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Terapia Primaria. - Auto

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Terapia Primaria. - Auto
Terapia Primaria.
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754
Indice.
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Le Terapie Primarie: che cosa sono e che cosa non sono.
Pag. 756
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Janov: grido primordiale. Sofferenza e difese.
Pag. 776
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Perchè i bambini soffrono.
Pag. 809
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Perchè la sofferenza abbia un senso. (J. K. Stettbacher).
Pag. 819
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755
Le Terapie Primarie:
che cosa sono e che cosa non sono.
Ogni erede di un patrimonio deve riconoscere il suo debito nei confronti di coloro che l’hanno creato
e glielo hanno trasmesso. Questo principio è valido in ogni campo, da quello spirituale (il Cristianesimo
non deve dimenticare la sua matrice nel monoteismo della religione Ebraica) a quello più umanamente
intellettuale. Così la tecnica di auto-aiuto di questo sito non può esimersi dal riconoscere nelle idee
della Terapia Primaria la propria matrice concettuale. In particolare il debito è legato al peso dato
alla forma (così semplicemente casalinga e familiare, e quindi tanto più tragica nella sua realtà
devastante) che nell’infanzia hanno preso le origini delle sofferenze di un individuo.
È una forma “quotidiana”, che il soggetto da solo può ricuperare e sradicare dal proprio animo,
essendo costituita da conseguenze di fatti storicamente ricuperabili e non da ipotetiche influenze
inconsce che richiedono tassativamente l’intervento di una terza persona per essere prima interpretate
e poi eliminate, come accade nella concezione psicoanalitica. Non può quindi mancare, in questo sito,
un riferimento culturale alle Terapie Primarie. Tuttavia, nella sua sostanza sia concettuale
sia metodologica, il sito si è distaccato completamente e profondamente dalla impostazione
della Terapia Primaria, acquistando una sua profonda e radicale diversità (sia per l’allargamento
della base concettuale sottostante, sia per l’assenza della figura del terapeuta e per la modalità
di realizzazione in proprio da parte del soggetto). Allo scopo di conservare un decoroso grado
di dignità intellettuale nel parlare dei propri “antenati” senza scadere nella pochezza della critica
a loro mescolata all’elogio alle proprie idee, QUATTRO non esprimerà valutazioni personali
sulle Terapie Primarie. Lascerà al lettore il compito di farsi una propria idea, fornendogli semplicemente
alcuni spunti che possano essere considerati emblematici per il loro significato. Essi sono:
1. Il pensiero di Arthur Janov.
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a. “Arthur Janov: considerazioni sul pensiero e sulla tecnica. Dichiarazione di indipendenza
in forma di premessa”.
b. “Meccanismo della sofferenza nel bambino”.
2. Un complesso quadro presentato da tre articoli apparsi su “Primal Page”.
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a. Beaulieu, Réal:
“Primale Therapy: what it is and what it is not”.
L’Autore, un terapista primario direttamente formato da Arthur Janov in California a Los Angeles
ed attualmente operante in Canada a Montreal, pubblicò l’articolo nel 1986 sulla rivista
“L’Orientation Professionelle”. Alla revisione dell’articolo nel 1988 fu aggiunta una importante
nota nel 2000.
b. Beaulieu, Réal:
“Before the plunge: preparing for Primal Therapy”.
c. Witty, Stephen K. Ph. D. - Khamsi, Stephen K. Ph. D.:
“The seven stages of Primal Therapy”,
http://primal-page.com/seven.htm
d. Un breve puntualizzante commento che costituisce la chiusa della ricca e dettagliata esposizione
“Primal Therapy, from Janov to Miller and Stettbacher”, che - sotto il patrocinio
della London Association for Primal Psychotherapy - l’Autore (Einar Jennsen) fece
come lettura presentata nel 1992.
Incominciamo da un inquadramento storico della Terapia Primaria, alle sue origini,
lasciando poi che Réal Beaulieu faccia pian piano nascere dalle sue parole
anche una serie di osservazioni critiche.
756
LA TERAPIA PRIMARIA: COS’E’ E COSA NON E’.
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(Di Réal Beaulieu).
Attorno agli anni settanta, quando la Terapia Primaria era in auge, ho sentito un mucchio
di controversie su che cosa essa è e su che cosa non è. In questo articolo cercherò di chiarire
la situazione basandomi sulla mia esperienza al Primal Institute di Los Angeles, sulle mie numerose
discussioni avvenute con terapisti formati da Janov, e sulla lettura delle sue ultime pubblicazioni.
Sottolineo il termine “ultime”, perché una quantità di controversie sono nate dal suo libro iniziale:
“Il Grido Primordiale. Terapia Primaria: la cura per le nevrosi”.
Il titolo causò a Janov un mucchio di problemi, sebbene gli abbia anche procurato una quantità
di clienti, soprattutto all’inizio. Anzitutto spinse il pubblico in generale, inclusi molti psicologi,
ad equiparare Terapia Primaria e “Terapia dell’Urlo Primordiale”, cosa che non è corretta.
In secondo luogo, a causa dei sottintesi e del significato assoluto del termine “cura”, in unione
con lo stile polemico di Janov, una notevole quantità di professionisti ebbero un rigetto, un rifiuto.
In questo modo io credo che Janov screditò se stesso. L’ho udito ultimamente dire che se potesse
ricominciare da capo, probabilmente non scriverebbe “The Primal Scream”.
Una cosa è sicura: lo scriverebbe in modo molto diverso. Detto questo, posso ora procedere a fare
del mio meglio per fornire una descrizione dell’essenza della Terapia Primaria.
È una sfida per me scrivere in poche pagine su qualcosa di così semplice e di così complesso
allo stesso tempo. Se vogliamo comprendere come una medicina agisce, è di aiuto comprendere
prima la natura della malattia. In questo caso il nome della malattia è nevrosi, dando per scontato
che psicosi è uno stato più avanzato di malattia mentale.
Pochi anni dopo la pubblicazione di “The Primal Scream”, un giovane neurologo, Michael Holden,
si unì a Janov e divenne il direttore medico del Primal Institute, in uno sforzo comune di fornire
alla Terapia Primaria le sue basi scientifiche e biologiche. Insieme pubblicarono un libro che divenne
la bibbia della Terapia Primaria: “The Primal Man: la nuova coscienza”.
A mio parere, uno dei loro grandissimi contributi al campo della psicologia è la loro descrizione
di come la nevrosi progredisce, alterando lo sviluppo dell’intero cervello, e di come è possibile invertire
il processo, almeno fino ad un certo limite. Janov aveva già descritto come noi uomini siamo nati
quali creature caratterizzate da bisogni. In quanto bambini, noi abbiamo bisogno di essere nutriti,
di essere accarezzati, di essere curati quando piangiamo, ecc.
Più tardi questi bisogni prendono una forma più sofisticata. Abbiamo bisogno di essere ascoltati,
di essere rassicurati verbalmente, di essere incoraggiati, più e più e più volte.
Il mio sforzo qui non è quello di fornire una lista completa dei bisogni, ma di mostrare come i bisogni generalmente parlando - sono la base dello sviluppo umano. Tutti questi bisogni possono essere
riassunti in una affermazione generale: abbiamo bisogno di essere amati, per potere diventare
individui sani ed essere soddisfatti e realizzati. Quando i nostri bisogni non sono soddisfatti,
noi diventiamo nevrotici ed infelici. Ritengo che la maggior parte degli psicologi sia d’accordo
su questo. Le difficoltà iniziano quando noi cerchiamo di definire scientificamente che cosa
esattamente è la nevrosi. Sono state avanzate molte teorie, ma pochissime sono soddisfacenti,
dando l’impressione di collegare concetti astratti più che fatti scientifici.
La maggior parte di noi, nelle professioni di aiuto, ha il sospetto che l’essere nevrotici ha qualcosa
a che fare con l’essere repressi. Persino gli psicopatici (tradizionalmente visti come l’antitesi
dei nevrotici) debbono essere terribilmente repressi per potere compiere le azioni più riprovevoli.
Ma che cos’è esattamente che è represso? Sono gli impulsi o i desideri, come era suggerito
da Freud? La risposta di Janov è: è represso il dolore. Ogni volta che noi scaviamo in un nevrotico,
noi troviamo il dolore; è costante la nostra osservazione che il dolore è al cuore della nevrosi.
Anche nel caso di quei nevrotici che non hanno idea di essere nel dolore la scoperta è identica.
Quando i bisogni di un bambino non sono soddisfatti, egli prova dolore.
Se il dolore non è troppo opprimente e può essere espresso nel momento della privazione,
perché i genitori permettono al bambino di farlo, il danno può essere minimo.
Ma se Il bambino è picchiato, per esempio, o se pensa “Essi non mi amano”, o “Non avrò mai ciò
che mi occorre”, allora il bambino è in uno stato di agonia e non ha altra scelta che rimuovere
questa percezione dalla coscienza. Egli diventa represso ed in stato di difesa.
Egli non deve difendersi contro i suoi impulsi o desideri, ma contro il dolore, con la “D” maiuscola,
come ha sottolineato con enfasi Janov. Il bambino diventa nevrotico allo scopo di sopravvivere.
Ma queste stesse difese che l’hanno aiutato a sopravvivere quando era piccolo e totalmente
dipendente dai suoi genitori, lo renderanno nevrotico per tutta la vita ed eventualmente
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lo uccideranno, non solo psicologicamente (il suo Io reale), ma anche fisicamente (ansia, cancro,
attacchi di cuore, ecc). Janov va molto lontano nel suo libro, mostrando come tutto questo accade
ad un livello biochimico e neurologico. Le recenti scoperte riguardanti le endorfine indicano
quanto estesamente il comportamento umano è dominato dalle sostanze chimiche che lottano
contro il dolore e la repressione. Le endorfine sono sostanze morfinosimili prodotte dal corpo stesso,
che hanno funzione antidolorifica: in questo modo esse maneggiano il dolore.
Ciò che qui importa sottolineare è che per la prima volta nella storia della psicologia, la repressione
non è un concetto astratto, bensì un concetto biologico, un terreno comune attorno a cui scienziati
e psicologi possono trovarsi d’accordo.
Inoltre, la vecchia distinzione tra mente e corpo non può più oltre esistere, e ciò rende le cose molto
più semplici. In “Prisoners of Pain”, Janov presenta una convincente dimostrazione del fatto
che il dolore psicologico ed il dolore fisico sono basilarmente trasmessi dal sistema nervoso
lungo le stesse vie. Quando il dolore è eccessivo, la repressione deve intervenire, ed interviene.
La repressione lavora con il principio del sovraccarico. Una eccessiva stimolazione elettrica del cervello
automaticamente scatena una maggior produzione di endorfine, rendendo il dolore tollerabile
e permettendo al soggetto di continuare a funzionare. La concezione della repressione che Janov
presenta, sembra avere sempre più conferme con il progredire scientifico della neurologia.
Per esempio un testo ufficiale intitolato “Fisiologia del comportamento” (in uso all’Università
della California, a Los Angeles) presenta un simile punto di vista sulla repressione,
pur senza usare questo termine:
“Anzitutto, consideriamo gli effetti di un dolore insopportabile. Numerosi esperimenti
hanno dimostrato che uno stato di analgesia può essere prodotto dalla applicazione
di stimoli dolorosi, od anche da stimoli non dolorosi che siano stati accoppiati a stimoli
dolorosi. Per esempio Maier, Drugan e Grau (1982) hanno somministrato stimoli
che gli animali potrebbero imparare ad evitare fornendo una data risposta.
Sebbene entrambi i gruppi di animali ricevessero la stessa quantità di stimoli, solamente
quelli che ricevevano stimoli che non potevano fuggire sviluppavano analgesia.
Cioè, quando veniva misurata la loro sensibilità al dolore, si trovava che essa era più bassa
che nei soggetti di controllo. L’analgesia era abolita con la somministrazione di naloxone,
il che indica che essa era mediata dal rilascio di oppiacei endogeni (endorfine).
Dal punto di vista biologico i risultati sono significativi. Se il dolore può essere evitato,
esso serve a motivare l’animale a fornire risposte appropriate.
Se il dolore compare qualunque cosa l’animale faccia, allora una riduzione
della sensibilità dolorifica è la miglior difesa per l’animale”.
In collegamento diretto con il concetto di repressione, anche i concetti di coscienza ed inconscio
prendono un significato puramente biologico nella teoria della nevrosi di Janov e di Holden.
In “Primal man” essi descrivono tre livelli di coscienza, ciascuno con la sua specifica localizzazione
nel sistema nervoso. Nel senso letterale del termine essi non hanno propriamente scoperto
l’esistenza fisiologica di questi tre livelli. Per questo motivo essi si ricollegano estesamente al lavoro
di neurofisiologi come Wilder Penfield, Paul Mc Lean (A Tri une Concept of the Brain and Behavior)
and R. Melzack, per ricordare solo alcuni nomi. A Mc Lean, in particolare, si deve originariamente
il concetto che il cervello consiste di tre parti principali (The reptilian, old-mammalian, and new
mammalian). Tuttavia Janov e Holden erano maestri nel sommare due più due, e dimostrarono
ampiamente la relazione tra queste tre parti del cervello e le loro personali osservazioni sul fatto
che certi loro pazienti potessero ricordare avvenimenti così lontani come la loro nascita.
Basandosi su questa osservazione, essi descrissero tre tipi di memoria, che si accompagna
con tre livelli di coscienza:
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 Una memoria intellettuale
(new-mammalian),
 Una memoria emozionale
(old-mammalian),
 Una memoria viscerale
(reptilian).
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In base a questa concezione, anche se noi non ricordiamo intellettivamente un trauma precoce,
il corpo ricorda. Per esempio in “Primal man: the new consciousness” (appendice D),
una fotografia mostra il riapparire di lividi sulla coscia di una donna di 56 anni, dopo che essa ricuperò
il ricordo anche sensoriale del fatto di essere stata periodicamente percossa con un frustino
dall’età di 5 anni fino ai 13 anni.
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“Fenomeni simili illustrano vividamente il concetto che ogni cellula del corpo può sentire
e registrare il dolore, e con ciò contribuire alla totalità della coscienza.
Dolori di così grande intensità non possono essere integrati e sperimentati da un bambino,
per cui egli ne è schiacciato. Le esperienze primordiali hanno pieno accesso a questi dolori
precoci schiaccianti, ed aiutano gli adulti a ri-esperirli ed infine integrarli.
Se tale dolore non è ri-esperito in esperienze primordiali, l’individuo deve esercitare
un costante sforzo metabolico di opposizione al dolore. Questo stato ipermetabolico
creato in risposta a numerosi dolori infantili costituisce la nevrosi.
Soltanto le esperienze primordiali possono invertire lo stato nevrotico”.
E questa è l’essenza della Terapia Primaria. In breve, i dolori sono stati bloccati al di fuori della sfera
cosciente ed immagazzinati nel corpo come memorie neurofisiologiche.
Il dolore è in attesa di essere espresso, ed il corpo sta piangendo per fare questa cosa.
Il ruolo del terapeuta primario è quello di aiutare il paziente a ri-esperire ed esprimere il dolore
che era represso, con un pieno collegamento con la fonte dell’evento traumatico o di situazione
di dolore prolungato che ha causato inizialmente le repressione.
Parlare di ciò è importante ma non sufficiente, perché l’energia immagazzinata del dolore primario
non viene rilasciata e continua a riverberarsi nei circuiti neuronali del cervello.
Secondo Janov, se non è espresso in una esperienza primordiale, il dolore è nuovamente
ricanalizzato e produce sintomi differenti rispetto a prima.
Il ruolo delle difese (una difesa può essere qualsiasi comportamento) è tenere represso il dolore.
Il ruolo del terapeuta primario è vedere attraverso le difese e favorire l’espressione dei sentimenti
sepolti. Secondo la mia esperienza, Janov ed i suoi terapeuti non hanno bisogno di usare alcuna
super tecnica per passare attraverso il sistema difensivo.
Se in passato l’hanno fatto, ora non lo fanno più. In genere, semplici domande od osservazioni
servono ad ottenere il risultato. La cosa più vicina alla tecnica della “sedia vuota”
di Fritz Perls, per esempio, avrebbe potuto essere il portare il paziente a parlare al suo “papino”
o alla sua “mammina” o a qualsiasi persona importante.
DOVE SI SITUA JANOV TRA LE TRE MAGGIORI SCUOLE DI PSICOLOGIA?
La sua affermazione che i sintomi nevrotici sono il risultato di dolore represso lo situano al di fuori
del behaviourismo, dato che i behaviouristi lavorano soprattutto ad eliminare i sintomi.
D’altro canto, l’approccio di Janov ha molte cose in comune con l’approccio psicoanalitico.
La sua insistenza sul passato, l’inconscio, la repressione ed i meccanismi di difesa dovrebbe rendere
questo ovvio. Egli potrebbe anche essere considerato come uno psicologo umanistico per la seguente
ragione: egli vede l’essere umano come basilarmente buono.
Bisogni insoddisfatti e dolore fanno sviluppare in una persona ogni sorta di sintomi,
e lo fanno comportare come un nevrotico. Inoltre, anche se tutti i pazienti sono stati vittime
del passato, essi hanno la responsabilità della loro crescita personale (essere capaci di sentire
e di fare connessioni, fornisce loro più di una scelta) e devono farsi carico della loro propria vita,
per ottenere infine ciò di cui hanno bisogno (vedi l’importante nota finale).
In realtà, la critica principale che ho mosso alla Terapia Primaria non riguarda la teoria o il processo
in se stesso, ma il modo in cui il Primal Institute operava nel periodo in cui io l’ho frequentato.
Per esempio mia esperienza è stata che molti pazienti non dedicavano attenzione personale adeguata
e controlli necessari per essere sicuri che la loro vita andava bene.
Così, intrinseco alla natura della Terapia Primaria, vi è il pericolo che il paziente primario,
avendo avuto la promessa di una cura, annetta troppe speranze e fiducia nei soli “sentimenti”.
Devo sottolineare che l’osservazione riguarda soltanto i primi tempi della Terapia Primaria.
Al giorno d’oggi questo procedimento era considerato come potenzialmente pericoloso,
anche da Janov stesso. Il processo di entrare in contatto con i propri sentimenti e di esprimerli,
non è pericoloso in se stesso. Esso può soltanto guarire.
Il pericolo reale si manifesta quando il paziente è messo a confronto con più di quanto egli/ella
può maneggiare ed integrare (sovraccarico). Questo è esattamente quello che accade quando
la qualità di vita di una persona sta diventando peggiore, o semplicemente non migliora.
Tutti noi comprendiamo perfettamente che un presente miserevole unito ad un miserevole passato
può soltanto portare alla disperazione. Sembra a me che il processo della Terapia Primaria
potrebbe migliorare se i terapeuti ponessero maggiore attenzione alla qualità di vita dei loro pazienti.
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In questo senso, io vorrei proporre un rovesciamento della procedura. Invece di focalizzarsi
inizialmente sul dolore, si potrebbe anzitutto aiutare il paziente a conquistare una vita migliore.
A tempo debito il dolore verrà a galla. Quando la terapia è applicata in questo modo,
il paziente non può perdersi, ed il rischio di sovraccarico è praticamente eliminato.
INSERTO A CURA DI QUATTRO, RIFERITO ALL’IMPOSTAZIONE DI QUESTO SITO.
Indipendentemente dal percorso che Réal Beaulieu ha seguito nella sua formazione
professionale, QUATTRO - pur venendo dalla psicoanalisi e dall’ipnosi ericksoniana
ed avendo conosciuto l’esistenza della Terapia Primaria alla giovane età professionale
di quasi 56 anni - ha per sua esperienza di lavoro con i propri clienti, proposto ai lettori
del sito esattamente la variante suggerita da Beaulieu.
Prima viene sostenuto l’Io con un lavoro di rafforzamento dell’auto stima,
poi il soggetto viene condotto gradualmente ad esaminare le sue difficoltà
nei rapporti interpersonali in senso generale.
Indi è aiutato a studiare le sue difficoltà nei rapporti sentimentali.
Da ultimo viene affiancato nel lavoro di studio sui suoi rapporti con la famiglia di origine.
Lo studio della storia infantile generica dei maltrattamenti a cui può essere sottoposto
un qualsiasi bambino, e successivamente lo studio dei meccanismi profondi
delle sofferenze nel bambino e nei rapporti sentimentali in età adulta, lo preparano
ulteriormente all’ultimo passo, quello che dovrà fare da solo, misurarsi con il dolore
della sua infanzia senza esserne distrutto, ma anzi riuscendo ad integrarlo nella sua vita
di adulto conquistando un nuovo equilibrio ed una nuova serenità.
Personalmente ho un’altra critica da muovere. Per esempio, ho sempre sentito che il costo
delle tre settimane di terapia intensiva è proibitivo e per lo stesso motivo anti terapeutico.
Lasciate che mi spieghi. La terapia intensiva è solamente la punta dell’iceberg.
Certi soggetti devono lavorare per anni o usare tutti i loro risparmi, per fare soltanto “partire”
un processo che può durare tutta la vita. Questo li mette sotto un’enorme pressione,
al fine di “sentire vecchi sentimenti” (qui chiamati esperienze primordiali) e qualche volta arrivano
all’abreazione o si sforzano troppo duramente per fare la terapia. In altre parole,
ciò diventa innaturale, qualche volta anti terapeutico. Una volta ancora si discute sul come
