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Disorientamenti sul computo della prescrizione per il disastro

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Disorientamenti sul computo della prescrizione per il disastro
QUESTIONI APERTE
Prescrizione
La decisione
Prescrizione – Reati e altri illeciti – Attentati alla pubblica incolumità – Crollo
di costruzioni – Disastri (art. 434 c.p., co. 1 e 2; art. 157 c.p.).
Nell’ipotesi di cui all’art. 434, co. 2, c.p. la realizzazione dell’evento di disastro funge da elemento aggravatore. Tuttavia, ciò non comporta che, ai fini
dell’individuazione della data di consumazione del reato e della decorrenza
dei termini di prescrizione, l’evento descritto non debba essere considerato.
Invero, la data di consumazione del reato coincide comunque con il momento di cessazione delle condotte pericolose che danno origine ed alimentano la
situazione di pericolo, momento in cui l’evento di disastro raggiunge il suo
apice massimo di gravità.
CASSAZIONE PENALE, SEZIONE PRIMA, 23 febbraio 2015 (ud. 19 novembre
2014) – CORTESE, Presidente – DI TOMASSI, Estensore – IACOVIELLO, P.G.
– Schmidheiny, ricorrente.
Disorientamenti sul computo della prescrizione per il disastro innominato
SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. I fatti. – 3. Il nodo della prescrizione. – 4. Il delitto di disastro innominato: nozione e struttura. – 5. La nozione di disastro. – 6. La consumazione del delitto aggravato. – 7.
L’evento di disastro ai fini della prescrizione. – 8. Bis in idem sostanziale e conclusioni.
1. Introduzione
Con la pronuncia in epigrafe, la Suprema Corte di cassazione ha annullato
senza rinvio la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Torino nel
processo a carico di Stephan Ernst Schmidheiny, per il delitto di cui all’art.
434 c.p., in quanto ha ritenuto il reato contestato estinto per intervenuta prescrizione.
I giudici di legittimità non hanno emesso una pronuncia di assoluzione, ai
sensi dell’art. 129 c.p.p., poiché non hanno ritenuto di individuare negli atti
elementi evidenti di non colpevolezza dell’imputato.
Il Supremo Collegio, invero, sarebbe dovuto entrare nel merito, almeno con
riferimento alle questioni civili connesse al reato1, soltanto qualora la prescrizione fosse intervenuta dopo la pronuncia di condanna del Tribunale di Torino. Invece, per i giudici di legittimità, tale causa estintiva è maturata antecedentemente alla pronuncia della sentenza di primo grado, tanto che sono staI giudici della Corte d’appello avevano ritenuto che dal reato di disastro innominato derivasse quale
conseguenza diretta, quale pregiudizio immediatamente risarcibile, un danno da esposizione
all’amianto.
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te annullate anche le statuizioni civili emesse dai giudici di merito.
2. I fatti
Il procedimento in esame era stato instaurato a carico di Stephan Schmidheiny e di Louis De Cartier, responsabili della gestione della società multinazionale Eternit, i quali, secondo la Procura torinese, avevano amministrato
un’attività produttiva pericolosa, trascurando gli interessi alla salute dei lavoratori, nonché dei terzi e dell’ambiente, disinteressandosi delle conseguenze
lesive dell’amianto utilizzato per la fabbricazione di manufatti ed in tal modo
determinando il decesso di centinaia di lavoratori e di abitanti delle aree limitrofe agli stabilimenti di Casale Monferrato, Napoli-Bagnoli, Rubiera e Cavagnolo.
Ai due imputati (in appello, dopo il decesso del quasi novantenne Louis De
Cartier, è rimasto solo Stephan Schmidheiny) sono stati contestati i delitti
contro l’incolumità pubblica, di cui agli artt. 437 c.p. (omissione dolosa di
cautele contro gli infortuni sul lavoro) e 434 c.p. (disastro cd. innominato doloso), entrambi nella forma aggravata dall’evento di cui ai rispettivi capoversi.
Nei primi due gradi di giudizio, però, il delitto di cui al capo A)
dell’imputazione (art. 437 c.p.) è venuto meno, in quanto dichiarato estinto
per prescrizione dopo la riqualificazione del suo capoverso alla stregua di circostanza aggravante, anziché di fattispecie autonoma.
Il ragionamento dei giudici della Suprema Corte, pertanto, si è concentrato
sulle condotte riconducibili al capo B) dell’imputazione, descritte riportando
comportamenti omissivi già citati nel capo A), con l’aggiunta di comportamenti attivi ulteriori, tutti sussumibili all’interno della fattispecie di cui all’art.
434 c.p., dai quali, secondo la tesi accusatoria, sarebbe scaturito un evento di
disastro ambientale, congiuntamente interno ed esterno2, causato
dall’incontrollata dispersione di amianto, produttiva di una situazione di pericolo per l’incolumità di un numero indeterminato di persone.
