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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica La di DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Repubblica l’inchiesta Tutto il mondo nel nostro computer FEDERICO RAMPINI e MAURIZIO RICCI il racconto La magia perduta dei velodromi LEONARDO COEN e MARIO FOSSATI Il tesoro segreto del dittatore Milioni di dollari nascosti all’estero, l’ombra del narcotraffico: dopo essersi salvato da tre processi, Augusto Pinochet FOTO REUTERS rischia di venire condannato per furto ed evasione OMERO CIAI C LUIS SEPÚLVEDA SANTIAGO DEL CILE heil generale fosse avido si sapeva. Il giorno dopo il Golpe, nel ‘73, si regalò uno stipendio dieci volte superiore a quello che percepiva l’anno prima: da 447 mila escudos a cinque milioni e mezzo. L’anno successivo, più modestamente, lo raddoppiò: undici milioni. Che il generale fosse avaro si sospettava. Nel corso dei cinquecentotré giorni che fu costretto a trascorrere a Londra, dal mandato di cattura internazionale del giudice spagnolo Baltazar Garzón, riuscì ad organizzare una colletta per le spese mentre affondava le mani nei fondi riservati dell’esercito cileno che, alla fine, avrebbe pagato sia gli avvocati che l’affitto della villa a Virginia Waters, camerieri compresi. Ma che avesse accumulato una fortuna — fra i 100 e i 150 milioni di dollari — e l’avesse nascosta all’estero è una sceneggiatura piuttosto indigesta perfino per una destra dura e pura come quella cilena. Pinochet che occulta il patrimonio alle tasse e si fa beccare con una truffa al fisco da venti milioni di dollari rischia, dopo essersi salvato grazie agli esami medici da tre processi per la scomparsa di migliaia di oppositori politici, di finire condannato come un evasore fiscale qualsiasi. Come Al Capone. (segue nella pagina successiva) Q uando Pinochet era detenuto a Londra su ordine del giudice spagnolo Baltasar Garzón, e in tutte le capitali finanziarie del mondo arrivava un’ordinanza dello stesso giudice perché congelassero in via cautelare tutti i suoi beni finché non fosse stata appurata la legalità della loro origine, dalla sua casa-prigione londinese il vecchio satrapo iniziò a praticare un’inusitata ginnastica bancaria. Con una lucidità strana per un uomo affetto da «demenza vascolare lieve», trasferì fondi da una banca all’altra, cedette la proprietà di un lussuoso appartamento nella località balneare di Viña del Mar a uno dei suoi nipoti, e realizzò dozzine di operazioni che sicuramente devono aver spaventato i suoi complici statunitensi della Riggs Bank. Dirigenti e consiglieri di amministrazione della Riggs Bank sono stati apertamente complici di Pinochet, e per dimostrarlo è sufficiente citare una delle conclusioni a cui è arrivata la commissione di inchiesta del Senato Usa riguardo agli illeciti commessi dalla succitata banca e ai suoi rapporti con il dittatore cileno. (segue nella pagina successiva) i luoghi Marcheshire, le colline sottovoce EMANUELA AUDISIO cultura La storia dimenticata degli émigrés russi SANDRO VIOLA spettacoli La rivoluzione di Spielberg&Lucas SILVIA BIZIO e ANTONIO MONDA l’incontro Menotti: “Odio il mio Festival” LEONETTA BENTIVOGLIO 22 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 LUGLIO 2005 la copertina Scampato a tre processi per i crimini commessi quando era al potere, il Generale rischia ora di venire condannato per i soldi rubati allo Stato e, come Al Capone, per evasione fiscale. Gli investigatori cercano una fortuna accumulata con ogni mezzo, che ha permesso a lui e a suoi familiari di mettere in piedi un impero economico. Con l’ombra del narcotraffico Transizione cilena Dollari e cocaina, il “cartello” del OMERO CIAI (segue dalla copertina) I l giudice che indaga, Sergio Muñoz, ha già ottenuto la revoca dell’immunità di cui gode come ex presidente e lo incriminerà nei prossimi giorni. Eppure, pensano oggi molti tra i suoi fan delusi, non s’era fatto mancare proprio niente. In diciassette anni di dittatura, ed in altri otto come capo dell’esercito, era riuscito a comprarsi tre case principesche. La villa in montagna, il Melocoton, al Cajon del Maipo, sulle Ande; quella in città, in calle Los Flamencos, a La Dehesa, con tre ettari di giardino, un sistema di sicurezza a prova di attacco aereo e tunnel d’uscita segreto; e quella al mare, los Boldos, cinquanta ettari, a Bucalemu, con una sala per il cinema, la palestra e perfino una cappella. E poi trenta agenti di scorta, auto costose, jeep, fuoristrada, una biblioteca con diecimila volumi, terreni, mobili d’antiquariato. Scorrendo le sue denunce dei redditi si può avere facilmente l’idea di un capofamiglia in pensione più che benestante senza alcun problema finanziario presente né futuro. Neppure figli, cognati e nipoti possono lamentarsi. A parte Augusto jr. sempre alla prese con qualche truffa, il resto del clan è florido. Possiedono un piccolo impero economico, costruito senza scrupoli nei lunghi anni del potere assoluto, con una cinquantina di aziende che vanno dal legname alla chimica, dall’immobiliare alle assicurazioni. Così anche alla Fondazione, il bunker degli irriducibili nella zona nord di Santiago, con la grande sala dov’è esposto il suo ritratto a figura intera, c’è sconcerto. Monica Wehrhanh, l’ex portavoce, ricorda i giorni più duri della mobilitazione a favore di Pinochet quand’era agli arresti domiciliari a Londra, e dice: «Io l’amavo Pinochet ma non so cosa farei se me lo trovassi davanti adesso. Se avessi saputo di questo tesoro allora…». Si sente tradita Monica, presa in giro, mentre ricorda le telefonate disperate, la gente in lacrime e lei che vendeva foto e distintivi per pagare al generale in difficoltà i migliori avvocati d’Inghilterra. L’improvvisa scoperta, a marzo, dei conti segreti grazie alle indagini della Commissione del Senato americano ha provocato un terremoto in Cile. Sotto torchio, per ora, è finita soltanto il sergente Monica Ananias, per trent’anni se- gretaria particolare dell’ex dittatore, messa in carcere dal giudice Muñoz con l’accusa di complicità. Ma rischiano tutti. In particolare rischia Marco Antonio Pinochet, il secondo maschio della coppia, indicato dalla Commissione Usa come colui che ha assunto la gestione della fortuna segreta negli ultimi anni. Per un quarto di secolo Pinochet ha avuto 125 conti correnti nelle banche americane. Trenta soltanto nel Riggs Bank. Gli altri nelle filiali del Citigroup a Washington e a Miami, nel Banco Atlantico e nel Santander Central Hispano. Più numerosi fondi di investimento nel Coutts&Co. Tutti i conti vennero aperti con passaporti falsi utilizzando ben dieci identità diverse: da José Ugarte a Daniel Lopez. Per Joe Allbritton, l’ex proprietario del Riggs, Pinochet era uno dei quattro o cinque clienti più importanti. Lui e sua moglie Barbara venivano invitati con una certa frequenza in Cile per discutere gli investimenti e, come dimostra un singolare carteggio sequestrato dai giudici, si scambiavano auguri e opinioni di carattere generale. Allbritton ammirava Pinochet e lui lo ricambiava donandogli in anteprima i suoi noiosissimi volumi di memorie. Curiosamente Pinochet è rimasto incastrato in un 11 settembre. Non nel suo ma in quello di New York. Senza il Patriot Act e le nuove regole antiterrorismo che impongono alle banche americane di indagare la provenienza dei soldi dei loro clienti, la consuetudine dei corrotti d’America Latina — narcotrafficanti compresi — di nascondere i tesori negli States non sarebbe stata scoperta e del denaro occultato da Pinochet non avremmo saputo nulla. Il “sacco” fa infuriare anche i suoi sostenitori che si sentono traditi: “Io l’ho venerato, ma non so cosa farei se lo incontrassi ora” I conti all’estero Tutti i conti negli Stati Uniti sono stati cancellati tra il 1998 e il 2000 nei nervosissimi giorni di Londra. Ma ormai il giudice Sergio Muñoz non è molto lontano dall’individuare la fine che hanno fatto quei soldi. In questi giorni le rogatorie internazionali stanno dando i loro frutti e nuovi conti di Pinochet spuntano un po’ dappertutto: in Argentina, in Spagna, nelle Isole Vergini britanniche, in Gran Bretagna, alle Bahamas e in Svizzera con una stima approssimativa che supera già i 50 milioni di dollari. Ma il sospetto è che ci sia molto di più tra investimenti nelle società di comodo offshore e lingotti d’oro in qualche caveau di banche svizzere. Il primo ad avere l’intuizione sull’esistenza del “tesoro” fu proprio Garzón, che poco dopo l’arresto a DOMENICA 17 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 23 LA DITTATURA Il 4 settembre 1970 Salvador Allende vince le elezioni con il 36,6 % dei voti battendo una destra divisa tra due candidati (Alessandri 34,9 e Tomic 27,8). Tre anni dopo il capo delle Forze armate, Augusto Pinochet, guida un golpe che costerà la vita a più di 3000 persone. La dittatura dura 17 anni. Il 30 agosto 1988 Pinochet perde il plebiscito (55.2% no; 42% sì) e lascia il potere il 10 marzo 1990 In nome della giustizia sequestrate quel bottino LUIS SEPÚLVEDA (segue dalla copertina) «L FOTO AP SOTTO ACCUSA CONTI SEGRETI FOTO ASSOCIATED PRESS La Corte suprema ha revocato lo scorso 7 giugno l’immunità di cui Pinochet gode come ex presidente nell’inchiesta sui conti correnti trovati nella Banca americana Riggs. Pinochet è accusato di frode, arricchimento illecito ed evasione fiscale OPERAZIONE CONDOR la cosiddetta “destra economica” e del “circolo di ferro” del regime, ex ministri o ex collaboratori della dittatura, come Hernan Büchi Buc o Carlos Caceres. Il giudice ha ottenuto la revoca dell’immunità: tra pochi giorni il tribunale dovrebbe procedere con l’incriminazione CAROVANA DELLA MORTE Anche in questo caso Pinochet venne incriminato e perse l’immunità su decisione della Corte suprema che però poi ha sospeso il processo sulla base dei referti medici secondo i quali l’ex dittatore soffrirebbe di una lieve forma di “demenza” FOTO AP Droga e tortura L’altra ipotesi gira intorno alla cocaina. Nel corso degli anni, numerose testimonianze e alcune morti sospette — come quella del chimico cileno Eugenio Berrios — hanno messo in relazione la polizia segreta della dittatura, la Dina, con il narcotraffico. Una pista approfondita nel libroinchiesta di Rodrigo de Castro e Juan Gasparini, La delgada linea blanca.Il traffico di droga sarebbe stato, insieme al saccheggio dei fondi riservati dello Stato, la forma attraverso la quale venivano finanziati non soltanto i centri di detenzione e tortura degli oppositori politici come la Colonia Dignidad, la fazenda degli ex nazi tedeschi in Patagonia, ma soprattutto i grandi omicidi compiuti su mandato del dittatore cileno. L’assassinio del generale Prats, a Buenos Aires, nel ‘74; o quello dell’ex ministro di Allende, Letelier, a New York nel 1976, realizzato — sarà un caso? — con la complicità dei narcos cubani di Miami; o quelli, tantissimi, di militanti socialisti e comunisti rifugiatisi all’estero. Così, si sospetta, una parte dei dollari nascosti nei conti deriverebbe dal riciclaggio di denaro sporco. Quando nell’ottobre dell’88 perse il referendum che gli avrebbe permesso di restare al potere per altri otto anni, Pinochet ottenne comunque un 42% di “sì”. Era l’altro Cile che lo acclamava come un salvatore, una guida e un padre. Alla vigilia dei novant’anni, li compirà il prossimo 25 novembre, non rischia certo di finire in carcere. Ma l’emergere della sua fortuna di rapinatore lo condannerà a passare alla Storia, anche per i fascisti locali, come un truffatore. Così oggi le buone notizie sono due: il Parlamento ha appena approvato una riforma costituzionale che cancella molti dei lacci dittatoriali che Pinochet aveva imposto lasciando il potere. Ripristina l’autorità del presidente di fronte alle Forze armate perché gli restituisce la possibilità di revocare i comandanti in capo e, nella sostanza, cancella il Consiglio supremo, un organo civico-militare che aveva poteri operativi in caso di emergenza nazionale. L’altra buona notizia riguarda i funerali di Stato cui aveva diritto e pretendeva come ex presidente indagato ma non processato. Sono sospesi. Anzi sono soppressi, per sempre. CASO PRATS La giustizia argentina ha chiesto l’estradizione di Pinochet per processarlo nel caso dell’omicidio dell’ex capo delle Forze armate cilene, Carlos Prats. Prats venne ucciso insieme a sua moglie a Buenos Aires nel 1974 mentre si trovava in esilio dopo il golpe militare che aveva condannato FOTO ANSA Londra, il 16 ottobre del 1998, emise un ordine di embargo internazionale dei beni dell’ex dittatore. Pinochet infatti venne fermato da Scotland Yard nella London Clinic—avevaapprofittatodelviaggioper operarsi un’ernia del disco — ma si trovava in Inghilterra con un passaporto diplomatico su invito della Royal Ordnance, una fabbrica d’armi con sede a Enfield, vicino Londra. Doveva concludere l’acquisto di tre navi da guerra per la Marina cilena. Un affare da 450 milioni di dollari, dal quale avrebbe ricevuto come bonus un assegno di 4 milioni per il disturbo. Era una pratica consueta. Tanto che essere a Londra per Pinochet era com’essere a casa. Per l’amicizia con Margareth Thatcher e le buone relazioni con l’esercito inglese. Tra il ‘90, quando lascia il potere assoluto, e il ‘98, quando viene acciuffato momentaneamente da Garzón, era andato ogni anno almeno una volta in Gran Bretagna. Spesso invitato. Sempre per consulenze e acquisto di armi per le Forze armate. Lui prendeva l’uno per cento del totale e lo girava nei conti all’estero. Perché? Jacqueline, la figlia più piccola e anche la preferita dell’ex dittatore, ha una spiegazione che potrebbe anche non essere troppo lontana dalla verità.«L’hafattopernoi— dice — . Papà sapeva che saremmo stati perseguitati per il nostro cognome e ha messo via i suoi risparmi per i figli e per i nipoti». Altre fonti vicine al clan raccontano che il vecchio generale negli anni ‘90 avrebbe più volte accarezzato l’idea di lasciare il Cile e trasferirsi con tutta la famiglia in un altro continente. Magari proprio in Gran Bretagna. Nel suo paese cominciava ad avere paura,sisentivaassediatoetemevalapossibilità che s’aprissero processi penali contro di lui per le vittime della dittatura. Così accumulava. Ma cosa accumulava? Gli investigatori che si sono concentrati sulla costruzione del tesoro pensano alle privatizzazioni della fine degli anni ‘80. Prima di lasciare il potere, Pinochet realizzò quello che in Cile è passato alla storia come “il grande saccheggio dei beni pubblici”. In meno di cinque anni, tra l’85 e l’89, il regime privatizzò l’elettricità, l’acqua, il gas, le assicurazioni, i telefoni, le banche e numerose altre aziende di Stato. Fu un processo rapido, occulto e senza regola alcuna. Tanto che, per esempio, uno dei maggiori beneficiari dell’epoca risultò essere suo cognato, il marito di Veronica, Julio Ponce Lerou. Gli altri, oltre alla sua primogenita, Lucia, che s’accaparrò un pezzo delle assicurazioni di Stato, furono tutti gli uomini del- FOTO ASSOCIATED PRESS boss Pinochet Era il piano di coordinamento tra le dittature latino americane negli anni Settanta. Istruito da Guzman il processo è stato sospeso dalla Corte Suprema che ha dato ragione alla difesa di Pinochet secondo la quale non sarebbe processabile per ragioni di salute OPERAZIONE COLOMBO E’ l’unico processo ancora aperto insieme a quello sulla frode fiscale. Si tratta del massacro compiuto dalla polizia segreta di 119 oppositori. Contreras, ex capo della polizia e braccio destro di Pinochet, ha testimoniato che fece uccidere gli oppositori su ordine dell’ex dittatore a Riggs Bank — si legge nel documento — ha aperto, con la conoscenza e il supporto della direzione dell’istituto, numerosi conti correnti al signor Pinochet, ha accettato milioni di dollari di suoi depositi senza effettuare alcuna seria indagine sull’origine di quelle ricchezze, ha creato società finanziarie offshore, ha aperto conti correnti a diverse di queste società, per mascherare il fatto che i fondi depositati in quei conti erano proprietà del signor Pinochet, e ha alterato i numeri dei suoi conti personali per mascherarne ulteriormente la proprietà». I ladri sanno che il denaro rubato deve essere trattato con delicatezza. I soldi rubati allo Stato o guadagnati illecitamente con l’estorsione spesso assomigliano a un placido stagno. Niente e nessuno deve smuovere quelle acque più del necessario, ma Pinochet, «questo farabutto di limitato acume», come efficacemente lo definì il generale Carlos Prats (assassinato su ordine di Pinochet in Argentina), è un soggetto che ha creato la sua onnipotenza nella totale impunità. Dalla sua lussuosa prigione londinese movimentò milioni di dollari, e quello fu l’inizio della sua definitiva caduta. Il Cile vive una stranissima transizione alla democrazia, che teoricamente è iniziata nel 1990 e nessuno sa quando né come si concluderà. I dirigenti della Concertazione per la democrazia, coalizione composta da democristiani, radicali e socialisti post-Allende, che governa il Paese da quello stesso anno, ha trattato con la dittatura il ritorno a una normalità democratica vigilata da Pinochet, e molte altre cose che noi cileni ignoriamo. Conosciamo alcune delle imposizioni della dittatura: il modello economico che sono riusciti a imporre con sangue e terrore non doveva essere toccato; la Costituzione fatta dal dittatore per garantire l’egemonia delle Forze armate sulla società civile non doveva essere riformata (e in effetti solo tre giorni fa il Senato ha approvato la sua modifica); la sinistra avrebbe dovuto essere tenuta ai margini della partecipazione politica, e qualsiasi dissidenza dal modello economico liberista avrebbe continuato a essere messa all’indice, perché la nuova democrazia cilena era questo, un prodotto della nuova situazione di mercato. Tutta la vita sociale, culturale e politica, doveva essere funzionale al modello economico. Ma furono negoziate anche impunità, le vittime delle violazioni dei diritti umani diventarono «agenti che non comprendevano il modello cileno», e i militari, i criminali, quelli che schiacciarono la tradizione democratica cilena, Pinochet primo fra tutti, erano decisamente intoccabili. Noi cileni sappiamo che se non fosse stato per gli sforzi del giudice Garzón, delle vittime che non hanno mai smesso di insistere perché fossero puniti i colpevoli delle sparizioni di persone, degli omicidi e delle torture, Pinochet avrebbe continuato a tenere sotto tutela la strana democrazia cilena. Era presente come comandante in capo dell’esercito, come senatore designato a vita, come ex presidente autonominato, e per rendere più forte la sua presenza si autodesignò, nella sua ultima dimostrazione di potere, «Capitano generale benemerito». Una volta, durante i sedici anni di terrore, un giornalista chiese alla madre di Pinochet se si sentiva orgogliosa di lui. La cara madre rispose: «Se avessi saputo che era così intelligente, non gli avrei lasciato fare il militare». A Pinochet è stata fatale l’avarizia e, soprattutto, la sua gigantesca stupidità. Senza dare ascolto ai suoi consiglieri — alcuni sono sotto processo e altri lo hanno rinnegato — l’ex dittatore cercò di mettere al sicuro quei milioni di dollari frutto della rapina, del furto, della truffa. Uno dei suoi stessi consiglieri racconta che, quando si incaricò di aprire il primo conto fraudolento presso la Riggs Bank, negli Stati Uniti, all’impiegato di banca che per pura formalità gli chiese il suo nome, rispose: «Il mio nome è López, Daniel López», in una triste parodia della famosa frase di Sean Connery, «My name is Bond, James Bond». L’inchiesta avviata dal Senato americano ci ha condotti a scoprire i suoi conti milionari e fraudolenti, inizialmente 16, poi 25 e successivamente 29. Abbiamo appreso anche della complicità di altre banche: il Banco Atlántico, oggi Banco Sabadell, la Bank of America, la Coutts & Co. International, che oggi fa parte del Banco de Santander, la Ocean Bank, di Miami, la Pine Bank N. A., di Miami, la filiale del Banco Espíritu Santo della Florida, la