la Terapia dovrebbe essere applicata, non si discute la teoria in se stessa.
Uno potrebbe fare mille giri attorno al mondo, diventare un famoso scrittore o una stella del cinema,
essere ammirato da milioni di persone e sentirsi ancora miserevole.
Il tipo di dolore di cui stiamo parlando non sparisce soltanto a motivo di un cambiamento
nello stile di vita. Bisogna venire a patti con esso, e sentirlo per quello che è.
E per finire, una frase che Janov ha scritto in “Prisoners of Pain” riassume pienamente
l’essenza della Terapia Primaria, come io la concepisco:
“La storia dei disordini psichiatrici non è nient’altro che la storia della tristezza.
Ma ancora nessuno ha tratto la conclusione che una persona triste ha bisogno di piangere”.
Tutti i bambini testimoniano il fatto che essere arrabbiati o piangere, spontaneamente in risposta
ad una sofferenza, è naturale e salutare.
NOTA IMPORTANTE.
In questo articolo ho cercato di classificare la teoria primaria storicamente, in termini di psicologia
Freudiana, Cognitivo-Comportamentale ed Esistenziale-Umanistica.
Quest’ultima pone una forte enfasi sulla responsabilità del cliente per il suo presente
e per la sua crescita futura. Il pericolo qui è ignorare la tremenda responsabilità del terapeuta
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in questo processo di crescita. Un errore non riconosciuto (specialmente un errore eccellente)
compiuto dal terapeuta o da persona autorevole (supervisore), specialmente in un confronto diretto
con il cliente, può contribuire ad un sovraccarico catastrofico in un paziente primario.
Questo sovraccarico può durare tutto il tempo della vita. Ciò è ancora più complicato, se in nome
della competenza clinica, l’errore è sottoscritto da un intero gruppo di terapeuti e di persone
autorevoli. Allora la realtà del cliente è chiaramente messa da parte, il che può portare a severe
conseguenze, inclusi suicidio e psicosi. Per molti pazienti primari, la Terapia Primaria rappresenta
la loro ultima speranza. Dove si rivolgeranno se le persone che hanno dato a loro speranza girano
loro la schiena e negano la validità della realtà dei clienti stessi e dei loro sentimenti,
nello stesso modo in cui fecero i loro genitori? Tutti quanti abbiamo la responsabilità di guardare
in noi stessi come terapeuti e guardare in faccia le conseguenze delle nostre azioni.
È umano commettere errori, ma è disumano negarli quando la posta in gioco è così grande.
La qualità principale di un buon terapeuta è l’umiltà ed un atteggiamento non difensivo.
È un grave errore non saper dire: “Tu hai ragione. Scusami”.
Ed ora la parola resti ancora allo stesso Autore, accreditato dalla sua qualifica di terapeuta primario
(per di più formato dallo stesso Janov) a muovere ad alcuni aspetti della Terapia Primaria critiche
non sospettabili di astiosità:
PRIMA DELL’IMMERSIONE: PREPARARSI PER LA TERAPIA PRIMARIA.
Molti miti sulla Terapia Primaria sono nati dall’epoca della pubblicazione di “The Primal Scream”
nel 1970. Alcuni dubbi dogmi ed alcune discutibili pratiche sono fioriti in tutte le parti del mondo,
e pare che raramente siano stati sottoposti a domande. Spesso sono passati per una parte integrante
della teoria e parecchie volte sono stati applicati in nome della “esperienza clinica”.
Su questi argomenti, mi vengono in mente - mentre scrivo - quattro casi:
1. Alimentare la speranza di una cura o di un invidiale modo di essere alcuni giorni
dopo uno scarico primordiale.
2. Le tre settimane di terapia intensiva, per la somma media di seimila dollari (che arrivano
a quasi diecimila, per l’aggiunta del biglietto aereo e delle spese di soggiorno se il cliente
deve lasciare il proprio paese).
3. La deprivazione come regola generale durante le tre settimane di terapia intensiva.
4. E, ultimo ma non meno importante, l’idea che la Terapia Primaria è relativamente breve
e più efficace che altre terapie.
Una storia tipica incomincia più o meno così: una persona lavora per anni a mettere da parte il denaro
(oppure usa tutti i suoi risparmi), poi lascia il suo paese, la famiglia, gli amici, il lavoro e mette in piedi
il sistema di vivere in una città straniera, con la speranza che sarà curato, in pratica dopo un mese,
sei mesi, un anno o forse due. Parecchi anni dopo, persone così si ritrovano ancora lì,
spesso dopo aver dovuto cercarsi un lavoro sottobanco per continuare a pagare la loro terapia.
Io mi ricordo il mio terapeuta (dopo che io gli avevo espresso il mio disappunto su quanto il processo
terapeutico fosse lungo) dirmi: “Aspetta due anni... vedrai!”.
Beh, è stato 25 anni fa, e io ho ancora bisogno di sedute! Lo scenario dei casi peggiori è il seguente,
e mi è stato riferito alcune volte: un cliente dà la stura a sentimenti di dolore prima rimossi,
finisce il suo denaro, si trova in una realtà attuale difficile, incomincia a trovarsi nei guai,
disperato, è incoraggiato a prendere medicinali per bloccare il dolore in primo piano
(memorie traumatiche peri-natali), diventa incapace di funzionare bene, diventa “eccessivo”
in termini di peso del caso, e - infine - è invitato a tornarsene a casa perché non può essere aiutato
come paziente ambulatoriale.
In questo scenario dei casi peggiori (non dimentichiamolo) le ragioni cliniche invocate per porre
termine alla terapia del cliente, possono variare da “Lei ha bisogno di un medico duro”,
“Le serve un lavoro”, “La sua vita non sta mutando”, “Lei non risponde alle cure”,
“Lei ha bisogno di una terapia convenzionale”, fino al semplice “La Terapia Primaria non può
aiutarvi!”. Nello stesso scenario dei casi peggiori, la Terapia Primaria era l’ultima speranza
per il cliente, e tornando a casa non c’è terapeuta primario o sostegno primario.
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O se c’è, il cliente è scartato a motivo di criteri selettivi. Si può facilmente immaginare che cosa segue.
Io chiamo questo “Spingersi nel fiume con la canoa, pagaiare al contrario irresponsabilmente,
senza nessuna attenzione alla destinazione del passeggero, per mancanza di una carta, di
equipaggiamento adeguato e di itinerario chiaro”.
È anche stato definito “Essere su un torrente di merda senza nemmeno una pagaia”.
Di questi miti si dovrebbe parlare prima dell’ inizio di ogni Terapia Primaria intensiva.
Si chiama consenso informato. Procedere con una terapia intensiva senza questo consenso informato
è al meglio non etico, ed al peggio illegale. In accordo con le tesi di David Fox J. D.,
procuratore legale (fondatore del PASS, un workshop che prepara per la licenza necessaria
per la Terapia Coniugale e Familiare) nell’uno e nell’altro caso potrebbero esservi gli estremi
per una revoca dell’autorizzazione ad esercitare la professione. Questi miti dovrebbero essere sostituiti
da principi più terapeutici e realistici, basati sul benessere del cliente, osservazioni, feed-back
ed esperienza. Ecco che cosa viene alla mente:
• La Terapia Primaria può essere un processo che dura tutta la vita specie per persone
con sofferenze precoci massive.
• Può essere un processo veramente costoso.
• L’educazione è della massima importanza. Dovrebbe essere offerto un workshop
o un addestramento della sensibilità primaria, allo scopo di discutere i miti sopra indicati
e partire con il piede giusto nella terapia. Uno degli scopi della fase educazionale è di incoraggiare
la gente a partire con un gruppo di supporto primario che possa eventualmente diventare
un “gruppo di compagni” o un “gruppo di co-terapia tra pari” allo scopo di rendere
la terapia affrontabile e permettere che persone fragili non cadano in crisi.
• Anzitutto si deve avere attenzione alle circostanze attuali. Prima di ogni terapia intensiva,
si dovrebbe prendere ogni precauzione per garantire una situazione di sicurezza di vita e mezzi
di supporto. Per esempio: un lavoro che sia flessibile, sufficienti guadagni o denaro in banca
almeno per alcuni mesi, ecc. Avendo a cuore il migliore interesse del cliente, non si deve
incoraggiarlo a spendere più dei suoi risparmi per iniziare comunque una Terapia Primaria.
• Generalmente parlando, una interruzione disturbante nella situazione di vita corrente
del cliente dovrebbe essere ridotta al minimo, ed inoltre non dovrebbe essere applicata a chiunque.
Alcune persone tuttavia stanno platealmente meglio quando si spostano dal luogo dove si sono
prodotti i dolori della loro infanzia.
• Le prime due o tre settimane di terapia intensiva (a seconda dei casi)
sono solamente la punta dell’iceberg.
• L’isolamento durante la terapia intensiva può essere applicato oppure no,
in rapporto allo stile di vita del cliente ed alle sue difese.
• Il processo selettivo è una realtà, in rapporto alle risorse del terapeuta primario
o della istituzione. Non tutti i pazienti possono essere accettati.
Questo articolo è stato pensato come una cornice per ulteriori riflessioni e discussioni.
È il modo con cui noi intendiamo operare a Montreal.
Reazioni e commenti sono benvenuti, ed io mi impegno ad essere aperto alle vostre idee.
Potete inviarmi una e-mail all’indirizzo: mailto:[email protected]
Réal Beaulieu
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Ed infine, ecco lo studio di Stephen K. Witty e di Stephen K. Khamsi, che presenta una ricerca
sulle manifestazioni che compaiono nel corso di una Terapia Primaria, divise in sette stadi.
Sebbeno lo studio riferisca esperienze derivanti dalla applicazione della metodica di Terapia Primaria
sotto la guida dello psicoterapeuta, QUATTRO ha deciso di presentarlo ai lettori di questo sito
come forma di inquadramento concettuale generale.
Esso può essere utile anche a chi applica a se stesso in auto-aiuto la metodica: ogni spunto,
ogni suggerimento, ogni spiegazione può facilitare il lavoro di conoscenza di sé ed agevolare
il ricercatore in momenti difficili della propria ricerca.
In questa luce ogni contributo può essere prezioso, se non addiritttura vitale.
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I SETTE STADI DELLA TERAPIA PRIMARIA.
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(Di K. Witty e Stephen K. Khamsi).
(Inquadramento sintetico generale: in questo studio, Witty ha studiato le esperienze di 10 soggetti
che hanno praticato Terapia Primaria per almeno due anni.
I soggetti erano della San Francisco Bay Area, provenienti dagli elenchi del Marin Center for Intensive
Therapy e del Berkeley Center. Sei maschi e quattro femmine, di età media di circa 32 anni
(da 22 a 57). 5 sposati, 4 single, 1 divorziato. Professioni: 1 sacerdote, 1 sarto, 1 casalinga,
1 musicista, 1 medico, 2 studenti e 3 consulenti psicologi.
Le interviste furono condotte da Witty a casa dei soggetti, registrate su nastro, poi trascritte
ed analizzate. Esse sono state basate su 4 domande:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
1. Nel senso più ampio possibile, quale è stata la vostra esperienza di Terapia Primaria?
2. Quali sono state, con il trascorrere del tempo, le vostre specifiche esperienze di Terapia Primaria?
3. Come descrivereste le esperienze primordiali?
4. Quale è la vostra esperienza ora, essendo passati attraverso il processo di Terapia Primaria?
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Witty ed il secondo giudice, esaminando le trascrizioni, ne hanno ricavato quasi duecento temi
significativi sull’esperienza della Terapia Primaria, temi che sono risultati ripartiti in sette Categorie.
Di queste categorie generali, alcune riguardano:
Affermazioni globali.
A1 - L’esperienza primordiale.
A2 - L’esperienza globale di Terapia Primaria.
A3 - La direzione di cambiamento associato alla Terapia Primaria.
Altre riguardano invece:
Categorie temporali.
B1 B2 B3 B4 -
L’esperienza di se stessi.
La percezione degli altri.
La percezione dei genitori o di altri adulti significativi.
La percezione della Terapia Primaria in se stessa.
In base ad un questionario presentato, i soggetti dovevano accettare o rifiutare ciascuno
delle 196 affermazioni e - per quanto riguarda le categorie temporali - associare ogni tema
con il momento temporale in cui esso era apparso nella loro terapia personale).
IL VISSUTO DELLA ESPERIENZA PRIMORDIALE.
• Durante un’esperienza primordiale, una persona entra in contatto con ricordi del passato,
ed anche con i sentimenti/emozioni connesse con essi, ed ha l’esperienza di scendere in profondità.
La persona segue il sentimento, lo lascia espandere e diventare “grande”, si arrende ad esso,
entra nei movimenti corporei del sentimento.
Nel lasciarsi andare, la persona è cosciente del fatto che sta realmente permettendo di venir fuori
al sentimento anziché bloccarlo. Spesso ha di se stesso l’esperienza di essere perso nel sentimento,
ma al tempo stesso vi è una parte di se stesso che guarda dal di fuori il manifestarsi delle esperienze
primordiali: sa che può uscire da questo torrente di sentimenti, se lo desidera; se il dolore
è troppo forte, la persona può uscirne. Durante l’esperienza dei sentimenti, il soggetto
perde la nozione del tempo. Un sentimento conduce ad un altro, e - dopo un po’ - i sentimenti
sembrano emergere spontaneamente.
763
• Quando un soggetto entra in contatto con i sentimenti, ha spesso il senso che ciò sia “giusto”,
“esatto”, “corretto”, come se la persona fosse arrivata a qualcosa di vero e di reale.
Dopo essere entrato in contatto con i sentimenti, il soggetto che fa un’esperienza primordiale
sperimenta spesso l’emergenza di improvvise prese di coscienza.
Il contenuto dei ricordi ricuperati durante una sessione di Terapia Primaria ha spesso a che fare
con l’essere piccoli e senza speranza, e con l’essere in presenza di uno o di entrambi i genitori.
Alla fine di un ciclo una persona tende a sentirsi più leggera, come se avesse lasciato cadere
un peso. Alla fine di una seduta, la persona ha spesso la sensazione di essere veramente entrato
in contatto con i propri antichi sentimenti, quindi con il proprio vero sé.
Le prese di coscienza che in tali casi emergono, sono sperimentate come solide ed indiscutibili.
L’ESPERIENZA GLOBALE DELLA TERAPIA PRIMARIA.
• Il soggetto sperimenta il suo processo primario come una sorta di processo di “limatura
progressiva”, percependo i vecchi sentimenti a piccoli frammenti.
È come se si fosse liberato da un grosso peso, e più se ne libera più leggero si sente.
Un soggetto che fa un’esperienza primordiale, periodicamente sperimenta dei “plateaux”
nei quali ha l’impressione di stare integrando a se stesso ciò che ha appena sperimentato,
invece di dissodare nuovi pezzi di terreno.
Il processo in toto è spesso sperimentato come un aprirsi del Sé.
• Il modello del sentimento primordiale è generalmente percepito come ciclico,
piuttosto che come lineare. Con il passare del tempo, d’altronde, al soggetto sembra di avere
a che fare con materiale sempre più antico.
Egli spesso sperimenta lo stesso sentimento nel contesto di differenti ricordi, oppure nel contesto
dello stesso ricordo ma da un differente “angolo di visuale”.
Man mano che il soggetto sperimenta più e più volte antichi sentimenti, tali sentimenti
sembrano emergere meno spesso nella vita di ogni giorno, ed essere meno dominanti
nel livello di coscienza personale.
L’ESPERIENZA DELLA TERAPIA PRIMARIA CON IL TRASCORRERE DEL TEMPO.
• Durante le prime settimane di terapia, il soggetto tipicamente ha difficoltà con il fatto di capire
se o no si sta impegnando pienamente nella terapia. Deve valutare se vuole assumersi i rischi
personali che essa comporta. Spesso trova che è difficile entrare in contatto con i sentimenti.
E - a parte lo stato di frustrazione - può percepire se stesso come “una noce dura da rompere”.
Nondimeno, quando sia diventato capace di entrare in contatto con i sentimenti, questi risultano
forse più profondi e più potenti di ciò che egli abbia mai sperimentato.
Il soggetto che fa una esperienza primordiale riconosce, come forse mai prima di ora, la tremenda
intensità dei sentimenti. Ed impara che può provare questi sentimenti nel contesto della terapia
senza “diventare pazzo”. In una parola, il soggetto incomincia a vedere se stesso come una persona
che ha pienamente dei sentimenti.
• Egli incomincia ora a percepire se stesso come se fosse all’inizio di una nuova fase della vita.
Sentendosi solo in un suo viaggio personale, ha l’impressione che la maggior parte dell’altra gente
non sia capace di comprendere che cosa egli sta attraversando.
Egli tende ad avere modi di sentire diversi rispetto alle altre persone che non hanno fatto
l’esperienza del processo primario, e spesso può pensare a se stesso come ad un qualcuno
di “superiore”. Il mondo gli sembra un po’ pazzo. La gente gli sembra “irreale”, specialmente
quando si dedica a giochi o fa degli scherzi. Egli può desiderare di “incitare” tutto il mondo
a praticare una Terapia Primaria. Al tempo stesso, egli si preoccupa che la terapia possa
non funzionare, o che egli non sia in grado di continuarla.
Il soggetto che fa una Terapia Primaria spesso si meraviglia per il fatto che si disinteressano
della terapia assai più di lui. È confuso per la maggior parte del tempo, ma impara a lasciare
che la sua confusione si manifesti.
764
• Durante questo periodo il soggetto ha paura del mondo esterno e si ritira da esso in un certo modo.
Qualche volta gli sembra che non riuscirà mai ad andare oltre questi vecchi sentimenti, come se essi
fossero un pozzo senza fondo. Gli sembra anche che non riuscirà mai ad avere ciò
di cui ha bisogno. Si chiede se la terapia valga la pena. Spesso gli capita di aspettarsi di fare
una “esperienza primaria magica” che, in un colpo solo, possa in qualche modo liberarlo da tutto
il dolore che egli ha. Ed ancora, ci sono momenti - dopo che è riuscito a ri sperimentare
completamente un sentimento, quando la fede nel processo terapeutico viene rinnovata che gli sembra possibile trovare soddisfazione. La Terapia Primaria incomincia ora ad essere sentita
come una parte integrante della vita. Il soggetto arriva a capire che, qualunque persona
egli sia diventata, è impossibile tornare ad essere chi era prima della terapia.
• Egli incomincia ora ad accettare il fatto che, essendo ormai adulto, non avrà mai quelle cose
delle quali aveva bisogno quando era bambino. Si rende conto che si è sempre sforzato
di “estrarre” amore dai genitori, e dal mondo intero. Rifiutandosi più oltre di continuare
ad implorare amore e non riceverlo mai, egli si rende conto di quanto sia stato folle costringersi
a sforzarsi per avere questo amore. Egli accetta il fatto che non vi è ricompensa,
non vi è rimborso per il dolore che egli ha provato, e che egli è solo al mondo.
• Il soggetto ora incomincia a vedere se stesso come realmente separato dagli altri.
Al tempo stesso diventa anche cosciente di quante cose egli condivide con chiunque altro al mondo;
è più tollerante verso gli altri, accetta di più i loro sentimenti. Progressivamente diventa cosciente
di qualcosa dentro di lui stesso, che prova sentimenti veramente belli ed è veramente amabile,
qualcosa che egli è capace di condividere con gli altri. Incomincia anche ad entrare in contatto
con un senso di grande potere interiore.
• Il soggetto che fa una Terapia Primaria incomincia ad assumere un ruolo più attivo nei processi
emozionali, facendo conto più su di se stesso che sul terapeuta per la direzione della terapia.
Egli diventa progressivamente cosciente delle interrelazioni tra ciò che si sviluppa dentro di lui
e ciò che accade fuori di lui. Gradualmente si arrende al fatto di avere della rabbia verso
i suoi genitori, ed al tempo stesso si sente meno attaccato a loro. Incomincia a rendersi conto
che è capace di sopravvivere da solo. Il soggetto dipende meno dagli altri ed ha meno difficoltà
a far sì che la gente lo capisca. Essendo generalmente più onesto e diretto con gli altri,
le relazioni sembrano essere più facili e meno complicate. Egli nota anche che reagisce
differentemente nelle situazioni familiari.
• Il soggetto che effettua una Terapia Primaria incomincia coscientemente, deliberatamente,
a “prendere il toro per le corna” ed a fare scelte di vita diverse. Incomincia a vivere la vita
in termini di bisogni personali, piuttosto che in termini di cercare di piacere agli altri.
Incomincia a sviluppare un senso di che cosa significa essere “limpido”, ed accetta più pienamente
la unicità della sua realtà personale. Avendo attraversato il processo primario, ha ora fiducia
nel fatto che la sua visione è profonda ed accurata.
• Generalmente meno ansioso circa il fatto di “fare la terapia in modo giusto”, è meno coinvolto
nell’essere un “soggetto primario”. La Terapia Primaria ha incominciato ad assumere una posizione
generalmente meno importante nella sua vita. Nella terapia, egli tende ora a focalizzarsi
più sui sentimenti attuali che su quelli passati, sebbene i vecchi sentimenti tendano ora ad essere
più profondi e più terrorizzanti di qualsiasi altra emozione che egli abbia sperimentato
precedentemente. La persona ancora sente dolore nel vivere, il dolore associato con la inevitabile
sofferenza della vita quotidiana. Al tempo stesso egli è ora capace di percepire il proprio dolore,
di passare attraverso esso e di andare oltre. Si sente generalmente competente, all’altezza
delle sfide della vita. Il soggetto ora ha bisogno di esplorare altre vie di crescita, e - al tempo stesso si sente attratto da quelle cose che incrementano la sua crescita.
765
AFFERMAZIONI TEORETICHE CIRCA LA TERAPIA PRIMARIA.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Primo.

