modo gattopardesco».
Perché un rifiuto così intransigente? Il ministro Lattanzio dimostra di accogliere una tesi
sostenuta dai movimenti dei militari democratici: cioè che le nuove norme devono
passare al vaglio del Parlamento, non per decreto-legge come avvenne per il
Regolamento-Andreotti del '64.
In pratica Lattanzio accoglie la tesi giuridica dei militari per cui un semplice regolamento
non può limitare i diritti garantiti dalla Costituzione a tutti i cittadini. Ci vuole una legge?
Eccola. Ma - commenta il Coordinamento delle Tre Venezie - questa è una soluzione
per salvare capra e cavoli. «Difatti, messe le spalle al coperto per quanto riguarda la
legittimità formale, il ministro può dare mano libera alle gerarchie degli stati maggiori per
far rientrare dalla porta la bozza-Forlani che i movimenti dei militari democratici avevano
fatto uscire dalla finestra».
Vediamo come la legge-Lattanzio, a differenza del Regolamento-Andreotti, fa
riferimento alla Costituzione. L'articolo 2 stabilisce che ai militari «sono imposti con
legge particolari doveri e limitazioni all'esercizio di taluni diritti. Allo stesso fine i militari
sono soggetti alle peculiari norme di condotta connaturate alla loro condizione stabilite
dal Regolamento di disciplina militare».
È superfluo entrare nei dettagli della legge-Lattanzio. Riassumiamo schematicamente le
obiezioni dei militari democratici e le loro richieste articolate in cinque punti:
1) stabilire in positivo il pieno godimento da parte dei militari di tutte le libertà e di
tutti i diritti costituzionalmente garantiti ai cittadini;
2) statuire le rappresentanze secondo le indicazioni del movimento dei sottufficiali
democratici;
3) definire il concetto di obbedienza passando da quella attuale, secondo cui essa è
pronta a quella secondo cui è ragionata;
4) stabilire norme precise sulla sicurezza del servizio e delle esercitazioni;
5) abolire le sanzioni disciplinari limitative della libertà personale ed introdurre forme
di tutela efficaci del diritto di difesa e di appello.
50 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE PARTE QUARTA
LA CONDIZIONE MILITARE
Al di là delle richieste di principio, le rivendicazioni specifiche dei sottufficiali investono
l'insieme della condizione di vita dei militari: riguardano gli stipendi e la carriera, l'orario
di lavoro, la casa, la situazione sanitaria, la cultura. Sono stati proprio questi i temi dai
quali ha tratto ragioni il malcontento.
Posizione giuridica.
Chi si arruola volontario deve sottostare ad una ferma speciale della durata di diversi
anni. Si tratta di un vero e proprio contratto di lavoro in cui ogni diritto spetta al padrone.
Durante la ferma un sergente può essere mandato a casa dall'oggi al domani e non ha
la minima tutela. Nell'aeronautica militare la ferma dura in media sette anni, nell'esercito
tre ed è un'autentica spada di Damocle sulla testa dei sottufficiali licenziabili senza
giustificazione. È un vero e proprio ricatto: «alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai».
Quindi i sottufficiali più giovani devono star zitti, non possono reclamare, devono
sopportare eventuali angherie pena la perdita del posto. Lo statuto dei lavoratori e la
giusta causa fanno parte di un altro pianeta.
Il regno dell'arbitrio continua anche dopo, anche quando il sergente maggiore non può
più essere licenziato, grazie al meccanismo delle promozioni. In media, un sottufficiale
dell'aeronautica, abbiamo visto, impiega sette anni a diventare sergente maggiore,
diciassette per diventare maresciallo di terzo grado, venti di secondo grado, venticinque
di primo grado. Gli avanzamenti avvengono su proposta del comando a seguito di
richiesta del ministero tenuto conto dell'anzianità di grado e dopo aver constatato
l'idoneità dell'interessato.
Quali sono i criteri e chi li applica? «Idoneità fisica e morale a discrezione e giudizio del
comandante». Non esistono scatti e promozioni automatiche in base all'anzianità di
servizio, in base a punteggi come avviene in tutte le altre carriere dello Stato, qui conta
soltanto la «discrezione» del comandante. Cioè possono contare il capriccio, l'antipatia
o la simpatia, oppure la tendenza politica dell'interessato. Lo spazio per il ricatto è
enorme: se per i gradi superiori non si può dire «alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne
vai », qui si può benissimo dire « alla prima che mi fai, non sarai promosso mai ».
