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fisica e... - Società Italiana di Fisica
fisica e... Lucy e le altre Claudio Tuniz Centro Internazionale di Fisica Teorica ‘Abdus Salam’, Trieste, Italia Center for Archaeological Science, University of Wollongong, Australia I paleoantropologi studiano i resti fossili delle diverse specie umane e pre-umane per ricostruire la nostra storia evolutiva. Gli strumenti e i metodi sviluppati dai fisici contribuiscono a queste ricerche rivelando i segreti custoditi in ossa, denti e altri reperti del passato. Image courtesy of the Huston Museum of Natural Sciences 1 Introduzione Secondo l’arcivescovo irlandese del Settecento James Ussher, che si basava sulla genealogia riportata nella Bibbia, Adamo fu creato il 23 ottobre 4004 a.C., alle nove del mattino, 5 giorni dopo la creazione della Terra; Eva subito dopo. La maggiore età della Terra era già stata intuita indirettamente dai principali geologi del tempo (fra cui James Hutton). Inoltre, Georges L. Leclerc de Buffon, fisico-naturalista, e lo stesso Newton, avevano calcolato un’età che andava oltre i limiti definiti da Ussher. L’evidenza di un pianeta plasmato da lenti e lunghi processi di trasformazione, ancora operanti nel presente, era comunque alla base dell’attualismo di Charles Lyell, eminente geologo dell’Ottocento e mentore di Charles Darwin. Secondo Darwin, l‘origine della Terra doveva essere così lontana da permettere l’evoluzione di “infinite forme estremamente belle e 24 < il nuovo saggiatore meravigliose” [1]. Né si accontentava dei venti milioni di anni calcolati da Lord Kelvin con l’uso della termodinamica. Il mondo doveva essere più antico. La scoperta della radioattività, nel 1896, gli darà ragione, ma ci vorrà oltre mezzo secolo per avere una risposta definitiva. Solo nel 1953, infatti, fisici e geologi riusciranno a dimostrare, misurando gli isotopi del piombo prodotti nelle rocce dalla radioattività dell’uranio naturale, che la Terra si formò dalla nebulosa primordiale 4,55 miliardi di anni fa, con un errore di ± 70000 anni. L’uomo è stato una delle ultime forme ad evolversi, a partire dai primi cianobatteri, apparsi circa 3,8 miliardi di anni fa sulla superficie rovente della Terra1. Darwin menzionò l’origine dell’uomo solo verso la fine della sua opera, quando disse, in un’unica frase premonitrice: “Si farà luce sull’origine dell’uomo e sulla sua storia”. E così fu, come vedremo, attraverso il contributo di molte discipline scientifiche, fra cui la genetica (fig. 1). Attraverso l’analisi del DNA mitocondriale femminile [3], ad esempio, un gruppo di biologi americani suggerì, nel 1987, la nostra origine comune, riconducibile a un piccolo gruppo fondatore di H. sapiens intorno a 200 mila anni fa, dentro il quale è sopravvissuto un solo DNA mitocondriale, poi ereditato con variazioni dai discendenti2. Ma la storia dell’evoluzione umana è anche scritta nel DNA degli umani estinti, come nel caso dei Neanderthal. Recentemente, la genomica e la paleogenomica sono 1 La temperatura globale durante l’Archeano è in realtà controversa. Recenti analisi degli isotopi dell’ossigeno in sedimenti di questo periodo suggeriscono che la temperatura oceanica fosse compresa fra 26 °C e 35 °C [2]. 2 Tale ipotesi è ancora controversa, soprattutto alla luce dei recenti risultati sul DNA dei Neanderthal. Fig. 1 Diversità umana 50000 anni fa. Da sinistra, H. neanderthalensis, H. floresiensis, Homo sapiens (Australia), H. sapiens (sud-est asiatico), H. erectus e orangutan (disegni di Tullio Perentin, ZOIC, da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)). risultate particolarmente preziose, grazie ai nuovi strumenti per il sequenziamento genetico. Perfino il DNA dei pidocchi può raccontare la storia dell’evoluzione umana. L’ultimo antenato comune del pidocchio dello scimpanzé e di quello umano (Pediculus humanus capitus) viveva infatti sei milioni di anni fa: data suggerita per la separazione di scimpanzé e umani dal loro comune antenato. Gli ominini – che comprendono l’umanità attuale e tutti gli antenati bipedi degli umani fino alla separazione dallo scimpanzé – hanno acquisito una seconda specie di pidocchi (Phthirus pubis), evolutasi dalla specie presente nel gorilla 3-4 milioni di anni fa; questo suggerisce una data per la riduzione dei peli corporei dell’uomo. Il DNA del terzo pidocchio umano (Pediculus humanus corporis), che vive nei vestiti e si sposta sulla pelle per nutrirsi, dimostra che l’antenato comune del pidocchio del corpo e di quello del capo viveva oltre 80000 anni fa; questo consente di ipotizzare quando l’uomo indossò i primi indumenti [4]. Fino a non molto tempo fa sapevamo del nostro passato profondo grazie ai miti e alle religioni. Le ossa di un ominino estinto potevano essere considerate, dai cinesi, resti di un drago, da polverizzare e mettere nel tè come afrodisiaco; oppure, da altri, appartenere ad una vittima del diluvio universale. Ma non erano certo il prodotto di milioni di anni di evoluzione. Ora, grazie alla scienza, non è più così. Fisici, chimici, geologi, paleontologi, paleoantropologi, genetisti, biologi, paleoclimatologi e archeologi consentono di illuminare il passato profondo, avvalendosi del metodo scientifico. Fra le varie discipline, la fisica ha sicuramente un posto d’onore. Conoscendo il linguaggio degli isotopi e con l’uso di radiazioni X ad alta energia si possono leggere nelle ossa degli esseri umani del passato i segreti delle nostre origini. Ecco alcuni esempi. I radionuclidi 14C (T1/2 = 5730 anni), 10 Be (1,39 milioni di anni), 27Al (717 mila anni), 40K (1,248 miliardi di anni), 238 U (4,468 miliardi di anni) e molti altri– analizzati usando acceleratori o microsonde a laser e ioniche – permettono di capire quando gli ominini erano vissuti o quando si sono estinti. Anche gli effetti della radioattività naturale nei denti fossili o in certi cristalli può fornire informazioni sulla cronologia della preistoria. Isotopi stabili, per esempio dell’azoto e del carbonio, rivelano la dieta degli ominini. Altri isotopi, per esempio dell’ossigeno e del deuterio, permettono di leggere il clima del passato in sedimenti, stalattiti e altri archivi geologici. Conoscendo la fisica del Sistema Terra si possono integrare tali informazioni con modelli climatici capaci di ricostruire i paleo-ambienti vol27 / no5-6 / anno2011 > 25 fisica e... Fig. 2 Percorsi ed epoche della diffusione degli umani moderni secondo le evidenze genetiche e archeologiche. Le aree emerse durante l’espansione dei ghiacciai sono colorate in beige e rosa (da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)). che determinavano le migrazioni umane e pre-umane (fig. 2). D’altra parte, le variazioni climatiche, spesso estreme, alimentavano il motore dell’evoluzione che preparava l’entrata in scena della nostra specie, in contemporanea con altre specie umane. In effetti, in base ai ritrovamenti fossili, si dovrebbe parlare di diversi modi di essere umani (o pre-umani) e non di “anelli mancanti”. Altre specie umane nostre contemporanee erano H. neanderthalensis, H. floresiensis, e quella recentemente scoperta in Siberia, dei cosiddetti “Denisoviani”. Con l’arrivo di H. sapiens in nuovi continenti, non solo fu rapidamente ridotta la biodiversità umana, ma si ridusse anche quella di molte specie di animali, soprattutto di grandi dimensioni, la cosiddetta megafauna. La tigre dai denti a sciabola (Smilodon) e molte specie di bisonte sono spariti improvvisamente dalle Americhe 13000 anni fa, mentre il leone marsupiale Thylacoleo carnifex, il lucertolone 26 < il nuovo saggiatore Megalania prisca e l’uccello gigante Genyornis newtoni si sono estinti in Australia circa 50000 anni fa. Lo stesso è avvenuto per i Neanderthal, scomparsi circa 30000 anni fa, in Eurasia. In tutti i casi le date, determinate con precisione usando il radiocarbonio, la luminescenza e le serie dell’uranio, coincidono con l’arrivo di H. sapiens. I fisici hanno poi sviluppato nuovi microscopi, come ad esempio la microtomografia a luce di sincrotrone, che permette di effettuare l’istologia virtuale dello smalto dentario, rivelando a che età era morto un ominino e quanto era stata lunga la sua adolescenza, oppure gli stress subiti dalla megafauna prima della sua estinzione. I denti costituiscono il reperto fossile più ubiquo e nella loro microarchitettura interna conservano preziose informazioni su crescita, sviluppo, dieta, migrazioni e patologie. In generale, le diverse parti dello scheletro mantengono nella loro struttura interna un archivio della storia biologica e biomeccanica dell’organismo, associata a specifiche funzioni. Questa breve rassegna sulle nostre origini, basata su famosi personaggi umani e pre-umani – spesso femminili, vuole mettere in evidenza i crescenti apporti dei metodi fisici negli studi dell’evoluzione umana. 2 Jenny Jenny, il primo orangutan acquisito dallo Zoo di Londra nel 1838, era destinato a provocare fascino e repulsione nei benpensanti dell’epoca. La regina Vittoria, per esempio, la trovò “disgustosamente umana”. Quando Darwin la vide, invece, vestita con un grembiulino a fiorellini, esclamò: “è proprio come una bambina”. Negli anni successivi Darwin meditò molto sul nostro rapporto con le scimmie, in connessione con la sua teoria dell’evoluzione. Furono c. tuniz: lucy e le altre l’abbondanza e la varietà di scimmie che caratterizzavano certe zone dell’Africa a fargli dire: “è in certo modo più probabile che i nostri progenitori vivessero nel continente africano che non altrove” [5]. La società di allora, soprattutto nei settori più vicini al mondo religioso, non fu certo tenera con Darwin, il quale fu ridicolizzato sui giornali con caricature che mostravano la sua testa barbuta su un corpo di scimmia. D’altra parte, i naturalisti e gli avventurieri si misero subito a cercare il cosiddetto “anello mancante” – un concetto fuorviante, come abbiamo già anticipato – tra noi e le scimmie. Uno di questi era il medico olandese Eugene Dubois, che nel 1891, a Giava, scoprì Pithecantropus erectus, poi chiamato H. erectus3. Quindi, nei primi tempi, il cosiddetto “anello mancante” fu trovato in Asia e non in Africa. Bisognava aspettare ancora trent’anni prima che l’australiano Raymond Dart trovasse in Sudafrica il bambino di Taung, il primo australopiteco, confermando così le idee di Darwin. Nella teoria dell’evoluzione, la nostra connessione con le scimmie è l’aspetto che ha destato più scalpore, con interpretazioni ingannevoli e preconcetti che continuano ancora ai giorni nostri. Nel 2010, in occasione della scoperta di Australopithecus sediba in Sudafrica [6], i maggiori giornali italiani titolavano: “Trovato il presunto anello mancante tra l’uomo e la scimmia”. In verità, con le scimmie antropomorfe spartiamo un antenato comune che, come vedremo, forse aveva più caratteri in comune con la linea degli ominini che ha portato all’uomo piuttosto che non con le altre scimmie antropomorfe ancora viventi. Le prime scimmie antropomorfe (chiamate anche ominoidi) apparvero circa 30 milioni di anni fa in Africa, quando questa