3. Il nodo della prescrizione
Nel corso del procedimento sono emerse diverse teorie in ordine al momento consumativo del cosiddetto delitto di disastro innominato. Secondo la tesi
avanzata dalla difesa dell’imputato, il termine di prescrizione per il reato di
cui al capoverso dell’art. 434 c.p. è pari a 12 anni, nel massimo ed a 15, se si
Nel capo B) dell’imputazione agli imputati viene contestato il reato di disastro innominato comprendente sia il cosiddetto disastro interno (di cui sono vittime i dipendenti degli stabilimenti) sia il cosiddetto disastro esterno (di cui è vittima la collettività circostante i siti).
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considerano anche gli eventi interruttivi. Esso decorrerebbe dal giugno del
1986, periodo che segna la fine dell’operatività degli stabilimenti e della gestione effettiva del gruppo Eternit da parte dell’imprenditore imputato e del
gruppo svizzero; pertanto, il citato termine è da considerarsi spirato già prima
della pronuncia del tribunale di Torino del 2012. A seguito del sopravvenire
della suddetta causa estintiva, anche le statuizioni civili emesse in favore delle
persone offese sono venute meno.
Secondo il ragionamento seguito della Corte d’appello, invece, l’evento del
disastro doloso sarebbe stato ancora in atto al momento della decisione. Per
giustificare tale assunto, i giudici di merito disegnano una nozione di disastro
ambientale che consente di escludere la prescrizione del reato. In particolare,
essa viene ampliata in modo tale da farvi rientrare non soltanto la contaminazione dei siti e la diffusione nell’aria delle fibre di amianto, ma anche e soprattutto il fenomeno epidemico che, nel caso di specie, ha visto crescere
esponenzialmente le patologie “amianto-correlate” tra i lavoratori degli stabilimenti ed i residenti nelle aree limitrofe. In tale ottica, pertanto, il delitto non
potrebbe considerarsi prescritto, in quanto ancora neanche consumato in ragione del perdurante pericolo di altre manifestazioni morbose3.
I giudici del Supremo Collegio hanno ritenuto tale ultima interpretazione non
corretta dal punto di vista giuridico. Invero, nel caso di specie, la consumazione del reato di disastro ambientale non può considerarsi protratta oltre il
mese di giugno del 1986, periodo durante il quale gli stabilimenti cessarono
l’attività produttiva e di conseguenza le immissioni delle polveri e dei residui
della lavorazione di amianto, che avevano determinato la contaminazione
dell’ambiente lavorativo e del territorio circostante.
Per giustificare tale assunto la Corte di cassazione sviluppa un iter logico giuridico nel corso del quale vengono affrontate e risolte, con riferimento
all’art. 434 c.p., rilevanti questioni giuridiche.
4. Il delitto di disastro innominato: nozione e struttura
Preliminarmente, al fine di ricostruire il ragionamento seguito dai giudici di
legittimità, occorre osservare che il delitto di cui all’art. 434 c.p., reato di comune pericolo, mira a tutelare l’incolumità pubblica sanzionando comportaSi veda la sentenza del 3 giugno 2013 della Corte d’appello di Torino, in De Jure, 2015: «la consumazione del reato deve essere individuata soltanto nel momento in cui l’eccesso numerico dei casi di soggetti deceduti o ammalati rispetto agli attesi, oggetto dell’accertamento compiuto attraverso le indagini
epidemiologiche, con riferimento alle aree circostanti gli stabilimenti che sono stati teatro dei fatti del
processo, sarà venuto meno. In quel momento il delitto di disastro ambientale potrà considerarsi consumato e soltanto allora comincerà a decorrere il termine di prescrizione».
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menti in grado di provocare un evento pericoloso per un numero indeterminato di persone4. Invero, il delitto di disastro innominato, a forma libera perché può essere realizzato con qualunque azione idonea al raggiungimento dello scopo (fatti diretti a cagionare […] un altro disastro), è di natura sussidiaria,
in quanto trova applicazione soltanto qualora non sia configurabile un’ipotesi
criminosa diversa ed assume, pertanto, un carattere prevalentemente integrativo, essendo destinato a colmare determinate lacune dell’ordinamento in ordine alla protezione dell’incolumità pubblica5.
Invero, la descrizione del fatto illecito previsto e punito da tale fattispecie
criminosa è costruita intorno alla nozione di “altro disastro” con riferimento
alla quale, a causa dell’incessante progresso tecnologico che introduce sempre
nuove fonti di rischio ed ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione
del bene protetto, non è possibile elencare in maniera analitica le situazioni
idonee astrattamente a mettere in pericolo l’interesse protetto dalla norma6.
