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Introduzione all`Epidemiologia epigenetica

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Introduzione all`Epidemiologia epigenetica
A
Guglielmo Paganetto, Vincenzo Aiello
Introduzione all’Epidemiologia epigenetica
Prefazione di
Aldo De Togni
Copyright © MMXIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, /A–B
 Roma
() 
 ----
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: aprile 
Indice

Prefazione

Introduzione

Capitolo I
Da Darwin alla definizione di epigenetica

Capitolo II
Gli sviluppi molecolari della teoria di Waddington e la scoperta dei
primi fenomeni epigenetici

Capitolo III
La comprensione dei meccanismi cellulari alla base delle evidenze
epigenetiche

Capitolo IV
La riprogrammazione dell’epigenoma e l’imprinting genomico

Capitolo V
Il codice istonico e gli RNA non codificanti

Capitolo VI
L’Epigenoma dinamico e le mutazioni adattative

Capitolo VII
Epigenetica transgenerazionale

Capitolo VIII
Epidemiologia epigenetica transgenerazionale

Indice


Capitolo IX
Le malattie complesse e i fattori epigenetici

Capitolo X
Epidemiologia genetica ed epigenetica

Capitolo XI
Metabolismo e dieta

Capitolo XII
Epialleli metastabili e dieta

Capitolo XIII
Carenze nutrizionali e instabilità epigenetica

Capitolo XIV
Molecole di origine vegetale nella dieta e modulazione epigenetica

Capitolo XV
Metodologie di valutazione sperimentale delle alterazioni molecolari epigenetiche

Capitolo XVI
Epigenetica e ambiente

Capitolo XVII
Circuiti genetici ed epigenetici di controllo e contaminanti ambientali

Capitolo XVIII
Sviluppi futuri di ricerca e conclusioni

Bibliografia
Prefazione
Le recenti acquisizioni della ricerca in ambito biologico e biomedico hanno evidenziato la necessità di integrare la cultura medica
tradizionale con una più profonda conoscenza biologica, chimica e
genetica sia nell’interpretazione dei correlati fisiopatologici della
pratica diagnostica che in ambito più strettamente epidemiologico.
La genetica sta proponendo alla medicina concetti che indicano
nuove strade alla comprensione della malattia, inquadrandosi in
contesti di grande complessità che fanno intravedere stimolanti
opportunità.
La personalizzazione dell’approccio diagnostico e terapeutico,
in particolare, sembra la prospettiva futura più promettente; è,
però, necessario estendere l’interpretazione della malattia oltre il
limiti della tradizionale genetica di popolazione, basata sui polimorfismi e sugli aplotipi, in un contesto più versatile che tenga
conto, oltreché del retaggio remoto dell’evoluzione, anche della
dinamica a breve termine del genoma, sia ontogenetica che transgenerazionale. Questa “nuova” o, meglio sarebbe dire, “emergente”
disciplina esprime, nella sua definizione, la volontà di superare la
genetica classica e, nel contempo, di integrarla e attualizzarla.
L’epigenetica, termine di derivazione greca che significa “che
sta sopra la genetica”, ha ormai configurato un nuovo paradigma
interpretativo in un rivolgimento culturale sostanziale che ha permeato tutti gli ambiti dedicati allo studio della vita. Il genoma non
è più una rigida sequenza di basi, bensì uno dei molteplici moduli
dinamici capace anche di evoluzione a breve termine ed anche nel
corso di una sola vita.
Mentre sono già presenti nella letteratura internazionale in lingua inglese testi specialistici su questa tematica, nel contesto della
produzione italiana si incontrano solo sporadici tentativi, spesso
solo orientati ad una pubblicistica divulgativa. Il presente testo apporta un contributo al superamento di questo limite proponendo,