era completamente separata dagli altri continenti4. Esse si erano evolute a partire dai primati che avevano finito con l’occupare quasi tutte le terre emerse 55 milioni di anni fa. Gli isotopi ci dicono che la temperatura globale era allora salita di 5–10 °C, probabilmente per l’effetto serra dovuto ad un aumento di CO2 nell’atmosfera, favorendo così lo sviluppo di foreste sempreverdi fino alle alte latitudini. Quaranta milioni di anni fa la placca indiana si scontrò con quella del resto dell’attuale continente eurasiatico, formando l’Himalaya e innalzando l’altipiano del Tibet; questo cambiò la circolazione atmosferica e fece assorbire l’anidride carbonica dalle rocce appena formate. Il minore effetto serra, unito alle variazioni delle correnti oceaniche, fece così precipitare la temperatura globale. Diciannove milioni di anni fa, Africa ed Eurasia, prima separate, rientrarono in contatto in seguito allo spostamento della zolla arabica. Gli ominoidi poterono così espandersi su un territorio caratterizzato da fitte foreste, dove, essendo dotati di uno spesso smalto dentario, potevano avere una dieta più flessibile. Per molti milioni di anni, una grande varietà di ominoidi (più di 100 specie) visse così in un’area che andava dalla penisola iberica, alla Cina e all’Africa meridionale, con il mare che separava e ricongiungeva periodicamente l’Africa e l’Eurasia. Oltre ai gibboni asiatici (Hylobates), ora sono sopravvissuti solo 4 generi di ominoidi, Pongo (due specie di orangutan, nel Borneo e a 4 3 Dubois scoprì Trinil 1 (il molare di P. erectus) nell’ottobre 1891, Trinil 2 (la calotta) nell’ottobre 1891, Trinil 3 (il femore I) nell’agosto 1892, pubblicando i risultati nel 1894. La divergenza fra ominoidi (Hominoidea) e “scimmie del Vecchio Mondo” (Cercopithecoidea) è spesso fatta risalire a 25–23 milioni di anni fa. Recenti scoperte anticipano questa divergenza a 29–28 milioni di anni fa [7], confermando analoghe conclusioni ottenute con analisi genomiche. Sumatra), Pan (bonobo e scimpanzé) e Gorilla (varie specie) in Africa, e l’ultima sopravissuta specie di Homo. 3 Ardi L’ardipiteca Ardi, diventata famosa nel 2009 [8], è la femmina di un ominino molto vicino al nostro antenato comune con le scimmie. Con un cervello di 350 cm3, pesava cinquanta chili e aveva una statura di 120 cm. Le ossa di Ardipithecus ramidus sono state scoperte nell’Afar, in Etiopia, tra due strati di depositi vulcanici. Ardi è stata datata a 4,4 milioni di anni con il metodo potassio-argon. I depositi vulcanici contengono una grande quantità di potassio, per cui il decadimento del 40K in 40Ar può essere utilizzato come un orologio geologico. Il nuclide figlio è un gas che non esiste nelle rocce provenienti da eruzioni vulcaniche, ma si accumula man mano che il nuclide genitore decade. Si riesce a risalire alla concentrazione di 40Ar riscaldando il campione ed effettuando le analisi con uno spettrometro di massa. Il metodo richiede anche di conoscere la concentrazione di 40 K; questa è ottenuta irradiando il campione in un reattore nucleare. Le reazioni dei neutroni con 39K producono 39Ar, che può essere usato per determinare la concentrazione di potassio. Alla fine lo spettrometro misura contemporaneamente 39Ar e 40 Ar, fornendo la data del materiale. L’accuratezza della datazione è stata recentemente perfezionata con l’uso di laser per estrarre l’argon da singoli granuli di lava. Con il metodo potassioargon si possono misurare età fino a oltre 4 miliardi di anni fa. L’analisi con la tomografia ai raggi X sulle ossa del bacino di Ardi suggerisce un comportamento locomotorio “multicomponente”: la quadrupedia arboricola è infatti integrata con la presenza di nuove caratteristiche anatomiche da bipede. Ardi aveva vol27 / no5-6 / anno2011 > 27 fisica e... lunghe braccia per continuare ad usare gli alberi mentre esplorava nuovi habitat camminando. Andando a ritroso nel tempo, verso l’antenato comune, i nostri antenati diventano sempre meno simili agli umani attuali, ma non è vero che diventano sempre più simili alle odierne scimmie antropomorfe. Grazie ad A. ramidus, sappiamo che il camminare sulle nocche e la brachiazione sono specializzazioni di alcune moderne scimmie antropomorfe. Ardi, e probabilmente anche l’antenato comune, erano invece animali di foresta generalisti, prevalentemente arboricoli. Non lontano da Ardi è stato rinvenuto anche un ominino più antico, Ardipithecus kadabba, con età argon-argon di 5,8–5,5 milioni di anni. Secondo molti paleoantropologi, egli era simile ad altri ominini più arcaici, come Sahelanthropus tchadensis (battezzato Toumai dagli scopritori), trovato in Africa Centrale, con un’età di 7,0–5,5 milioni di anni, e come Orrorin tugeniensis, trovato in Kenya, con un’età argon-argon di circa 6,0 milioni di anni. Queste date, sebbene riferite a resti fossili ancora controversi, sembrerebbero compatibili con le analisi genetiche che indicano un’età di 5–7 milioni di anni per l’ultimo antenato comune fra gli ominini e gli scimpanzé. I metodi della fisica sono utili anche in altre applicazioni. Ad esempio, il cranio di S. tchadensis, trovato schiacciato e distorto nel deserto del 28 < il nuovo saggiatore Chad, era difficile da caratterizzare, ma la tomografia computerizzata a raggi X (effettuata con un TAC ospedaliero ) ha consentito una ricostruzione virtuale [9], suggerendo che apparteneva ad un bipede, anche se questa conclusione risulta ancora controversa. Per dirimere la questione, una microtomografia ad alta risoluzione è stata eseguita presso la European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble, ma non è stata ancora pubblicata [10]. 