Non si vede perché in un paese che ha uno Statuto dei lavoratori debba esistere una
categoria di cittadini che lavorano in posizioni di responsabilità quanto mai delicate, che
ne viene esclusa per ciò che riguarda il mantenimento del posto (un impiegato del
catasto o un maestro di scuola non può essere licenziato, perché un sergente si? ) e le
norme che regolano la carriera.
51 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE Orari e retribuzione.
Non esistono regole precise: anche per gli orari è la discrezione del comandante a
determinare le situazioni che possono differire da ente a ente. Un esempio: il ministero
della difesa aeronautica di Roma attua l'orario 7,30-14 così come i comandi territoriali.
Le aerobrigate e stormi attuano orari a discrezione dei comandanti. Ad esempio, per i
piccoli reparti tipo Gruppi I.T. della n aerobrigata l'orario va dalle 8 alle 16,30, salvo orari
operativi di 24 ore (consecutive). Che esigenze diverse possano determinare differenti
orari è normale in qualsiasi campo di attività, ma esistono regole fissate dai contratti a
definire gli orari che non sono certo affidati alla «discrezione» del capo del personale.
Le retribuzioni sono la questione da cui è partito il malcontento dei sottufficiali
democratici anche se oggi il tipo di rivendicazione non è più di carattere economico e
investe l'intera condizione del militare nelle forze armate e nella società. Ecco cosa dice
il documento presentato dal Coordinamento al convegno di Venezia del 1976 in tema di
retribuzioni: « Più delle parole possono le cifre. Attualmente siamo a questi livelli: una
paga base irrisoria ed una paga che è completata e resa più "pingue" da infinite
indennità che niente hanno a che fare in funzione del pensionamento:
Sergente:
L.
Sergente Maggiore:
Maresciallo (3°):
Maresciallo (2°):
Maresciallo (2°):
Maresciallo Scelto:
60.000
95.000
106.000
115.000
128.000
145.000
La tredicesima mensilità corrisponde allo stipendio base. I suddetti stipendi devono
essere leggermente maggiorati in accordo a quanto pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale
n. 133».
In realtà i sottufficiali trovano nella busta paga a fine mese circa il doppio delle cifre
riportate sopra, il che è sempre poco se si pensa alle responsabilità che gravano su
certi specialisti dell'aeronautica (un minimo errore può non far partire un aereo o
provocare un disastro). La tredicesima, comunque, viene corrisposta in base al minimo
senza tener conto delle indennità aggiuntive e per il pensionamento contano gli stessi
parametri minimali.
Il documento di Venezia continua: « I sottufficiali chiedono quindi l'aggiornamento ai
parametri delle altre categorie e che le retribuzioni non vengano più date in base al
grado rivestito bensí agli anni effettivi di servizio. Inoltre chiedono di essere compresi
nella riforma della pubblica amministrazione dalla quale per ora sono esclusi. Per
quanto riguarda gli aumenti eventuali, in percentuale vengono commisurati tenendo
presenti gli emolumenti completi. Se al sottufficiale vengono date 10.000 lire, per il
generale esse diventano 100.000. Non solo queste sperequazioni si verificano fra le
diverse fasce di grado ma anche tra gradi uguali e negli stessi reparti di lavoro fra
individui con medesimi incarichi di lavoro e di responsabilità».
Esempi pratici della precaria situazione economica di molti sottufficiali ne abbiamo già
incontrati in queste pagine raccontando le storie di alcuni di loro. Cifre alla mano, però,
52 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE è facile capire perché la molla economica ha contribuito a far scattare certi meccanismi
psicologici fra i sergenti, i marescialli e le loro mogli, malcontento che li ha portati in
seguito a reclamare un nuovo status del militare che non riguarda solo il conto della
spesa ma il diritto a discutere liberamente la propria condizione di cittadini.
La casa.