Prefazione
senza paura, una trattazione che antepone il rigore al rischio di
descrizioni troppo ardue.
Ferrara,  Febbraio 
Aldo De Togni
Direttore U.O. “Igiene Pubblica” di Ferrara
Responsabile del M.O. Dip.le “Epidemiologia, Sceening
Oncologici e Programmi di Promozione della Salute”
Introduzione
La definizione oggi più diffusa del termine Epigenetica è riconducibile
ad Arthur D. Riggs, il biologo molecolare che per primo produsse
l’insulina per via biotecnologica da Escherichia coli, e che dedicò gran
parte della sua attività professionale allo studio della replicazione del
DNA, e dell’interazione tra DNA e proteine. Lavorando nel laboratorio di Bayer nel , Riggs iniziò i suoi studi sulla metilazione
del DNA e contribuì ad una feconda linea di ricerca che permeò in
modo discreto ma progressivo tutti i contesti della biologia molecolare. Riggs definisce l’epigenetica come “lo studio delle variazioni
mitotiche e meiotiche nella funzione genomica che non possono
essere spiegate nei termini di variazioni di sequenza del DNA”. Se
si considera il periodo storico in cui questo autore ha lavorato, ci
si rende conto di quanto questa definizione fosse eretica. Il codice
genetico, infatti, come chiave di comprensione di pressoché tutte le
peculiarità degli organismi viventi tramite l’assortimento di pochi
moduli essenziali costituisce un solido paradigma interpretativo che
ha galvanizzato l’attenzione dei biologici molecolari per molti decenni.
Lo studio della mutazione, intesa come alterazione della sequenza
nell’espressione genomica, lo sviluppo della genetica di popolazione,
e la caratterizzazione dei polimorfismi sono oggi strumenti efficacissimi nell’interpretazione delle evidenze epidemiologiche e nella
formulazione di modelli interpretativi delle più rilevanti patologie
umane. Pur tuttavia, dall’emergenza di nuove evidenze sperimentali,
risulta sempre più imperiosa la necessità di integrare questi strumenti
con moduli dinamici che tengano conto di modifiche a breve termine
del patrimonio genetico e di interazioni complesse, a loro volta legate
a modifiche funzionali delle basi del DNA o delle proteine istoniche.
L’epigenetica è orientata primariamente a questo sforzo. La potenza interpretativa di questa disciplina nel contesto dello studio delle
patologie umane si è, ormai, consolidata a tal punto da configurare
un vasto rivolgimento metodologico che si sta estendendo a tutti gli


Introduzione
ambiti degli studi epidemiologici. La presente trattazione ha come
scopo quello di fornire al lettore gli strumenti essenziali per affrontare
la letteratura scientifica in rapida crescita nel contesto dell’epidemiologia epigenetica, intesa come disciplina orientata ai correlati eziologici
riconducibili ad alterazioni molecolari congruenti con la definizione
di Riggs.
Intendiamo, quindi, accompagnare il lettore partendo dalle tappe più rilevanti dell’evoluzione storica dell’epigenetica, per approdare ad una sintetica trattazione di quanto è, a tutt’oggi, consolidato
nel contesto delle evidenze epidemiologiche. Tutto ciò cercando di
chiarire, ad ogni occasione, i meccanismi molecolari ed i correlati
ambientali (intesi con accezione ampia del termine), ovvero l’alimentazione, l’esposizione a sostanze chimiche antropiche, e gli effetti
transgenerazionali.
Il testo è, quindi, una “introduzione” alla epidemiologia epigenetica, nel senso più stretto del termine. Non riporta, quindi, dati
epidemiologici e statistiche, bensì vuole fornire gli strumenti basilari
per l’interpretazione epigenetica dei correlati causali delle patologie.
Capitolo I
Da Darwin alla definizione di epigenetica
Salvador Luria e Max Delbrück pubblicarono nel  (Luria, Delbrück, ) un articolo fondamentale nella storia delle scienze biologiche che, per molti aspetti, costituisce la pietra tombale della teoria
Lamarckiana sull’eredità dei caratteri acquisiti. Lamarck ammetteva
il trasferimento alla generazione successiva dei caratteri acquisiti dai
genitori. Questo paradigma è, tradizionalmente ed erroneamente,
considerato antitetico rispetto alla teoria Darwiniana dell’evoluzione.
In realtà Darwin, non negava affatto, nella sua opera più famosa, “L’origine delle specie”, l’ereditarietà dei caratteri acquisiti. Fu, invece, la
successiva sintesi, lungo tutto il XX secolo, tra genetica, evoluzione
e paleontologia, che condurra al Neo–Darwinismo, a segnare il progressivo indebolimento del Lamarckismo fino a configurarlo come
una vera e propria eresia (Weismann, ). Per il Neo–Darwinismo
l’evoluzione è guidata dalla pressione selettiva su di un preesistente
assortimento di mutanti casuali. Questo paradigma, consolidatosi sul
lavoro dei grandi padri della genetica formale e sperimentale da Russel Wallace, Fisher, Wright, fino a Morgan, Dobzhansky, Haldane,
Hamilton, Darlington, e Mayr, richiedeva una conclusiva verifica sperimentale in laboratorio. La casualità del processo mutazionale, avrebbe,
così, esorcizzando definitivamente lo spettro di Lamarck. Il merito di
questo sforzo va a Luria e Delbrück, che per gli studi sui virus e sulla
replicazione ricevettero il premio Nobel insieme ad Alfred Hersney
nel . Questi autori, lavorando su colture batteriche differenziate di
Escherichia coli contaminate dal batteriofago T, conteggiarono i cloni
fago–resistenti che comparivano dopo alcuni passaggi in coltura. Se
i fagi fossero stati la causa della mutazione inducente la resistenza si
sarebbe dovuto osservare un numero di colonie sopravviventi non
significativamente diverso tra le varie colture. Alla base della resistenza vi è, infatti, una causa comune, la contaminazione della colonia.