4 Lucy Lucy, femmina della specie A. afarensis, era alta 110 cm, pesava trenta chili e aveva un cervello di circa 400 cm3. Datata con il metodo argon-argon a 3,2 milioni di anni, fu battezzata così dai suoi scopritori che, in quella serata etiope del 1974, stavano ascoltando la canzone Lucy in the Sky with Diamonds (J. Lennon-P. Mc Cartney). I resti eccezionalmente completi di Lucy consentono di capire importanti dettagli sull’evoluzione umana, in particolare per quanto riguarda il sesso femminile. Lucy aveva l’osso iliaco più largo e meno appiattito di quello di Pan. Una leggera curvatura dell’ala dell’ileo consentiva di aggiungere un attaccamento anteriore laterale ai muscoli che agivano sul femore quando camminava senza far perdere le caratteristiche che consentivano la vita arboricola. La maggiore distanza dei femori, dovuta anche all’allungamento del collo femorale permetteva agli australopitechi una migliore arrampicata sui tronchi degli alberi, utile per bipedi che volevano mantenere questa opzione, pur avendo perso le capacità prensili delle scimmie. Ma l’ampiezza dell’osso pelvico di Lucy e di altri pre-umani, mentre agevolava il bipedismo, cominciava ad aumentare i rischi della procreazione. Un piccolo Pan, con un volume cerebrale inferiore a quello della cavità pelvica, poteva attraversare il canale della nascita, di sezione costante, senza nessuna rotazione, uscendo con la nuca all’indietro e gli occhi rivolti alla madre. La nascita è molto più complicata per il piccolo umano moderno, che deve superare un canale della nascita il cui asse maggiore in uscita è perpendicolare a quello in entrata. Egli deve prima allineare le spalle con l’asse maggiore del canale in ingresso, e poi deve ruotare nuovamente per allinearsi con l’asse maggiore del canale in uscita. Alla fine, il piccolo uscirà con la nuca rivolta alla madre dopo aver operato due mezze rotazioni. Questo rende molto difficoltosa l’auto-assistenza al parto della madre. In Lucy l’ingombro della testa è minore della sezione della cavità pelvica, come in Pan, ma la ricostruzione delle diverse sezioni della cavità suggeriscono una dinamica di nascita a mosaico: pur avendo bisogno di un allineamento all’ingresso, c. tuniz: lucy e le altre come gli umani moderni, il piccolo Australopitecus poteva scendere attraverso tutto il canale senza ulteriori rotazioni, come il Pan. Si ipotizza che le australopitecine abbiano perciò già avuto bisogno di una certa assistenza durante il parto [11] come le umane. Ma le madri non sono certo le sole a subire lo stress della nascita. Poiché gli stress biologici si fissano nello smalto dentario, è possibile identificare il trauma della nascita nella linea neo-natale dei denti decidui. Con il metodo della microtomografia in contrasto di fase con luce di sincrotrone è possibile generare immagini tridimensionali dei denti con risoluzioni mille volte superiori a quelle di una TAC ospedaliera. Questa tecnica è stata applicata all’ESRF di Grenoble per studiare i denti del piccolo australopiteco di Taung. Contando le linee di crescita dello smalto si può anche valutare l’età alla morte e la durata dell’età dello sviluppo, che in generale è più breve per le scimmie e i pre-umani e più lunga per gli umani. Si ottengono così analisi confrontabili con sezioni istologiche osservate al microscopio, senza però sezionare il dente. Le linee di Retzius per i denti del bambino di Taung (misurate con una risoluzione spaziale inferiore al micrometro presso l’ESRF) rivelano che esso morì a quasi quattro anni, dopo aver raggiunto uno sviluppo simile a quello di uno scimpanzé a lui coetaneo. 5 Nutcracker All’inizio del Quaternario, 2,6 milioni di anni fa, vaste aree dell’Africa subirono enormi trasformazioni ambientali, diventando sempre più secche e più fredde, e gli animali che non riuscirono ad adattarsi si estinsero. Le forze selettive dell’evoluzione portarono a nuove specie di animali e questo valse anche per i pre-umani. Uno di essi, Australopithecus boisei, apparve nell’Africa orientale di due milioni di anni fa. ‘Nutcracker’, come fu soprannominato da Mary Leakey, aveva denti più piatti e forti di Lucy, con smalto spesso e mandibole robuste. Poteva così ampliare la propria dieta da quella originaria a base di frutta e foglie, ad una più varia che comprendeva anche radici, tuberi e noci. L’analisi degli isotopi stabili del carbonio suggerisce che la sua dieta era dominata da cibo vegetale di bassa qualità quali erbe e carici (piante acquatiche della famiglia delle Cyperaceae) [12]. Un ominino simile, Australopithecus robustus, apparve pure nell’Africa meridionale. Esso aveva potenti muscoli masticatori, ancorati ad una caratteristica cresta sagittale sul cranio, e molari massicci, adatti a una dieta a base di piante ad alto contenuto fibroso. L’analisi del rapporto 13C/12C nello smalto dei denti sembrerebbe confermare che A. robustus si nutrisse anche d’insetti vari fra cui le termiti. La microanalisi degli isotopi del carbonio e dell’ossigeno nei suoi denti, effettuata con la spettrometria di massa ad ablazione laser, mostra che l’ominino adattava la dieta alle variazioni stagionali. Dopo Lucy possiamo quindi osservare una biforcazione nella sperimentazione dell’evoluzione. Una direzione viene seguita dalle varianti di Australopithecus, come A. boisei e A. robustus, da molti autori attribuiti al genere Paranthropus, che dopo aver adattato la loro dieta per sopravvivere nei nuovi ambienti africani, si estingueranno comunque. La seconda direzione, di maggiore successo, come vedremo, contempla la crescita del cervello e un notevole miglioramento nella locomozione bipede. 