Visti questi stipendi appare chiaro che il problema dell'alloggio per i sottufficiali (gli
scapoli dormono in caserma, quelli con famiglia si devono trovare un appartamento) è
una questione vitale. Nelle varie circolari emanate dalle autorità militari preposte, si dice
che «competenti alloggi» saranno edificati. «Ma dove? Quando? Per chi? - ci si chiede
nel documento di Venezia. - Il Bollettino Informazioni n. 22 del 30/9/75 informa che sono
stati stanziati fondi per erigere degli immobili a uso abitazione. Le zone prescelte sono
Roma, Milano, Bari, Napoli». Spiegano i rappresentanti del Coordinamento: «Va da sé
che la scelta non è casuale ma bensí dettata dalla presenza, in queste sedi di una
massiccia rappresentanza di ufficiali superiori, quindi delle alte gerarchie ».
« ... Si sono create delle categorie privilegiate. Nel concedere il diritto di locazione, sia
all'interno dei vari enti, sia nei cosiddetti villaggi azzurri non si tiene conto delle
necessità reali del personale. Si tende a concedere l'alloggio soprattutto agli
appartenenti ai gradi superiori mettendo in chiara difficoltà la categoria dei sottufficiali i
quali si vedono decurtare per il pagamento del canone d'affitto in modo tangibile lo
stipendio».
Per esempio, un maresciallo con due figli emofiliaci ha dovuto trasferirsi da Roma a
Pisa, perché soltanto a Tirrenia esistono le attrezzature ospedaliere per curarli
adeguatamente.
Ha chiesto di poter alloggiare in un appartamento delle case Incis per l'aeronautica,
amministrate dal ministero della difesa, e si è visto rispondere no; mentre - denunciano
gli esponenti del Coordinamento di Pisa -, alcuni di questi appartamenti sono occupati
da ufficiali di grado elevato che abitano magari in tutt'altra parte d'Italia e vi si recano un
paio di volte all'anno: insomma, la seconda casa, quasi sempre vuota, disabitata ma
con i mobili dentro, buona per la villeggiatura.
Mentre, come abbiamo visto, il sergente maggiore Pasquale Totaro dice di essere
andato ad abitare a Torre del Lago perché gli affitti di Pisa sono proibitivi: guadagna con
tutte le indennità circa 300.000 lire al mese, ha moglie e due figli: «A Pisa non si può
spendere per una famiglia di quattro persone meno di 150.000 lire al mese d'affitto. A
Torre del Lago ne spendo 75. 000 píú le spese, più 30 – 40.000 di trasporti per venire in
aeroporto». Fatto sta che intorno al io di ogni mese si trasferisce a Pisa dai suoceri con
tutta la famiglia perché non arriverebbe con i soldi alla fine del mese.
La sanità.
La situazione della sanità militare sottolinea ulteriormente la diversità delle forze armate
rispetto al corpo sociale, dato che la sanità militare non è mai stata partecipe del
53 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE processo di ristrutturazione dell'apparato medico-sanitario italiano. Nessuna riforma o
legge specifica in materia ne ha mai fatto cenno come se, per l'unico motivo di essere
parte integrante dell'esercito italiano, tale corpo si collochi in un contesto staccato dalla
società, senza tener conto che tale servizio anche se per periodi brevi, è preposto alla
salvaguardia fisica dei cittadini di leva.
Ecco alcuni elementi significativi della denuncia della commissione sanità presentata al
Convegno nazionale sulla democratizzazione delle forze armate e sulla condizione del
militare nel giugno 1976 a Venezia.
L'ambiente. I militari si trovano ad alloggiare «in edifici per lo più antiquati e, se recenti,
costruiti male, con scarsi servizi igienici. Dormitori dove i militari vengono ammassati.
Cambio delle lenzuola a scadenze fisse (ogni quattordici giorni) con lavatura presso
lavanderie convenzionate che rimandano le stesse con strappi o buchi, vistose macchie
di natura indefinibile. Docce scarse, con acqua calda solo in determinati giorni. Pulizia
affidata a militari "piantoni" scarsi per numero e con mezzi inefficienti (scopa e
straccio)».