La punibilità della condotta incriminata, quindi, è subordinata al fatto che
l’azione sia tale da cagionare l’esposizione a pericolo della collettività. Si parla,
invero, di reato di pericolo perché richiede soltanto la messa in pericolo del
bene protetto. In particolare, il reato costruito sulla struttura del tentativo, è
un delitto di attentato che anticipa la tutela penale poiché si consuma già nel
momento in cui si configura il compimento di atti idonei diretti univocamente
a cagionare un pericolo per la sicurezza pubblica, nella specie il pericolo di
verificazione del disastro. Non è necessario, invece, che l’evento di danno si
verifichi nella realtà fenomenica.
Qualora, però, il disastro si realizzi, la qualificazione giuridica della fattispecie
assume contorni non ben definiti, oggetto di speculazione e di dibattito in
dottrina ed in giurisprudenza. In particolare, come rilevato dalla Suprema
Corte, si fronteggiano due tesi principali.
Per una di esse, quella tradizionale, il fatto di provocare in concreto un “altro
disastro” costituisce una semplice circostanza aggravante, soggetta ad un eventuale bilanciamento con altre circostanze favorevoli, che non incide sul decorBATTAGLINI-BRUNO, voce Incolumità pubblica (delitti contro la), in Nuov. Dig., VIII, Torino, 1975,
542; CORBETTA, Delitti contro l’incolumità pubblica in Trattato di diritto penale-parte speciale, diretto
da Marinucci–Dolcini, II, 1, Padova, 2003; LAI, voce Incolumità pubblica (reati contro la), in EG, XVI,
Roma, 1989, 1; CADOPPI-CANESTRARI-MANNA-PAPA, I delitti contro l’incolumità pubblica e in materia
di stupefacenti, in Trattato di diritto penale, a cura di Cadoppi-Canestrari-Manna-Papa, Torino, 2010,
355.
GARGANI, Reati contro l’incolumità pubblica, in Trattato di diritto penale, diretto da Grosso-PadovaniPagliaro, Milano 2008.
MANNA, Le tecniche penalistiche di tutela dell’ambiente, in Riv. trim.dir. pen. econ., 1997, 655 ss.; DE
SANCTIS, Diritto penale dell’ambiente. Un’ipotesi sistematica, Milano, 2012.
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so dei tempi della prescrizione, il cui termine decorre a partire dalla condotta
diretta a determinare il disastro.
La tesi più innovativa, sposata anche dai giudici di merito nel caso di specie
considera, invece, il delitto di disastro doloso con evento verificatosi un reato
autonomo di danno. Il dies a quo, pertanto, ai fini del decorso del termine di
prescrizione, coincide con il momento in cui si verifica l’evento di disastro.
In particolare, sul punto, sia i giudici del Tribunale di Torino, sia quelli della
Corte d’appello hanno optato per la tesi che qualifica il capoverso dell’art.
434 c.p. come ipotesi autonoma di reato7, ciononostante giungendo a conclusioni diverse con riferimento all’individuazione del dies a quo rilevante ai fini
della maturazione del periodo di prescrizione del reato8.
I giudici di legittimità hanno accolto, invece, l’orientamento che considera il
secondo comma del reato, di cui all’art. 434 c.p., come circostanza aggravante
e tuttavia, ai fini delle determinazione del dies a quo, hanno fatto coincidere
la data di consumazione del delitto con il momento in cui l’evento aggravatore del disastro si è in concreto verificato.
L’elemento soggettivo del reato è il dolo generico, inteso come coscienza e
volontà del fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Sul punto, è necessario rilevare come nel corso dell’iter procedimentale si sia accertato che,
almeno dal giugno del 1976, l’imputato fosse consapevole degli effetti nocivi
derivanti dall’utilizzo dell’amianto nella produzione dei manufatti, in quanto
si era occupato direttamente e personalmente della gestione dei rischi connessi all’uso di tale materiale9. Ciononostante si era limitato a trattare il problema del rischio alla salute alla stregua di un “comune problema produttivo”, da risolvere in termini economici di costi – benefici e di propaganda.
Tanto che i giudici della Corte d’appello, nella motivazione della sentenza di
condanna, avevano ritenuto che, nonostante l’elemento soggettivo richiesto
Per i giudici di merito, mentre il capoverso dell’art. 437 c.p. non è una fattispecie autonoma ma circostanziata aggravante e pertanto l’evento costitutivo dell’aggravante medesima non può determinare uno
spostamento del momento di consumazione del reato, invece nel capoverso dell’art. 434 c.p. è ravvisabile una fattispecie autonoma.
Si veda infra nel corso della trattazione.
Risale a quell’epoca, il convegno sull’amianto “Tutela del lavoro ed Ambiente Amiantus”, organizzato
da Schmidheiny presso il laboratorio di Neuss (Asbest Institut) durante il quale l’imputato dimostrava
già la sua profonda conoscenza con riferimento alle problematiche connesse all’utilizzo di tale materiale.