Un’esperienza primordiale (un “primal”) è un evento psicofisiologico
nel quale un soggetto diventa cosciente di un ricordo antico, e permette
a se stesso, nel presente, di sperimentare pienamente questo ricordo
e le sensazioni associate ad esso.
Secondo.

Durante un’esperienza primaria, una persona è cosciente di se stesso
come di una persona che fa un’esperienza primaria, ed è in grado di interrompere
questa esperienza primaria se il dolore diventa troppo grande.
Terzo.

Durante un’esperienza primaria, ogni ricordo e le sensazioni associate diventano
stimolo all’emergere di ricordi collegati e delle sensazioni relative.
Quarto.

Le esperienze primarie sono spesso accompagnate da intuizioni e prese di coscienza,
che per il soggetto hanno validità incontrovertibili.
Quinto.

Nel momento della conclusione di una esperienza primaria, il soggetto sperimenta
uno stato soggettivo di sollievo e di benessere.
Sesto.

Durante il processo di Terapia Primaria, una persona gradualmente ri esperisce
e risolve sensazioni e modi di sentirsi dolorosi provenienti dal passato.
Settimo.

Man mano che una persona risolve sensazioni dolorose provenienti dal passato,
altrettanto guadagna un più grande senso dell’IO.
Ottavo.

Durante il corso della Terapia Primaria, il soggetto sperimenta periodi alternati
di scoperta (quando nuovo materiale viene rivelato) e di integrazione
(quando il materiale appena rivelato viene elaborato).
Nono.

Una persona tende a fare esperienza di materiale sempre più antico,
man mano che la Terapia Primaria prosegue.
Decimo.

Durante il corso della Terapia Primaria, sensazioni specifiche sono ri esperite
ripetutamente nel contesto di differenti ricordi, e con qualità affettive differenti.
Undicesimo.

