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Marea nera, disastro globale

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Marea nera, disastro globale
AS 07-08 [2010] 513-522
Fatti e commenti
Chiara Tintori *
Marea nera,
disastro globale
513
Verso quale futuro energetico?
N
egli ultimi mesi abbiamo assistito impotenti
a due incidenti ambientali, diversi per dimensioni e conseguenze ma con due costanti: il petrolio e il mare. L’ultimo, in ordine di tempo, è del 25 maggio 2010: al
largo di Singapore, una petroliera entra in collisione con una nave cargo, provocando la fuoriuscita in mare di circa 2mila tonnellate di greggio. Ma il disastro
che per la sua eccezionalità ha catalizzato l’attenzione mediatica è stato quello
verificatosi un mese prima, nel Golfo del Messico, dove l’esplosione della piattaforma petrolifera offshore (in mare aperto) Deepwater Horizon ha provocato la
morte di 11 delle 126 persone a bordo, e la fuoriuscita fra i tre e i cinque milioni di litri di greggio al giorno. Ancora oggi il pozzo continua a versare in mare
petrolio e l’entità dei danni ambientali e sociali è incalcolabile, per quello che a
tutti gli effetti è il più grande disastro petrolifero della storia degli Stati Uniti 1.
Ogni incidente porta con sé commenti più o meno graffianti, indignazione
temporanea da parte dell’opinione pubblica, inchieste politiche, dichiarazioni di
intenti da parte delle compagnie petrolifere, ma finché rimarremo così fortemente dipendenti dal petrolio, dovremo rassegnarci a continuare a pagarne il
prezzo sociale, ambientale ed economico. È inevitabile pagare questo prezzo per
soddisfare il nostro fabbisogno energetico? Quanto durerà ancora la «nostra
sete inestinguibile di carburanti fossili» 2? Quanto ancora siamo disposti a sopportare le conseguenze della ricerca, estrazione e raffinazione del petrolio,
condotte in modo spregiudicato?
Prendendo le mosse dall’incidente alla piattaforma Deepwater Horizon, il
presente contributo è un’occasione per riflettere sul nostro modello energetico,
fortemente dipendente dai combustibili fossili (petrolio, carbone e gas naturale)
e sulle alternative praticabili.
* di «Aggiornamenti Sociali», <[email protected]>.
1 Finora questo triste primato era stato della petroliera Exxon Valdez, incagliatasi in una scogliera nel
Golfo dell’Alaska il 24 marzo 1989: quasi 41 milioni di litri di petrolio si riversarono in mare.
2 Zucconi V., «Una nuova Ground Zero nel mare della Louisiana», in la Repubblica, 24 maggio 2010.
© fcsf - Aggiornamenti Sociali
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Chiara Tintori
1. I fatti
Che cosa è accaduto nel Golfo del Messico? Quali sono le conseguenze di
questo grave disastro sull’ecosistema? Ricostruiamo di seguito l’accaduto e i
tentativi di limitare la fuoriuscita di petrolio dal pozzo sottomarino e la diffusione della marea nera, non priva di conseguenze ambientali.
a) L’esplosione e il pozzo Macondo
Tutto è iniziato la notte tra il 20 e 21 aprile 2010, quando un’esplosione ha
investito la piattaforma di trivellazione offshore Deepwater Horizon 3, situata nel
Golfo del Messico a 50 km dalla costa della Louisiana e gestita, per conto della
British Petroleum (bp) 4, dalla multinazionale Transocean. L’esplosione si è verificata all’inizio della messa in produzione di un pozzo, chiamato Macondo, a
quasi 1.600 metri di profondità, quando il lavoro della Deepwater Horizon era
ormai concluso, poiché l’estrazione del petrolio avviene con un’altra infrastruttura. Una volta terminata la perforazione, durante le operazioni di messa in sicurezza del pozzo, qualcosa non è andato come previsto. È presto per sapere
quali siano state le esatte cause dell’esplosione; l’unica certezza è che la valvola di sicurezza installata nella trivella non ha funzionato a dovere, cioè non
si è chiusa 5. Un imprevisto che ha spiazzato gli ingegneri della bp, certi che la
punta di diamante dei loro sistemi di sicurezza avrebbe funzionato anche a quelle profondità. Il disastro avrebbe potuto essere impedito se la Deepwater Horizon
fosse stata dotata di un ulteriore interruttore per l’arresto della fuoriuscita di
petrolio 6 e se la bp non avesse risparmiato sui materiali di rivestimento del pozzo sottomarino 7.