Introduzione all’Epidemiologia epigenetica
In alternativa, l’insorgenza dei mutanti, antecedente alla contaminazione, sarebbe stata casuale, e quindi distribuita in modo eterogeneo
tra le piastre di coltura; in questo caso i fagi avrebbero agito solo da
fattore selettivo (figura .). La seconda ipotesi, anti Lamarckiana, fu
solidamente confermata dall’ampia variabilità numerica nelle colonie
che dimostrava la casualità dei mutanti. L’indipendenza tra mutazione
e selezione era, così, dimostrata; almeno su di una popolazione di
microrganismi che, in virtù della loro rapida crescita, fornivano la
necessaria numerosità statistica. Per la verità, nel , lo scienziato
australiano M. Burnet aveva già fornito un dato sperimentale a favore
della teoria selettiva. Burnet aveva osservato tra le colonie di batteri
mutanti resistenti al batteriofago sia morfologie “rugose” che “liscie”,
quest’ultime tipiche delle colonie selvatiche. Poiché le colonie rugose
si ritrovano anche per caso, seppur raramente, in mezzo a migliaia di
colonie normali non contaminate dal batteriofago, Burnet produsse
colture pure dalle rare colonie rugose e dimostrò che alcune di esse
erano “spontaneamente” resistenti al batteriofago, pur non essendovi
mai state esposte. Il dato era certamente indicativo, ma non venne
considerato probante, forse perché il meccanismo di insorgenza delle
mutazioni rimaneva indeterminato.
Negli organismi superiori e nei mammiferi l’eterogeneità statistica si realizza nelle cellule germinali, mentre la pressione selettiva,
agendo su organismi adulti, condiziona i processi evolutivi su scale
temporali dell’ordine delle migliaia e dei milioni di anni. Ciò induce,
classicamente, ad associare i fenotipi stabili ad organismi con basso
tasso di mutazione in contesti ambientali con debole pressione selettiva. Il modello Neo–Darwiniano, basandosi sulla mutazione casuale
come generatore di assortimento genetico, e sulla pressione selettiva, richiede due condizioni spesso complementari, una elevatissima
numerosità di popolazione (come nelle colture di microrganismi) o
tempi lunghissimi, prossimi a quelli geologici, come nella speciazione degli organismi superiori. Il modello non può, quindi, descrivere
processi evolutivi a breve termine, dell’ordine delle decine o delle
poche centinaia di anni. Ciò non costituisce, tuttavia, un problema, in
quanto un limite temporale di tal genere dovrebbe necessariamente
implicare un meccanismo deterministico di generazione della variabilità, che ricondurrebbe all’idea Lamarckiana di carattere acquisito.
In altre parole, si dovrebbe escludere la casualità nell’insorgenza della
. Da Darwin alla definizione di epigenetica