6 Homo A causa del deterioramento del clima globale, vaste aree della massa continentale comprendente l’Africa, l’Asia e l’Europa si ricoprirono di tundre e di steppe. Ed è in quest’ambiente, nell’Africa orientale, che apparve il primo rappresentante di un nuovo genere di ominini, il cui cervello aveva raggiunto un volume di 600 cm3. Era compiutamente bipede, con le dita di mani e piedi più corte e poco adatte ad arrampicarsi sugli alberi. Resti scheletrici assegnati ad Homo habilis hanno età che vanno da 2,3 e a 1,44 milioni di anni [13]. A Hadar, in Etiopia, sono Fig. 3 Nell’ordine, ricostruzione dei crani di H. habilis, H. ergaster, H. neanderthalensis, H. sapiens (disegni di M. Tiberio e W. Gregoric, da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)). vol27 / no5-6 / anno2011 > 29 fisica e... Fig. 4 Ricostruzione di H. neanderthalensis, Neanderthal Museum, Mettmann, Germania (foto C. Tuniz). stati trovati strumenti litici associati a quest’ominino in livelli geologici datati intorno a 2,5 milioni di anni fa; questo risultato fu ottenuto con vari metodi, compreso quello delle tracce di fissione. Quest’ultimo metodo si basa sull’accumulo, in minerali vulcanici, degli effetti dovuti alla fissione spontanea del 238U, presente in traccia nelle rocce. I frammenti di fissione producono tracce microscopiche in cristalli come l’apatite, le quali si possono preservare per milioni di anni, se rimangono sotto 120 °C circa. Le tracce sono rese visibili con attacco di acido fluoridrico e contate al microscopio. La densità delle tracce fornisce quindi l’intervallo trascorso dall’ultima eruzione vulcanica, ma serve conoscere la concentrazione di uranio. Questa viene calcolata irradiando il campione in un reattore nucleare, i cui neutroni inducono la fissione dell’ 235U, effetto che viene misurato contando le tracce di fissione. Con il metodo delle tracce di fissione si 30 < il nuovo saggiatore Fig. 5 Microtomografo computerizzato a raggi X, in operazione presso il Laboratorio Interdisciplinare dell’ICTP e dedicato ad applicazioni in campo archeologico e paleoantropologico. Il sistema è stato progettato e costruito in collaborazione con Sincrotrone Trieste, con il supporto finanziario della regione Friuli-Venezia Giulia (immagine ICTP). possono ottenere datazioni fino a oltre un miliardo di anni fa. H. habilis aveva lunghe braccia e dimensioni fisiche simili a quelle delle australopitecine, creando difficoltà a distinguere i due generi in questa prima fase di Homo. Recentemente sono stati scoperti in Africa meridionale una femmina adulta e un ragazzo di una nuova specie, A. sediba, datati a 1,977 ± 0,002 Ma [14], utilizzando il decadimento di 235U in 207Pb e 238U in 206 Pb. Questa specie pre-umana ha un cervello paragonabile a quello di una scimmia antropomorfa, ma i denti, le gambe e la pelvi sono simili a quelli umani. L’analisi del cranio del giovane con la microtomografia a luce di sincrotrone ha permesso di ricostruire la forma del suo cervello, caratterizzato da lobi frontali asimmetrici, come negli umani. I risultati suggeriscono che la riorganizzazione neurale fosse iniziata nella linea pre-umana prima dell’espansione del cervello, con un possibile aumento di connessioni nella regione che negli umani è associata al linguaggio e al comportamento sociale [15]. Gli scopritori credono che A. sediba rappresenti una specie che collega A. africanus e Homo, ma secondo altri paleoantropologi non abbiamo abbastanza dati per stabilire se Homo si sia evoluto da una delle specie di australopiteco note. Una nuova specie, Homo ergaster, apparve in Africa circa due milioni di anni fa. Il campione di riferimento è un ragazzo scoperto nel 1984, vicino al lago Turkana, in Kenya, denominato ‘Nariokotome boy’. Alto 175 centimetri, con un peso doppio rispetto alle australopitecine adulte, aveva un cervello di 900 cm3. L’analisi del suo scheletro e dei suoi denti fornisce l’età alla morte, avvenuta tra 10 e 13 anni. La sua mascella minuta e i suoi piccoli denti rivelano una dieta a base di cibi teneri, compresi frutta e carne. Sua madre aveva probabilmente c. tuniz: lucy e le altre Fig. 6 Lo studio con la microtomografia computerizzata ai raggi x del ‘flauto’ scoperto nella grotta di Divje babe I dimostra che questo osso perforato di orso delle caverne (Ursus speleus, ora estinto) danno supporto all’ipotesi che sia uno strumento musicale. è stato rinvenuto in strati geologici corrispondenti a 50-60 mila anni fa, quando l’unica specie umana presente in Europa era quella di Homo neanderthalensis. Le analisi sono state effettuate presso i laboratori di Elettra a Trieste, in una collaborazione tra Sincrotrone Trieste, ICTP e il Museo di Lubiana (immagine ICTP). ancora una pelvi abbastanza larga e piatta (platipelloide), che implicava un meccanismo di parto non rotazionale, simile alle australopitecine, ma adattata al parto di figli dal cervello di massa molto più grande. Questa ipotesi è supportata dal ritrovamento, nella zona dell’Afar in Etiopia, di una pelvi completa di H. erectus appartenente a una donna adulta risalente a 0,9–1,4 milioni di anni fa [16]. La pelvi arcaica fu probabilmente mantenuta fino al Pleistocene medio, negli ominini rappresentati in Europa da H. heidelbergensis, l’antenato comune tra noi e i Neanderthal, forse anch’esso originario dell’Africa. H. heidelbergensis