Dopo tre giorni in cui la piattaforma ha continuato a bruciare, provocando
una colonna di fumo alta un chilometro, il 24 aprile è affondata, portando con
sé i 2,6 milioni di litri di greggio che aveva a bordo.
3 Tecnicamente il Transocean Deepwater Horizon non è una piattaforma come siamo abituati a vederne
nel Mare Adriatico, è un cantiere di perforazione, un grosso trapano grande come un campo da calcio e alto
un centinaio di metri, che non poggia sul fondo del mare, ma galleggia, ancorato al fondo e tenuto in posizione da sistemi satellitari.
4 Cfr <www.bp.com>.
5 La valvola Blow Out Preventer (BOP) è un dispositivo antieruzione, dotato di tutte le saracinesche necessarie per chiudere il pozzo in caso di emergenza. È grande come una casa a due piani, e viene situato in
fondo a migliaia di pozzi di perforazione.
6 La BP non aveva acquistato l’interruttore «shut-off switch», la cui efficacia era stata messa in dubbio
dalla società che eseguiva la perforazione, a fronte di un costo ritenuto eccessivo. Inoltre la Minerals Management
Service (MMS), l’agenzia federale americana che sovrintende alle perforazioni in mare aperto, aveva deciso che
l’interruttore non era necessario. Negli ultimi giorni di maggio sono emerse prove di collusione sistematica tra
alcuni agenti della MMS e le compagnie petrolifere: in certi casi gli ispettori che dovevano controllare la sicurezza delle piattaforme facevano compilare i rapporti dalle stesse compagnie. Cfr Rampini F., «Sabbia e cemento
sul fondale. BP: “Ora chiudiamo la falla”», in la Repubblica, 27 maggio 2010; cfr Urbina I., «“I problemi al pozzo
noti da un anno. La BP ha nascosto il dossier segreto”», in la Repubblica, 31 maggio 2010.
7 Cfr Id., «BP used riskier method to seal well before blast», in The New York Times, 26 maggio 2010,
<www.nytimes.com>.
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Immediatamente dopo si sono attivati i mezzi per chiudere i tubi di perforazione troncati dall’esplosione (tre falle) e limitare la fuoriuscita di petrolio —
data la profondità, tutti gli interventi avvengono attraverso robot sottomarini —;
successivamente, è stata installata una «maxicupola» da piazzare sulla perdita
per raccoglierne la fuoriuscita: una campana di cemento e acciaio posizionata
sulla prima falla, ma l’8 maggio il tentativo fallisce perché dei cristalli di metano bloccano le tubature che avrebbero dovuto incanalare il fiotto del greggio
verso la campana. Tre giorni più tardi viene fatto un secondo tentativo, calando
una sorta di tappo, detto «cappello a cilindro», più piccolo, che avrebbe dovuto
risucchiare il petrolio dalla ferita e pomparlo verso una cisterna in superficie. Il
26 maggio comincia l’operazione «Top Kill», mai tentata a tale profondità: navi
cisterna in corrispondenza del pozzo iniziano a pompare fango 8 ad alta pressione verso la falla, con l’obiettivo di far crollare la pressione al suo interno e interrompere la zampillante fuoriuscita di greggio. Neanche questo intervento ha
avuto esiti positivi. L’opzione successiva, sempre più complessa, consiste nel
tagliare quello che resta del tubo spezzato — provocando un aumento del 20%
del petrolio in uscita — e chiuderlo con un tappo di cemento e acciaio; si costruisce poi un nuovo tubo per portare in superficie il greggio e farlo aspirare da
un «siringone» posizionato al posto della piattaforma. Tale opzione, pur non
avendo completamente risolto il problema della fuoriuscita del petrolio
dal pozzo, pare averne ridotto la quantità.
