L`Africa ha una superficie di oltre 30 milioni di chilometri quadrati
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L`Africa ha una superficie di oltre 30 milioni di chilometri quadrati
1. IL CONTINENTE 1.1 TERRITORIO E POPOLAZIONE: ALCUNE CIFRE L'Africa è per estensione territoriale il terzo continente dopo l'Asia e l‟America. La sua superficie, pari a circa 30 milioni di km² (100 volte l‟Italia), rappresenta un quinto delle terre emerse del pianeta Le ultime stime delle Nazioni Unite 1 indicano che la popolazione africana supera oggi i 900 milioni di abitanti, mentre secondo l‟ultimo studio del Population Reference Bureau 2 di Washington essa avrebbe già raggiunto il miliardo di persone, pari a quasi il 15% dell'intera popolazione mondiale. Le statistiche diffuse dal centro studi americano mostrano che l‟Africa è il continente con il più alto tasso di natalità del mondo. L‟Africa sub-sahariana, inoltre, ha la popolazione con la maggiore presenza di giovani nel pianeta (quasi 200 milioni hanno meno di 18 anni) e si prevede che manterrà questo primato ancora per diversi decenni. Il Continente è suddiviso in 53 Paesi (più 1 Territorio e 1 Dipartimento) il più esteso dei quali è il Sudan, con oltre due milioni e mezzo di chilometri quadrati, seguito da Algeria e Repubblica Democratica del Congo (ciascuno di questi ha dimensioni circa 8 volte quelle dell'Italia). Il più piccolo è rappresentato dalle Isole Seychelles, con meno di 500 km2. Le stime dell‟ONU (Dati riportati nel Dossier “Benedetto XVI in Africa - Camerun e Angola”, a cura di Luis Badilla) Area 2005 2010 Variazione in % Africa Orientale 292.539.000 332.107.000 + 39.568.000 - 13,5% Africa Centrale 112.505.000 129.583.000 + 17.078.000 - 15,2% Africa Settentrionale 189.562.000 206.295.000 + 16.733.000 - 8,8% Africa Meridionale 54.900.000 56.592.000 + 1.692.000 - 3,0% Africa Occidentale 272.505.000 307.436.000 + 34.931.000 - 12,8% Totali 922.011.000 1.032.013.000 + 110.002.000 - 11,9% I 53 PAESI AFRICANI (PER REGIONI) Est 17 Paesi Burundi Comores Eritrea Etiopia Gibuti Kenya Madagascar Malawi Maurizio Mozambico Rwanda Seychelles Somalia Tanzania Uganda Zambia Zimbabwe Réunion (Francia) Centro 9 Paesi Angola Camerum Centrafricana Rep. Ciad Congo Repubblica. Congo Rep.Dem. Gabon Guinea Equatoriale São Tomé e Príncipe Nord 6 Paesi Algeria Egitto Libia Marocco Sudan Tunisia Sahara Occidentale. (Territorio conteso) Sud 5 Paesi Botswana Lesotho Namibia Sudafrica Swaziland Ovest 16 Paesi Benin Burkina Faso Capo Verde Costa d‟Avorio Gambia Ghana Guinea Guinea Bissau Liberia Mali Mauritania Niger Nigeria Senegal Sierra Leone Togo Fonte: Population Division of the Department of Economic and Social Affairs of the United Nations Secretariat, World Population Prospects: The 2006 Revision and World Urbanization Prospects: The 2005 Revision, http://esa.un.org/unpp, Saturday, January 10, 2009; 11:26:38 AM. Nella quasi totalità dei Paesi africani, per ragioni economiche, da molti anni non si realizzano censimenti delle popolazioni nazionali 1 2 2009 World Population Data Sheet http://www.prb.org/Publications/ 1 1.2 - UNA BREVE PANORAMICA STORICA - A cura di Lisa Zengarini L‟Africa è la culla dell‟umanità, come testimoniano le scoperte archeologiche e alcune indagini genetiche: qui fecero la loro apparizione i primi ominidi e qui origina l‟Homo Sapiens, comparso più 200.000 anni fa. La prima grande civiltà africana è quella egizia che ebbe origine nella valle del Nilo intorno al 5000 a.C. Nell‟alta valle del Nilo si svilupparono invece le civiltà di Meroë e di Axum. Annessi all‟Impero Romano tra la fine del III secolo a.C. e l‟inizio del I secolo d.C., conquistati dai Vandali nel V sec. d. C. e riconquistati dall‟Impero Bizantino nel VI sec. d. C., l‟Egitto e le altre regioni del nord Africa furono invasi dagli Arabi nel VII secolo. La storia dell‟Africa sub-sahariana, invece, può essere molto schematicamente suddivisa in quattro periodi: quello precedente l‟incontro con altre civiltà; quello dell‟espansione araba (a partire dal VII secolo d.C.) e del primo contatto con i Paesi europei (a partire dal XV secolo d.C.), segnato dalla tratta degli schiavi; quello dell‟occupazione coloniale europea (XIX e XX secolo) e quello post-coloniale, a partire dalla seconda metà del „900. L’antichità La storia antica dell'Africa subsahariana è relativamente poco conosciuta, anche perché molte notizie sono state tramandate oralmente e una grande quantità di reperti archeologi non si è conservata nel tempo. Eppure il continente ha conosciuto grandi civiltà con organizzazioni sociali complesse: basti pensare, per citare qualche esempio, all‟Impero etiopico, agli imperi del Ghana e del Mali o alle città-stato Mandino in Africa occidentale. La tratta degli schiavi Con l'espansione dell‟Islam, a partire dal VII sec d.C. gli arabi furono i primi stranieri a penetrare all‟interno del Continente (i primi ad esplorarne le coste in epoca più antica erano stati i Fenici), attraversando tutta la parte settentrionale fino all'Oceano Atlantico, comprese le regioni che si affacciano sul Golfo di Guinea. In questi secoli prese il via la cosiddetta tratta orientale, la deportazione di schiavi che venivano prelevati dalle regioni africane per essere venduti nei mercati dei Paesi arabi. Dopo le esplorazioni compiute dai navigatori europei, poi, a partire dal XV secolo tutte quante le coste atlantiche dell'Africa, ed in modo particolare quelle del Golfo di Guinea, iniziarono ad essere sistematicamente depredate dalle potenze dell‟epoca. L'aspetto più drammatico di tale saccheggio è indubbiamente costituito dalla tratta atlantica degli schiavi (durata per circa quattro secoli), che venivano deportati a milioni nelle Americhe (e in misura minor anche in Europa) per essere destinati al lavoro forzato. La colonizzazione europea Nella seconda metà dell‟800, i primi esploratori provenienti dal mondo occidentale cominciarono a penetrare in profondità nel continente. Così le nazioni europee cominciarono ad interessarsi all'Africa non solo come territorio da cui prelevare le ricchezze, ma anche da occupare. Il momento chiave di questa fase è la Conferenza di Berlino (1884-1885) nel corso della quale furono tracciati molti degli attuali confini degli Stati africani. Una suddivisione effettuata in modo arbitrario e in funzione esclusiva degli interessi strategici ed economici delle nazioni europee. A Berlino e nel corso dei successivi trent'anni, tutta l'Africa (tranne l'Etiopia, occupata dall‟Italia con la guerra del 1936, e la Liberia) fu ripartita tra le nazioni d'Europa: Francia, Gran Bretagna, Portogallo, Germania e, in minor misura, Italia e Spagna, si sono accaparrate il diritto allo sfruttamento di gran parte del continente. Un caso particolare è rappresentato dal territorio corrispondente all'attuale Repubblica Democratica del Congo: esso, infatti, fu assegnato direttamente all‟organizzatore della Conferenza, il Re Leopoldo II del Belgio. Il Sudafrica, per un certo tempo fu conteso da britannici e boeri (cioè i discendenti dei coloni olandesi che vi si erano istallati già da un paio di secoli), conflitto risolto nel 1910 con la formazione dell'Unione Sudafricana, stato autonomo che riconosceva però la sovranità 2 britannica. Nel 1908, anche a seguito delle pesanti denunce per l'uso massiccio di manodopera locale in condizioni di schiavitù e per i massacri delle popolazioni locali, il sovrano belga dovette cedere alla propria nazione l'intero territorio che prese così il nome di Congo Belga. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, le colonie della sconfitta Germania furono suddivise fra Gran Bretagna e Francia, mentre una piccola parte (Rwanda e Burundi) fu inglobata nel Congo Belga e la Namibia fu affidata al Sudafrica. Con le sconfitte durante la Seconda Guerra Mondiale, anche l'Italia perse le proprie colonie (Eritrea, Etiopia, Somalia e Libia), passate sotto controllo britannico. L’indipendenza L'occupazione coloniale dell'Africa subsahariana è durata grosso modo 75 anni. Intorno al 1960, infatti, la maggior parte degli Stati africani ha ottenuto l'indipendenza. Nella maggior parte di essi, all‟indipendenza politica non ha corrisposto l‟indipendenza economica e lo sfruttamento straniero delle risorse di questi Paesi è anzi continuato in maniera più sistematica. Un fenomeno per il quale è stato coniato il termine neocolonialismo, alludendo a una nuova forma indiretta di controllo da parte delle principali potenze sulle economie dei giovani Stati appena formati. Inoltre, al momento dell‟indipendenza poche nazioni africane avevano avuto modo di fare maturare una classe politica democratica (anche se non sono mancate personalità di grande spessore e statura politica come Léopold Sedhar Senghor, primo presidente del Senegal Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana, Julius Kambarage Nyerere, presidente della Tanzania fino al 1985, per citare alcuni nomi). Per questi motivi i primi decenni della decolonizzazione sono stati segnati spesso da regimi autoritari, colpi di Stato e conflitti condizionati fino alla fine della Guerra Fredda dallo scontro tra i due blocchi. In questi decenni l'Africa è stato il continente che ha registrato il maggior numero di conflitti, di varia natura e dimensioni (v. sotto), ma aventi come comune denominatore il controllo e lo sfruttamento delle sue enormi risorse economiche. 1.3 I CONFLITTI IN AFRICA L’Africa, un continente che aspira alla pace Tra i “mali africani” citati da una stampa spesso frettolosa vi sono le guerre, presentate come “etniche”, “tribali”, “ancestrali”: termini che non aiutano a comprendere le reali cause di conflitti che hanno a che fare più con la globalizzazione dei processi economici che non con odi antichi o “ataviche propensioni alla guerra” delle popolazioni locali. L‟Africa invece è un continente che aspira alla pace, e ha dato origine a percorsi originali per risolvere alcuni dei conflitti del continente. Non si dimentichi, inoltre, che sono africani i due soli Paesi al mondo (a parte alcune ex repubbliche sovietiche) che hanno posto in essere un disarmo nucleare unilaterale. Si tratta del Sudafrica (nel 1994 al momento del passaggio dal regime dell‟apartheid alla democrazia multietnica) e della Libia (nel 2003 nell‟ambito di un accordo con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che ha permesso, tra l‟altro, di smantellare una rete internazionale di tecnologie nucleari ad uso militare). Nel giugno 1995 è stato elaborato il trattato per rendere l‟Africa un‟area priva di armi nucleari. Si tratta dell‟African Nuclear Weapons Free Zone Treaty (ANWFZ) conosciuto come trattato di Pelindaba, dal nome della località sudafricana dove è stato redatto il testo del trattato che è stato aperto alla firma degli Stati al Cairo nell‟aprile 1996. Tutte le 53 nazioni africane lo hanno firmato anche se non è entrato in vigore perché non sono state ancora depositate le 28 ratifiche necessarie. Il trattato dichiara l‟Africa zona libera dalle armi nucleari e costituisce un passo importante per rafforzare il regime di non proliferazione nucleare, la cooperazione per l‟uso pacifico dell‟energia nucleare, il disarmo e il rafforzamento della pace della sicurezza regionale e internazionale. (…) Negli ultimi anni inoltre si è assistito a una diminuzione del numero delle guerre in Africa rispetto al picco registratosi negli anni ‟90. Nel 1999 erano 16 i conflitti in atto. A partire dall‟inizio del nuovo millennio sono stati firmati accordi di pace in Etiopia ed Eritrea (2000), Sierra Leone (2000), Angola (2002), Repubblica Democratica del Congo (2003), Liberia (2003), Senegal (2004), Costa d‟Avorio (2007), Sud Sudan (2005). In seguito si sono raggiunti importati accordi in Burundi e passi avanti sono stati compiuti per la risoluzione del conflitto nel nord Uganda. Dall‟altro canto non si può però dimenticare il dramma del Darfur e 3 della Somalia, oltre al difficile processo di consolidamento della pace nell‟est della Repubblica Democratica del Congo. La natura delle guerre africane Le guerre africane sono in gran parte conflitti interni a Stati deboli e resi fragili anche dalle politiche ultraliberiste imposte dal sistema finanziario internazionale per ripagare il debito contratto negli anni passati. L‟insistenza con la quale la Chiesa cattolica ha più volte denunciato il meccanismo perverso che impone agli Stati di rinunciare a una politica sociale per ripagare il debito estero, deriva dai disastri collettivi che esso produce. Non solo perché distrugge quel minimo di servizi sociali (scuole, ospedali, ecc…) che sono indispensabili agli strati più poveri delle popolazioni locali, ma anche perché indebolisce il ruolo dello Stato in quanto garante dell‟ordine e del monopolio della violenza. Lo Stato in Africa è un‟istituzione piuttosto recente che affonda le radice (fatte le dovute eccezioni come nel caso dell‟Etiopia) nella storia coloniale. In Africa lo Stato moderno non è nato dopo un lungo, difficile e spesso anche sanguinoso processo, come è avvenuto in Europa negli ultimi 400 anni. Si tratta di un‟istituzione che le elite africane hanno ereditato dall‟antico colonizzatore. La struttura politica sociale africana, prima della colonizzazione, era fondata su legami tribali e familiari, anche se in diverse parti dell‟Africa era in atto un processo di formazione statale autoctono che è stato interrotto dal colonialismo. Lo Stato quindi si è sovrapposto a strutture tradizionali che sono rimaste in piedi, anche se a loro volta hanno subito un‟evoluzione. Subito dopo le indipendenze africane degli anni ‟60, si è imposto in gran parte dei Paesi africani il modello del Partito unico: il potere veniva amministrato da un Presidente (che era anche a capo dell‟unico partito legale) che metteva nei posti di potere persone della propria famiglia e del proprio clan. Era il clan che controllava lo Stato e non viceversa. I clan esclusi dal potere aspiravano quindi al controllo dello Stato per far valere i propri diritti. Questo meccanismo era incoraggiato dagli ex colonizzatori che, in questo modo, potevano continuare a influenzare le antiche colonie, accordandosi con le elite al potere. Ben diverso sarebbe avvenuto se in Africa si fosse imposta una vera democrazia. Le stesse divisioni ideologiche e strategiche della guerra fredda hanno rafforzato questo fenomeno: Occidente e Unione Sovietica hanno appoggiato questo o quel dittatore in un disegno di controllo delle reciproche aree di influenza. I questo contesto le guerre africane sono state condizionate dallo scontro tra i due blocchi, anche se non bisogna attribuire a questo fattore un unico ruolo nel provocare i conflitti nel continente. Ad esempio a guerra in Angola scoppiate nel 1975 subito dopo l‟indipendenza dal Portogallo, tra i tre movimenti di liberazione nazionale, è stato un conflitto molto complesso, nel quale si sono intrecciati le rivalità tra le diverse regioni angolane, i conflitti ideologici, le ambizioni dei Paesi limitrofi, lo scontro tra le superpotenze (compresa la Cina, che giocava insieme agli Stati Uniti contro l‟Unione Sovietica) e gli interessi delle compagnie petrolifere e di quelle diamantifere. Non stupisce quindi che la guerra angolana si sia trascinata per anni anche dopo il crollo dell‟Unione Sovietica e il ritiro delle truppe cubane che appoggiavano il governo di Luanda. Con la fine della Guerra Fredda, nei primi anni ‟90 sono nate nuove speranze di democratizzazione. Nella maggior parte dei Paesi africani si è avuta una svolta democratica con la fine del regime a partito unico e la tenuta di libere elezioni. La cessazione del conflitto tra est ed ovest ha però comportato l‟arresto del flusso di aiuti elargiti ai diversi Paesi africani in cambio della loro scelta di campo. Dal punto di vista geopolitico per le potenze mondiali l‟Africa perdeva di interesse: non era più uno dei campi di gioco dove si disputava la partita tra l‟occidente capitalista e l‟oriente socialista per il controllo del mondo. Questo non significa che gli interessi economici e finanziari siano diminuiti. Anzi. Il continente africano continua ad essere strategico per la ricchezza di materie prime. Sono quindi società estrattive e di altro tipo che agiscono in prima persona in Africa, spesso facendo ricorso a mercenari e a contractors. La privatizzazione dell‟intervento occidentale in Africa si è accompagnata all‟imposizione dell‟ideologia neo-liberista che prevede uno Stato “leggero”. Non avendo più l‟appoggio degli Stati più forti e delle istituzioni finanziarie internazionali, per ripagare il debito estero i Paesi africani sono stati costretti ad adottare le ricette neo-liberiste che prevedono pesanti tagli alle strutture sociali. Da qui derivano forti tensioni sociali che a loro volta aggravano la confidenza delle popolazioni locali nelle strutture statali. Gli africani quindi si rivolgono ai poteri tradizionali, il clan, la tribù, per ottenere aiuti e protezioni. Nei casi più gravi 4 lo Stato si sfalda e scoppiano instabilità e guerre civili. Le guerre “claniche” o “tribali” quindi non hanno niente di “primitivo” , di “ancestrale” ma derivano dall‟indebolimento dello Stato e dal pervertimento di alcune strutture della società, dovuto, almeno in parte, all‟applicazione delle “ricette” neo-liberiste. Si tratta quindi di conflitti post-moderni, anche se adottano il volto di guerre tra clan, nei quali svolgono un importante ruolo le diverse reti criminali dedite al traffico di armi, di droga, di diamanti, di legname e di altre materie prime. Reti che hanno referenti anche nelle piazze finanziarie di tutto il mondo e che si servono dei più moderni mezzi di comunicazione. I metodi tradizionali di risoluzione pacifica dei conflitti in Africa L‟Africa ha una tradizione culturale orientata alla pace. Si deve dunque ripartire da questa tradizione per ricercare soluzioni nuove ai problemi di sicurezza del continente. I metodi di risoluzione dei conflitti utilizzati tradizionalmente dalle popolazioni africane si basano su procedure di negoziazione. Per negoziare occorre che vi siano almeno due responsabili in grado di imporre la pace al proprio popolo. Per questo motivo in alcune culture tradizionali africane non si uccidevano i capi nemici nemmeno negli scontri più feroci. In alcuni casi i leader dei due campi banchettavano insieme anche durante i combattimenti: un modo per tenere sempre aperta la porta del dialogo e giungere a una soluzione pacifica. Le trattative vere e proprie sono condotte da appositi negoziatori delle parti coinvolte. Queste persone devono dimostrare allo stesso tempo, l‟intransigenza nel difendere gli interessi della propria comunità e la flessibilità necessaria ad arrivare a un accordo. Le capacità richieste ai negoziatori sono realismo, flessibilità e pazienza, quest‟ultima