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L`esame di Stato per avvocati
Esame di Stato e praticanti avvocati L’esame di Stato Anche quest’anno, come i precedenti, sono stati comunicati i risultati delle prove scritte sostenute dai praticanti avvocati per l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense che hanno visto, nel distretto di corte d’appello di Brescia, 330 candidati ammessi all’esame orale su 825 iscritti. L’esame di Stato ha l’importantissima finalità di garantire alla collettività un livello medio minimo ma sufficiente ed indispensabile di preparazione ed adeguatezza della classe forense, stante l’imprescindibile ruolo dell’avvocato che consiste nell’assicurare la difesa dei diritti del proprio assistito nel rispetto dei diritti altrui, con lealtà ed indipendenza, non condizionandola all’utile economico. L’obiettivo dell’esame è quindi quello di garantire ad ogni cittadino che qualsiasi avvocato, sia questi nominato di fiducia o d’ufficio, abbia un grado di professionalità tale da fornire un’adeguata assistenza legale al proprio cliente. Un esame con tali finalità dovrebbe necessariamente essere sì severo e selettivo ma necessariamente improntato a canoni di equità e meritevolezza ma soprattutto strutturato con parametri di correzione e di valutazione trasparenti ed oggettivi. Ma siamo sicuri che sia così? Siamo davvero sicuri che l’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense, per come è oggi strutturato, abbia davvero questa nobile finalità e non sia già funzionale ad altri e diversi interessi? Attualmente l’art. 17-bis del regio decreto n. 37/1934 prevede l’esecuzione di tre prove scritte: la redazione di due pareri motivati aventi ad oggetto una questione regolata dal codice civile ed una dal codice penale ed, infine, la redazione di un atto giudiziario «che postuli conoscenze di diritto sostanziale e di diritto processuale, su un quesito proposto, in materia scelta dal candidato tra il diritto privato, il diritto penale ed il diritto amministrativo». La commissione centrale istituita ogni anno presso il Ministero della giustizia ha definito per l’anno 2014 i seguenti criteri di valutazione degli elaborati scritti: «a) correttezza della forma grammaticale, sintattica ed ortografica e padronanza del lessico italiano e giuridico; b) chiarezza, pertinenza e completezza espositiva, capacità di sintesi, logicità e rigore metodologico delle argomentazioni ed intuizione giuridica; c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti trattati, nonchè degli orientamenti della giurisprudenza; d) dimostrazione di concreta capacità di risolvere i problemi giuridici anche attraverso riferimenti alla dottrina e l’utilizzo di giurisprudenza; e) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà, anche con specifici riferimenti al diritto costituzionale e comunitario per la soluzione di casi che vengano prospettati in una dimensione europea, ovvero presentino connessioni con altre materie giuridiche; f) coerenza dell’elaborato con la traccia assegnata ed esauriente indagine dell’impianto normativo relativo agli istituti giuridici di riferimento; g) capacità di argomentare adeguatamente le conclusioni tratte, anche se difformi dal prevalente indirizzo giurisprudenziale e/o dottrinario; h) dimostrazione della padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione per ciò che concerne, specificamente, l’atto giudiziario». Dal corposo ed articolato elenco di criteri valutativi si dovrebbe ragionevolmente ritenere che il giudizio apposto su ogni elaborato dalla sottocommissione correttrice sia fornito di motivazione, seppur sintetica – che non si esaurisca in una clausola di stile – se non esaustiva quantomeno intelleggibile, in modo tale che ogni candidato possa comprendere le ragioni per le quali non è stato ammesso a sostenere la successiva prova orale. Dovrebbe quindi essere possibile vedere una correzione vicino ad un errore ortografico, si dovrebbero comprendere le motivazioni di un elaborato ritenuto poco chiaro, non pertinente od incompleto, oppure andrebbe spiegata la ragione per la quale un candidato ha dimostrato scarsa capacità argomentativa o non padronanza delle scelte difensive e delle tecniche di persuasione. E’ evidente, infatti, che solo la conoscenza