Le malattie più frequenti derivanti dall'ambiente malsano e infetto (latrine e docce)
secondo la denuncia «sono:
a) ossa e articolazioni: sinusiti, atralgie, mialgie, reumatismi;
b) vie respiratorie: riniti, bronchiti, faringiti;
c) affezioni cutanee: eczemi, favi, allergie, micosi, parassiti;
d) malattie gravi: tubercolosi polmonare, pleuriti, epatite virale ».
Il documento prosegue parlando delle mense: «nessun controllo igienico (vengono
chiuse per disinfestazione solo quando la situazione diventa insostenibile), regno incontrastato di topi e scarafaggi. Alimentazione squilibrata con scarso contenuto calorico e
proteico e con abuso di grassi. Il controllo della qualità e della quantità dei cibi è affidato
ad una commissione che nulla può o vuole controllare».
Ne derivano malattie gastroenteriche: gastriti, enteriti, tossinfezioni alimentari. La
denuncia è pesante, può apparire tendenziosa, può darsi che vi siano caserme in cui le
cose non siano proprio come vengono descritte da questa commissione e che
l'assistenza sanitaria funzioni un pò meglio. Ma chi denuncia è gente che conosce a
fondo la realtà delle caserme, sono sottufficiali di carriera e non c'è motivo di dubitare
della loro attendibilità.
Il documento passa alla voce «infermerie»: sono «prive delle più elementari strutture di
base, per non parlare poi delle attrezzature mediche di pronto soccorso che sono del
tutto inesistenti. Sono aperte ad orari differenziati per i militari dei vari gradi, con
trattamento differenziato. Se il militare non ha la febbre non viene considerato malato
ed è pertanto punibile per simulazione; se viene concesso il riposo salta la libera uscita.
Cure empiriche: pillole buone per tutti i mali ed uso smodato di preparati a base di
penicillina nonostante gli studi moderni sulle resistenze batteriche ne sconsiglino gli
abusi [...] il sanitario è per lo più un sottotenente medico neolaureato, con nessuna
pratica ospedaliera e ambulatoriale, che viene coadiuvato nel suo lavoro da personale
della Sanità la cui sola preparazione medica si basa su di un corso di sei mesi. Per lo
più tale personale si deve occupare delle pratiche burocratiche ».
54 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE Gli ospedali militari sono giudicati nel documento dei sottufficiali come l'«incubo di tutti i
militari che per disgrazia vi sono stati ricoverati per intervento chirurgico o in
osservazione, se veramente ammalati»: «mancano totalmente di personale non medico
qualificato (tecnici, infermieri, barellieri). Questi servizi vengono svolti da imboscati o
"collaboratori", cioè da quei soldati che si fanno ricoverare per evitare la vita di
caserma.
Sono loro che fanno le pulizie, aiutano in cucina, raccolgono le anamnesi, distribuiscono
le medicine, assistono gli ammalati. I pochi medici militari qualificati prestano la loro
opera presso ospedali civili o privatamente. Difficilmente hanno tempo a disposizione
per dei semplici militari di leva: tali dottori sono introvabili nelle ore pomeridiane e
notturne ».
Un altro aspetto significativo del nostro ordinamento militare è l'idea di casta che tocca
anche il trattamento sanitario. «Padiglioni per la truppa in cui i soldati vengono
ammassati; camerette singole dotate di tutti i comforts per gli ufficiali. In qualche
Ospedale Militare si arriva addirittura alla chirurgia differenziata (vedi ospedale Celio di
Roma) ».
Oltre ai già citati «collaboratori» prestano servizio: assistenti di sanità che fanno un
corso di poche settimane, assolutamente non qualificante e che si trovano oberati di
lavoro e di responsabilità; sottotenenti medici di complemento neolaureati con nessuna
esperienza, tranne un corso di medicina legale della durata di tre mesi. Sulle loro spalle
grava bene o male tutta la struttura sanitaria. Infatti su 1800 posti necessari, solo 1050
sono occupati (280 da ufficiali di carriera, i rimanenti da ufficiali di complemento).