indispensabile per affrontare le interminabili discussioni nelle quali gli stessi argomenti sono ripetuti in continuazione, usando formulazioni diverse. Il negoziato coinvolge solo le due parti in litigio: esso ha permesso di risolvere diversi contrasti in modo pacifico. Se le due parti non riescono da sole a raggiungere un accordo si ricorre a un arbitro esterno. Si parla in questo caso di conciliazione e mediazione. Si tratta di due processi simili; la differenza sta nel fatto che nella conciliazione l‟arbitro ha un ruolo meno attivo rispetto alla mediazione. In ogni caso il mediatore è una figura molto importante nella società africana di ieri come di oggi. Nella tradizione orale africana si incontrano spesso persone anziane, simboli di saggezza, che riescono a mettere fine a conflitti tra le comunità. Il mediatore è quindi una persone anziana, saggia, con una profonda conoscenza dei costumi e della storia dei gruppi che vivono in un determinato territorio. Egli deve avere la piena fiducia dei contendenti e non avere alcuna alleanza, soprattutto matrimoniale, con le parti in conflitto. Tra le capacità richieste al mediatore vi sono l‟eloquenza e la conoscenza dei proverbi e degli adagi sui quali fonda il proprio discorso. Il suo scopo è di offrire un compromesso che eviti il conflitto, preservando gli interessi principali e l‟onore delle due parti. Un‟altra istituzione tradizionale è la cosiddetta “palabre”, dal vocabolo spagnolo “palabra” (“parola”), e qui utilizzato nel senso di discussione, di conversazione lunga. Il nome deriva dal passato coloniale, quando con “palabre” si indicava una specie di concertazione dove sedevano il comandante delle truppe coloniali e il capo tradizionale africano, che si intrattenevano in una discussione lunga e complessa. In realtà il concetto di “palabre” ha un significato ben diverso nella società tradizionale africana. Questo termina infatti si riferisce alle assemblee dove vengono prese le decisioni importanti per la comunità. Queste istituzioni si trovano dovunque in Africa ed è il principale sistema socio-politico precoloniale. L‟obiettivo è di regolare i conflitti latenti o in essere. Riuniti generalmente sotto “l‟albero della palabre” i partecipanti hanno tutti diritti di parola e possono esporre pubblicamente le loro richieste, oltre a quelle del proprio gruppo. I richiedenti possono farsi rappresentare sia da un poeta, un cantore, sia da un portavoce. La tradizione della ricerca della pace attraverso il consenso ha ispirato le iniziative per uscire da situazioni di guerra lunghe e difficili, nelle quali si sono sedimentati negli animi odio e desiderio di vendetta. L‟esempio più importante è la Commissione Verità e Riconciliazione del Sudafrica, stabilita alla fine del regime dell‟apartheid nella seconda metà degli anni ‟90. (Dal Dossier Fides “Segni di pace in Africa”) 5 1.4 - LA SITUAZIONE SANITARIA - A cura di Marina Vitalini Lo studio qui esposto si basa in particolare sul volume ―World Health Statistics 2009‖ dell’OMS e sul testo dal titolo ‖The African Regional Health Report: the Health of the People‖, il primo Rapporto sulla salute dei 730 milioni di persone che vivono nei 46 Paesi della Regione Africa dell’OMS, pubblicato a fine 2006. La salute della famiglia umana è al centro di tre degli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG‟s), da raggiungere – lo ricordiamo - entro il 2015: il n. 4 punta a ridurre di due terzi la mortalità infantile sotto i 5 anni; il n. 5 intende migliorare la salute materna, riducendo di tre quarti il tasso relativo di mortalità; il n. 6 mira a combattere l‟AIDS, la malaria e le altre principali malattie, invertendo la tendenza di diffusione dell‟HIV/AIDS e raggiungendo, entro il 2010, l‟accesso universale alle cure. I testi sopracitati dell‟Organizzazione Mondiale della Sanità forniscono un‟analisi d‟insieme dei principali ambiti sanitari pubblici, dei progressi realizzati e delle aree di perdurante criticità. Elenchiamo di seguito alcuni dati di fondo, a partire dall‟indicatore economico relativo alla percentuale della popolazione che vive con meno di un dollaro USA al giorno (dal “World Health Statistics 2009”, dati riferiti al 2005). In Liberia, tale situazione di povertà estrema colpisce l‟86.1% degli abitanti; seguono Tanzania (82.4), Burundi (81.3), Rwanda (74.4), Malawi (73.9), Guinea (69.8), Mozambico (68.2), Niger (65.9), Rep. Centrafricana (64.4), Zambia (64.3), Swaziland (62.4), Rep. Dem. Congo (59.2), Ciad (58.7), Burkina (55), Benin (50). Al riguardo, dati particolarmente significativi vengono anche dal Rapporto sullo Sviluppo Umano 2008 del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Il testo include l‟ Indice dello sviluppo umano (HDI), una graduatoria di Paesi stilata a partire dalla valutazione congiunta di tre dimensioni dello sviluppo: speranza di vita, alfabetizzazione e scolarità, reddito. Si tratta dunque di un prospetto basato su una più ampia definizione di “benessere”, che classifica i 179 Paesi del mondo in tre gruppi: Paesi ad alto, medio e basso sviluppo umano. Secondo tale “prisma”, la Sierra Leone è al 179° posto; seguono Repubblica Centrafricana (178°), Rep. Dem. Congo (177°), Liberia (176°), Mozambico (175°), Niger (174°), Burkina Faso (173°), Burundi (172°), Guinea-Bissau (171°), Ciad (170°), Etiopia (169°), Mali (168°), Guinea (167°), Costa d‟Avorio (166°). A causa di conflitti o altri fattori di crisi, mancano dati aggiornati di alcuni Paesi, tra cui Zimbabwe e Somalia. L‟indicatore della speranza di vita alla nascita registra in Sierra Leone il valore minimo: 41 anni; seguono Lesotho, Zimbabwe (45), Ciad, Zambia (46); Guinea Bissau, Rep. Centrafricana, Mozambico, Swaziland e Uganda (48), Burkina Faso, Burundi, Mali (49), Malawi, Rwanda (50), Niger (51), Camerun, Rep. Democratica Congo, Somalia, Tanzania (52). La media della Regione Africa dell‟OMS è di 52 anni, nella Regione Europa, di 74. Per quanto riguarda la situazione sanitaria, l‟HIV/AIDS continua a devastare la Regione Africa, che conta l‟11% della popolazione mondiale, ma il 60% dei malati di AIDS, con una forte concentrazione di infettati in Africa australe. Mentre la pandemia resta la principale causa di mortalità tra gli adulti, il numero di pazienti sottoposti a trattamenti antiretrovirali è cresciuto considerevolmente negli anni 2003-2005. Oltre il 90% dei casi annuali di malaria a livello mondiale – tra 300 e 500 milioni – si verificano tra gli africani, in particolare tra i bambini al di sotto dei 5 anni; la maggior parte dei Paesi in cui la malattia è endemica hanno tuttavia adottato – ed è questo il dato positivo – i migliori farmaci antimalarici oggi disponibili come trattamento “di prima linea”. L‟oncocercosi o cecità dei fiumi è stata eliminata come problema sanitario pubblico e la lebbra è in via di eliminazione, con solo 1 caso ogni 10mila persone nella Regione Africa dell‟OMS. La maggior parte dei Paesi stanno compiendo apprezzabili progressi nelle malattie infantili prevenibili, come la poliomielite e il morbillo, grazie alle vaccinazioni adottate su scala sempre più vasta. In declino, seppure lento, sono anche i tassi di incidenza e di mortalità della tubercolosi; a livello continentale, su una popolazione di 100mila abitanti, sono scesi rispettivamente da 296 nel 1990 a 206 nel 2007,e da 28 nel 1990 a 25 nel 2006. Restano ancora gravi ostacoli da superare, come l‟alto tasso di mortalità materna e neonatale nell‟intera Regione, il più elevato a livello mondiale. Non si è finora data risposta alle esigenze igienico-sanitarie primarie di molte persone: solo il 58% della popolazione dell‟Africa subsahariana ha accesso a riserve di acqua potabile. In crescita malattie non trasmissibili – ipertensione, malattie cardiache, diabete – mentre le lesioni per diversi fattori e circostanze 6 restano tra le principali cause di morte nella Regione. L‟Africa può continuare ad avanzare sulla via del progresso – sottolinea il Rapporto – solo rafforzando i suoi fragili sistemi sanitari e tentando di prevenire le nuove minacce sanitarie. Diamo ora uno sguardo alle realtà nazionali, in riferimento alle problematiche sanitarie citate. In tema di mortalità infantile, il Paese più colpito è la Sierra Leone, con 262 decessi su 1.000 bambini; seguono il Ciad (209), la Guinea Bissau (198), il Mali (196) il Burkina Faso (191), la Nigeria (189), il Rwanda (181), il Burundi (180), il Niger (176). In testa, all‟altro capo della classifica, sono le Seychelles, con 16 decessi. Riguardo alla mortalità materna, è ancora la Sierra Leone a registrare il picco negativo, con 2.100 donne morte su 100.000 partorienti; seguono Niger (1.800), Ciad (1.500), Angola (1.400), Rwanda (1.300), Liberia (1.200), Nigeria, Malawi, Guinea Bissau, RDC, Burundi (1.100), a fronte di Mauritius, con 15 decessi. Un altro indicatore fornito dall‟OMS concerne le nascite assistite da personale specializzato. In questo ambito, l‟Etiopia mostra il tasso più basso, con appena il 6% di parti adeguatamente monitorati; seguono Ciad (14%), Niger (18%), Eritrea (28%), Somalia (33%), Burundi (34%), Nigeria (35%), Guinea (38%), Guinea Bissau (39%), Sierra Leone, Uganda, Kenya (42%), Liberia, Tanzania (46%), Mozambico (48%). Mauritius è ancora una volta in testa nella classifica di segno opposto, con il 99% di parti seguiti da professionisti. In quanto alla prevalenza dell‟HIV tra gli adulti sopra i 15 anni, ogni 100.000 persone, lo Swaziland presenta 24.301 casi di infezione; seguono Botswana (22.757), Lesotho (21.548), Sud Africa (16.293), Zambia (15.087), Zimbabwe (14.609), Namibia (13.885), Mozambico (11.761), Malawi (11.367). L‟incidenza più bassa si registra nelle Comore, con 41 casi. Colpisce la disomogenea distribuzione della pandemia all‟interno dei singoli territori nazionali. In Sua Africa, ad esempio - dove si contano 5,2 milioni di casi, pari al 10,9% della popolazione “sacche” di più alta incidenza si registrano nelle province dell‟ Eastern Cape e del KwaZulu Natal. A Mandeni, in KwaZulu Natal, opera il Centro “Blessed Gérard” per l‟assistenza ai malati e agli orfani dell‟AIDS, creato dall‟Ordine di Malta e intitolato al suo fondatore; il responsabile del Centro, il benedettino P. Gerard Lagleder, intervistato dal Programma Inglese Africa della RV, ha sottolineato l‟elevata incidenza della pandemia nella località, dove circa il 70% della popolazione risulta positiva all‟HIV. Se si considera la copertura con terapia antiretrovirale tra i malati in stadio avanzato, tale trattamento raggiunge in Namibia l‟88% dei malati; seguono Botswana (79%), Rwanda (71%), Senegal (56%), Benin (49%), Zambia (46%), Gabon e Swaziland (42%), Mali (41%), Kenya (38%), Sud Africa (28%), Mozambico (24%), Zimbabwe (17%). Altra grave minaccia alla vita nell‟Africa subsahariana è la malaria, con il Niger nella situazione più preoccupante: 229 decessi ogni 100mila abitanti. Seguono Guinea Equatoriale (220), Mali (201), Guinea Bissau (180), Burkina Faso (178), Ciad (173), Liberia (171), Guinea (164), RDC (168), Nigeria (156), Sierra Leone (154). In Algeria, la malattia è praticamente sconfitta. Il precario equilibrio sanitario della Regione Africa è caratterizzato da un‟elevata incidenza di malattie trasmissibili, con epidemie ricorrenti di febbri emorragiche (Ebola, Marburg, Rift Valley) e la periodica risorgenza di colera, meningite, febbre gialla. Un indicatore cruciale ai fini della riduzione della morbilità e della mortalità è costituito dalla fruizione di acqua potabile proveniente da fonti migliorate. In tale ambito Niger, Mozambico ed Etiopia si trovano nella situazione più critica, con l‟accesso all‟acqua di appena il 42% della loro popolazione. Seguono Guinea Equatoriale (43%), RDC (46%), Nigeria e Madagascar (47%), Ciad (48%), Angola (51%), Sierra Leone (53%), Tanzania (55%), Kenya e Guinea Bissau (57%), Zambia 58%). A Mauritius, l‟accesso è universale. Essenziale, ai fini delle priorità indicate dai MDG, è inoltre la presenza di un numero sufficiente di professionisti sanitari sul territorio nazionale. Nella Regione Africa dell‟OMS operano 150.708 medici, ovvero 2 ogni 10mila abitanti, a fronte dei 2.816.481 medici della Regione Europa, una media di 32 per 10mila persone. Una presenza medica inferiore alla media regionale, con solo 1 dottore ogni 10mila persone si registra in Angola, Benin, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Costa d‟Avorio, Rep. Dem. Congo, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea Bissau, Kenya, Lesotho, Liberia, Malawi, Mali, Mauritania, Mozambico, Niger, Rwanda, Senegal, Sierra Leone, Somalia, Togo, Uganda, Tanzania, Zambia. Riguardo al personale dentistico, la Regione conta 23.964 unità, ovvero 1 dentista ogni 10mila abitanti; nella Regione Europa operano 434. 972 dentisti, una media di 5 per 10mila persone. Riportiamo infine un ultimo indicatore, attinente al numero di posti letto ospedalieri disponibili per 10mila abitanti; come parametro di riferimento, citiamo la media della Regione Africana, pari a 10 letti, contro quella della Regione 7 Europa di 63. Il Senegal conta 1 solo letto; seguono Etiopia (2), Guinea, Madagascar, Mali, Niger (3), Ciad, Costa d‟Avorio, Sierra Leone, Mauritania (4), Benin (5), Burundi, Sudan (7), Angola, Gambia, Rep. Dem. Congo (8), Burkina Faso, Ghana, Togo (9). 1.5 – LA SITUAZIONE DELL’INFANZIA - A cura di Marina Vitalini – “L’infanzia in Africa: progressi e difficoltà” Lo studio in oggetto intende offrire alcuni elementi per una visione di sintesi sullo stato dell’infanzia in Africa, a partire dall’analisi condotta dal BICE/Bureau international de l’Enfance in vista del 20° anniversario dell’adozione della “Convenzione ONU sui diritti dell’Infanzia” (20 novembre 1989). Nell‟imminenza di tale anniversario, il 4 giugno scorso, a Ginevra, il BICE lanciava un “Appello Mondiale a una nuova mobilitazione per l‟Infanzia”, da sottoporre alla firma di organizzazioni, istituzioni e persone di buona volontà, davanti alla constatazione di violazioni gravi ai diritti dell‟infanzia esistenti in numerose regioni del mondo. Lo “Appello” è frutto di un lavoro biennale, che è stato inizialmente condotto a livello regionale e ha prodotto “Prese di posizione regionali” sulla situazione. Da tali relazioni è scaturito un “Documento di riferimento”, che è servito da base per la redazione dell‟ “Appello”. Come si è detto, il presente studio analizza nella sua prima parte il contenuto della “Presa di posizione per la Regione Africa”, per procedere quindi ad un esame delle realtà di alcuni Paesi, con il sussidio del “Rapporto UNICEF sulla situazione dei bambini in Africa” (maggio 2008). La “Convenzione” ONU del 1989 contiene tre obiettivi principali: riaffermare, applicandoli all‟infanzia, alcuni diritti che altri trattati accordano a tutti gli esseri umani; accordare a una serie di diritti umani fondamentali uno “status” privilegiato affinché siano meglio recepite le esigenze specifiche e la vulnerabilità dei bambini; elaborare norme in settori che riguardano più particolarmente i bambini. Introduce inoltre la nozione del “bambino soggetto di diritti” e abolisce quella del “bambino oggetto di bisogni”, che muoveva alla compassione e non alla responsabilità. Si può dire che il cambiamento radicale apportato dalla Convenzione si trovi proprio in tale nozione di responsabilità degli Stati e delle famiglie verso i loro bambini. Gli Stati africani hanno accolto favorevolmente il carattere universale, indivisibile e inalienabile della Convenzione, l‟hanno ratificata e inculturata, adottando nel 1990 la “Carta Africana sui diritti e sul bene del bambino”. A distanza di 20 anni dalla Convenzione, sorge il triplice interrogativo circa i progressi più significativi compiuti dal varo del documento, le situazioni più critiche in termini di violazione dei diritti dell’infanzia, le principali sfide per il futuro. Come premessa – sottolinea il BICE – è necessario ricordare il posto privilegiato che il bambino occupa da sempre nella famiglia africana, considerato come ricchezza e benedizione di Dio. Nonostante le difficoltà di carattere politico, sociale ed economico e malgrado i conflitti regionali, si devono costatare innegabili progressi nel campo della percezione e della assunzione dei diritti del bambino, attraverso l‟impegno di ONG, media e responsabili istituzionali. Cadono tabù e discriminazioni: i bambini disabili, un tempo nascosti o fatti sparire, vengono ora curati; le bambine che subiscono violazioni non sono più nascoste o costrette al matrimonio con il loro carnefice, ma possono denunciarlo e iniziare terapie appropriate. Esiste una volontà politica di applicare i diritti del bambino e di rafforzare il quadro normativo e istituzionale di protezione, soprattutto nei casi di difficoltà a livello dei genitori o dell‟ambiente familiare. La pena di morte nei confronti dell‟infanzia è stata abolita in numerosi Paesi. Si perfezionano gli strumenti giuridici, attraverso accordi bilaterali o multilaterali di protezione contro la tratta o le violenze sessuali. Progressi significativi si registrano anche nel campo della giustizia minorile, con il miglioramento del trattamento carcerario (quartieri per i minori all‟interno delle carceri) e la creazione di tribunali per i minori; alcuni Paesi stanno inoltre attuando misure alternative alla carcerazione degli adolescenti. Progressi anche in campo sanitario, con il decremento della mortalità tra i piccoli sotto i cinque anni, passata da 150 ‰ a 40 ‰ grazie alle misure di protezione materna e infantile adottate negli anni. 8 E‟ ancora da rilevare il “protagonismo” sempre più convinto e diffuso dei giovanissimi, attraverso la creazione di “Parlamenti dei bambini”, la partecipazione a colloqui e incontri nazionali e internazionali, in cui si abituano a prendere la parola in pubblico, la presenza di “gruppi di azione” nelle scuole e di associazioni quali l‟Association des Enfants et Jeunes Travailleurs, attiva in tutta l‟Africa Ovest. Il BICE si è particolarmente impegnato nella formare i bambini a diffondere la cultura dei loro diritti, creando appositi “Comitati locali”. Consapevoli della loro dignità e del rispetto loro dovuto, i bambini iniziano a sensibilizzare gli adulti a non operare discriminazioni nei riguardi delle bambine al momento dell‟iscrizione scolastica e a chiedere di essere protetti dalle violenze a scuola, nell‟ambiente di lavoro o in famiglia. Hanno inoltre compreso l‟importanza di avere un‟esistenza legale per poter dare gli esami scolastici e per la loro vita futura e chiedono ai loro genitori di regolarizzare la loro situazione presso i servizi pubblici competenti. Negli ambiti di azione citati i bambini hanno dato prova di grande maturità e senso di responsabilità; il loro impegno, la loro generosità e la loro volontà di cambiamento costituiscono altrettanti