Figura .. Luria e Delbrück, lavorando su colture batteriche differenziate di Escherichia coli contaminate dal batteriofago T, conteggiarono i cloni fago-resistenti
che comparivano dopo alcuni passaggi in coltura. Se i fagi fossero stati la causa
della mutazione che aveva determinato la resistenza si sarebbe dovuto osservare un
numero di colonie sopravviventi non significativamente diverso tra le varie colture,
essendoci alla base della resistenza una causa comune, la contaminazione della
colonia. In alternativa, l’insorgenza dei mutanti, antecedente alla contaminazione,
sarebbe stata casuale, e quindi distribuita in modo eterogeneo tra le piastre di
coltura, in questo caso i fagi avrebbero agito solo da fattore selettivo. Gli autori
confermarono la seconda ipotesi. La contaminazione con fago T (nella seconda generazione) è rappresentata dall’immagine schematica del fago. La singola
molecola batterica non in crescita a causa della non resistenza è rappresentata dal
contorno del batterio senza colorazione interna. Il numero di colonie in crescita
sono rappresentate nelle piastre di coltura affianco ad ogni schema.
mutazione, ammettendo l’esistenza di un meccanismo molecolare
“guidato” dalle condizioni ambientali, e, dunque, in contrasto con
quanto osservato da Luria e Delbrück.
La qualificazione temporale di insorgenza della mutazione e della
sua fissazione nella popolazione erano, in quegli anni, tra le finalità prioritarie degli studi di genetica e biologia molecolare. In quel
contesto si inquadra l’attività del biologo statunitense Waddington

Introduzione all’Epidemiologia epigenetica
impegnato principalmente nello studio dell’embriogenesi, e famoso
per l’introduzione del concetto di “canalizzazione” e di “paesaggio
epigenetico”. L’esperimento che condusse al concetto di canalizzazione venne condotto su Drosophila melanogaster (Waddington, ).
Esponendo per  ore alla temperatura di °C pupe di Drosophila
tra la diciassettesima e la ventitresima ora dopo la formazione della
pupa, Waddington ottenne in alcuni individui l’anomala interruzione
della venatura posteriore dell’ala, simulando così il fenotipo crossveinless che compare a seguito di mutazione sul cromosoma  (figura ).
Utilizzando questi esemplari per produrre la seconda generazione,
e ripetendo sia il trattamento sia la selezione, dopo  generazioni
ottenne individui con il carattere crossveinless anche senza lo shock
termico. L’incrocio successivo di questi individui diede luogo ad un
ceppo in cui ricorrevano con elevata frequenza crossveinless spontanei.
In apparenza, il trattamento termico aveva indotto la mutazione nei
soggetti crossveinless e tale carattere era stato trasmesso alle generazioni successive con un processo selettivo a breve termine. Non fu, però,
questa l’interpretazione dell’autore.
Figura .. Waddington ottenne in alcuni individui l’anomala interruzione della
venatura posteriore dell’ala sottoponendo le larve a shock termico, simulando così
il fenotipo crossveinless che compare a seguito di mutazione sul cromosoma . A,
B, C, D livelli progressivi di alterazione morfologica (Waddington, C.H. ().
Genetic Assimilation Of An Acquired Character, Evelution : –.)
Waddington ritenne, invece, che i ceppi studiati contenessero già
le varianti genetiche capaci di indurre il carattere crossveinless, ma che
queste rimanessero criptiche in forza di un meccanismo molecolare
capace di neutralizzare l’espressione fenotipica del genetico diverso da
. Da Darwin alla definizione di epigenetica

quello selvatico. Egli definì questo processo “canalizzazione”. Lo shock
termico era in grado di compromettere la canalizzazione consentendo
alle alterazioni nascoste (hidden variation) di emergere ed esprimersi
a livello fenotipico. I trattamenti sulle generazioni successive espongono il fenotipo anomalo alla dinamica del processo selettivo fino a
determinarne la fissazione. Introducendo il concetto di assimilazione
genetica, Waddington riesumava la vecchia teoria Lamarckiana dei
caratteri acquisiti, ma con un meccanismo Darwiniano ortodosso che
agiva su sistemi di sviluppo che hanno in comune la canalizzazione e
l’adattabilità. Da questo salvataggio del paradigma Neo–Darwiniano
emergeva una evidenza sostanziale: un fenotipo selvatico può contenere molteplici mutazioni criptiche che non si esprimono, se non in
condizioni estreme. Questa teoria costituisce la sintesi dello sforzo
interpretativo di alcuni esperimenti pubblicati da Waddington in un
decennio dal  al , che approdarono, oltre al concetto di canalizzazione, anche all’idea di “Paesaggio Epigenetico” (Waddington,
), (Waddington, ). I due concetti sono intimamente associati.
Secondo Waddington, lo sviluppo di un fenotipo non è il semplice
esito degli effetti additivi dell’espressione dei singoli geni, ma deriva dall’integrazione dinamica di determinanti biologici stratificati su
diversi livelli. Una cellula primordiale totipotente, durante il suo differenziamento si muove lungo un percorso “di minima energia” come
una sfera in movimento lungo una superficie costituita da promontori
ed avvallamenti. L’avanzamento lungo tale percorso, disegnato nel
“paesaggio epigenetico” appunto, determina perdita di potenzialità e
progressiva acquisizione di specializzazione, fino al raggiungimento
di una condizione di definita capacità espressiva. Le interazioni genetiche modellano il paesaggio epigenetico lasciando, tuttavia, un ampio
margine di potenzialità associato ai possibili percorsi alternativi. Per
Waddington i geni sono dei paletti sui quali viene teso il continuo
plastico che costituisce il paesaggio epigenetico stesso. Dunque, i geni
condizionano il destino della cellula, pur consentendo ampi margini
di variabilità. L’immagine è mutuata dalla fisica dei campi di potenziale ed è riprodotta così come descritta nell’opera di Waddington
The Strategy of Genes del  (figura .). I percorsi di minima energia
sono dei canali nel paesaggio epigenetico, dove l’espressione genica
viene “canalizzata”, in forza del meccanismo di integrazione di una
complessa rete di interazione.