dei motivi sottesi alla non ammissione, consentirebbe al candidato che intenda presentarsi l’anno successivo di prepararsi adeguatamente – correggendo gli errori commessi l’anno precedente – proprio per raggiungere quel grado di preparazione tecnica che l’esame di stato mira a garantire. Così non è. Il giudizio espresso su ogni elaborato è costituito da un numero. Una votazione numerica compresa tra 0 e 50 ed «alla prova orale sono ammessi i candidati che abbiano conseguito, nelle tre prove scritte, un punteggio complessivo di almeno 90 punti e con un punteggio non inferiore a 30 punti per almeno due prove». Ma come è possibile comprendere da un numero, da una votazione, se l’elaborato scritto sia grammaticalmente, sintatticamente od ortograficamente errato, oppure se sia illogico, privo di sintesi, non pertinente alla traccia assegnata od, ancora, se sia indice di non padronanza delle scelte difensive o delle tecniche di persuasione? Non è dato saperlo. Se, come ebbe modo di scrivere Voltaire, «il grado di civiltà di un paese si misura osservando la condizione delle sue carceri», allora non deve stupire se un paese incivile abbia un esame di abilitazione all’esercizio della professione forense altrettanto incivile. Un sistema autoreferenziale giuridicamente inaccessibile. Non sono costituzionale così peregrine, allora, le numerose eccezioni di legittimità di questo sistema di valutazione degli elaborati scritti sollevate da avvocati e recepite dai tribunali amministrativi regionali investiti dai ricorsi presentati dai svariati candidati non ammessi all’esame orale. L’espressione del giudizio attraverso il solo voto numerico – che di fatto non consente al candidato non ammesso alla prova orale di sapere le ragioni per le quali il suo elaborato è stato giudicato insufficiente – comporta un difetto di trasparenza in contrasto con il principio di imparzialità che postula la conoscibilità e pubblicità delle scelte amministrative anche tecniche (art. 97 Cost.), nonché con il principio di uguaglianza e di pari dignità di tutti i cittadini di fronte all’esercizio del potere amministrativo (art. 3 Cost.), lede il diritto di difesa ed alla tutela dei diritti e degli interessi legittimi contro gli atti amministrativi di ogni candidato (artt. 24 e 113 Cost.) ed, infine, contrasta con l’interesse legittimo – avente natura sostanziale e non solo processuale – degli stessi candidati all’accesso al lavoro (artt. 4 e 41 Cost.). Nonostante l’art. 3 della legge n. 241/1990 preveda che «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti (…) lo svolgimento dei pubblici concorsi deve essere motivato» – la cui finalità è quella di rendere trasparente e controllabile l’esercizio del potere discrezionale della pubblica amministrazione – Consiglio di Stato prima e Corte costituzionale poi, hanno sempre tenuto una linea di assoluta intransigenza. La quarta sezione del Consiglio di Stato nella sentenza n. 2557/2010 ha infatti ritenuto che «i provvedimenti della commissione esaminatrice (…) vanno di per sé considerati adeguatamente motivati, quando si fondano su voti numerici, attribuiti in base ai criteri da essa predeterminati, senza necessità di ulteriori spiegazioni e chiarimenti, valendo comunque il voto a garantire la trasparenza della valutazione; né può sostenersi che la circostanza che sugli elaborati di un concorso pubblico non sia stato apposto alcun segno grafico di correzione sia elemento significativo da cui desumere la carenza di motivazione, sia perché essa non può significare che la prova non sia stata oggetto di correzione, sia perché la necessaria correlazione con i predeterminati criteri di valutazione è comunque garantita dalla graduazione ed omogeneità delle valutazioni effettuate mediante l'espressione della cifra del voto, con il solo limite della contraddizione tra specifici ed obiettivi elementi di fatto, criteri di massima prestabiliti e conseguente attribuzione del voto». Dal canto suo la Corte costituzionale nella sentenza n. 175/2011 ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 17-bis, 23 e 24 del regio decreto n. 37/1934 sollevate dal tribunale amministrativo della Lombardia sostenendo che il «punteggio, già nella varietà della graduazione attraverso la quale si manifesta, esterna una