segni di speranza per il futuro. E‟ necessario, di converso, constatare progressi limitati soprattutto nel campo della scolarizzazione, a causa degli effetti combinati della globalizzazione dell‟economia, di catastrofi naturali e di conflitti armati. Tale constatazione introduce l‟analisi dei nodi problematici tuttora esistenti in termini di violazione della dignità e dei diritti infantili, nodi causati da fattori strutturali, quali l‟insufficiente applicazione del quadro di protezione legale e delle politiche sociali, o da fattori di ordine socioculturale. Nel primo caso, la creazione di un quadro normativo e istituzionale deve essere accompagnata da meccanismi e strutture di controllo per il loro corretto funzionamento. Nei Paesi in sviluppo, disfunzionamento dei servizi statali e assenza di risorse costituiscono seri ostacoli nell’accesso dei bambini ai loro diritti. La povertà può essere considerata come il fattore frenante più grave. Tra gli ambiti di perdurante criticità si deve citare il mancato accesso all’istruzione e alle cure sanitarie. Troppi bambini restano privi di scolarizzazione, poiché gli oneri scolastici non possono essere sostenuti dalle famiglie nel contesto economico attuale. I bambini più vulnerabili, come i più poveri, gli orfani, i malati di AIDS, i disabili non beneficiano di accompagnamento o delle cure necessarie per la mancanza di mezzi materiali o di risorse umane sufficientemente qualificate. Mancata registrazione anagrafica alla nascita. Troppi bambini non hanno esistenza legale: crescono e talvolta muoiono senza lasciare una traccia sociale. Sono “fantasmi” inesistenti per i poteri pubblici che non possono includerli nelle loro previsioni economiche e sociali. Disfunzionamenti a livello della giustizia minorile. Malgrado i progressi già menzionati, la giustizia per la popolazione giovanile resta un elemento di grave preoccupazione per le seguenti situazioni: assenza di cibo per i bambini in stato di fermo nei commissariati; valutazione talvolta approssimativa dei capi di accusa con la conseguente comminazione di pene eccessivamente pesanti; assenza di avvocato d‟ufficio e permanenza del minore in stato di detenzione, mentre il rilascio sarebbe stato possibile; condizioni di detenzione ancora problematiche in molti luoghi, a causa di strutture carcerarie vetuste e inadatte; assenza di accompagnamento per il reinserimento in libertà. La condizione dei minori reclusi – a parere del BICE – rimane prioritaria nell‟azione per la salvaguardia dei diritti infantili. In quanto ai fattori socioculturali, si deve in primo luogo citare lo sconvolgimento provocato da un massiccio esodo rurale, che ha portato milioni di persone a concentrarsi in ambienti urbani inadatti ad accoglierle per mancanza di alloggi e di servizi (acqua corrente, elettricità, reti fognarie). Tali condizioni di vita fortemente disagiate contengono già in germe le problematiche future, a partire dallo sfruttamento dei bambini. Troppi bambini sono spinti dal bisogno verso un inserimento produttivo precoce. Nulla viene loro risparmiato: sfruttamento economico, forme gravose e tempi estenuanti di lavoro, sfruttamento sessuale. Dalla bambina che vende sacchetti di acqua ghiacciata nelle capitali africane, al bambino rapito all‟uscita della scuola per essere arruolato in un gruppo armato di Sierra Leone, Liberia o Congo. Dietro ogni bambino sfruttato, vi è un adulto che trae profitto dalla sua vulnerabilità, credulità, fiducia, innocenza. Vi è anche la mancanza di un quadro di protezione, di cui sono responsabili i poteri pubblici. In un contesto sociale di forte cambiamento, l‟organizzazione familiare si indebolisce. Nelle città, le famiglie monoparentali o ricomposte sono sempre più numerose e risentono delle responsabilità derivate dalla presenza dei bambini, spesso considerati non una ricchezza, ma 9 un peso. Questa nuova percezione dell‟infanzia favorisce negligenze, maltrattamenti, violazioni dei diritti infantili. Il BICE ha rilevato che l‟80% dei bambini di strada accolti nei suoi centri provengono da questo nuovo tipo di famiglie. Un‟analoga proporzione dei cosiddetti “bambini stregoni” del Congo, cacciati dalle loro famiglie, sono orfani di almeno un genitore o colpiti da una malattia o da un disturbo che rende il loro accompagnamento più gravoso. Costumi e pratiche tradizionali nefasti. Nella cultura tradizionale, il bambino non aveva diritto di parola, né veniva invitato ad esprimere il suo parere. Al giorno d‟oggi, soprattutto negli ambienti urbani, l‟urto tra passato e presente provoca “ferite” sia nei bambini, sia nei genitori; le ragazze, ad esempio, rifiutano il matrimonio precoce o forzato, vogliono studiare e scegliere il loro futuro. Nell‟Africa dell‟Ovest sussiste la tradizione di affidare un bambino a un parente in città per motivi di scolarità o per rafforzare i legami familiari: si tratta spesso di una “copertura”, che nasconde lo sfruttamento lavorativo dei minori, reclutati da padroni senza scrupoli e costretti a lavorare come “bestie da soma”. Sfide del futuro. Per un‟applicazione più estesa e compiuta dei diritti dei minori, la pace è una condizione sine qua non. I conflitti armati di ogni natura portano con sé il germe delle violazioni dei diritti e in tempo di conflitto i diritti dei bambini sono ancor più calpestati; proprio nei contesti di guerra si consuma non di rado una delle violazioni peggiori, l’arruolamento dei minori a fini bellici. Il BICE considera come prioritari i seguenti tre obiettivi per ogni Paese in situazione di pace: rafforzare il quadro normativo e istituzionale con l‟attuazione di specifiche misure di protezione; coinvolgere la società civile nella promozione e diffusione dell‟azione statale e nella rimozione degli ostacoli culturali; sostenere la partecipazione dei bambini. Nell‟ambito della prima “sfida”, occorre proteggere la famiglia, soprattutto se povera, smembrata o ricomposta, e i bambini più vulnerabili: disabili, orfani, malati di AIDS, vittime di sfruttamento sessuale, della tratta, di maltrattamenti. E‟ inoltre necessario adeguare il quadro normativo nazionale ai testi e alle norme internazionali già ratificati, e procedere alla promulgazione dei relativi decreti di applicazione. Si deve infine attuare un processo di decentralizzazione - così da associare gli ambienti rurali alle dinamiche di cambiamento – che comporti lo stanziamento delle risorse necessarie, chiave di volta della questione. Il secondo traguardo comporta un‟opera di diffusione capillare della “Convenzione dei Diritti dell‟Infanzia” e della “Carta Africana”, che riconosce ai bambini gli stessi diritti della “Convenzione”, adattandoli al contesto africano. Si tratta, in particolare, di svolgere un lavoro di illustrazione e di sensibilizzazione, soprattutto negli ambienti meno preparati, in cui la mentalità tradizionale dei genitori si presenta non di rado refrattaria a qualsiasi cambiamento e a scelte differenti. Di qui la necessità di coinvolgere i “media”, che possono offrire un utile contributo nella formazione di una coscienza civica in grado di assumere le nuove sfide. Altra “carta” da giocare è quella della mobilitazione comunitaria; di fronte al venire meno delle solidarietà tradizionali, quali quella derivante dalla “famiglia allargata” in netto declino, occorre suscitare la “responsabilità collettiva” del villaggio o del quartiere, coinvolgendo genitori, insegnanti e adulti in generale nel dovere di soccorrere il bambino maltrattato o sottoposto a un lavoro troppo pesante per la sua età. Apparentemente più semplice, la terza meta, quella della partecipazione dei bambini, si rivela spesso irta di difficoltà a causa, da un lato, della mancanza di discernimento e della fragilità dei piccoli, dall‟altro, della facilità degli adulti a cooptarli per cause illecite. Come in ogni altra attività umana, anche questa azione formativa necessita di un apprendistato progressivo, che affidi ai bambini iniziative e responsabilità commisurate all‟età e alle capacità individuali. Gli otto Obiettivi di Sviluppo del Millennio - adottati dalla comunità internazionale nel settembre 2000 – stabiliscono priorità globali per tutti gli abitanti del Pianeta, ma rivestono un‟importanza cruciale per lo sviluppo fisico, intellettuale e psicologico dei bambini, legato alla disponibilità di cibo, acqua potabile, igiene e cure sanitarie. Li elenchiamo di seguito: 1. Eliminare la povertà e la fame nel mondo; 2. Assicurare l‟educazione primaria universale; 3. Promuovere l‟uguaglianza di genere e l‟empowerment delle donne; 4. Ridurre la mortalità infantile; 5. Migliorare la salute materna; 6. Combattere l‟HIV/AIDS, la turbercolosi, la malaria e le altre malattie; 7. Garantire la sostenibilità ambientale; 8. Sviluppare una partnership globale per lo sviluppo. Mentre i primi sei si riferiscono esplicitamente all‟infanzia, anche gli 10 ultimi due, qualora fossero raggiunti, concorrerebbero a migliorare in modo sostanziale le condizioni di vita e il futuro dei bambini del mondo. Nel maggio 2008 l‟UNICEF ha lanciato la prima edizione de “La situazione dei bambini in Africa”, un Rapporto regionale - con dati riferiti al 2007 - teso a mettere in luce programmi politici e partenariati che contribuirebbero efficacemente al progresso degli Obiettivi del Millennio. Il “Rapporto” è un “appello all‟unità” e invoca uno sforzo sinergico volto a sostenere in primo luogo l‟obiettivo di sopravvivenza della madre e del bambino, nel rispetto dei principi di giustizia sociale e del carattere sacro della vita. Vengono considerati di seguito alcuni degli indicatori di base del testo. Mortalità infantile. Il Continente africano è diviso in due dal Sahara, e tale demarcazione non è solo geografica. Nei Paesi situati a nord del deserto, il tasso medio di mortalità dei bambini al di sotto dei 5 anni (MIS5) era del 35‰ (2006), mentre nell‟Africa dell‟Ovest il tasso si elevava al 183‰. Questa stessa regione occidentale ha fatto registrare nel 2006 il 42% dei decessi infantili in Africa, ovvero 2,1 milioni. Tra le principali cause di morte sono da includere polmonite, malattie diarroiche, asfissia, tetano, prematurità, malaria, AIDS, morbillo, cui è da aggiungere la malnutrizione. Si tratta di malattie facilmente prevenibili, mediante l‟uso di antibiotici o altre terapie appropriate. Come è noto, la mortalità infantile è strettamente collegata alla povertà, all‟istruzione inadeguata, alla mancanza di servizi igienico-sanitari. Se si considerano i Paesi più colpiti nel 2007, la Sierra Leone registra un triste primo posto, con un tasso MIS5 pari al 262 per mille. Seguono Ciad (209), Guinea Equatoriale (206), Guinea Bissau (198), Mali (196), Burkina Faso (191), Nigeria (189), Rwanda (181), Burundi (180), Niger (176), Rep. Dem. Congo (161). Il 10 settembre 2009 l‟UNICEF ha pubblicato alcuni dati sulla mortalità infantile nel mondo al di sotto dei cinque anni, statistiche che si riferiscono alla situazione globale senza dettagliare le percentuali nazionali o regionali; le nuove stime registrano un calo del 28% del tasso globale di mortalità tra il 1990 e il 2008, con 8,8 milioni di decessi avvenuti nel 2008 a fronte dei 12,5 milioni del 1990. La flessione costante del tasso – sottolineano i responsabili UNICEF - non deve tuttavia far abbassare la guardia, ma indurre i governi a mantenere e incrementare gli interventi sanitari fondamentali, quali programmi di vaccinazioni, l‟uso di zanzariere trattate con insetticidi e l‟utilizzazione di integratori della vitamina A. Un potente alleato nella lotta per la sopravvivenza dei più piccoli è l‟allattamento materno esclusivo nei primi sei mesi di vita, una pratica poco diffusa da promuovere e sostenere nell‟ambito delle campagne di educazione nutrizionale, soprattutto in Paesi ad alto tasso di mortalità infantile; tra questi ultimi l‟UNICEF cita la Nigeria, in cui solo il 13 % dei lattanti beneficia dell‟esclusiva alimentazione materna dalla nascita al sesto mese di vita. Istruzione. “Voláno” di progresso verso tutti gli Obiettivi del Millennio, l‟istruzione aiuta a ridurre la povertà, fornendo alle giovani generazioni conoscenze utili alla prevenzione di malattie, come l‟AIDS o la malaria; offre loro un ambiente sano, vaccinazioni, acqua potabile e un supplemento alimentare. L‟educazione delle bambine riduce il tasso di mortalità infantile e contribuisce allo sviluppo umano e sociale e all‟autonomia delle ragazze. Mentre in alcuni Paesi e regioni progressi considerevoli sono stati compiuti in questo settore, altre aree continuano ad essere caratterizzate da elevate percentuali di bambini e bambine privi di scolarità. Nell‟Africa subsahariana, secondo stime di UNICEF e UNESCO riferite al 2007, su 124.815.000 di bambini in età di scuola elementare, solo il 64% dei maschi e il 61% delle femmine completano il ciclo di istruzione primaria. Non risultano scolarizzati 32.226.000 tra bambini e bambine. Una scorsa alle tavole specifiche dell‟UNICEF ci indica che in Somalia il tasso di frequenza per la scuola primaria è del 24% (maschi) e del 20% (femmine). Seguono Ciad (41%-31%), Niger (44%31%), Mali (45%-33%), Etiopia (45%-45%), Burkina Faso (49%-44%), Guinea Bissau (54%53%), Zambia (55%-58%), Angola (58%-59%). Un esempio dell‟impegno della Chiesa per la promozione dell‟istruzione in Africa è la fondazione “Kidane Mehret” (Velo di Misericordia”), creata ad Adwa (Etiopia) nel 1994 dalle Figlie di Maria Ausiliatrice. La missione offre ad oltre 1.000 alunni un ciclo completo di istruzione scolastica, dalla scuola materna alla scuola superiore, tecnica e di avviamento professionale; è inoltre dotata di un ostello per ragazze, di un oratorio, di un servizio di ambulanze per partorienti. Presta assistenza sociale a circa 900 famiglie. La Radio Vaticana (Emanuela Campanile di 105 live) ha recentemente intervistato la direttrice della “Kidane Mehret”, Sr. Laura Girotto, FMA. 11 Registrazione anagrafica. E‟ ancora l‟UNICEF ad informare che due bambini africani su tre al di sotto dei 5 anni non risultano registrati alla nascita, un livello ulteriormente diminuito nell‟ultimo quinquennio in alcuni Paesi dell‟Africa subsahariana. Il profilo dei piccoli “fantasmi”? Sono poveri, vivono in aree rurali, hanno accesso limitato all‟assistenza sanitaria, non ricevono alcuna forma di istruzione pre-primaria, hanno alti tassi di mortalità. In prosieguo di tempo, la mancata certificazione della nascita espone i minori al reclutamento nelle forze armate e ai matrimoni precoci, oltre a privarli dei diritti politici e civili. Di seguito, un breve esame di alcuni Paesi e della relativa percentuale di bambini sotto i cinque anni con registrazione anagrafica al momento dell‟inchiesta (fonti: diverse; periodo considerato: 2003-2006). In Somalia, solo il 3% dei piccoli fino a cinque anni risulta iscritto nei registri civili; seguono Etiopia (7%), Tanzania (8%), Zambia (10%), Uganda (21%), Lesotho (26%), Guinea Equatoriale, Niger (32%), Nigeria, Sudan (33%); Guinea Bissau (39%), Guinea (43%), Kenya, Sierra Leone (48%). Una risposta efficace alla sfida della mancata registrazione infantile viene dalla Comunità di Sant‟Egidio, che ha lanciato in alcuni Paesi d‟ Africa e Asia il progetto “BRAVO” (Birth Registration for All Versus Oblivion); l‟iniziativa vuole sconfiggere l‟ “invisibilità civile” dei bambini attraverso lo sviluppo dei sistemi anagrafici, la sensibilizzazione della comunità civile e la collaborazione con le istituzioni governative coinvolte. Lavoro minorile. Circa un bambino su tre tra i 5 e i 14 anni nell‟Africa subsahariana è impegnato in attività lavorative, pari a 69 milioni di bambini ovvero il 35% della popolazione infantile della regione medesima. La percentuale dei maschi è generalmente più alta, poiché sono maggiormente dediti ad attività economiche “esterne”, mentre le bambine sono impegnate nel lavoro domestico, spesso gravoso e per molte ore della giornata. Lo strumento chiave per sconfiggere tale fenomeno è l‟accesso all‟istruzione e ad un‟istruzione di buona qualità. L‟analisi dei singoli Paesi riferita al periodo 1999-2007 e alla fascia d‟età tra i 5 e i 14 anni, rivela che in Ciad e in Etiopia il 53% dei bambini/e è coinvolto in attività lavorative; seguono Somalia (49%), Sierra Leone (48%), Repubblica Centrafricana e Burkina Faso (47%), Benin (46%), Niger (43%), Guinea Bissau (39%), Uganda e Tanzania (36%). In Malawi, oltre 78mila bambini lavorano nelle piantagioni di tabacco fino a 12 ore al giorno, per una paga giornaliera pari a 30 centesimi di euro, secondo un recente rapporto della ONG PlanInternational. Un lavoro che li sottopone ogni giorno all‟assorbimento cutaneo di una dose di nicotina fino a 54 mg - l‟equivalente di 50 sigarette -, con conseguente disastrose sulla loro salute: dolori addominali, debolezza muscolare, vomito, tosse, difficoltà respiratorie. L‟Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL/ILO) ha lanciato nel 2002 la “Giornata Mondiale contro il lavoro minorile”, celebrata ogni anno il 12 giugno per evidenziare la condizione dei bambini lavoratore ed accrescere la sensibilizzazione alle forme intollerabili del lavoro infantile. Bambini soldato. E‟ difficile stabilire con certezza il numero di bambini soldato arruolati in forze combattenti. Spesso rapiti, costretti ad imbracciare le armi sotto minaccia di rappresaglie alle loro famiglie, o mossi dalla povertà ad arruolarsi anche a soli nove anni di età, trattati da “nemici” se catturati. Nel 2006 le Nazioni Unite stimavano in 250mila il numero di bambini associati alle forze militari nazionali o ai gruppi armati di opposizione nel mondo, dei quali 100.000 in Africa. La Coalizione internazionale “Stop ai bambini soldato” nel suo rapporto mondiale 2008 rileva un miglioramento generale della situazione, dovuto alla riduzione del numero dei conflitti armati che coinvolgevano i minori di anni 18, passati a livello mondiale da 27 nel 2004 a 17 a fine 2007. Il Protocollo facoltativo (maggio 2000) alla Convenzione sui diritti dell‟Infanzia, ratificato da oltre 120 Stati, rappresenta uno strumento importante nella protezione dei bambini dal reclutamento e utilizzazione a fini militari, insieme alla creazione del Tribunale Penale Internazionale (1998) che include nei crimini contro l‟umanità il reclutamento o l‟utilizzazione dei minori di 15 anni nei conflitti armati. Mentre in Paesi quali Burundi, Costa d‟Avorio, Guinea e Liberia la fase del conflitto può dirsi conclusa, secondo informazioni della “Coalizione” citata la presenza di bambini è ancora segnalata nelle ostilità in atto in Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Sudan, Ciad. Con la fine del periodo bellico sono stati avviati programmi di disarmo, smobilitazione, smilitarizzazione, rimpatrio e reinserimento rivolti anche agli ex piccoli combattenti. Da tali programmi restano