Contemporaneamente il pozzo Macondo viene aggredito esternamente, attraverso due piattaforme di trivellazione che stanno costruendo due nuovi pozzi
laterali — dal costo di 100 milioni di dollari l’uno — per intercettare e arrestare
l’uscita di greggio; la conclusione della perforazione è prevista per agosto.
Indipendentemente da quanti mesi serviranno per chiudere definitivamente la perdita dalla testata del pozzo, gli effetti sulle persone, l’ambiente e l’economia continueranno a sussistere per parecchi decenni.
b) «Ripulire la marea nera»: un ossimoro
Una chiazza di petrolio grande quanto quasi tutto il nord Italia (cfr riquadro
alla pagina seguente) ha ben presto raggiunto le spiagge della Louisiana, intaccando il delta del Mississippi, uno degli ecosistemi più fragili del continente,
fino a bagnare le coste dell’Alabama e della Florida. I timori di un’estensione a
dismisura della marea nera e di una sua frammentazione sono alimentati anche
dall’inizio della stagione dei tifoni e degli uragani.
Alcuni tentativi sono stati fatti per evitare la diffusione della chiazza. Il
primo è stato quello di contenere la marea di petrolio con cordoni di plastica
galleggianti, utilizzati per rallentare la diffusione degli idrocarburi, che però
sono efficaci solo se il mare è completamente calmo. Il secondo è stato di incen8
Oltre a detriti, sono stati pompati liquidi ad alta viscosità e a base di bario.
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Chiara Tintori
L’estensione della marea nera al 16 giugno 2010
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Golfo del Messico
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Fonte: Nostra rielaborazione da <www.ifitwasmyhome.com>. Scala: 1 cm=284 km.
diare il greggio, una scelta non priva di conseguenze ambientali: oltre all’inquinamento atmosferico provocato dalle grandi quantità di anidride carbonica e
altre sostanze altamente inquinanti emesse nell’atmosfera, la parte più pesante
e incombusta dell’idrocarburo è precipitata nel fondale marino 9. Un terzo tentativo è venuto dal «bombardamento» aereo della marea nera con agenti disperdenti, cioè sostanze chimiche in grado di «sciogliere» il greggio in superficie. I
disperdenti sono considerati uno dei metodi migliori per impedire la sedimentazione del petrolio sulla costa, ma contengono tossine pericolose che permangono
a lungo nell’acqua.
I danni provocati dalla marea nera hanno coinvolto la salute pubblica, le
oasi naturali, il turismo e una fiorente industria ittica.
Dopo la morte degli 11 operai a bordo della Deepwater Horizon, si sono
verificati ripetuti malori da parte delle persone impiegate nelle operazioni di
contenimento della macchia nera 10. Oltre agli effetti immediati in seguito alla
fuoriuscita di petrolio, le conseguenze sulla salute non sono ancora emerse in
tutta la loro portata e dipenderanno da una varietà di fattori, tra cui la velocità e
la direzione dei venti e la quantità di esalazioni tossiche.
Sono inoltre moltissime le specie di animali sulle quali si sono abbattuti
gli effetti della marea nera: il tonno atlantico, le tartarughe marine, gli squali, i
  9 La tecnica di incendiare il petrolio galleggiante, nota come «Burn Boom», è molto inquinante e consigliata dagli esperti solo in casi disperati; ha il vantaggio di eliminare una grande quantità di greggio in superficie con costi molto contenuti per le compagnie petrolifere.
10 Da semplici giramenti di testa, a nausea e forti complicazioni respiratorie.
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cetacei, il pellicano bruno, le ostriche, i granchi e i gamberetti, i piccoli pesci
(osteitti) e circa 400 specie di uccelli migratori, a cui si aggiungono sterne, pellicani bruni, alligatori e altri animali che in questo periodo si fermano per riprodursi proprio nell’oasi protetta dell’arcipelago delle Chandeleurs e nel delta del
Mississippi 11.