Man mano che sensazioni precoci sono sperimentate sempre più
nel corso della Terapia Primaria, queste sensazioni tendono ad emergere
meno spesso nello stato di coscienza, e sembrano avere minore influenza
sul comportamento del soggetto.
Dodicesimo.

Il soggetto sperimenta il processo di Terapia Primaria come un qualcosa
che si sviluppa in sette stadi sovrapposti.
Mentre le prime 11 affermazioni sono da attribuire a Janov, la dodicesima rappresenta
un contributo originale di Witty.
766
GLI STADI DELLA TERAPIA PRIMARIA.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
La Terapia Primaria è sperimentata in sette stadi temporali dinamici, sovrapposti.
Questa è una concezione originale della Terapia Primaria vista come un processo ordinato
e coesivo con stadi prevedibili. Ogni stadio sembra essere una precondizione necessaria
per ogni stadio susseguente, ed ogni stadio successivo emerge logicamente da ciò che è appena
capitato. Ciononostante, esperienze che sembrano caratterizzare uno stadio particolare,
possono anche accadere in altri stadi. Gli stadi sono i seguenti:
1° STADIO - INIZIO.
La persona impara come entrare in contatto con il suo reale Sé, e come fare il lavoro primario.
Tipicamente essa inizia la terapia lottando con il concetto di impegno a svolgere la terapia nella misura in cui essa sembra rischiosa - ma alla fine accetta le richieste della terapia.
Durante questo periodo può essere difficile provare sentimenti, emozioni; e la persona quindi
incomincia a diventare molto frustrata. Nondimeno, quando essa entra in contatto con i sentimenti,
essi sembrano più profondi e più potenti di qualsiasi altra cosa sperimentata precedentemente.
La persona riconosce la tremenda intensità di questi sentimenti, ed impara che essa può nel corso della terapia - avere questi sentimenti senza “diventare pazza”.
La persona ora vede se stessa come un soggetto che sente emozioni e che è per così dire
all’inizio di una nuova fase della vita.
2° STADIO - ALIENAZIONE.
La persona sente se stessa come separata dalla sua rete di relazioni sociali, e da “chi era” prima
di iniziare la terapia. Dolorosamente solo in un viaggio, essa sente come se gli altri fossero incapaci
di comprendere ciò che essa sta attraversando.
Tende a sentire in modo differente (talora anche superiore) rispetto alla gente
che non ha sperimentato il processo primario. Il mondo intero sembra un po’ pazzo.
La gente sembra “irreale”. La persona vorrebbe portare tutto il mondo a fare Terapia Primaria,
mentre simultaneamente si preoccupa che la sua terapia personale possa non funzionare,
o che personalmente sia incapace di continuare la terapia.
Qualche volta si chiede se altri nella terapia produrrebbero più risultati di quelli che egli produce.
La persona che fa Terapia Primaria è confusa per la maggior parte del tempo, ma impara a permettersi
questa confusione. Spaventato dal mondo esterno, la persona tende a ritirarsi.
3° STADIO - DISPERAZIONE.
La persona arriva ad un particolare punto di disperazione e di profonda solitudine nel mondo.
I tentativi per evitare la solitudine, il dolore e la lotta, sono sentiti come futili.
Spesso le sembra di non stare andando da nessuna parte, di non riuscire mai a superare i suoi vecchi
dolori, né ad ottenere ciò che le serve. Il soggetto che sta effettuando la Terapia Primaria si chiede
se la terapia è valsa tutto il dolore che ha comportato. Sovente spera in una “esperienza primaria
magica”, la quale riesca istantaneamente a sollevarla da quell’insopportabile dolore.
Ciononostante, vi sono momenti - specie dopo una seduta di terapia produttiva - nei quali si rinnova
la fiducia che la terapia possa funzionare per il soggetto e che egli possa infine trovare pace e gioia.
4° STADIO - ACCETTAZIONE.
Il soggetto che fa la Terapia Primaria incomincia ad accettare la dolorosa realtà della sua vita
di un tempo, cioè il fatto che egli non ha ricevuto nemmeno lontanamente abbastanza sostegno
e supporto. Egli si rende conto che è troppo tardi perché i suoi bisogni dell’infanzia possano essere
soddisfatti, e così - abbandonando la illusoria speranza di trovare un giorno l’amore che gli è mancato
nel suo passato infantile - egli decide di smettere di impegnarsi con fatica per avere questo amore
nel presente. Egli riesce ad accettare che non vi è ricompensa, non vi è indennizzo per questo dolore;
e che egli è solo al mondo. Incomincia ad essere cosciente di sé come di una persona realmente
767
separata dagli altri, pur - allo stesso momento - riuscendo a condividere profondamente molte
emozioni con qualsiasi altra persona al mondo. Il soggetto è ora più tollerante nei confronti di altri,
ed accetta le loro emozioni. Ora riesce anche ad accettare il fatto che deve guardare dentro se stesso.
La Terapia Primaria incomincia ad essere sentita come una parte integrante della vita.
Egli si rende conto che - chiunque sia stato - è impossibile tornare ad essere quello che era.
5° STADIO - ESPANSIONE.
La persona guarda dentro se stessa, e scopre un senso di grande potere personale e di superiore
compassione, proveniente dal centro di se stesso. Incomincia a diventare cosciente di avere dentro
di sé amore e bellezza, e si rende conto che tutto questo può essere condiviso con gli altri.
Incomincia a prendere un ruolo più attivo nella propria terapia.
Ed assume un nuovo senso di responsabilità verso la propria vita. Si sgancia dalla dipendenza
nei confronti di altri e si avvia verso una condizione di auto sufficienza.
6° STADIO - INTEGRAZIONE.
Sentimenti appena scoperti di potere personale e di compassione sono integrati nella personalità
del soggetto che si sottopone alla Terapia Primaria. Egli scopre ora come vivere basandosi sulla nuova
identità. In situazioni abituali, il soggetto ora reagisce differentemente. È più onesto e diretto rispetto
a prima, e le sue relazioni sembrano essere più facili e meno complicate. Si rende conto che è capace
di sopravvivere per conto proprio, diventa meno dipendente rispetto agli altri, e gradualmente
sente meno rabbia e meno attaccamento nei confronti dei propri genitori.
Incomincia a vivere coscientemente la sua vita in termini di suoi bisogni personali, piuttosto
che sforzarsi costantemente di piacere agli altri. Colui che si sottopone alla Terapia Primaria,
attivamente bilancia abitudini nevrotiche derivanti dal passato, allo scopo di conquistare un modo
più sano di funzionare nel presente. Incomincia ad accettare l’unicità della sua propria realtà,
ed avere fiducia nel fatto che questa visione è profonda e accurata.
7° STADIO - DISTACCO.
La persona appare più forte, più limpida e più intera... e non continua ulteriormente
ad essere così dipendente dalla terapia. Avendo portato a compimento la maggior parte
del lavoro, deve fronteggiare il compito di separarsi dalla terapia ufficiale.
Nel corso della parte finale della terapia essa incomincia a focalizzarsi più sui sentimenti attuali
che sui sentimenti di un tempo, sebbene i vecchi sentimenti tendano ora ad essere più profondi
e più terrificanti che in passato. Il soggetto che effettua la Terapia Primaria continua a sentire
le inevitabili ferite della vita quotidiana, ma è capace di sentire e di passare attraverso questo dolore.
La Terapia Primaria ha incominciato ad assumere un ruolo meno centrale nella sua vita,
ed il soggetto è meno ansioso circa il fatto di “fare correttamente la terapia” oppure diventare
“una persona primaria”. Egli si sente capace di accettare le sfide della vita
e desidera esplorare altre strade di crescita.
768
LA MAPPA DELLA TERAPIA PRIMARIA.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Lo studio ha individuato che vi è una struttura ordinata, coerente e spesso prevedibile nella esperienza
della Terapia Primaria. A motivo di ciò, la teoria degli “stadi” può essere usata come una mappa
del processo primario. In generale, questa mappa della Terapia Primaria può essere usata per interventi
più mirati e rapportati agli stadi. È tuttavia sconsigliabile applicare rigidamente al caso personale
questa teoria degli stadi. La ragione è che, mentre è stato stabilito che la Terapia Primaria
ha una struttura, è stato anche stabilito che vi è una tremenda variabilità individuale tra i soggetti
che effettuano la Terapia Primaria. Inoltre bisogna tenere presente che lo schematico inquadramento
della teoria degli stadi sfuma le differenze, incongruenze, irregolarità ed altre reali ma complicate
caratteristiche. Con queste raccomandazioni nella mente, noi possiamo appropriatamente considerare
l’idea che i clinici possano utilizzare la mappa in molti modi.
Primo:

i terapeuti possono educare i potenziali clienti sia alle complessità sia alle difficoltà
del processo primario. Dal momento che una Terapia Primaria completa significa
passare attraverso tutti i sette stadi, forse il soggetto potrebbe essere preparato
a permanere dentro il processo fino al suo completamento,
oppure non cominciare nemmeno.
Secondo:

i terapeuti possono usare la mappa per identificare il punto del processo primario
nel quale si trovano i loro clienti. I terapeuti possono monitorare i progressi del cliente
attraverso gli stadi ed esaminare se e come il cliente si trova bloccato e presumibilmente, poi, come si sblocca - in uno o più stadi particolari.
Terzo:

la mappa può essere usata per informare terapeuti e clienti dello scopo specifico
di ogni singolo stadio di terapia. Questa informazione può essere usata per formulare
strategie che incoraggino e promuovano il movimento terapeutico, e per assistere
i clienti nel superamento di difficoltà caratteristiche associate ad ogni stadio.
Per esempio una delle più evidenti sfide della fase di inizio è costituita
dall’abbandonarsi al compito di imparare a fare il lavoro primario, assumendo
l’impegno di affrontare il processo, e di abbandonarsi al sentire.
Più avanti nella terapia - per fare un altro esempio - il terapeuta vorrebbe rendersi
conto del tipo di situazioni che è probabile che la persona incontrerà quando entrerà
nella fase di Integrazione, in modo da controbilanciare abitudini nevrotiche
ed effettuare cambiamenti nella vita personale.
QUATTRO presenta, come conclusione della sezione, le osservazioni finali fatte da Einar Jenssen,
nella sua lettura sul tema “Primal Therapy, from Janov to Miller and Stettbacher”,
fatta a Londra nel 1992 sotto il patrocinio della London Association of Primal Psycotherapist:
“... Sento comunque Il bisogno di menzionare ancora un altro punto, prima della conclusione,
ed è il concetto di “cura”. Janov e Stettbacher indicano che ogni malattia, sia fisica sia mentale,
può essere curata con l’aiuto delle loro terapie. Ora, la nozione di essere umano perfetto è una
costruzione mitica. Janov scrive che vi è un uomo nuovo che cammina sulla Terra,
“l’Uomo Primario”. Questo non solo non è vero ma si presta ad una visione profondamente fascista
della natura umana, che mina le fondamenta del reale svolgimento e termine della terapia.
La terapia può mettervi in grado di bloccare la ripetizione di relazioni disfunzionali basate sulle vostre
esperienze dolorose nel passato. Può aiutarvi a scoprire più di quanto vi serva al momento presente.
Ma noi siamo pur sempre esseri umani che vivono in un mondo incerto, pieno di complessità
e di domande senza risposte. La terapia può aiutarvi a trasformare tutto ciò da una esperienza
schiacciante ad un qualcosa che abbia più speranza e creatività.
Per finire, una citazione da Jacques Lacan. Molto di ciò che egli scrisse è caratterizzato
da difficili correlazioni, ma io penso che egli è vicino a ciò che io vorrei essere, guardando a quando
egli lo scrisse: “Il paziente, o parla di se stesso o parla al terapeuta. Quando parla di se stesso
al terapeuta, la terapia è terminata”.
Grazie per l’ascolto”.
769
DICHIARAZIONE DI INDIPENDENZA IN FORMA DI PREMESSA.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
In rapporto ad un cambiamento in certi aspetti della sua visione professionale, l’impostazione
della sezione che segue rappresenta per QUATTRO una scelta di serietà ed importanza pari
a quella che fece quando abbandonò l’adesione prevalente alla concezione teorica
ed alla tecnica della psicoanalisi, già negli anni ’80 - ‘85 e - più definitivamente - dopo il 1991.
Si tratta, infatti, della scelta di abbandonare la tecnica di un Autore, che pure ha aperto
a QUATTRO orizzonti appassionanti, per una divergenza di linea di sviluppo ormai inderogabile.
Come tutte le metamorfosi, anche questa è germogliata lentamente e progressivamente.
La sequenza degli stimoli nel tempo è stata la seguente:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Settembre 1991:
lettura di:
“Perché la sofferenza. Il salutare incontro con la propria storia personale”, di J. K. Stettbacher.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Settembre 1991:
lettura de:
”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo nel silenzio della società”,
di Alice Miller (già in libreria dal 1990), nel quale è citato Arthur Janov e il suo “The Primal Scream”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• 1993-1994:
lettura delle tre opere di Arthur Janov reperibili sul mercato librario:
“The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”,
“The New Primal Scream”,
“Imprints. The lifelong effects of the birth experience”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nel frattempo, dal settembre 1991, QUATTRO incominciò ad applicare a se stesso la tecnica
descritta da J. K. Stettbacher nell’unica forma applicabile, cioè in autogestione,
seguendo lo schema dei quattro passi (cui la discussione con un amico fece aggiungere
un breve 5° passo di auto affermazione).
Nel 1992, 1993 e primo semestre del 1994 utilizzò la forma scritta.
Dall’agosto 1994 incominciò ad effettuare auto sedute direttamente orali, registrate subito, dal vivo.
Nell’arco dei tre mesi dell’inverno 1991 constatò (per esperienza professionale e valutazione
professionale) la non pericolosità particolare della tecnica, quindi incominciò a proporla
ad alcuni suoi pazienti in studio, discutendo poi con loro le sedute da loro fatte a casa propria.
I risultati estremamente interessanti e positivi lo indussero ad usare sempre più estesamente
tale metodo, con un conseguente incremento esperienziale sia dell’aspetto clinico-terapeutico,
sia dell’inquadramento concettuale (grazie alle osservazioni che stendeva regolarmente in proposito).
Nei 12 anni d’utilizzo della metodica ispirata alla Terapia Primaria, nella forma descritta
da J. K. Stettbacher, sempre ed esclusivamente in modalità d’auto terapia eseguita dal paziente
per conto proprio e poi discussa in studio col terapeuta:
• la convinzione di QUATTRO che i disturbi psicologici del paziente derivano dalle vicende
della sua prima infanzia e specialmente dal trattamento ricevuto dagli adulti significativi,
si è talmente rafforzata (sia per presa di coscienza propria di QUATTRO, sia per contributo
della letteratura specifica nel frattempo pubblicata) da non richiedergli più l’obbligo intellettuale
di provare tale concetto (come invece ha sentito di dovere fare Alice Miller, date le sue affermazioni
anticipatore sulla cultura dei tempi),
770
• la convinzione che ogni soggetto (se opportunamente preparato e assistito dal terapeuta)
può trovare entro di sé gli strumenti e le forze per diventare curante di se stesso, senza dovere
necessariamente dipendere dall’obbligatoria presenza dello psicoterapeuta,
come “deus ex machina” esterno all’Io del soggetto eppure paradossalmente e pedagogicamente
vera causa di una trasformazione della personalità di questi, è divenuta ormai una realtà
di modalità di lavoro psicoterapeutico quotidiano per QUATTRO,
• nel corso di questi 12 anni d’applicazione del metodo nella variante (scritta e orale)
in forma d’auto-aiuto,
a. l’assenza sul mercato editoriale italiano dei testi di Arthur Janov in traduzione italiana,
b. la progressiva disponibilità (fin dalla fine degli anni ‘80) della traduzione italiana
di tutti i libri di Alice Miller,
hanno orientato inevitabilmente QUATTRO a proporre ai suoi clienti le opere
della Miller come base teorica della metodologia d’auto-aiuto (insieme - deve essere
detto - all’indiscutibile chiara lucidità espositiva del pensiero dell’Autrice
e della sua appassionata difesa dell’infanzia),
• il breve e sintetico libro di J. K. Stettbacher dichiarava espressamente una possibilità estremamente
interessante, in caso di assenza dello psicoterapeuta e dell’occasione di seguire la Terapia Primaria
nella forma standard individuale di 4-6 settimane a tre ore al giorno seguite da 1-2 anni di terapia
nel gruppo a cinque ore al giorno. Era la possibilità di utilizzare una forma di terapia autogestita
dal soggetto stesso, da solo, seguendo lo schema dettagliatamente descritto nel libro ed abbastanza
facilmente applicabile. Tale possibilità assunse agli occhi di QUATTRO un eccezionale valore
concettuale: se una metodologia psicologica può essere in casi eccezionali utilizzata dai pazienti
(senza pericolo per il soggetto e con un grado d’efficacia ragionevolmente confrontabile
con la metodologia diretta dallo psicoterapeuta, anche se con le ovvie limitazioni)
allora tale metodologia può essere direttamente proposta ai pazienti.
Le inevitabili limitazioni compensano ampiamente una serie di elementi sfavorevoli
nella forma tradizionale di terapia condotta da uno psicoterapeuta:
 la necessità di dipendere da uno psicoterapeuta,
 la totale passività inerme ed indifesa del paziente durante la seduta,
 il setting particolare e potenzialmente ambiguo della “camera oscura” della Terapia Primaria,
 l’estrema difficoltà logistica per il paziente di rendersi totalmente disponibile alle esigenze
della terapia per un periodo di 4-6 settimane per varie ore il giorno,
 la potenziale violenza scardinata sui meccanismi consolidati d’adattamento della personalità
del soggetto esercitata dall’insistenza sull’esplosione catartica dell’urlo primario
da provocare ad ogni costo, ecc.
Tutte queste considerazioni hanno inevitabilmente orientato QUATTRO
a proporre ai suoi clienti tale soluzione.
• Per contro, in nessuna delle sole tre opere di Janov che QUATTRO ha potuto reperire
sul mercato librario anche informatico - “The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”,
“The New Primal Scream”, “Imprints. The lifelong effects of the birth experience”, tale possibilità era presa in esame.
• Inoltre QUATTRO non è mai riuscito a scordare l’impressione non positiva prodotta in lui
dalla lettura della nota in corsivo che chiudeva l’edizione francese - da lui studiata del libro di Janov (“Le cris primal”, pag. 504):
“La Thérapie Primale n’est exercée qu’au Primal Institute de Los Angeles, Californie.
Elle peut être dangereuse si elle est pratiquée par des personnes n’ayant pas reçu de formation
à cet effet, quelle que soit leur expérience professionnelle antérieure. Le terme de thérapie primale
est une marque déposée et il ne doit être utilisé que par les praticiens qui sont en liaison
avec le Primal Institute; de même, le terme primal ne doit pas être associé à un mot ou
à une expression pouvant sous-entendre thérapie ou consultation.
Les techniques utilisées en Thérapie Primale sont complexes et leur pratique demande
une formation intensive. Elles ne doivent pas être utilisées par des amateurs”.
771
• L’obbiezione (che ora sarà riportata) fatta da Alice Miller a Janov era corrispondente
ad una convinzione anche di QUATTRO: i libri di Janov non descrivono la sua tecnica generale
così esaustivamente da poterla applicare anche senza uno specifico training sotto la guida
di un altro terapeuta (come invece fa J. K. Stettbacher), né tantomeno consentono ad un soggetto
di applicare a se stesso da solo la metodica (come - ancora - è il caso di J. K. Stettbacher).
“Janov, in Grido primordiale, descrive come uno dei suoi pazienti abbia improvvisamente cominciato
a torcersi di dolore quando gli era stato proposto di immaginare suo padre e di parlare
senza infingimenti. Avendo letto quello che c’era da leggere sulla psicologia della Gestalt,
encounter, le terapie reichiane e di bioenergetica, quella scoperta non mi è stata del tutto nuova,
però il problema di riconnettersi alle prime sofferenze della propria esistenza mi è parso risaltare
in Janov molto meglio che in tutte le altre forme di terapia.
Mi ha affascinato, e ho intravisto che la possibilità di rivivere eventi rimossi può portare
all’eliminazione di sintomi. Però - mi sono chiesta - come arrivare a quelle esperienze?
Occorre proprio andare a Los Angeles, da Janov?
Se Janov - ho pensato - ha davvero scoperto una verità universalmente valida,
allora la stessa regola che si svela nei racconti dei suoi pazienti dovrebbe potersi rintracciare
anche in me, dovrei poterla scoprire anche dentro di me stessa.
Ma come trovare una persona che mi aiutasse a farlo senza irritarmi con propositi pedagogici,
sia pure inconsapevoli? Mi sono messa alla ricerca di questa persona e ho parlato con moltissimi
terapeuti dell’età primaria, in diversi paesi. E ho costatato che c’erano già molti in grado di trasferire
i loro pazienti in quello stato di profonda disperazione, di disorientamento e di paura
che è caratteristico della prima infanzia.
Questa parte della tecnica escogitata da Janov s’è diffusa con la velocità del vento.
Ma poiché da sola non basta, poiché questa non è ancora una terapia ma soltanto una parte
di essa, si sono anche costatati in breve tempo i pericoli insiti in queste energie improvvisamente
scatenate. L’esperienza delle lontane sofferenze funge sì da sollievo a livello fisico,
ma se non si compiono gli ulteriori, specifici e necessari passi sugli altri livelli, le sofferenze
delle origini non si dissolvono. Molti pazienti sono così rimasti in uno stato di perpetuum mobile.
S’aggiunga poi questo: quando i terapeuti si sono dimostrati incapaci di controllare le realtà
che emergevano, sono intervenuti con tutta la gamma degli espedienti suggeriti dalla loro stessa
educazione per preservare i pazienti dal minaccioso pericolo del suicidio o della psicosi.
Nei disorientamenti in cui si sono trovati, hanno incominciato a combinare la loro Terapia Primaria
con l’analisi transattiva, se non addirittura con concetti psicoanalitici o argomentazioni religiose,
sino a ricostruire a spese della verità - e stavolta definitivamente - un apparato di difesa
demolito troppo in fretta.
Comprensibilmente i pazienti così trattati si sono sentiti indotti, a loro volta, a mettersi
precipitosamente a manipolare i sentimenti altrui al fine di sottrarsi al proprio disorientamento
e all’irrisolto caos di sensazioni insorto dentro di loro.
La possibilità di calarsi rapidamente nel dolore altrui e di definire tutto questo terapia può anche
trasformarsi in una lecita via di sfogo di istinti sadici repressi. S’aggiunga poi che c’erano
degli individui che non si presentavano per niente come dei terapeuti, ma si spacciavano
apertamente per guru, e sfruttavano la scoperta di Janov per procurarsi - attraverso
la manipolazione del prossimo - molto seguito e molto denaro.
Una volta confrontati coi loro sentimenti, i seguaci ne divenivano dipendenti e restavano a lungo
soggetti a quell’unico guru che sapeva renderglieli possibili. E l’interesse di quest’ultimo consisteva
nel non interrompere lo stato di soggezione per non rinunciare alla sua fonte di potere”.
(Alice Miller: ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo
nel silenzio della società”, pagg. 124-125).
“Per me un’autentica terapia comporta sempre una crescente indipendenza, ed era una possibilità
che intravedevo nei racconti dei pazienti di Janov. Di conseguenza non riuscivo a spiegarmi
perché molti di questi suoi pazienti si unissero a delle sette. Non riuscivo a capire come un individuo
che avesse imparato a sentire se stesso e a capire la propria storia, potesse ridiventare strumento
di interessi estranei. D’altra parte non potevo negare i fatti. Parlavano dunque contro la terapia?
Qual’era il tassello mancante? Poteva darsi che la tecnica di liberare i sentimenti fosse apprendibile
772
e comunicabile, ma che questo fosse ben lungi dal bastare? Poteva darsi che il successo della terapia
continuasse a dipendere dal fatto che il paziente fosse o meno in grado di sopportare la verità pur affiorante ora nei suoi sentimenti - dei maltrattamenti subiti in passato?
Infatti, provare qualcosa sul momento, intuire qualcosa per breve tempo o addirittura comprenderlo
solo a livello razionale non significa ancora per niente saper sopportare la verità
nel lungo periodo e introiettarla”.
(Alice Miller: ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo
nel silenzio della società”, pag. 126).
“In occasione di una visita che ho fatto nel 1985 a Parigi, all’Istituto per la Terapia Primaria,
ho cercato di parlarne a Janov. Ha motivato le lacune concettuali dei suoi libri
con la preoccupazione che si possa abusare di questa forma di trattamento, e ha sostenuto coerentemente con questa preoccupazione - che solo gli allievi da lui stesso formati siano autorizzati
a praticarla. Io non ritengo tuttavia che un metodo terapeutico possa essere mantenuto riservato
con misure di carattere autoritario. È la precisa e accurata descrizione, fatta in modo tale
da orientare bene il lettore, che può semmai trattenere potenziali pazienti e terapeuti dall’abuso.
E può aiutarli a sottrarsi all’ignoranza di terapeuti - pedagoghi che non sanno quello che fanno.
L’assenza di una concezione verificabile della Terapia Primaria si è dimostrata molto pregiudizievole
per i pazienti, perché non ha impedito e - semmai - ha incoraggiato tentativi di applicazione caotici
e pericolosi. Le modalità di accesso alle sofferenze primarie e la possibilità di dissolverle attraverso
la percezione dei propri bisogni devono essere descritte esattamente, anche in funzione
dell’autonomia della persona in cerca di aiuto. E soprattutto: non è quasi possibile trovare
spontaneamente quest’accesso senza l’assistenza di una guida, perché in ogni individuo persiste
una forte resistenza a rivivere angosciose esperienze primarie. Il paziente e il futuro terapeuta
possono invece imparare, con l’aiuto di una guida, a superare gradualmente questa resistenza,
anziché infrangerla violentemente”.
(Alice Miller: ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato all’adulto distruttivo
nel silenzio della società”, pagg. 132-133).
• Inoltre una certa eccessiva ampiezza descrittiva appesantisce l’esposizione di Janov
nella presentazione della base concettuale che stabilisce i fondamenti della Terapia Primaria
(in contrasto con la sinteticità e lucidità espositiva della Miller).
Anche l’utilizzo delle citazioni di studiosi precedenti trova nella Miller una più che soddisfacente
applicazione della abituale metodologia scientifica a cui la formazione europea ha abituato
QUATTRO, in contrasto con una certa minor profondità psicologica ed una più labile sistematicità
nella puntualità dell’inserimento del supporto bibliografico in Janov.
773
UNA PREMESSA ANNUNCIATA.
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Come conseguenza di tutti questi elementi, nel corso dei cinque anni di lavoro a comporre i testi
del sito dal gennaio 2000 al dicembre 2004, la necessità emotiva di QUATTRO di fare - nel sito riferimento all’impostazione ideologica ed alle dimostrazioni esplicative di Arthur Janov
si è progressivamente ridotta in misura notevole.
Certamente ad Arthur Janov va riconosciuto il merito di avere per primo elaborato il concetto
di una Terapia Primaria che faccia riferimento alle concrete vicende dell’infanzia del soggetto
per cercarvi l’origine dei suoi problemi, sulla scorta dei suoi ricordi e delle sue emozioni,
senza necessità di interpretazioni ideologiche particolari come è il caso della psicoanalisi freudiana.
Ma oggi, l’analogia di posizione di QUATTRO è la seguente:
Egli non sente la necessità - per fondare ideologicamente la esposizione del metodo di auto-aiuto
del sito - di fare riferimento al pensiero, ed alle argomentazioni di J. K. Stettbacher
(prive del sostegno di un solo riferimento bibliografico), bensì solo alla sua particolare versione tecnica
della Terapia Primaria (anzi alla variante autogestita dal soggetto stesso).
Così, per quanto concerne il riferimento alle opere di Arthur Janov, QUATTRO non ha una particolare
necessità di citare l’intero impianto concettuale, ideologico, di questo Autore, ma soltanto
di fare riferimento ad alcuni concetti psicologici che egli illustra nelle sue opere.
Alcuni aspetti dell’opera di Arthur Janov richiedono tassativamente una ampia e precisa citazione.
È un dovere di rigorosità scientifica nel riferire l’originalità e la priorità descrittiva.
Il caso più evidente è la descrizione del rantolo emotivo primordiale del soggetto in seduta
(“The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”, appunto) che manca totalmente
nel libro di J. K. Stettbacher, e di cui chi applica a se stesso la tecnica di auto-aiuto è necessario
che conosca l’esistenza e le caratteristiche, per poterne essere aiutato a vivere eventualmente
tale esperienza. Una ampiezza di citazione è anche mezzo per fornire un preciso aiuto concreto
ai lettori del sito: è il caso della serie di considerazioni che Janov fa su alcuni temi che è importante
per il lettore del sito comprendere bene, al fine di poterne poi applicare a se stesso i concetti così
da poterne ricavare un aiuto nella risoluzione dei suoi problemi.
I concetti che Janov presenta ad illustrare il meccanismo di formazione della nevrosi, sono simili
a quelli che Alice Miller ha espresso tante volte lungo i suoi vari libri. Janov pone l’accento sul blocco,
sia dell’espressione sia del soddisfacimento dei bisogni emotivi del bambino fin dalla prima infanzia.
Le osservazioni di Janov sull’essenza della nevrosi, sulla natura della sofferenza primaria,
sul rapporto tra sofferenza e memoria, la descrizione della natura della tensione, o le sue particolari
definizioni concrete dei meccanismi di difesa, o infine che cosa voglia dire sentire le emozioni,
hanno un particolare carattere di semplicità espositiva dotata di un forte potere di entrare
in risonanza con i bisogni emotivi di un comune lettore non particolarmente supportato
da specifica cultura del linguaggio psicologico.
Sono esposizioni, in un linguaggio pianamente divulgativo, che entrano tuttavia subito nella mente
del soggetto, senza che egli debba ripensarle a lungo per comprendere sottili sfumature del testo.
Questo impianto concettuale è sicuramente presentato in forma semplificata perché rivolto
al pubblico comune (lo dice Janov stesso) e non agli specialisti.
È un linguaggio costruito da analogie, da modelli, un linguaggio che usa termini comuni
e non psicologicamente sofisticati. Ma non si può negare che alla fine di neanche 100 pagine,
un lettore comune si è fatta una sua idea non scorretta del come nell’infanzia
(per lo più per opera dei genitori) gli sono stati fatti nascere problemi psicologici
e sofferenze emotive, che gli hanno spento ogni gioia di vivere, creato blocchi nevrotici
e sintomi costrittivi tendenzialmente insuperabili.
In una parola, distrutto la vita.
Saranno quindi riportate successivamente una serie di citazioni a carattere tecnico
(concernenti sia aspetti emozionali interni al soggetto, sia peculiarità della metodologia primaria
estendibili alla tecnica usata in auto gestione).
Ma qui finisce la concordanza con l’Autore dell’“Urlo Primordiale”.
L’annunciato distacco di QUATTRO da Janov (la scelta di abbandonare la modalità concreta
di terapia indicata da Arthur Janov) rappresenta una scelta drastica, totale e definitiva,
precisamente motivata sotto il profilo professionale) è avvenuto a proposito degli aspetti tecnici
della terapia proposta da Janov.
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Le due principali ragioni sono state:
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1. La tecnica rigorosamente primaria nella sua formulazione originaria (4-6 settimane di terapia
individuale a cinque ore il giorno nella stanza buia, seguite da1 seduta la settimana nel gruppo,
della durata di cinque ore, per 1-2-3 anni).
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2. L’esclusione della possibilità di auto applicazione da parte del soggetto da solo.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Il lettore può comprendere facilmente il peso di queste due motivazioni, stante il fatto che tutto
il sito www.auto-therapy.it è impostato come un addestramento ad una metodica di auto-aiuto,
e non come un “remedium absentiae doctoris”, cioè un rimedio alla mancanza della presenza fisica
del terapeuta, quale la prospetta J. K. Stettbacher.
QUATTRO rivendica il suo diritto di intellettuale e di medico psicoterapeuta di aderire alle formulazioni
di un Autore fino a quando il pensiero di questi coincide con il pensiero di QUATTRO stesso,
e di dissentire in caso di difformità (come ha già fatto in passato nel sito), ovviamente indicando
il punto di divergenza e le relative ragioni.
Alla citazione entusiasta della Dichiarazione di Indipendenza firmata nel 1776 da Thomas Jefferson
e dai 56 firmatari e riportata come un esempio di forte affermazione del valore della proclamazione
della libertà, non ha per nulla fatto seguito l’affermazione che sia in qualche modo condivisa
l’attuale posizione politico - militare - economica degli U.S.A. nei confronti del resto del mondo.
Né la commossa testimonianza di celebrazione delle vittime dell’Olocausto deve consentire
ad alcuno di pensare che QUATTRO condivida in alcun modo la politica dello stato di Israele
nei confronti dei rifugiati Palestinesi.
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Janov: grido primordiale.
Sofferenza e difese.
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SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO
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AUTORE:
Janov, Arthur
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TITOLO:
The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis.
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EDITORE:
Dell Publishing Company, 1970.
Edizione francese: “Le cris primal”, Collection Champs essais,
Flammarion Editions, 1978.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
PAGINE:

478
INQUADRAMENTO GENERALE:  vedi
INDICE:

vedi
COMMENTO:

no
TEST DA COMPILARE:

no
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
INQUADRAMENTO GENERALE.
Il sistema delle difese nella concezione di Arthur Janov.
La definizione che Janov dà dei meccanismi di difesa è alquanto diversa rispetto alla definizione
della psicoanalisi freudiana. Sarà tuttavia riportata (senza che QUATTRO intenda minimamente entrare
nel merito di esprimere un’opinione tecnico professionale per scegliere l’una o l’altra forma
di definizione del sistema delle difese) semplicemente perché la descrizione di Janov ha quel carattere
già accennato di concretezza, di semplicità espositiva e d’accesso diretto alla mente del lettore,
perciò l’utente del sito può ricavarne un vantaggio considerevole applicandone i concetti a se stesso.
A differenza della psicoanalisi freudiana, Janov ritiene:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
1. Che nessuna difesa sia normale, normalmente presente nella mente umana:
tutte rappresentano una reazione ad una sofferenza.
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2. Che le difese siano sempre fenomeni psicofisici, e non soltanto mentali.
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NOTA BENE.
Le ampie citazioni che saranno ora riportate sono prese dal libro di Janov:
“Le cris primal”, Cap. 6: “Le système de défenses”, pagg. 69-76.
“Che cosa è una difesa? Un insieme di comportamenti messi in atto per bloccare i sentimenti primari.
Quando i muscoli addominali si contraggono automaticamente, quando il soggetto “inghiotte”
un’emozione, quando dei tic si manifestano sul viso in una situazione di stress, vuol dire che il corpo
trattiene il sentimento. Vi sono difese involontarie e difese volontarie.
776
1. Le difese involontarie sono le reazioni automatiche del corpo e dell’animo alle sofferenze primarie
(incubi, enuresi, nodo alla gola, sbattimento delle palpebre, contratture muscolari).
In generale sono queste difese ad essere utilizzate in primo luogo. Sono le difese innate
del bambino. Per esempio: la contrattura dei muscoli della laringe influirà sul timbro della voce:
il processo di contrattura muscolare e la voce strozzata che n’è la conseguenza, finiscono
per integrarsi con certi aspetti della personalità del soggetto. Ed in tal modo la personalità
si costruisce dalle difese e ne fa parte integrante. Le difese involontarie sono di due tipi:
a. Quelle che aumentano la tensione: la contrazione dei muscoli dello stomaco trattiene
i sentimenti, e ne risulta un aumento della tensione.
b. Al contrario, il fatto di bagnare il letto (quando le difese coscienti sono indebolite dal sonno)
è un rilassamento involontario della tensione. Altre forme di rilassamento involontario
della tensione sono, per esempio: digrignare i denti, sospirare, avere incubi.
2. Le difese volontarie entrano in gioco quando le difese involontarie si rivelano insufficienti.
Fumare, bere, drogarsi, mangiare troppo, sono esempi di difese volontarie.
Il soggetto può smettere di farne uso, ma con uno sforzo di volontà. Le difese volontarie servono
a dare sollievo ad un eccesso di tensione (una parola sgradevole da parte del cameriere
di un ristorante può bastare ad intaccare la facciata sorridente del nevrotico, e creare in lui
iI bisogno di bere). Ma, volontarie o involontarie che siano, le difese hanno sempre come scopo
il blocco dei sentimenti reali. Le difese sono continuamente in azione, notte e giorno...
... Orientativamente, le difese corrispondono a ciò che i genitori esigono dal bambino.
Un bambino può parlare continuamente, utilizzando parolone difficili. Un altro invece in apparenza
sembra stupido. Entrambi reagiscono a ciò che sentono i genitori si aspettano da loro,
entrambi soffocano certi aspetti di se stessi...
... Nei primi mesi e nei primi anni della sua vita, il bambino si chiude in se stesso perché in generale - non ha scelte alternative. I genitori che vogliono un bambino educato e del tutto
sottomesso, non tollereranno a lungo un bambino chiacchierino ed esuberante.
Lo rimprovereranno o lo picchieranno fino a che egli non rinunci a quel comportamento.
Di conseguenza, per sopravvivere, il bambino deve condannare a morte tutta una parte di se stesso.
Deve giocare il gioco dei suoi genitori, non il suo. Lo stesso tipo di comportamento può essere
provocato da genitori che fanno troppo per il bambino, di modo che egli non ha mai sforzi
da fare personalmente. È spento dalla loro gentilezza.
Se la facciata irreale non basta, se essa non arriva a provocare una reazione umana da parte
dei genitori, il bambino è costretto a fare ricorso a difese più radicali. Per non dispiacere loro,
o per renderli più calorosi e gentili, può spegnere tutta la sua personalità.
Parlerà in modo compassato come un professore, il suo spirito si rattrappisce, i suoi occhi non sono
più che fessure: in breve, si disumanizza, nel tentativo di rendere i suoi genitori più umani.
Può arrivare fino al punto di trasformarsi completamente per loro (è così che si vede un bambino
trasformarsi in una femminuccia). La nozione di reazione totale è una nozione essenziale.
Il bisogno d’amore non è semplicemente qualcosa di cerebrale che si può modificare modificando
le idee di qualcuno. Esso penetra tutto il sistema uomo, e deforma sia il corpo sia lo spirito.
Questa distorsione costituisce il sistema di difese.
Se la personalità non basta ad abbattere la tensione, si assiste all’apparizione dei sintomi.
Il bambino si tocca, si succhia il pollice, si mangia le unghie, o bagna il letto.
Sono questi i mezzi supplementari di sollievo dalla tensione.
Troppo spesso i genitori, credendo a torto di aiutare il bambino, cercano di fargli passare
queste abitudini - che sono gli scarichi della tensione - ma facendo questo essi complicano
il problema costringendo il bambino a cercare altri mezzi ancora più nascosti.
Un malato diceva che faceva continuamente aria perché i suoi genitori credevano che avesse
dei disturbi digestivi: “Scoreggiare era la sola cosa che essi accettavano, perché erano
convinti che era involontaria”. Un bambino piccolo non può comprendere che sono
i suoi genitori ad avere delle difficoltà. Non sa che i loro problemi esistono indipendentemente
da tutto ciò che egli può fare. Non sa che non è in sua possibilità fare cessare le loro lamentele,
renderli felici, o liberi o qualsivoglia altra cosa. Egli fa ciò che può per riuscire a vivere.
Se è ridicolizzato quasi fin dalla sua nascita, egli arriva a credere che c’è effettivamente qualcosa
che non va in lui. Farà tutto quello che potrà per piacere ai suoi genitori, ma sfortunatamente
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quello che ci si aspetta da lui resta vago e indefinito, perché i suoi genitori stessi non sanno
che cosa fare per essere liberi e felici. Poiché i suoi genitori non l’aiutano a sentirsi meglio,
il bambino resta in balia di se stesso. Mangia tutto quello che gli capita sotto mano,
si succhia il pollice quando non lo si guarda, si tocca e più tardi si droga, per dare sollievo
alla sofferenza che nessuno l’aiuta a placare. Egli non è più semplicemente nevrotico,
la nevrosi è il suo modo d’essere...
... Qualunque sia il dolore o il disagio che comportano questi mezzi, il sentimento simbolico
che il soggetto risente è un sentimento di piacere, più esattamente di sollievo dalla sofferenza.
Il diminuito dolore o disagio fisico reale, il minor dolore o disagio risentiti dall’Io reale, sono filtrati
dal sistema di difese, che lo interpreta come un piacere. I diversi meccanismi di difesa
che il nevrotico può adottare, sono classificati dalle persone del mestiere in categorie
alle quali corrispondono diagnosi specifiche. Io voglio invece sottolineare nuovamente che il sistema
di difese non è importante che nella misura in cui maschera una sofferenza.
La sola cosa che conta, nell'ottica della teoria primaria, è la sofferenza...
... Il grado d’elaborazione del sistema di difese dipende dalla situazione familiare del bambino.
Con genitori brutali, la difesa è diretta ed in superficie. Quando le relazioni familiari sono più sottili,
il sistema di difese diviene anch’esso più sottile. I più difficili a guarire sono i soggetti che hanno
sovrapposto strati di difese intellettuali raffinate (quelli che hanno cercato rifugio nella loro “testa”):
gli intellettuali hanno principalmente fatto ricorso ai metodi della psicoterapia convenzionale,
ma ogni metodo che fa ancora appello al loro “intelletto” non fa che aggravare il loro problema...
... Secondo la teoria primaria, i bisogni e i sentimenti bloccati esistono praticamente
fin dalla nascita, e per la maggior parte del tempo che passa prima che il soggetto sia in grado
di parlarne. Il bambino che i genitori non prendono abbastanza in braccio nei suoi primi mesi di vita,
non sa coscientemente che cosa gli manca, tuttavia soffre.
Soffre in tutto il suo corpo, perché è là che risiede il suo bisogno. Questo bisogno non è dunque
semplicemente una cosa mentale, immagazzinata in un angolo del cervello.
È codificato in tutte le fibre del corpo, dove esercita una pressione perenne alla ricerca
della sua soddisfazione. Questa pressione è risentita sotto forma di tensione.
Si può dire che il corpo “si ricorda” dei suoi bisogni e delle sue frustrazioni esattamente
come se ne ricorda il cervello. Per liberarsi della sua tensione è necessario che il soggetto
risenta i bisogni che sono nel cuore stesso di questa tensione, vale a dire in tutto il suo organismo,
perché essi sono effettivamente diffusi in tutto il suo organismo. Essi si trovano nei muscoli,
negli organi interni, nel sistema circolatorio. Non basta conoscere semplicemente i propri bisogni
ed i propri sentimenti inconsci.
La psicoterapia moderna è in gran parte fondata sull’ipotesi secondo la quale basta per trasformare qualcuno - fargli prendere coscienza dei suoi sentimenti inconsci.
Io vedo le cose in modo diverso: per me la coscienza è il risultato di un processo col quale
il soggetto risente i suoi bisogni in tutto il suo organismo, ed è il fatto di risentire, di percepire,
non solamente di conoscere i suoi bisogni, che trasforma il soggetto.
A mio avviso, il fatto di conoscere i nostri bisogni non ce ne sbarazza. Abbiamo sottovalutato
l’ampiezza delle frustrazioni che il neonato subisce nei primi mesi di vita, e l’importanza che esse
hanno per il resto della sua vita.
I Reichiani affermano che gran parte delle cose che hanno a che fare con i nostri sentimenti,
non possono essere espresse verbalmente.
Per questo motivo essi trattano fisicamente i sentimenti rimossi, per mezzo di manipolazioni
corporee. Lo scopo della Terapia Primaria è di collegare i bisogni del corpo con i ricordi
immagazzinati nell’inconscio, allo scopo di ridare al soggetto la sua unità. Le terapie per mezzo
della danza, lo yoga, le terapie del movimento e gli esercizi destinati a liberare il corpo
dalla tensione non possono essere di nessun aiuto perché queste tensioni (frustrazioni
e blocchi inconsci dell’infanzia) sono inestricabilmente mescolate ai ricordi primari e formano
con loro degli accadimenti che coinvolgono l’organismo intero. Le terapie che incoraggiano
la presa di coscienza dividono l’individuo in un certo modo, mentre le terapie corporali lo dividono
in altro modo. Ci occorre un metodo globale, che unisca simultaneamente corpo e spirito.
È impossibile eliminare definitivamente, con dei massaggi, i ricordi che hanno irrigidito una spalla,
quando questi ricordi innervano questa spalla al di sotto del livello della coscienza.
Il modo in cui ci sviluppiamo può aiutarci a comprendere questo concetto.
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Il neonato non è assolutamente capace di pensare in maniera astratta o di ragionare
sulla sua situazione spiacevole. Non può trasformare i suoi bisogni in fantasmi particolari o scaricarli
in modo simbolico, poiché è così piccolo. È necessario che sia il suo corpo a fabbricare le sue difese.
Per lui non è questione che lo spirito controlli il corpo: nei primi mesi di vita le sue facoltà mentali
non sono abbastanza sviluppate per questo. In alcuni casi sembra accadere che certi bambini
devono difendersi corporalmente fin dalla loro nascita...
(Janov cita poco dopo il caso di una paziente che, in stadi assai avanzati della terapia, ricuperò
il ricordo di quando - all’orfanotrofio - pianse a lungo senza che nessuno venisse a vederla.
Infine (aveva circa otto mesi) dopo aver pianto a lungo, riuscì ad alzarsi e mettersi seduta nella culla.
Dopo aver visto che non c’era nessuno, sentì il suo corpo intorpidirsi e si lasciò invadere dal sonno.
Questo divenne ben presto un’abitudine, quando era a disagio: dopo avere pianto un poco,
si chiudeva in se stessa, si distendeva e s’intorpidiva. Nei primi due anni trascorsi all’orfanotrofio,
quest’intorpidimento divenne automatico. In seguito, quando fu lasciata sola all’ospedale,
s’intorpidiva ogni volta che era a disagio o aveva paura. Diceva: “Era come se mi aspirassi in me stessa,
per stordirmi. Spegnevo tutto quello che c’era di vivente in me, di modo che ero a metà addormentata
anche quando viaggiavo”).
La sofferenza.
“... In occasione della scena primaria, la struttura del bambino si chiude ad una presa di coscienza
totale e la respinge nell’inconscio (nello stesso modo in cui - sotto l’effetto di una sofferenza fisica
eccessiva - il più solido tra noi perde conoscenza). La sofferenza primaria è una sofferenza
non ri-sentita (e da questa prospettiva la nevrosi può essere vista come un riflesso: la reazione
istantanea della struttura dell’organismo psico-fisico tutto intero, alla sofferenza). (Pag. 46).
“... Dal momento che l’organismo psico-fisico si chiude di fronte ad un dolore intollerabile,
esso ha bisogno di una qualche cosa per nascondere e reprimere le sofferenze primarie.
È la nevrosi che si assume questa funzione. Essa distrae il soggetto dalla sofferenza e lo dirige verso
la speranza, vale a dire verso quello che egli può fare per soddisfare i suoi bisogni”. (Pag. 46).
“... Alla sua origine, la nevrosi è un mezzo che il bambino impiega per pacificare genitori nevrotici,
negando o nascondendo certi sentimenti, nella speranza che “essi” finiranno per amarlo.
Poco importa il numero d’anni che passano, la speranza è eterna. Deve esserlo perché anche i bisogni
lo sono. Sono i bisogni che spingono il soggetto a credere in idee irrazionali, perché la verità razionale
è così dolorosa. Fino a che Il soggetto non ha riprovato totalmente le sue sofferenze, non può
rinunciare alla speranza. In Terapia Primaria il soggetto riprova la disperazione della sua infanzia,
e con ciò stesso distrugge la speranza irreale, che è il fondamento della lotta nevrotica”. (Pag. 77).
“... Dal momento che il nevrotico ha moltissimi bisogni sia pressanti, sia insoddisfatti, le sue facoltà
di percezione e di comprensione sono allontanate dalla realtà”. (Pag. 46).
“... Le sofferenze primarie sono immagazzinate ad una ad una come in strati sovrapposti di tensione
che cercano di liberarsi. Ma non possono essere liberate che quando siano connesse alla loro origine.
Tuttavia non è necessario che il soggetto riviva uno ad uno tutti gli incidenti, ma occorre che egli
riprovi il sentimento generale che è stato alla base d’innumerevoli esperienze che egli ha vissuto.
Ogni sofferenza primaria implica il bisogno soggiacente di sopravvivere. Poiché è così piccolo,
il bambino fa quello che si deve fare per compiacere ai suoi genitori.
Un paziente esprimeva così questo concetto: Mi sono allontanato da me stesso.
Ho ucciso io il piccolo Jimmy perché era impetuoso, turbolento ed esuberante, e perché
i miei genitori volevano un bambino docile e bene educato.
Se volevo sopravvivere, con dei genitori fottuti come i miei, dovevo sbarazzarmi
del piccolo Jimmy. Ho ucciso il mio migliore amico. Era un commercio d’imbrogli,
ma non avevo altra scelta”. (Pag. 47),
“... Dal nostro punto di vista, l’aspetto più significativo della sofferenza primaria sta nel fatto che essa
resta imprigionata all’interno di noi stessi, altrettanto intatta ed altrettanto intensa che il giorno
in cui ha incominciato ad esistere. Non è modificata in nulla dalle circostanze della vita
e dalle esperienze del paziente, qualunque esse siano.
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Pazienti di 45 anni rivivono queste esperienze (che si sono svolte 40 anni prima) nella loro intensità
devastante, come se le vivessero per la prima volta. Del resto è quello che effettivamente fanno.
Essi non hanno mai fatto l’esperienza intera della loro sofferenza; questa non è mai stata
completamente vissuta ed era stata dissimulata prima che il suo impatto totale potesse essere
riprovato. Ma questa sofferenza è terribilmente paziente. Ogni giorno della nostra vita
essa si fa presente a noi, si fa ricordare, grazie a mezzi diversi e molto sottili”. (Pag. 48).
“... L’esperienza della sofferenza primaria non consiste solamente nel conoscere, ma nell’essere
questa sofferenza. Ogni essere umano è un’entità psico fisica... per ritornare intero è necessario:
• Che egli ri-senta, ri-provi.
• Che riconosca la scissione.
• E che, urlando, crei la connessione che renderà la propria unità all’individuo.
Più la scissione è stata riprovata intensamente, più l’esperienza della riunificazione è intensa
ed essenziale.
• Secondo la Teoria Primaria, tutte le sofferenze attuali che sono eccessive o che non corrispondono
alla realtà, si ricollegano al serbatoio di sofferenze primarie, il che spiega perché un sentimento
possa durare ben oltre il tempo che corrisponderebbe all’effetto di una critica o di un fastidio
normalmente senza una particolare importanza”. (Pag. 49).
“... Tutto ciò che produce una breccia nella facciata irreale, va ad attingere a questo serbatoio,
e provoca un’ondata ascendete di sofferenza... Ri-provare questa sofferenza primaria
è quello che si chiama avere o fare un’esperienza primaria, primordiale”. (Pag. 50).
Sofferenza e memoria.
“... In occasione della prima scissione nevrotica, sembra che si produca anche una scissione a livello
della memoria. Vi sono ricordi reali che sono messi da parte insieme alla sofferenza.
E vi sono ricordi legati al sistema irreale. Il sistema irreale gioca il ruolo di uno schermo: filtra o blocca
i ricordi che condurrebbero alla sofferenza. Ad ogni nuova scena primaria il bambino piccolo
è costretto ad obliterare una frazione più importante della sua esperienza vissuta, cosicché ogni gran
sofferenza primaria è circondata da un gruppo d’associazioni che sono bandite dai livelli della piena
coscienza. Più il trauma è profondo, più esso rischia di ledere certi aspetti della memoria.
Secondo l’ipotesi primaria, questi ricordi rimossi sono immagazzinati insieme con la sofferenza
e sono riattivati quando la sofferenza è ri-provata... La memoria è strettamente legata alla sofferenza.
Il soggetto tende sempre a dimenticare i ricordi troppo dolorosi per essere accettati ed integrati
dalla coscienza. È per questo che il nevrotico avrà sempre, all’inizio, dei ricordi incompleti
in certe zone pericolose...”. (Pag. 53).
“... Le scissioni provocate da certe scene traumatiche possono essere paragonate a stati di amnesia,
spesso non così completi e drammatici; ma se la situazione è totalmente inaccettabile (come il caso
di uno stupro effettuato dal padre) vi possono essere larghi settori nei quali la sofferenza oblitera
uno o due anni prima o dopo l’avvenimento in questione...”. (Pag. 56).
Janov si pone poi il problema:
è forse vero che una sola scena o un solo avvenimento rendono l’individuo nevrotico?
Certo che No. La scena maggiore determinante non è che il punto culminante di relazioni
genitoriali nefaste, che sono durate anni.
Ma una volta avvenuta la scissione, nessuno sforzo cosciente può ristabilire l’unità dell’individuo.
A che età può incominciare la nevrosi? Molti bambini si chiudono in se stessi verso i 6-7 anni,
perché questa è l’età in cui incominciano a comprendere ciò che accade nella loro vita.
Questi bambini poi, andando a scuola come bambini sconnessi dal loro vero Io, tendono ad avere
verso insegnanti e compagni un comportamento bloccato, sottomesso, timido e ossequioso.
E questo farà peggiorare la loro condizione in futuro.
Altri bambini diventano nevrotici già ad un anno, nei casi in cui il trauma è grave e ciò che
è accaduto precedentemente lo giustifica. Oppure incominciano ad avere difficoltà a 2-3 anni
(come indicato dal fatto che hanno per esempio problemi di balbuzie, perché è attorno
ai due anni che s’incomincia a parlare regolarmente).
Altri crollano attorno agli 11-12 anni, per esempio quando i genitori si separano ed in casa
del genitore con cui vive il bambino entra un nuovo partner, che assume posizioni negative
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verso il bambino. Se invece il bambino riesce ad arrivare fino all’adolescenza senza diventare nevrotico,
può trovare altri appoggi (l’amore di una compagna di scuola, o la comprensione di un professore)
che gli permetteranno di sopportare la pressione o i turbamenti che vi sono nella sua famiglia.
Janov sottolinea:
“... Nell’ottica della Terapia Primaria, un trauma non è costituito necessariamente e direttamente
da un avvenimento doloroso (sul genere dell’esclusione da un gruppo).
Il trauma è quello che non è stato provato, non è stato sperimentato. È una reazione così violenta
e così schiacciante che una parte dell’avvenimento è rifiutata dalla coscienza...”. (Pag. 79).
Il “sentire”, il “percepire”.
Janov ricorda un dato su cui tutti sono d’accordo:
“L’esigenza principale del corpo è di percepire le sue sensazioni. Noi incominciamo a percepire quando
i bisogni della nostra prima infanzia sono soddisfatti, quando siamo presi in braccio, quando siamo
abbracciati, quando c’è permesso di esprimerci e di muoverci liberamente, e possiamo svilupparci
ad un ritmo naturale. Quando i suoi bisogni fondamentali sono soddisfatti, il bambino piccolo
è pronto a provare, a percepire, tutto ciò che - ogni giorno - si presenta a lui.
Ma, se non sono soddisfatti, questi bisogni prevalgono su tutto il resto, ed impediscono al bambino
di percepire il presente. È per questo che per il nevrotico, il presente non è che un meccanismo
scatenante che ravviva antichi bisogni e antiche sofferenze, e che spinge il soggetto a cercare
di risolverli. Vi sono due ragioni per cui i bisogni e i sentimenti del passato sono inconsci:
1. Spesso i sentimenti si sono prodotti prima che il bambino disponesse di concetti, così che egli non
può identificarli (per esempio il lattante non sa che non dovrebbe essere svezzato troppo presto).
2. In seguito, anche se i sentimenti erano identificabili prima della scena primaria, essi possono essere
stati continuamente repressi da genitori nevrotici, così che con il tempo il bambino finisce
per non sapere più che cosa percepisce. Se un bambino non ha il diritto di piangere, sia a causa
dell’eccessiva sollecitudine dei genitori che non possono vederlo triste un solo istante, sia a causa
di genitori che lo deridono e lo trattano da “bebè”, non occorre molto tempo perché egli
non sappia nemmeno più che ha voglia di piangere. In effetti, può darsi poi che anche lui, più tardi,
disprezzi le lacrime come una debolezza. La repressione dei sentimenti non è tuttavia
necessariamente un fatto prodotto dai genitori. La rimozione può avvenire nella prima infanzia,
quando il bambino è troppo piccolo per venire a patti con questi sentimenti, e farsi una “facciata”.
Il semplice fatto di non avere mai presso di sé un papà o una mamma che lo prendano tra le loro
braccia, può creare nel bambino una tale sofferenza che, per sopprimerla, egli deve sopprimere
il bisogno. Egli cessa di provare questo bisogno, cessa di sentirlo. Nondimeno il bisogno persiste,
fisso e inconfondibile, perché è effettivamente un bisogno infantile.
Il nevrotico non può avere sentimenti adulti, dal momento che è ancora disturbato dai bisogni
della sua infanzia. Più tardi avrà, per esempio, un’attività sessuale compulsiva non a motivo
di emozioni sessuali reali, ma a causa del bisogno antico di essere tenuto tra le braccia ed essere
amato. Non è che dopo avere risentito questi bisogni per ciò che sono, che egli potrà sperimentare
la vera sessualità, che è molto differente dall’idea che il nevrotico se n’è fatta”. (Pag. 82).
“La nevrosi maschera le sensazioni dolorose del corpo, impedendo così al soggetto di riconoscerle
per quello che sono (“I miei genitori non mi amano”), così che il soggetto soffre perpetuamente.
Egli cerca di trovare sollievo in un modo o nell’altro (per esempio con la sessualità), ma la sensazione
non può trovare la pace che quando è correttamente connessa, e viene un sentimento (sentimento
non è sinonimo di emozione. L’emozione può essere l’espressione del sentimento, la manifestazione
esteriore del sentimento. I veri sentimenti sollevano poca emozione.
Quando il soggetto mostra forte emozione, egli vive le manifestazioni esteriori del sentimento,
senza il sentimento stesso). Le sofferenze primarie sono le sensazioni della sofferenza.
In terapia esse diventano dei sentimenti grazie alla connessione con i traumatismi specifici che sono
alla loro origine. Soltanto la connessione muta una sensazione di sofferenza in un vero sentimento.
Inversamente, il taglio tra il pensiero e il contenuto del sentimento, che si è prodotto precocemente
nella vita, provocano continuamente sensazioni dolorose (mal di testa, dolori in varie parti del corpo,
ecc): queste sensazioni persistono perché non sono state connesse.
È come se il sentimento doloroso fosse stato tagliato via dal pensiero (“Sono solo, non c’è nessuno
che mi capisca”) e prendesse una via indipendente all’interno dell’organismo, manifestandosi
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qua e là sotto forma di mali e sofferenze diverse. Una volta riprovata, la sofferenza
non ha più niente di doloroso, ed il nevrotico è di nuovo in grado di percepire.
Tutto quello che genera dei veri sentimenti nel nevrotico deve creare della sofferenza.
Ogni sentimento che possa essere definito profondo, se non fa nascere della sofferenza
non è che uno pseudo sentimento, uno scarico non connesso”. (Pag. 83).
“... In certi casi il soggetto non parla per desiderio di parlare, ma è la tensione che lo fa parlare.
Si sente la differenza, perché ci si disinteressa facilmente di quello che dice qualcuno che parla
senza sosta per soddisfare un antico bisogno interiore, mentre è difficile non essere interessati
da qualcuno che sente veramente quello che dice. Il chiacchiericcio nevrotico non si rivolge
ad alcuna persona, si rivolge ai propri bisogni (in realtà ai propri genitori).
E qui ancora noi vediamo il paradosso. Il soggetto non può impedirsi di parlare perché nessuno