quali completamente escluse le bambine soldato, segnate in modo particolarmente doloroso dai conflitti in cui sono state impiegate come schiave sessuali o come combattenti attive, informatrici, spie, corrieri, 12 infermiere, domestiche. La maggior parte delle ex ragazze soldato e i loro bambini, nati dalle violazioni che hanno subito, sono oggetto di ostracismo e rifiutati dalle loro famiglie e comunità di origine. Mutilazioni femminili. E‟ una pratica molto dolorosa, con gravi ripercussioni fisiche e psicologiche che perdurano negli anni; viola i diritti fondamentali delle bambine e delle donne, privandole dell‟integrità fisica e psicologica, del diritto alla libertà dalla violenza e dalla discriminazione. Viene effettuata sulle bambine e le ragazze tra i 5 e i 14, ma in Mali e in Mauritania la maggior parte delle bambine subiscono tale usanza nefasta prima dei 5 anni. Non è prescritta da alcuna religione, ma è spesso difesa dai capi tradizionali e dagli anziani, essendo legata a convenzioni sociali e a tradizioni comunitarie, a quei “riti di passaggio” all‟età adulta che conferiscono un senso di appartenenza alla comunità stessa. Nel solo continente africano (Africa subsahariana, Egitto e Sudan), tre milioni di bambine e di donne all‟anno sono sottoposte a tali mutilazioni; il fenomeno si riscontra anche presso le comunità immigrate in Europa, America settentrionale e Oceania. I tassi di prevalenza variano da un paese all‟altro, mantenendosi su livelli bassi in Benin, Camerun, Ghana, Niger, Nigeria e Togo. Secondo dati dell‟UNICEF riferiti al periodo 2000-2007 e alla popolazione femminile tra i 15 e i 49 anni, i Paesi in cui la pratica è maggiormente sviluppata sono Somalia (98%) e Guinea ed Egitto (96%); seguono Sierra Leone (94%), Gibuti (93%), Eritrea e Sudan (89%), Mali (85%), Gambia (78%), Etiopia (74%), Burkina Faso (73%), Mauritania (72%). Matrimoni precoci. Nel 2006 erano oltre 60 milioni nel mondo le ragazze tra i 20 e i 24 anni ad essersi sposate non ancora diciottenni; dopo l‟Asia del Sud, il maggior tasso di prevalenza (44%) si registra nell‟Africa dell‟ovest e del centro, con oltre 14 milioni di giovani o giovanissime spose. In numerosi Paesi i genitori incoraggiano il matrimonio precoce delle loro figlie sperando che l‟unione apporti alle bambine protezione e stabilità economica; si tratta tuttavia di una situazione che comporta l‟interruzione della scolarizzazione, riduce le possibilità di avviamento professionale e limita il potere decisionale. Le statistiche UNICEF che vengono indicate di seguito si riferiscono al periodo 1998-2007 e alla percentuale di donne tra i 20 e i 24 anni che si sono sposate o hanno iniziato a convivere prima dei 18 anni. Sulla scorta di tali dati, i tassi di prevalenza più alti si riscontrano in Niger (75%); seguono Ciad (72%), Mali (71%), Guinea (63%), Repubblica Centrafricana (61%), Mozambico (58%), Sierra Leone (56%), Malawi (50%), Etiopia (49%), Burkina Faso (48%), Eritrea (47%). Il BICE ha avviato nel 2009 un programma di ampio respiro per prevenire la pratica dei matrimoni precoci e forzati e sostenere le bambine e le ragazze private dell‟infanzia per decisione altrui. Orfani. L‟annotazione conclusiva è per i bambini africani resi orfani dall‟HIV/AIDS, da altre pandemie, dai conflitti armati, ai quali l‟UNICEF ha dedicato nel 2006 uno specifico Rapporto dal titolo “Le generazioni orfane e vulnerabili dell‟Africa: i bambini colpiti dall‟AIDS”. Accolti dalla “famiglia allargata” o divenuti essi stessi capi famiglia, i piccoli orfani sono spesso costretti a lasciare la scuola, ad accettare un lavoro o a mendicare per contribuire all‟economia familiare; la solitudine, la precarietà affettiva, la preoccupazione economica li rendono facilmente vittime della depressione e li espongono allo sfruttamento, al traffico, alla discriminazione e allo stigma sociale. Dalle tabelle UNICEF si possono rilevare i Paesi a più elevata concentrazione di orfani; i dati si riferiscono al numero stimato di bambini (0-17 anni), che nel 2007 avevano perso uno o entrambi i genitori per motivi diversi. Secondo tale indicatore, in Nigeria si contano 9.700.000 orfani; seguono Etiopia (5.000.000), RDCongo (4.500.000), Sud Africa, Kenya e Uganda (2.500.000), Mozambico ed Egitto (1.400.000), Zimbabwe (1.300.000), Angola e Costa d‟Avorio (1.200.000), Camerun, Ghana, Malawi e Zambia (1.100.000). 1.6 LE MIGRAZIONI Un fenomeno in crescita All'inizio del 1990 su 118,5 milioni di migranti presenti nei vari Paesi del mondo, l'Africa deteneva il 12,4% del numero complessivo, circa 14,7 milioni di persone. Nel periodo 13 compreso fra il 1965 e il 1990 l'aumento dello numero di migranti provenienti dall'Africa è stato superiore del 90,9% rispetto ad ogni altro continente. La maggior parte delle migrazioni riguardano l'Africa sub-sahariana, soprattutto in seguito al movimento di rifugiati e di profughi provocati dai conflitti. Rispetto alle altre zone del pianeta per il contesto africano è difficile distinguere fra coloro che si spostano per motivi professionali e coloro che lo fanno perché spinti dalla necessità di sfuggire a condizioni di vita drammatiche. Va sfatata l'idea che l'enorme massa di migranti si riversi sempre sui Paesi economicamente più avanzati. L'Africa ne è un chiaro esempio, perché in stretta connessione con il fenomeno migratorio in questo continente occorre tenere conto della crescente urbanizzazione, con l'abbandono delle zone rurali per le città. In genere questo passo è seguito dal tentativo di emigrare fuori della nazione. Nell'Africa del nord, dove esistono Paesi poveri ma economicamente emergenti, questo avviene frequentemente. Le rotte del traffico I migranti utilizzano diverse percorsi via terra, mare e aria e per raggiungere le loro destinazioni in Nord Africa e in Europa. Le politiche di immigrazione sempre più restrittive dell'Unione Europea e l'intensificazione dei controlli negli aeroporti hanno portato i migranti ad una crescente dipendenza dalle vie terrestri, anche se gli immigrati che possono permetterselo fanno almeno una parte del viaggio in aereo, generalmente verso il Nord Africa. Una delle rotte principali dell'immigrazione legale e illegale (e del conseguente traffico di esseri umani) è quella che passa per il deserto del Sahara, l'immensa distesa di sabbia che unisce l'Africa sub-sahariana ai Paesi dell'Africa settentrionale, tappa intermedia verso l'Europa. Il Sahara, da tempi immemorabili attraversato da rotte carovaniere, è attualmente al centro di traffici di diversa natura, leciti e illeciti, tra i quali quelli di esseri umani. Tra questi vi sono persone spinte ad emigrare da necessità di tipo economico, per lo più provenienti dall'Africa occidentale, e da motivi politici, provenienti soprattutto dal Corno d'Africa. Queste persone sono stipate a bordo di camion o fuoristrada: il traffico è gestito da organizzazioni criminali che lucrano il trasporto clandestino verso i Paesi nordafricani di uomini e merci. Nel corso della lunga traversata gli immigrati sono sottoposti alle angherie e alle razzie dei corpi di polizia dei Paesi attraversati, delle formazioni ribelli presenti lungo la rotte e degli stessi autisti. È quasi impossibile stabilire quante persone muoiono ogni anno nel tentativo di attraversare il deserto del Sahara: secondo le testimonianze degli stessi migranti sopravvissuti praticamente in ogni viaggio vi sono dei decessi, per fame, per sete, per incidenti stradali o per le violenze subite. Il viaggio lungo la rotta trans-sahariana è effettuato generalmente in diverse fasi, e potrebbe richiedere da un mese e più anni. Sul loro cammino, spesso infatti i migranti possono decidere o essere costretti a stabilirsi temporaneamente in una città situata sulla rotta di migrazione per lavorare e risparmiare il denaro necessario per continuare il viaggio successivo, effettuato di solito in grandi camion o pick-up. Vi sono diverse rotte per attraversare il Sahara. A partire dagli anni Novanta, è stato attivato un percorso che attraversa il Mali, che raccoglie i flussi migratori provenienti dalle regioni dell‟Africa occidentale verso l'Algeria, per poi raggiungere il Marocco e da lì imbarcarsi alla volta della costa meridionale della Spagna o delle isole Canarie, oppure per cercare di entrare nel territorio delle due enclave spagnole di Ceuta e Melilla, in Marocco. La tratta ricalca le rotte delle reti carovaniere transahariane praticate per secoli dalle popolazioni nomadi (tuareg) di Mali, Niger e Algeria. Il flusso di migranti, in attesa di passaggio, ha sconvolto la vita di intere città del Mali e del sud dell'Algeria, che sono a centro della tratta degli esseri umani e del contrabbando tradizionale, di quello della droga e delle armi. In particolare nelle città maliane di Gao e di Kidal e in quella di Tamanrasset (nel sud dell'Algeria) si sono creati dei veri e propri ghetti, dove vivono i migranti suddivisi in base alla loro nazionalità. Vi è il ghetto degli ivoriani, quello dei nigeriani, quello dei camerunesi. Ogni comunità è organizzata con un presidente, un vice presidente, un segretario e un responsabile della sicurezza. Queste persone vivono in abitazioni di fortuna, in grotte o in baracche prive di elettricità e di acqua corrente. La crescente diversificazione delle destinazioni 14 Anche se c'è stato un aumento del flusso di migranti provenienti dal sud del Sahara verso i Paesi del Maghreb e verso l'Europa, la migrazione intra-regionale rimane di gran lunga più importante della migrazione dall'Africa sub-sahariana verso il resto del mondo. In particolare, la migrazione verso l'Unione Europea è relativamente modesta in confronto con la migrazione dal Nord Africa e dall'Europa orientale. Secondo i dati raccolti nelle principali aree europee di destinazione, sono stati registrati circa 800mila migranti dell'Africa sub-sahariana rispetto ai 2.600.000 nordafricani. Il numero dei marocchini immigrati in Europa supera il totale degli immigrati dell'Africa sub-sahariana che risiedono in Europa. Mentre l'emigrazione da diversi Paesi dell'Africa occidentale si dirige ancora in gran parte nei Paesi colonizzatori (come la Francia, per i Paesi francofoni) si nota pure una crescente diversificazione delle destinazioni, soprattutto dagli anni '90. In particolare, l'Italia e la Spagna sono emerse come nuove destinazioni per i migranti africani. Ghana e Senegal spiccano come i Paesi che hanno abbandonato i tradizionali modelli migratori “coloniali” e che guidano la tendenza a diversificare la consueta destinazione dei flussi migratori. Dopo l'introduzione del visto per i Paesi del Nord Africa da parte di Italia e Spagna nei primi anni '90, gli attraversamenti illegali del Mar Mediterraneo sono diventati un fenomeno persistente. A partire dai primi anni 2000 i migranti provenienti dall'Africa sub-sahariana hanno iniziato a utilizzare la rotta mediterranea illegale e hanno ormai superato i nord africani come la più grande categoria di utilizzatori delle barche dei contrabbandieri di esseri umani. I dati sulle intercettazioni in mare dei barconi di migranti clandestini lasciano intendere che l'intensificazione dei controlli nello Stretto di Gibilterra ha portato ad una generale diversificazione dei punti di attraversamento e alla professionalizzazione dei metodi di contrabbando piuttosto che ad una riduzione del fenomeno. Nelle percezioni del fenomeno che prevalgono in Europa si tende a sottovalutare o a ignorare il fatto vi sono più migranti sub-sahariani che vivono in Nord Africa che loro connazionali che vivono in Europa. I dati disponibili indicano che tra i 65.000 e 120.000 cittadini sub-sahariani entrano ogni anno nei Paesi dell'Africa settentrionale. Secondo lo IOM (Organizzazione Mondiale per i Migranti) solo tra il 20 e 38 per cento di questi migranti prendono la via del mare per entrare in Europa. Questi dati contraddicono dunque la percezione che il Maghreb sia semplicemente una zona di transito per i migranti dell'Africa sub-sahariana. Di fronte alla crescenti difficoltà per entrare in Europa, il Nord Africa è diventato una scelta di ripiego per un numero sempre più ampio di migranti sub-sahariani. In particolare la Libia continua ad attrarre un gran numero di lavoratori stranieri. Questa tendenza è incoraggiata dalle politiche dei Paesi europei che cercano la collaborazione degli Stati della sponda sud del Mediterraneo per contenere i flussi migratori. Queste politiche però creano una serie di effetti collaterali; in primo luogo le violazioni sempre più diffuse dei diritti delle persone fermate per immigrazione clandestina, oltre ad una professionalizzazione dei metodi utilizzati dai contrabbandieri di esseri umani e a una diversificazione delle rotte migratorie sia terrestri che marittime. Di conseguenza è aumentata la superficie che gli organi di polizia devono controllare per cercare di contenere l'immigrazione irregolare. L'enorme estensione delle frontiere terrestri e marittime rendono praticamente impossibile impedire alle persone attraversare il Sahara, l'Atlantico e il Mediterraneo. Mentre sembra praticamente impossibile sbarrare la strada lungo i confini del Sahara e le coste del Mediterraneo, è anche lecito chiedersi se i governi siano veramente disposti a farlo. L'immigrazione irregolare è un fenomeno tollerato molto più di quanto possa sembrare. Le economie degli Stati dell'Unione Europea e, in crescente misura, quelle maghrebine hanno bisogno del lavoro irregolare a basso costo offerto dai migranti. Allo stesso tempo, le autorità dei Paesi del Maghreb e dell'Africa sub-sahariana dimostrano poco interesse a frenare l'emigrazione considerata una valvola di sfogo delle proprie tensioni sociali e un'importante fonte di reddito grazie alle rimesse dei migranti. Salvo l'avvento di circostanze eccezionali è dunque probabile che la migrazione dall'Africa subsahariana verso i Paesi del Maghreb e dell'Unione Europea sia destinata a continuare. Vi è una crescente discrepanza tra le politiche migratorie restrittive e la domanda di manodopera a basso costo in Libia e in Europa, che è soddisfatta dai migranti. Questo spiega perché l'aumento dei controlli alle frontiere, più che a un calo dei flussi migratori, ha invece portato ad una rapida diversificazione delle rotte migratorie e un aumento dei rischi, dei costi, e delle sofferenze dei migranti. Finché non aumenteranno i canali legali dell'immigrazione al fine di soddisfare la domanda di lavoro, e finché continueranno esistere larghi strati di economia 15 informale e para-legale, una parte sostanziale della migrazione rimarrà irregolare. Le politiche volte a “lottare contro l'immigrazione clandestina” non solo hanno l'effetto di criminalizzare l'immigrazione, ma sono destinato a fallire, perché sono tra le cause del fenomeno che pretendono di combattere. (Dal Dossier Fides “Le migrazioni dall‟Africa”) 1.7 LA SITUAZIONE RELIGIOSA - A cura di Tiziana Campisi I dati di seguito riportati sono tratti dal ―Rapporto 2008 sulla libertà religiosa nel mondo‖ redatto da ACS International (Aiuto alla Chiesa che Soffre Internazionale). L’Aiuto alla Chiesa che soffre è un Opera di Diritto Pontificio al servizio della Chiesa ed è un’associazione che ha il compito, la vocazione e la missione di aiutare, sostenere e accompagnare il quotidiano lavoro di evangelizzazione delle chiese locali in difficoltà. Le statistiche sono attinte da diverse fonti, per i cristiani in generale e per le altre religioni e movimenti sono state prese in considerazione le proiezioni della ―World Christina Encyclopedia, curata da David B. Barret e stampata dalla Oxford University Press – New York, 2001. Algeria: Secondo la Costituzione adottata nel 1976 e revisionata nel 1996, “l‟‟islam è la religione dello Stato” (art. 2). Gli abitanti sono oltre 33 milioni; di questi il 96,7% sono musulmani, lo 0,3% cristiani, il 3% di altre religioni. La maggior parte dei cristiani sono stranieri (europei, libanesi, studenti dell‟Africa subsahariana, americani). Dagli anni „90 si assiste ad un movimento di conversioni di algerini musulmani al cristianesimo la maggior parte dei quali si fanno battezzare nelle comunità neo-protestanti di origine americana (battisti, metodisti, pentecostali, evangelici), in particolare in Cabilia. Il 28 febbraio 2006 il presidente della repubblica Abdelaziz Bouteflika ha firmato un‟ordinanza che “fissa le condizioni e le regole dell‟esercizio di culti non musulmani”, l‟autorizzazione dei quali è competenza della Commissione Nazionale dei Culti preso il Ministero incaricato degli Affari Religiosi. L‟esercizio dei culti non musulmani è così regolamentato: - art. 5 “L‟assegnazione di un edificio all‟esercizio del culto è sottomessa al parere preliminare della Commissione Nazionale dei Culti”; - art. 6 “L‟esercizio collettivo del culto è organizzato dalle associazioni a carattere religioso, la cui creazione, approvazione e funzionamento sono sottomessi alle disposizioni della presente ordinanza e della legislazione in vigore”. Angola: la Costituzione del 1992 dichiara all‟art. 8 la Repubblica dell‟Angola uno Stato laico. Il governo è tollerante verso tutte le organizzazioni religiose. Nel marzo 2004 è stata approvata una legge che stabilisce i requisiti per la registrazione dei gruppi religiosi. Questi devono avere almeno 100 mila membri adulti residenti nello Stato ed essere diffusi in almeno due terzi delle province. Sono circa 15 milioni gli abitanti; di questi il 94,1% cristiani e il 5,9% di altre religioni. Il Ministero della Giustizia e quello della Cultura attualmente riconoscono 85 gruppi religiosi, mentre sono più di 800 le organizzazioni religiose (molte delle quali di origine congolese o brasiliana, basate su gruppi di cristiani evangelici) ancora in attesa di registrazione da parte dell‟Istituto Nazionale per gli Affari religiosi (INAR). All‟interno del Paese parte della popolazione rurale aderisce a pratiche religiose tradizionali, indigene. Benin: la Costituzione prevede la libertà di religione. Le persone che vogliono dar vita a un gruppo religioso devono obbligatoriamente registrarsi presso il Ministero degli Interni. 