L’industria ittica della Louisiana vantava un fatturato annuo di circa 3
miliardi di dollari; ora che i pescatori non possono più dedicarsi alla loro attività — l’area in cui è stata vietata la pesca è di oltre 20mila chilometri quadrati
—, né coltivare molluschi e crostacei, l’intero comparto produttivo rischia di
collassare.
Di certo ripulire l’oceano dalla marea nera appare sempre più come un ossimoro, un accostamento di due termini in forte antitesi tra di loro, perché la maggior parte del petrolio fuoriuscito non viene effettivamente rimosso dall’ambiente, ma disperso, diluito, bruciato, o affonda in gocce; in un modo o nell’altro
viene lasciato sulle spalle dell’ambiente a devastarlo per gli anni a venire; un
oceano avvelenato è «la nostra vita che cambia, è un’ombra di morte che, dalle
migliaia di carcasse di animali avvelenati, si estende, come la cenere del vulcano
islandese, sulla frenesia dei nostri giorni» 12.
Dopo i primi giorni di disorientamento, la bp si è dimostrata disponibile
— anche grazie alle pressioni del Governo statunitense —, non solo a mettere
in campo tutte le tecnologie necessarie per tentare di chiudere il pozzo 13, ma
anche ad accollarsi i costi provocati dall’incidente, stanziando 20 miliardi di
dollari per la ripulitura dell’oceano, delle coste e il pagamento dei risarcimenti.
La speranza è che tale disponibilità sia effettiva, e non solo di facciata 14.
2. Noi e il petrolio
Di fronte a tale situazione, pare «assurdo che il governo federale, indipendentemente dal suo colore politico, permetta trivellazioni subacquee profonde
senza pretendere opportune misure per prevenire o arginare la perdita di
greggio» 15. Inoltre, mano a mano che i tentativi di chiusura del pozzo falliscono,
11 Solo per fare l’esempio degli uccelli marini, questi subiscono effetti immediati per quanto riguarda la
perdita di idrorepellenza del piumaggio, che non consente più l’isolamento termico e provoca la morte per
ipotermia, ma anche gravi alterazioni degli organi interni, quando ingeriscono petrolio.
12 Tamaro S., «L’oceano avvelenato e l’apocalisse della nostra fragilità», in Corriere della Sera, 27
maggio 2010.
13 Per fornire tutte le informazioni aggiornate sull’incidente e la sua gestione è stato attivato un sito: cfr
<www.deepwaterhorizonresponse.com>. Sullo stesso portale vengono accolti suggerimenti per chiudere il
pozzo, visto che mai è stato gestito un incidente a tali profondità.
14 I precedenti non sono di buon auspicio: la Exxon Mobil, responsabile dell’incidente in Alaska nel 1989,
ha finora pagato risarcimenti irrisori. Alcune fonti ritengono che se la BP si accollasse realmente tutto il costo
del disastro sarebbe ben presto destinata al fallimento. Cfr <www.washingtonpost.com>.
15 «Obama should take charge of cleanup in the Gulf», in The Boston Globe, 26 maggio 2010, trad. di
Marina Astrologo, «Il petrolio di Obama», in Internazionale, 848 (2010) 13.
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emerge un senso di impotenza e la dimostrazione che neanche i diretti responsabili hanno la capacità di fronteggiare l’emergenza 16.
Quanto è accaduto nel Golfo del Messico è solo un episodio di una lunga
serie di fuoriuscite di petrolio, siano esse da oleodotti, navi cisterna, o impianti
di perforazioni esplorative; si tratta di «uno stillicidio di colpi assestati alla natura, nessuno dei quali è mortale, ma che nel loro insieme costituiscono un
lento assassinio dell’ecosistema. E l’ecosistema, ovviamente, comprende anche
noi. Ma la ripetizione degli episodi ci rende insensibili: ci si abitua a tutto e le
grida di allarme cadono in una sorta di rassegnata indifferenza» 17. Incidenti
come questi rischiano di essere più frequenti, anche perché, dobbiamo
riconoscerlo, tutta la nostra vita è basata sull’uso del petrolio, e in misura
talmente massiccia che non ce ne rendiamo nemmeno più conto. Nel riscaldamento (e nel condizionamento), nel funzionamento degli elettrodomestici, negli
imballaggi, nei trasporti e nelle infrastrutture: «dall’asfalto delle strade ai marciapiedi al rivestimento dei cavi elettrici o dei tubi delle fognature e degli
acquedotti» 18; nei farmaci, nei detersivi, nel cibo, perché anche l’agricoltura va
a petrolio: «non c’è più un singolo oggetto che ci passi nelle mani che non abbia
o un contenuto diretto (ad esempio se contiene plastica) o una storia di produzione e trasporto che non sarebbe possibile senza petrolio» 19.