l’ha mai ascoltato. Ma il suo discorso nevrotico gli aliena gli altri, cosa che non fa che aumentare
il suo bisogno (e la sua compulsione) di parlare sempre più.
Egli non può percepire quello che dice, fintanto che il suo vecchio bisogno lo fa parlare.
E questo non cambierà fino a che egli non abbia riprovato la gran sofferenza che corrisponde
a questo bisogno. Poiché il nevrotico non percepisce niente realmente, egli è prigioniero
delle sue sensazioni. O cercherà delle sensazioni gradevoli per attenuare quelle che sono dolorose
ed inconsce, oppure soffrirà di queste sensazioni dolorose nel suo corpo, convinto di soffrire
di un male fisico reale. Coloro che bevono alcool per sciogliere il nodo che sentono alla bocca
dello stomaco evitano forse un male più serio (per esempio un’ulcera).
Coloro che non hanno molte forme di scarico simbolico per dare sollievo alla loro sofferenza interiore,
sono forse condannati a soffrire di dolori fisici.
Il nevrotico che non beve alcool può utilizzare altri mezzi per procurarsi sollievo, per esempio usare
analgesici. Ma si ritorna al punto di partenza, perché i sentimenti rimossi sono per definizione dolorosi.
Di conseguenza, che il nevrotico ricavi piacere dall’assenza di peso in un’immersione subacquea,
o dai colori di un quadro, dall’euforia dell’alcool o dal sollievo che gli dà una pastiglia, egli sta sempre
scambiando una sensazione (dolorosa) con un’altra.
Fino a quando egli non connetta la rigidità della sua nuca (che ben presto diventa un dolore)
con il sentimento più profondo, egli passa la sua vita a sostituire una sensazione con un’altra.
La sostituzione di una sensazione con un’altra: ecco quello che nasconde in gran parte ogni attività
compulsiva, specialmente l’attività sessuale. L’orgasmo diventa per il nevrotico un narcotico,
un sedativo. Se gli s’impedisce questo comportamento simbolico (Il sedativo), l’organismo soffre.
Perché il nevrotico è prigioniero delle sue sensazioni? Perché nessuno ha riconosciuto i suoi sentimenti.
I bambini hanno diritto a certi dolori permessi. Possono soffrire di mal di pancia, per esempio,
ma i dolori affettivi, la tristezza per esempio, sono loro vietati.
È così che il bambino deve fare ricorso alle sofferenze verso le quali lo si orienta; egli adotta
un comportamento simbolico mentre tutto quello che egli cerca di dire ai suoi genitori è:
io sono triste”. (Pagg. 84-85).
“... Quando il nevrotico si sbarazza della sua sofferenza, egli cessa - a mio parere - di percepire
in maniera completa. Ma finché egli non percepisce di nuovo completamente, egli non sa
che non percepisce. È dunque impossibile convincere un nevrotico che egli non percepisce.
La sola cosa che lo può convincere è percepire di nuovo.
Fino a quel momento il nevrotico può sempre rispondere che ha visto recentemente una sequenza
tragica al cinema, e che questa l’ha commosso fino alle lacrime “Ho ben percepito qualcosa” dirà.
Ma in realtà egli non ha percepito la sua propria tristezza, ed è per questo che non si può considerare
la sua emozione come un sentimento completo.
Se egli avesse stabilito una relazione esatta tra questa scena del cinema e la sua vita personale,
avrebbe potuto fare nella sala stessa un’esperienza primaria, primordiale.
Effettivamente molte reazioni primarie, primordiali, si scatenano quando il malato racconta
una scena di un film che l’ha fatto piangere. Tuttavia, il sentimento provato in occasione
dello spettacolo e quello che è provato più tardi nello studio psicoterapeutico, sono due fenomeni
ben distinti. Le lacrime che il nevrotico versa al cinema sono un frammento del suo passato rimosso.
Esse sono in generale più il risultato di una liberazione d’emozioni che l’apertura verso sentimenti
primari completi. È questo processo di liberazione che contribuisce al fatto che il sentimento completo
non sia ri-provato. Esso fa abortire il sentimento, lo falsifica e attenua così la sofferenza.
La stessa spiegazione si applica al soggetto che ha frequentemente violenti accessi di collera.
Non vi è dubbio che egli sperimenta ed esprime la collera.
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Ma fin tanto che questa collera, che esplode ogni giorno in modo frammentario contro
dei bersagli apparenti, non è risentita e connessa con il suo contesto iniziale, non si può affermare
che sia risentita in senso primario. Prendiamo il soggetto che s’incollerisce perché lo si fa attendere,
per quanto poco. Quest’adulto non sarà esattamente il bambino che i genitori hanno sempre fatto
attendere? Più tardi, in tutta la sua vita, ogni cosa che ricorda la scarsa attenzione che gli accordavano
i genitori, può scatenare in lui una collera che è largamente sproporzionata rispetto ai motivi
apparenti. Sfortunatamente, la mancanza d’attenzioni da parte degli altri continuerà a scatenare
la collera, fino a quando egli non sia in grado di percepire il contesto reale in cui sono nati
i suoi sentimenti iniziali di collera.
Fino ad allora, la sua collera non può essere considerata come un sentimento reale,
perché non si rivolge che a dei bersagli simbolici che non sono le cause reali della collera.
Questi scoppi non sono, di conseguenza, che degli atti simbolici nevrotici”. (Pagg. 86-87).
“... Si parla spesso della depressione come di un sentimento. Dopo la Terapia Primaria,
i pazienti non hanno più delle depressioni. Essi provano dei sentimenti di tristezza in occasione
di tale o tal altro avvenimento, ma questi sentimenti sono sempre in relazione con una situazione
specifica. Per quello che io ho potuto osservare, la depressione è una maschera che il soggetto
mette su dei sentimenti molto profondi e molto dolorosi che egli non riesce a connettere.
In effetti, certi nevrotici preferirebbero morire piuttosto che ri-provare questi sentimenti.
La depressione è uno “stato d’animo” vicino ai sentimenti primari, ma che è sperimentato
sotto forma di sensazioni fisiche sgradevoli (“Sono a terra”, “Sono giù di corda”,
”Ho un peso enorme sul petto”, “Ho Il cuore stretto da una morsa”, ecc.)
perché la connessione con la fonte iniziale non è stata stabilita.
La connessione trasforma gli stati d’animo in sentimenti, ed è per questo che dopo la terapia,
i malati non hanno più “stati d’animo”, ma solamente dei sentimenti”. (Pag. 88).
“... Vi sono altri pseudo sentimenti. Ecco un esempio di sentimento di rifiuto.
Nel corso di una seduta di formazione, contestai al rapporto scritto da un giovane psicologo
il fatto d’essere inesatto. Egli incominciò a difendersi con un fiotto d’argomentazioni:
“Lei non lo ha compreso nel senso in cui io l’intendevo. Inoltre questo rapporto
non è terminato”, ecc. Quando gli chiesi che cosa provava, egli rispose: “Mi sento rifiutato”.
In realtà egli provava un sentimento assai antico, quello di essere rifiutato da suo padre
(“Nulla di quello che io potrei fare basta per ottenere Il tuo amore, papà”).
Tuttavia, per evitare di sentire questa sofferenza nella sua totalità, egli costruiva uno schermo
di spiegazioni fumose e di scuse per proteggersi dal sentimento primario.
Non è l’inesattezza del suo rapporto che egli discuteva; i suoi errori significavano per lui che egli
non valeva niente e che non sarebbe mai stato amato.
Il sentimento nascente di essere rifiutato non era tuttavia percepito completamente.
Esso scatenava piuttosto un comportamento atto a dissimularlo.
Quello che il giovane psicologo faceva in realtà, era dissimulare il sentimento antico
che la critica presente aveva ravvivato. In sé, il fatto di avere scritto un rapporto imperfetto
non era doloroso al punto da giustificare tante negazioni e scuse.
Egli si scusava a proposito del rapporto per allontanarsi dalla sofferenza primaria. Incominciava
certo a sentire qualcosa - egli si sentiva rifiutato -, questo vecchio sentimento reale.
Ma dissimulava questo sentimento: è per questo che io affermo che il nevrotico non sente,
non percepisce pienamente. Egli è tagliato fuori dalla sua infanzia e dai sentimenti della sua infanzia,
così che non può fare l’esperienza del sentimento intero.
In età adulta, ogni nuova critica, ogni nuova umiliazione fa sorgere in lui dei frammenti
della sofferenza antica. Ma sentirsi realmente respinto, vuol dire torcersi di dolore nel corso
di un’esperienza primaria, primordiale; vuol dire sentirsi totalmente solo e non desiderato
come lo era il bambino. Tuttavia, una volta che quest’esperienza è fatta, non vi è più
“senso di essere respinto”, non vi sono più che i sentimenti risvegliati dal momento presente.
Un uomo che una donna tratti dall’alto in basso nel corso di una riunione, dirà:
“Non le sono simpatico”, oppure “Lei non è veramente abbordabile oggi”,
ma non si sentirà rifiutato nel senso nevrotico del termine.
Questo vuol dire che nel suo passato il soggetto non si è sentito rifiutato, così che
tale comportamento non lo sconvolgerà per tutta una giornata”. (Pagg. 89-90).
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LA TERAPIA PRIMARIA.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
QUATTRO non parlerà della metodologia della Terapia Primaria descritta da Janov
e articolata nelle tre settimane di terapia individuale esclusiva cinque giorni alla settimana,
seguite da parecchi mesi di terapia nel gruppo, diverse volte alla settimana.
Nessuna di queste due forme di lavoro psicologico è, infatti, applicabile in auto-aiuto.
Inoltre QUATTRO non condivide assolutamente l’atteggiamento di fortissima pressione psicologica
del terapeuta sul paziente, che Janov descrive invece come fondamentale per incrinare le difese
del soggetto. Più che un’orientante collaborazione che sia però guida rispettosa nella ricerca
di quella verità che è propria del paziente, tale metodo sembra uno scontro continuo lungo tutte
le ore, nelle quali il terapeuta pare aggredire senza sosta il paziente.
Non è da stupire che dopo una simile violenta frantumazione delle difese che si è costruito
per anni allo scopo di sopravvivere, il soggetto sia sconvolto.
Inoltre, di là dalle osservazioni spicciole sul fatto di spingere il soggetto a parlare direttamente
ai genitori, e di raccomandare prescrizioni opposte ai comportamenti tenuti spontaneamente
dal soggetto (chiaramente con lo scopo di frantumarne le difese) Janov - come già aveva rilevato
la Miller - non fornisce indicazioni sulla tecnica usata nelle sedute.
Di conseguenza, il lettore che volesse imparare ad applicare il metodo, non riesce a comprendere
come si sono prodotti i risultati che sono descritti (estrinsecazioni, prese di coscienza,
ricupero di ricordi, collegamenti, trasformazioni).
Sarà invece esposto a fondo il tema delle caratteristiche del grido primordiale, che rappresenta
un rilevante contributo descrittivo originale di Janov (Stettbacher, che pure si rifà con assoluta
evidenza al libro di Janov, non ne fa assolutamente cenno).
Inoltre, sia pure in forma non così estrema e violenta, e per lo più sotto forma di pianto prodotto
da dolore (più che da paura - come sembra indicare Janov -) e non così immediato e facile
ad esplodere (come pare affermare Janov) ma più faticoso e lento a comparire, tuttavia per esperienza
di QUATTRO il grido primordiale è stato tuttavia vissuto da molti soggetti nelle loro sedute
d’auto-aiuto effettuate personalmente a casa propria, da soli.
Tale grido primordiale d’antica sofferenza sembra quindi essere legato all’avvenuto contatto
con le emozioni della prima infanzia (contatto che anche il soggetto da solo è riuscito piano piano
a creare). Non sembra perciò essere stato determinato da un’eventuale azione facilitante
del terapeuta (che nelle sedute d’auto-aiuto non esiste mai, durante le sedute stesse,
bensì esiste solo successivamente, quando - nello studio del terapeuta - sono riascoltate insieme
le registrazioni delle sedute che il soggetto ha fatto da solo a casa sua).
QUATTRO ritiene quindi fondamentale che ogni lettore del sito conosca quanto è stato da Janov
detto su tal esperienza del grido primordiale, per poterla riconoscere quando si manifesterà
nelle sue sedute d’auto-aiuto.
IL GRIDO PRIMORDIALE.
Janov parla anzitutto di un’esperienza “pre-primordiale” (“pre-primal”).
Entrando in contatto con un pesante problema emotivo (per esempio di rapporto con i genitori),
il paziente lo tocca e poi subito ne fugge: ha una breve fuoriuscita emozionale
(un sospiro, un singhiozzo trattenuto) poi le lacrime arrivano agli occhi ma subito sono inghiottite,
lo stomaco è stretto da una morsa. Subito dopo il soggetto riprende a parlare con il suo abituale tono
e stile d’espressione. Il contenuto emotivo che stava riaffiorando attraverso una crepa della corazza
difensiva, è di nuovo sprofondato nell’inconscio.
Il soggetto è nuovamente calmo e “chiacchiera a vuoto” d’argomenti esposti da un punto di vista
cerebrale, senza nessuna reale comunicazione emotiva. Parla “di testa” perché (come gli accade
di solito) vive di testa, senza nessuna connessione con le emozioni primordiali che lo hanno fatto
soffrire nelle situazioni della sua infanzia.
Ma non vi è da preoccuparsi, perché nessuna persona è in grado di lasciarsi andare di colpo.
È soltanto con fatica e per tappe successive, che la struttura rinuncia alla nevrosi.
Un altro elemento che caratterizza queste manifestazioni pre-primordiali è il linguaggio
del soggetto (sia la costruzione della frase, sia il vocabolario).
Nel corso di questi primi “sbuffi d’emozione” che escono da crepe iniziali della corazza difensiva,
il soggetto si esprime “da adulto” e non “da bambino”. Parla dei suoi genitori, anziché parlare a loro,
rivolgersi a loro. Spiega razionalmente perché i genitori hanno sbagliato, articolando le frasi
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con formulazioni complete e linguisticamente corrette. Li insulta, magari, ma con termini
che usa un adulto. E il tono della voce è il suo tono abituale da adulto.
(Se invece l’esperienza è ben più profonda come reviviscenza d’antiche emozioni, per cui si può
affermare che si tratta di un autentico grido primordiale, il soggetto non riesce a parlare fluidamente
perché la continuità dell’espressione è resa impossibile da scoppi di pianto prolungato
e di tipo infantile, cioè un pianto disperato con impedimento della respirazione diaframmatica:
perciò la voce del soggetto spesso non è comprensibile perché coperta da convulsi scoppi
di tosse dovuti al fatto che il soggetto ha inspirato le sue lacrime, e il naso è chiuso
dalla congestione del pianto.
Le parole sono infantili - “Siete stati brutti e cattivi” - e la voce è marcatamente infantile come tono.
Le proteste sono di un bambino: espresse non da frasi logicamente articolate, ma da singole parole
emozionali che s’intrasentono fra i singhiozzi disperati.
Questi singhiozzi, queste lacrime, queste contrazioni addominali, sono legate a tempi infantili
in cui nessuno proteggeva il bambino piccolo contro i maltrattamenti degli adulti o contro
il carattere immaturo e ansioso di uno dei genitori, oppure contro la debolezza di un genitore
che era tanto grave da non permettergli di proteggere il bambino.
Spesso il soggetto alterna momenti d’intensi scoppi emotivi e momenti in cui coscientemente
si rende conto di come sono andate le cose nella sua infanzia: piange, comprende, parla.
Poi piange di nuovo, comprende qualcos’altro, lo spiega.
“Il grido è sia un grido di sofferenza, sia un grido di liberazione, grazie al quale il sistema di difese
del paziente si apre in una maniera drammatica. Esso proviene dalla pressione creata
dal fatto che l’io reale è stato tenuto prigioniero, talora durante decine d’anni.
È in gran parte un atto involontario. Questo grido è risentito dal corpo intero.
Molti lo descrivono come un lampo fragoroso che pare sbriciolare tutte le difese inconsce
della struttura psicofisica. Si tornerà su questo grido più avanti. Per ora basti sottolineare
che il grido primordiale è sia la causa sia la conseguenza del crollo del sistema di difese”. (Pag. 103).
“L’esperienza del grido primordiale è “un’esperienza totale del sentimento e del pensiero,
venuta dal passato”. Tutto accade in pochi minuti, i quali paiono essere straordinariamente dolorosi.
Il paziente non ha parlato dei suoi sentimenti, li ha vissuti. Il grido primordiale è un’esperienza
che sommerge l’essere intero. Il paziente è pressoché incosciente del luogo dove si trova
in quel momento”. (Pag. 106).
Janov sottolinea che non si può sapere in anticipo quando esploderà quest’esperienza primordiale.
Certo le esperienze parziali precedenti (importanti, ma che non hanno sommerso completamente
il soggetto) hanno preparato la strada.
“Ma possono occorrere talora settimane perché esploda l’esperienza primordiale.
Tuttavia, quando si verifica, sembra infrangersi la barriera tra pensiero e sentimento,
cosicché il soggetto si apre poi ad ogni sorta di sentimenti e comincia ad avere forti esperienze
emozionali primarie anche al di fuori della terapia. A partire da questo momento il soggetto
è sulla via della guarigione. Man mano che i giorni passano vi sono molte possibilità d’avere
esperienze sempre più profonde, fino al momento in cui l’equilibrio precario tra l’io reale e l’io irreale
pende a favore dello io reale, cosa che permette al soggetto di fare la piena esperienza
del suo sentimento. A partire da questo momento il soggetto è sommerso da esperienze dolorose
del suo passato, e farà esperienze primarie in gran numero durante diversi mesi.
Ciò non significa tuttavia che il paziente sia divenuto completamente reale.
Ogni esperienza primordiale riduce il predominio dell’io irreale ed allarga quello dell’io reale.
Quando le sofferenze essenziali saranno state rivissute, non vi sarà più io irreale,
e potremo allora dire che il soggetto è “normale”. Il nostro scopo è fare rimontare a galla
le sofferenze, per fare del soggetto una persona reale che percepisce”. (Pag. 106).
“Lungo il trattamento... vi sono dei vuoti, nel corso dei quali il soggetto non sembra sperimentare
granché, sembra “essere a secco”. Può darsi semplicemente che sia in un periodo in cui è refrattario,
perché l’organismo si riposa dopo giorni di sofferenza. L’organismo psicofisico è un eccellente auto
regolatore della sofferenza, e noi dobbiamo essere molto attenti a non infliggere al soggetto
una sofferenza attiva, quando è in un tale periodo. Qualche volta il malato rifiuta semplicemente
di guardare in faccia i suoi sentimenti perché il suo sistema di difese resiste sempre...”. (Pag. 107).
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“Certi malati stimano che ogni giorno di terapia li spoglia di uno strato di difese.
Questo processo si amplifica da solo, perché ogni sofferenza risentita permette al malato di risentirne
di più. Ogni esperienza primaria sembra far riemergere nuovi ricordi sepolti, che poi - essi stessi conducono a nuove esperienze primordiali. Man mano che le difese si frantumano, le esperienze
primordiali successive possono sempre più inglobare l’organismo intero. Ma il corpo non sopporta
che una certa quantità di sofferenza alla volta. Di conseguenza, se il paziente non è sottoposto
ad una pressione eccessiva, le esperienze primarie hanno luogo ad intervalli regolari,
e in tutta sicurezza. Se si costringe un paziente a sperimentare più cose di quante ne possa
sopportare, si otterrà soltanto il risultato di farlo di nuovo chiudere in se stesso.
In generale, man mano che i giorni passano, il paziente risale - con ogni esperienza primordiale più lontano nella sua infanzia. È frequente sentirgli prendere la voce dell’età che rivive:
il parlare della prima infanzia, e talora persino il pianto del lattante.
È l’osservazione di tutti questi elementi che mi h portato a comprendere il rapporto che vi è
tra la sofferenza e la memoria; in effetti, una volta che la sofferenza è eliminata, i ricordi dei malati
che sono stati in Terapia Primaria risalgono fino ai primi tre mesi di vita”. (Pag. 107).
“... Ma la natura del trauma è quasi inafferrabile: può essere il semplice fatto di non essere stato
cambiato, e di essere stato lasciato nella culla, o il fatto di essere stato maneggiato senza dolcezza,
di essere stato trascurato e di avere pianto per ore e ore senza che nessuno si occupasse di lui,
o il fatto di essere stato esposto alle voci rumorose dei genitori che turbavano la tranquillità
del bambino; di non essere stato allattato al seno o - se lo è stato - di essere stato svezzato
non in maniera naturale ma secondo un programma preciso...”. (Pag. 108).
“... Questo mostra che il trauma esiste, anche prima dell’acquisizione del linguaggio.
Non è semplicemente il modo con cui il padre e la madre urlano quando si rivolgono al bambino
a provocare la nevrosi; sembra che il trauma s’inscriva nel sistema nervoso e che l’organismo intero
ne conservi memoria. Il corpo “sa” che è traumatizzato, anche quando ciò non si accompagna
ad alcuna presa di coscienza. E qui ancora non basta che il soggetto abbia conoscenza
di quello che gli accade; se questi avvenimenti sono stati traumatizzanti, occorre che egli li riviva
e ne rifaccia l’esperienza completa per mettere termine all’effetto che essi continuano
ad esercitare sull’organismo...
... Ogni soggetto ha un tipo specifico d’esperienza primordiale. Alcuni hanno bisogno di parlare
per arrivare al sentimento; altri partono da una ensazione fisica inesplicabile al momento,
ma che essi collegano poi ad un ricordo. Proprio prima della connessione decisiva, che è così dolorosa,
certi pazienti si aggrappano al divano su cui stanno, altri si tengono la pancia, altri ancora ruotano
la testa senza sosta, sbattono i denti o sudano copiosamente.
Sotto l’effetto della sofferenza alcuni pazienti si piegano in due, altri si accucciano in un angolo,
altri cadono dal lettino e si rotolano per terra in preda a movimenti convulsi.
Anche per uno stesso soggetto, non vi sono due esperienze primordiali simili.
Esse possono svolgersi sotto il segno della collera, e della violenza, della paura, del silenzio
o della tristezza. Ma, qualunque sia la forma che prende l’esperienza primordiale, il trattamento
rinvia sempre ai sentimenti antichi non risolti”. (Pag.109).
“... Al termine di un certo tempo, il ruolo del terapeuta si limita a conservare il silenzio.
Quando il paziente è tuffato in un sentimento, egli ritorna “laggiù”, rivive la sua esperienza,
ritrova gli odori, sente i rumori e passa attraverso processi fisiologici che hanno luogo
in quel momento lontano del suo passato, e che sono stati bloccati allora...
... Non bisogna dimenticare che il paziente è interamente rituffato in una situazione del passato,
e che ogni intervento del terapeuta nel presente rischia di farvelo uscire.
Se si lascia agire il sentimento, esso ricondurrà il paziente alle sue origini.
Questo non può accadere se il terapeuta discute il sentimento con il paziente.
Un’esperienza primordiale ha alcune caratteristiche:
PRIMO:
il vocabolario: se il soggetto usa un vocabolario da bambino piccolo, probabilmente
è effettivamente dentro un’esperienza primordiale. Se invece usa termini da adulto,
è probabile che non stia facendo altro che un’esperienza pre-primordiale.
786
SECONDO:
il fatto di riprovare frammenti sempre più grandi della prima e della seconda infanzia,
produce un incremento della maturità. Ciò è determinato dal fatto che eliminando
il passato dalla struttura psico fisica del soggetto, gli si permette di essere realmente
adulto, invece che “giocare” a fare l’adulto. In una parola, egli diviene quello che è.
Un paziente tuffato in un’esperienza primaria urla e piange spesso con voce da bebè;
quando n’esce, ha una voce nuova, più grave e con un timbro migliore invece
della voce sottile e infantile che aveva prima del trattamento.
TERZO:
la nozione del tempo. Quando un paziente ha rivissuto il suo passato nel corso
di un’esperienza primordiale, sembra avere tendenza a perdere la nozione del tempo.
Alcuni dicono: “Mi sembra che siano passati anni da quando sono entrato
nello studio, oggi”. Quando io chiedo al paziente di dire approssimativamente
quanto tempo crede di avere passato nello studio, non è raro che risponda:
“Una trentina d’anni, mi pare”. Sembra che nei minuti o nelle ore che egli passa
nell’esperienza dell’ambiente di un tempo, egli non viva più il tempo presente.
I pazienti stessi descrivono queste esperienze primordiali come qualcosa che definiscono
come “coma vigile”. Benché possano uscirne in qualsiasi momento, se lo desiderano,
essi preferiscono continuare. Essi sanno dove sono e ciò che accade, ma durante
un’esperienza primordiale essi rivivono il loro passato e ne sono completamente
sommersi. In realtà essi sono stati sempre sommersi dal loro passato, ma lo scaricavano
in azioni o sintomi invece di riprovarlo. Anche i loro sogni avevano generalmente come
oggetto il passato. L’esperienza primordiale ripropone il passato. Rimette il passato
al suo posto, permettendo infine al soggetto di vivere solo più nel presente.
“Il grido primordiale non è un grido per il grido. E non è nemmeno un mezzo per dare sollievo
alla tensione. Quando esso è provocato da sentimenti profondi e devastanti, io credo
che sia un mezzo di cura ben più che un mezzo di distensione.
In ogni modo non è il grido in se stesso che è curativo, è la sofferenza.
Il grido non è che un’espressione della sofferenza. La sofferenza è l’agente curativo perché essa
significa che il soggetto sente di nuovo. Nel momento stesso in cui il soggetto sente il dolore,
la sofferenza sparisce. Se il nevrotico ha avuto male, è perché il suo corpo è stato costantemente
inserito sulla sofferenza. È la tensione della paura che gli ha fatto male.
Il vero grido primordiale non può essere misconosciuto.
È un grido profondo e involontario che assomiglia ad un rantolo.
Quando il terapeuta distrugge bruscamente una parte delle sue difese, e quindi il paziente
si trova di colpo nudo nella sua sofferenza, egli grida perché è interamente esposto alla sua verità.
Il grido è la reazione più frequente a quest’improvvisa vulnerabilità alla sofferenza,
ma non è né l’unica né la costante reazione possibile.
Vi sono soggetti che si lamentano, gemono, si torcono o si dibattono in tutti i sensi.
Il risultato è lo stesso: quello che è espresso quando il soggetto grida è un sentimento unico
che è probabilmente alla base di migliaia d’esperienze precedenti: “Papà, non farmi più male!”
o “Mamma, ho paura”. Qualche volta, per cominciare, il malato ha proprio bisogno
di gridare. Egli grida per le centinaia di volte in cui lo si è fatto tacere,o in cui lo si è ridicolizzato,
umiliato o picchiato. Egli grida oggi perché è stato spesso ferito senza avere diritto al lusso
di sanguinare! È come se qualcuno l’avesse continuamente punto con un ago, senza che egli abbia
mai potuto gridare una sola volta Ahi!”. (Pagg. 111-112).