valutazione che, sia pure in modo sintetico, si traduce in un giudizio di sufficienza o di insufficienza, a sua volta variamente graduato a seconda del parametro numerico attribuito al candidato». «Il punteggio espresso deve trovare specifici parametri di riferimento nei criteri di valutazione contemplati dall’art. 22 del regio decreto-legge n. 1578/1933» – ed integrati ogni anno dalla commissione centrale – «ed è soggetto a controllo da parte del giudice amministrativo che, pur non potendo sostituire il proprio giudizio a quello della commissione esaminatrice, può tuttavia sindacarlo, nei casi in cui sussistano elementi in grado di porre in evidenza vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione ictu oculi rilevabili, previo accesso agli atti del procedimento». Come è possibile rilevare «vizi logici, errori di fatto o profili di contraddizione» da un numero? Come è possibile comprendere da un numero se l’elaborato scritto non sia sufficiente a rispondere ai parametri previsti dall’art. 22 del regio decreto-legge n. 1578/1933, integrati ogni anno dalla commissione centrale istituita presso il Ministero della giustizia? E’ questo il vero interrogativo al quale Consiglio di Stato e Corte costituzionale dovrebbero rispondere, magari con ampia ed articolata motivazione, della quale tuttavia nelle due sentenze citate non v’è traccia. La reale ragione per la quale è sufficiente il solo giudizio numerico è una e molto semplice: se ogni elaborato avesse un giudizio costituito da una motivazione apprezzabile e non già da una manifestamente apparente, la medesima motivazione, qualora viziata, errata o contraddittoria se rapportata al giudizio dell’elaborato scritto, sarebbe oggetto di massiccio ricorso al tribunale amministrativo regionale. Una volta compreso che nessun candidato non ammesso all’esame orale abbia la possibilità di correggere le proprie mancanze in vista dell’esame dell’anno successivo e che tale sistema è protetto dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, è agevole intuire che il vero obiettivo dell’esame di stato non sia quello di garantire un livello di preparazione e professionalità minimo della classe forense. Inizia quindi a prendere corpo la risposta al quesito iniziale e cioè quale sia la finalità dell’esame di abilitazione all’esercizio della professione forense. La vera finalità dell’esame. Nonostante non sia esplicitato in nessun documento ufficiale o reso noto da nessuna commissione od Ordine Forense, la finalità sommersa ma reale ed unica dell’esame di stato è quella di limitare il più possibile l’accesso all’ordine forense di coloro i quali ogni anno intendano esercitare la professione d’avvocato. Il motivo è molto semplice: siamo troppi. Circostanza assolutamente vera ed inconfutabile se si considera che attualmente nella sola Lombardia esistono circa 32.000 avvocati quando in tutta la Francia – che ha 2 milioni di abitanti in meno dell’Italia (65 milioni e 67 milioni) – gli avvocati sono circa 47.000. Quindi orale, non è un caso se ogni anno mediamente accedono all’esame nel distretto di corte d’appello di Brescia, circa 300 candidati (330 nel 2014, 290 nel 2013, 300 nel 2012, 207 nel 2011, 258 nel 2010, 272 nel 2009, 172 nel 2008, 525 nel 2007, 400 nel 2006). Non è un caso se nessun avvocato oggi scrive manualmente un’istanza od un parere scritto – quando richiesto dal cliente – dovendo preoccuparsi di avere una calligrafia chiara e comprensibile al suo lettore; non è un caso se nessun avvocato oggi redige un atto d’appello avvalendosi delle sole massime di giurisprudenza riportate sui codici commentati e non già delle banche dati e delle riviste giuridiche, facoltà che – tra l’altro – a partire dall’anno 2017 non sarà più concessa. Se la finalità è quella – del tutto ragionevole – di ridurre l’accesso alla professione forense allora sarebbe più logico, efficace e soprattutto equo, apporre il filtro a monte e non a valle del percorso formativo dei giovani diplomati che intendano intraprendere questa strada: bisognerebbe introdurre il numero chiuso per limitare l’accesso alla facoltà di giurisprudenza, rendere tale università veramente selettiva e formativa. E’ del tutto inutile e persino dannoso se non addirittura illusorio ridurre il periodo di pratica forense da 