Per soddisfare le attuali esigenze di petrolio, la frontiera dell’estrazione è
quella degli abissi sottomarini: oggi il greggio viene cercato in profondità, perché
quello «facile», a basse profondità (150-200 metri) è già stato trovato 20. Quando
l’instabilità politica di alcune aree geografiche (come il Medio Oriente) è tale da
minare la nostra sicurezza energetica, si cercano infatti timide «alternative» in
grado di diversificare e ampliare le aree di provenienza del petrolio. È
quanto ha deciso il presidente Obama il 31 marzo scorso, quando aveva autorizzato l’esplorazione e la trivellazione in mare aperto, soprattutto nel Golfo del
Messico, sospendendo la moratoria di trent’anni in vigore dall’incidente a una
piattaforma al largo delle coste di Santa Barbara (California). Se non altro, l’incidente della Deepwater Horizon ha avuto ripercussioni immediate sulla politica
energetica statunitense, visto che Obama ha sospeso il piano 21.
16 «Il petrolio in fuga non uccide soltanto fauna, flora e le persone che da quell’ecosistema dipendono.
Rischia di uccidere una presidenza e una speranza», Zucconi V., «La macchia si allarga sull’America e sommerge anche la Casa Bianca», in la Repubblica, 31 maggio 2010.
17 Longo G. O., «Nella “società del rischio” eco-sistema vittima designata», in Avvenire, 27 aprile 2010.
18 Ruggieri G. – Raitano P. (edd.), La vita dopo il petrolio. Il mondo e la fine del benessere a buon mercato, Cart’armata edizioni, Milano 2008, 21.
19 Ivi, 22.
20 Oggi dalle acque profonde si estraggono 3,5 milioni di barili di petrolio al giorno, di cui 1,6 negli
Stati Uniti. Prima dell’incidente della Deepwater Horizon, si pronosticava di arrivare entro il 2020 a 7-10 milioni di barili al giorno, 3 dei quali nelle acque statunitensi. Cfr Bellomo S., «Eredità pesante per la fame di
greggio dell’Occidente», in Il Sole 24 Ore, 27 maggio 2010.
21 Il via libera alle perforazioni offshore da parte del Presidente statunitense è stato una moneta di
scambio per ottenere dai repubblicani e da settori «filopetroliferi» degli stessi democratici un appoggio per
l’approvazione della legislazione sul contrasto ai cambiamenti climatici.
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Si prova a mettere in discussione il modello energetico basato sui combustibili fossili quando il prezzo del greggio raggiunge livelli molto alti 22, ma raramente si osa farlo quando l’estrazione o il trasporto della stessa materia prima
producono disastri ambientali con conseguenze gravissime e durature sull’ecosistema. Che sia giunto il tempo di prendere in considerazione «la preoccupante possibilità che la forma di libertà offertaci dai combustibili fossili sia una
realtà a termine, impossibile da sostenersi indefinitamente nelle forme in cui
siamo abituati» 23?
Alcune riflessioni ci paiono opportune rispetto al modello energetico che
intendiamo perseguire e alla gestione del rischio ambientale.
a) Quale modello energetico?
Sebbene appaia miope attendere una catastrofe per cambiare qualcosa, riuscirà l’incidente della Deepwater Horizon ad accelerare la fuoriuscita dal
paradigma energetico fondato sui combustibili fossili? Avrà l’effetto imprevisto di dare una spinta maggiore alle fonti energetiche rinnovabili?