filiale statunitense del Banco de Chile negli Stati Uniti, la City Group, tutti coinvolti nel traffico di fondi neri tra il Cile, le Bahamas, Gibilterra e gli Stati Uniti. Oggi si parla di 18 milioni di dollari identificati, ma le proprietà di Pinochet ripartite tra i suoi familiari superano i cento milioni di dollari, e il grande interrogativo è: da dove ha preso tutto questo denaro? Qual è l’origine di una fortuna di tali dimensioni? Nel 1994, proprio quando Pinochet lasciava il servizio attivo nell’esercito e si trasformava nell’ombra tutelare della strana democrazia cilena, un dirigente della Riggs Bank si recò in Cile e convinse l’esercito cileno ad aprire dei conti presso questa stessa banca. Molti ufficiali sono stati premiati da questa gestione, e tanti, troppi ufficiali con le mani macchiate di sangue hanno depositato i frutti della rapina, del bottino di guerra ottenuto in sedici anni di terrore. Quanti cileni hanno perso l’automobile perché erano stati messi in carcere? Quanti cileni hanno perso le loro case, o hanno dovuto “venderle” per quattro soldi pur di salvare la vita a un figlio? Quante cilene hanno consegnato i loro gioielli per sapere «dove sta mio marito, mio figlio, mio padre», a ufficiali che raccontavano fandonie e chiedevano sempre di più per conservare la speranza? L’origine della fortuna di Pinochet sta nel furto. Qualsiasi contabile è in grado di dimostrare che tra quello che ha guadagnato e quello che ha comprato, i conti non tornano. Pochissimi cileni credono che Pinochet sarà giudicato per i suoi crimini, e forse neanche per i suoi furti. Quando era detenuto a Londra, e con reali possibilità di venire estradato in Spagna, il governo “democratico” lo considerò un affare di Stato e si diede da fare per evitare l’estradizione. Perfino alcuni scrittori si avventurarono fino a dire che se Pinochet fosse stato estradato in Spagna, la democrazia cilena sarebbe stata in pericolo. L’allora ministro degli Esteri, José Miguel Insulza, ora segretario dell’Osa (Organizzazione degli Stati americani), la prese come sfida personale, e in nome della sovranità cilena fece tutto il possibile per evitare che il tiranno fosse processato. E tuttavia, noi cileni crediamo nella giustizia, e proprio perché crediamo nella giustizia chiediamo un segnale di fiducia, l’unico possibile: il sequestro immediato di tutti i conti e di tutti i beni del clan Pinochet. Se non avverrà subito, allora, nei prossimi giorni, con tristezza, ci toccherà dare ragione ai versi di don Francisco de Quevedo: «Poderoso caballero es don dinero». (Traduzione di Fabio Galimberti) 24 LA DOMENICA DI REPUBBLICA l’inchiesta DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Cambio d’epoca Dopo esserci spaventati per le magliette cinesi e indiane, ci è bastato smontare il pc portatile per capire che quella è solo la retroguardia dell’invasione. L’avanguardia è in mezzo a noi ed è scritta nell’elenco dei paesi che fabbricano i vari pezzi: Corea, Malaysia, Taiwan, Messico, Singapore. Una lista che racconta la nuova globalizzazione Il mondo nel nostro computer MAURIZIO RICCI I mmaginiamolo come uno scrigno che, aperto, ci rivela la verità che avevamo già sotto gli occhi, ma facevamo fatica a vedere. Il suo interno è un portolano del mondo moderno, il mondo della globalizzazione: un pizzico (solo un pizzico) di America, una traccia di Germania, un po’ di Giappone, un po’ di America latina, soprattutto tanta Asia. Questo scrigno è il mio computer: se potesse ridere, mi avrebbe seppellito dalle risate, poche settimane fa, quando mezza Europa si è levata in piedi per fermare l’invasione dei reggiseni cinesi e delle magliette indiane. Il mio computer può raccontare la storia vera. Se avete paura del reggiseno cinese, tenetevi forte. Quella che sta arrivando ora è la parte innocua, la retroguardia. L’avanguardia è già in mezzo a noi: sta dentro il computer su cui sto scrivendo. Il mio computer è un Dell. Come quello di Thomas Friedman, il columnist del New York Times che, nel suo ultimo libro, uscito da qualche settimana negli Stati Uniti (The World is Flat) lo smonta e cataloga tutte le parti. Tutto insieme, il computer arriva da Penang, in Malaysia, dove l’hanno assemblato, ma questa è solo la fine della storia. Prima, è la torre di Babele. Il design è stato realizzato un po’ in Texas, un po’ a Taiwan. Il microprocessore è Intel, brevetto americano, ma è stato fabbricato in Costarica. Oppure (la Dell ha più di un fornitore) nelle Filippine o in Malaysia. La memoria viene dalla Corea o dalla Germania. La carta grafica dalla Cina. Il ventilatore è stato costruito a Taiwan. Idem la scheda madre. La tastiera in Cina. Lo schermo in Corea. La carta wireless in Malaysia. Il modem viene dalla Cina o da Taiwan. La batteria l’hanno fatta in Messico. L’hard disk a Singapore. Il lettore cd/dvd in Indonesia. Il trasformatore in Thailandia. La pennetta, come in Italia chiamiamo il memory stick rimuovibile, viene da Israele. Il filo elettrico l’hanno fabbricato in India. La borsa per trasportare il tutto arriva dalla Cina. La sinfonia della produzione Di fronte ad un prodotto che arriva sul suo e sul mio tavolo dall’altro capo del mondo, grazie a componenti che, a loro volta, vengono da tutti i punti cardinali, a migliaia di chilometri di distanza, Friedman paragona questa catena di assemblaggio ad una sinfonia, in cui ognuno suona, con precisione da metronomo, lo spartito che gli è stato chiesto. Volendo, è l’immagine di una Onu in versione industriale, in cui tutto il mondo armoniosamente coopera per far arrivare il computer sulla scrivania del consumatore, nel minor tempo e al minor prezzo possibile. È una cartolina vera e falsa al tempo stesso. Perché non dà conto di una realtà in drammatico e vertiginoso movimento. Ancora nel 1999, quando lo stesso Friedman con un altro libro (Le radici della globalizzazione) illustrava ai non addetti ai lavori il fenomeno nascente della globalizzazione, l’integrazione planetaria delle economie sembrava un processo a senso unico, colorato a stelle e strisce, con il mondo che guardava tutto insieme Baywatch, mangiava gli hamburger McDonald’s, digitava i programmi di Silicon Valley. Oggi, nel breve respiro di poco più di cinque anni, gli esperti — a cominciare dalla Cia — già intravedono un mondo che, tutto insieme, guarda i film di Bollywood o i cartoni manga e digita i programmi di Bangalore. In mezzo, lo sconvolgimento è già avvenuto: l’idea di una divisione internazionale del lavoro con la mente in Occidente, che crea e disegna nuovi prodotti, e un braccio in Oriente che salda i circuiti integrati e imballa i risultati per la spedizione, è stata spazzata via. Lo scrigno già ce lo può dire. Se scaviamo e arriviamo fino al suo cervello, il software, troviamo i programmi Microsoft. Presto — l’accordo è di qualche mese fa — la loro architettura sarà disegnata non a Seattle, ma in India, dalla Infosys e dalla Satyam. Anche ora, il catalogo di Friedman ci rivela quanto gli ex operai della globalizzazione stiano risalendo la scala del valore aggiunto, fornendo, chiavi in mano, componenti sofisticati come hard disk, carta wireless, scheda madre. Del resto, se il computer fosse sempre un Dell, ma un altro modello, non ci sarebbe neanche bisogno di aprirlo, quello scrigno. Basterebbe guardare sotto l’etichetta. Scopriremmo che l’intero prodotto è stato disegnato, sviluppato, assemblato, lucidato e imballato dalla Qanta Computer di Taipei, che ha solo avuto lo scrupolo di appiccicare l’etichetta Dell. Con qualche lieve modifica, ne avrebbe appiccicata un’altra. La Qanta, nel 2004, ha prodotto 16 milioni di computer portatili, in 50 diversi modelli, con i marchi Dell, Apple Computer, Sony. Le aziende, soprattutto quelle che più tengono alla loro immagine high-tech, come Nokia o Nikon, si rivelano piuttosto schive, quando si tratta di smontare i loro prodotti. Ma l’onda investe tutto l’universo dell’elettronica: computer, telefonini, tv ad alta definizione, lettori Mp3, macchine fotografiche, palmari. Qanta non è l’unico nome da ricordare. Memorizzate anche questi: Htc (telefonini multimediali, Taiwan), Flextronics (cellulari, Singapore), Compal (computer, Taiwan), Premier Imaging (fotocamere digitali, Taiwan). Ci sono loro dietro una serie infinita di prodotti targati, fra gli altri, Dell, Apple, Sony, Motorola, Philips, Hp, Xerox, Ericsson, Alcatel, Siemens, Casio, Vodafone. Secondo gli esperti del settore, il 65 per cento dei computer in commercio, il 20 per cento dei telefonini (multimediali compresi), il 30 per cento delle macchine fotografiche, il 65 per cento dei lettori Mp3, il 70 per cento dei palmari sono fatti integralmente, dal design alla confezione, a Taiwan e nel resto dell’Asia orientale. Non è un lavoro su commessa, è un prodotto su commessa. «Quello che è cambiato — ha dichiarato candidamente a Business week il presidente di Qanta, Barry Lam — è che sempre più clienti hanno bisogno di noi per disegnare l’intero prodotto. Anzi è sempre più difficile avere buone idee dai clienti. Dobbiamo pensarci noi ad innovare». Lam, riconoscono i suoi stessi colleghi di altre aziende, non va preso alla lettera. Dietro questo epocale trasferimento di capacità produttive c’è il fat- Per Thomas Friedman questa varietà è come una sorta di Onu in versione industriale, un esempio di come tutti i paesi lavorino in armonia come una grande orchestra. È un’analisi vera e falsa. La realtà è che i rapporti di forza tecnologici stanno mutando rapidamente to che l’innovazione cruciale, in elettronica, si va sempre più concentrando nel suo elemento base, il chip, su cui regnano incontrastati i giganti americani come Intel e Texas Instruments. Ma, dal punto di vista economico, lo smottamento resta enorme: lo spazio della mente occidentale si restringe sempre più, a favore di un braccio sempre più autonomo e intelligente. È come se la bomba atomica fosse stata ideata da Oppenheimer, Fermi e Bohr in un ufficietto di Los Alamos, mentre gli altri 2 mila scienziati che l’hanno realizzata erano sparsi fra Bangalore e Taipei. Senza i primi tre, magari, la bomba non si faceva, ma, in termini di numeri, i posti di lavoro ad altissima qualificazione stavano al di là del Pacifico. Chi pensa che i giovani occidentali possano guardare serenamente ad un futuro in cui si troveranno, senza scosse, a patto che studino, in un lavoro di alta qualificazione e alta realizzazione a loro riservato, può ricredersi anche subito: ci sono più ingegneri informatici a Bangalore (150 mila) che nella Silicon Valley (130 mila). Del resto, anche la rendita culturale al top della ricerca non è garantita: la svolta nella clonazione terapeutica c’è stata in L’HARD DISK I dispositivi magnetici di memorizzazione dei dati vengono progettati e realizzati a Singapore IL MICROPROCESSORE La Cpu del computer è progettata negli Stati Uniti dalla Intel, ma è prodotta in Costa Rica L’ASSEMBLAGGIO I pezzi, prodotti in tutto il mondo, vengono infine assemblati nel computer dai tecnici della Malaysia Le immagini in questa pagina (usate a scopo puramente illustrativo), sono tratte dal volume “Ibm design from Japan”, edito da Amus Arts Press Corea. In testa alla corsa al biochip, in questo momento, c’è CapitalBio, sede appena fuori Pechino. Anche un altro elemento che ridimensiona le parole di Lam non è garantito: la massa dei computer, delle macchine fotografiche, dei palmari che arrivano da Taiwan e da Singapore sono, appunto, prodotti di massa, la fascia bassa dei gadget dell’elettronica. La Apple si tiene ben stretto design e controllo del suo iPod, come la Motorola del suo ultimo cellulare, il Razr. Ma è navigare sulle sabbie mobili: lo ha scoperto la stessa Motorola che, dopo aver fatto per anni disegnare e produrre i suoi cellulari dalla BenQ, adesso si ritrova l’azienda di Taiwan come marchio in proprio, rivale sul mercato americano. L’annuncio, insomma, pochi mesi fa, che la sconosciuta cinese Lenovo si comprava quell’icona storica dell’informatica, che sono i computer Ibm non era un primo campanello d’allarme, ma la sirena del “liberi tutti”. Lo scrigno del computer Dell già ci diceva anche questo, con il ritornare insistito, sulle etichette geografiche, di alcuni nomi di aziende: Samsung, Lg, Quanta, Compal. È l’emergere di nuovi protagonisti, di nuove bandiere della globalizzazione: i giganti di domani. “Infotech 100” è una classifica, stilata ancora da Business weekdelle più importanti aziende del settore (telecom comprese): nelle prime 20, solo 4 sono americane e 4 europee. Tre sono indiane, due coreane e due di Taiwan. E sempre meno questi giganti in fasce sono DOMENICA 17 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 25 IL MELTING POT DELL’INFORMATICA Cina, India, Indonesia, Malaysia, Filippine, Taiwan, Singapore. Ma anche Messico, Costa Rica e, più vicino, Russia, Romania e Ungheria. La Silicon Valley è passata alla storia come la regione dove è nata l’industria informatica. Ma oggi più del 70 per cento dei componenti per computer viene realizzato nei paesi del Sud del mondo a costi più bassi. E dalla manifattura il fenomeno si è esteso allo sviluppo dei software LO SCHERMO Il monitor a cristalli liquidi ad alta risoluzione proviene dalle fabbriche della Corea del Sud Le tre svolte che abbiamo mancato FEDERICO RAMPINI ristretti nei loro confini nazionali. Se scorrete l’elenco, preparato dall’Onu, delle 50 maggiori multinazionali — di qualsiasi settore — di quello che, una volta, era il Terzo mondo, solo tre o quattro sono abbastanza grosse da rientrare (in fondo, peraltro), nella classifica generale delle top 100 mondiali. Ma quelle aziende (cinesi, indiane, coreane, brasiliane, sudafricane, cilene, di Singapore o della Malaysia) sono, oggi, i protagonisti più attivi, i vascelli più veloci e audaci di questa globalizzazione-arcobaleno: quasi mille miliardi di dollari investiti all’estero nel 2003, un settimo di quanto hanno investito le multinazionali dei paesi sviluppati. Ma, nel 1990, era un sedicesimo. Nel farsi largo a spallate, questi nuovi attori mimano perfettamente i loro predecessori occidentali. Per tornare a reggiseni e magliette, non pensata a roba sfornata in qualche sottoscala cinese. L’etichetta “made in China” è soprattutto una disposizione di spirito. Il maggior produttore mondiale di jeans (Nien Hsing) è di Taiwan, quello di reggiseni (Top Form) di Hong Kong, ma le fabbriche stanno in Vietnam, Sri Lanka, Lesotho e Nicaragua. Il boom dell’Asia Lo scrigno ci ha detto che la globalizzazione è sempre più estesa, che i rapporti di forza tecnologici si stanno spostando, che emergono nuovi paesi e nuovi attori. Ma è presto per dire che la globalizzazione cambia segno. A questo, dice un rapporto Cia di qualche mese fa, penseranno i mercati. La globalizzazione cambia volto, diventa più asiatica, perché non cambia il suo motore, o la sua anima: il mercato. Nel 2020, Cina, India, Indonesia faranno, insieme, tre miliardi di persone, quasi metà della popolazione mondiale e una quota assai superiore di quella con qualche soldo in tasca. Contemporaneamente, l’economia cinese diventerà, per dimensioni, la seconda al mondo, quella indiana raggiungerà la stazza dei grandi paesi europei. Il reddito pro capite resterà largamente inferiore a quello occidentale. Ma le dimensioni complessive bastano ad annullare lo svantaggio: già oggi, un reddito medio di 3 mila dollari l’anno è stato sufficiente ad aprire la rivoluzione dell’automobile in Asia. Questa immensa forza di gravità costringerà le grandi corporations a spostare il baricentro della loro attenzione, ad assumere i connotati dei nuovi territori, a modulare i loro prodotti secondo i gusti, le tendenze, le psicologie, le culture dei mercati che crescono più in fretta. E, se non altro per economia di scala, tutto questo tornerà indietro, a cascata, sui mercati più vecchi e più stanchi. Manga invece di Baywatch, spaghetti di riso invece di hamburger. Aspettate e tendete l’orecchio: vi arriverà l’urlo di Calderoli, quando scoprirà che il libretto di istruzioni della sua nuova auto è in cinese. I PECHINO l protezionismo contro il made in China prescinde da una verità elementare, rivelata dall’operazione “smonta il tuo computer e guarda dov’è fatto”: se davvero chiudessimo le nostre frontiere, ci condanneremmo a vivere in una specie di Medioevo pretecnologico. Non possiamo proteggerci dall’invasione asiatica perché essa ci fornisce i prodotti essenziali per il nostro lavoro e la qualità della nostra vita quotidiana. È paradossale che l’allarme sia scattato per la concorrenza cinese nelle scarpe e nei jeans. La ragione è che in quei settori esiste ancora un made in Italy. Ma non si può sostenere che il tessile e la pelletteria siano industrie strategiche per il nostro futuro. Nel frattempo è successo, fra la disattenzione generale, che noi abbiamo smesso da molto tempo di produrre gli oggetti indispensabili del XXI secolo: il computer, il telefonino, il fax, la stampante, il televisore, il lettore Dvd, la macchina fotografica digitale, gli apparecchi hi-fi. Per questi prodotti non ha senso parlare di “concorrenza” asiatica, perché noi abbiamo smesso di concorrere da un bel pezzo, siamo inesistenti. Chiudere le frontiere vorrebbe dire amputare il nostro stile di vita, regredire in una situazione da Corea del Nord. L’alternativa autarchica non esiste, perché l’Italia non è in grado di produrre computer né telefonini. Come siamo arrivati a questo punto? E senza accorgercene? La risposta è che abbiamo frainteso o sottovalutato le tre rivoluzioni economiche degli ultimi venticinque anni. Cominciamo dagli anni Ottanta. In quel decennio, segnato dal neoliberismo reaganiano-thatcheriano, la deregulation investì con forza i mercati finanziari. Anche l’Italia, adeguandosi all’evoluzione europea, liberalizzò i movimenti dei capitali. Uno degli effetti di quelle riforme finanziarie fu di accelerare gli investimenti all’estero. A quell’epoca una visione economica “di sinistra” vedeva il rischio del neocolonialismo, di una conquista del Terzo mondo da parte del capitalismo occidentale. In realtà si stava creando una premessa – la disponibilità di capitali – per l’ascesa dei paesi emergenti attraverso la delocalizzazione di attività produttive. Seconda tappa. Gli anni Novanta sono stati segnati da un formidabile balzo in avanti nella liberalizzazione degli scambi mondiali di merci e servizi. In Europa si è iniziata la costruzione del mercato unico. Nel mondo intero sono state smantellate molte barriere doganali e tariffarie, in una serie di accordi che hanno portato dal Gatt al Wto. Anche qui gli errori di previsione sono stati clamorosi. Questo proFOTO ANSA LA TASTIERA La tastiera e gli altri dispositivi di puntamento del portatile sono di produzione cinese cesso di smantellamento graduale delle barriere fu fortemente voluto dai paesi industrializzati, che decisero le nuove regole del gioco. Fu subìto dai paesi emergenti, che non avevano la forza per opporsi. L’opinione più diffusa era che i ricchi avrebbero dominato l’economia globale, invadendo i mercati emergenti. Nessuno negli anni Novanta immaginava che la Cina e l’India (e tutti i paesi-satelliti) sarebbero diventate le nuove superpotenze economiche mondiali: neanche i cinesi e gli indiani. La terza rivoluzione incompresa è stata la New Economy, cioè quell’ondata di innovazioni tecnologiche legate alla diffusione di Internet, che nacque nella Silicon Valley californiana a metà degli anni Novanta e da lì si diffuse nel resto del mondo. Due furono gli errori di valutazione. Da una parte la New Economy fu vista come un fenomeno essenzialmente limitato alle zone più avanzate dell’America e dell’Europa. Dall’altra, quando nel marzo 2000 crollò il Nasdaq, tutta quella fase fu liquidata come una “bolla speculativa”. In realtà il fenomeno Internet si è diffuso a una velocità impressionante nei paesi emergenti: alla fine di quest’anno il numero di cinesi collegati online sarà superiore a quello degli americani. Uno degli aspetti apparentemente patologici della bolla speculativa fu che i colossi delle telecomunicazioni fecero investimenti eccessivi nelle nuove reti di cavi a fibre ottiche, in previsione di un’esplosione nell’utilizzo della “banda larga” per le connessioni Internet, la trasmissione di dati e immagini. Il loro ottimismo fu prematuro e alcune di quelle aziende sono fallite. Ma nel frattempo il crollo nei costi dei collegamenti ha accorciato le distanze tra l’Asia e il resto del mondo. La diffusione di Internet e dei telefonini ha reso facile, efficiente ed economico delocalizzare ogni sorta di attività industriali e di servizi nei paesi asiatici che hanno infrastrutture moderne, salari bassi, buoni livelli di istruzione e una manodopera altamente produttiva. La New Economy è stata dichiarata defunta mentre in realtà i suoi effetti sulla globalizzazione sono poderosi, avvicinando miliardi di lavoratori asiatici ai consumatori europei e americani. È cambiata la natura delle nostre imprese. Molte aziende sono ormai dei luoghi di produzione virtuali, delle scatole vuote che mantengono solo pochi compiti strategici, delle “cabine di regìa”: progettano e coordinano operazioni dislocate a decine di migliaia di chilometri di distanza. Dobbiamo condannare le tre rivoluzioni economiche e rimpiangere il mondo in cui vivevamo negli anni Settanta? In realtà quello era un periodo di stagnazione e declino. La parola di moda per dipingere il Vecchio continente era “eurosclerosi”. La disoccupazione era più alta di oggi. L’inflazione italiana era al 20% (proprio così, non c’è uno zero di troppo). Avevamo anche la piaga del terrorismo, sia quello di matrice mediorientale che quello fabbricato in casa nostra. Sfogliare le prime pagine dei giornali di allora è la migliore cura contro la nostalgia. 