era ancora presente in Europa 300–400 mila anni fa, come confermato dal ritrovamento dell’uomo di Visogliano, vicino a Trieste. I gruppi di H. heidelbergensis rimasti in Africa (H. rodhesiensis) si si sono evoluti invece in H. sapiens (vedi fig. 3) 7 Neanderthal H. neanderthalensis (fig. 4) si evolse almeno 200000 anni fa da H. heidelbergensis e si estinse 28000 anni fa, quando gli ultimi esemplari trovarono rifugio vicino a Gibilterra. Ma dire totalmente non è corretto, visto che probabilmente una piccola frazione di Neanderthal è in quasi tutti noi. Mentre le prime analisi del DNA mitocondriale dei Neanderthal non avevano evidenziato alcuna connessione genetica tra H. sapiens e H. neanderthalensis, recenti analisi del DNA nucleare, eseguite al Max Plank Institute di Lipsia, dimostrano che i Neanderthal contribuiscono per circa il 4% al DNA degli umani oggi esistenti fuori dall’Africa. Tali risultati derivano dall’analisi del genoma nelle ossa di Neanderthal di circa 45 mila anni fa trovati nelle grotte di Vindija in Croazia. I dati indicano un’ibridazione avvenuta non in Europa, ma più probabilmente nel Medio Oriente. L’orologio molecolare suggerisce che i Neanderthal e gli umani moderni si sono separati prima di 350 mila anni fa, forse verso mezzo milione di anni fa [17]. La cultura di H. neanderthalensis è un problema ancora aperto. Nella caverna di Divje Babe, in Slovenia, in uno strato di 60000 anni fa, è stato trovato un osso di femore d’orso con quattro buchi che non sembrano casuali, prodotti per esempio dal morso di un animale. Molti sostengono che si tratti di un flauto costruito dai Neanderthal. L’analisi con la microtomografia a raggi X – sviluppata nell’ambito di una collaborazione tra ICTP, Sincrotrone Trieste e museo di Lubiana – sembrerebbe confermare quest’ultima ipotesi [18] (vedi fig. 5 e fig. 6). Altri aspetti del pacchetto culturale che associamo con H. sapiens potrebbero essere stati presenti in H. neanderthalensis. Si è scoperto che i Neanderthal si dipingevano il corpo e si vol27 / no5-6 / anno2011 > 31 fisica e... Fig. 7 Cerimonia di cremazione della Donna di Mungo, Australia, 50000 anni fa (disegno di Tullio Perentin, ZOIC, da “I Lettori di Ossa” (Springer, Milano)). adornavano con collane di conchiglie e con penne d’uccello [19], cercando forse di competere sessualmente con i loro rivali sapiens. È possibile che i Neanderthal, i cui resti sono stati trovati in un’area che si estendeva dalla Spagna alla Siberia meridionale, avessero una qualche forma di linguaggio articolato. Ma esso è apparso improvvisamente o gradualmente? Finora questo tema è stato studiato solo indirettamente e da diversi punti di vista. Certi studiosi presumono che l’organizzazione della caccia ai grandi animali avesse bisogno di comunicazione verbale. Altri hanno studiato la struttura alla base del cranio e la morfologia del cervello collegata con l’area di Broca. Altri ancora hanno usato la paleogenetica, analizzando il gene FOX-P2, responsabile dell’articolazione fonetica. L’osso ioide ha un ruolo importante nella vocalizzazione in quanto la struttura istologica può essere collegata alla 32 < il nuovo saggiatore fonazione. La struttura di tale osso ha una grande variabilità tra i primati, le scimmie, i pre-umani e gli umani. L’osso ioide dell’austrolapiteco ha una superficie liscia come quella delle scimmie, indicando che vi erano attaccati pochi muscoli. Quello degli umani arcaici, dei Neanderthal e dei sapiens ha una superficie molto scolpita, adatta per governare diversi muscoli, per modulare la lunghezza del tratto vocale e le corde vocali stesse. La microstruttura dello ioide potrebbe fornire nuove informazioni sull’origine del linguaggio articolato. Sono disponibili alcuni ioidi fossili di umani non sapiens e pre-umani, analizzabili con l’istologia virtuale basata sulla luce di sincrotrone. Tali metodi sono utilizzati dal nostro gruppo per analizzare l’osso ioide del Neanderthal di Kebara, Israele, in collaborazione con l’Università di Chieti, Sincrotrone Elettra, e l’Università di Tel Aviv. Altri gruppi hanno recentemente utilizzato la microtomografia a luce di sincrotrone per studi sistematici sulla microstruttura dei denti di Neanderthal. È stato possibile determinare che le loro corone dentarie crescevano più rapidamente di quelle dei denti di H. sapiens. La stessa analisi effettuata su denti di giovani H. sapiens dello stesso periodo dimostra che i denti crescevano in modo simile a quelli degli umani attuali. Confrontando la microstruttura dei loro denti con umani più arcaici e con pre-umani, si conferma che entrambi presentano un’età dello sviluppo più prolungata, particolarmente H. sapiens [20]. 8 Mungo Lady Homo sapiens arrivò in Australia almeno quarantamila anni fa, come testimoniano i resti trovati nei Laghi Willandra, a ottocento chilometri da Sydney. È qui che nel 1969 è stata trovata la donna di Mungo, morta quando aveva circa vent’anni. Il modo in cui gli antichi abitanti di Mungo c. tuniz: lucy e le altre Fig. 8 Sistema miniaturizzato per l’analisi del radiocarbonio con la spettrometria di massa usando un acceleratore di ioni a 250 kV. Per gentile concessione della National Electrostatics Corporation, USA. avevano preparato il corpo della donna per la cerimonia funebre ha dello straordinario. Prima la cremarono, poi tolsero lo scheletro dalle ceneri e ne frantumarono le ossa, prestando particolare attenzione al cranio, ed infine lo seppellirono definitivamente, dopo averlo cosparso di polvere di ocra (fig. 7). Le ossa di altri