In seguito, nel 1977, la IARC (International Agency for Research on Cancer) inseriva tutti i diversi tipi
di amianto nel gruppo dei cancerogeni certi per l'uomo.
Negli anni poi, sempre più dettagliatamente la legislazione interna, anche recependo le indicazioni della
normativa sovranazionale, si occupava del tema in maniera specifica fino a vietarne esplicitamente
l’utilizzo nel 1992.
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per l’integrazione del reato fosse il dolo generico, nella fattispecie de qua
l’agente avesse agito anzi con dolo diretto10.
Per comprendere la ratio che sta alla base del ragionamento sposato della
Suprema Corte bisogna indagare quali siano i contorni del concetto di disastro e nella specie del disastro ambientale innominato11.
Pertanto, considerato che la soluzione alla quale la Corte d’appello è addivenuta, ai fini dello spostamento in avanti del momento di consumazione del
reato, è strettamente legata a tale definizione fondamentale, la Corte di cassazione per discostarsi da tale tesi ricostruisce il concetto alla luce
dell’interpretazione giurisprudenziale e dottrinaria sul punto consolidatasi.
5. La nozione di disastro
Sulla definizione di tale nozione ha avuto una influenza rilevante
l’interpretazione, oggi prevalente, che ne ha fornito la Corte costituzionale
quando nel 2008 è stata chiamata a pronunciarsi sulla determinatezza di tale
concetto12. La Consulta ha ritenuto infondato il dubbio di non conformità della fattispecie, di cui all’art. 434 c.p., nell’ipotesi del disastro innominato, ai
principi di tassatività e determinatezza in materia penale, in quanto, nella sua
ottica, la valenza del termine si precisa alla luce della finalità
dell’incriminazione e dalla sua collocazione nel sistema dei delitti contro la
pubblica incolumità13. Pertanto, è possibile delineare una nozione unitaria di
disastro, quale evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non
necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed
estesi (piano dimensionale); esso deve provocare un pericolo per la vita o per
l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone, senza che sia necessaria l’effettiva morte o lesione dei soggetti (piano offensivo) 14.
Si legge nella motivazione della pronuncia della Corte d’appello che «il fine ultimo da lui perseguito
era quello di conservare e, se possibile, di rafforzare, la posizione occupata sul mercato dalle imprese di
cui coordinava le politiche» e il mezzo reputato «necessario usare per conseguire il risultato finale al
quale mirava era costituito [...] dalla pressoché invariata conservazione delle condizioni di insufficiente
difesa dalla polverosità in cui fino ad allora le imprese avevano esercitato l'attività produttiva, nella piena
consapevolezza che il loro mantenimento protratto nel tempo [...] avrebbe necessariamente implicato
[...] un forte aumento delle patologie amianto-correlate delle quali conosceva la gravità e la diffusività».
MILOCCO, Disastro ambientale, in Riv. giur. amb., 2005, 886 ss.; GIUNTA, I contorni del “disastro
innominato” e l’ombra del “disastro ambientale” alla luce del principio di determinatezza, in Giur. cost.
2008, 3541.
Corte cost., n. 327 del 2008, in www.cortecostituzionale.it.
Si legge nella pronuncia della Consulta: «si antepone al termine disastro l’aggettivo altro pertanto il
senso del concetto, in astratto alquanto indeterminato, riceve luce dalle species dei disastri preliminarmente enumerati e contemplati negli articoli compresi nel capo relativo ai delitti di comune pericolo
mediante violenza (c.d. disastri tipici) che richiamano una nozione unitaria di disastro».
Su tale filone interpretativo si colloca, ex multis, Cass., Sez. III, 16 gennaio 2008, Agizza, in De Jure,
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La Suprema Corte di cassazione, seguendo l’interpretazione teleologica e
sistematica che si fonda sulla considerazione del capoverso dell’art. 434 c.p.
quale norma di chiusura15, ritiene che la collocazione della disposizione
all’interno del capo I “Dei delitti di comune pericolo mediante violenza” non
implica però che la violenza sia necessaria per integrare la fattispecie. Secondo i giudici di legittimità, l’emissione di fattori inquinanti ha carattere in sé
distruttivo, altrimenti si rischierebbe di ridurre arbitrariamente tale nozione ai
soli fenomeni macroscopici e visivamente percepibili.
Pertanto, la dirompente forza fisica non si pone quale requisito essenziale
dell’altro disastro16 e l’entità dell’evento concorre soltanto ad indicare il peso
del carico offensivo del delitto17. Invero, con il termine violenza si fa riferimento all’impiego di qualsivoglia mezzo od energia idoneo a superare
l’opposizione della potenziale vittima ed a produrre l’effetto offensivo senza la
sua cooperazione. Quindi, in tale accezione la violenza è da considerarsi presente nel caso oggetto della pronuncia in epigrafe.