Introduzione all’Epidemiologia epigenetica
Figura .. Secondo Waddington, lo sviluppo di un fenotipo non è il semplice esito
degli effetti additivi dell’espressione dei singoli geni, ma deriva dall’integrazione
dinamica di determinanti biologici stratificati su diversi livelli che configurano il
paesaggio epigenetico (Waddington, C.H. (). The Strategy of Genes: A Discussion
of Some Aspects of Theoretical Biology. George Allen & Unwin, London, ).
Il modello di Waddington consente la persistenza di variazioni genetiche (ovvero di mutazioni), che pur presenti, non vengono espresse;
ciò in quanto la canalizzazione forza l’espressione genica verso il fenotipo selvatico lasciando dormienti tali variazioni. Le hidden variations
possono emergere all’occorrenza di un processo di decanalizzazione
che le disvela nel fenotipo. Ma perché Waddington usa il termine
epigenetico e non genetico?
Questo termine compare per la prima volta, nell’articolo di Waddington del , nei Proceeding of the Zoological Society of London intitolato “La contrazione della pupa come manifestazione di una crisi
epigenetica in Drosophila”. La definizione “epigenetica”, riferita alla
disciplina finalizzata alla comprensione dei meccanismi che guidano
lo sviluppo embrionale, è proposta, dallo stesso autore, nel numero di
gennaio del  della rivista Endeavour. Nel , sempre Waddington,
nel libro Principles of Embriology, qualifica questo termine come il più
appropriato a denotare lo studio dello sviluppo embrionale. L’interesse primario di questo autore era, infatti, il concatenamento dei
meccanismi che conducono durante la morfogenesi ad uno specifico
fenotipo. Sebbene la definizione di Waddington, in quanto strettamen-
. Da Darwin alla definizione di epigenetica

te confinata all’ambito dell’embriologia, sia, per molti aspetti dissimile
da quella attuale, gli esiti dei suoi studi sperimentali sono singolarmente coerenti con le successive evoluzioni di questa disciplina, fino a
costituirne una sorta di incipit paradigmatico. Il termine “epigenetico”
è in opposizione al termine “genetico”, proprio in quanto riferito all’integrazione di processi di controllo che stanno “sopra” l’espressione
del codice genetico.
In parziale contrapposizione alla definizione di Waddington, è quella di Riggs, che è pienamente coerente con l’attuale accezione del
termine. Riggs definisce “epigenetica” “lo studio delle variazioni mitotiche e meiotiche nella funzione genomica che non possono essere
spiegate nei termini di variazioni di sequenza del DNA” (Riggs, ).
In altre parole, l’epigenetica è focalizzata su modifiche del genoma o
della regolazione genica diverse dalla mutazione.
Negli anni intercorsi tra queste due definizioni sono stati progressivamente svelati molti dei meccanismi molecolari e biochimici che
circostanziano sia le evidenze sperimentali che l’impostazione concettuale di Waddington. È necessario percorrere, almeno per sommi
capi, l’iter di questa evoluzione per comprendere a pieno la portata
del profondo rivolgimento che sta discretamente, ma efficacemente,
permeando molteplici ambiti delle discipline biomediche.
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