16 Gli abitanti sono più di 7 milioni e mezzo; di questi il 51,5 % delle religioni tradizionali africane, il 28 % cristiani, il 20% musulmani (quasi tutti sunniti), lo 0,5% di altre religioni. Numerosi cristiani e musulmani praticano anche rituali di religioni indigene. Botswana: la Costituzione del 1996 sancisce all‟art. 11 la piena libertà religiosa e la limitazione solo in casi di interesse nazionale, di pubblica sicurezza, di ordine, di moralità o di sanità pubblica. La popolazione è di circa 2 milioni; di questi il 46,3% cristiani, il 38,8% delle religioni tradizionali africane e il 14,9% di altre religioni. Tutte le organizzazioni sono tenute a registrarsi presso il Ministero del Lavoro e degli Affari Interni. Burkina Faso: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. Gli abitanti sono poco più di 14 milioni; di questi il 48,6% musulmani, il 34,1% delle religioni tradizionali africane, il 16,7% cristiani e lo 0,6% di altre religioni. Le pratiche religiose indigene sono molto diffuse sia tra i cristiani che tra i musulmani. Tutte le organizzazioni religiose o di altro tipo, per essere riconosciute giuridicamente devono essere registrate presso il Ministero della Amministrazione Territoriale. Burundi: La Costituzione riconosce il diritto alla libertà religiosa. Il Paese è abitato da 7 milioni e mezzo di persone; di queste il 91,7% cristiani, il 6,7% delle religioni tradizionali africane e l’1,6% di altre religioni. I gruppi religiosi devono registrarsi presso il Ministero dell‟Interno e avere la sede principale all‟interno del Paese. Camerun: la Costituzione prevede la libertà religiosa. Gli abitanti sono poco più di 17 milioni; di questi il 54,2% cristiani, il 23,7% delle religioni tradizionali africane, il 21,2% musulmani e lo 0,9% di altre religioni. I gruppi religiosi devono essere registrati presso il Ministero della Autorità territoriale (MINATD). Capo Verde: la Costituzione prevede la libertà di religione. Gli abitanti sono circa 500 mila; di questi il 95,1% cristiani, il 2,8% musulmani, il 2,1% di altre religioni. Tutte le associazioni, sia religiose che laiche, per essere riconosciute come persone giuridiche devono registrarsi presso il Ministero della Giustizia. Ciad: la Costituzione prevede la laicità dello Stato e garantisce la libertà religiosa. La popolazione ammonta a circa 10 milioni di persone; di queste il 59,1% musulmani, il 22,8% cristiani, il 17% delle religioni tradizionali africane e l’1,1% di altre religioni. Tutti i gruppi religiosi devono essere registrati ufficialmente presso il Dipartimento degli Affari Religiosi. Comore: la Costituzione riconosce la libertà di religione, ma nella pratica il governo continua a limitare questo diritto. Gli abitanti sono poco più di 800 mila; di questi il 98% musulmani, l’1,2% cristiani e lo 0,8% di altre religioni. I gruppi religiosi non hanno bisogno di autorizzazione pubblica, ma per quelli non islamici può essere considerato proselitismo ogni pratica pubblica della loro fede. Il Corano viene insegnato nelle scuole pubbliche, ma la materia non è obbligatoria per i bambini di altre fedi. E‟ proibita la distribuzione di letteratura religiosa o di vestiti o simboli che richiamino fedi non islamiche. Repubblica Democratica del Congo: la Costituzione riconosce la libertà di religione. Gli abitanti sono più di 60 milioni e 500 mila; di questi il 95,4% cristiani, il 2,4% delle religioni tradizionali africane, l’1,1% musulmani e l’1,1% di altre religioni. 17 Le organizzazioni religiose devono registrarsi presso le autorità governative producendo il loro statuto, ma i gruppi non registrati operano comunque liberamente. Congo Brazaville: è riconosciuta la liberà religiosa. Gli abitanti sono più di 4 milioni; di questi il 91,2% cristiani, il 4,8% delle religioni tradizionali africane, l’1,3% musulmani e il 2,7% di altre religioni. Tutti gli enti, compresi i gruppi religiosi, hanno l‟obbligo di registrarsi e chiedere l‟approvazione dello Stato. Costa d’Avorio: gli abitanti sono oltre i 19 milioni e mezzo; di questi il 37,6% delle religioni tradizionali africane, il 31,8% cristiani, il 30,1% musulmani e lo 0,5% di altre religioni. Le associazioni e i gruppi religiosi devono registrarsi presso il Ministero degli Interni. Egitto: la Costituzione afferma che “l‟islam è la religione di Stato, e la lingua ufficiale è l‟arabo; i principi della legge islamica costituiscono la fonte principale della legislazione” (art. 2). Ma all‟art. 46 si precisa che “lo Stato garantisce la libertà di credenza e la libertà di culto”. Gli abitanti sono oltre 75 milioni e mezzo; di questi l’84,4% musulmani, il 15,1% cristiani e lo 0,5% di altre religioni. Eritrea: in un decreto del 2002 il governo ha formalmente riconosciuto l‟islam, la Chiesa copta ortodossa, la Chiesa cattolica e quella evangelica affiliata alla Federazione mondiale luterana; gli altri gruppi devono registrarsi; per chi non è registrato è vietata ogni attività. Gli abitanti sono 4 milioni e mezzo; di questi il 50,5% cristiani, il 44,7% musulmani e il 4,8% di altre religioni. Etiopia: la Costituzione riconosce la laicità dello Stato e la libertà religiosa. I gruppi religiosi devono registrarsi presso il Ministero della Giustizia ogni 3 anni. Gli abitanti sono 75 milioni; di questi il 57,7% cristiani, il 30,4% musulmani, l’11,7% delle religioni tradizionali africane e lo 0,2% di altre religioni. Gabon: la Costituzione prevede la piena libertà religiosa. Ai gruppi religiosi è prescritta la registrazione presso il Ministero dell‟Interno, ma l‟omissione non impedisce la loro attività. Il governo ufficialmente combatte la pratica, ancora in uso presso le religioni tradizionali, di infliggere lesioni fisiche rituali. Gli abitanti sono circa 1 milione e mezzo; di questi il 90,6% cristiani, il 4,6% musulmani, il 3,1% delle religioni tradizionali africane e l’1,7% di altre religioni. Gambia: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. Gli abitanti sono 1 milione e mezzo; di questi 86,9% musulmani, il 7,8% delle religioni tradizionali africane, il 3,9% cristiani e l’1,4% di altre religioni. Ghana: la Costituzione, che nel preambolo si apre con le parole “nel nome di Dio onnipotente”, tra i fondamentali diritti umani da salvaguardare annovera la libertà religiosa. I gruppi religiosi devono registrarsi e ricevere riconoscimento ufficiale dallo Stato. Gli abitanti sono circa 23 milioni; di questi il 55,4% cristiani, il 24,4% delle religioni tradizionali africane, il 19,7% musulmani e lo 0,5% di altre religioni. Gibuti: l‟islam è la religione di Stato, ma la Costituzione riconosce la libertà di professare qualsiasi fede. Tutte le organizzazioni religiose devono registrarsi ogni due anni e dichiarare le finalità delle loro attività. Gli abitanti sono poco più di 750 mila, di cui il 94,1% musulmani, il 4,5% cristiani, l’1,4% di altre religioni. Guinea Bissau: la Costituzione proibisce l‟uso di termini religiosi o denominazioni di Chiese per l‟identificazione dei partiti politici e riconosce il diritto alla libertà religiosa. I gruppi religiosi hanno l‟obbligo di registrarsi. 18 Gli abitanti sono circa 1 milione e 400 mila; di questi il 45,2% delle religioni tradizionali africane, il 39,9% musulmani, il 13,2% cristiani e l’1,7% di altre religioni. Guinea-Conakry: la Costituzione riconosce la libertà di religione e garantisce la completa autonomia e l‟autogoverno delle istituzioni e delle comunità religiose. I gruppi religiosi devono registrarsi presso il Ministero degli Interni, ma possono operare anche se non riconosciuti, sebbene perdano vari benefici fiscali. I gruppi non registrati possono essere vietati e gli stranieri, loro seguaci, espulsi dal Paese. Gli abitanti sono circa 9 milioni; di questi il 67,3% musulmani, il 28,5% delle religioni tradizionali africane, il 4% cristiani e lo 0,2% di altre religioni. Guinea Equatoriale: la Costituzione prevede la libertà religiosa. Tutti i gruppi religiosi devono registrarsi, con domanda, al Ministero della Giustizia e del Culto. I gruppi non registrati sono soggetti a multe. Sono esenti da questo obbligo la Chiesa cattolica e la Chiesa riformista della Guinea Equatoriale, alle quali sono anche riconosciuti altri privilegi, per ragioni storiche e sociali. Per qualsiasi attività, anche religiosa o di assistenza, svolta al di fuori dei luoghi di culto, è richiesta un‟espressa autorizzazione. Gli abitanti sono poco più di 500 mila; di questi l’88,4% cristiani, il 4,1% musulmani, il 2,1% delle religioni tradizionali africane e il 5,4% di altre religioni. Kenia: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. Gli abitanti sono circa 36 milioni e mezzo; di questi il 79,3% cristiani, l’11,5% animisti, il 7,3% musulmani e l’1,9% di altre religioni. Lesotho: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. Gli abitanti sono circa 3 milioni; di questi il 91% cristiani, il 7,7% delle religioni tradizionali africane, l’1,3% di altre religioni. Liberia: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. Tutti i gruppi religiosi sono tenuti a registrarsi e a rilasciare una dichiarazione circa gli scopi della loro organizzazione. Gli abitanti sono più di 3 milioni e mezzo; di questi di cui il 42,9% delle religioni tradizionali africane, il 39,3% cristiani, il 16% musulmani e l’1,8 % di altre religioni. Libia: non vi è alcuna esplicita disposizione di legge che tuteli la libertà religiosa, tuttavia il governo è tollerante nei confronti delle religioni. La popolazione è di circa 6 milioni di abitanti; di questi il 96,1% musulmani, il 3,1% cristiani e lo 0,8% di altre religioni. Madagascar: la Costituzione prevede la libertà di religione. La legge stabilisce che le associazioni religiose siano registrate presso il Ministero degli Interni. Per essere registrate le associazioni religiose devono essere composte da almeno 100 membri e rette da un consiglio di amministrazione elettivo di non più di 9 membri, tutti malgasci. La popolazione è di circa 19 milioni di abitanti; di questi il 49,5% cristiani, il 48% delle religioni tradizionali africane, il 2% musulmani e lo 0,5% di altre religioni. Malawi: la Costituzione prevede la libertà di religione. I gruppi religiosi devono registrarsi presso il governo presentando una dettagliata documentazione circa la struttura e la missione dell‟organizzazione affinché venga esaminato dal ministero della Giustizia. Gli abitanti sono più di 12 milioni e mezzo; di questi il 76,8% cristiani, il 14,8% musulmani, il 7,8% delle religioni tradizionali africane e lo 0,6% di altre religioni. Maldive: la Costituzione definisce l‟islam religione di Stato. Il governo applica la shari‟a ed è vietata qualsiasi manifestazione pubblica di altre religioni, è inoltre proibita la conversione. La popolazione conta poco più di 300 mila abitanti; di questi il 99,2% musulmani, lo 0,7% buddisti e lo 0,1% cristiani. 19 Mali: la Costituzione prevede la libertà religiosa. Il governo chiede che tutte le associazioni siano registrate. La popolazione ammonta a poco più di 14 milioni di abitanti; di questi l’81,9% musulmani, il 16% delle religioni tradizionali africane, il 2% cristiani e lo 0,1% di altre religioni. Marocco: la Costituzione stabilisce che l‟islam è la religione di Stato e garantisce a tutti il libero esercizio dei culti. La Chiesa cattolica gode di un riconoscimento ufficiale sulla base di una lettera che il re Hassan II ha inviato a Giovanni Paolo II il 30 dicembre dell‟83. Gli abitanti sono oltre 51 milioni e mezzo; di questi il 98,3% musulmani, lo 0,6% cristiani e l’1,1% di altre religioni. Mauritania: in materia di diritto di famiglia la legge vigente è la shari‟a, mentre una normativa del 2003 ha ristretto la libertà di espressione trasformando tutte le moschee in istituzioni pubbliche, sottoposte al controllo del ministro incaricato del culto islamico. Gli abitanti sono poco più di 3 milioni; di questi il 99,1% musulmani, lo 0,5 % delle religioni tradizionali africane, lo 0,3 % cristiani e lo 0,1 % di altre religioni. Mauritius: la Costituzione garantisce la libertà religiosa. I gruppi religiosi di antica tradizione sono riconosciuti da un decreto parlamentare e ricevono finanziamenti pubblici; i nuovi gruppi, invece, devono chiedere la registrazione mentre i missionari necessitano di un permesso. Gli abitanti sono poco più di un milione; di questi il 44% induisti, il 32,6% cristiani, il 16,9% musulmani e il 6,5% di altre religioni. Mozambico: la Costituzione afferma la laicità dello Stato e prevede la libertà religiosa con il diritto, per le confessioni religiose, di perseguire i propri fini. La popolazione conta circa 23 milioni di abitanti; di questi il 50,4% delle religioni tradizionali africane, il 38,4% cristiani, il 10,5% musulmani e lo 0,7% di altre religioni. Namibia: la Costituzione afferma la laicità dello Stato e garantisce il diritto di praticare e manifestare liberamente la propria religione. La popolazione conta oltre 2 milioni di abitanti; di questi il 92,3% cristiani, il 6% delle religioni tradizionali africane e l’1,7% di altre religioni. Niger: la Costituzione riconosce la libertà religiosa e sono vietati per legge i movimenti politici affiliati ad un credo religioso. Per promuovere il dialogo fra le varie religioni è stato istituito il Ministero degli Affari Religiosi. Gli abitanti sono poco più di 13 milioni; di questi il 90,7% musulmani, l’8,7% delle religioni tradizionali africane e lo 0,6% cristiani. Nigeria: è una Repubblica Federale composta da 36 stati più il Territorio della Capitale Federale di Abujala; Costituzione riconosce la libertà di religione. A partire dal 2000, 12 stati hanno cominciato ad applicare la shari‟a, oltre che nel diritto di famiglia, nell‟ambito del diritto penale. In linea di principio le norme civili e penali della shari‟a non si applicano ai credenti delle altre religioni, ma la vita dei non musulmani è diversa nei vari stati. Il dialogo interreligioso è attivo soprattutto grazie alle iniziative di Organizzazioni Non Governative. La popolazione è di oltre 138 milioni di abitanti; di questi il 45% cristiani, il 43,9% musulmani, il 9,8% delle religioni tradizionali africane e lo 0,4% di altre religioni. Repubblica Centro Africana: la Costituzione garantisce la libertà di culto e vieta qualsiasi forma di integralismo religioso e di intolleranza. Gli abitanti sono poco più di 4 milioni; di questi il 67,8% cristiani, il 15,6% musulmani, il 15,4% delle religioni tradizionali africane e l’1,2% di altre religioni. 20 Ruanda: la Costituzione garantisce la libertà di religione. Ai partiti politici è proibita qualsiasi distinzione basata su razza, etnia, tribù, clan, provenienza geografica, sesso religione o altri criteri discriminatori. Missionari esteri ed enti affiliati a gruppi religiosi possono operare senza autorizzazione, ma devono dichiarare le loro attività e finalità alle autorità locali per ottenere un “permesso provvisorio”. Lo Stato esige che gli incontri religiosi si tengano nei luoghi di culto e sono vietati nelle abitazioni private. La popolazione conta poco più di 9 milioni di abitanti; di questi l’82,7% cristiani, il 9% delle religioni tradizionali africane, il 7,9% musulmani e lo 0,4% di altre religioni. Sao Tomè e Principe: la Costituzione riconosce la libertà di religione, i gruppi religiosi devono registrarsi. La popolazione arriva a poco più di 150 mila abitanti; di questi il 95,8% cattolici, il 2,1% baha’i, l’1,2% delle religioni tradizionali africane, lo 0,9% di altre religioni. Senegal: la Costituzione riconosce la libertà di religione e la piena autonomia amministrativa e organizzativa alle comunità religiose riconoscendole come strumenti educativi, al pari della scuola pubblica. La popolazione è di oltre 11 milioni di abitanti; di questi l’87,6% musulmani, il 6,2% delle religioni tradizionali africane, il 5,5% cristiani e lo 0,7% di altre religioni. Seychelles: la Costituzione garantisce il pieno riconoscimento della libertà religiosa, ma le confessioni religiose e i gruppi politici non possono avere licenze radio. Gli abitanti sono 84 mila; di questi il 96,9% cristiani e il 3,1% di altre religioni. Sierra Leone: la Costituzione garantisce la libertà religiosa e il suo libero esercizio; sono riconosciute sia feste cristiane, sia islamiche. Sono ammessi i missionari esteri, ma devono pagare una tassa annuale come i residenti stranieri. Gli abitanti sono circa 5 milioni e 700 mila; di questi il 45,9% musulmani, il 40,4% delle religioni tradizionali africane, l’11,5% cristiani e il 2,2% di altre religioni. Somalia: il Paese sta vivendo una difficile situazione socio-politica. La popolazione supera di poco i 7 milioni e 800 mila abitanti; di questi il 98,3% musulmani e l’1,4% cristiani e lo 0,3% di altre religioni. Sud Africa: la Costituzione garantisce la libertà religiosa. La popolazione è di oltre 47 milioni di abitanti; di questi l’83,1% cristiani, l’8,4% delle religioni tradizionali africane, il 2,4% musulmani, il 2,4% induisti e il 3,7% di altre religioni. Sudan: il Paese sta vivendo una difficile situazione socio-politica. La popolazione è di oltre 36 milioni di abitanti; di questi il 70,3% musulmani, il 16,7% cristiani, l’11,9% delle religioni tradizionali africane e l’1,1% di altre religioni. Swaziland: la Costituzione prevede la libertà religiosa. La popolazione è di poco più di un milione di abitanti; di questi l’86,9% cristiani, il 10,7% delle religioni tradizionali africane e il 2,4% di altre religioni. Tanzania: la Costituzione riconosce la libertà di religione specificando anche il diritto a cambiare religione o fede. Le autorità promuovono il dialogo religioso e partecipano indistintamente a ricorrenze cristiane e musulmane. Le organizzazioni religiose devono registrarsi. Nell’arcipelago dello Zanzibar il 98% della popolazione è musulmana e l’1% cattolici. 21 La Tanzania conta più di 41 milioni e 700 mila abitanti; di questi il 50,4% cristiani, il 31,7% musulmani, il 17% delle religioni tradizionali africane e lo 0,9% di altre religioni. Togo: la Costituzione prevede la libertà religiosa. Lo Stato riconosce tre religioni ufficiali – il cattolicesimo, il protestantesimo e l‟islam – mentre ad altri gruppi religiosi richiede di registrarsi come associazioni. La popolazione è di circa 5 milioni e mezzo di abitanti; di questi il 42,6% cristiani, il 37,7% delle religioni tradizionali africane, il 18,8% musulmani e lo 0,9% di altre religioni. Trinidad e Tobago: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. La popolazione è di poco più di un milione di abitanti; di questi il 64,9% cristiani, il 22,8% induisti, il 6,8% musulmani e il 5,8% di altre religioni. Tunisia: la Costituzione afferma che la religione di Stato è l‟islam, ma garantisce l‟inviolabilità della persona umana e la libertà di coscienza, e tutela il libero esercizio dei culti, a condizione che non turbino l‟ordine pubblico. Esiste una piccola comunità ebraica, mentre la Chiesa cattolica gode di un riconoscimento ufficiale in virtù di una convenzione firmata il 9 luglio del 1964 secondo la quale la Chiesa “cede definitivamente e a titolo gratuito”, la maggior parte dei suoi luoghi di culto ed altri edifici, “tutela il libero esercizio del culto cattolico” e riconosce la sua rappresentanza nella funzione del prelato di Tunisi. La popolazione è di poco più di 10 milioni di abitanti; di questi il 98,9% musulmani, lo 0,5% cristiani e lo 0,6% di altre religioni. Uganda: la Costituzione riconosce la libertà religiosa, ma tutti i gruppi religiosi devono registrarsi. La realtà socio-politica è caratterizzata da diverse problematiche. La popolazione è di oltre 28 milioni e 700 mila abitanti; di questi l’88,7% cristiani, il 5,2% musulmani, il 4,4% delle religioni tradizionali africane e l’1,7% di altre religioni. Zambia: la Costituzione garantisce la libertà religiosa e nel preambolo dichiara la Repubblica dello Zambia “nazione cristiana”. La popolazione è di 11 milioni ed 800 mila abitanti; di questi l’82,4% cristiani, il 14,3% delle religioni tradizionali africane, l’1,8% baha’i e l’1,5% di altre religioni. Zimbabwe: la Costituzione riconosce la libertà religiosa. Il Paese ha attraversato negli ultimi anni crisi e instabilità. La popolazione è di oltre 15 milioni e 200 mila abitanti; di questi il 67,5% cristiani, il 30,1% delle religioni tradizionali africane e il 2,4% di altre religioni. 