Che cosa chiedono, in questo quadro, i sottufficiali? «Una radicale ristrutturazione di
tutto l'apparato medico-sanitario militare». «Una commissione di esperti, dopo aver
visitato i luoghi di cura (Ospedali Militari) e di assistenza (infermerie), - sostengono dovrebbe proporre una serie di serie riforme o per lo meno consentire che i militari
usufruiscano dell'assistenza medica che avevano prima di essere chiamati a svolgere il
loro servizio di leva. O per lo meno che i medici civili possano entrare a richiesta in
questi ospedali. E infine che visite periodiche igienico-sanitarie siano effettuate nelle
caserme, nelle camerate, nelle cucine, nelle infermerie ».
Si chiede insomma che la Sanità militare non sia più un corpo staccato ed avulso dal
servizio sanitario nazionale. Anche in questa piattaforma rivendicativa, emerge il dato
costante della protesta che sale dalle caserme: il rifiuto di essere «separati», di essere
considerati una realtà estranea alla società che non porta la divisa.
La cultura.
Il complesso del «diverso» sta anche alla radice di altre rivendicazioni di natura
ideologica. Un esercito che ha una formazione culturale propria, coltivata nel chiuso
della caserma, non può che allontanarsi sempre più dalla realtà che invece vivono le
altre componenti della società. I militari democratici, invece, come emerge da tutti i loro
documenti e da quello che dicono, oggi aspirano a far proprie la cultura e le esperienze
degli altri gruppi sociali.
55 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE Aggiunge il documento della Commissione cultura del già citato convegno di Venezia:
«Il processo si prospetta lento per il fatto che lo stesso sistema che promuove o dirige
le azioni repressive nei confronti dei militari democratici ha fatto sí e fa ancora in modo
che la formazione culturale nell'ambito delle FF.AA. sia indirizzata verso una coscienza
di categoria, di tipo corporativo».
«I gran capi promuovono testate d'arma o di corpo, dirette il più delle volte da generali
che di corretta informazione e democraticità non sono certo i simboli (vedi Fanali);
giornalini certo ben stampati, di costi alti... », «questi strani periodici tendono a
informare chi ne ha già la testa piena sulle varie cerimonie, con articoli roboanti e grandi
fotografie su cui appaiono in prima fila alti gradi repubblichini ieri e golpisti oggi.
Si fanno apologie ben orchestrate su questa o su quella battaglia, imputando chissà
perché sempre alla fortuna e mai alla incapacità dei comandi sconfitte già predestinate
ad essere tali, dimenticando il più delle volte tanti figli del popolo caduti inutilmente».
Le parole che abbiamo virgolettato sono forse retoriche, sono la retorica
dell'antiretorica, non sono certo una critica ragionata e distaccata alla politica culturale
nelle forze armate. Il tono e il linguaggio fanno pensare a uno sfogo più che a un
documento politico, ma forse proprio per i loro difetti sono più vere, più dirette, più
autentiche: nascono da un bisogno reale, da una fame di cultura e di verità, dalla
insofferenza verso le mistificazioni di bandiera che un numero sempre crescente di
militari più non sopporta. Ed è gente che porta la divisa e vuole continuare a portarla:
ma rivendica anche il diritto ad usare la propria testa per crescere in una dimensione
che superi l'universo chiuso della caserma.
«Ed in tutti i reparti - continuano - le basi, le caserme si è visto sempre di malocchio chi,
e non sono pochi, con sacrificio si sforza per conseguire un titolo di studio e migliorarsi
culturalmente. E chi vi riesce viene spesso isolato perché non possa mettere a
disposizione degli altri le proprie esperienze maturate in ambienti esterni a quello
militare ».
«Così come il militare è soggetto a un diverso codice penale, a diverse condizioni
economiche, lavorative e sociali, così è sottoposto a condizionamenti culturali diversi
dal resto del corpo sociale ».
Per cambiare le cose i sottufficiali democratici chiedono:
a) di poter usufruire degli stessi mezzi che oggi hanno a disposizione gli altri
lavoratori (le 150 ore ad esempio);
b) a formazione di biblioteche non sull'arma o su questa o quella guerra, ma
strumenti utili per una solida formazione culturale; spazio e tempo per poterne
dibattere con chi ne è qualificato. Chiedono l'autogestione di tali biblioteche;
c) l'autorizzazione ad organizzare cineforum all'interno dei luoghi di lavoro e
spettacoli teatrali con la collaborazione di gruppi esterni;
d) l'introduzione nei circoli di periodici non più scanda¬listici, ma di vera
informazione democratica;
e) di poter far parte attiva di organizzazioni e circoli culturali democratici esterni
senza incappare nei rapportini dei carabinieri.