Già oggi siamo in grado di percorre in maniera decisa e coraggiosa la strada
dell’efficienza energetica, verificando tutti gli ambiti (edilizia, trasporti, industria, agricoltura, ecc.) in cui ci è data la possibilità di continuare a offrire beni
e servizi con un minor consumo di energia. Certamente vi sono forti interessi
economici in gioco, e ancor più un radicamento culturale profondo che raramente percepisce l’energia come mezzo, volto a soddisfare i bisogni vitali e il miglioramento delle condizioni di vita, e non come una risorsa illimitatamente a disposizione, da utilizzare senza criteri. Tuttavia è possibile non rimandare oltre
quelle scelte che già oggi sono praticabili, a tutti i livelli, dagli stili di vita
personali più «leggeri» nel consumo di energia, all’adozione di politiche pubbliche e private orientate all’efficienza 24. Esistono settori, come quello edilizio,
dove è possibile fare a meno delle risorse fossili in modo graduale, integrando e
introducendo nuove tecnologie 25, o semplici accorgimenti, come la «campagna»
dei tetti bianchi: dipingendo i tetti dei palazzi di bianco, in modo da riflettere la
luce del sole, si riducono i consumi di aria condizionata dal 10 al 20%.
Inoltre esistono diverse soluzioni energetiche pulite e meno rischiose, che
ridurrebbero drasticamente la nostra dipendenza dai combustibili fossili, costituendo una reale opportunità di sviluppo: dalla geotermia al solare (fotovoltaico
e termico), dall’eolico all’idroelettrico (convenzionale e derivante dallo sfruttamento delle onde e delle maree), alle biomasse. Tutte soluzioni estremamente
22
Come è successo nell’estate 2008, quando un barile di petrolio è arrivato a superare i 147 dollari.
Morandini S., «Il futuro? Oltre l’economia fossile», in Etica per le professioni, 2 (2007) 11.
24 Anche Barack Obama, durante il discorso alla Nazione del 15 giugno 2010, ha invitato ad accelerare
la transizione verso un futuro energetico efficiente e pulito, cfr <www.whitehouse.gov>.
25 Cfr Sorricaro F., «Bioedilizia», in Aggiornamenti Sociali, 3 (2010) 225-228.
23
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competitive specialmente in specifiche circostanze locali 26, tali da far ben sperare sulla possibilità che sistemi energetici decentrati, a carattere locale,
possano costituire una valida e graduale alternativa al nostro attuale modello
energetico. Infatti ogni Paese ha le sue peculiarità, da sviluppare e incentivare;
solo per fare l’esempio dell’eolico, in Texas (usa) dall’ottobre 2009 è in funzione
una centrale eolica da 782 megawatt; in Inghilterra si sta costruendo un impianto eolico offshore da 9mila megawatt. La Germania 27 e l’Europa scandinava,
oltre a investire sulle tecnologie «verdi» più avanzate, stanno adottando un «approccio fiscale “punitivo”, con le più alte tasse del mondo sui consumi di carburanti fossili» 28. Nessuno dei modelli energetici locali «è perfetto, nessuno ha
una risposta definitiva: ma ciascuno rappresenta un pezzo di soluzione, una
transizione più avanzata verso quello che stiamo cercando» 29.
Si tratta di incamminarsi con lungimiranza e gradualità sulla strada della
«terza rivoluzione industriale, basata sull’efficienza, sull’innovazione tecnologica e sulle fonti rinnovabili» 30, ben sapendo che ciò che è profondamente radicato nella nostra vita (il petrolio) non potrà scomparire dall’oggi al domani.
Nella ricerca di modalità più sicure per produrre energia, occorre fare attenzione ai cortocircuiti per cui, di fronte ai danni provocati dal petrolio, dal
carbone e dal gas, alcuni sostengono che «non abbiamo scelta: bisogna fare affidamento, almeno per la produzione di energia elettrica, principalmente sul
nucleare» 31. Al momento l’opzione nucleare porta con sé alcune questioni
irrisolte, riguardanti in particolare la sua scarsa sostenibilità economica (visto
gli imponenti investimenti iniziali) e lo smaltimento delle scorie radioattive 32.