2 anni ad 1 anno e 6 mesi come ha recentemente stabilito l’art. 5 della legge n. 247/2012 recante la “nuova disciplina dell’ordinamento della professione forense”, come se l’apprendimento – effettivo – della professione forense potesse essere concentrato solamente in 18 mesi. La vera selezione della classe forense, infatti, è svolta dal tempo: un avvocato solo dopo anni di professione dignitosa e decorosa può realmente comprendere se gode di considerazione e stima nell’ambito della sua professione, dovendo egli meritare la fiducia dei suoi assistiti solamente attraverso la sua capacità professionale, la sua rettitudine e la considerazione che hanno di lui i colleghi e non già per la sua furbizia nel proporsi. Sarebbe dunque più equo e meritocratico – ed allo stesso tempo altrettanto selettivo – introdurre criteri di valutazione realmente oggettivi e comprensibili ai candidati che solo il test con quesiti a risposta multipla è in grado di garantire (come accade per l’esame di abilitazione alla professione di commercialista od all’ingresso dei laureati in medicina nelle varie specializzazioni professionali), magari prevedendo la soglia di promozione ed accesso all’esame orale prossima al anche 90% delle risposte corrette. Vi è tuttavia da segnalare che la nuova legge professionale forense prevede che a partire dall’anno 2015 la commissione esaminatrice debba annotare «le osservazioni positive o negative nei vari punti di ciascun elaborato, le quali costituiscono motivazione del voto che viene espresso con un numero pari alla somma dei voti espressi dai singoli componenti». Non rimane che attendere l’esito delle correzioni dei primi compiti per comprendere se «le osservazioni positive o negative» si esauriranno in semplici clausole di stile del tutto inidonee a costituire una motivazione apprezzabile oppure se consentiranno un effettivo controllo della correlazione tra la votazione numerica ed i parametri di valutazione stabiliti dalla commissione centrale istituita presso il Ministero della giustizia. La confisca di un anno di vita da parte dello Stato. Il praticante avvocato abilitato al patrocinio – cioè autorizzato ad assumere la difesa di persone imputate di reati per i quali è prevista una pena non superiore a 4 anni di reclusione e per il solo processo di primo grado – non ammesso all’esame orale non ha molte alternative: non può colmare le proprie lacune perché non gli è consentito sapere quali esse siano; nell’attesa del bando d’esame dell’anno successivo non gli è consentito ottenere una fonte di reddito alternativa a quella della propria professione – che non è abilitato a svolgere – perché, come qualsiasi altro avvocato, egli è sottoposto alle ipotesi di incompatibilità che la nuova legge professionale forense prevede al proprio art. 18, secondo il quale la professione è «incompatibile: a) con qualsiasi altra attività di lavoro autonomo; b) con l’esercizio di qualsiasi attività di impresa commerciale; c) con qualsiasi attività di lavoro subordinato anche se con orario limitato». Il praticante, quindi, se collabora con un avvocato serio viene retribuito con «un compenso adeguato» come previsto dall’art. 40 del codice deontologico forense, se invece collabora con un avvocato meno serio e meno incline al rispetto delle norme deontologiche, è fortunato quando riceve una formazione proficua ma gratuita, è poco fortunato quando è ridotto a svolgere delle mansioni che non gli competono ovviamente non retribuite. Il praticante abilitato al patrocinio, non può neppure lavorare attivamente ed incrementare il proprio livello di preparazione e professionalità. Oltre allo studio degli atti processuali ed alla ricerca giurisprudenziale – prodromiche all’udienza –, l’attività di vera formazione dell’avvocato (soprattutto di quello penalista) è quella che viene svolta nelle aule di tribunale. Solo partecipando attivamente ai processi, infatti, il praticante può imparare ad interrogare testimoni dell’accusa e della difesa (quali domande porre e come formularle), prendere decisioni improvvise dettate da circostanze verificatesi nel corso dell’udienza e sollevare eccezioni processuali oppure prendere parte alla discussione orale che conclude il processo. Tali attività, dopo 77 anni dal loro ininterrotto svolgimento, dal 