56 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE Le rappresentanze.
A conclusione di questa panoramica sulle ragioni concrete del malessere dei militari,
malessere esistenziale, culturale, economico che sta alla base della protesta, resta da
esaminare attraverso quale strumento essi pensano di poter cambiare la loro
condizione. Abbiamo già detto che la stragrande maggioranza rifiuta l'idea del
sindacato: si temono degenerazioni corporative, minisindacati «gialli» telecomandati
dalle gerarchie. Il Coordinamento dei sottufficiali democratici parla invece di
rappresentanze: su come dovrebbero articolarsi, le opinioni divergono fra gruppo e
gruppo ed è in corso un dibattito. Non entreremo nei dettagli.
Ciò che, però, chiedono tutti è di vedere riconosciuto il diritto al cittadino in divisa di
eleggere propri rappresentanti, aventi il compito di curare i rapporti con le
organizzazioni sociali e culturali e di tutelare gli interessi legittimi dei militari in quanto
lavoratori.
I presupposti indispensabili perché le rappresentanze possano funzionare sarebbero:
1) la irresponsabilità dei rappresentanti per le decisioni e i pareri da loro
legittimamente espressi;
2) l'impossibilità di trasferire, punire o di abbassare la qualifica dei rappresentanti;
3) la possibilità di riconoscere come orario di lavoro l'attività svolta in funzione di
rappresentante.
Sono normali garanzie sindacali ampiamente previste dallo Statuto dei lavoratori, con
l'unica differenza che i cittadini in divisa sono esclusi da questa tutela.
È vero che all'articolo 16 della proposta di legge-Lattanzio viene ammesso il principio
della rappresentanza, ma vediamo come. «Pur rimanendo dovere dei capi, a tutti i
livelli, di tutelare gli interessi dei propri subordinati e di segnalare per la via gerarchica,
ogni loro necessità, i militari dispongono di propri organi rappresentativi, aventi la
funzione di prospettare le proprie istanze di interesse collettivo alle autorità... Gli organi
rappresentativi che devono dunque operare nel rispetto del Regolamento di disciplina
militare, non possono trattare argomenti attinenti all'ordinamento, all'addestramento,
alle operazioni, alla disciplina e all'impiego del personale».
A questo punto viene spontaneo domandarsi che cosa ci stanno a fare? Di che cosa si
possono occupare? Certamente non discutere una punizione, visto che di disciplina non
possono parlare, non dei trasferimenti o dei permessi, visto che anche l'impiego del
personale secondo il ministro Lattanzio è tabù, non dell'organizzazione del lavoro.
Secondo i sottufficiali del Coordinamento, invece, compiti delle rappresentanze
dovrebbero essere: «collaborare con il comandante della base nel momento
dell'erogazione delle sanzioni disciplinari, dando il proprio parere sulla opportunità di
punire e sull'entità e specie della punizione»; «coadiuvare il comandante nella
valutazione del personale e nella risoluzione di altre questioni quali licenze, permessi,
orari di lavoro, vertenze di lavoro, controllo sulla gestione dei circoli e delle mense».
Tutto già escluso in partenza dal secondo comma dell'articolo 16 della proposta di
legge-Lattanzio.
57 PARTE QUARTA LA CONDIZIONE MILITARE È comprensibile che la risposta dei militari alla legge sia stata «ma tutto resta come
prima», tanto più che nel comma seguente lo stesso articolo recita: «la composizione, le
modalità di costituzione, il numero, il livello degli organi rappresentativi, la elencazione
dettagliata delle materie di specifica competenza di ciascuno di essi, nonché le autorità
alle quali accedere sono fissati con Decreto del ministero della Difesa, su proposta del
Capo di Stato Maggiore della Difesa sentito il Comitato dei Capi di Stato Maggiore, da
emanare entro 6 giorni dall'entrata in vigore della legge stessa ».
Insomma, decideranno sempre loro: come, non si sa, tutto resta vago ed incerto. Ci
penserà un decreto ministeriale dopo ampie consultazioni delle alte gerarchie militari.