26 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il racconto Miti del ciclismo DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Erano l’università delle due ruote: sulle curve strette dell’anello affinavano lo sprint gli uomini migliori che poi davano spettacolo al Tour o al Giro. Qui andavano in scena sfide entusiasmanti: dalle riunioni di New York a quelle di Milano. Uno sport ora in declino, come dimostra il degrado e la scomparsa degli impianti italiani La magia perduta dei velodromi LEONARDO COEN G DALMINE (Bergamo) li sprint del Tour de France una volta erano chiamati “la fine fleur du sport cycliste”, mentre i grandi velocisti erano soprannominati i “signori dell’anello”, ricorda il padovano Silvio Martinello che oggi ha 42 anni e che ai Giochi di Atlanta del 1996 vinse l’oro olimpico nella corsa a punti (più altri quattro titoli mondiali). Per anni la “parrocchia” del ciclismo, ossia la competenza appassionata delle due ruote, aspettava trepidante l’ultimo sprint del Giro e del Tour, per stabilire chi fosse il più nobile ed audace tra gli aristocratici del muscolo, colui che sapeva scattare il più tardi possibile ma sempre un attimo prima degli avversari (la sacra regola): e costui non poteva non essere che un corridore maturato tra le curve strette e ripide come muri dei velodromi, autentiche palestre di coraggio, furbizia e spietatezza. L’università del ciclismo: in pista ti allenavi ad affrontare non solo i rivali ma la vita stessa. Correva gente spregiudicata che sapeva maliziosamente usare i gomiti come lame di spada e sotto la maglia teneva pronto il coltello, per usare una U IL CAMPIONISSIMO Negli anni ‘40 Fausto Coppi si allena al Vigorelli per battere il record dell’ora e sfuggire così al fronte. Ma il primato, che stabilisce nel 1942, non gli evita di partire in guerra metafora salgariana cara ai “suiveurs”. La filibusta del parquet. I santuari di questi bucanieri della pedivella erano il sontuoso Madison Square Garden di New York, il Crystal Palace di Londra, il milanese Vigorelli, il parigino Vel d’Hiv, il tedesco Karl Marx-Stadt. Una geografia che non c’è più. Negli ultimi anni la grande pista è traslocata in Giappone ed Australia, mentre in Italia si è sperduta o disintegrata, salvo rifugiarsi in qualche piccolo (e generoso) porto degli hinterland più profondi, lontano dalle rotte principali. La stagione all’aperto Per esempio, il velodromo comunale di Dalmine che circonda, con la sua onesta pista di cemento lunga 374 metri, il campo di calcio della cittadina bergamasca famosa per i suoi altiforni. A due passi l’ormai collassata autostrada Milano-Venezia garantisce smog e rumore, anche adesso che sono le nove di sera ed è lunedì 4 luglio. Stanno per concludersi i campionati europei di “derny” e “madison” (l’americana), due specialità della pista. Il cielo sopra Dalmine si è fatto nero come la pece. Fabio Perega, trentanovenne promotore finanziario che ha faticosamente messo in piedi questa riunione — costata 40mila euro: per farla vedere in n vecchio matto sospettava che gli stadi vivessero. Lo stadio deserto non appariva al mio amico come una conchiglia vuota. Gli suggeriva un’immagine surrealistica: gli offriva la sensazione che la pista e il prato osservassero le tribune. A suo avviso, rimanevano, nello stadio, nel velodromo, nell’ippodromo deserti un grado di febbre, di calore, la linea, il tono di un avvenimento vissuto. Ma si può amare uno stadio? Accade. Lo stadio più amato dai milanesi è il velodromo Vigorelli. Tre volte il Vigorelli è rinato dalle macerie e dall’incuria degli uomini. Hanno cercato anche di distruggerlo. Sempre, però, qualcosa ha sconfitto i detrattori e qualcuno ha fatto ricredere i tiepidi. Quando ero ragazzo (non possedevamo molto negli anni ‘30) l’Europa che ci era negata era per me rappresentata dai treni che sfioravano la città dove sono nato e correvano, per Como e per Chiasso verso i laghi, verso i monti della Svizzera. E poi dal Vigorelli, dove approdavano campioni di altri Paesi, un piccolo mondo esotico che potevi quasi toccare con mano. Il ciclismo, come dire, tattile. Il Vigorelli dall’elegante tettoia, fatto di preziose tessere di legno, illuminato a giorno, era un transatlantico attraccato alla banchina del Sempione. In occasione del record di Francesco Moser, ho veduto i “vecchi” della parrocchia, la confraternita degli iniziati, affacciarsi alla sua porta, all’ellisse dal disegno tanto puro. Alcide Cerato, agente per “viaggi definitivi”, si era dato un gran da fare perché il parquet venisse rappezzato, raschiato, verniciato: perché una corsia liscia, al limite della scivolosità, si aprisse, a pelo di corda, davanti alle sue ruote lenticolari. E c’era riuscito. Moser girava, dunque, con la regolarità di un metronomo e io pensavo che sulla grande pista corrono pure i giorni, le notti, il vento e, ahimé, gli anni. Mezzo secolo. Urbanizzazioni, manager, suiveurs, soigneur, patiti, folle avide, entusiaste. Il popolo del Vigorelli, Anteo Carapezzi e Tano Belloni e il suo gran feltro dalla fodera di raso — lui diceva marezzata — omaggio all’America di Wilson e del Charleston. Vittorio Strumolo, che gestì indimenticabili stagioni di ciclismo e di boxe. Bordoni stayer e poi conduttore delle motociclettone degli stayers. Un folklore autentico. Il folklore di oggi è spesso voluto: e, perciò, nauseante, dolciastro. La rinascita del Vigorelli mi è stata raccontata da Anteo Carapezzi, il padre di Adone Carapezzi, il noto telecronista. Carapezzi amava la pista e soprattutto amava che altri l’amassero. Credo che per questo mi avesse preso in simpatia. Carapezzi parlava... parlava. «Ades- qualche tv locale ha dovuto pagare — ha una smorfia di rabbia: «Se piove, sospendono la gara». Puntuale, comincia a piovere. Passa qualche secondo. Poi, due colpi di pistola, uno dietro l’altro, annunciano la sospensione (mezz’ora) della “madison” under 23. Trentasei corridori (diciotto coppie di tredici Paesi) rallentano di colpo, dirigono alla corda, infilano il sottopassaggio. Almeno lì sono al riparo della pioggia. Il velodromo di Dalmine è allo scoperto. Non si può correre in pista se piove: ci si spaccherebbe la testa. Figuriamoci d’inverno. O d’autunno. Così, la stagione della pista all’aperto inizia a fine marzo e si conclude ad ottobre. Che assurdità: l’inverno era il tempo delle Sei Giorni, kermesse di straordinaria intensità e di altrettanta crudeltà agonistica: i corridori si sfidavano a coppie, correndo a turno in continuazione per 144 ore, in verità pedalavano sei giorni e sette notti consecutive, concedendosi piccole rate di sonno e mangiando il minimo indispensabile. La tournée del seigiornista esordiva in America: Tano Belloni, l’eterno secondo delle corse su strada d’anteguerra, a New York si trasformava in eroe e fantasista della pista, piaceva alle “girl” degli show per i suoi riccioli e lo sguardo malandrino, il sorriso semplice. Lui tornava in Italia sfoggiando un enorme cap- pellaccio da cow-boy, omaggio ad un Paese in cui era vincente. I pistard italiani raccoglievano ciò che Rodolfo Valentino aveva seminato. In Italia oggi ci sono 49 velodromi: nessuno è coperto. Milano aveva eretto nel 1976 uno splendido impianto per il ciclismo su pista: il Palasport sembrava un vascello inespugnabile, i corsari di questo sport ne avevano fatto elogi sperticati. Un giorno di gennaio del 1985 nevica con furore sulla città: cede il vecchio tetto del Vigorelli e crolla pure quello più nuovo del Palasport. Fu come se crollasse il mito della Milano efficiente e sempre all’avanguardia: il tetto era stato progettato per reggere 125 chili di neve per metro quadro, il peso che dovette sopportare — anche per la forma concava della copertura — arrivò sino a 300 chili. Un disastro: la parte centrale del tetto si era abbassata di dieci metri. La Federciclismo dovette sopprimere le edizioni 1985 e 1986 della tradizionale Sei Giorni milanese. Dopo, l’oblìo. Ora, al posto del Palasport c’è un parcheggio, serve ai tifosi del Meazza. La Sei Giorni venne resuscitata qualche anno fa, ospitata al Forum di Assago: l’affitto esoso del palazzetto (mezzo miliardo di lire) e le altrettanto pesanti spese per il montaggio della pista (300 milioni) decretarono la fine della reputata Sei Giorni meneghina. Addio “Vigorelli” lo stadio con l’anima so le voglio dire una cosa. Questo capolavoro qui, che è bello come un violino, è nato per caso. Hanno abbattuto il “Sempione” e fu un delitto. Sa perché hanno abbattuto il “Sempione”? Perché succedeva che il Girardengo, preferisse una mia riunione su pista al Giro di Lombardia. A provocare la distruzione del “Sempione” è stato Emilio Colombo, patriarca dello sport milanese, direttore della Gazzetta dello Sport. A Colombo le debolezze verso la “pista” da parte di Gira e degli altri davano maledettamente sui nervi. Un bel mattino, al “Sempione”, su ordine telegrafico giunto da Roma (un esempio di fascismo applicato!) arrivò una squadra di muratori. I muratori saliroMARIO FOSSATI no su una curva e ne tagliarono una fetta. Non solo un’infamia, un’infamia irridente! Impraticabile il velodromo “Sempione”, per anni i pistard italiani erano come morti. Io mi ritrovai disoccupato. Per sbarcare il lunario mi diedero un posto di custode al campo del Milan (il Meazza di oggidì)». E poi: «Nel ‘32 ci fu il Mondiale a Roma. Schurmann, un architetto con licenza tedesca, disegnò la pista. La carpenteria Bonfiglio di Milano la mise in opera. La pista venne alzata nello stadio del partito (l’attuale Flaminio). Finito il Mondiale venne impacchettata e rispedita a Milano. Eravamo nel ‘35, l’anno dopo ci sarebbero state le Olimpiadi di Berlino. Quando si trattò di montare la pista però si accorsero che le tribune le andavano strette». Ancora Carapezzi: «Io dicevo a Bonfiglio: se questi matti svuotano l’incavo dello stadio di tanti cubi di terra, se lei ce la fa a segare le curve al centro, a ridurre e a raccordarle, la pista ci entra e sotto il livello del suolo, semicoperta, diventa la pista più scorrevole del mondo. Così fu. Il Vigorelli, affidato al cavalier Giacomo Grassi, era nato». Adesso, raccontando, mi accorgo che il Vigorelli è stato ed è più grande dei velocisti che vi lavoravano. Nella stessa misura in cui la Scala è più grande della Callas o di Pavarotti. Nel discorso di Anteo Carapezzi la storia del Vigorelli fatalmente sfociava nella terribile notte dell’estate del ‘44, quando una pioggia di bombe incendiarie cadde su Milano. Battista, l’antico custode, ricorda, si sentiva chiamato in causa: «Guardi, un baccano da far saltare le orecchie. Io capisco al volo e li porto via, i miei, dal tunnel in camicia da notte. Mia madre, poveretta, si sveglia e crede di sentire suonare le trombe del Giudizio. Io mi sono voltato un istante: c’erano gocce di fuoco dappertutto. La pista era un anello di fuoco: illuminava l’erba del prato che sembrava rientrare nelle sue radici. Un inferno». L’indomani, il Vigorelli pareva lo scheletro di un enorme mammut. La guerra, la liberazione. Il cavalier Grassi ammattisce per trovare una operatore economico, che costruisca e investa nel Vigorelli. Si rivolge anche a suo figlio, Luigi, che fa il giornalista. «Ma tu — gli domanda — non conosci nessuno che abbia la grana e che lo voglia?». Luigi Grassi risponde: «C’è un mio compagno di scuola, Vittorio Strumolo, che sa di sport e di economia». Un colpo di telefono e appare Strumolo. Un altro colpo di telefono: è Strumolo a chiamare il commendator Zafferri. L’affare è fatto. Tanti sacchi di cemento, tanto legname: non è più abete degli Urali ma abete delle Alpi, le cui essenze sono identiche. Ed ecco il nuovo il Vigorelli. Adesso dovrei fare l’excursus del record dei campionati, dei match ad inseguimento o pugilistici cui ho assistito anche da vicino. Occorrerebbero cento e cento pagine che occuperebbero quei 390 metri di pista alla maniera di un interminabile lenzuolo. Me ne manca l’animo. Molti protagonisti sono affidati alla DOMENICA 17 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 27 LA STORIA LE ORIGINI LA GUERRA LE ESIBIZIONI IL DECLINO IL CROLLO Il Vigorelli nasce nel 1935. Nei dieci anni successivi l’impianto diventa un luogo mitico, vero e proprio tempio del ciclismo internazionale Nell’estate del 1944 la pista viene distrutta dalle bombe incendiare che piovono su Milano. Rimarrà chiusa più di un anno Negli anni ‘60 la struttura del velodromo viene utilizzata anche per ospitare concerti. Qui, nel ‘65, l’unica esibizione in Italia dei Beatles Negli anni ‘70 inizia il lento abbandono del Vigorelli, che verrà chiuso nel 1975. Si dovrà attendere quasi dieci anni per rivedere in funzione la pista Nel 1985, pochi mesi dopo la fine dei lavori di restauro, la tettoia del velodromo crolla sotto il peso della neve. È la fine del Vigorelli La pista giace e marcisce in un magazzino. C’era una volta lo stupendo velodromo Olimpico di Roma, costruito per i Giochi del 1960 in una via proditoriamente battezzata Oceano Pacifico. Oggi di pacifico c’è rimasto ben poco, salvo un cumulo di gloriosi ricordi e di tante roboanti dichiarazioni (politici, amministratori della città e responsabili del Coni promettevano futuri favolosi) rimasti appesi alle rovine di una mirabile struttura che l’incuria degli uomini e l’usura del tempo hanno condannato a morte. E che squallida morte. Smantellata dai razziatori di legno, erbacce ovunque. I pistard romani sono emigrati a Forano. Il velodromo di Civitavecchia, a sentire Martinello che in questi giorni è diventato supervisore delle nazionali di ciclismo su pista, è «allo sbando». La pista deve essere costruita a regola d’arte: sia essa in legno, sia essa di più comune cemento. Bisogna saper rendere perfetta la “raccordatura” delle varie sezioni e la “legatura”. Bisogna soprattutto garantire la costante manutenzione. E qui, il quadro è “drammatico”, ammettono in coro Perego e Martinello. Il giro dei velodromi nostrani è un percorso di guerra: e di rese incondizionate. Pigliamo il “Paolo Borsellino” allo Zen di Palermo, costato 17 miliardi delle vecchie lire. Ricordo che Leoluca Orlando, allora sindaco della città, mi disse più volte che il velodromo avrebbe avuto una funzione positiva e catalizzatrice in un quartiere difficile e problematico come lo Zen, regno della marginalità palermitana e frontiera di scontri di classe. Stavano per andare in scena i campionati mondiali di ciclismo del 1994, il velodromo era stato intitolato al magistrato ucciso dalla mafia non solo per dare un segnale “politico”, ma anche perché Borsellino era un appassionato cicloamatore. Insomma, l’impresa partiva col colpo di pedale giusto e con significati ancor più corretti. Un anno dopo, l’attività del Borsellino già languiva. Mancavano i pistard: marziani in Sicilia, il progetto era rimasto utopia. È finita che al posto di sprint e di inseguimenti si fanno concerti rock, balli latini, partite di calcio americano. Rendono più quattrini. Peggio è andata al bellissimo Velodromo degli Olivi (1975), in quel di Monteroni provincia di Lecce. Altra cattedrale nel deserto, altra manifestazione di colpevole ignavia. Osvaldo Bettoni, che fu campione italiano nel quartetto dell’inseguimento e che se la cavava altrettanto bene nella velocità, è indignato, e addolorato (la pista è come il primo amore: non si dimentica mai), la ricorda «bellissima e perfetta, forse la più bella tra tutte quelle sulle quali ho corso». Era il fiore all’occhiello della fe- leggenda. Io so che ora è il Vigorelli ad esaltare le virtù dei campioni. Le vittorie che si ottenevano a Milano, in via Arona, erano il visto, il timbro, la ceralacca del passaporto di un pistaiolo. Gli aristocratici del “muscolo” abbondavano e bastava che il dottor Strumolo alzasse un dito perché accorressero. Reg Harris, un caposcuola dello sprint, lo stile di un baronetto, il cui viso aveva il taglio diritto cinico delle sue volate. Maspes, che al Vigorelli vinse il primo Campionato del mondo italiano dello sprint professionistico, conquistando l’Italia. Maspes sapeva farsi prendere dai muscoli e dai nervi. A volte era come se non avesse corpo. Volava. Van Vliet con le sue lenti spesse da miope. Scherens, detto “il poeske”, il gatto, che infilzava l’avversario di un quarto di ruota, all’ultimo fazzoletto di pista. Gerardin, il cocco di Parigi, che aveva incontrato Edith Piaf, che lo avevo molto incoraggiato. Il Vigorelli facitore di campioni dello sprint da Bergomi (che la guerra ha bruciato) ad Astolfi fino a Gaiardoni, che passava di potenza irresistibilmente. E ancora il Vigorelli del tedesco Richter che un ordine della Gestapo, eliminò il primo inverno di guerra, nel ‘39, per sospetta esportazione di valuta. Fu un delitto: «Ti hanno condannato per dare un esempio, gli avevano detto i carcerieri. Hai vinto un mondiale per il Terzo Reich e stanotte potrai fuggire». Gli aprirono le porte delle celle, lo invitarono a prendere il volo. Fu un ignobile gioco. La guardia lo abbatté con una fu- derciclismo, ora i fiori spuntano tra i listelli, «ci pascolano persino le pecore», aggiunge, sconsolato, «è più che uno scandalo, è una vergogna». Fosse l’unica. In Campania, negli ultimi anni, il Giro d’Italia faceva tappa o passava a Marcianise. Dove era sorto un altro stupendo velodromo all’aperto, sventurato fin da subito. Due giorni dopo la prima ed unica riunione, sulla pista di San Giuliano si rovesciò un violento nubifragio che allagò i locali sotterranei e rese la pista una gruviera. Per realizzarlo c’erano voluti vent’anni d’attesa. Sulla via Emilia Per Martinello, sono pochi i velodromi davvero efficienti. Nel Veneto, le piste più attive sono quelle di Bassano del Grappa, Padova (la più interessante) e Portogruaro. In Friuli, Pordenone. In Toscana, alle Cascine di Firenze il velodromo è nato sbagliato. Funziona il “Solvay” di San Carlo, a cinque chilometri da San Vincenzo, ma i pistard più esperti non l’amano «perché è in un buco e c’è troppa umidità». Il buco sarebbe una conca dentro una pineta. In Piemonte, a due passi dall’aeroporto di Caselle, è sorto il complesso di San Francesco al Campo. In Lombardia oltre a Dalmine, c’è Mantova, c’è Busto Garolfo che fa molto per i giovanissimi, resiste quella cilata quasi fosse una lepre, sulla soglia del carcere. La notizia rimbalzò da Berlino al Vigorelli. Una mano ignota stracciò con un