individui, incluso l’intero scheletro di un maschio adulto e di un bambino, vennero trovate negli anni seguenti. La prima datazione delle ossa con il radiocarbonio rivelò età di 29000 anni fa. Ma ulteriori analisi sembrano suggerire una data più antica. A questo punto è bene ricordare brevemente le caratteristiche delle diverse metodologie utilizzate. La datazione al radiocarbonio si basa sul decadimento del 14C, prodotto dalle reazioni nucleari dei raggi cosmici con gli atomi dell’atmosfera. La concentrazione di 14C raggiunge un valore di equilibrio di un atomo su circa 1012 atomi di 12C. Il ritmo di produzione del radiocarbonio e la sua concentrazione nell’atmosfera dipendono dall’intensità del campo magnetico terrestre e di quello solare, che schermano il pianeta dai raggi cosmici. Di ciò si può tener conto con opportuni metodi di calibrazione. Il 14C entra a far parte della catena alimentare attraverso la respirazione e la fotosintesi. La concentrazione di 14C negli organismi viventi è circa uguale a quella dell’atmosfera. Dopo la formazione dei tessuti, la concentrazione di 14C inizia a diminuire a un ritmo conosciuto, in seguito al suo decadimento in 14N. Quindi, la concentrazione residua di 14C nei materiali organici è in grado di rivelarne l’età, fino a un limite massimo di circa 55000 anni (fig. 8). Analisi effettuate nel 1999 con l’uso della risonanza paramagnetica elettronica (EPR), per uno scheletro trovato a Mungo, diedero età superiori a 60 mila anni. L’EPR si basa sull’effetto degli elementi radioattivi naturali, soprattutto uranio, e dei raggi cosmici, sulla struttura elettronica dei cristalli, per esempio nello smalto dentario. Gli elettroni occupano in coppia lo stesso livello energetico di un atomo, ma se uno dei due viene intrappolato in una “vacanza” per effetto della radioattività naturale, l’altro resta spaiato. C’è quindi una correlazione lineare tra il numero di elettroni intrappolati e il tempo di esposizione alla radioattività naturale. Nel metodo EPR, gli spin di questi singoli elettroni sono allineati da un forte campo magnetico esterno. Quando il campione è irradiato con microonde, gli elettroni spaiati cambiano livello energetico assorbendo energia. La quantità di energia assorbita permette di stabilire il numero totale di elettroni spaiati e, di conseguenza, l’età del campione, fino a oltre 500000 anni fa. Tuttavia è essenziale avere una buona stima della dose di radiazione annuale cui è stato sottoposto il campione durante il periodo in cui è rimasto sepolto nel terreno. vol27 / no5-6 / anno2011 > 33 fisica e... Fig. 9 I cristalli di quarzo delle rocce che si trovano sulla superficie terrestre sono bombardati dai raggi cosmici secondari (principalmente muoni e neutroni), le cui reazioni nucleari producono isotopi radioattivi di berillio-10 e alluminio-26. Quando i cristalli vengono sepolti a diversi metri di profondità, la produzione di radioisotopi cessa. Il decadimento radioattivo impoverisce la concentrazione degli isotopi cosmogenici, che fungono così da cronometri e la loro abbondanza misura il tempo trascorso dall’ultima esposizione ai raggi cosmici. Per contare questi atomi rari si deve usare la spettrometria di massa con acceleratore. La concentrazione degli atomi di berillio-10 e di alluminio-26 permette di datare la “sepoltura” dei sedimenti e di stimare l’età di reperti fossili risalenti anche ad alcuni milioni di anni fa. Le stime ottenute tramite la serie dell’uranio, basate sull’analisi diretta della radioattività gamma del cranio dell’uomo di Mungo, oscillano tra 60000 e 74000 anni. Per condurre questo esame, la parte del cranio rinvenuta, del peso di 305 grammi, fu collocata in una camera, schermata al piombo e munita di rivelatori per contare la radiazione gamma ad alta energia emessa dal decadimento dell’uranio e dei suoi prodotti. I sedimenti in cui sono stati trovati gli scheletri sono stati infine datati con la tecnica della luminescenza stimolata otticamente (OSL), fornendo invece età tra 38000 e 42000 anni. OSL si basa sugli stessi principi di EPR, ma gli elettroni sono fatti ritornare al loro stato fondamentale irradiando il cristallo con un laser. Si misura la radiazione emessa, la cui intensità è proporzionale alla dose accumulata nel cristallo in seguito all’effetto della radioattività naturale nel tempo. OSL può fornire datazioni fino 34 < il nuovo saggiatore ad oltre 500000 anni fa. In conclusione, possiamo dire che le ossa più antiche di Homo sapiens ritrovate in Australia hanno almeno 40000 anni. L’ipotesi che l’uomo sia arrivato in Australia già 60000 anni fa è comunque plausibile, anche in base a datazioni con la luminescenza di siti archeologici nel nord del continente. È invece ancora acceso il dibattito sul ruolo dell’uomo e dei cambiamenti climatici nell’estinzione della megafauna australiana del Pleistocene. Solo nuove datazioni e analisi avanzate con metodi fisici risolveranno il problema (fig. 9, fig. 10). 