22 2. LA CHIESA - a cura di Lisa Zengarini - 2.1 IL CRISTIANESIMO IN AFRICA: UNA STORIA ANTICA La Chiesa in Africa ha origini antiche che affondano le radici nei tempi apostolici e sono legate, secondo la tradizione, al nome e all‟insegnamento dell‟evangelista Marco. Contrariamente a un‟opinione diffusa, l‟Islam è quindi posteriore. È tuttavia vero che le comunità cristiane del Nord e della Nubia (nell‟attuale Sudan) non sopravvissero all‟invasione musulmana del VII secolo e che le antiche Chiese di Egitto (Copte) e di Etiopia non penetrarono all‟interno del Continente, lasciandosi superare dall‟Islam diffusosi progressivamente fino all‟Equatore. Bisognò quindi attendere i grandi viaggiatori del XV e XVI secolo e gli esploratori del XIX secolo e la conseguente colonizzazione europea per l‟evangelizzazione prima delle coste e poi dell‟interno del continente ad opera dei missionari. La diffusione del Vangelo in Africa è dunque avvenuta in tre fasi. I primi secoli videro appunto l'evangelizzazione dell'Africa del Nord e dell‟Etiopia. Come ricorda Giovanni Paolo II nell‟Esortazione post-sinodale “Ecclesia in Africa” citando Paolo VI, dal II al IV secolo la vita cristiana nelle regioni settentrionali dell'Africa fu intensissima e all'avanguardia, tanto nello studio teologico, quanto nell‟espressione letteraria. Spiccano i nomi dei grandi dottori e scrittori, come Origene, Sant'Atanasio, San Cirillo, luminari della Scuola alessandrina, e Tertulliano, San Cipriano, e soprattutto Sant'Agostino. A questi si possono aggiungere quelli dei grandi santi del deserto, Paolo, Antonio, Pacomio, primi fondatori del monachesimo, diffusosi poi, sul loro esempio, in Oriente e in Occidente, San Frumenzio, il quale, consacrato vescovo da Sant'Atanasio, fu l'apostolo dell'Etiopia. Non meno importanti alcune figure femminili: tra esse, le Sante Felicita e Perpetua, Santa Monica e Santa Tecla. Va poi ricordato che l‟Africa settentrionale ha dato i natali a tre grandi Papi: San Vittore I (II sec.), San Melchiade (IV sec.) e San Gelasio I (V sec.). Questa prima fase dell‟evangelizzazione ebbe termine con l‟invasione islamica del VII secolo. La seconda fase dell‟evangelizzazione, che ha coinvolto le regioni costiere al sud del Sahara, ha avuto luogo nei secoli XV e XVI, quando i missionari seguirono le rotte commerciali aperte dalle flotte portoghesi. Una menzione particolare merita il tentativo di evangelizzare la regione dell‟attuale Repubblica Democratica del Congo nel XVI secolo. La terza fase, caratterizzata da uno sforzo missionario straordinario, è iniziata nel XIX secolo ed è legata alla colonizzazione europea. Tra le figure di spicco si ricordano Charles Martial Allemand Lavigerie (fondatore dei Padri Bianchi), Melchior de Marion Brésillac (fondatore della SMA, la Società delle Missioni Africane), Daniele Comboni (fondatore dei Comboniani). 2.2 - UNA COMUNITÀ IN CRESCITA La crescita dei cattolici africani. Secondo i dati per il 2007 dell'Ufficio Centrale di Statistica della Chiesa (cfr. il volume ―Atlante statistico della Chiesa in Africa‖, a cura di Luis Badilla) i cattolici aumentano nel mondo, in particolare in Oceania e Africa. Tra il 2000 e il 2007, nel continente africano, i sacerdoti sono aumentati del 27,6%, è cresciuto anche il numero di diaconi nonché il numero di candidati al sacerdozio. Sono dati che confermano una tendenza in atto da diversi anni. I cattolici africani sono cresciuti negli ultimi anni del 3,1% (percentuale più alta della crescita della popolazione: 2,5%). Entro il 2050, tre nazioni africane saranno nell‟elenco dei primi 10 Paesi cattolici più grandi del mondo: la Repubblica Democratica del Congo (97 milioni di cattolici), Uganda (56 milioni) e la Nigeria (47 milioni). L’area sub-sahariana. L‟evangelizzazione nella regione sub-sahariana, nell‟ultimo secolo, è un vero “successo” dell‟Annuncio. Da una popolazione cattolica pari a 1,9 milioni di fedeli nel 1900 si è passati, alla fine del 2000, a 139 milioni. Da ricordare inoltre che negli ultimi anni, quasi la metà dei battesimi di adulti a livello mondiale si sono registrati in Africa. A questa straordinaria crescita hanno contribuito sia la crescita demografica del continente, sia appunto l‟opera missionaria della Chiesa. Lo stesso si può dire per le vocazioni alla vita religiosa. 23 Insomma, l‟Africa rappresenta una grande speranza per la diffusione e inculturazione del Vangelo. 2.3 ORGANIZZAZIONE ECCLESIASTICA Conferenze episcopali (nazionali, regionali e continentale) La Chiesa cattolica in Africa è organizzata in 36 Conferenze Episcopali. In otto casi una Conferenza è formata da più nazioni: 1) Angola, São Tomé e Principe; 2) Burkina Faso e Niger; 3) Etiopia ed Eritrea; 4) Gambia, Liberia e Sierra Leone e 5) Sudafrica, Swaziland e Botswana; 6) la Conferenza episcopale dell‟Oceano Indiano (CEDOI) che include: Comores, Maurizio, La Réunion e Seychelles; 7) Senegal, Mauritania, Capo Verde e Guinea Bissau, 8) Algeria, Libia, Tunisia e Marocco. La totalità di questi episcopati sono membri del SECAM/SCEAM (Simposio delle Conferenze episcopali dell'Africa e del Madagascar), suddiviso in 10 aree di coordinamento regionale. (Un caso a parte sono le diocesi di Mogadiscio, in Somalia, e Gibuti comprese nella Conferenza dei Vescovi Latini nelle Regioni Arabe - CELRA - e membri associati dell‟AMECEA) Frutto del dinamismo postconciliare delle Chiese africane, il SECAM, è stato istituito nel 1969 alla presenza di Paolo VI (durante la visita in Uganda), con il compito di promuovere, in collaborazione con le Conferenze episcopali nazionali e regionali, la propagazione della fede, lo sviluppo umano integrale, la pace e la convivenza solidale, l‟ecumenismo e la formazione e fungendo anche da organismo consultivo e di coordinamento. Con la scelta del termine Symposium, anziché Conferenza, i Padri Fondatori vollero sottolineare il desiderio di comunione e fratellanza degli episcopati africani: la parola simposio in greco significa infatti banchetto. Per illustrare il senso di questa scelta il Cardinale Paul Zoungrana nel suo discorso inaugurale nel 1969 usò l‟immagine del “Banchetto Eucaristico” che riunisce insieme una comunità di fratelli. Si ritrova così in nuce il concetto della Chiesa Famiglia di Dio che è stata l‟idea-guida del primo Sinodo Speciale dei Vescovi per l‟Africa del 1994. Nell‟organizzazione interna del SECAM si distinguono l'Assemblea Plenaria, il Comitato permanente composto dal Presidente, due Vice-Presidenti di lingua diversa da quella del Presidente e 10 membri provenienti da ciascuna delle 10 Regioni episcopali in cui è suddiviso e il Segretario generale. A questi organi vanno aggiunti, tra gli altri, il Dipartimento per l‟Evangelizzazione, da cui dipendono il Centro Biblico Cattolico per l'Africa e il Madagascar (BICAM), la Commissione Teologica (COMITHEOL) e il Consiglio Panafricano di Coordinamento del Laicato e il Dipartimento per la Giustizia, la Pace, lo Sviluppo e il Buongoverno. Le lingue ufficiali sono tre: inglese, francese e portoghese. Il SECAM, terrà la sua 15.ma Assemblea plenaria dal 25 luglio al 2 agosto 2010. (Fonte: www.sceam-secam.org) 24 LE 36 CONFERENZE EPISCOPALI DELL'AFRICA 1. Angola – São Tomé e Principe 19. Kenya 2. Benin 20. Lesotho 3. Burkina Faso, Niger 21. Madagascar 4. Burundi 22. Malawi 5. Camerun 23. Mali 6. Centrafricana Repubblica 24. Mozambico 7. CERNA (Algeria, Libia, Tunisia, Marocco) 25. Namibia 8. Ciad 26. Nigeria 9. Congo Repubblica 27. Ruanda 10. Congo Rep. Democratica 28. Senegal, Mauritania, Capo Verde, GuineaBissau 11. Costa d'Avorio 29. SACBC (Sudafrica, Swaziland e Botswana) 12. Egitto 30. Sudan 13. ACBEE (Etiopia, Eritrea) 31. Tanzania 14. Gabon 32. Togo 15. Gambia - Liberia - Sierra Leone 33. Uganda 16. Ghana 34. Zambia 17. Guinea 35. Zimbabwe 18. Guinea Equatoriale 36. Conferenza episcopale dell’Oceano Indiano: Comores, Maurizio, La Réunion e Seychelles Altri due territori, Mayotte coordinamenti ecclesiali. (Francia) e Saint Helena (Regno Unito), partecipano ai SECAM - SCEAM (http://www.sceam-secam.org/) Simposio delle Conferenze episcopali dell'Africa e del Madagascar Presidente: Cardinale Polycarp Pengo, Arcivescovo di Dar-es-Salaam (Tanzania). Primo Vicepresidente: Mons. Francisco João Silota. Secondo Vice-presidente: Cardinale Théodore-Adrien Sarr. Tesoriere: Mons. Gabriel Charles Palmer Bucale. MEMBRI 1 - ACERAC Association des Conférences Episcopales de la Région de l’Afrique Centrale Sede: Brazzaville – Congo Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica del Congo, Gabon, Guinea Equatoriale. 2 – ACEAC 25 Association des Conférences Episcopales de l'Afrique Centrale Sede: Kinshasa - Repubblica Democratica del Congo Burundi ; Repubblica Democratica del Congo, Rwanda 3- AECAWA Association of Episcopal Conferences of Anglophone West Africa Sede: Abuja – Nigeria Gambia, Ghana , Liberia , Nigeria , Sierra Leone Nel mese di agosto in questo coordinamento sono entrati a far parte gli 11 episcopati della CERAO che si è sciolta il 3 febbraio 2009. 4 - AHCE Assemblée de la Hiérarchie Catholique d'Egypte Sede: Il Cairo – Egitto Egitto 5 - AMECEA Association of Member Episcopal Conferences in Eastern Africa Sede: Nairobi – Kenya Gibuti (associato) , Eritrea, Etiopia , Kenya , Malawi , Somalia (associato, Sudan, Tanzania, Uganda, Zambia. 6 - CEDOI Conférence Episcopale de l'Océan Indien Sede: Secrétariat Général - Diocèse de Saint-Denis, La Réunion Comore , La Réunion , Maurizio , Seychelles. 7 - CEM Conférence Episcopale de Madagascar Sede: Antananarivo – Madagascar Madagascar 8 - CERAO Conférence Episcopale Régionale de l'Afrique de l'Ouest Francophone Sede: Abidjan - Costa d'Avorio Benin, Burkina Faso, Capo Verde , Costa d'Avorio , Guinea , Guinea-Bissau , Mali, Mauritania , Niger , Senegal , Togo. Lo scorso febbraio, ad Abidjan, Costa d'Avorio, si sono svolti i lavori della 17.ma e ultima Assemblea plenaria della CERAO. Questo coordinamento ecclesiale si è sciolto e ad agosto si è fuso con l‟AECAWA. 9 - CERNA Conférence Episcopale Régionale du Nord de l'Afrique Sede: Rabat – Marocco Algeria, Libia , Marocco (più il territorio conteso del Sahara Occidentale), Tunisia 10 - IMBISA Inter-Regional Meeting of Bishops of Southern Africa Sede: Harare – Zimbabwe 26 Angola, Botswana , Lesotho , Mozambico , Namibia , São Tomé e Principe , Sudafrica , Swaziland , Zimbabwe. 2.4 UN CONTINENTE VISITATO 18 VOLTE DA TRE PAPI Sono tre i pontefici che hanno visitato il continente africano: Paolo VI, Giovanni Paolo II e, dal 17 al 23 marzo di quest‟anno, Benedetto XVI, a 40 anni dal primo viaggio apostolico di Papa Paolo VI, (31 luglio – 2 agosto 1969, Uganda). Dopo quella prima storica visita ci sono stati i numerosi viaggi apostolici di Giovanni Paolo II: in tutto 16, tra il 1980 e il 2000. Il viaggio del Santo Padre Benedetto XVI dello scorso mese di marzo è stato quindi il diciottesimo di un Pontefice in Africa. Nei suoi 16 viaggi africani Giovanni Paolo II visitò 42 Paesi del continente (di cui sette più di una volta) più un Dipartimento francese (La Réunion), pronunciando più di 430 discorsi. (Dal Dossier “Benedetto XVI in Africa Camerun e Angola”, a cura di L. Badilla) 2.5 IL MAGISTERO DI PAPA BENEDETTO XVI - ALCUNI BRANI SULL’AFRICA Il magistero di Benedetto XVI sull‟Africa si ritrova innanzitutto nei discorsi ai vescovi in occasione delle loro visite ad Limina; in quelli ai nuovi ambasciatori africani in occasione della presentazione delle Lettere Credenziali e in quelli pronunciati durante il recente viaggio apostolico in Angola e Camerun (17-23 marzo 2009). Diversi riferimenti all‟Africa sono poi presenti nei discorsi ai membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede per la presentazione degli auguri per il nuovo anno. Quest‟anno i vertici del G-20 a Londra (aprile 2009) e del G-8 a L‟Aquila (luglio 2009) hanno offerto al Papa un‟altra occasione per richiamare l‟attenzione della comunità internazionale sull‟Africa Dall‟inizio del suo pontificato fino ad oggi Benedetto XVI ha ricevuto i vescovi delle seguenti Conferenze episcopali africane: Nigeria (2009); Kenya, Gabon, Congo (Brazzaville), Benin, Togo C.E.R.N.A. (Tunisia , Algeria, Marocco, Libia, Sahara Occidentale), Repubblica Centrafricana, Mozambico, Mali (2007); Zambia, Malawi, Ciad, Ghana, Costa d'Avorio, Camerun, Conferenza episcopale del Senegal, Mauritania, Capo Verde e Guinea Bissau, Repubblica Democratica del Congo (2006) Sudafrica; Zimbabwe Ruanda, Etiopia e Eritrea (2005). Negli ultimi due anni il Papa ha inoltre ricevuto i nuovi Ambasciatori di: Benin, Sud Africa, Burkina Faso, Namibia (2009); Nigeria, Tanzania, Uganda, Liberia, Ciad, Guinea, Camerun, Gabon, Egitto, Malawi, Sierra Leone, Madagascar, Tunisia, Isole Seichelles, Sudan, RD Congo, Somalia, Kenya, Etiopia (2008). Riproponiamo di seguito una selezione di alcuni degli interventi del Santo Padre: IL VIAGGIO APOSTOLICO IN CAMERUN E ANGOLA (17-23 marzo 2009) PAROLE DI BENEDETTO XVI AI GIORNALISTI DURANTE IL VOLO DI ANDATA 17 marzo 2009 Le sette, l’Aids, le religioni tradizionali in Africa … (…) Prima riconosciamo tutti che in Africa il problema dell’ateismo quasi non si pone, perché la realtà di Dio è così presente, così reale nel cuore degli africani che non credere in Dio, vivere senza Dio appare non come una tentazione. E’ vero che ci sono anche dei problemi delle sètte: non annunciamo, noi, come fanno alcuni di loro, un Vangelo di prosperità ma un realismo cristiano; non annunciamo miracoli, come alcuni fanno, ma la sobrietà della vita cristiana. Ma siamo convinti che proprio questa sobrietà, questo realismo che annuncia un Dio che si è fatto uomo, quindi un Dio profondamente umano, un Dio che soffre, anche, con noi, che da senso alla nostra sofferenza è un annuncio con un orizzonte più vasto e ha più futuro. E sappiamo 27 che queste sètte non sono molto stabili nella loro consistenza: in un primo momento appare bene l’annuncio della prosperità, di guarigioni miracolose ma dopo un po’ di tempo si vede che vita è difficile, che un Dio umano, un Dio che soffre con noi è più promettente, più vero, un più grande aiuto nella vita. E’ importante, anche, che noi abbiamo la struttura della Chiesa cattolica: annunciamo non un piccolo gruppo che dopo un certo tempo si isola e si perde, ma entriamo in questa grande rete universale della cattolicità, non solo trans-temporale, ma presente dappertutto; è come una grande rete di amicizia che ci unisce e ci aiuta anche a superare il tribalismo e di venire a questa unità nella diversità, che è la vera promessa. (…) Penso che la realtà più efficiente, più presente, più forte della lotta contro l’Aids sia proprio la Chiesa cattolica, con i suoi movimenti, con le sue diverse realtà. Penso alla Comunità di Sant’Egidio che fa tanto – visibilmente e anche invisibilmente – per la lotta contro l’Aids, ai Camilliani, tante altre cose, a tutte le suore che sono a disposizione dei malati … Direi che non si può superare questo problema dell’Aids solo con soldi. Sono necessari, ma se non c’è l’anima che li sappia applicare, non aiutano, non si può superare con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema. La soluzione può essere solo una duplice: la prima, una umanizzazione della sessualità, cioè un rinnovo spirituale e umano che porti con sé un nuovo modo di comportarsi l’uno con l’altro, e secondo, una vera amicizia anche e soprattutto per le persone sofferenti, una disponibilità, anche con sacrifici, con rinunce personali, per essere con i sofferenti. E questi sono i fattori che aiutano e che portano con sé anche veri e visibili progressi. Perciò, direi questa nostra duplice forza di rinnovare l’uomo interiormente, di dargli forza spirituale e umana per un comportamento giusto nei confronti del proprio corpo e dell’altro, e questa capacità di soffrire con i sofferenti, di rimanere presente nelle situazioni di prova. Mi sembra la giusta risposta, e la Chiesa fa questo e così offre un contributo grandissimo ed importante. Ringraziamo tutti coloro che lo fanno. (…) Mi sembra, nonostante tutti i problemi che conosciamo bene, che ci siano grandi segni di speranza. Nuovi governi, nuova disponibilità di collaborazione, lotta contro la corruzione – un grande male che dev’essere superato! – e anche l’apertura delle religioni tradizionali alla fede cristiana, perché le religioni tradizionali tutte conoscono Dio, l’unico Dio, ma appare un po’ lontano. E aspettano che si avvicini, e nell’annuncio del Dio umano, del Dio Uomo, che questo Dio che conoscono si è realmente avvicinato. Poi, la Chiesa cattolica ha tanto in comune: diciamo, il culto degli antenati trova la sua risposta nella comunione dei santi, nel purgatorio. I santi non sono i canonizzati, sono tutti i nostri morti. E così, nel Corpo di Cristo si realizza proprio anche quanto intendeva il culto degli antenati. E così via. Così c’è un incontro profondo che da realmente speranza. E cresce anche il dialogo interreligioso – ho parlato io adesso con più della metà dei vescovi africani, e le relazioni con i musulmani, nonostante i problemi che si possono verificare, sono molto buoni, hanno comitati di dialogo, cresce il rispetto reciproco e la collaborazione nella comune responsabilità etica. E del resto, anche, cresce questo senso di cattolicità che aiuta a superare il tribalismo, uno dei grandi problemi, e diciamo anche la gioia di essere cristiani. Un problema delle religioni tradizionali è la paura degli spiriti. Uno dei vescovi africani mi ha detto: uno è realmente convertito al cristianesimo, è divenuto pienamente cristiano se sa: Cristo è più forte. Non c’è più paura. E anche questo cresce. Così, direi, con tanti elementi e problemi che non possono mancare, crescono le forze spirituali, economiche, umane che ci danno speranza, e vorrei proprio mettere in luce gli elementi di speranza. DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI ALL‟INCONTRO CON I VESCOVI DEL CAMERUN NELLA CHIESA CHRIST-ROI IN TSINGA A YAOUNDÉ 18 marzo 2009 E’ dovere dei cristiani lasciarsi guidare