gessetto rosso sul muro della cabina, che Richter occupava, un “Richter vivrà”, una scritta gigantesca, che non voleva scomparire sotto la calce). E gli stayers, artisti sulle due ruote, Lacque, Lohman, Severgnini, Frosio, Pizzali, De Lillo, appallottolati al rullo dei motociclettoni: “Alzani”, con il conduttore diritto come un derviscio sulla canna. E gli inseguitori, gli stradisti di grido, Coppi-Bartali-Magni. Il record di Olmo, Richard, Archambaud, Coppi, Baldini, Anquetil, Rivière: fino al Moser astrale. Gli annali del Vigorelli parlano dei pomeriggi e delle notti di Coppi allorché il campionissimo con “parziali” da capogiro prendeva di petto il pedalatore folle, Gerrit Schulte, che correva con incontrollabili brevi raffiche o Patterson l’australiano che era un modello di stile eguagliato dal solo Hugo Koblet (che, diceva Binda, faceva il solletico ai pedali). Oppure Peeters. La folla premeva paurosamente ai cancelli. Nei bar della Bullona, ad un passo dal Vigorelli, parlano del 7 novembre del 1942. Un cielo basso sporco carico di insidie, un cielo di guerra perduta. Sotto la tettoia un pubblico dal cappotto rovesciato, dal bavero sdrucito. Coppi in forza al 38 Fanteria ha strappato una licenza. Il colonnello, che volutamente lo ignora, lo vuole spedire in Africa: e lui tenta l’ora di Archambaud per commuovere chi di dovere. Una bicicletta avara di alluminio: una maglia di lana a cinque tasche, un tocco di campana scandisce i tempi di marcia. Coppi batte Archambaud. Scende di sella che è il crepuscolo. È ammazzato di fatica, non è assolutamente in grado di assaporare il trionfo. L’atmosfera di guerra, il freddo, l’improvvisazione, l’insufficienza meccanica lo avevano fatto soffrire come una bestia. Al ritorno in caserma Fausto apprenderà di essere stato aggregato al 36 Fanteria, destinazione Tunisi via Sciacca. Il 23 aprile 1943 Fausto Coppi era un “prisoner of war”. La memoria del Vigorelli è di elefante. Gli americanisti Terruzzi (il Nando, un idolo milanese) e Rigoni, Wals-Pellenaers, Strom-Arnold avevano riempito di folla i vuoti dell’ellisse. Il gemellaggio del ciclismo con la boxe era divenuto in- di Varese. Il Vigorelli è stato prestato alla federazione del golf: come dire, l’hanno condannato alla fucilazione. Milano out. La pista di Crema sarebbe da rifare. A Montichiari, vicino a Brescia, ne stanno costruendo una nuova, sempre all’aperto: luogo strategico, al centro della Padania. Per questo Martinello spera che il Coni tiri fuori altri due milioni di euro, «la spesa necessaria per aggiungere una copertura, in vista dei Giochi di Pechino 2008». La pista vale dieci medaglie. Perché sperperare la straordinaria eredità della scuola italiana? «Io ci credo e ci investo, nella pista», afferma Claudio Santi, vicepresidente dell’unione europea del ciclismo, nonché boss della 6 Giorni delle Rose al “Pacciarelli” di Fiorenzuola, un mix di ciclismo, via Emilia, lambrusco e ballo “lissio”. Atmosfera ruspante ma corsa blasonata: Juan Llaneras, oro ai Giochi di Sydney, argento ad Atene nella corsa a punti (ma anche 5 titoli iridati). Juan Curuchet, campione mondiale dell’americana 2004. L’ucraino Volodimir Rybyn, campione mondiale di quest’anno (Los Angeles). È tornato Marco Villa, un veterano delle Sei Giorni (ne ha vinte 17 in coppia con Martinello): svezzerà il giovane compagno Samuele Marzoli, talento emergente. Due anni fa gli spettatori furono 21mila: «Non piovve mai». tanto, spontaneo. Turiello-Cerdan, l’ho ancora negli occhi. Le stivate bassissime a livello di tappeto di Turiello, la forza grezza di Cerdan, incontenibile vincitore. Il quadro finale: mille e mille fiamme di accendini, di briquets, che andavano su dritte nella notte. Più che luce tanti piccoli ceri accesi davanti alle nostre speranze deluse. Eravamo nel giugno del ‘39. I Mondiali di ciclismo al Vigorelli verranno interrotti dalla guerra. Chi avrebbe voluto trasformare il transatlantico Vigorelli in un cinodromo non ha mai avuto il minimo sentore di quanto abbia rappresentato e rappresenti per generazioni di milanesi il velodromo Vigorelli. Un brutto giorno ritrovammo il Vigorelli sconciato, con sbarre di ferro conficcate nel tessuto della pista: e un terrapieno a sfiorare l’anello. Il pueblo delle zone 6 e 8 di Milano, del Sempione e del “borgo dei cipollai”, non ebbe esitazione: insorse. I levrieri vennero trasferiti altrove, i lavori bloccati. L’indomani la prima notturna di carattere e tono mondiali. La notte dei campioni fu la prima sua fatica. Al mondo, però, è risaputo, si viene puniti per le proprie buone azioni. Una bufera di neve, una nevicata monstre, nell’85, rovesciò sulla pista onusta non solamente di gloria e la scaraventò sul parquet, un colpo terribile, un tuono, come se tutte le saracinesche di Milano fossero calate nello stesso istante. Un rumore sinistro. Infine, l’irritazione nervosa tutta milanese, di Cerato and company. All’angoscia non si resiste con l’immobilità. Per la terza volta il Vigorelli venne rifatto. Il record di Moser lo ha cavato fuori da una profondità abissale. La pista come capita alle botti di eccellente fusto, gemeva, schiaffeggiata dalla pioggia intrisa di umidità o arsa nel sole. Il Vigorelli era perduto. Il “transatlantico” non è più uscito dal bacino di carenaggio. È divenuto la meta delle mie passeggiate mattutine meste e ventilate. Uno della “parrocchia” della confraternita dei pistard mi ha rimproverato: «Tu hai ottenuto per l’ippica il sigillo delle Belle arti sull’Ippodromo di San Siro e sui terreni di allenamento di Trenno e Maura. Ti sei imborghesito. Mi aspettavo che facessi altrettanto per il Vigorelli». Ho risposto: «Sarebbe occorso un miracolo: e i miracoli, anche Milano non sono ripetibili». Occorrerebbero altre conoscenze municipali e altra cultura. Il Vigorelli è stato perduto. Non sorprende in un paese dove si costruisce un autodromo nel parco chiuso più vasto d’Europa. «Nell’ippica rispolveriamo i generali e i militari dei quali (diceva Einstein) non è che non siano intelligenti. Solamente è stata consegnata loro un’intelligenza per sbaglio». Mi prende una grande malinconia. IL SIMBOLO Il velocista milanese Antonio Maspes è iniziato al ciclismo al Vigorelli, ed è qui che vince gran parte dei suoi sette titoli mondiali. Oggi il velodromo porta anche il suo nome 30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i luoghi Nuove vie DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Un viaggio tra i poggi e le spiagge alla scoperta della regione che, senza clamori come il lato “b” di un vecchio disco, ha mostrato il suo fascino nascosto e conquistato il cuore degli artisti di tutto il mondo. Una terra dalle tradizioni antiche dove, secondo il New York Times, sopravvive l’Italia che non c’è più. Dolce Vita inclusa Marcheshire, le colline sottovoce L’ ‘‘ ‘‘ EMANUELA AUDISIO SENIGALLIA infinito, come no. Prendi l’A14 e ci arrivi. L’altra scelta è scavalcare l’Appennino. Te ne sbatti della siepe. Forse Leopardi esagerava o guardava dalla parte sbagliata. L’infinito si vede benissimo. È finito e domestico, come il mare Adriatico. «Ecco l’altro mondo. In nessun altro luogo d’Europal’altrove ci è più vicino. L’Adriatico è ilmare dell’intimità», ha detto lo storico Sergio Anselmi. D’inverno la schiuma delle onde sbava sulle colline e arriva alla gola. L’infinito si inumidisce. La bora, come ha scritto Paolo Rumiz, fa il resto: ara, rimescola, ossigena il mare. Le Marche sono l’altra parte: il coast to coast del Lazio, il “lato b” della Toscana, come certi dischi che sul retro del successo hanno una versione meno urlata e più dimessa. Anima gregaria. Ma basta un po’ d’attenzione e scopri che il “lato b” ha una bellezza nascosta, più duratura. Metti Enrico Ruggeri, fuori stagione, a Marotta: sabbia bagnata, alberghi chiusi, gabbiani stanchi. Gli è uscita la canzone: «Il mare d’inverno è un concetto che il pensiero non considera. È poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera. Mare mare, qui non viene mai nessuno a farci compagnia». Nebbia fuori, agitazione dentro. Le Marche sono così: sembrano placide, incolori, sembrano nulla. Appena un milione e mezzo di persone, un quartiere di Roma. Una regione che non sta in ginocchio, ma non ci tiene ad alzarsi sulle punte, gioca a nascondersi dietro colline e castelli di sabbia. Però la campagna ha le lucciole, gli orti, le aie, le viti maritate. Però ha le sagre dell’oca, degli asparagi di montagna, della tagliatella, della rana, dei vincisgrassi, dei garagoi, del ciauscolo. Un po’ di modernità, ma non troppa, e mai vistosa. Marito e moglie con le loro vecchiaie intrecciate che salgono dalla campagna sugli Ape Piaggio, di giorno a vendere la verdura, di domenica alla messa. I ragazzi come Valentino Rossi sugli “Apetti” truccati a sfidarsi sulle discese ardite e le risalite in una piccola Gioventù Bruciata. Le Marche, una regione di passaggio. Dove stare un momento, guardare e andare via. Perché quello che intravedi, spaventa. Un cuore di tenebra dolce. Uno spillo che ti ferma per sempre. Terra di preti e di anarchici. Timida e scorbutica. Mezzadria e operosità, un’impresa ogni otto abitanti. Poca grande letteratura di territorio. I famosi scrittori francesi, inglesi, tedeschi, qui mai arrivati. Giravano tutti al bivio prima, molto prima. Nessun Flaubert, Rilke, Foster a meravigliarsi su schiume del cuore, onde del destino e camere con vista. Le Marche, geograficamente sempre difficili da spiegare all’estero. Sotto Rimini, ouì. Dalla parte opposta di Firenze, yes. Sopra Bari, ja. Ma oggi, nuova zona di frontiera nazionale e internazionale, destinazione di una comunità di viaggiatori che ha deciso che la sua Italia è questa qui: sulle colline dell’Adriatico. Se n’è accorto anche il New York Times che parla di Marcheshire come nuova Toscana: correte, bevete, comprate. Se volete essere tra quelli che esplorano territori da sa- Giacomo Leopardi Sempre caro mi fu quest’ermo colle/ e questa siepe, che da tanta parte/ de l’ultimo orizzonte il guardo esclude Giovanni Pascoli Il colle non è più quello, essendo stato [...] piantato e ripulito e pettinato per diventare un giardino pubblico, il Pincio; ma “ermo” era anche quella sera di sabato Da L’INFINITO (Canti), 1819 Da IL SABATO (Pensieri e discorsi), 1914 ranno famosi. Nuovi e vecchi arrivi: c’è chi ritorna nel natio borgo selvaggio e chi prova a metterci radici. Federico Mondeci, sassofonista di fama internazionale, ha casa a Ostra Vetere, dove anche il pittore Leonardo Cemak si è trasferito in un pezzo di mura del paese, l’artista della transavanguardia Enzo Cucchi è a Morro d’Alba, l’architetto statunitense, nato al Cairo, Hani Rashid, che va pazzo per la gola del Furlo, è a Pagino, fuori Urbino. Certo, non è terra, né mare da paparazzi. Michele Emmer, giornalista, figlio del regista Luciano, sta a Scapezzano, Natasha Stefanenko a Sant’Elpidio a mare, per via del marito, Luciano Pavarotti ha una villa sulla panoramica di San Bartolo, fuori Pesaro, dove sta trascorrendo la sua convalescenza dopo l’operazione all’anca. Leggi il New York Times e capisci: «A vanishing Italy still exists», le Marche sono un po’ la Dolce Vita di una volta, quel neorealismo tranquillo, che piace agli stranieri, i piccoli paesi con qualità di vita e l’arte di qualità. Il Rinascimento, Piero della Francesca, innaffiato di sera da un buon Verdicchio. Se in America sono gli artisti a scoprire e rilanciare zone di Manhattan, in Italia sono gli stranieri, quelli che arrivano dal nord. C’è sempre qualcuno che ti spiega la bellezza che hai attorno, le lucciole non bastano ad illuminare. Il giornalista tedesco, Peter Kammerer, insegnante di sociologia ad Urbino, organizzatore di convegni di filosofia politica all’eremo di Monte Giove, spiega: «Un certo tipo di intellettuale tedesco, quarantenne, che prima si dirigeva in Toscana e Umbria, e prima ancora sul Lago di Garda, ora per convenienza sceglie le Marche, soprattutto Urbino e dintorni. E’ un tipo diverso, meno famoso: non è il regista Volker Schlondorff né l’attuale ministro degli interni, Otto Schilly, magari è un alternativo, che si occupa di agricoltura biologica, o è attore, attrice, pittore che cerca un ritmo felice di vita a un prezzo giusto. Non cerca il mare, per quello va in Croazia, ma la collina». Lo scrittore Andrea De Carlo ha una proprietà di famiglia, tra Maciolla e Rancitella, fuori Urbino, dove Lucio Dalla si è aggiunto come vicino, il signor Api, Aldo Brachetti Peretti, ha appena inaugurato la sua cantina e fattoria alle porte di Tolentino. Sempre caro mi fu quest’erme colle. Dove Ampelio Bucci è stato tra i primi a qualificare il Verdicchio, dove Vittorio Beltrami e la sua famiglia a Cartoceto, con il recupero dell’antico frantoio della La sua malinconia ha ispirato le poesie di Leopardi e fatto da sfondo alle foto di Mario Giacomelli. E sulle rive dell’Adriatico Ruggeri ha scritto “Mare d’inverno” PAESAGGI LEOPARDIANI Al centro: colline al tramonto vicino a Cingoli. Nella pagina accanto campi di grano intorno a Treia, e altre due vedute della campagna circostante Cingoli e il Monte Conero Rocca del ‘600, ha valorizzato olio e fosse, dove i pastori sardi, come Chessa, a Montecarotto, hanno rilanciato i formaggi, dove Stefano Mancinelli ha lanciato la Lacrima di Morro d’Alba, prima che avesse la doc. Antonio Terni della Fattoria Le Terrazze ha inventato il Planet Waves, una riserva di Rosso Conero dedicata, oltre che fatta insieme, a Bob Dylan. Piccoli teatri e progetti culturali ovunque: a Serra de’ Conti il Museo delle Arti Monastiche; a Montefortino, il Museo Civico; a Corinaldo, la Pinacoteca, a Castelleone di Suasa, il sito archeologico. La vecchia osteria ora si chiama «condotta slow-food», la casa della nonna bed and breakfast, le aree industriali dismesse sono riconvertite, gli outlet portano un turismo che aiuta a posizionare meglio le Marche sulla cartina. Arrivano olandesi, inglesi, francesi, americani, trovano un piccolo mondo antico che non spaventa, capace spesso di saltare nella modernità. Una periferia creativa, che non perde il sapore di sale: di notte a Fano si va a bere «la moretta» al porto, con i pescatori. Questa il New York Times se l’è persa. Piccole comunità di artisti crescono, a room of one’s own, scriveva Virginia Woolf, una stanza tutta per sé, questo sono le Marche. A Piticchio si è trasferito Woldemar Nelsson, direttore d’orchestra russo, sta cercando casa attorno ad Arcevia la violoncellista Natalia Gutman, Eliseo Mattiacci, scultore, sta fuori Pesaro, dove è arrivato anche il pittore argentino Abel Zeltman, Patrizia Molinari, artista, è spesso sulle colline di Senigallia. Lo sviluppo dell’aeroporto di Falconara, scalo di voli low-cost, facilita i trasferimenti e gli inserimenti. Cambia la collina, ma anche la costa. Senigallia è una rotonda del 1932 (chiusa) sul mare. Era la vacanza di famiglia, mare basso e bambini piccoli. Vongole e bomboloni. La pensione Regina, gli zoccoli di legno, Bibo che insegna a prendere i cannelli. Le partite di pallone al campo degli ebrei con lo slalom tra le vecchie tombe. Senigallia, mezza ebrea mezza canaglia. L’ermetica malinconia di Renato Sellani al piano, il minuto felice di Renato Cesarini che restò alla storia con la sua zona, anche se lui la vita la fregò solo una volta al 90’. Barche e pescatori come la formazione del Brasile: Baldon, Bibalin, Milon, Muligon. Posto così poco sospettabile di perversione e di eversione che le Br negli anni Settanta ci facevano le runioni. Casa del cardinale Mastai Ferretti, Pio IX, papa più longevo della storia. E del fotografo Mario Giacomelli, che esponeva con successo a New York i pretini che giocano sotto la neve, la campagna solcata da rughe, ma campava con una piccola tipografia dietro al Comune. E diede scandalo con una mostra all’ospizio che denudava quello che resta della vita: corpi e facce segnati, devastati dai tatuaggi del tempo, titolo preso in prestito da Pavese «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Spersi, malati, lontani. A Senigallia in vacanza Francesco De Gregori usciva di notte in mare con i pescatori e al pomeriggio giocava a pingpong e a pallone (senza tirare i calci di rigore) mentre in torneo Adriano Panatta di notte usciva con le ragazze. L’Adriatico era il mare dell’Italia non aristocratica, quella che non vestiva alla marinara, gli Agnelli a Forte dei Marmi erano il lato a, appunto. L’infinito era dei contadini, i turisti preferivano la sabbia. Ora uomini e paesaggi sono cambiati. A Senigallia vai al Lab, un bar che potrebbe stare a Londra, gestito dal campione di tennistavolo Massimo Costantini e da sua moglie Paola, dove Romano Bonacossi serve cocktail a tedeschi, inglesi, americani che fanno notte chiedendo consigli su orti e vigne. Hanno comprato la terra, adesso seminano. L’aia lascia il posto all’uliveto. Gli stranieri aggiustano e restaurano, fanno venire le stufe dalla Germania. Non vogliono di più, vogliono quello: un po’ di dolcezza timida, un posto all’ombra, una buona ragione per restare, a prezzi decenti. Saranno mica tutti pazzi ‘sti stranieri? Così si mettono a risistemare anche gli italiani, vedi la vecchia fornace a Serra dei Conti. Nascono i centri benessere al posto di alberghi e sanatori. La cucina fa il resto: Moreno Cedroni alla Madonnina del Pescatore, Mauro Uliassi al porto. Il glamour di alto livello a tavola, ma anche a servizio degli altri: il pranzo di Natale per i non vedenti e per i matti. Il “Susci” all’italiana di Cedroni, le sue scatolette partono per il mondo, con il marchio Anikò (in dialetto senigallese, tutte le cose, ogni cosa) che è anche un chiosco di cucina con la tradizione dello street food. Uliassi conferma che la legione straniera è aumentata. «Di un 15 per cento. Sono quelli di fuori a darci entusiasmo». Cristiana Colli che da anni si occupa di monitorare le Marche parla di realtà glocal, di qualità del territorio, innovazione del contenuto, della forma, dell’organizzazione. Senigallia prima era bella solo d’estate, ora cerca di truccarsi anche fuori stagione. L’entroterra è cambiato, dalle colline i nuovi residenti chiedono disponibilità. Non sempre è dolce naufragare. Tra poco il rinnovato hotel City, aperto tutto l’anno, aprirà un nuovo ristorante con lo chef (Paolo Brugiatelli), passato anche lui dalla scuola alberghiera Panzini. Anche se il direttore Luca Meggiorin dice che la Toscana ha un’altra mentalità e cultura, cosa che ripetono anche Andrea Olivetti e l’architetto Fabio Ceccarelli. «Le Marche non hanno l’eccellenza. Ci divide il passato: noi con il papa re, loro con il granducato di Toscana «. Il lato b, che prova a rovesciarsi. A cambiare faccia. La collina che sceglie un’altra pettinatura, che prova a non essere più gregaria. Sempre caro mi è. 