9 Hobbit Una donna appartenente ad una nuova specie umana fu scoperta dall’archeologo australiano Mike Morwood nel 2003 nella caverna di Liang Bua, nell’isola di Flores in Indonesia. Classificata come Homo floresiensis, per il pubblico e i media, essa ha assunto il nome di ‘hobbit’: il noto personaggio di Tolkien (fig. 11). L’hobbit, la cui conformazione pelvica suggeriva fosse di sesso femminile, pareva simile, anche se più minuta, a Homo georgicus, datato a 1,8 milioni di anni, una specie intermedia tra H. habilis e H. ergaster/erectus. Inizialmente il paleo-antroplogo australiano Peter Brown ipotizzò che gli hobbit si fossero evoluti da Homo erectus e che le loro dimensioni fisiche si fossero ridotte in seguito al lungo isolamento sull’isola di Flores. Questa ipotesi si basava sul fatto che nel 1998 Morwood e i suoi colleghi, datando alcuni strumenti litici rinvenuti a Mata Menge, al centro dell’isola, avevano ottenuto, con il metodo delle tracce di fissione, età di oltre 840000 anni. Questo li attribuiva appunto a Homo erectus. Egualmente sorprendente fu l’età c. tuniz: lucy e le altre Fig. 10 Metodi di datazione basati sulla radioattività naturale forniscono cronologie dalle migliaia ai milioni di anni. recente dell’hobbit. I gruppi australiani hanno datato grani di quarzo e feldspato associati ai resti di hobbit con la tecnica della luminescenza, ottenendo età inferiori a 30 mila anni. La datazione di frammenti di carbone contigui allo scheletro ha fornito invece un’età di 18000 anni. In seguito il gruppo di ricerca raccolse resti di altri 6–9 esemplari di hobbit (il numero variava secondo l’assemblaggio degli scheletri), che avevano età comprese tra 20000 e 12000 anni. Gli strumenti litici associati a questi resti coprivano un periodo che andava da 95000 a 12000 anni fa e assomigliavano ai manufatti di Mata Menge. A Liang Bua sono stati impiegati quasi tutti i metodi di geocronologia disponibili (dal radiocarbonio alla termoluminescenza, all’OSL, alla serie dell’uranio e all’EPR), applicati su una gamma di materiali (carbone, feldspato, carbonato di calcio e dentina). Fig. 11 L’autore con il cranio di Homo floresiensis, presso il l’Istituto di Archeologia di Giacarta in Indonesia (foto C. Tuniz). Esistono quindi prove convincenti che H. floresiensis sia vissuto per un lungo periodo in una regione frequentata da H. sapiens. Più incerta è la sua posizione filogenetica e recentemente è stata considerata una possibile connessione con specie pre-umane. Esiste tuttavia una piccola minoranza di studiosi che insiste sulla tesi che l’hobbit non fosse nient’altro che un H. sapiens malato di microcefalia. 10 Conclusioni L’albero dell’evoluzione umana è ricco di fronde. Un’incredibile biodiversità di specie emerge dai fossili, mostrando i diversi modi in cui si possa essere umani. Come succede sempre in natura, non siamo in presenza di un’evoluzione ‘lineare’, da grezzi proto o pre-umani a perfetti H. sapiens. Ci sono invece molti rami che crescono in parallelo, poi potati dalla selezione naturale, anche attraverso variazioni climatiche e ambientali. Un ruolo importante è giocato dal caso, che opera sulle mutazioni genetiche: alcune risultano di successo, altre no. I resti di individui di sesso femminile consentono di far luce su elementi importanti della funzionalità riproduttiva, chiave di volta dell’evoluzione. Gli studi sulle origini dell’umanità si basano su diverse aree disciplinari, compresi gli strumenti e i metodi che derivano dalla fisica e che qui si sono voluti brevemente richiamare. Tutti i primati viventi, compresi gli umani attuali, non rappresentano ovviamente gli stadi finali dei loro rispettivi processi evolutivi. In fin dei conti, le sole specie che raggiungono lo stadio evolutivo finale sono quelle che si estinguono. vol27 / no5-6 / anno2011 > 35 Ringraziamenti Molte grazie a Roberto Macchiarelli, Giorgio Manzi e Telmo Pievani per i loro preziosi suggerimenti, e ai miei colleghi, con cui spartisco la passione per la scienza del passato, tra cui Federico Bernardini, Luca Bondioli, Giovanni Boschian, Luigi Capasso, Julian Chela-Flores, Andres Cicuttin, Alfredo Coppa, Maria Liz Crespo, Ruggero D’Anastasio, Diego Dreossi, Richard Gillespie, Colin Groves, Cheryl Jones, Lucia Mancini, Ariadna Mendoza Cuevas, Mike Morwood, Bert Roberts, Giuliana Tromba, Gerrit van den Bergh, Steve Wroe, Franco Zanini e molti altri. Bibliografia [1] C. Darwin, “On the origin of species by means of natural election” (Murray, Londra) 1859. [2] Blake et al. “Phosphate oxygen isotopic evidence for a temperate and biologically active Archaean ocean”, Nature, 464 (2010) 1029. [3] R. L. 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Jones, “I Lettori di Ossa”, (Springer-Verlag, Milano) 2009. C. Tuniz, J. R. Bird, D. Fink and G. F. Herzog “Accelerator Mass Spectrometry” (CRC Press, LLC, USA) 1998. C. Tuniz, U. Zoppi and M. Barbetti, “AMS dating in archaeology, history and art”, in Radiation in Art and Archaeometry, a cura di D. C. Creagh, D. A. Bradley (Elsevier, Amsterdam) 2000, pp. 444-471. Claudio Tuniz Claudio Tuniz è noto a livello internazionale per gli studi di geocronologia applicati al passato dell’uomo e del suo ambiente, che ha condotto in vari laboratori negli Stati Uniti, in Australia e in Europa. Ha diretto per dieci anni i laboratori di radiodatazione di Sydney dove si è occupato dei programmi di ricerca sulla preistoria australiana. È stato Assistant Director del Centro Internazionale Fisica Teorica “Abdus Salam” (ICTP) di Trieste dal 2004 al 2010. È stato anche direttore del Laboratorio Multidisciplinare dell’ICTP, dove attualmente promuove l’applicazione di metodologie analitiche avanzate in studi di paleoantropologia. Coordina un progetto finanziato dalla Regione Friuli Venezia Giulia per lo sviluppo di strumenti portatili a raggi X per studi di paleoantropologia e archeologia. È membro della commissione scientifica istituita dalla Soprintendenza ai Beni Archeologici della Lombardia per le indagini sul frammento di cranio di uomo di Neanderthal rinvenuto sugli argini del Po nel 2009 e noto come Paus. 36 < il nuovo saggiatore