Secondo i giudici di legittimità nel caso di specie l’interpretazione costituzionale della nozione non è limitata soltanto al primo comma dell’art. 434 c.p.,
ma si estende anche al suo capoverso. La questione controversa riguarda piuttosto la riconducibilità del fenomeno della diffusione delle fibre nell’ambiente
- che si manifesti in modo diffuso e silente e non dirompente ed eclatante all’evento descritto dal disposto dell’art. 434 c.p.
Sulla base di tali premesse la Corte di cassazione, facendo proprio
l’orientamento della giurisprudenza maggioritaria con riferimento alla qualificazione dell’evento disastro ed indicando il criterio strutturale della descrizione del precetto penale a sostegno di tale tesi, ritiene che il capoverso dell’art.
434 c.p., introduca una ipotesi di reato aggravato dall’evento.
6. La consumazione del delitto aggravato
Tuttavia, a parere dei giudici di legittimità, ciò non implica che tale evento,
2015: «Il termine disastro, nella specie ambientale, implica che esso sia cagione di un evento di danno o
di pericolo per la pubblica incolumità straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente
immane. Pertanto, è necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone. Per configurare il
reato di disastro è sufficiente che il nocumento metta in pericolo, anche solo potenzialmente, un numero indeterminato di persone. Infatti, il requisito che connota la nozione di disastro ambientale, delitto
previsto dall’art. 434 c.p., è la potenza espansiva del nocumento, anche se non irreversibile, e
l’attitudine a mettere in pericolo la pubblica incolumità».
Si veda Relazione del Guardasigilli al codice penale.
Si veda ex multis Cass., Sez. IV, 17 maggio 2006, Bartalin, in De Jure, 2015.
La Suprema Corte riporta la distinzione tra il delitto di danneggiamento e quello di devastazione.
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pur fungendo soltanto da elemento aggravatore, non debba essere considerato ai fini dell’individuazione della data di consumazione del reato da cui comincia a decorrere la prescrizione.
Invero, sulla base di una tesi dottrinaria minoritaria, bisogna distinguere tra
reato c.d. perfetto e reato consumato. Se la fattispecie è compiutamente realizzata e si ha piena corrispondenza tra modello legale e fatto in concreto, il
reato è perfetto, il che non significa che sia anche consumato18. La consumazione è il momento in cui si chiude l’iter criminis, il momento in cui il reato
perfetto raggiunge la massima gravità concreta e si apre la fase del postfactum. Pertanto, la condotta non ha termine quando vengono meno tutti gli
eventi dannosi collegabili, in quanto o essi si esauriscono al momento della
consumazione o rientrano nel post-factum. Se il momento consumativo è un
evento puntuale sulla linea del tempo che indica la conclusione dell’iter criminis, il problema della sua determinazione con riferimento al reato aggravato dall’evento è da risolversi nel senso che il maggiore evento sposta la data di
consumazione19. Bisogna capire allora se rientrano nella nozione di evento
soltanto i risultati assunti come elementi costitutivi del reato (pericolo) o anche quelli che comportano un aggravamento della pena.
La Corte di cassazione ritiene che in caso di reato aggravato dall’evento l’iter
criminoso si conclude con il verificarsi del detto evento. Poiché la norma tipizza l’approfondimento della lesione (se il disastro avviene) nel senso di conseguenza della medesima condotta, la stessa condotta configura un doppio
evento: il pericolo e il disastro. Quest’ultimo non è un mero effetto dannoso
esterno, ma è evento interno alla fattispecie e perciò tipico.
7. L’evento di disastro ai fini della prescrizione
Pertanto, al fine di individuare il dies a quo ai fini della prescrizione bisogna
comprendere quando si consuma il disastro ed in tale ottica è fondamentale
circoscrivere la nozione di disastro per individuarne i limiti temporali.
Si consideri per tutte la tesi elaborata da MANTOVANI, Diritto penale, parte generale, Padova, 2013.
Un esempio di scuola è il delitto di sequestro che è perfetto nel periodo di restrizione della libertà personale del sequestrato ma che si consuma solo allorché l’ostaggio venga rilasciato.
Per un’opinione in parziale disaccordo con il ragionamento seguito dai giudici di legittimità, cfr. SANTA
MARIA, Il diritto non giusto non è diritto, ma il suo contrario. Appunti brevissimi sulla sentenza di
cassazione sul caso Eternit, in www.penalecontemporaneo.it, a parere del quale la soluzione sposata
dalla Suprema Corte non è scontata in quanto basata su di “una teoria dottrinale minoritaria peraltro
assai poco dibattuta dalla giurisprudenza”.
Si veda Cass., Sez. V, 20 giugno 1972, Sabatini, in De Jure, 2015: «la prescrizione decorre per il reato
consumato dal giorno della consumazione, la consumazione si ha quando la causa imputabile ha prodotto interamente l’evento che forma oggetto della norma incriminatrice».