dalla dottrina sociale della Chiesa, per contribuire alla costruzione di un mondo più giusto (…) Nel contesto della globalizzazione in cui ci troviamo, la Chiesa ha un interesse particolare per le persone più bisognose. La missione del Vescovo lo impegna ad essere il principale difensore dei diritti dei poveri, a promuovere e favorire l'esercizio della carità, manifestazione 28 dell’amore del Signore per i piccoli. In questo modo, i fedeli sono portati a cogliere in modo concreto che la Chiesa è una vera famiglia di Dio, riunita dall’amore fraterno, che esclude ogni etnocentrismo e particolarismo eccessivi e contribuisce alla riconciliazione e alla cooperazione tra le etnie per il bene di tutti. D'altra parte, la Chiesa, attraverso la sua dottrina sociale, vuole risvegliare la speranza nei cuori degli esclusi. E’ anche dovere dei cristiani, specialmente dei laici che hanno responsabilità sociali, economiche, politiche, di lasciarsi guidare dalla dottrina sociale della Chiesa, per contribuire alla costruzione di un mondo più giusto in cui ciascuno potrà vivere dignitosamente (…). DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI DURANTE L‟INCONTRO CON I MEMBRI DEL CONSIGLIO SPECIALE PER L'AFRICA DEL SINODO DEI VESCOVI NELLA NUNZIATURA APOSTOLICA DI YAOUNDÉ 19 MARZO 2009 Il legame profondo tra l’Africa e il cristianesimo Alcuni momenti significativi della storia cristiana di questo Continente possono ricordarci il legame profondo che esiste tra l‟Africa e il cristianesimo a partire dalle sue origini. Secondo la venerabile tradizione patristica, l‟evangelista san Marco, che ha “trasmesso per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro” (Ireneo, Adversus haereses III, I, 1), venne ad Alessandria a rianimare la semente sparsa dal Signore. Questo Evangelista ha reso testimonianza in Africa della morte in croce del Figlio di Dio – ultimo momento della kénosi – e della sua elevazione sovrana, perché “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,11). La Buona Novella della venuta del Regno di Dio si è diffusa rapidamente nel nord del vostro Continente, dove ha avuto illustri martiri e santi e ha generato insigni teologi. Dopo essere stato messo alla prova da vicissitudini storiche, il cristianesimo, durante quasi un millennio, non è rimasto che nella parte nord-orientale del Continente. Con l‟arrivo degli Europei che cercavano la via delle Indie, nei secoli XV e XVI, le popolazioni sub-sahariane hanno incontrato Cristo. Furono le popolazioni costiere a ricevere per prime il battesimo. Nei secoli XIX e XX, l‟Africa sub-sahariana ha visto arrivare missionari, uomini e donne, provenienti da tutto l‟Occidente, dall‟America Latina e anche dall‟Asia. Desidero rendere omaggio alla generosità della loro risposta incondizionata alla chiamata del Signore e dal loro ardente zelo apostolico. Qui vorrei andare oltre e parlare dei catechisti africani, compagni inseparabili dei missionari nell‟evangelizzazione. Dio aveva preparato il cuore di un certo numero di laici africani, uomini e donne, persone giovani e più avanti negli anni, a ricevere i suoi doni e portare la luce della sua Parola ai loro fratelli e sorelle. Laici con i laici, hanno saputo trovare nella lingua dei loro padri le parole di Dio che hanno toccato il cuore dei loro fratelli e sorelle. Hanno saputo condividere il sapore del sale della Parola e far risplendere la luce dei Sacramenti che annunciavano. Hanno accompagnato le famiglie nella loro crescita spirituale, hanno incoraggiato le vocazioni sacerdotali e religiose e sono stati il legame tra le loro comunità e i sacerdoti e i vescovi. Con naturalezza, hanno operato un‟efficace inculturazione che ha portato meravigliosi frutti (cfr Mc 4,20). Sono stati i catechisti a permettere che “la luce risplendesse davanti agli uomini “ (Mt 5,16), perché vedendo il bene che facevano, intere popolazioni hanno potuto rendere gloria al nostro Padre che è nei cieli. Sono Africani che hanno evangelizzato Africani. Evocando il loro glorioso ricordo, saluto e incoraggio i loro degni successori che lavorano oggi con la stessa abnegazione, lo stesso coraggio apostolico e la stessa fede dei loro predecessori. Che Dio li benedica generosamente! Durante questo periodo, la terra africana è stata anche benedetta da numerosi santi. Mi limito a nominare i gloriosi Martiri dell‟Uganda, i grandi missionari Anna Maria Javouhey e Daniele Comboni, come pure Suor Anuarite Nengapeta e il catechista Isidoro Bakanja, senza dimenticare l‟umile Giuseppina Bakhita. Il primo Sinodo per l’Africa ha messo in evidenza la necessità di incarnare il mistero di una Chiesa-Famiglia Ci troviamo attualmente in un momento storico che coincide, dal punto di vista civile, con l‟indipendenza ritrovata e, dal punto di vista ecclesiale, con l‟evento del Concilio Vaticano II. La Chiesa in Africa ha preparato e accompagnato durante questo periodo la costruzione delle nuove identità nazionali e, parallelamente, ha cercato di tradurre l‟identità di Cristo secondo vie proprie. Mentre la Gerarchia si era a poco a poco africanizzata, a partire 29 dall‟ordinazione da parte del Papa Pio XII di Vescovi del vostro continente, la riflessione teologica cominciò a svilupparsi. Sarebbe bene che i vostri teologi continuassero oggi ad esplorare la profondità del mistero trinitario e il suo significato per la vita quotidiana africana. Questo secolo permetterà forse, con la grazia di Dio, la rinascita, nel vostro continente, ma certamente sotto una forma diversa e nuova, della prestigiosa Scuola di Alessandria. Perché non sperare che essa possa fornire agli Africani di oggi e alla Chiesa universale grandi teologi e maestri spirituali che potrebbero contribuire alla santificazione degli abitanti di questo continente e della Chiesa intera? La Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi ha permesso di indicare le direzioni da prendere e ha messo in evidenza, tra l‟altro, la necessità di approfondire e di incarnare il mistero di una Chiesa-Famiglia. Vorrei ora suggerire qualche riflessione sul tema specifico della Seconda Assemblea Speciale per l‟Africa del Sinodo dei Vescovi, relativo alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace. Secondo il Concilio Ecumenico Vaticano II, “la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell‟intima unione con Dio e dell‟unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, 1). Per adempiere bene la propria missione, la Chiesa dev‟essere una comunità di persone riconciliate con Dio e tra di loro. In questo modo, essa può annunciare la Buona Novella della riconciliazione alla società attuale, che conosce purtroppo in molti luoghi conflitti, violenze, guerre e odio. Il vostro continente non ne è stato risparmiato ed è stato ed è ancora triste teatro di gravi tragedie, che fanno appello ad una vera riconciliazione tra i popoli, le etnie, gli uomini. Per noi cristiani, questa riconciliazione si radica nell‟amore misericordioso di Dio Padre e si realizza mediante la persona di Gesù Cristo che, nello Spirito Santo, ha offerto a tutti la grazia della riconciliazione. Le conseguenze si manifesteranno allora con la giustizia e la pace, indispensabili per costruire un mondo migliore. Se apparteniamo tutti alla Famiglia di Dio, non dovrebbero più esserci odio, ingiustizie, guerre tra fratelli ―In realtà, nel contesto socio-politico ed economico attuale del continente africano, che cosa c’è di più drammatico della lotta spesso cruenta tra gruppi etnici o popoli fratelli? E se il Sinodo del 1994 ha insistito sulla Chiesa-Famiglia di Dio, quale può essere l’apporto di quello di quest’anno, alla costruzione dell’Africa, assetata di riconciliazione e alla ricerca della giustizia e della pace? I conflitti locali o regionali, i massacri e i genocidi che si sviluppano nel Continente devono interpellarci in modo tutto particolare: se è vero che in Gesù Cristo noi apparteniamo alla stessa famiglia e condividiamo la stessa vita, poiché nelle nostre vene circola lo stesso Sangue di Cristo, che fa di noi figli di Dio, membri della Famiglia di Dio, non dovrebbero dunque più esserci odio, ingiustizie, guerre tra fratelli. Constatando lo sviluppo della violenza e l’emergere dell’egoismo in Africa, il Cardinale Bernardin Gantin, di venerata memoria, faceva appello, fin dal 1988, a una Teologia della Fraternità, come risposta al richiamo pressante dei poveri e dei più piccoli (cfr L’Osservatore Romano, ed. francese, 12 aprile 1988, pp. 4-5). Gli tornava forse alla memoria ciò che scriveva l’africano Lattanzio all’alba del IV secolo: ―Il primo dovere della giustizia è riconoscere l’uomo come un fratello. Infatti, se lo stesso Dio ci ha fatti e ci ha generati tutti nella stessa condizione, in vista della giustizia e della vita eterna, noi siamo sicuramente uniti da legami di fraternità: chi non li riconosce è ingiusto‖ (Epitomé des Intitutions Divines, 54, 4-5: SC 335, p. 210). La Chiesa-Famiglia di Dio che è in Africa, già dalla Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi ha realizzato un’opzione preferenziale per i poveri. Essa manifesta così che la situazione di disumanizzazione e di oppressione che affligge i popoli africani non è irreversibile; al contrario, essa pone ciascuno di fronte ad una sfida, quella della conversione, della santità e dell’integrità‖. (…) DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI ALLA CERIMONIA DI BENVENUTO ALL‟AEROPORTO INTERNAZIONALE «4 DE FEVEREIRO» DI LUANDA 20 marzo 2009 30 Il dialogo mezzo per superare ogni forma di conflitto per fare di ogni Nazione una casa di pace e di fraternità ―Quanto a me, vi ricordo che provengo da un Paese dove la pace e la fraternità sono care ai cuori di tutti i suoi abitanti, in particolare di quanti – come me – hanno conosciuto la guerra e la divisione tra fratelli appartenenti alla stessa Nazione a causa di ideologie devastanti e disumane, le quali, sotto la falsa apparenza di sogni e illusioni, facevano pesare sopra gli uomini il giogo dell’oppressione. Potete dunque capire quanto io sia sensibile al dialogo fra gli uomini come mezzo per superare ogni forma di conflitto e di tensione e per fare di ogni Nazione – e quindi anche della vostra Patria – una casa di pace e di fraternità. In vista di tale scopo, dovete prendere dal vostro patrimonio spirituale e culturale i valori migliori, di cui l’Angola è portatrice, e farvi gli uni incontro agli altri senza paura, accettando di condividere le personali ricchezze spirituali e materiali a beneficio di tutti. Cari amici angolani, il vostro territorio è ricco; la vostra Nazione è forte. Utilizzate queste vostre prerogative per favorire la pace e l’intesa fra i popoli, su una base di lealtà e di uguaglianza che promuovano per l’Africa quel futuro pacifico e solidale al quale tutti anelano e hanno diritto. A tale scopo vi prego: Non arrendetevi alla legge del più forte! Perché Dio ha concesso agli esseri umani di volare, al di sopra delle loro tendenze naturali, con le ali della ragione e della fede. Se vi fate sollevare da queste ali, non vi sarà difficile riconoscere nell’altro un fratello, che è nato con gli stessi diritti umani fondamentali. Purtroppo dentro i vostri confini angolani ci sono ancora tanti poveri che rivendicano il rispetto dei loro diritti. Non si può dimenticare la moltitudine di angolani che vivono al di sotto della linea di povertà assoluta. Non deludete le loro aspettative! Si tratta di un’opera immane, che richiede una più grande partecipazione civica da parte di tutti. È necessario coinvolgere in essa l’intera società civile angolana; questa però ha bisogno di presentarsi all’appuntamento più forte e articolata, sia tra le forze che la compongono come anche nel dialogo con il Governo. Per dare vita ad una società veramente sollecita del bene comune, sono necessari valori da tutti condivisi‖. DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI IN OCCASIONE DELL‟INCONTRO CON LE AUTORITÀ POLITICHE E CIVILI E CON IL CORPO DIPLOMATICO NEL SALONE D‟ONORE DEL PALAZZO PRESIDENZIALE DI LUANDA 20 marzo 2009 Gli stessi africani, lavorando insieme per il bene delle loro comunità, devono essere gli agenti primari del loro sviluppo ―L’Angola sa che è arrivato per l’Africa il tempo della speranza. Ogni comportamento umano retto è speranza in azione. Le nostre azioni non sono mai indifferenti davanti a Dio; e non lo sono neanche per lo sviluppo della storia. Amici miei, armati di un cuore integro, magnanimo e compassionevole, voi potete trasformare questo Continente, liberando il vostro popolo dal flagello dell’avidità, della violenza e del disordine, guidandolo sul sentiero segnato dai principi indispensabili ad ogni moderna civile democrazia: il rispetto e la promozione dei diritti umani, un governo trasparente, una magistratura indipendente, una comunicazione sociale libera, un'onesta amministrazione pubblica, una rete di scuole e di ospedali funzionanti in modo adeguato, e la ferma determinazione, radicata nella conversione dei cuori, di stroncare una volta per tutte la corruzione. Nel Messaggio di quest'anno per la Giornata Mondiale della Pace ho voluto richiamare all’attenzione di tutti la necessità di un approccio etico allo sviluppo. Infatti, più che semplici programmi e protocolli, le persone di questo continente stanno giustamente chiedendo una conversione profondamente convinta e durevole dei cuori alla fraternità (cfr n. 13). La loro richiesta a quanti servono nella politica, nella amministrazione pubblica, nelle agenzie internazionali e nelle compagnie multinazionali è soprattutto questa: stateci accanto in modo veramente umano; accompagnate noi, le nostre famiglie, le nostre comunità! Lo sviluppo economico e sociale in Africa richiede il coordinamento del Governo nazionale con le iniziative regionali e con le decisioni internazionali. Un simile coordinamento suppone che le nazioni africane siano viste non solo come destinatarie dei piani e delle soluzioni elaborate da 31 altri. Gli stessi africani, lavorando insieme per il bene delle loro comunità, devono essere gli agenti primari del loro sviluppo. A questo proposito, vi è un numero crescente di efficaci iniziative che meritano di essere sostenute. Tra esse, la New Partnership for Africa's Development (NEPAD), il Patto sulla sicurezza, la stabilità e lo sviluppo nella Regione dei Grandi Laghi, il Kimberley Process, la Publish What You Pay Coalition e l'Extractive Industries Transparency Iniziative: loro comune obiettivo è promuovere la trasparenza, l'onesta pratica commerciale e il buon governo. Quanto alla comunità internazionale nel suo insieme, è di urgente importanza il coordinamento degli sforzi per affrontare la questione dei cambiamenti climatici, la piena e giusta realizzazione degli impegni per lo sviluppo indicati dal Doha round e ugualmente la realizzazione della promessa dei Paesi sviluppati molte volte ripetuta di destinare lo 0,7 % del loro PIL (prodotto interno lordo) agli aiuti ufficiali per lo sviluppo. Questa assistenza è ancor più necessaria oggi con la tempesta finanziaria mondiale in atto; l’auspicio è che essa non sia una in più delle sue vittime‖. PAROLE DI BENEDETTO XVI AI GIORNALISTI DURANTE IL VOLO DI RITORNO 23 marzo 2009 Gli africani hanno visto nel Papa la personificazione del fatto che siamo tutti figli e famiglia di Dio Mi sono rimaste nella memoria soprattutto due impressioni: da una parte, l’impressione di questa cordialità quasi esuberante, di questa gioia, di un’Africa in festa, e mi sembra che nel Papa hanno visto, diciamo, la personificazione del fatto che siamo tutti figli e famiglia di Dio. Esiste questa famiglia e noi, con tutti i nostri limiti, siamo in questa famiglia e Dio è con noi. Così la presenza del Papa ha, diciamo, aiutato a sentire questo e ad essere realmente nella gioia. Dall’altra parte, mi ha fatto grande impressione lo spirito di raccoglimento nelle liturgie, il forte senso del sacro: nelle liturgie non c’è auto-presentazione dei gruppi, auto-animazione, ma c’è la presenza del sacro, di Dio stesso: Anche i movimenti erano sempre movimenti di rispetto e di consapevolezza della presenza divina. Questo ha suscitato in me una grande impressione. (…) Non solo abbiamo distribuito l’Instrumentum laboris per il Sinodo, ma abbiamo anche lavorato per il Sinodo. Nella sera del giorno di San Giuseppe mi sono riunito con tutti i componenti del Consiglio per il Sinodo – 12 Vescovi – e ognuno ha parlato della situazione della sua Chiesa locale. Mi hanno parlato delle loro proposte, delle loro aspettative, e così è nata un’idea molto ricca della realtà della Chiesa in Africa: come si muove, come soffre, che cosa fa, quali sono le speranze, i problemi. Potrei raccontare molto, per esempio della Chiesa del Sud Africa, che ha avuto un’esperienza di riconciliazione difficile, ma sostanzialmente riuscita: essa aiuta adesso con le sue esperienze il tentativo di riconciliazione in Burundi e cerca di fare qualcosa di simile, anche se con grandissime difficoltà, in Zimbabwe. DALLA LETTERA DI BENEDETTO XVI AL PRESIDENTE DELLA GERMANIA HORST KÖHLER, SUL VIAGGIO APOSTOLICO IN CAMERUN E ANGOLA 4 maggio 2009 L'Africa è un continente giovane con un enorme potenziale di creatività: la fede può offrire un contributo decisivo (…) L'Africa è un continente giovane, pieno di gioia di vita e di fiducia, con un enorme potenziale di creatività. Certo, gli interessi stranieri e le tensioni della sua propria storia gravano ancora sul presente e minacciano l'avvenire. Ma la fede viva, la fresca forza morale e la crescente competenza intellettuale creano un clima di speranza che resiste alle sfide e ne rende possibile il superamento. 