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Generali che guidano taxi, duchesse che fanno le cameriere, intellettuali in tuta da operaio al lavoro nelle fabbriche Renault: è la difficile vita quotidiana delle “canaglie bianche”, gli uomini e le donne arrivati a Parigi per evitare le persecuzioni bolsceviche dopo la caduta degli zar. I libri fotografici di André Korliakovriportano alla luce la loro epopea. Che l’Europa tende a rimuovere Fugadalla Rivoluzione SANDRO VIOLA A PARIGI nche qui, nella cattedrale ortodossa di rue Daru, il ricordo degli émigrés — i tre milioni di russi che fuggirono tra il 1918 e il 1925 dalle fucilazioni bolsceviche — s’è ormai appannato. La chiesa intitolata ad Alexandr Nevskij è piena, e la liturgia domenicale resta solenne come sempre. Gli ori dell’iconostasi brillano alla luce tremolante delle candele, le voci del coro si fondono con quelle baritonali di sacerdoti e diaconi, i fedeli vanno e vengono più volte (prima l’inchino sino a terra, poi il bacio) dall’icona. Ma dall’ultima volta che avevo messo piede nell’Alexandr Nevskij, una trentina d’anni fa, il colpo d’occhio è molto cambiato. Allora, era facile riconoscere negli anziani che affollavano la cattedrale i discendenti degli émigrés rifugiatisi a Parigi dopo la rivoluzione d’ottobre. Settantenni nati in Russia e giunti bambini o addirittura in fasce con i genitori fuggiaschi, e cinquantenni nati nell’esilio e poi divenuti, insieme ai figli e ai nipoti, di nazionalità francese. Le schiene erette, le barbe alla Nicola II e gli abiti dignitosi degli uomini, i bei profili e le pettinature composte delle donne ancora evocavano gli anni Venti e Trenta, quando la domenica i russi di Parigi convenivano in folla a rue Daru (compresi i laici come Stravinskij) per ritrovare una traccia, un’immagine della patria perduta. Mentre adesso le figure riconducibili a quel mondo, a quella specie di “nazione ombra” che fu la Russia dei profughi dal comunismo, sono rare. E il resto dei volti che vedo sono di ben altri russi — nouveaux riches, trafficanti — e soprattutto d’altri ortodossi: uomini di fatica e cameriere ucraini, bulgari, rumeni. Se si sono appannate persino sotto le cupole dell’Alexandr Nevskij, è segno che le memorie dell’emigrazione russa, una delle grandi tragedie del Novecento, rischiano ormai di svanire. E’ vero che in Russia, dove nel settantennio sovietico l’argomento non poteva neppure essere nominato, un gruppo di giovani storici sta adesso lavorando a ricostruire la vicenda: e in particolare quello che per i russi è il suo aspetto più catastrofico e lacerante, vale a dire l’esodo, dinanzi all’incalzare del Terrore leninista, dei due terzi dell’intelligencija pietroburghese e moscovita del tempo, esodo che lasciò tramortita per molti decenni la cultura russa. Ed è vero che un certo interesse storico c’è anche negli Stati Uniti, dove nelle biblioteche di due o tre università si continuano a raccogliere documenti, memorie e testimonianze. Ma in Europa gli studi languono, l’interesse declina. Ne parlo qui a Parigi con Nikita Struve, slavista all’università di Nanterre e nipote di una delle figure di maggiore spicco nell’emigrazione, lo storico Petr Berngardovic Struve. E insieme conveniamo su un punto: in Europa non s’è ancora del tutto cancellato il marchio d’infamia con cui i partiti co- La storia dimenticata degli émigrés russi munisti, e gli intellettuali che ne battevano la grancassa, bollarono già negli anni Venti, imbeccati da Mosca, gli émigrés. Per i comunisti europei gli émigrés furono infatti da subito, e tali restarono sin verso i Settanta, “la canaglia Bianca”. Bande di reazionari e “affamatori del popolo” attorno ai quali alzare un muro di sospetti e di silenzio, così da non consentire a chi era stato testimone della catastrofe abbattutasi sulla Russia di smascherare la propaganda sovietica. E, stranamente, quel silenzio dura ancora. Infatti in Italia, volendo fare un esempio, nei cataloghi delle maggiori case editrici non figura un solo libro sull’emigrazione russa. Sì, in Europa le memorie di quella tragedia sono in gran parte svanite. A Berlino, a Praga e a Belgrado, che con Parigi furono i centri dell’emigrazione in Occidente, non resta più nulla o quasi. La guerra, e poi l’avvento dei comunisti in Cecoslovacchia e in Jugoslavia, hanno quasi completamente disperso l’enorme quantità di documenti che vi era rimasta sino ai Quaranta. I giornali, le riviste letterarie, i libri che gli émigrés pubblicavano in russo, i diari e memoriali dei singoli, gli elenchi delle associazioni politiche e culturali. E se qualcosa resta, bisogna cercarla nei cimiteri. Come a Praga, dove al cimitero di Olsany, di fianco al settore ebraico, c’è un settore russo: una piccola chiesa ortodossa, e tutt’attorno tombe di ufficiali Bianchi e maestri di canto, docenti di fisica e medievalisti, sino al cippo di pietra grigia su cui un paio di mesi fa ho visto inciso il nome di Helena Nabokova, la madre di Vladimir Nabokov. Così, è solo a Parigi che la memoria dell’emigrazione, benché sbiadita, ancora sopravvive. Ancora vi rimangono — tra ristrettezze finanziarie e canizie dei curatori — pochi superstiti ritagli di quella che fu chiamata la “Piccola Russia”, i luoghi più frequentati dagli esuli. La cattedrale di rue Daru, la libreria Ymca a rue de la Montagne Sainte-Geneviève, la biblioteca Turgeniev, e soprattutto il commovente cimitero di SainteGeneviève-des-bois, dove sono sepolti granduchi e grandi scrittori, uomini di stato e attori dei teatri Imperiali, atamani cosacchi e colonnelli delle Armate Bianche, il comandante delle Guardie a cavallo dell’imperatrice Maria e il principe Yussupov, dame di corte e filosofi, danzatori, musicisti, coreografi. Non a caso è a Parigi che sono apparsi nell’ultimo paio d’anni i libri fotografici di André Korliakov. La storia di Korliakov, come lui stesso me la racconta, è singolare. Cittadino sovietico (l’Urss non era ancora crollata), giunge a Parigi nel 1990 a specializzarsi in lingua e letteratura spagnola. Ha una trentina d’anni, è laureato all’università di Eka- terinenburg, ma degli émigrés e delle loro sventure non ha mai sentito parlare. Poi, un giorno, qualcuno lo conduce al cimitero di Sainte-Geneviève, e la vista di quelle tombe lo sconvolge. Comincia a visitare gli ultimi ottantenni dell’emigrazione, guarda le fotografie ingiallite che essi cavano dai cassetti, ne ascolta i ricordi. E a quel punto decide di dedicarsi alla storia — o meglio, all’iconografia — dei profughi russi in Francia. Si stabilisce a Parigi, man mano copia tutte le fotografie disponibili, e ne compone tre libri stupendi. In nessuno dei testi sugli émigrés che ho letto negli ultimi vent’anni (neppure nel più ricco e vivo di tutti, “Il corsivo è mio” di Nina Berberova), si colgono infatti i lineamenti antropologici dell’emigrazione russa post-17, e il pathos dell’esilio, in modo così nitido e quasi palpabile come li si può cogliere nelle fotografie raccolte da Korliakov. Intanto, la diversità della composizione sociale nei confronti delle altre grandi migrazioni dell’Otto e Novecento. Perché la maggioranza degli émigrés era formata da borghesi d’istruzione superiore, universitari, funzionari pubblici, grossi, medi e piccoli commercianti, imprenditori, tecnici e contabili, intellettuali, artisti, aristocratici. Gente, gruppi sociali che di solito non emigrano, e quando succede che lo facciano per ragioni politiche, lo fanno in numero assai ridotto e non in massa. Certo, tra gli esuli c’erano anche molte decine di migliaia di cosacchi ed ex contadini semianalfabeti, che avevano combattuto nelle Armate Bianche, e poi evacuati dalla Crimea — con la disfatta dell’esercito di Wrangel alla fine del 1920 — su navi inglesi, francesi, italiane: e costoro possono essere paragonati ai braccianti che nei decenni appe- DOMENICA 17 LUGLIO 2005 na precedenti s’erano riversati dall’Europa nelle Americhe. Ma la norma, quando nei paesi dell’esilio i profughi russi entravano in contatto prima con un funzionario di frontiera o un poliziotto, e poi con gli abitanti dei quartieri poveri dove andavano a stabilirsi, era che il profugo fosse socialmente e culturalmente superiore rispetto alla piccola burocrazia locale e alle altre famiglie del proprio caseggiato. Dal che discendeva un’altra norma: vale a dire che oltre all’indigenza e allo strazio dello sradicamento, gli esuli dovettero subire la pena inconsolabile dei declassati. “Pas de chiens, pas de chats, pas de russes”, dicevano i cartelli esposti in molti androni dei caseggiati popolari. L’esodo degli profughi ebbe dunque due effetti disastrosi, uno per la Russia e l’altro per gli émigrés stessi: da un lato la terribile emorragia di competenze e talenti, una perdita da cui la società russa non si è mai più ripresa; e dall’altro lato il calvario d’una intera generazione di professionisti, docenti, artisti e pensatori dispersi nei paesi di mezzo mondo, dalla Manciuria all’Europa centro-occidentale e al Canada. Un universo di declassati, appunto, costretti ad ogni sorta di mestieri che non avevano mai immaginato di fare: la prostituzione delle donne compresa, come si legge nelle pagine di Kessel, Morand, Cendrars, Benoit e Tanizaki. Eccoli, nelle foto dei libri di Korliakov, quei mestieri. I generali e colonnelli al volante dei taxi parigini, i camerieri, le ballerine e i corpi di ballo cosacchi nei cabarets russi a Pigalle (il Caveau caucasien, lo Sherahazade, la Troika, lo Yar), le contesse divenute entraineuses, i medici delle Armate di Denikin, Kolciak e Wrangel degradati a infermieri, i brillanti ufficiali della Guardia della Zarina divenuti operai alla Renault di Billancourt. E si tratta soltanto d’un campionario delle attività degli emigrati, perché di tante altre non esistono, o si sono perdute, le fotografie. La cosa certa è che la miseria non con- LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 ‘‘ Nina Berberova Io non ho i resti di una casa distrutta, nel cui ricordo trovare conforto nei momenti difficili […] vivo senza basi, senza armi, senza essere allenata né alla difesa né all’attacco, senza tribù, senza terra natia, senza partito politico, senza dei né tombe degli avi Da Il CORSIVO È MIO, Adelphi edizioni LA VITA IN ESILIO Qui sopra, una cerimonia russa a Menton. Nella foto grande, l’orchestra “domra”. In alto a destra, cosacchi in posa prima di uno spettacolo e, più sotto, la contessa Hagondokoff, indossatrice. Nell’altra pagina, la locandina del “Shéhérazade”, il cabaret degli “émigrés” sentiva agli émigrésdi rifiutare alcun lavoro. Il pianista uscito dai corsi di Rimskij-Korsakov al conservatorio di Pietroburgo suonava nei cinema del film muto, a dirigere la sala da tè Tierem Boyard c’erano la granduchessa Xenia e la figlia del granduca Paolo assassinato dai bolscevichi, Elsa Triolet infilava collane, Nina Berberova cuciva tovaglie col punto a croce. Ma l’emigrazione russa dei Venti e Trenta ebbe un’altra caratteristica, e anche questa emerge dalle foto dei libri di André Korliakov. Proprio per la varietà della sua composizione, essa formò nei paesi dell’esilio — a Costantinopoli, Berlino e Praga nella prima fase, ma soprattutto e più durevolmente a Parigi, dove i profughi erano circa 50.000 — una costellazione di piccole “società” russe. Non solo spicchi di patria con le loro cerimonie religiose, orchestrine e salumerie, che è cosa comune in tutte le emigrazioni: bensì vita sociale, circoli culturali, scuole, librerie, letture di poesia, esposizioni di pittura. E soprattutto editoria. Quotidiani, settimanali, riviste letterarie mensili e trimestrali: ben 160 periodici apparsi tra il ‘25 e il ‘31, per non parlare dei libri. Vladimir Nabokov fu severo, nei confronti della tenacia con cui gli émigrés si sforzavano di conservare intatta l’identità russa: in patria il comunismo aveva definitivamente trionfato, e dunque quei «tentativi di far rivivere una civiltà ormai morta» erano vacui, velleitari. Ma credo che il giudizio sia inesatto. I profughi della “piccola Russia” parigina intendevano dimostrare che il senso della tradizione, i valori, la dignità russi — in Russia essendo stati stravolti o cancellati dalla barbarie comunista — sopravvivevano adesso soltanto nell’esilio. Sicché la sola, vera Russia ancora in vita era quella abroad, fuori dai suoi confini geografici. Almeno in termini di continuità e omogeneità culturale, quest’ambizione si realizzò. Precarie, a volte di breve durata, quattro o cinque case editrici varate dagli émigrés pubblicavano i classici russi, e saggi filosofici, romanzi, poesie degli autori in esilio. Quanto ai giornali, ne nascevano e morivano continuamente: ma due durarono — consentendo a tanti scrittori ed intellettuali dell’emigrazione (Nabokov incluso) di ricavare dai loro articoli il po’ con cui sfamarsi — sino al ‘40. Il liberale Poslednie novosti (Ultime notizie) diretto da Pavel Miliukov, e il Vozroshdenie (Rinascita) della destra monarchica. Poslednie novosti vendeva 25.000 copie e l’altro 15.000. Erano i soli giornali a dare notizie certe su quel che stava avvenendo nell’Urss — le carestie, i crimini della polizia politica, i processi staliniani — ma per l’Humanité e l’altra stampa comunista erano “covi fascisti”, “centrali della propaganda zarista”. Ambedue i quotidiani avevano un supplemento letterario settimanale con le firme illustri della generazione di scrittori, poeti e saggisti che avevano fatto parte dell’“età d’argento”, la grande stagione culturale della Russia anteguerra: Bunin, Aldanov, Balmont, Cvetaeva, Chodasevic, Remizov, Berdiaev, Merezhkovskij. Ma la pubblicazione culturale più prestigiosa era poi Sovremennye zapiski (Annali contemporanei), anch’essa durata un intero ventennio. La vita associativa degli émigrés era intensa. Gli ufficiali dei vari reggimenti, gli scrittori, i giornalisti, i docenti universitari, i cosacchi, i pensatori religiosi, gli operai della Renault e quelli della Citroen, gli autisti dei taxi (che erano circa duemila, raccolti nell’Union des chauffeurs russes de Paris), tutti avevano i loro circoli, riunioni, pranzi sociali. Altri pranzi venivano organizzati per le attività di beneficenza a favore di vedove e orfani di ufficiali e soldati. Infine c’erano i balli della Croce Rossa, quelli per finanziare gli ospizi dei vecchi e quelli per soccorrere i poeti e pittori più poveri. Una sottile fetta dell’emigrazione era composta infatti da persone ancora abbienti (qualche aristocratico, i coreografi, scenografi e danzatori dei Ballets russes, i petrolieri Montasev e Cernoev) che accorrevano puntuali ad assicurare un buon incasso alle feste di beneficenza. Qual era il sentimento che spingeva gli émigrés — malgrado le divisioni politiche e le polemiche letterarie — a mantenersi così ostinatamente russi, a mimare nell’esilio la vita di Pietroburgo e Mosca? Lo chiedo a Korliakov, al professor Struve e alla curatrice della biblioteca Turgenev, madame Tania Glaskova. E le loro risposte sono simili: era il pensiero, la speranza del ritorno. «In un certo senso», dice Korliakov, «vissero seduti sulle loro valigie, aspettando il momento di rientrare in patria. Arrivato a Parigi dopo la disfatta di Crimea, il generale barone Wrangel li aveva rincuorati: il bolscevismo morirà, disse, ma la Russia continuerà a vivere. Sostanzialmente aveva ragione. Solo che il comunismo ci mise, per morire, ancora settant’anni». 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Tribù lontane DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Il Mali custodisce il segreto dei Dogon, l’etnia che abita in un luogo incantato del continente nero, ai piedi della falesia di Bandiagara. E che è depositaria di una cultura così straordinaria, nonostante secoli di isolamento assoluto, da attirare generazioni di antropologi. Una stirpe “magica” a cui il fotografo Alain Volut dedica il suo nuovo libro Il popolo nascosto PIETRO VERONESE M olti bei libri sono stati scritti per spiegare perché, nella storia dell’umanità, alcune civiltà hanno avuto più successo delle altre nel liberare l’uomo dal bisogno, nell’assicurarne il benessere e allontanarne la morte. Nessuno però, che io conosca, spiega perché un popolo ha più cultura di un altro. Perché si spinge più in là nel creare parole per indicare le cose; nello spiegare a se stesso l’origine del mondo e della vita; nel rappresentare un Dio complesso e grandioso; nell’osservare l’universo, le leggi occulte che lo governano, le misteriose corrispondenze che esso sembra rivelare a chi l’osserva con profondità; nell’imporre all’uomo complessi rituali che meglio lo aiutino a capire il proprio posto nel creato. Se un simile libro esistesse, di certo dovrebbe indagare il segreto dei Dogon, etnia africana che abita uno dei luoghi più impressionanti e incantati del continente ed è — o forse dovremmo dire “è stata”, considerata la rapidità con cui tutto oggi si trasforma e si perde — depositaria di una cultura straordinaria. I Dogon sono oggi circa 250 mila persone. Molti secoli fa, intorno al volgere del trascorso millennio, essi si stabilirono ai piedi della grande falesia di Bandiagara, all’interno dei confini del moderno Mali. Già la scelta di questo luogo, che peraltro essi trovarono già abitato, è straordinaria. La storia degli uomini nell’immenso bacino del Niger è da sempre abbracciata, cullata, scandita, segnata dalle cicliche piene del fiume, che attraversa il Mali da sud a nord disegnando la vastissima ansa dopo la quale torna a volgere verso il Golfo di Guinea. L’acqua, col suo lentissimo battito, col suo andare e venire due volte ogni anno, dispensa la vita e ha plasmato la società umana a sua immagine. I bozo pescano, i bambara coltivano, i peul allevano, i songhai commerciano. Ciascun gruppo inchinandosi al volere del fiume, lasciando che il suo fluire determini il tempo del gettare e levare le reti, della semina e del raccolto, del pascolo e della transumanza, della navigazione verso il mare oppure, a seguire la corrente, verso il deserto. Ma i Dogon si posero a margine di tutto questo. Forse vedendo nella difesa, piuttosto che nei frutti della natura, il principale fattore di sopravvivenza — o forse nell’estetica, prima che nell’economia — presero dimora in un luogo che colpisce per la sua bellezza e per la sua inospitalità. Rimasero al bordo della vasta comunità saheliana, lontani dalle fertili pianure e dalla grande, liquida via di comunicazione, in un rifugio roccioso isolato, pressoché inaccessibile. Quando si arriva a Bandiagara da occidente, cioè dalla piana del fiume, la presenza della sua grande falesia è insospettabile. Il terreno si eleva a poco a poco, facendosi roccioso e caldo sotto i raggi del sole. Il paese dei Dogon si presenta piuttosto come un altopiano. E poi, d’un tratto, è come se la terra sprofondasse e lo sguardo, che fino a un attimo prima seguiva verso l’alto la pendenza del terreno, tracolla in un lontano infinito, un verde punteggiato d’acacie che si perde in un orizzonte vastissimo. Il mondo scompare sotto i piedi e quel precipizio, quella voragine del mondo, è la falesia di Bandiagara. La strada si fa adesso ripidissima e si incunea, si avvolge tra gole e ammassi pietrosi. In breve scende alla base della falesia e i villaggi dei Dogon appaiono come una shangri-la di campi di miglio e di orti nascosti tra le curve dell’incombente parete rocciosa. Stanno acquattati al riparo delle sue pieghe, come addossati ad essa, in una posizione estrema, senza ulteriore via di fuga. Ma così non è, perché quel baluardo naturale è solcato da mille fessure, U na Genesi africana, una mitologia illustrata. È il senso profondo del viaggio compiuto dal fotografo francese Alain Volut tra i Dogon del Mali, il popolo più famoso della storia dell’antropologia. Schiacciati sulla terra da una natura ostile, arida, lunare, condannati apparentemente a non essere altro che nuda vita, questi uomini hanno concepito una cosmogonia degna di Esiodo, un pensiero capace di altezze vertiginose come la falesia di Bandiagara, l’abisso di pietra che sovrasta la loro terra. Fotografare una filosofia sembra impossibile. Eppure Volut riesce a farlo, il suo obiettivo cattura i principi stessi dell’animismo africano. Dove il divino si nasconde in ogni essere, animato e inanimato. E dove il senso ultimo della realtà non è mai astratto e trascendente ma profondamente concreto, perché nasce dalla materia stessa. Una lente eraclitea sembra ispirare lo sguardo di Alain Volut nel suo viaggio alle sorgenti della vita Dogon, dove una circolarità perpetua abbraccia uomini e cose, vita e morte in una catena infinita di metamorfosi che termina proprio lì dove tutto inizia, in quel punto del circolo in cui, come diceva Eraclito, «principio e fine fanno uno». In quella curvatura senza intervalli la madre materia assoggetta alle sue leggi imperiose uomini e dei. È proprio il segreto della generazione che gli scatti del fotografo francese fissano al di là di ogni spiegazione. Un bambino con alle spalle le statue degli antenati, sembra suggerire l’appartenenza di ogni nascita alla morte, un’ancestralizzazione del vivente incisa nelle pieghe di una natura custode e maestra di forme. Come Immagini che catturano una Genesi africana MARINO NIOLA nell’immagine di un bambino che dorme sotto gli occhi di una madre di scuro basalto o l’altra del piccolo che viene alla luce aggrappandosi alle pieghe fossili