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A parere del Tribunale di Torino costituisce disastro innominato ciascuno
dei macroeventi di inquinamento realizzati nei quattro siti. Tale fattispecie
può essere qualificata come reato permanente ma, considerata la sua natura
di delitto ad evento naturalistico, il momento della consumazione prescinde
da una persistente condotta del reo e quindi, l’evento può verificarsi anche
molto tempo dopo rispetto alla realizzazione di essa. Pertanto, la consumazione va rapportata alla situazione di perdurante incontrollata contaminazione
dei siti: il disastro è ricondotto all’immutatio loci produttiva di pericolo, ma la
consumazione è collegata al protrarsi nel tempo delle conseguenze pericolose, non al verificarsi dell’evento disastroso.
Ciò considerato il Tribunale torinese ha rilevato però che tali disastri possono
ritenersi ancora in atto nei siti di Cavagnolo e Casal Monferrato, non invece,
in quelli di Bagnoli e Ribera in quanto già bonificati. Pertanto, con riferimento a questi due ultimi dichiarava estinti i reati per intervenuta prescrizione.
Nella visione della Corte d’appello il reato non è invece prescritto in nessuno
dei siti, in quanto in tutti il disastro è ancora in atto, non esaurito. In particolare, i giudici, considerando il disastro interno, espressamente contestato al
capo B) dell’imputazione, una componente del più vasto disastro innominato
ascritto agli imputati e, facendo proprio un orientamento diverso rispetto a
quello seguito dai giudici di primo grado, ritengono che sia necessario affidarsi all’epidemiologia per rilevare i profili di causalità rilevanti nel caso di specie
e, conseguentemente, affrontare il problema della prescrizione. A parere dei
giudici di secondo grado dall’analisi dei fatti emerge che secondo le regole di
questa scienza il disastro (l’evento pericoloso, la contaminazione ambientale
e, soprattutto, il fenomeno epidemico) è ancora in corso in quanto l’amianto
continua a tutt’ oggi ad essere causa delle morti, quindi, per nessuno dei siti
interessati l’evento disastroso è esaurito e per nessuno il delitto di cui al capoverso dell’art. 434 c.p. può dirsi prescritto. La consumazione del reato deve
quindi correttamente essere individuata nel momento in cui l’eccesso numerico di casi patologici legati all’amianto si esaurisce20.
Secondo la Corte d’appello, «l’evento è dunque rappresentato dall’esposizione all’amianto di determinate popolazioni poiché sulla base delle indagini epidemiologiche e della letteratura medico oncologica l’esposizione è di per sé causa di pericolo per i settori delle popolazioni evidenziati nei capi di imputazione». Tuttavia, proseguono i giudici di secondo grado: «l’esposizione al pericolo conseguente
all’immutatio loci non esaurisce l’evento che contraddistingue la particolare fattispecie di disastro analizzata in questa sede»; e ancora: «la contaminazione ambientale, ossia l’immutatio loci, costituisce solo
una tra le componenti dell’evento del reato di disastro oggetto del presente procedimento. Un’altra
componente essenziale è rappresentata dall’eccezionale fenomeno di natura epidemica che il capo di
imputazione assume essersi verificato, durante un lungo lasso di tempo, in Casale Monferrato, in Cavagnolo, in Napoli-Bagnoli e in Rubiera. Gli studi epidemiologici, secondo l'Accusa, hanno, infatti, posto
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La Suprema Corte sconfessa, quindi, sia la tesi del Tribunale, sia quella della
Corte d’appello. La prima, in quanto confonde le nozioni di reato permanente e istantaneo a condotta perdurante nonché le nozioni di evento differito e
effetti permanenti: si sovrappone la permanenza del reato con quella degli
effetti del reato. La seconda, in quanto il ragionamento, viziato già in partenza
poiché basato sugli assunti dei giudici di primo grado, al fine di ricondurre
all’interno della nozione di disastro il concreto manifestarsi del pericolo per
l’incolumità (tutti i casi clinici) fa in sostanza coincidere disastro con fenomeno epidemico.
In realtà, la fattispecie di cui all’art. 434 c.p. ha ad oggetto un evento materiale, il disastro, inteso come fatto distruttivo di proporzioni straordinarie qualitativamente idoneo a mettere in pericolo la incolumità pubblica.
Pertanto, non si deve confondere, come hanno fatto i giudici di secondo grado, l’evento pericoloso, rappresentato dalla diffusione di fibre nell'ambiente,
dalla contaminazione dei siti, ecc., con gli effetti che ne sono derivati 21, altrimenti in sostanza si finirebbe per ritenere punibile con pena nel massimo pari a 12 anni la condotta di colui che dolosamente provoca con la condotta
produttiva del disastro plurimi omicidi ovverosia una strage22.