32 Grazie alle visite Ad-limina, negli ultimi quattro anni ho potuto avere colloqui personali già con la maggior parte dei Vescovi africani sullo stato delle loro rispettive Diocesi e farmi un'idea della situazione di esse. Quest'autunno, a Roma, il Sinodo dei Vescovi africani sul tema La Chiesa in Africa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace: «Voi siete il sale della terra ... Voi siete la luce del mondo» (Mt 5, 13-14) offrirà l'occasione per un ampio scambio di idee e per la creazione di un comune programma pastorale. La fede può offrire un contributo decisivo per l'interiore e necessaria formazione umana. Al riguardo, a Yaoundé ho citato una parola di Lattanzio, scrittore ecclesiastico africano del quarto secolo: «Il primo dovere della giustizia è riconoscere l'uomo come un fratello. Infatti, se lo stesso Dio ci ha fatti e ci ha generati tutti nella stessa condizione, in vista della giustizia e della vita eterna, noi siamo sicuramente uniti da legami di fraternità: chi non li riconosce è ingiusto». In tal senso la Chiesa cerca di formare le coscienze e di operare quasi dall'interno affinché gli africani, come protagonisti dello sviluppo dei loro Paesi, usino i loro numerosi doni a favore dell'edificazione della società e della pace. Un comportamento onesto e solidale che non ceda alla legge del più forte e non cerchi soltanto il proprio interesse è infatti come una speranza che agisce, un seme che porta già in sé un futuro migliore. In tale contesto è richiesto anche l'appoggio della comunità internazionale non malgrado, bensì proprio a motivo dell'attuale crisi finanziaria ed economica che tocca particolarmente l'Africa e i Paesi più poveri. Ognuno di noi è pensato, voluto e amato da Dio. Su questa base ho anche potuto incoraggiare la Chiesa in Africa a continuare ad assistere le vittime della violenza e delle malattie come l'Aids, la malaria e la tubercolosi e a lottare efficacemente contro tali terribili flagelli. Ispirati da un autentico umanesimo, la cui misura perfetta è Gesù Cristo, i cristiani presteranno anche in futuro il loro servizio negli ospedali e nelle scuole, ed accanto a loro ci saranno numerose persone di buona volontà. In questo senso ho potuto dire che la Chiesa, suscitando nei cuori degli uomini l'amore verso i sofferenti e la disponibilità ad aiutare, fa molto di più contro le malattie devastanti che tante altre istituzioni. DALLA LETTERA DI BENEDETTO XVI AL PREMIER BRITANNICO GORDON BROWN IN OCCASIONE DEL VERTICE INTERNAZIONALE DEL G20 A LONDRA (aprile 2009) Non si dimentichino i Paesi più poveri, in particolare l’Africa (…) Scrivo questo messaggio di ritorno dall’Africa, dove ho potuto toccare con mano sia la realtà di una povertà bruciante e di una esclusione cronica, che la crisi rischia di aggravare drammaticamente, sia le straordinarie risorse umane di cui quel Continente gode e che può mettere a disposizione dell’intero pianeta. Il Vertice di Londra, così come il Vertice di Washington che lo precedette nel 2008, per motivi pratici di urgenza si è limitato a convocare gli Stati che rappresentano il 90 % del PIL e l’80 % del commercio mondiale. In questo contesto, l’Africa subsahariana è presente con un unico Stato e qualche Organismo regionale. Tale situazione deve indurre i partecipanti al Vertice a una profonda riflessione, perché appunto coloro la cui voce ha meno forza nello scenario politico sono quelli che soffrono di più i danni di una crisi di cui non portano la responsabilità. Essi poi, a lungo termine, sono quelli che hanno più potenzialità per contribuire al progresso di tutti. Occorre pertanto fare ricorso ai meccanismi e agli strumenti multilaterali esistenti nel complesso delle Nazioni Unite e delle agenzie ad essa collegate, affinché sia ascoltata la voce di tutti i Paesi del mondo e affinché le misure e i provvedimenti decisi negli incontri del G20 siano condivisi da tutti. Allo stesso tempo, vorrei aggiungere un altro motivo di riflessione per il Vertice. Le crisi finanziarie scattano nel momento in cui, anche a causa del venir meno di un corretto comportamento etico, manca la fiducia degli agenti economici negli strumenti e nei sistemi finanziari. Tuttavia, la finanza, il commercio e i sistemi di produzione sono creazioni umane contingenti che, quando diventano oggetto di fiducia cieca, portano in sé stesse la radice del loro fallimento. L’unico fondamento vero e solido è la fiducia nell’uomo. Perciò tutte le misure proposte per arginare la crisi devono cercare, in ultima analisi, di offrire sicurezza alle famiglie 33 e stabilità ai lavoratori e di ripristinare, tramite opportune regole e controlli, l’etica nelle finanze. La crisi attuale ha sollevato lo spettro della cancellazione o della drastica riduzione dei piani di aiuto estero, specialmente per l’Africa e per gli altri Paesi meno sviluppati. L’aiuto allo sviluppo, comprese le condizioni commerciali e finanziarie favorevoli ai Paesi meno sviluppati e la remissione del debito estero dei Paesi più poveri e più indebitati, non è stata la causa della crisi e, per un motivo di giustizia fondamentale, non deve esserne la vittima. Se un elemento centrale della crisi attuale è da riscontrare in un deficit di etica nelle strutture economiche, questa stessa crisi ci insegna che l’etica non è ―fuori‖ dall’economia, ma ―dentro‖ e che l’economia non funziona se non porta in sé l’elemento etico. (…) DAL MESSAGGIO DI BENEDETTO XVI AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO ITALIANO SILVIO BERLUSCONI IN OCCASIONE DEL G-8 A L‟AQUILA (luglio 2009) L’aiuto allo sviluppo sia mantenuto e potenziato, non solo nonostante la crisi, ma proprio perché di essa è una delle principali vie di soluzione (…) In preparazione al Grande Giubileo del 2000, su impulso di Giovanni Paolo II, la Santa Sede ebbe a prestare grande attenzione ai lavori del G8. Il mio venerato Predecessore era infatti persuaso che la liberazione dei Paesi più poveri dal fardello del debito e, più in generale, lo sradicamento delle cause della povertà estrema nel mondo dipendevano dalla piena assunzione delle responsabilità solidali nei confronti di tutta l’umanità, che hanno i Governi e gli Stati economicamente più avanzati. Responsabilità che non sono venute meno, anzi sono diventate oggi ancora più pressanti. Nel passato recente, in parte grazie alla spinta che il Grande Giubileo del 2000, ha dato alla ricerca di soluzioni adeguate alle problematiche relative al debito e alla vulnerabilità economica dell’Africa e di altri Paesi poveri, in parte grazie ai notevoli cambiamenti nello scenario economico e politico mondiale, la maggioranza dei Paesi meno sviluppati ha potuto godere di un periodo di straordinaria crescita, che ha consentito a molti di essi di sperare nel conseguimento dell’obiettivo fissato dalla Comunità internazionale alla soglia del terzo millennio, quello cioè di sconfiggere la povertà estrema entro il 2015. Purtroppo, la crisi finanziaria ed economica, che investe l’intero Pianeta dall’inizio del 2008, ha mutato il panorama, cosicché è reale il rischio non solo che si spengano le speranze di uscire dalla povertà estrema, ma che anzi cadano nella miseria pure popolazioni finora beneficiarie di un minimo benessere materiale. Inoltre, l’attuale crisi economica mondiale comporta la minaccia della cancellazione o della drastica riduzione dei piani di aiuto internazionale, specialmente in favore dell’Africa e degli altri Paesi economicamente meno sviluppati. E pertanto, con la stessa forza con cui Giovanni Paolo II chiese il condono del debito estero, vorrei anch’io fare appello ai Paesi membri del G8, agli altri Stati rappresentati e ai Governi del mondo intero, affinché l’aiuto allo sviluppo, soprattutto quello rivolto a ―valorizzare‖ la ―risorsa umana‖, sia mantenuto e potenziato, non solo nonostante la crisi, ma proprio perché di essa è una delle principali vie di soluzione. Non è infatti investendo sull’uomo – su tutti gli uomini e le donne della Terra – che si potrà riuscire ad allontanare in modo efficace le preoccupanti prospettive di recessione mondiale? Non è in verità questa la strada per ottenere, per quanto possibile, un andamento dell’economia mondiale a beneficio degli abitanti di ogni Paese, ricco e povero, grande e piccolo? (…) *** DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO 8 gennaio 2007 Le minacce alla vita e alla famiglia in Africa Come non preoccuparsi dei continui attentati portati alla vita, dal concepimento fino alla morte naturale? Non risparmiano tali attentati anche quelle regioni dove la cultura del rispetto della vita è tradizionale, come in Africa, dove si tenta di banalizzare surrettiziamente l’aborto 34 attraverso il Protocollo di Maputo, così come attraverso il Piano d’Azione adottato dai Ministri della Sanità dell’Unione Africana, e che sarà tra poco sottoposto al Summit dei capi di Stato e di Governo. Allo stesso modo si sviluppano minacce contro la struttura naturale della famiglia, fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna, e tentativi di relativizzarla conferendole lo stesso statuto di forme di unione radicalmente diverse. Tutto ciò costituisce una offesa alla famiglia e contribuisce a destabilizzarla, violandone la specificità ed il ruolo sociale unico. Altre forme di aggressione alla vita sono talvolta commesse sotto l’apparenza della ricerca scientifica. Si fa largo la convinzione che la ricerca non abbia altre leggi all’infuori di quelle che vuole darsi e che non abbia alcun limite alle proprie possibilità. E’ il caso, per esempio, dei tentativi di legittimare la clonazione umana per ipotetici fini terapeutici. (…) Non dimentichiamo l’Africa e le sue numerose situazioni di guerra e di tensione: il dramma nel Darfur, l’aggravarsi della situazione nel Corno d’Africa Considerando la situazione politica nei diversi continenti, troviamo ancora motivi di preoccupazione e di speranza. Constatiamo in primo luogo che la pace è spesso fragile e anche derisa. Non possiamo dimenticare il Continente Africano: il dramma del Darfour prosegue e si estende alle regioni di confine del Tchad e della Repubblica Centroafricana. La comunità internazionale sembra impotente da ormai quattro anni, malgrado le iniziative destinate ad alleviare le popolazioni provate e a dare una soluzione politica. E’ solamente attraverso una collaborazione attiva tra le Nazioni Unite, l’Unione Africana, i Governi interessati e altri protagonisti che questi mezzi potranno divenire efficaci. Invito tutti ad agire con determinazione: non possiamo accettare che tanti innocenti continuino a soffrire e a morire. La situazione nel Corno d’Africa si è recentemente aggravata con la ripresa delle ostilità e l’internazionalizzazione del conflitto. Nel rivolgere un appello a tutte le parti in causa ad abbandonare le armi e a scegliere il negoziato, mi sia permesso di ricordare la memoria di suor Leonella Sgorbati che ha donato la sua vita al servizio dei più svantaggiati, invocando il perdono per i suoi uccisori. Che il suo esempio e la sua testimonianza possano ispirare tutti coloro che cercano realmente il bene della Somalia! Alcuni segnali positivi In Uganda, occorre auspicare il progresso dei negoziati tra le parti, in vista della fine di un conflitto crudele che vede persino l’arruolamento di numerosi bambini costretti a farsi soldati. Ciò permetterà ai numerosi profughi di ritornare nelle loro case e di ritrovare una vita degna. Il contributo dei capi religiosi e la recente designazione di un Rappresentante del Segretario Generale delle Nazioni Unite sono di buon auspicio. Lo ripeto: non dimentichiamo l’Africa e le sue numerose situazioni di guerra e di tensione. Occorre ricordare che solo i negoziati tra i diversi protagonisti possono aprire la strada ad una giusta composizione dei conflitti e fare intravedere dei progressi verso il consolidamento della pace. La regione dei Grandi Laghi è stata insanguinata da anni da guerre senza pietà. E’ con interesse e speranza che occorre accogliere i recenti sviluppi positivi, in particolare la conclusione della fase di transizione politica nel Burundi e più recentemente nella Repubblica Democratica del Congo. E’ tuttavia urgente che i Paesi si impegnino per il ritorno al funzionamento delle istituzioni dello stato di diritto, per porre un freno a tutti gli arbitrii e per permettere lo sviluppo sociale. Mi auguro che in Rwanda il lungo processo di riconciliazione nazionale dopo il genocidio trovi il suo sbocco nella giustizia, ma anche nella verità e nel perdono. La Conferenza Internazionale sulla Regione dei Grandi Laghi, con la partecipazione di una delegazione della Santa Sede e dei rappresentanti di numerose conferenze episcopali nazionali e regionali dell’Africa centrale e orientale, lascia intravedere nuove speranze. Infine, vorrei menzionare la Costa d’Avorio, esortando le parti in causa a creare un clima di fiducia reciproca che possa condurre al disarmo e alla pacificazione, come pure l’Africa Australe: in questi paesi milioni di persone sono ridotte ad una situazione di grande vulnerabilità, che esige l’attenzione e l’appoggio della comunità internazionale. Segnali positivi per l’Africa vengono anche dalla volontà espressa dalla comunità internazionale di mantenere questo continente al centro della sua attenzione, e anche dal rafforzamento delle istituzioni continentali e regionali, che testimoniano l’intenzione dei paesi coinvolti di diventare sempre più responsabili del loro proprio destino. Occorre anche lodare l’atteggiamento degno 35 delle persone che, ogni giorno, s’impegnano con determinazione a promuovere progetti che contribuiscano allo sviluppo e all’organizzazione della vita economica e sociale. DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO 7 gennaio 2008 Ancora segnali preoccupanti dall’Africa (…) Rivolgendomi ora all'Africa, vorrei in primo luogo manifestare nuovamente la mia profonda sofferenza nel constatare come la speranza appaia quasi vinta dal sinistro corteo di fame e di morte che continua nel Darfur. Auspico di vero cuore che l'operazione congiunta delle Nazioni Unite e dell'Unione Africana, la cui missione è appena iniziata, porti aiuto e conforto alle popolazioni provate. Il processo di pace nella Repubblica Democratica del Congo si scontra con forti resistenze presso i Grandi Laghi, soprattutto nelle regioni orientali, e la Somalia, in particolare a Mogadiscio, continua ad essere afflitta da violenze e dalla povertà. Faccio appello alle parti in conflitto perché cessino le operazioni militari, che sia facilitato il passaggio degli aiuti umanitari e che i civili siano rispettati. Il Kenya in questi ultimi giorni ha conosciuto una brusca esplosione di violenza. Associandomi all'appello lanciato dai Vescovi il 2 gennaio, invito tutti gli abitanti, e in particolare i responsabili politici, a ricercare mediante il dialogo una soluzione pacifica, fondata sulla giustizia e sulla fraternità. La Chiesa cattolica non è indifferente ai gemiti di dolore che si innalzano da queste regioni. Ella fa proprie le richieste di aiuto dei rifugiati e degli sfollati, e si impegna per favorire la riconciliazione, la giustizia e la pace. Quest'anno l'Etiopia festeggia l'entrata nel terzo millennio cristiano e sono sicuro che le celebrazioni organizzate per questo evento contribuiranno anche a ricordare l'opera immensa, sociale ed apostolica, adempiuta dai cristiani in Africa. DAL DISCORSO DI BENEDETTO XVI AI MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO 8 gennaio 2009 I responsabili politici prendano le misure necessarie per risolvere i conflitti in corso in Africa (…) Fra qualche mese avrò la gioia di incontrare molti fratelli e sorelle nella fede e in umanità che vivono in Africa. Nell’attesa di questa visita che io ho tanto desiderato, prego il Signore che i loro cuori siano disponibili ad accogliere il Vangelo e a viverlo con coerenza, costruendo la pace lottando contro la povertà morale e materiale. Una attenzione particolare dev’essere riservata all’infanzia: venti anni dopo l’adozione della Convenzione sui diritti dei bambini, essi rimangono ancora assai vulnerabili. Molti bambini vivono il dramma dei rifugiati e dei trasferiti in Somalia, nel Darfour e nella Repubblica democratica del Congo. Si tratta di flussi migratori che riguardano milioni di persone che hanno bisogno di un aiuto umanitario e che sono soprattutto private dei loro diritti elementari e feriti nella loro dignità. Chiedo a coloro che hanno responsabilità politiche, a livello nazionale e internazionale, di prendere tutte le misure necessarie per risolvere i conflitti in corso e porre fine alle ingiustizie che li hanno provocati. Spero che in Somalia la restaurazione dello Stato possa infine progredire affinché cessino le interminabili sofferenze degli abitanti di tale Paese. Anche nello Zimbabwe la situazione rimane critica e sono necessari considerevoli aiuti umanitari. Gli Accordi di pace in Burundi hanno gettato un barlume di speranza nella regione. Formulo l’augurio che essi vengano pienamente applicati e diventino sorgente di ispirazione per gli altri Paesi che non hanno ancora trovato la via della riconciliazione. Come voi sapete, la Santa Sede segue con una attenzione speciale il continente africano ed è lieta di avere stabilito l’anno scorso le relazioni diplomatiche con il Botswana. (…) *** DAL DOCUMENTO DEL PONTIFICIO CONSIGLIO DELLA GIUSTIZIA E DELLA PACE PUBBLICATO ALLA VIGILIA DELLA CONFERENZA DI DOHA SUL FINANZIAMENTO ALLO SVILUPPO (18 dicembre 2008). 36 Africa e finanziamento dello sviluppo Un'attenzione particolare al Continente africano, in cui la mappa dello sviluppo registra forti disparità, è doverosa. In Africa la situazione è diversa da Paese a Paese; anzi, si nota una tendenza alla polarizzazione fra le situazioni di successo nel reperire risorse e metterle a frutto, e situazioni di totale marginalità. Per esempio, solo pochi Paesi africani attraggono investimenti esteri diretti non esclusivamente interessati allo sfruttamento delle risorse minerarie o energetiche. Molto dipende dalla situazione interna a ciascun Paese; nei termini del «Monterrey Consensus»: dalla capacità di mobilitare risorse interne e di lottare contro fughe di capitali, evasione fiscale, corruzione. Inoltre, è evidente che in situazioni di conflitto armato — numerose, purtroppo, in Africa — la dimensione economica dello sviluppo diventa semplicemente non proponibile. Quanto al condono del debito estero, i progressi ci sono stati; tuttavia, le risorse per la cancellazione del debito raramente sono state addizionali rispetto ai flussi di aiuto e questo ha comportato degli effetti di ricomposizione dei bilanci pubblici senza un reale incremento delle risorse disponibili per le azioni di lotta alla povertà. Due punti vanno opportunamente sottolineati. Uno riguarda le scelte di politica internazionale dei Governi africani: va sostenuta la crescente volontà di cooperazione internazionale Sud-Sud, in un continente dove acquisire una certa consuetudine alla cooperazione internazionale potrebbe contribuire a incanalare preventivamente i conflitti in uno spazio negoziale non cruento. La seconda riguarda le scelte di politica interna, in materia di lotta alla povertà e sviluppo: occorre essere convinti sostenitori della soluzione sussidiaria, che valorizzi e rafforzi le forme di risposta ai bisogni che nascono «dal di dentro» della società africana, la quale possiede un grande patrimonio di cultura solidale che sa esprimersi con una straordinaria forza di testimonianza. L'esperienza di cooperazione internazionale allo sviluppo è ormai sufficientemente ampia da permettere di concludere che politiche e risorse «calate dall'alto» possono produrre effetti benefici immediati, ma da sole non forniscono risposte adeguate a come uscire, in modo sostenibile, dalla povertà. I principi di sussidiarietà e di solidarietà, tanto cari alla dottrina sociale della Chiesa, possono ispirare un autentico sviluppo nel segno di un umanesimo integrale e solidale. *** 37