di un immenso, gulliveriano seno di pietra. L’occhio dell’artista si addentra in questo intrico scomponendo la metafora della generazione in figure che hanno la potenza iconica degli enigmi. Una donna con in mano un fuso fila il destino del figlio, quasi a misurarne l’arco vitale, la distanza tra la culla e la tomba. O ancora un bambino che sembra far corpo con un anziano, formando quasi un blocco unico scolpito nel legno: qui l’obiettivo di Volut fotografa letteralmente la discendenza facendo balenare l’unità dimenticata tra una parola astratta come lignaggio e la materialità della linea, ovvero la cordicella di lino che serviva come strumento di misura. L’uno e l’altra scansioni di un tempo che si consuma proprio come il legno delle statue dei feticci o la fibra intrecciata delle cordicelle sacre che per i Do- Sono rimasti indisturbati, in un rifugio di rocce quasi inaccessibile. Solo negli anni ’30 l’uomo bianco li ha “scoperti” e ha iniziato a interrogarsi sul loro mistero DOMENICA 17 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 SULLE SPONDE DEL NIGER Il Mali si trova alle porte dell’Africa nera, ma è il deserto che occupa la maggior parte del territorio. Si possono contare almeno 20 etnie, oltre ai Dogon, che conservano ciascuna il proprio idioma e i propri costumi. Tra questi, i Bamana o Bambara sono il gruppo più numeroso; i Tuareg si muovono lungo le piste del Sahara, mentre i Bozo, dediti alla pesca, occupano il delta del Niger e i Songhai vivono di agricoltura. (Le foto in queste pagine sono tratte dal libro fotografico di Alain Volut, “Terra Natale”, edito da Peliti Associati) nel cuore della terra gon simboleggiano la vita. Volut sembra addirittura mettersi dal punto di vista della morte quando, nel funerale di un dignitario, con un solo scatto rivela in un vecchio che regge il ramo biforcato quella che per questi uomini è la forma segreta della realtà, la vita che nasce dalla terra e si apre in infiniti rami. Simbolo di una divisione che unisce, così come la stessa falesia di Bandiagara, la faglia che incide profondamente la terra e l’anima Dogon. Qui tutto suggerisce una parentela segreta tra l’abitare e l’essere. Le fenditure che tagliano la roccia, le figure umane che le ridiscendono e le risalgono incessantemente. Le arterie di questo organismo di pietra vivente sono i cunicoli di roccia che servono insieme da sentieri e da cimiteri, connessioni dello spazio e del tempo. Queste cavità sono dei passages che mettono in comunicazione i vivi senza dimenticare quanto essi siano cosa dei morti. In Mali il tempo è materia che si consuma e Volut riesce a far- ci vedere le fibre stesse della sostanza temporale. Il braccio raggrinzito di una vecchia disseccata, neanche più donna, esibisce il residuo ormai fossile della vita. Un vecchio dignitario rugoso come una corteccia d’albero, di una decrepitezza allegorica da san Girolamo africano, fotografa la mortalità costitutiva del vivente. Come le Kanaga, le celebri maschere che rappresentano insieme l’umano e l’inumano. E i granai antropomorfi che evocano il volto e insieme lo negano, o meglio lo svisano. Riconducendo la condizione umana alle impalcature ultime dell’essere dalle quali la vita riprende a farsi strada. Simbolo di un nuovo inizio è proprio una bambina che sembra uscire dalle porte dell’ombra portando sulla testa una scodella piena di Nommo, l’acqua che, secondo la credenza Dogon, fa rinascere gli dei e ridà anime alla terra. Alain Volut si cala nel mistero di questa cultura con il fiuto dell’antropologo messo al servizio di uno stupore poetico capace di fissare l’attimo fuggente in cui la verità scintilla in un volto o in un corpo. Per poi tornare a rinchiudersi nel suo velo. In questo modo Volut fa sua la lezione di Ogotemmeli, il profeta cieco che negli anni trenta rivelò a Marcel Griaule i segreti di questa cosmogonia. All’antropologo che gli chiedeva perché nel santuario dei feticci gli oggetti fossero così sparpagliati da renderne indecifrabile il senso, l’Omero africano rispondeva: «Il disordine degli oggetti serve per nasconderne il segreto a coloro che vorrebbero comprenderlo». L’autore insegna antropologia culturale all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli Non sanno scrivere ma si trasmettono un sapere molto complesso. La loro conoscenza astronomica è stata spiegata da alcuni addirittura ipotizzando un remoto sbarco di extraterrestri canyon, passaggi segreti che danno accesso al mondo nascosto dei Dogon. Essi vivono in prossimità delle viscere della terra, in un habitat che sembra mettere in comunicazione il mondo degli inferi con quello dei viventi e continuamente trapassa dalla luce abbagliante del sole all’umida oscurità del sottosuolo. Quando i Dogon si insediarono qui ne scacciarono — o forse trovarono la falesia già abbandonata — un popolo cavernicolo, che aveva avuto costume di seppellire i propri defunti in anfratti rocciosi sospesi a circa metà altezza della strapiombante parete. Quelle necropoli a mezz’aria vennero integrate nella visione del mondo che hanno i Dogon, la quale è rovesciata rispetto alla nostra. Per loro il mondo dei morti non è sotterraneo, bensì interposto tra i vivi e i grandi spazi celesti. Per circa mille anni i Dogon abitarono la falesia di Bandiagara indisturbati dal resto del mondo. Furono tra gli ultimi popoli africani ad essere “scoperti” dall’uomo bianco e forse questo è un segno della loro lungimiranza nello scegliere per dimora quel luogo remoto. Tra i primi europei ad arrivare alla falesia furono i membri della spedizione DakarGibuti, la quale si proponeva di attraversare quella che era all’epoca l’Africa occidentale francese partendo dalla costa atlantica e raggiungendo a est l’Oceano Indiano. Così l’antropologo Marcel Griaule, negli anni ‘30 del secolo scorso, conobbe i Dogon e dedicò a loro il resto della sua vita. Ne indagò usi, costumi, credenze, le straordinarie conoscenze astronomiche, la complessa cosmogonia, la religione monoteistica che ha al suo vertice un Dio antropomorfo il quale dà forma all’intero creato. Scoprì il simbolismo universale che accompagna ed ispira tutto il loro stare al mondo, dai gesti all’architettura, al continuo parallelismo tra uomo e natura. Studiò tutto questo e solo alla fine, dopo molti e molti anni interrotti solo dal secondo conflitto mondiale, fu ammesso alla confidenza di Ogotemmeli, l’anziano cacciatore cieco che aveva deciso di svelargli i segreti dei Dogon. Ne nacque il celebre libro Dio d’acqua, capolavoro delle scienze umane, pubblicato nel 1948 e sempre ristampato. Oggi i Dogon sono meta turistica. La loro povertà imbarazza, lo sporco dei giacigli che offrono al viandante fa un poco spavento, ma la loro identità, minacciata da ogni lato, ancora resiste. I loro villaggi ai piedi della falesia restano vivi. La maestosa bellezza dei luoghi che essi abitano è intatta. Sono diventati un mito per i cacciatori di Ufo, i quali non sanno spiegarsi la loro sapienza astrologica (i Dogon conoscono da sempre una stella, Sirio B, che solo in epoca moderna i telescopi sono riusciti a vedere) se non ipotizzando l’atterraggio tra di loro di un’astronave in secoli remoti. Poveri Dogon. Noi crediamo oggi di sapere tutto di loro, ma il mistero della loro cultura rimane insoluto. Perché i Dogon si sono tramandati di generazione in generazione, di bocca in bocca (essi non conoscono la scrittura) un sapere così sofisticato e complesso? Ma siamo poi così sicuri che i tellem, i precedenti abitanti della falesia, fossero più rozzi e primitivi? E che non ci siano per l’Africa ancor oggi cosmogonie non meno raffinate, simbolismi non meno profondi, lingue non meno ricche, che stanno semplicemente andando per sempre perdute prima di aver avuto la fortuna di imbattersi nel rispetto di un Marcel Griaule? O magari non è stata fortuna, ma un attimo preparato da secoli, fin dal giorno in cui la saggezza degli antenati li portò ai piedi della falesia, di quel luogo unico al mondo, scegliendolo come il posto migliore nel quale porsi in attesa dell’arrivo dell’altro. Forse il mistero dei Dogon è soltanto questo, un insondabile, molto umano mistero: aver saputo ispirare lo sguardo con il quale li abbiamo infine guardati. 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 LUGLIO 2005 FOTO JAWS/STEVEN SPIELBERG PRODUCTION Trent’anni fa usciva nelle sale “Lo Squalo”, seguito poco dopo da “Guerre Stellari”. Erano nati i primi “blockbuster”: film estivi, distribuiti a tappeto, accompagnati da gadget e campagne pubblicitarie, destinati a fare incassi da capogiro. Ma soprattutto capaci di rivoluzionare il cinema. Che i due registi, non a caso, dominano ancora con i loro ultimi lavori Hollywood Nato a Cincinnati nel 1946, è uno dei registi più famosi del mondo. Nella sua lunga carriera (Duel, il suo primo film, è del ‘72) ha diretto parecchi di kolossal campioni d’incasso ANTONIO MONDA S NEW YORK ono passati trent’anni da quando la musica di John Williams ha accompagnato gli assalti dello squalo bianco sulle spiagge di una tranquilla cittadina del New England, e ventotto da quando ha celebrato per la prima volta il trionfo di Luke Skywalker su Darth Vader ed il lato oscuro della forza. Il clamoroso successo commerciale che salutò sin dal debutto Lo Squalo e Guerre Stellari cambiò per sempre, e in maniera irreversibile, l’industria hollywoodiana, ridisegnando la strategia dei “summer movies” e originando il concetto di “blockbuster”. Steven Spielberg e George Lucas, entrambi al terzo film, diventarono nel giro di poche settimane gli indiscussi imperatori di Hollywood, e continuarono ad avvalersi della collaborazione di Williams, che ha raggiunto in seguito un totale di quarantadue candidature all’Oscar e cinque vittorie. Sono molteplici le considerazioni che si possono fare a margine di quella evoluzione industriale che mutò geneticamente Hollywood, ma il dato che risulta oggi maggiormente impressionante è che a distanza di tre decenni sono ancora gli stessi due registi a proporre i film più attesi della stagione: se Spielberg realizza il remake di un classico di fantascienza come La guerra dei mondi dopo aver affrontato temi disparati quali l’Olocausto, la schiavitù e la Seconda guerra mondiale, Lucas continua a riproporre il continuo ritorno dell’identico, con il sesto e (forse) ultimo episodio della sua saga infinita, che nel suo LO SQUALO E.T. SCHINDLER’S LIST THE TERMINAL Nel ’75 il primo grande successo al box office Nel 1982 enormi incassi e tre Oscar 1993. Per molti, il suo miglior film: 7 Oscar Storia d’amore aeroportuale, del 2004 INCONTRI RAVVICINATI INDIANA JONES IL SOLDATO RYAN LA GUERRA DEI MONDI Due Oscar, nel ’77, per un film di fantascienza Tra l’82 e l’89 dirige la trilogia scritta da Lucas Nel ’98 il film sullo sbarco in Normandia Attualmente nelle sale, dal romanzo di Wells astruso ordine temporale è da inserire cronologicamente al terzo posto. Una serie di libri usciti in America raccontano il momento cruciale in cui la “fabbrica dei sogni” ha deciso di esaltare l’elemento prettamente industriale della propria anima, sottolineando tuttavia come alcuni dei responsabili principali di questa mutazione, a cominciare da Spielberg, abbiano continuato a realizzare film straordinari, dimostrandosi geniali sia sul piano creativo che su quello finanziario. Assolutamente eloquenti i titoli scelti dagli autori Tom Shone ed ‘‘ Steven Spielberg Molti dei film che ho girato avrebbero funzionato anche cinquanta anni fa, e questo perché i miei valori sono molto “old fashion” FOTO ASSOCIATED PRESS STEVEN SPIELBERG Così Lucas & Spielberg cambiarono i nostri sogni Edward Jay Epstein: Blockbuster: How Hollywood learned to stop worrying and love the summer (Come Hollywood ha imparato a smettere di preoccuparsi e ad amare l’estate), e The Big Picture: The new logic of money and power in Hollywood. Spielberg racconta di aver compreso che la sua vita sarebbe cambiata per sempre quando si avvicinò incuriosito a una fila gigantesca di fronte a un cinema e si accorse che si trattava di gente in attesa di vedere Lo Squalo. Era il primo giorno di programmazione, e tornato a casa, vide in televisione che ogni notiziario parlava della “squalomania”. La lavorazione del film era stata un incubo, e la speranza di tutte le persone coinvolte nel finanziamento era quella di non perderci la faccia, e, soprattutto, i soldi. Non molto differenti le attese relative a Guerre Stellari: la prima proiezione finì tra gli sberleffi, e perfino amici competenti come Brian De Palma misero in guardia Lucas di prepararsi ad un fiasco che avrebbe compromesso la sua carriera. Se Lo Squalo cambiò il modo di programmare il lancio dei “popcorn movies” puntando sulla distribuzione a tappeto e su tattiche pubblicitarie basate sull’allusione e la ripetizione, Guerre Stellari inaugurò la stagione del merchandising, ed enfatizzò le infinite potenzialità di sequel, prequel e storie parallele da sfruttare su ogni possibile medium. Ma per comprendere questa svolta, non prevista dagli autori, e fortemente auspicata dai produttori hollywoodiani, è necessario andare indietro di qualche anno, all’epoca della caduta dello “studio system”. Tra la metà e la fine degli anni sessanta non ci fu major che non ebbe la propria razione di fiaschi colossali, dovu- DOMENICA 17 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 IERI E OGGI A sinistra, Lucas durante le riprese di “Star Wars Episode I”. Sotto, sul set de “La vendetta dei Sith”. Nella pagina a fianco, Spielberg ai tempi de “Lo Squalo”. In basso con Cruise in “Minority Report” Linklater: “Via col vento” era atteso quanto “Star Wars” “Ma l’arte dei kolossal non l’hanno inventata loro” SILVIA BIZIO Dunque non è cambiato niente LOS ANGELES rispetto agli anni Trenta? «Molto è cambiato, ma non in riichard Linklater, il regista ferimento ai blockbuster estivi e i texano che dodici anni fa lanciò kolossal popcorn. Il mutamento fa Matthew McConaughey e Ben Afperno intorno a una nuova generafleck con il cult indipendente La vizione di registi, tra cui mi ci metto ta è un sogno, autore di Prima delio, capaci di fare film commerciali l’alba e Prima del tramonto sa cosenza seguire necessariamente le me muoversi dentro e fuori lo “stuformule, o sintetizzando elementi dio system”. Gli attori, anche quelda altri mezzi. Un film come Three li di prima fila, fanno a gara per laKings di David O. Russell non savorare con lui. rebbe stato possibile senza lo stile Concorda con la teoria che il lanciato da Mtv». grande “blockbuster” estivo sia Lo stesso si potrebbe stato inventato da Spieldire di un successo degli berg e Lucas? anni ’60 come Easy Rider, «No. Hollywood è semnon le sembra? pre stata attenta e attratta «Easy Rider catturò lo dai grandi film. Si pensi a spirito del tempo, facenVia col vento: quando do confluire tutta una seuscì, con tutti quei grandi rie di istanze politiche e attori, c’era già un pubblisociali, la ribellione accuco pronto ad accoglierlo, mulata nel corso del deera “pre-venduto” quancennio, la rabbia della to La guerra dei mondi o guerra in Vietnam, il La vendetta dei Sith. Di nuovo oggi c’è semmai la Richard Linklater trionfo dell’essere hippie. È un film che ha toccato pratica del merchandiun nervo scoperto. Un’anomalia sing. Ma una volta i nomi di Clark che succede di tanto in tanto a HolGable e Vivian Leigh venivano lywood, ma non un caso clinico». sfruttati e pompati all’inverosimile Non pensa che film con Lo Squadagli studios, con gli stessi risultalo e il primo Guerre Stellari abbiati. E anche allora c’erano costosi no “infantilizzato” i gusti del pubfallimenti, come Cleopatra». blico ed esasperato le formule? C’era la stessa attesa alla vigilia «Niente affatto, erano originali dell’uscita di un film? allora come oggi, anche se in mo«Certo, Hollywood ha sempre do diverso, sono certi film indiprodotto i film-evento, che si suppendenti come Lost in Translapone possano sorreggere l’intero tion. La responsabilità va attribuiimpianto finanziario di uno stuta anche al grosso pubblico, che si dio. Si va da Quo Vadis a Ben Hur: accalca a vedere un I fantastici grossi film con centinaia di comquattro nonostante le pessime reparse, battaglie, grande spettacocensioni e la puerilità di fondo di lo, realizzati senza badare a spese. un film-fumetto. In fin dei conti Anzi, una cosa buona di oggi è che Hollywood dà al pubblico quello se un solo film va male non manda che il pubblico richiede a gran voun intero studio in bancarotta, coce. È qualcosa che, chissà perché, me è successo con I cancelli del cienon viene mai detto». lo di Michael Cimino». FOTO CONTRASTO/LUCAS FILM LTD R Nato a Modesto, in California, nel 1944. Inventore e in parte regista della saga di Star Wars, è autore di altri soggetti. Sua, fra l’altro, l’idea dell’archeologo Indiana Jones ti all’incapacità di adattamento ai nuovi gusti del pubblico: era l’epoca del Vietnam, della rivoluzione sessuale e dell’impegno politico, ma le major, gestite ancora da mogul inesorabilmente invecchiati, continuarono a proporre per un periodo troppo lungo prodotti, star, generi e soprattutto idee di un’epoca passata. Nello stesso anno di un disastro commerciale come Paint your wagon, diretto da un veterano come Joshua Logan, si registrò il clamoroso successo internazionale di Easy Rider, realizzato da un attore che non nascondeva la propria passione per le droghe come Dennis Hopper, il figlio ribelle di un’icona hollywoodiana come Peter Fonda, e un giovane con lo sguardo seducente e allucinato che rispondeva al nome di Jack Nicholson. Il film entrò in sintonia con i giovani di tutto il mondo, convincendo anche i produttori più conservatori che era necessario cambiare radicalmente direzione e adeguasi al clima dell’epoca. Archiviata definitivamente l’era degli artisti sotto contratto, gli studios si affidarono a una nuova generazione di cineasti diversi per talento e personalità, ma accomunati dalla capacità di dialogare con il pubblico giovane. Nel giro di pochi anni, insieme a Spielberg (Duel) e Lucas (L’uomo che fuggì dal futuro) ebbero finalmente la grande occasione Martin Scorsese, William Friedkin, Bob Rafelson, Francis Ford Coppola, Paul Mazursky, John Milius, Michael Cimino, Hal Ashby, Brian De Palma, Peter Bogdanovich e molti altri, che riconobbero in John Cassavetes il maestro indiscusso di questo spirito indipendente, e lanciarono a loro volta un’intera generazione di attori straordinari (da Al Pacino a Robert De Niro), sceneggiatori in grado di conciliare la grande lezione hollywoodiana con il linguaggio dell’epoca (Robert Towne), e fotografi, scenografi, costumisti, montatori e musicisti di altissimo livello. Hol- L’UOMO CHE FUGGÌ... AMERICAN GRAFFITI GUERRE STELLARI STAR WARS III È la prima opera di Lucas e risale al ’71: il futuro è popolato da uomini alienati Nel 1973 il regista affronta il tema del passaggio dell’adolescenza all’età adulta Sei Oscar per la trilogia, che a partire dal ’77, rivoluziona il genere fantascientifico Nel 2005 l’ultimo atto della seconda trilogia di Guerre Stellari 28 anni dopo il primo film lywood cambiò letteralmente pelle, e per la prima volta dalle origini della “fabbrica dei sogni” il potere venne accentrato nelle mani degli autori e non più dei produttori. La rivoluzione finì per coinvolgere anche cineasti nati in teatro (Mike Nichols), in televisione (Robert Altman) o geneticamente antitetici alle concezioni mainstream (Sam Peckinpah), che realizzarono alcuni dei film che simbolizzano più efficacemente quell’epoca: Il Laureato, Mash e Il Mucchio Selvaggio. Come raccontano il bel libro di Peter Biskind Easy Riders, Raging Bulls, furono prodotti nel giro di poco tempo una lunga serie di capolavori che vanno da Taxi Driver al Cacciatore fino a un film su commissione come Il Padrino. Ma la “hybris” di giovani registi improvvisamente troppo potenti portò con sé il seme della rovina: la fiducia assoluta accordata generò una serie di pellicole incomprensibili come The Last Movie di Dennis Hopper, e, cosa ben più grave per la mentalità hollywoodiana, fiaschi irrimediabili. Il