Il disastro nel caso di specie (e in tutti gli altri casi di fenomeni patologici
connotati da lunghi periodi di latenza) si è consumato nel 1986, al giorno della chiusura degli stabilimenti e da lì comincia il decorso del termine di prescrizione.
Le patologie, le morti avvenute successivamente sono “solo” una conseguenza
del disastro e, se le morti sono conseguenza del disastro, allora, non sono disastro23.
D’altronde, ribadiscono i giudici di legittimità: «l'impianto accusatorio non
consentiva di annettere rilievo individuale ai singoli eventi lesivi di malattia e
di morte con relativo inquadramento all'interno di corrispondenti figure di
reato contro la persona, essendosi puntato invece sul carattere unitario dell'ofin rilievo l'eccesso di malattie asbesto-correlate, tutte caratterizzate da una lunga latenza, che ha colpito
le popolazioni interessate dall'esposizione all'amianto nell'arco di tempo preso in considerazione».
In senso conforme, si veda Cass., Sez. IV, 28 maggio 2014,Vicini, in De Jure, 2015.
Al contrario, ritiene SANTA MARIA, il diritto, cit., che il ragionamento della Corte di cassazione presenta un chiaro punto debole. Invero, se i giudici di legittimità avessero considerato come evento di disastro anche la contaminazione dell’ambiente, causata dalla dispersione di fibre di amianto nell’area protrattasi per interi decenni, non avrebbero potuto dare per scontato che l’evento ha raggiunto la sua massima gravità quando, nel giugno del 1986, è cessata l’attività di abbancamento.
Anche nella Relazione del Guardasigilli al codice penale si legge che un reato di pericolo se è mezzo
della commissione di omicidio fa rientrare quest’ultimo nel reato di strage.
Si veda NATALE, A margine del caso Eternit, in www.questionegiustizia.it.
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fesa alla vita ed alla salute di un numero indeterminato di persone».
Oggetto della pronuncia era esclusivamente l'esistenza o meno del disastro
ambientale “interno” ed “esterno”, ovverosia quale «attentato all'incolumità
sia dei lavoratori addetti agli stabilimenti [...], sia riferibile alla popolazione
residente nei siti in cui i quattro stabilimenti operavano ed ai soggetti conviventi coi lavoratori, o comunque addetti alla pulizia dei loro indumenti di lavoro», la cui sussistenza è stata affermata dalla Suprema Corte, che ha dovuto,
però, prendere atto dell’avvenuta prescrizione del reato.
La decisione dei giudici di legittimità appare dunque condivisibile, dal momento che, facendo nostre le conclusioni rassegnate dal Sostituto Procuratore
Generale, nel corso dell’udienza del procedimento che ci occupa, il giudice
tra diritto e giustizia deve inevitabilmente scegliere il diritto24.
Vani si sono rivelati i tentativi dei giudici di merito volti a ridisegnare – ci sia
consentito, in malam partem – la figura del disastro innominato, al fine di
renderla compatibile con un fenomeno al quale il legislatore, in sede di stesura del codice, non aveva potuto pensare.
La stessa Corte costituzionale aveva ritenuto che un certo grado di elasticità
del concetto normativo di disastro fosse necessario per consentire al diritto
penale di affrontare «nuove fonti di rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione del bene protetto».
Pur consapevoli di tutto ciò, i giudici della Suprema Corte hanno tuttavia dovuto necessariamente fare applicazione della disciplina della prescrizione, ribadendo la validità degli orientamenti ermeneutici sul punto consolidatisi nel
corso degli anni nel pensiero della dottrina e nelle pronunce della giurisprudenza.
La stessa Corte di cassazione ha posto l’accento sul fatto che già dalla fine
degli anni settanta e sicuramente nella prima metà degli anni ottanta del secolo scorso, il tema della pericolosità dell’amianto per la salute era argomento
noto ed oggetto di accurati studi medico-scientifici, con la conseguenza che
troppo tardi si è giunti a celebrare il processo.
8. Bis in idem sostanziale e conclusioni
Per ovviare alle conseguenze della decisione della Suprema Corte, pare che la
Conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, cons. Francesco Iacoviello, innanzi alla Corte di
cassazione nel processo Eternit: «Ci sono dei momenti in cui diritto e giustizia vanno da parti opposte, è
naturale che le parti offese scelgano la strada della giustizia, ma quando il giudice è posto di fronte alla
scelta drammatica tra diritto e giustizia non ha alternativa. È un giudice sottoposto alla legge; tra diritto e
giustizia deve scegliere il diritto».
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Procura torinese abbia istruito un nuovo procedimento a carico del medesimo imputato, per i reati di omicidio e lesioni25. Tuttavia, una scelta siffatta rischia di violare il divieto del c.d. bis in idem sostanziale ed addossare ad un
solo soggetto responsabilità che forse andrebbero cercate (anche) altrove.