Ogni opzione energetica ha in sé delle problematicità che vanno affrontate
ben ponderando i vantaggi e i costi collettivi sul medio e lungo periodo. Sapendo valorizzare quanto di positivo esiste nell’attuale modello energetico, qualunque scelta verso il futuro ha bisogno di fondarsi su due principi fondamentali
dell’etica ambientale: quello di prevenzione e quello di precauzione. «Se il
primo impone di privilegiare quelle linee d’azione che consentono di evitare
danni ambientali rispetto a quelle che ne prevedano la riparazione a posteriori,
il secondo interessa piuttosto il delicato rapporto tra l’azione e la previsione
della possibilità di danni» 33. Anche in assenza di dimostrazioni incontrovertibili dell’esistenza di rischio, ma in presenza di fondate supposizioni che alcune
26
Cfr Sachs J. D., Il bene comune. Economia per un pianeta affollato, Mondadori, Milano 2010, 113.
La Germania ha il primato mondiale per il numero di pannelli solari installati sul suo territorio.
28 Rampini F., «La nuova strategia verde», in la Repubblica, 3 giugno 2010.
29 Id., Slow economy. Rinascere con saggezza, Mondadori, Milano 2009, 57.
30 Così Jeremy Rifkin in Cianciullo A., «“La lezione è una sola dire basta al petrolio”», in la Repubblica,
1 maggio 2010.
31 Battaglia F., «Il nucleare? Fa di sicuro meno danni e vittime», in il Giornale, 1 maggio 2010. Cfr anche
Testa C., Tornare al nucleare? L’Italia, l’energia, l’ambiente, Einaudi, Torino 2008, 61-66.
32 Per un approfondimento sull’opzione nucleare, cfr Tintori C., «Il nucleare in Italia. Una partita tutta da
giocare», in Aggiornamenti Sociali, 5 (2009) 353-363.
33 Morandini S., «Il futuro? Oltre l’economia fossile», cit., 14-15.
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scelte espongano a seri rischi, il principio di precauzione suggerisce, per quanto è possibile, di evitarle 34.
b) Gestire il rischio ambientale
Dal punto di vista ambientale il rischio non è solo la possibilità che si manifesti un fenomeno, ma si tratta della probabilità di perdita di valore di uno o
più elementi (l’acqua, il suolo, la fauna, l’attività sociale, economica, ecc.) esposti al pericolo degli effetti prodotti da un particolare fenomeno ritenuto pericoloso.
Il rischio ambientale ha due componenti, quella umana e quella naturale;
mentre quest’ultima riguarda la possibilità che si manifesti un fenomeno naturale ritenuto pericoloso — come un’eruzione vulcanica o un terremoto —, la
prima riguarda quegli accadimenti riconducibili ad attività umana, come nel
caso dell’incidente nel Golfo del Messico. Da quando l’uomo ha cominciato a
perfezionare l’utilizzo delle tecnologie, ad esempio per lo sfruttamento di risorse
energetiche, ha dovuto fare i conti con i danni ambientali, più o meno evidenti.
Sebbene non sia possibile azzerare il rischio, l’uomo sta imparando a convivere con i rischi ambientali, affinando le soluzioni più idonee e gli strumenti
più precisi a evitare che accadano, o a limitarne gli effetti 35. Grande importanza
assume in questo orizzonte l’attenzione alla reversibilità delle scelte, cioè alla
possibilità che qualunque intervento, per essere considerato legittimo, possa
essere fermato 36.
Si può apprezzare una tempestiva applicazione del principio «chi inquina
paga», affermatosi nel diritto internazionale dell’ambiente, ma va comunque
evidenziato che esso non può essere considerato un alibi per comportamenti irresponsabili, né tanto meno che i soldi possano riparare il disastro dell’ecosistema, di fatto irreparabile.