2010 sono precluse al praticante abilitato al patrocinio nel caso in cui il suo mandato defensionale non derivi direttamente dal cliente ma sia comunicato dall’ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale che vi deve necessariamente provvedere prima del compimento di determinate attività d’indagine o processuali. La Corte costituzionale nella sentenza n. 106/2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 del regio decreto-legge n. 1578/1933 nella parte in cui prevede che i praticanti avvocati abilitati al patrocinio possano essere nominati difensori d’ufficio. La Corte praticante costituzionale dopo avere premesso che «la differenza tra il e l’avvocato iscritto all’albo si apprezza non solo sotto il profilo della capacità professionale (che, nel caso del praticante, è in corso di maturazione, il che giustifica la provvisorietà dell’abilitazione al patrocinio), ma anche sotto l’aspetto della capacità processuale, intesa come legittimazione ad esercitare, in tutto od in parte, i diritti e le facoltà proprie della funzione defensionale», indica due sintetiche ragioni. «In primo luogo, il praticante iscritto nel registro, pur essendo abilitato a proporre dichiarazione di impugnazione, non può partecipare all’eventuale giudizio di gravame». Vero. Ma la Corte avrebbe dovuto chiedersi cosa accadeva ed è accaduto durante i 77 anni precedenti. Il praticante avvocato portava a termine il suo mandato con la conclusione del processo di primo grado: in caso di condanna, se riusciva a mettersi in contatto con il cliente gli suggeriva di nominare un avvocato di fiducia affinché redigesse l’atto d’appello e lo difendesse nel secondo grado di giudizio oppure presentava la dichiarazione di impugnazione e la corte d’appello provvedeva a nominare un difensore – avvocato – d’ufficio. La seconda ragione consiste nella circostanza che «il praticante si trova, inoltre, nell’impossibilità di esercitare attività difensiva davanti al tribunale in composizione collegiale, competente in caso di richiesta di riesame nei giudizi cautelari». Sorprende come la Corte costituzionale ignori o abbia voluto ignorare che la stragrande maggioranza dei reati per i quali il praticante avvocato può assumere il patrocinio (previsti dall’art. 550 del codice di procedura penale con l’aggiunta dei reati che furono di competenza del pretore) non comportino la possibilità di applicare misure cautelari. Ma cosa accadeva ed è accaduto durante i 77 anni precedenti? E’ evidente che in precedenza nel caso in cui veniva disposta una misura cautelare era nominato d’ufficio un avvocato, in caso contrario poteva anche essere nominato d’ufficio un praticante abilitato al patrocinio. Tutto ciò dal 2010 non è più possibile. L’unica sua fonte di clientela e di lavoro può scaturire unicamente dalla nomina di fiducia: non è difficile comprendere come un praticante che si sia appena affacciato alla realtà forense – che vanta così tanti avvocati – veda ridotta vicino allo zero la possibilità essere nominato di fiducia da un cliente. E’ allora agevole intuire che al praticante abilitato al patrocinio non ammesso all’esame orale di alternativa ne rimane una sola: lasciare trascorrere l’anno solare nel quale egli non può migliorare la propria preparazione in vista dell’esame, non può aumentare il livello della propria professionalità perché non gli è consentito “lavorare” nelle aule di tribunale; quello stesso anno di vita che lo Stato, attraverso l’esame di abilitazione così strutturato, con finalità non dichiarate, e protetto dalla giurisprudenza amministrativa e costituzionale, ha deciso di confiscare. In realtà è ben triste rilevare in conclusione come sia alquanto attuale il pensiero del filosofo e giurista inglese Jeremy Behntam, il quale nella sua opera principale pubblicata nel 1789 “Introduzione ai principi della morale e della giurisdizione” aveva già constatato un’evoluzione storica della giurisprudenza inversa a quella delle altre scienze: se in queste «si vanno sempre più semplificando le procedure rispetto al passato; nella giurisprudenza le si vanno sempre complicando. E mentre tutte le arti progrediscono moltiplicando i risultati con l’impiego di mezzi più ridotti, la giurisprudenza regredisce moltiplicando i mezzi e riducendo i risultati».