Orbene, come è noto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la sentenza
“Grande Stevens”26, ha affermato un orientamento completamente nuovo,
rispetto anche alla giurisprudenza della Suprema Corte di cassazione, ritenendo che per verificare che ci sia la violazione del principio del ne bis in
idem, di cui all’art. 4 del protocollo 7 CEDU, occorre avere riguardo non alle
strutture delle fattispecie astratte, ma al contrario, alla identità o meno dei fatti
concreti ascritti.
Alla Corte, infatti, non interessa verificare se gli elementi costitutivi del fatto
tipizzato dalle due norme siano o meno identici, bensì solo se i fatti sussunti
in esse e giudicati nei due procedimenti siano o meno i medesimi (cfr. Grande Camera, Sergey Zolotukhin c. Russia, sent. 10 febbraio 2009, ric. N.
14939/03), con la conseguenza che, ogni qualvolta il fatto concreto contestato
nell’uno e nell’altro procedimento sono identici si viola il principio del ne bis
in idem.
Secondo la Corte europea dei diritti dell’uomo questo principio deve trovare
applicazione tutte quelle volte in cui si tratti di procedimenti volti
all’applicazione di misure aventi natura penale ai sensi della CEDU a prescindere dalla qualificazione formale dell’ordinamento interno.
Appare, quindi, evidente l’allineamento da parte della CEDU
all’orientamento, già espresso, dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea,
la quale nel caso Aklagaren, sull’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali
dell’unione europea ha sostenuto che il divieto di un doppio regime sanzionatorio per lo stesso fatto concreto vale quando si tratta di sanzioni entrambe
penali27.
Ne discende l’affermazione di un principio fondamentale in quanto, la CEAl fine proprio di riparare alle “lungaggini” del filone processuale principale, sembra sia stato già aperto un procedimento Eternit bis, che mira a contestare fatti nuovi di omicidio e lesioni idonei a contenere ogni evento-morte e di conseguenza a postdatare il dies a quo della prescrizione a momenti successivi
rispetto alla chiusura degli stabilimento. Sul punto, si veda CAPITANI, La prescrizione cala il sipario
sulla vicenda Eternit, in Dir. e giust., 6, 2015, 67 e con riferimento alla problematica dell’eventuale
violazione del diritto di non essere giudicato due volte per lo stesso fatto si leggano le condivisibili considerazioni di NATALE, A margine, cit.
Corte eur. dir. uomo, II Sez., 4 marzo 2014, Grande Stevens e a. c. Italia, ric. n. 18640/10 e a., in
www.penalecontemporaneo.it.
VOZZA, I confini applicativi del principio del ne bis in idem interno in materia penale: un recente
contributo della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in Riv. trim pen. cont., 3, 2013, 294 ss.; SALCUNI, L’europeizzazione del diritto penale: problemi e prospettive, Milano, 2011, 411 ss.
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DU ha ritenuto che non deve essere la specialità in astratto a dover orientare i
giudici nel proprio giudizio, bensì, la specialità in concreto oppure i criteri
sostanzialistici che dovrebbero essere presi in esame dai giudicanti per verificare se vi sia stata la violazione o meno del principio del ne bis in idem.
Alla luce dell’affermazione di questo principio, pertanto, occorre interpretare
in maniera “estensiva” l’art. 649 c.p.p. nel senso, che appare opportuno ricomprendere nel concetto di «sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili» anche ogni altro provvedimento, così come, definito dalla Corte di Strasburgo, sia esso di natura amministrativa ovvero di natura penale stricto sensu
intesa.
In tal senso sembra orientarsi anche la Corte di cassazione, che ha ritenuto
non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale
dell’art. 649 c.p.p., nella parte in cui non prevede l’applicabilità della disciplina del divieto di un secondo giudizio al caso in cui l’imputato sia stato giudicato con provvedimento irrevocabile, per il medesimo fatto28.
Ad ogni modo, qualunque siano le intenzioni degli inquirenti torinesi, ci si
augura che vi sia la stretta osservanza dei principi di legalità e tassatività
nell’interpretazione delle norme e che non si tenda a superare eventuali ostacoli processuali attraverso la lettura in malam partem di norme e che si ricordi sempre che «questo è un tribunale che applica la legge, non la morale, e il
suo compito è quello di cercare i principi di legge e applicarli».29
ANTONIO MIRIELLO
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Cfr. Cass., Sez. V, ord. 15 gennaio 2015, Chiarion Casoni, in Foro it., 2015, II, 147 ss., con nota di DI
PAOLA,
Gli (attesi) effetti della sentenza “Grande Stevens”: sistema sanzionatorio degli abusi di mercato,
“ne bis in idem” e dubbi di legittimità costituzionale, 160 e ss.
MC EWAN, The Children Act, Cles (TN), 2014, 34.
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