Perché non il Parlamento si chiedono sottufficiali e soldati?
Scrivono in un documento i rappresentanti del Coordinamento sottufficiali delle Tre
Venezie. «È necessario che il Parlamento discuta ed approvi una legge in cui siano
regolati con precisione tutti i vari aspetti della disciplina militare ed in cui siano prescritte
finalità, composizione e competenze delle rappresentanze».
Nella legge-Lattanzio tutto ciò resta misterioso. Le forze politiche, con il decreto legge,
sono tagliate fuori dal dibattito: si scambieranno pareri gli alti gradi e quello che si
diranno sarà legge. La filosofia del corpo separato dalla realtà sociale è sempre
saldamente tutelata.
58 CONCLUSIONE
A conclusione di questo libro che ha tentato di ricostruire dal basso la storia dei
movimenti democratici dei militari e gli obiettivi delle loro lotte, non possiamo non porci
la domanda che si sono posti i radicali nel mettere sul tappeto nella primavera 1977 due
referendum abrogativi dell'attuale ordinamento giudiziario militare e dei tribunali militari.
Ha un senso l'esistenza di «reati militari» o non è necessario che il cittadino in divisa sia
perseguito esclusivamente per reati comuni dal proprio giudice naturale?
Devono ancora sussistere i tribunali militari come «tribunali speciali» di una casta o, in
armonia con il nostro ordinamento costituzionale, non è più giusto prevedere sezioni
speciali di tribunali ordinari, come ne esistono per il diritto del lavoro e per altre materie?
La nostra risposta a queste domande è ovvia, ma questo libro ha voluto, sulla scorta di
fatti e di vicende personali, riproporle alle forze di sinistra, ai cittadini, al legislatore.
I radicali hanno individuato un modo, nel referendum, per chiedere l'abrogazione totale
dei codici esistenti; ma le altre forze di sinistra, massicciamente presenti in Parlamento,
hanno la possibilità di raggiungere i medesimi obiettivi per via legislativa. Secondo i
radicali, tutto ciò fa parte di una più vasta battaglia per la graduale conversione delle
strutture e del servizio militare in strutture e servizi civili. É la tematica antimilitarista che
buona parte delle forze politiche non condivide nei termini del partito di Pannella. Per
tutte le forze democratiche, però, dovrebbe almeno essere chiaro che l'abolizione di
questa «giustizia di casta» fa parte integrante della lotta di chi vuole far entrare nelle
caserme i diritti civili e costituzionali che devono valere per tutti i cittadini in qualsiasi
momento della loro esistenza, e quindi anche quando indossano la divisa.
Il processo al capitano della polizia Margherito, celebrato nel 1976 davanti al tribunale
militare di Padova ha fornito l'ennesima dimostrazione della reale funzione delle leggi
militari e dei tribunali speciali: strumenti di ricatto e d'imposizione dell'ordine e
dell'obbedienza cieca all'interno dei corpi militari separati. Come per Margherito, è
avvenuto per Sotgiu, Mauri, Maggi, Totaro, Spagnul e tanti altri delle cui vicende
abbiamo riferito.
Non ha senso quindi dibattere sulla democratizzazione delle forze armate e degli altri
corpi militarizzati se si prescinde dalla denuncia del modello organizzativo militare e
degli strumenti che concorrono a realizzarlo completamente e a imporlo. Il cittadino
militare sarà sempre un esecutore acritico degli ordini, senza alcuna possibilità di
discuterli anche quando appaiano evidentemente illegittimi, finché sarà minacciato
costantemente da sanzioni che ad ogni livello possono essere decise senza alcuna
garanzia di difesa e di corretto giudizio.
Soltanto la piena attuazione delle libertà civili, dei diritti politici e sindacali per tutti i
militari, di ogni grado, potrà consentire ai membri dell'istituzione una reale pratica del
dissenso e del controllo democratico, un reale legame con le organizzazioni
democratiche sulla base dell'eguaglianza delle opportunità di espressione politica. E
questa attuazione passa necessariamente attraverso l'abolizione delle norme
anticostituzionali e illiberali dei codici militari e dei tribunali speciali.
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