remake del Salario della paura di Clouzot realizzato da Friedkin è ancora citato dai produttori come esempio di scandalosa presunzione registica, e lo stesso viene detto di At last long love e Daisy Miller di Bogdanovich, che pure veniva da tre grandi successi di fila. I comportamenti e le abitudini personali dei registi acuirono la crisi con i finanziatori sempre più sconcertati e insofferenti: Biskind si dilunga a parlare di droghe e festini, ma ciò che all’epoca apparve maggiormente insopportabile fu l’arroganza: Hopper urlò in una festa a un esterrefatto George Cukor che presto lo avrebbe sepolto insieme ai suoi compagni (una versione differente attribui- sce la battuta a Friedkin), e per un intero decennio furono i registi a farsi inseguire e corteggiare dai mogul. Ma a Hollywood nessun peccato è grave come quello dell’insuccesso economico, e in meno di un decennio i produttori delle major cominciarono a riconquistare il terreno perduto, attendendo il momento del definito riscatto. L’occasione venne offerta da I cancelli del cielo, il film che decuplicò il proprio budget durante le riprese e incassò talmente poco da far fallire la United Artists. Il fiasco planetario di quel grande ‘‘ George Lucas Devi trovare qualcosa che ami così tanto da voler assumere i rischi, saltare gli ostacoli e sfondare i muri che sempre ti troverai di fronte FOTO REUTERS GEORGE LUCAS film che risultava blasfemo anche per il coraggio di raccontare che la storia americana è costellata sin dalle origini da violenze e soprusi, segnò la fine della concezione autoriale di quella Hollywood. Cimino disse sin dall’inizio che lui e il suo film sarebbero diventati il capro espiatorio di una vera e propria lotta di potere, ma il vento ormai era cambiato, e non c’era regista che aveva giurato fedeltà agli insegnamenti di Cassavetes che non realizzasse film allineati ai dettami degli studios. Mentre Lucas e Spielberg realizzavano i prototipi dei blockbuster cominciarono le inevitabili epurazioni (Cimino), gli ostracismi (Bogdanovich), ed i graduali riassorbimenti, che hanno visto alcuni dei protagonisti dell’epoca recitare in prodotti puramente commerciali come Speed e Waterworld (Dennis Hopper) o convolare a nozze con potentissimi presidenti di major e ottenerne discussi finanziamenti (William Friedkin con Sherry Lansing, fino a qualche mese fa a capo della Paramount). La nascita del nuovo tipo di “summer movies” ha portato non solo alla realizzazione di film enormi e bruttissimi quali ad esempio Godzilla e Pearl Harbour, ma soprattutto a una serie di degenerazioni quali l’abuso del merchandising, e una costruzione narrativa impostata sin dal nascere su un potenziale franchising, che rende i film sempre più anonimi ed artificiali. Nella concezione prettamente industriale di una Hollywood in cui le major sono diventate proprietà di potentissimi conglomerati internazionali quali Sony, Viacom e Time Warner, nessuna obiezione qualitativa è valida di fronte a incassi importanti: la cifra raggiunta al solo botteghino da Godzilla è di 375 milioni di dollari. Il gigantismo che ha portato alla crisi degli studios sembra riproporsi ancora una volta per motivi squisitamente commerciali: ai compensi miliardari richiesti dagli attori e i registi si assommano costi di lavorazione a dir poco improbabili: il budget di Terminator 3 dichiara più di mezzo milione di dollari per le sole spese di trucco e 691mila dollari per il “lavoro di rifinitura per i dialoghi” (Neil Genzlinger si è chiesto sul New York Times: «Da quando c’è anche il dialogo in un film di Schwarzenegger?»). Come sempre accade nel mondo del cinema, tutto ciò non ha impedito la realizzazione anche di film di eccellente livello, ma all’energia ribelle di quel periodo si è sostituita una graduale normalizzazione, caratterizzata tuttavia dall’ascesa di molte donne nei ruoli di potere delle majors e, più recentemente, dalla nascita di una nuova generazione di autori, i quali stanno rivoluzionando per l’ennesima volta Hollywood: Paul Thomas Anderson, Sofia Coppola, Spike Jonze, Wes Anderson, Alexander Payne, David O. Russell, Todd Solondz e Richard Linklater. È un avvicendamento molto più dolce del precedente, e sull’iconoclastia della generazione degli anni Settanta prevale l’ammirazione e la gratitudine: Paul Thomas Anderson riconosce senza esitazione che Magnolianon esisterebbe senza America oggi di Altman, e Wes Anderson ammira sia Ashby (Rushmore è evidente ispirato ad Harold & Maude) che Cukor. E se Sofia Coppola è riuscita ad imporre un personale e notevole segno d’autrice anche per emanciparsi dall’impegnativa eredità del cognome, Three Kings di David O’Russell risulta un’ammiccante versione “light” del Il Mucchio selvaggio, mentre Solondz e Payne riconoscono le proprie influenze perfino in Italia: se il primo ha girato una sequenza di Storytellingche deriva direttamente da Bellissima, il secondo dichiara tra i suoi fari ispiratori Il Sorpassodi Dino Risi e Il Posto di Ermanno Olmi. 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 LUGLIO 2005 i sapori Sono il simbolo stesso della tavola nei mesi caldi, la base di mille ricette classiche, dagli spaghetti con le vongole all’impepata di cozze. Ma danno il meglio crudi, accompagnati da pane bianco, burro, pepe, limone e nient’altro. I pericoli però non mancano. Ecco i consigli per affrontare, senza rischi, questa esplosione di sapore Delizie estive Frutti mare di La grande tentazione da gustare al naturale LICIA GRANELLO Carmelo Chiaramonte Chef de “Il Cuciniere” (hotel Katane Palace di Catania) è uno dei più innovativi protagonisti della cucina siciliana. Il suo modo di cucinare “rivisita” in maniera creativa le materie prime isolane, a cominciare proprio dai frutti di mare PASSAMI L’ACETO 240 gr capelli d’angelo 12 fragole piccole ben mature 2 cucchiai di fragoline di bosco 60 gr robiola fresca di capra 8 cozze freschissime 2 ciuffi di menta 4 cucchiai di aceto vecchio o di Jerez 20 cubetti di ghiaccio Sale marino, cannella, extravergine intenso Cuocere e scolare i capellini passandoli nel ghiaccio. Condirli con menta, cannella, sale, olio e le fragole tagliuzzate. Mettere nei piatti una cucchiaiata di robiola, le fragoline e le cozze. Aggiungere la pasta. Arricchire con l’aceto Marco Fadiga Allievo geniale e mattocchio di Gualtiero Marchesi, gestisce nel cuore di Bologna insieme alla moglie francese Hélène il “Marco Fadiga Bistrot”, emporiooyster bar-ristorante , con il plateau di frutti di mare come fiore all’occhiello INSALATA “MIZUNA” CON MANDORLE DI MARE 200 gr insalata Mizuna (una sorta di rucola giapponese vellutata) 20 mandorle di mare, 1 pompelmo rosa pelato a vivo, 100 gr pinoli, 90 gr lardo, 2 pomodori di Pantelleria essiccati, tagliati a cubettini fini, Sale grezzo di Cervia, Pepe rosa macinato al momento , Coriandolo fresco tritato grosso Tostare i pinoli in forno a 140 gradi. Tagliare il lardo sottilissimo e rosolarlo in antiaderente. Miscelare olio, sale, succo di pompelmo, coriandolo, pomodori. Disporre nei piatti l’insalata con mandorle di mare e pinoli. Rifinire con vinaigrette e julienne di lardo calda, senza grasso di cottura C he cosa sarebbe una vacanza al mare senza la consistenza sugosa degli spaghetti con le vongole? Quanto soffriremmo se dai menù scomparisse la goduriosa speziatura dell’impepata di cozze? I frutti di mare sono il simbolo stesso dell’estate a tavola: a rischio di estinzione come i datteri di Punta Campanella, avvelenati come i mitili della laguna veneziana, a rischio di allergie come le ostriche. Però irresistibili: a patto, appunto, di poterli gustare senza rischi. Perché il frutto di mare vero, quello che si porta il mare dentro e sprigiona iodio puro, al primo morso, è allergico — lui sì — alla cottura. Non a caso, per molti anni la trasgressione gourmand applicata ai molluschi ha parlato, e in parte continua a parlare, francese. Chiunque abbia un debole per le ostriche lo sa bene: basta girare l’angolo di una strada, una qualsiasi strada di città o stradina di paese dalla Normandia alla Provenza — passando per Parigi, bien sure — per imbattersi in un banchetto che vende Belon e Fines de Claires, così, senz’altri accessori che qualche spicchio di limone e ghiaccio tritato in quantità. Da noi, con questa semplicità, dietro cui la freschezza è a dir poco esemplare, non vendono più nemmeno i cocomeri. La nostra “lettura” delle ostriche, come della barca a vela o del ristorante gourmand, è inquinata: quello che in Francia è passione da coltivare a nudo, senza orpelli — niente tazzine in nuance con l’accappatoio a bordo, niente vestito firmato per accedere a una supercena, le ostriche ingollate amorosamente per strada, con un bicchiere di Sancerre ben freddo — qui è prova provata di uno status sociale (o della pretesa di appartenervi). Certo, da noi le Asl metterebbero l’“ostricaro” alla gogna alla prima “dozzina” venduta: ma se uno dei traguardi dell’Europa unita è uniformare il maggior numero possibile di normative in uso negli stati membri, e i numeri di patologie su base alimentare premiano la Francia da decenni, forse vale la pena di copiare il loro approccio apparentemente disinvolto (avete presente la baguette portata sotto il braccio?). Nell’attesa, individuiamo chef o rivenditore di fiducia, indispensabili, e chiediamo di prepararci un bel plateau da assaporare a mani nude (ovviamente) e soprattutto con pochissimi dettagli a coté: pane bianco a fettine, qualche ricciolo di burro, pepe, limone “dolce” — come quelli della Costiera — per evitare che l’eccessiva acidità uccida il sapore. Il nome “frutti di mare” sottintende esattamente questo: se sono buoni, ma buoni davvero, vanno gustati al naturale, in modo da inebriarci narici e palato di mare. Per fortuna, dopo le stagioni orribili del colera, dei metalli pesanti, dell’epatite, anche in Italia si possono trovare molluschi di alta qualità: basta pensare ai “moscioli” che popolano le scogliere di Portonovo, difesi dallo Slow Food e preparati in cento modi squisiti su tutto il litorale marchigiano. Se ne sono accorti i cuochi, che integrano sempre più i frutti di mare nelle loro ricette, salvandone il sapore originario ed esaltandone la consistenza: è il caso dell’insalata di mozzarella di bufala e ostriche di Vittorio Fusari, delle cozze ripiene di Gennaro Esposito, dell’ostrica con schiuma di birra Guinness (rivisitazione del piatto tradizionale di Capodanno in Irlanda) di Marco Fadiga. Se siete ecogourmet, rifiutate recisamente chi vi propone i proibitissimi datteri di mare: impiegano 80 anni per arrivare a 8 cm di lunghezza. E siccome crescono all’interno delle rocce, per pescarli usano dalle picozze alle cariche esplosive, massacrando coste e fondali. Ripieghiamo — si fa per dire — sugli spaghetti con i ricci di mare: delicati, seducenti e facilissimi da trovare. Soprattutto sui fondali bassi nelle zone dove il mare è più pulito. OSTRICA MON AMOUR Il più lussuoso dei molluschi era già conosciuto dai greci. Ai Romani si devono i primi allevamenti, mutuati poi dai francesi, quando, a metà ‘800, i banchi naturali della Normandia cominciarono a esaurirsi. Le varietà sono ascrivibili alle tre tipologie-base: piatta (tonda), lunga e concava. Il consumo è principalmente crudo: una volta aperte inserendo la punta dell’apposito coltello, corto e largo, nella cerniera della conchiglia, e liberate della valva convessa, si appoggiano su ghiaccio tritato. Per gustarle al meglio, niente più che fettine di pane, qualche ricciolo di burro, spicchi di limone e pepe a piacere. La scelta del vino spazia dalla storica flute di Champagne ai vini bianchi aromatici e fruttati. In Irlanda, il piatto tipico di Capodanno è costituito da ostriche lunghe e birra Guinness Tellina Tartufo La sorella minore della vongola, ha forma quasi triangolare e dimensioni ridotte. È facile trovarla nella sabbia del bagnasciuga. È la base di una zuppa delicata La conchiglia è ruvida, con sfumature dal giallo al grigio. Perfetto da gustare crudo (ma anche in sautée è buonissimo), ha sapore delicato, carne elastica e soda DOMENICA 17 LUGLIO 2005 Codigoro (Fe) LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 itinerari Anzio (Rm) Marina del Cantone (Na) Fiorente porto commerciale in epoca etrusca, subì le prime bonifiche importanti a metà del Cinquecento grazie ai Duchi d’Este. È sede di una delle più ampie e popolari aree faunistiche italiane, la “Città degli aironi”, che è diventata un vero paradiso dei birdwatchers Costruita sul promontorio che domina il porto Innocenziano, è stata uno dei luoghi di vacanze preferiti dai protagonisti della dolce vita romana. Lungo i 12 chilometri di litorale si affacciano parchi e pinete. È luogo d’elezione per la cucina di pesce Lo sbocco sul mare di Sant’Agata sui due golfi è affacciato sul golfo di Salerno tra la baia di Jeranto e Recommone. Luogo di vacanze e commercio dei Romani, vanta una bella spiaggia in ciottoli ed è approdo di golosi tra i più importanti della Campania DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE AGRITURISMO CAMPELLO Via Zarabotta, 3 Tel. 0533-713665 Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa HOTEL MAROCCA Via della Liberazione, Nettuno Tel. 06-9854241 Camera doppia da 70 euro, colazione inclusa TAVERNA DEL CAPITANO (CON CUCINA) Piazza delle Sirene 10 Tel. 081-8081028 Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE LA CAPANNA DA ERACLIO Loc. Ponte Vicini Nord-Ovest Tel. 0533-712154 Chiuso mercoledì e giovedì, menù da 40 euro DA ALCESTE AL BUON GUSTO Piazzale Sant'Antonio 6 Tel. 06-9846744 Chiuso martedì, menù da 40 euro I QUATTRO PASSI (CON CAMERE) Via Vespucci 13/n Tel. 081-8082800 Senza chiusura estiva, menù da 50 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE MERCATO ITTICO Via del Mercato Nuovo 18 - Goro PESCHERIA DEL GATTO Via Gramsci 21 06-9848167 IRSVEM Via Lucullo 43, Baia-Bacoli Tel. 081-8687633 Cappasanta La conchiglia di San Giacomo, simbolo del pellegrinaggio a Santiago de Compostela viene chiamata anche pettine. All’interno, si scarta la parte marroncina Lumachina È piccola, con una conchiglia a spirale chiusa da un piccolo coperchio duro. Dopo la cottura, e tolto l’opercolo, si estrae la carne con uno spillo o uno stuzzicadenti Fasolaro È un Veneride di grandi dimensioni, fino a 10 cm di larghezza, dalla conchiglia liscia e rossastra. Trionfa crudo nel plateau, o si cucina come le vongole Vongola Sotto questo nome sono intesi diversi esemplari della famiglia dei Veneridi. Il più pregiato è la Venere (vongola verace o cornuta). Va cotta pochissimo o s’indurisce Cozza Riccio Il più popolare mollusco deve essere venduto vivo, con sigillo d’origine e data di produzione. Tra le varietà migliori, oltre alla cosiddetta comune, la spagnola e la pelosa Ha aculei robusti, colore da nero a viola secondo le varietà, e un inimitabile gusto dolce-salmastro, accentuato in primavera, quando la parte rossa (gonadi) è gonfia e ricca 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 LUGLIO 2005 le tendenze Prodotti d’eccellenza È tempo di premi per i creativi di tutto il mondo: le riviste più prestigiose hanno già stilato o stanno per pubblicare le classifiche, fatte per orientare il mercato e offrire una ribalta alle idee vincenti: che quest’anno sono quelle capaci di rispondere al bisogno di conforto emotivo dei consumatori Design IN ATTESA DI ALTRO TROFEO Pensilina di attesa bus, progettata da Fausto Colombo e Lorenzo Forges Davanzati per il Consorzio Arredo Urbano. È stata premiata al Compasso d’Oro dell’Adi Il trionfo delle emozioni AURELIO MAGISTÀ C i sarà pur qualche ragione se il mondo del design ha tanta voglia di mettersi sotto esame: premi, classifiche e selezioni di prodotti sono un’infinità in tutto il mondo. Tanto per avere un dato puramente indicativo, cercando su Google “fashion award”, vengono selezionati meno di 7 milioni di siti. Con “design award” ne risultano oltre 47 milioni. È come se il sistema design soffrisse di ansia da prestazione permanente, avesse sempre bisogno di mettersi sotto esame per confermarsi la propria eccellenza come un mantra. Al punto da giudicare perfino i prototipi e i progetti degli studenti di design. L’interrogativo arriva nella congiuntura giusta: BusinessWeek ha da poco pubblicato i risultati di Idea, acronimo che sta per Industrial Design Excellence Awards, è uscito The Annual Design Directory, numero speciale della rivista Wallpaper, e intanto sono in preparazione l’Annual Design Review, numero unico di I.D. — International Design e il 2005 Student Design Review, in cui la rivista fa il talent scout e va nelle scuole a scovare le creazioni più interessanti. In Italia c’è uno dei premi più importanti: il Compasso d’oro dell’Associazione Industriale Design, ideato da Giò Ponti e creato dalla Rinascente nel 1954, prima ancora della nascita dell’Adi. Il presidente Carlo Forcolini ha le idee chiare: «Non so a che cosa servano i premi, ma so a che cosa è servito il Compasso d’oro. Nato per migliorare la qualità dei prodotti della grande distribuzione, e proprio per incoraggiare la produzione, dava anche un’importante somma di denaro. Tra le altre cose ha contribuito nel corso del tempo a dare notorietà e respiro internazionale al design italiano, selezionando e divulgando tanti prodotti creati per aziende italiane da designer stranieri». Superati i cinquant’anni di attività, il Compasso d’oro resta tra i riconoscimenti di eccellenza internazionale. E intanto si reinventa una seconda giovinezza. «Stiamo organizzando una metodologia di lavoro», precisa Forcolini, «attraverso la creazione di osser- La fredda razionalità non basta più. Oggi si affermano oggetti che coinvolgono e stimolano i nostri sentimenti vatori permanenti su scala regionale, per realizzare una selezione approfondita della produzione italiana. Vogliamo far emergere i prodotti davvero originali, ma anche aiutare il settore a fare sistema, come va di moda dire oggi». In realtà chiedersi a che cosa servano i premi è una domanda pericolosamente generica, considerato che sono davvero tanti e molto diversi tra loro. Tuttavia, si può provare a dare qualche risposta. Naturalmente, dinanzi a tanta abbondanza di riconoscimenti, viene il pensiero malignetto che in fondo un premio non si nega a nessuno. Pensiero fondato, come d’altra parte accade con i premi letterari e perfino con l’Auto dell’Anno, distribuiti regolarmente fra i grandi secondo la più ortodossa par condicio. Come editori e scrittori, anche designer e produttori costituiscono una comunità, solo che è più internazionale e, soprattutto, meno velenosa. Tra i marchi di vertice corre una non celata stima reciproca e, confermando quell’ansia da prestazione che forma il sentimento generale, si osservano per ammi- L’INNOVAZIONE IN SALOTTO Premiato con l’Interior Innovation Award di Colonia, è Facett dei fratelli Bouroullec. Per Ligne Roset rarsi, ma anche per valutarsi e avvistare qualsiasi significativa novità altrui, scongiurando il rischio di restare indietro. Questa è infatti una delle prime ragioni del bisogno di competere e premiare proprio del design: una sana voglia di misurarsi, il desiderio di emulazione che tiene viva la gara permanente verso il meglio, il nuovo e il sorprendente. Il design ha un motore sempre su di giri. La competizione stimola la ricerca e garantisce il progresso. Altre due ragioni che aiutano a spiegare la proliferazione di premi derivano dai principali problemi dell’arredamento di qualità, sintetizzati da Peter Hefti, di Molteni & C. «Spiegare al pubblico le ragioni di prezzi non proprio popolari e raccontare l’identità e i cambiamenti del marchio come una coerente idea materiale dell’innovazione. Informazioni che la gente dovrebbe avere nei negozi». Invece i negozi spiegano poco o tacciono. I premi e, ancor più, le selezioni delle riviste più autorevoli, servono anche a spiegare i contenuti di innovazione e gli elevati standard qualitativi che fanno la differenza di prezzo dei prodotti di design. Mettere a fuoco le tendenze è un’altra importante funzione dei concorsi: materiali, forme, colori, nuovi designer, stili abitativi emergenti affiorano agli occhi del grande pubblico grazie al lavoro certosino di giurie e redazioni specializzate. Perché, anche se si sceglie ogni oggetto in sé per sé, esiste poi uno spirito del tempo, un comune sentire che conduce i creativi a muoversi più o meno misteriosamente con una coerenza complessiva, secondo tratti distintivi comuni. In questo periodo, per esempio, lo spirito del tempo si ribadisce nel forte desiderio di oggetti emozionanti. Nelle ceneri del 2001 è finito anche il minimalismo, e da allora il valore funzionale, per quanto importante, è diventato meno essenziale. Continua a propagarsi l’onda lunga del bisogno di conforto emotivo. Secondo Donald Norman, autore del libro Emotional Design, questo bisogno non è solo contingente, legato al difficile momento di crisi economica e di grande tensione internazionale, ma più profondo. «La nostra civiltà ha sempre dato il primo posto alla razionalità — dice — ma le emozioni riguardano la nostra natura profonda e sono essenziali per regolarsi nelle basilari scelte della vita quotidiana: questo è sicuro o pericoloso, buono o cattivo? Sono domande che coinvolgono le nostre emozioni prima della ragione. Oggi stiamo imparando ad ammettere l’importanza, per la sopravvivenza del genere umano, dell’intelligenza emotiva. Che naturalmente deve lavorare insieme al raziocinio». FRUTTI DELLA CREATIVITÀ A sinistra, Fruit Loop di Lisa Vincitorio per Alessi, la fruttiera premiata all’ultimo Salone Satellite di Milano. Sopra, dosatori di sale e pepe a colonna i Sapidi, di Alessandro Loschiavo per Aliantedizioni. Sono stati anche selezionati dalla rivista I.D. I RICONOSCIMENTI Tutti i paesi più importanti hanno almeno un premio di design. Da segnalare, gli Industrial Design Excellence Awards (Idea) della Industrial Designers Society of America, che seleziona progetti in grado di migliorare la qualità della vita, l’Interior Innovation Award di Colonia, i Design Awards del Design Museum di Londra, e, per allargare un po’ gli orizzonti, l’Australian Design Award, il giapponese Good Design Award. In Italia il più importante è il Compasso d’Oro della Associazione Disegno Industriale e il Promosedia International Design Competion. Da ricordare i premi, le selezioni e le classifiche di autorevoli riviste come I.D. International Design Magazine, WallPaper e, per gli oggetti tecnologici, Wired, che ogni anno dedicano un numero speciale all’argomento. (eva grippa) PIETRE MILIARI MORBIDE CURVE MUSIC BOX CAFFÈ COI BAFFI RIGORE E AROMA PRONTO, GRILLO? CARATTERI NOBILI Questa sedia Thonet del 1902 è un limpido esempio della difficile arte di curvare il legno, ancor oggi esemplare La radio Brionvega Ls 502, chiusa sembrava una scatola. Di Richard Sapper e Marco Zanuso, 1964 La Moka Express, progettata da Alfonso Bialetti negli anni Trenta, è in alluminio e bachelite Con modifiche, resta quello: il flacone, esemplare nel suo rigore, dello Chanel N.5, creato da Coco nel 1921 Grillo, telefono bello e molto più piccolo dei suoi coevi (1965). Anche lui è una creazione di Sapper e Zanuso La plastica si nobilita: la portatile Valentina (1969) è di Ettore Sottsass e Perry A. King per Olivetti DOMENICA 17 LUGLIO 2005 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 GRANDI CREATIVI MICHAEL THONET WALTER GROPIUS LE CORBUSIER ALVAR AALTO VICO MAGISTRETT PHILIPPE STARCK Dall’artigianato alla prima industria: nel 1841 brevetta la tecnica di curvare il legno con il vapore Nel 1919 fonda il Bauhaus. Essenziale il rilievo dato all’integrazione fra aspetti teorici e pratici del design Impressionante la sua capacità di dedicarsi con la stessa facilità all’urbanistica e alle chaises longues Maestro della scuola scandinava, ha riscoperto il valore del legno curvato, ispirandosi a Thonet Decano dei designer italiani, eclettico come pochi, esibisce ancor oggi una curiosità creativa invidiabile Sapiente comunicatore, mescolando provocazioni e bellezza è diventato la prima vera star del design ORA MOBILE Il display del MINI_motion Watch si muove da orizzontale a verticale per facilitare la lettura, per esempio in bici. Premiato da Idea Sottsass: no allo show del benessere “Dobbiamoriscoprire l’anima delle cose” SEDOTTI DALLA MOTO Sopra, la Wraith di Confederate Motorcycles, la moto “più sexy del mondo” secondo I.D. Ne verranno relizzati solo sessanta esemplari l’anno ALESSANDRA RETICO ARTIGIANATO ARDITO Don’Do coniuga spirito artigianale e arditezze di design. Di Jean-Marie Massaud per Poltrona Frau. Selezionata dalla rivista I.D. IN PUNTA DI PIEDI NELL’AMBIENTE Il contributo di Nike al rispetto ambientale. La Considered Boot, in pelle, canapa e altri materiali assemblati senza uso di colle, è tutta riciclabile. Nella produzione, fa risparmiare il 61 per cento di scarti di materia prima, il 35 per cento di energia e l’89 per cento di solventi rispetto alla media. Primo premio Idea, categoria Consumer Products IL TRICICLO TRASFORMISTA Pensata per chi deve imparare ad andare in bici, la Shift Bike sta in equilibrio come un triciclo grazie alle ruote posteriori che, aumentando l’andatura, si avvicinano e diventano parallele. Primo premio di Idea per la categoria Design Explorations «È un bene che tutti abbiano l’auto per andare con la famiglia al mare. Ma se poi lì trovi diecimila altre auto, quello che vedi è un parcheggio, non il mare». A Ettore Sottsass piace fare questi paragoni, gli piace raccontare il mondo con le piccole cose. È la poetica che ha ispirato i suoi lavori da designer e architetto tra i più lucidi e puri del Novecento, tra quelli che pensano ancora che «gli oggetti debbano essere utili e umani, non prodotti senz’anima il cui unico scopo è essere venduti». Si riferisce agli eccessi del design industriale? «Parlo della degenerazione del design industriale. Agli inizi non era così, si sperava di migliorare il mondo producendo oggetti utili. Dalla Seconda guerra mondiale a oggi, con l’aumento della popolazione e del benessere, sono cresciuti bisogni e desideri. L’industria li ha soddisfatti, ma ne anche creati di nuovi, fittizi, introducendo nel mercato e nella gente un’ossessione del possesso. Merce che è spettacolare e nient’altro, deprivata di quel senso civile ed etico che era nel linguaggio del design del primo Novecento. E come era nel design della preistoria, dopotutto: si disegnava sugli ossi per dire “esisto” o “sogno”. Oggi gli oggetti dicono solo se stessi». Lo spettacolo della merce. «Sì, uno show del benessere che però non porta ma sottrae benefici. Si pensi solo alla presenza del petrolio per produrre le plastiche. Le case si riempiono di simulacri del bene, il mondo si ammala e si svuota. La tecnologia non è responsabile della corsa e della furia che ci ha presi. Come al solito, se usata bene, è utile e buona, persino poetica, come piace a me. Di recente ho detto no a un’industria che mi ha chiesto di realizzare proIL MAESTRO getti aberranti, scandalosi dal Nella foto qui sopra, punto di vista civile, della dignità e Ettore Sottsass, della nobiltà dell’essere umano. pittore, architetto Ecco quello che vogliono, prodotti e designer che sono deformazioni della natura. No, l’avrà capito: non sono così fatalmente ottimista sul futuro. Paura, crisi, attese e solitudini. Quello che si crede benessere, gli oggetti che lo dovrebbero rappresentare, complicano il reale, autoalimentano l’ansia così moderna di dover avere». Ha parlato di linguaggio del design. Non crede che quello contemporaneo, per quanto discutibile in certi casi, risponda a una necessità di incantarsi, di anestetizzare la paura? «Un tempo si disegnavano oggetti che avevano a che fare col sogno, con un’idea di stare nel reale con fantasia e corpo. Oggi invece si producono illusioni, involucri vuoti, senza poesia e senza messaggi. Belli, spettacolari, stupefacenti anche nel senso di assopire la coscienza critica, placare l’ansia e mistificare il reale. Quindi sì, forse l’obiettivo è anche quello di reagire con lo spettacolo alla guerra, ai massacri, alle bugie. Ma così non si va lontano. Sarò datato, ma mi manca l’etica, manca nelle cose che si fanno oggi quell’aura magica ma anche così concreta e materica della dimensione umana e sociale. Ecco: il design di oggi è un gesto individualistico, narcisistico, è un’emozione privata. Scollegato dalla vita quotidiana, senza forza poetica e politica, anche». Adesso dove si trovano quelle energie? «Per esempio nell’arte africana, classica e contemporanea. Ho curato l’allestimento delle mostre contenute in Arts of Africa al Forum Grimaldi di Montecarlo (fino al 4 settembre, n.d.r.) perché me l’ha chiesto un amico collezionista, Gianni Pigozzi. Vederla è farsi un bagno di purezza, di coscienza, di responsabilità. Certi oggetti dell’arte tradizionale africana non li capiamo nemmeno, ci sembrano opere e invece magari sono strumenti pratici di cerimonie e riti. Si sente che c’è del mistero, questo sì, un qualcosa di magico che anche l’arte africana contemporanea conserva. E quel magico, quell’aura di cui parlavo prima, non viene solo dall’essere oggetti legati alla religione, ma al territorio, alla terra, alle mani che li hanno fatti, alle relazioni umane che l’hanno reso possibile, alla febbre di un bambino o alla casa da riparare del vicino. La forza dell’oggetto sta nel somigliare a una strada, all’ora assolata che lo ha maturato». 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 17 LUGLIO 2005 l’incontro Stasera a Spoleto si chiude il Festival dei Due Mondi. E su una terrazza della città umbra l’uomo che l’ha inventato si confessa. Rinnegando la sua creatura. “È l’errore della mia vita, mi ha preso soldi, energia e concentrazione”. Ma non c’è solo amarezza nei ricordi di questo magnifico 94enne. C’è l’amicizia con i personaggi più geniali del secolo, da Ionesco a Neruda, ci sono amori, passioni, peccati. E due autentici miracoli Grandi maestri Gian Carlo Menotti ovantaquattro anni: li ho compiuti qualche giorno fa qui a Spoleto, come al solito durante il festival. Un’età davvero incoraggiante». Prego, maestro? Ha detto incoraggiante? «Più invecchio e più mi sento bene. Come se mi alleggerissi. E al tempo stesso mi fortificassi. L’anno scorso ero in sedia a rotelle. Brutta sensazione. Perciò decisi di lavorare sul problema per mio conto. Adesso guardi, faccio le scale da solo. So amministrare questo mio vecchio corpo. Evitando i medici e curandomi con tante vitamine e con l’erboristeria. Ho un’intera biblioteca di libri sulle erbe, e continuo a scoprirvi miracoli nuovi, come il Chapparal, un’erba indiana prodigiosa». Altro che Chapparal, altro che vitamine. L’autentico prodigio è lui, Gian Carlo Menotti, aristocratico e sottile, elegantissimo, pieno di fascino nel suo pallore levigato, nella calma ironica e vagamente assente, nella sensualità dolce del vivere che ancora lo coinvolge, e gli fa bere champagne alle due del pomeriggio, davanti a un piatto di gnocchi alla romana fatti in casa, talmente buoni che il maestro chiede il bis. Il caldo è confortato appena dalla brezza che entra dalle finestre della bella casa terrazzata dove il compositore e fondatore del Festival dei Due Mondi si trasferisce in estate con il figlio Francis, proprio di fronte a Piazza Duomo, con le vetrate del salotto che guardano la facciata rosea della chiesa. È su questa piazza che si chiuderà stasera, con il consueto appuntamento del concerto conclusivo (stavolta tocca alla Filarmonica di San Pietroburgo diretta da Temirkanov, con musiche di Ciaikovskij e Rachmaninov), Santuario della Madonna del Sacro Monte a Varese: la mia gamba ne uscì completamente guarita. Poi ci fu il miracolo di Padre Pio». Lo ha conosciuto? «Andai a trovarlo quando scrissi l’opera La Santa di Blecker Street, volevo farmi ispirare da qualcuno in odore di santità. Emanava un profumo inebriante di viole, e ho visto da vicino le sue stimmate, doveva tenere sempre accanto a sé una salvietta, andavano asciugate di continuo. Mi diede la sua benedizione e disse: Dio ti ha dato grandi doni, devi usarli per la sua gloria. Con me c’era una giovane principessa, una donna birichina. Padre Pio le diede uno schiaffo sulla guancia e la mandò via». E lei, Menotti? Non era birichino? «Sì che lo ero. Ma Padre Pio preferì non tenerne conto. Ho sprecato anni in birichinate. Per vanità, leggerezza, egoismo. Per via del festival, a cui ho dato troppo. Alla morte di mia madre ereditai un appartamento di quattordici stanze a Milano. Soffocato dai debiti dovetti venderlo subito. Ero dispera- “La morte non mi fa paura perché credo in Dio”, dice il compositore. “Ma devo deludere chi mi vuole sottoterra. Non me ne andrò tanto presto: alla mia età guardo serenamente al futuro” FOTO ANSA «N SPOLETO la 48esima edizione del Due Mondi. Il festival nacque mezzo secolo fa come un’utopia meravigliosa, o almeno così pareva al suo inventore: «All’epoca ero un musicista innamorato dell’arte e animato da grandi slanci sociali. Volevo rendermi necessario a una comunità, dimostrare che l’arte non è solo piacere e cultura, ma può essere il pane di un paese. Avevo un tremendo bisogno di rendermi utile e sentirmi amato. Forse, se non mi fossi impicciato qui a Spoleto, avrei fatto l’infermiere. Negli anni ho visto crescere una città ideale dove musica e teatro, arte e poesia, si mescolavano in un cocktail speciale, e i giovani artisti potevano esprimersi senza pagare balzelli o scendere a compromessi». Per molto tempo il festival fu spassoso e innovativo, mondano e preveggente, punteggiato da scandali eccitanti e capace di cambiare il volto delle arti sceniche in Italia: il Due Mondi seppe scoprire, svelare, lanciare nomi e tendenze. Facendosi attraversare dalle provocazioni di Allen Ginsberg e dal fuoco flamenco di Antonio Gades, dalle architetture fredde di Bob Wilson e dall’esoterico teatro di Grotowski. Ospitando il glorioso periodo Visconti-Schippers e dando i natali a capolavori come la Napoli milionaria di Eduardo-Rota, l’Orlando Furioso di Ronconi e La Gatta Cenerentola di De Simone. Accogliendo personaggi come Ezra Pound e Roman Polanski, Jerome Robbins e Romolo Valli, Lila De Nobili e Nureyev. «Scovavo gli artisti e soprattutto i creatori, li tampinavo, li inseguivo per farli venire a Spoleto. Ho sempre avuto un’ammirazione sconfinata per il genio creativo, e di autori ne ho conosciuti tanti. Ionesco, Neruda, Stravinskij, Cocteau, Thomas Mann, l’adorabile Ungaretti. E Beckett, che quando gli chiesi di scrivere un testo per Spoleto mi propose la storia di un respiro a sipario chiuso, che s’intensifica in un crescendo sempre più affannoso, mentre s’alza il sipario. Poi si accendono di colpo le luci, illuminando un enorme cumulo di merda al centro della scena. Fine della pièce. Gli dissi grazie, idea geniale. E naturalmente non mi feci più sentire». Vista da casa Menotti, Spoleto si offre allo sguardo come uno squarcio di paradiso. «Invece per me è diventata un inferno, da tempo mi sono reso conto che il festival è stato l’errore della mia vita. Mi ha preso soldi, energia, concentrazione. Mi ha distolto dall’unica cosa che avrebbe dovuto assorbirmi veramente: la creazione musicale. Che esige rigore e fedeltà. Non ho composto abbastanza, non quanto avrei potuto e dovuto. Morirò pieno di rimorsi nei confronti della mia musa. Per il resto la morte non mi fa paura. Credo in Dio perché credo ai miracoli: sono stato miracolato due volte. La prima quand’ero piccolo. Ero zoppo, e la mia balia mi portò al to. Fu allora che Padre Pio accorse in mio aiuto, e fui premiato dal secondo miracolo». Ce lo racconti. «Da Philadelphia mi chiamò una sconosciuta che mi disse: sono una suora di clausura, vorrei commissionarle un lavoro. Mi chiese di comporre una cantata su Santa Teresa. Suo padre era a capo di una grande banca americana, potevo essere pagato bene. E lei si chiamava Suor Pia. Le chiesi come mai aveva pensato a me. Perché sono devota a Padre Pio, rispose: è stato lui a comunicarmi il tuo bisogno d’aiuto». Menotti birichino, Menotti mistico. Non c’è vita senza doppia vita. «Credo nell’anima. L’ho percepita quando ho visto morire Samuel Barber, un’amicizia tra le più profonde e durature della mia vita. Lo conobbi quando, negli anni Venti, andai a studiare musica a Philadelphia. Avevo solo 16 anni. Fu per consiglio di Arturo Toscanini che mia madre, disperata per quest’enfant prodige che non combinava nulla, mi spedì coraggiosamente negli Stati Uniti. Fuori da Milano!, le ingiunse Toscanini. Lo lasci solo! Lo butti in America! Gli faccia studiare la musica sul serio! E lei, che era musicista e donna temeraria, mi iscrisse al Curtis Institute of Music di Philadelphia, dove ebbi come insegnante Rosario Scalero. Uomo straordinario e crudele, ci faceva sgobbare sul serio. Fu al suo corso che conobbi Barber, che divenne per me l’amico più amato. Quando lo vidi morire mi fu chiarissimo che la sua anima abbandonava il corpo, volandogli via dal volto nel momento del trapasso. Ora Samuel sta in una delle quattro tombe che mi aspettano in giro per il mondo». Quattro? «Una è a Cadegliano, vicino a Varese, dove sono nato e c’è la mia cappella di famiglia. La seconda è a Westchester, ed è quella dove riposa Samuel, che prima di morire comprò un po’ di terra anche per me. La terza è in Scozia, dove vivo adesso. Poi c’è Spoleto, l’ingrata Spoleto. Dicono che qui vorrebbero farmi i funerali». Parla della morte soavemente, senza affanno: guardare indietro, maestro, non le fa male? Ripensare agli amori, per esempio? «Io, nella vita, ho sempre amato troppo. In modo possessivo, travolgente, passionale. Quante volte mi sono fatto accecare dall’amore sessuale. È stata la mia grande debolezza. Ora, però, il sesso è solo un ricordo strano. Inevitabile che sia così, oggi il mio basso ventre è in ribasso». Lo dice sorridendo, divertito e pacifico. Nonostante lo champagne e l’afa del primo pomeriggio, neanche una goccia di sudore altera la compostezza di questo formidabile charmeur, mani bellissime, presenza delicata, conversazione venata da sfumature inglesi. «Ho vissuto tanto in America, dove le mie opere hanno riscosso i maggiori successi. In Italia non hanno mai capito veramente la mia musica, ho sempre scontato la colpa di non aver militato nell’avanguardia, di amare la melodia, di essere rimasto fedele al linguaggio tonale. Da molti anni ho scelto di abitare in Scozia, a Yester House, dimora settecentesca a pochi chilometri da Edimburgo, dove sono circondato da vicini deliziosi, come la Duchessa di Hamilton. E mai che questi amici scozzesi, quando arrivano in vacanza a Spoleto, mi abbiano chiesto un favore, per esempio di far lavorare un figlio o una figlia. Sono così discreti! Invece gli italiani vivono di clan e mafie, non fanno che chiedere raccomandazioni. Anche per questo in Italia torno malvolentieri. Arrivo solo per il festival, di cui ormai si occupa mio figlio Francis, e lo fa benissimo, a dispetto dei nemici. Qui a Spoleto tutti ci sono contro, dopo tanti anni stiamo ancora a supplicare per avere gli spazi, dobbiamo pagare l’affitto delle sedi, dare soldi al Comune, all’Arcivescovado... «. La storia della querelle tra i Menotti e Spoleto circola ogni estate, come un consunto e prevedibile tormentone stagionale. Che si ripete almeno dal ‘99, anno in cui Gian Carlo, con decisione contestata e discutibile (può un festival alimentato da sovvenzioni pubbliche considerarsi un titolo ereditario?), decise di cederne la direzione artistica al figlio Francis, ex attore, nato a Philadelphia nel ‘38, adottato dal maestro a 17 anni e sposatosi con un’americana di stirpe illustre (Rockfeller), che gli ha dato due figli, Claudio e Cosimo, adorati dal nonno. «Checché ne dicano fa magistralmente il suo lavoro, trova gli sponsor, ha imparato da me cosa vuol dire organizzare un buon programma. Invece qui, da troppi anni, mi vorrebbero morto per dare il festival in pasto a chissà chi, magari per farne una specie di Sanremo. Che aspettino pure, non me ne andrò tanto presto, a novantaquattro anni guardo serenamente il mio futuro». ‘‘ LEONETTA BENTIVOGLIO