È inutile negare che l’attuale complessità tecnologica legata all’estrazione
e alla produzione di greggio ha raggiunto livelli tali per cui gli incidenti sono di
fatto inevitabili, anche perché, pur sapendo che non è possibile azzerare il rischio,
innalzare i livelli di sicurezza degli impianti e delle procedure (specie offshore),
necessiterebbe di ingenti investimenti economici, che ben pochi sono disposti
ad accollarsi. Nel nostro caso la bp ha compiuto delle scelte volutamente
orientate al risparmio — nel momento in cui non ha dotato il pozzo Macondo
di tutte le tecnologie disponibili (ulteriore valvola di sicurezza, materiali specifici di rivestimento, ecc.) per evitare l’incidente —, anteponendo di fatto l’inte34
Cfr Casalone C., «Principio di precauzione», in Aggiornamenti Sociali, 9-10 (2003) 658-661.
Non mancano segnali positivi di rischi ambientali causati dall’uomo in via di risoluzione, come ad
esempio il buco dell’ozono.
36 Non a caso, tra coloro che operano responsabilmente nelle piattaforme petrolifere vige la prassi che,
per evitare rischi durante le operazioni di perforazione, bisogna essere sempre in grado di tornare indietro,
qualunque cosa succeda.
35
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Chiara Tintori
resse di massimizzare i propri utili a quello comune di tutelare l’ambiente. Un
comportamento emblematico, espressione di un paradigma culturale molto
diffuso e radicato non solo tra le imprese: la tendenza a mettere in atto comportamenti volti all’immediato profitto, pur sapendo che si corre il rischio di far
ricadere effetti nefasti sulla collettività. Anche i cittadini consumatori e i responsabili pubblici, coloro che dovrebbero far rispettare le regole — nel nostro caso
l’agenzia federale mms — sono chiamati in gioco. «Si può immaginare una politica economica, ecologica, sociale e culturale, o una politica educativa i cui responsabili cerchino di rispettare degli interessi comuni e durevoli piuttosto che
degli interessi privati e immediati […]. Si può immaginare una politica il cui
scopo sia quello di creare delle condizioni di esistenza sopportabili e umane
piuttosto che un profitto immediato o la realizzazione di questo o quel postulato
ideologico» 37. È proprio così?
***
Le catastrofi ambientali causate dall’uomo ci ricordano che il progresso
scientifico comporta l’utilizzo di tecniche sempre più complesse, rispetto alle
quali l’uomo è invitato a esercitare tutta la sua responsabilità. Ciò significa
ponderare i limiti delle azioni praticabili e le loro conseguenze, affinché queste
ultime non rechino danni presenti e futuri all’ecosistema.
In questo esercizio di responsabilità l’uomo si riscopre parte e custode
dell’ambiente in cui vive, prendendosene cura con realismo, creatività e profezia.
Il realismo comporta la consapevolezza delle risorse energetiche e ambientali
attualmente disponibili, così come dei vincoli normativi ed economici esistenti;
la creatività implica la capacità di intravedere nuove soluzioni a problemi antichi
e la profezia è capace di osare anche laddove sono presenti forti condizionamenti negli stili di vita. «Abbiamo saccheggiato la terra, scordando il profondo e
misterioso rapporto di interdipendenza che ad essa ci lega […]. Avremmo dovuto custodire la terra, le acque, gli animali, le piante, ma per farlo avremmo dovuto avere in noi l’idea del sacro. E invece abbiamo voluto solo possedere,
possedere, possedere e possedere ancora. Possedere fino all’inverosimile per
riempire l’enorme vuoto che si è creato al nostro interno. E più possediamo, più
il vuoto si dilata, ci risucchia, ci spinge disperatamente a possedere ancora» 38.
Tornare a essere custodi vuol dire guardare al progresso come conservazione
della ricchezza della vita e non accumulo del profitto 39, riscoprire il senso stesso della propria esistenza.
37
Havel V., «Senza sogni che politica è?», in La Stampa, 10 giugno 2010.
Tamaro S., «L’oceano avvelenato e l’apocalisse della nostra fragilità», cit.
39 Cfr Tozzi M., «Il vero prezzo del petrolio», in La Stampa, 1 maggio 2010.
38
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