“Quando la respirazione diventa più profonda e più ampia, l’osservatore sente che il momento
cruciale non è più che a qualche secondo o qualche minuto. Lo stomaco del paziente è afferrato
da tremori, il suo petto palpita, egli gira la testa a destra e a sinistra, tende e distende le gambe,
soffoca e sembra in generale essere spinto nelle ultime difese della sua fuga a perdita di fiato
dinanzi alla sofferenza. Di colpo, nel corso come di una gran convulsione, sembra che connessione
sia stabilita: è allora che zampilla il grido primordiale. Contemporaneamente la respirazione
diventa profonda e facile. Un paziente spiegò: “È questa respirazione che mi ha ridato la vita”.
I malati dicono allora di sentirsi “freschi, lavati” e “puri”.
Dopo che si stabilita una connessione, l’aria circola senza sforzo, siamo lontani
dalla respirazione spezzata ed interrotta dell’inizio della seduta”. (Pagg. 48-149).
787
VARIAZIONI NEI TIPI D’ESPERIENZA PRIMORDIALE.
“Le esperienze primordiali possono prendere forme assai diverse. Ho avuto, per esempio, una paziente
che incominciava le sue esperienze con quello che sembrava essere la sua nascita.
Il primo giorno di terapia si arrotolò a palla, il corpo si mise a contrarsi poi a distendersi.
Disse che sentiva dell’aria fredda sul suo corpo; infine emise un vagito come un neonato.
Non aveva la minima idea di quello che accadeva in lei e diceva che era un processo totalmente
involontario. Altri pazienti non risalgono mai così lontano.
Una paziente che non aveva ricordi antecedenti ai suoi dieci anni, incominciò con il vivere esperienze
che datavano dai suoi quattordici anni, poi discese il corso degli anni, fino a quando ritrovò il ricordo
di una scena terribile che aveva causato la scissione definitiva all’età di dieci anni.
In seguito ella ebbe delle esperienze primarie che risalivano più o meno lontano nel suo passato,
ed arrivò all’età di tre anni e qui risentì “allo stato puro” il bisogno di essere amata dai suoi genitori.
Ella disse poi che questa era stata la più dolorosa delle sue esperienze primarie: riprovare questo
bisogno fisico, era risentire la sofferenza costante causata da qualche cosa che non era mai stato
soddisfatto. Nel corso di quest’esperienza primaria, ella non aveva mai parlato; era stata un’esperienza
totalmente interiore, nel corso della quale ella si arrotolava su se stessa, gemeva, si torceva, stringeva
i pugni e digrignava i denti. Le esperienze primarie variano in funzione dell’età nella quale
si è prodotta la scissione, e dell’intensità della sofferenza.
Alcuni pazienti possono andare direttamente alla scena primaria maggiore in occasione della quale
si è prodotta la scissione. Per altri questo processo richiede dei mesi. Alcuni dicono che non ritrovano
mai una scena specifica, e sembra che vi siano state per essi parecchie scene che sono state in misura
eguale responsabili della loro nevrosi. Se la scissione è avvenuta precocemente, e se la sofferenza
è intensa, può accadere che il malato riviva parecchie volte una scena particolare”. (Pag. 117).
“Per esempio, non molto tempo fa, un malato si è ricordato che lo si era lasciato solo per parecchie
settimane nel suo lettino d’ospedale, all’età di nove mesi. I suoi genitori non potevano venire
a visitarlo perché era affetto da una malattia contagiosa. Il giorno dopo ritornò su questa scena
e si ricordò che era in una specie d’ospedale. Poi vide il viso della sua mamma.
Alla fine vide i suoi genitori andarsene e sentì il suo abbandono.
La scissione nevrotica di tutta la sua vita era consistita nel cercare qualcuno, recentemente
un’amichetta, cui attaccarsi, nel fare qualsiasi cosa perché lei non lo lasciasse mai.
Non si rendeva assolutamente conto che in gran parte questo comportamento era fondato
su un avvenimento che era avvenuto nella sua prima infanzia.
In realtà egli non aveva il minimo ricordo di quest’esperienza. Alla prima seduta egli era arrivato
in stato di gran tensione perché la sua ultima amichetta lo aveva lasciato.
Fu lasciandosi sprofondare in quello che sentiva che fu ricondotto alla scena dell’ospedale.
Mentre la riviveva, piangeva proprio come un bebè. Fece parecchie esperienze primordiali,
nel corso delle quali non parlava. Alla fine dell’ultima esperienza primordiale di questa serie,
emise un grido penetrante chiamando i suoi genitori perché ritornassero, grido che - nel suo letto
d’ospedale - per una ragione o per l’altra egli non aveva osato fare.
In generale, è facile riconoscere il momento in cui il malato esce da un’esperienza primordiale.
Apre gli occhi e sbatte le palpebre, come se uscisse da una sorta di stato d’incoscienza.
Qualche volta è meno spettacolare: non vi è che un cambiamento nel timbro di voce,
che ritorna adulto, cosa che mostra che il soggetto ha abbandonato i sentimenti dell’infanzia.
Ciò che è sempre sorprendente è il modo in cui la tensione si reinstalla quando l’organismo psico fisico
ne ha avuto abbastanza della sofferenza per quel giorno. Dopo avere riprovato una sofferenza molto
intensa, il malato si sentirà inesplicabilmente teso, e dirà che non si ricorda più di niente.
Oppure al contrario si sentirà completamente disteso, se ha ri sperimentato un sentimento
nella sua totalità. Quando un malato esce teso da un’esperienza primordiale, noi sappiano
che non ha riprovato integralmente la totalità del suo sentimento. La tensione residua che si osserva
dopo un’esperienza primaria, è la prova evidente che la nevrosi è stata la nostra prima amica
e la nostra benefattrice. La nevrosi ha preso in mano la nostra situazione, e ci ha protetti quando
la vita diventava troppo dolorosa per essere sopportabile.
Nello stesso modo è la nevrosi che prende in mano la situazione del malato oggi, e lo rende teso
quindi egli ne ha avuto abbastanza di sofferenza per la giornata.
Vi sono dei periodi in cui le esperienze primordiali hanno carattere essenzialmente fisico.
Verso la fine della terapia, un malato ebbe un’esperienza primaria in cui il suo corpo incominciò
a torcersi a destra e a manca, e a prendere le posizioni più bizzarre.
Era piegato sul ventre, con le gambe piegate verso la schiena, e la testa riversa, ad arco di cerchio.
788
Questa posizione involontaria durò circa un’ora. Poi si mise seduto e disse che il dolore - che per quasi
tutta la sua vita gli aveva fatto tenere la schiena curva - era sparito.
Descrisse in questo modo quello che era accaduto:
“Credo che non ci fosse soltanto il mio spirito ad essere attorcigliato, ma anche il mio corpo.
Ho avuto l’impressione che esso passasse attraverso tutta una serie di tappe, in cui era
dapprima tutto attorcigliato (com’ero effettivamente) e poi incominciasse automaticamente
a rimettersi diritto. Proprio prima di questa fase io stavo per dirmi che stavo diventando
pazzo. C’è stato uno scatto come di un interruttore che è avvenuto nella mia testa,
ed è allora che è incominciata questa scena fisica. Credo che quello che è avvenuto sia che
il mio spirito abbia infine abbandonato la lotta e tutta quest’irrealtà (una maniera di lasciare
che il corpo si frantumasse), ed allora il corpo è potuto infine ridivenire reale ed essere
in accordo con se stesso. Ora sto dritto, cammino in maniera rilassata, sono un uomo
differente. Non ero mai riuscito ad incrociare le mie gambe come faccio ora, e - per quanto
possa sembrare strano - è la prima volta in vita mia che io posso girare veramente la testa.
Tutto quello che posso dire è che non solamente il mio spirito era in una camicia di forza,
con delle idee strette; ma che il mio corpo era in ugual modo chiuso in una specie di stampo,
una matrice che m’imponeva una forma strana”. (Pagg. 117-119).
“Il processo primario conduce il paziente in un mondo che è visto raramente - se non mai anche negli studi degli psicoterapeuti. Ed è ancora più raro che sia compreso.
Non è una fuga isterica e fortuita, ma una spedizione sistematica ed organizzata che l’uomo
intraprende passo a passo entro se stesso. Quando il malato arriva infine a questo sentimento
catastrofico della prima infanzia, che consiste nel sapere che non è mai stato amato, che è stato
odiato, o che non è mai stato compreso, egli comprende perfettamente perché si è chiuso,
e che un neonato non poteva sopportare un tale sentimento e continuare a vivere.
Osservando questi malati al parossismo della sofferenza, quando raggiungono questo sentimento,
si scoprono le profondità della sensibilità umana. In tutti i miei anni di terapia convenzionale,
non ho mai visto e neanche mai compreso la natura del sentimento.
Certamente, ho visto molti pianti e sofferenze, ma c’è un abisso tra una crisi di pianto
ed un’esperienza primordiale. Ecco come un ammalato descriveva le sue esperienze primordiali:
“In un’esperienza primordiale, il sentimento che è associato ad un avvenimento infantile
accaduto dopo la scissione, fa parte dell’io reale. Ora, questo io reale non può essere
totalmente risentito se non si risale al periodo che ha preceduto la scissione.
È per questo che è così importante, in Terapia Primaria, rivivere le scene o le esperienze
dell’infanzia. Esse aiutano a risentire dei frammenti dell’io reale, associando la sofferenza
a degli incidenti specifici, fino a che non si arrivi ad essere veramente l’essenza di questo
io reale. Facciamo un esempio: se io faccio un’esperienza primaria a proposito di mia madre
che mi respinge, io dirò verosimilmente: “Mamma, non rifiutarmi!”. Il sentimento allo stato
puro che io riprovo in quel momento, è inesprimibile. Questo sentimento è il mio io reale,
ed il significato reale di quello che io dico è: “Mamma, sto male, per favore, liberami
da questo dolore!”, cosa che è una difesa per non essere questo sentimento.
A forza di associare questo sentimento ad incidenti specifici io credo che il paziente finirà
per essere interamente questo sentimento, e vivrà la sua essenza, cosa che una volta
non gli era stata possibile, proprio prima della scissione. Ed a quel momento, non vi è più
nulla da dire, non vi sono più connessioni da fare. Si è se stessi. Per me, è ciò che questa
spogliazione totale ha determinato. Non posso sperare di riuscire ad esprimere con parole
ciò che ho sperimentato in quest’esperienza; ed Il fatto che non lo possa mostra ancora
una volta che tutto ciò non può esprimersi con le parole”.
L’intensità delle sofferenze primarie è pressoché impossibile da descrivere. Osservando i malati
nel corso delle loro esperienze primordiali, ci si convince che essi vivono una tortura.
N’ero così convinto che l’idea ci chiedere ad un paziente se ciò che provava faceva male, non mi è
venuta che dopo parecchi mesi di terapia. Con mia gran sorpresa i pazienti dicevano che malgrado
tutte queste grida, questi gemiti, ed i movimenti convulsi, la sofferenza non faceva loro male!
Uno di loro espresse il concetto così:
“Non è come quando vi fate una puntura o un taglio ad una mano, e voi dite guardandola:
“Ahi, ahi! la mano mi fa male!” Ci si sente soltanto, ed in tutto il corpo, di essere
in uno stato pietoso. Ma questo non fa male. Oppure, se si dovesse dire qualcosa,
si potrebbe dire che è un dolore gradevole, perché è un sollievo straordinario
quello di essere finalmente in grado di sentire qualcosa!”.
789
Ciò che questa persona voleva dire, io credo, è che nel corso di un’esperienza primordiale,
non si riflette a quello che si fa, non si assimila quello che accade, non si razionalizza il bisogno,
per così dire. Non vi è che un io che - per la prima volta dall’infanzia - s’impegna in qualcosa.
Il soggetto è il sentimento. Se egli può così impegnarsi totalmente nel processo di risentire,
di ri sperimentare, è forse in parte perché egli non è seduto, rigido, in una poltrona nello sforzo
di ritrovare i suoi ricordi. Tutto il suo corpo è impegnato nel processo, esattamente come il bambino
piccolissimo vi era completamente impegnato, prima di rinchiudersi in se stesso. I malati si ricordano
il modo con cui esprimevano la loro collera quando erano piccolissimi: coricati per terra, dando
dei colpi con i piedi, sbattendo le braccia, e urlando. Erano totalmente presi. E se voi domandaste
ad un bambino che ha un acceso di collera, se ha avuto male (ammesso che possa comprendere
la domanda), è molto poco verosimile che egli risponda “si”. Ecco la descrizione di un’altra esperienza
che sopraggiunse verso la fine della terapia; la cito perché essa può aiutare a far comprendere
questo fenomeno della sofferenza non dolorosa:
“Io credo che la miglior maniera di descrivere quest’esperienza è di dire che io non ero
cosciente del sentimento e delle sue connessioni. Credo che, in realtà, io non ero cosciente
di nulla. Io ero semplicemente la mia sofferenza, e non vi era necessità di connessione
(niente di separato che potrebbe dire “tu stai male”). Occorreva semplicemente
che il mio essere accettasse l’esperienza e non se ne tagliasse via, come aveva fatto
quando ero diventato nevrotico. Quest’esperienza, era tutto il mio io reale”.
Il significato essenziale dell’esperienza della sofferenza primaria è che i sentimenti, in se stessi,
non fanno male. È Il fatto di tendersi per resistere loro, che è doloroso. Questo non vuol dire
che non vi siano sentimenti sgradevoli, ma quando si risentono per quello che sono, essi non sono
trasformati in sofferenza. La tristezza in se stessa non fa male. Ma se si è privati dalla propria tristezza,
se non si ha il diritto di sentire la propria infelicità, allora si soffre. Di conseguenza, il sentimento
è l’antitesi della sofferenza. Il principio dialettico della Terapia Primaria è il seguente: più si sente
sofferenza, meno si sta male. Non si può realmente ferire i sentimenti di una persona normale,
ma si può ferire un nevrotico, facendo rivivere i suoi sentimenti rimossi”. (Pagg. 119-122).
L’ESPERIENZA PRIMORDIALE SIMBOLICA
“Essendo, mi pare, ogni esperienza eccessiva automaticamente tagliata fuori del nostro sistema
psico fisico, io chiamerei quello che sembra accadere nei primi giorni di terapia, l’esperienza
primaria simbolica. Ciò è particolarmente vero per persone di una certa età, che hanno difese
particolarmente forti. Può darsi che il lato fisico della sofferenza sia risvegliato subito,
ma il malato non arriva a fare la connessione mentale corrispondente.
Al posto sentirà magari un terribile dolore alla schiena (simbolo di qualcuno che egli aveva sempre
“sulla schiena”) o avrà bruscamente delle paralisi locali (simbolo della sua impotenza),
o sentirà un peso sulle spalle (simbolo del fardello che ha portato). Il simbolismo varia.
Un paziente ebbe il lato sinistro paralizzato per mezz’ora; non appena incominciò a stabilire
delle connessioni, disse: “È tutto questo peso morto che per l’intera mia vita ho dovuto
trascinare con me”. Quando il terapeuta primario blocca il comportamento simbolico del paziente,
si direbbe che la nevrosi si ritiri sulla linea di difesa successiva: il simbolismo del corpo,
in altre parole i disturbi psicosomatici. Constatiamo una volta di più che il dolore fisico è il risultato
della sofferenza mentale dell’infanzia, e che quando questa sofferenza è risentita, i dolori fisici
spariscono. All’inizio della Terapia Primaria, quasi tutti i pazienti soffrono di disturbi psicosomatici,
anche quando il loro stato di salute precedente era abbastanza buono...
... Quando sentimenti essenziali sono bloccati, la sofferenza sembra rivolgersi dapprima
contro certe parti del corpo. È questo che ci indica che la sofferenza è in procinto di risalire.
Dal momento che le connessioni sono fatte, i disturbi psicosomatici spariscono rapidamente”.
(Pag. 113).
(Janov cita il caso di un paziente che era rigido e pieno di tensioni, tremante,
con i pugni chiusi, come se fosse effettivamente lacerato, diviso in due, ma era incapace
di stabilire una connessione con i fatti del passato. Più tardi, quando poté risentire ciò che era
accaduto, rivisse una scena dell’epoca del divorzio dei suoi genitori:
“... Queste contraddizioni, tra la collera nei confronti del padre che lo lasciava, e la paura di essere
del tutto abbandonato per sempre se l’avesse manifestata, si manifestavano con queste contratture
fisiche opposte. Si manifestavano fisicamente, perché egli non osava sentirle direttamente.
790
I sentimenti erano allora iscritti nel suo sistema muscolare in termini del loro valore simbolico:
egli era realmente lacerato da questi sentimenti opposti, perché i sentimenti sono delle cose reali,
fisiche. Per risolvere la lacerazione, egli dovette tornare indietro e risentire separatamente
tutti gli elementi di questa contraddizione. Non era sufficiente “sapere” che egli era in conflitto
a causa del divorzio dei suoi genitori”. (Pag. 114).
“... Lo stadio simbolico è una necessità in Terapia Primaria. Il malato risente una parte del sentimento,
perché risentirlo tutto intero è troppo doloroso. Il corpo si chiude allora provvisoriamente su se stesso,
e il paziente scarica (o esprime simbolicamente) la parte restante.
Questa scarica non è necessariamente specifica. Può limitarsi ad una tensione assai vaga,
che permette al soggetto di conservare intatta una parte della sua vecchia personalità.
Questo stadio simbolico deve svilupparsi senza fretta.
L’organismo affronta la sofferenza a piccole dosi, e continuerà così, in modo ordinato.
Man mano che l’eccesso di sentimento è risentito, il simbolismo diminuisce.
Questo processo si riflette anche nei sogni del paziente, nei quali il simbolismo va diminuendo.
Man mano che il paziente lascia lo stadio simbolico per entrare più direttamente nei suoi sentimenti,
egli mostra sempre meno interesse a tutto ciò che è simbolico.
Sembra che il simbolismo sia un fenomeno totale, e - sfortunatamente - molti nevrotici
passano tutta la loro vita in questo paese immaginario totalmente simbolico.
Il soggetto ha dei “furiosi” mal di testa che tradiscono la sua collera, ma sebbene questi mali
di testa si ripetano da anni, raramente egli li comprende.
In seguito ad un’esperienza primordiale particolarmente violenta, un malato si esprimeva così:
“Credo che tutta questa pressione nella mia testa fossero i miei sentimenti di collera
che non potevano uscire, e che si attaccavano alle mie sensazioni fisiche.
Era come se io avessi dovuto ficcare a forza anche le mie idee in uno scompartimento
che era già pieno da scoppiare”. (Pagg. 115-116).
SPARIZIONE DEI SINTOMI.
“La Terapia Primaria non è certo l’unico metodo che fa sparire dei sintomi (tic, ulcere, frigidità,
emicranie, sintomi sessuali, ecc). Ma occorre notare una differenza importante: in Terapia Primaria
sono proprio i sintomi che abitualmente spariscono per ultimi.
Questo contrasta con la mia esperienza in terapia convenzionale, dove ero talvolta capace di eliminare
i sintomi assai rapidamente. È senza dubbio perché aiutando il paziente a vivere e occuparsi
pienamente, il terapeuta convenzionale offre abbastanza scarichi alla tensione del paziente
perché i sintomi possano diminuire.
Essendo, in Terapia Primaria, ogni scarico abolito, è possibile che i sintomi incomincino
con l’aggravarsi, perché la marcia terapeutica priva il malato di molte sue difese minori.
Fintanto che l’io irreale non è completamente sparito, e che sussiste la scissione dell’io,
il sintomo persiste. La sua sparizione sopraggiunge poco a poco nel momento in cui il paziente
termina il trattamento. Questa persistenza del sintomo ha una spiegazione chiara.
Anzitutto questo sintomo - prendiamo per esempio la bulimia - è generalmente da anni
il centro della vita del malato, e lo scarico principale della tensione nervosa.
Se il sintomo è sovente l’elemento che sparisce per ultimo, è perché esso si è manifestato
(nella maggior parte dei casi) molto presto. I tic e le ipersensibilità appaiono spesso prima
dei cinque anni, e la balbuzie può apparire fin dall’acquisizione del linguaggio, verso i due o tre anni.
Il sintomo è il modo con cui il bambino piccolo risolve la scissione dell’io”. (Pagg. 158-159).
Ed infine, un’ultima citazione presa da Janov, certamente staccata dal contesto generale
di tutta la precedente esposizione, ma interessante da leggere perché potenziale fonte
di riflessioni nel soggetto, riflessioni importanti perché potrebbero dargli uno spunto
con il quale modificare tutto il corso della sua vita:
“L’individuo normale sa divertirsi. Il numero di nevrotici capaci di fare altrettanto senza l’aiuto
di stimolanti artificiali (per esempio l’alcool), è sorprendentemente piccolo.
Come diceva un paziente:
“Il divertimento mina la speranza. Io mi arrabattavo sempre per riuscire
a vedere il lato brutto delle cose. Quando tutta la giornata trascorreva bene,
sprofondavo di colpo in una crisi di malumore, e scatenavo una lite.
791
Non potevo sopportare un seguito ininterrotto di giorni gradevoli:
questo mi piombava nell’inquietudine come se avessi sempre una spada di Damocle
sospesa sulla testa. Retrospettivamente, mi rendo conto che se avessi accettato
d’essere felice, avrei rinunciato alla lotta per avere dei genitori buoni.
Se avessi accettato di buon grado la felicità, e se avessi realmente goduto della vita,
avrei dovuto rinunciare alla speranza di vedere le mie sventure riconosciute”.
Il nevrotico non cerca la felicità nel presente, ma vuole che lo si compensi per quello che è stato.
Si può dire lo stesso degli affetti. L’individuo normale ne gode senza riserve.
Ma per il nevrotico, questo equivarrebbe a dire ai suoi genitori:
“Io non ho più bisogno di voi. Ho trovato qualcuno che mi ama”.
Ora, il nevrotico ha molte difficoltà ad ammettere che egli non sarà mai il bambino o la bambina
che riceverà dai suoi genitori tutto ciò che gli mancava”. (Pagg. 175-176).
INDICE.
Introduction: The Discovery of Primal Pain.
1.
2.
The problem.
Neurosis:
• The Primal Scenes.
• The Real and Unreal Selves.
• Discussion.
3.
4.
5.
6.
Pain.
Pain and Memory.
The Nature of Tension.
The Defence System:
• Discussion.
7.
8.
The Nature of Feeling.
The Cure:
• The First Hour.
• The Second Day.
• The Third Day.
• After The Third Day.
• The Primal Scream.
• The Resistance.
• The Symbolic Primal.
• Variations in Primal Styles.
• The Group Experience.
• Becoming Well.
• Discussion.
KATHY.
9. Breathing, The Voice and The Scream.
10. Neurosis and Psychosomatic Desease:
• The Disappearance of Symptoms.
• Discussion.
11. On Being Normal
12. The Post - Primal Patient:
• Relationship to Parents.
GARY.
• Random Connections Regarding Primal Therapy.
13. The Relationship of Primal Theory to Other Therapeutic Approaches:
• The Freudian or Psychoanalytic Schools.
• Wilhelm Reich.
792
•
•
•
•
•
•
Behaviourist or Conditioning Schools.
The Rational School.
Reality Therapy.
Transcendental Meditation.
Exsistentialism.
Psychodrama.
LAURA.
14. Insight and Transference in Psychotherapy:
• The Nature of Insight.
• Discussion.
• The Transference.
PHILLIP.
15. Sleep, Dreams and Symbols:
• Discussion.
16. The Nature of Love.
17. Sexuality, Homosexuality and Bisexuality:
• Love and Sex.
• Frigidity and Impotente.
• Perversione.
• Lenny.
• Jim.
• Homosexuality.
• Identity and Homosexuality.
• Bisexuality and Latent Homosexuality.
• Discussion.
ELISABETH.
18. The Basis of Fear and Anger:
• Anger.
• Jealousy.
• Fear.
• Counter - Phobia.
• Childhood Fears.
• Discussion.
• Kim.
• Suicide.
19. Drugs and Addictions:
• Lysergic Acid Diethylamide (LSD-25).
• Heroin.
• Discussion.
• Marijuana.
• Sally.
• Overeating.
20. Psychosis: Drug and Non-Drug.
21. Conclusions
Appendix A: Tom.
Appendix B: Instructions for New Primal Patients.
Bibliography.
Index.
793
IL PENSIERO DI ARTHUR JANOV ATTRAVERSO LE SUE OPERE.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Ogni uomo è se stesso, e resta sostanzialmente se stesso lungo gli anni della sua vita.
Gli arricchimenti della cultura e dell’esperienza coprono, ma non cambiano la sostanziale fedeltà:
•
•
•
•
Al proprio stile di espressione.
Alle idee importanti alle quali egli crede e che sostiene.
Al suo modo di affrontare i problemi ai quali egli è interessato.
In fondo, alla sua visione del mondo ed al suo stile nello stabilire rapporti con gli altri.
“Imprints. The lifelong effects of the birth experience”,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Così è anche per QUATTRO. Nella visione che lo ha spinto a creare il sito www.auto-therapy.it
egli continua a valutare ogni possibile contributo dei vari Autori in funzione di uno strumentario
da fornire al lettore. Tali strumenti gli serviranno quando egli - alla fine - dovrà misurarsi
(e da solo) con il compito di guardare dentro il suo animo, e dentro il dolore che conserva
al fondo dell’animo fin dalla sua lontana infanzia.
Così la posizione di QUATTRO nei confronti del pensiero di Arthur Janov è sempre basata
sulla stessa domanda: “Ciò che Janov (in quanto fondatore della Terapia Primaria) scrive,
è utile affinché il lettore del sito impari qualche altra nozione utilizzabile ai fini delle proprie sedute
di auto aiuto?”.
E QUATTRO non può che constatate che anche il pensiero di Janov (lungo le sue opere)
è sempre centrato sulla forma della Terapia Primaria che egli ha descritto per la prima volta nel 1972.
Ed è sempre caratterizzato da una grande, grandissima, mole di affermazioni che ne vogliono essere
il sostegno. (Il termine “affermazione” è usato ad indicare la formazione di concetti dietro
ai quali vi è però la già accennata limitatezza delle citazioni bibliografiche in Janov,
rispetto alla consuetudine medica europea.
Il suo libro “Imprints. The lifelong effects of the birth experience”, che ora viene recensito,
riporta soltanto 51 voci bibliografiche su un testo di 360 pagine.
Arthur Janov sembra essere scrittore di facile ed affascinante lettura, e di fluida presentazione
di concetti ragionevoli. Ma la limitata citazione del pensiero di altri Autori desunto dal contributo
della letteratura mondiale, dà al lettore l’impressione che - attraverso tale stile costituito
da affermazioni “assolute” - Janov esponga sempre idee sue esclusive e scoperte originali,
lungo decine e decine di pagine.
E ciò produce un certo effetto di fatica nel lettore, costretto a ricercare costantemente
nella propria memoria la risposta alle domande:
• “Questo concetto l’ho già letto da qualche parte? In tal caso, dove?
• E se non l’ho letto da nessuna parte, su quali basi è fondata tale affermazione?
• È quindi ragionevole ed accettabile, oppure deve essere scientificamente rifiutata?”.
794
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SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO
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AUTORE:
Janov, Arthur
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TITOLO:
Imprints. The lifelong effects of the birth experience.
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EDITORE:
Coward, Mc Cann Inc., New York, 1982.
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PAGINE:

360
INQUADRAMENTO GENERALE:  vedi
INDICE:

vedi
COMMENTO:

no
TEST DA COMPILARE:

no
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INQUADRAMENTO GENERALE.
“Imprints. The lifelong effects of the birth experience” è stato pubblicato nel 1982.
Tutto il libro è centrato sul concetto di impronta (che Janov definisce: The New Primal Scream, cap. 6,
pag. 109, edizione originale) così:
“... Le impronte, nel senso con cui io uso il termine, sono ricordi rimossi che s’insinuano nel sistema
biologico e provocano disfunzioni sia organiche sia psicologiche. La formazione delle impronte
ha luogo nel prino stadio dello sviluppo del bambino, e diminuisce in maniera radicale dopo l’età
di 10 anni... Le impronte si producono in due modi: sia attraverso un’esperienza unica
e particolarmente drammatica, sia in seguito ad una serie di avvenimenti in rapporto ai quali
certi bisogni sono rimasti costantemente insoddisfatti lungo parecchi anni”.
Sostanzialmente, nel suo libro, per 360 pagine, Janov parla:
• Della nascita.
• Della vita nell’utero.
• Dell’esperienza della nascita.
• Delle conseguenze fisiche, emozionali, psicologiche ed intellettuali del trauma della nascita.
Il suo discorso fa affondare le radici della sofferenza psicologica nel tessuto della biologia,
mostra come la nevrosi si nutra forse più di squilibri ormonali e d’anossia intrauterina
che di fattori emotivi. Ecco, infatti, l’indice.
INDICE.
Parte Prima. L’INIZIO DELLA VITA.
Prefazione.
1. I diritti della nascita: il principio della fine.
2. Un incubo o un paradiso perduto: la vita nell’utero.
3. Nascita della nevrosi: la vera esperienza della nascita.
4. Segnato per la vita: la sofferenza prototipica e la sua reazione.
Parte Seconda. IL TRAUMA DELLA NASCITA E LA FORMAZIONE DELLA COSCIENZA.
Introduzione.
5. L’equilibrio precario dell’atto di vita: conseguenze fisiche del trauma della nascita.
6. Il segno del tempo: conseguenze emozionali e psicologiche del trauma della nascita.
7. Formazione dello spirito: conseguenze intellettive del trauma della nascita.
Parte Terza. CONSEGUENZE CATASTROFICHE DEL TRAUMA DELLA NASCITA.
Introduzione.
8. Nato pazzo? Contributo della nascita alla follia.
9. Conseguenze estreme della nascita: cancro ed epilessia.
10. L’ultima soluzione: suicidio e nascita.
795
Parte Quarta. LE RISOLUZIONI DEL TRAUMA DELLA NASCITA.
11. Segnato per la vita: l’impronta delle circostanze che circondano la nascita.
12. L’illusione (nella tecnica del “Rebirthing”) contro la realtà (in Terapia Primaria).
Conclusioni.
Appendice A: Le ricerche sullo stress fetale.
Appendice B: Misura delle conseguenze emozionali e psicologiche della nascita.
Janov sottolinea che:
“L’impronta del trauma della nascita implica due tipi di memoria: da un lato la memoria
dell’avvenimento stesso, dall’altro la memoria della quantità di sofferenza in gioco.
Queste due memorie occupano circuiti nervosi differenti. L’eccesso d’influsso è scaricato nelle parti
del cervello designate per trattare i sovraccarichi. Così, l’informazione non è trasmessa
con l’intermediario di una postazione di collegamento (l’ipotalamo) alla corteccia, dove essa diverrebbe
cosciente. Invece essa è canalizzata in una sorta di serbatoio, poi ritrasmessa alle parti del cervello
capaci di reagire adeguatamente. Questo riguarda abitualmente il sistema limbico ed il sistema
di allerta (reticolare) che - insieme - mobilitano l’organismo.
L’energia si ripercuote per tutta la vita nel sistema limbico. Lo “spirito” non saprà dunque mai
che cosa avviene al di sotto del suo livello, ma il corpo lo sa, e reagisce in modo appropriato.
Noi diventiamo “dopati” senza sapere perché”. (Pag. 273 edizione francese).
Ma non si pensi a Janov come ad uno psicologo che spiega fraddamente i conflitti emotivi
descrivendone le basi biologiche. Nella sua affermazione iniziale (Pag.13 edizione francese)
“In una specie di ciclo ironico che si perpetua da solo, il dolore inconscio della nostra nascita genera
maggior dolore, nevrosi e incoscienza”, si può sentire l’eco dei versi che l’intuizione poetica
d’Emily Dickinson (1830-1886) aveva creato quasi un secolo prima:
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“Il dolore ha un elemento di vuoto, di oscuro.
Non può ricordare quando è cominciato
O se c’era un giorno in cui non c’era.
Esso non ha alcun futuro se non se stesso
E i suoi regni infiniti contengono il suo passato,
illuminato a ricevere nuovi periodi di Dolore”.
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Dickinson, Emily: Part One: Life. IX, “Pain”.
Né si può negare l’efficacia psicologica dei due brillanti e minuziosi ritratti caratterologici che Janov
fa dei soggetti energici/attivi/aggressivi e deboli/passivi/inibiti.
Come non pensare alle classiche caratterologie psichiatriche dei secoli scorsi, che si spingono
fino al 1921 di “Tipi Psicologici”, di Carl Gustav Jung, con la sua contrapposizione
tra introversi ed estroversi?
796
IL MODO SIMPATICO.
“Un cammino lungo, difficile, sbocca solitamente nella nascita di un individuo del modo “simpatico”.
Per una quantità di ragioni, la madre ha tendenza a chiudersi strettamente in se stessa e non può
lasciare libero il suo bebè. Forse non è pronta ad essere madre, e il suo organismo se ne rende conto,
e ritarda il più possibile la nascita. Durante questo tempo il feto lotta per uscire: lotta per sopravvivere.
Ha segnalato che è pronto a nascere rilasciando certi ormoni.
Ma una madre nevrotica comunica male con il suo bebè, anche a questo livello inconscio,
ed ella non riceve la totalità del messaggio. Il suo organismo è in conflitto: tenta di separarsi
dal bambino pur trattenendolo. Il feto è torturato. Per sopravvivere deve lottare contro difficoltà
insuperabili. Dopo ore sfibranti, esso riesce infine ad uscire... per essere infine rianimato da sculaccioni
e poi separato dalla madre. Che cosa ha dunque imparato il neonato da tutto questo?
Quali saranno i suoi comportamenti prototipici? Vi sono numerose possibilità.
Il feto che fatica per ore per emergere dalla filiera pelvica, è totalmente mobilitato
per la sua sopravvivenza, a tal punto che questo stato di mobilitazione diventa permanente.
Ha imparato a lottare quando la sorte gli era sfavorevole. Ha imparato a battersi per ottenere ciò
di cui ha bisogno. Ha imparato l’importanza che può avere una reazione aggressiva:
che non è possibile nello stesso tempo trattenersi e riuscire. Nessuno gli ha insegnato tutto questo
ed è evidente che tutto ciò non è concettualizzato nel neonato come è in queste frasi.
Ma il neonato ha appreso ogni cosa a partire dalla sua esperienza e l’insegnamento ricevuto
è fissato nel suo corpo. Egli è divenuto un “simpatico”. Il suo sistema simpatico è stato scolpito,
inciso, come forma di reazione prototipica, capace di assicurargli la sopravvivenza.
La sua fisiologia tenderà ad essere “iper”: polso rapido, alta temperatura del corpo, livello energetico
elevato se non addirittura iper (ipertiroidismo), tendenza alle reazioni rapide.
Le reazioni psicologiche (aggressività eccessiva, impulsività e forte tensione nervosa) assumeranno
a loro volta la forma della fisiologia. Lottare per ottenere ciò di cui si ha bisogno è una tendenza
reattiva. Era (ed è) una questione di sopravvivenza. L’avvenire di questa tendenza dipende
dalle complicazioni che intervengono agli altri livelli dello sviluppo.
Gli avvenimenti ulteriori contribuiranno a formare e a procurare “l’interpretazione” dell’esperienza
originaria vissuta alla nascita. Il fatto di non essere stato aiutato alla nascita può essere aggravato
più tardi dal fatto che più tardi non si riceve alcun aiuto da parte dei genitori.
L’esperienza recente forma e dà un senso all’esperienza precoce. Ciò che complica ancora di più
il problema è quanto i genitori apportano essi stessi alla situazione. Molto spesso la reazione generale
dei genitori alla personalità del loro bimbo è essa stessa inconscia, ed è stata ugualmente
predeterminata dalla loro infanzia e dai traumi della loro propria nascita.
La madre che cede davanti ad un bambino aggressivo può agire così perché lei stessa è stata obbligata
a cedere davanti a dei genitori autoritari. Ma - ugualmente - la sua debolezza può essere la reazione
prototipica generata dalla sua propria nascita, quando la sua lotta lungo la filiera pelvica
era pericolosa, minacciosa per la sua sopravvivenza, e - in fin dei conti - inutile.
Anche questo è impresso, e si manifesta nel corso della vita. La madre (o il padre) commetterà
nei confronti del bambino, degli errori fondati sull’impronta della propria nascita, pur cercando invano
nei libri specializzati la buona ricetta per allevare correttamente il proprio bambino.
Ella razionalizzerà la sua debolezza di fronte all’aggressività del suo bambino facendosela passare
per una “educazione permissiva”.
Così si realizza il salto dalla fisiologia (l’impronta di “debolezza” segnata alla nascita) alla Psicologia
(la scelta di una filosofia di permissività). Così, se i genitori di un bambino simpatico sono deboli,
il bambino potrà essere impunemente aggressivo ed esigente. Se i genitori sono repressivi, o se hanno
paura dell’atteggiamento autoritario del loro bambino, essi schiacceranno la tendenza del bambino.
Ognuno di questi due atteggiamenti ha delle conseguenze negative. L’aggressività - quando
è tollerata o incoraggiata in modo nevrotico - diventa una tendenza solida, inflessibile e per lo più
odiosa. Ma Il bambino può almeno dare libero corso alle sue tendenze prototipiche.
Invece, quando l’aggressività è repressa, non solamente è bloccata la sofferenza, ma lo è ugualmente
la reazione cruciale alla sofferenza (l’aggressività prototipica). La reazione alla sofferenza precoce che è una forza del tutto a parte - è essa stessa rifiutata. L’organismo psicofisico subisce una doppia
repressione. Quando la sofferenza e l’aggressività sono entrambe bloccate nell’ambiente familiare,
esse possono emergere con intensità raddoppiata a scuola, dove il bambino tenderà continuamente
a battersi ed a creare dei problemi. Quando l’aggressività è bloccata sia a casa, sia a scuola,
sia nell’ambiente della comunità religiosa, non le rimane quasi alcuno sbocco.
797
Prima di arrivare ad avere otto anni, il bambino è già un individuo estremamente represso, soffocato.
Nella migliore delle ipotesi è un candidato alla depressione nevrotica. Nella peggiore è un possibile
psicopatico, perché il suo corpo è costretto a trattenere delle forze che egli non può né identificare,
né comprendere. Se il bambino è abbastanza giovane, si può inviarlo ad un soggiorno di vacanze
di tipo “liberale”, dove la sua pressione potrà liberarsi, e dove la sua aggressività potrà ritrovare
i suoi diritti. Ma dei genitori repressivi non sono certamente disposti a scegliere per il loro bambino
simili situazioni liberali. Per loro, la repressione è divenuta uno stile di vita, ed il bambino non
conoscerà null’altro, lungo anni ed anni. Se la forza esteriore non è sufficiente ad obbligare il bambino
ad arrendersi, a cedere, se le sue reazioni aggressive sono così violente che nulla può reprimerle,
egli diventerà allora “profondamente, sostanzialmente, cattivo”, la pecora nera.
Essendo incapace di conformarsi all’idea che i suoi genitori si fanno di lui, egli sarà rifiutato.
Per ironia della sorte, il bambino è punito per quest’aggressività della quale le reazioni della madre
alla sua nascita sono tuttavia responsabili. Il rifiuto renderà il bambino ancora più aggressivo.
Può rubare ai suoi genitori, mentire, punirli con cattivi risultati scolastici, o altre cose ancora peggiori.
L’adulto del tipo simpatico è in generale un ottimista. Egli ha imparato a canalizzare la sua aggressività
sotto forme più discrete, più accettabili. Egli è sicuro che il suo avvenire gli sarà favorevole, se egli fa
abbastanza sforzi, perché è stato così all’inizio della sua vita. Questo fattore può fare di lui un idealista.
Dal momento che l’individuo del tipo simpatico pure è alla fine uscito vittorioso dalla sua lotta,
è il più adatto a possedere i tratti della personalità di un essere tenace, ambizioso, lavoratore,
attratto dal successo, dinamico, con una tendenza debole o inesistente alla depressione.
Potrà essere un viaggiatore di commercio agganciante, incapace di accettare un “no” dal parte
del cliente. Affronterà risolutamente gli ostacoli, comportamento prototipico che gli ha salvato
la vita dinanzi al più grande ostacolo della sua esistenza. Affaticherà gli altri, perché egli stesso
non si concede mai una tregua, come ha fatto alla sua nascita.
Può essere un giocatore, negli affari come al tavolo di baccarà, cosa che è per lui un modo di lottare
contro l’avversità. Ed avrà tanto più voglia di giocare quanto più saprà che le possibilità sono contro
di lui. Egli ricrea instancabilmente la situazione prototipica allo scopo di potere reagire nello stesso
modo e cercare di vincere. Questo processo è totalmente inconscio.
Quando ci svegliamo di mattino, noi viviamo ancora per un attimo) al livello inferiore di coscienza,
e siamo dunque più vicini ai nostri sentimenti prototipici. L’individuo di tipo simpatico, al suo risveglio,
è in stato di allerta, pronto ad affrontare il mondo: salta giù dal letto, disposto a lottare,
come alla sua nascita. Tutti i suoi ormoni del risveglio, ivi compreso il tasso di cortisolo, sono sempre
pronti ad aumentare rapidamente. Egli lavora bene quando è in stato di tensione.
Egli non crolla, come farebbe un parasimpatico. La tensione gli è persino necessaria.
Egli la crea se non esiste, perché il bisogno di mantenere la tensione è una esperienza engrammata
in lui. Per lui, dal punto di vista inconscio, essere attivo, è essere sicuro di sopravvivere.
Alla sua nascita, egli è stato costretto a forzare il passaggio, ed ogni secondo era questione di vita
o di morte. L’organismo “si ricorda” di questa reazione di sopravvivenza, e la perpetua,
quali che siano le circostanze. Egli avrà la stessa reazione nelle circostanze più banali.
Per esempio al ristorante egli aspetterà che il cameriere sia al suo tavolo per scegliere il suo menù,
e non farà la sua scelta che in stato di tensione. Nello stesso modo, se deve passare la serata fuori
casa, aspetterà l’ultimo minuto per prepararsi. O ancora, se ha un lavoro da consegnare ad ora fissa,
non si metterà all’opera che quando gli testerà esattamente il tempo per finirlo.
Questa tendenza a lavorare in stato di tensione è prototipica. Ma la sua forma dipende
dalle esperienze ulteriori, come anche l’intensità della reazione. Se, quando era bambino, l’individuo
simpatico era obbligato a prepararsi in anticipo, se non aveva il diritto di rimandare all’ultimo minuto
quello che doveva fare, allora la tendenza sarà meno apparente. Ma sarà sempre presente.
A partire dal momento in cui il trauma si è impresso, esso modifica il metabolismo per tutta la vita.
Ciascuno è quindi obbligato a costruirsi un mondo conforme a questo metabolismo.
L’individuo di tipo simpatico cammina molto rapidamente perché il suo motore interiore è imballato.
Parla rapidamente, per lo stesso motivo. Dal momento però che egli scarica perpetuamente
quest’energia, egli resta incosciente della sofferenza che vi è al di sotto.
Per la maggior parte degli individui di questo tipo il rilassamento è un pericolo.
Essi sono incapaci di riposarsi realmente. Dato che il loro ritmo cardiaco ed il livello
del loro metabolismo generale sono elevati (forse in permanenza più di 80 pulsazioni il minuto)
un processo dialettico si mette in moto. Il metabolismo più elevato determina una personalità
più espansiva, che - a sua volta - provoca un aumento del livello del metabolismo.
L’una cosa nutre l’altra, ed insieme esse sintetizzano e predeterminano un fisiotipo,
una personalità, uno stile di vita... e per tutta la vita”. (Pagg. 67-70 edizione francese).
798
IL MODO PARASIMPATICO.
“Per l’individuo di tipo parasimpatico, la nascita è più vicina alla morte che alla vita.
Per ragioni diverse - presentazione podalica, giri di cordone ombelicale al collo, dosi massicce
di farmaci alla madre - il feto, dopo avere iniziato il processo della nascita, cade quasi immediatamente
in una improvvisa debolezza fisica. In certi casi si produce persino una morte clinica, di durata molto
breve, non letale. Nella maggior parte dei casi il bambino ha bisogno di essere fortemente stimolato
per incominciare a respirare. Il neonato che ha corso il rischio di morire lottando per sopravvivere
riporterà dal trauma una dominanza parasimpatica impressa nel suo corpo per la vita.
La sua fisiologia sarà “ipo”: polso molto lento, temperatura del corpo bassa, bassa pressione arteriosa,
basso livello di energia (ipotiroidismo), e tendenza a reazioni lente.
Questi stati fisiologici, che sono il risultato del trauma iniziale (e che - all’epoca - avevano uno scopo
di sopravvivenza), orienteranno le modalità di reazione del bambino nel corso della sua crescita.
È il tipo di bambino che è letargico fin dall’inizio della sua vita, che non piange molto,
che è un bambino “tranquillo”, molto passivo, mai esigente.
Non si può sapere che questo “buon” comportamento deriva da quanto il feto è stato prostrato
dal trauma, a tal punto che egli resterà in uno stato di inerzia durante la maggior parte
della sua primissima infanzia. Questo bambino non ha l’energia per essere spumeggiante, allegro,
sveglio ed attivo come è il bambino che è nato lottando con successo.
Tutto ciò, per altro, dà un orientamento imposto allo sviluppo della personalità.
Il corpo si ricorda che non ha avuto alcuna possibilità di lottare, che la scelta delle reazioni era nulla,
e questo ricordo si registra emozionalmente e psicologicamente: l’adulto nettamente parasimpatico
rischia fortemente di essere passivo, flemmatico e pessimista, malgrado tutti gli incoraggiamenti
che avrà potuto ricevere. Egli è molto probabilmente severo, diffidente e attaccato alle tradizioni,
e un senso di fatalità e di apprensione non lo abbandona mai.
Egli è scoraggiato, disperato, perché è esattamente quello che era alla sua nascita.
Egli si aspetta costantemente un destino funesto che - senza che egli lo sappia - ha già avuto luogo.
È per questo che il “parasimpatico” vedrà dovunque delle situazioni disperate.
Dal momento che egli cerca senza sosta di giustificare una realtà antica, egli proietta nell’irrealtà
un futuro cupo e senza speranza. Così, nell’esempio del ristorante che abbiamo visto prima,
egli sceglierà di preferenza - ma inconsciamente - dei piatti che hanno poche possibilità di essere
disponibili. Nelle sue relazioni personali egli potrà determinare passivamente delle reazioni di rifiuto;
e nel lavoro egli rischierà per colpa sua di passare di insuccesso, in modo da confermare il messaggio
prototipico: “Qualunque cosa io faccia, non sarà mai abbastanza”, e “Io non merito di vivere”.
Il “parasimpatico”, in stato di stress, tende all’ipotensione, ed a un ritmo cardiaco lento,
che riproducono la sua reazione engrammata al momento in cui ha rischiato di morire alla sua nascita.
Questi segni, in se stessi, potrebbero indicare un organismo sano.
Ma l’attività delle onde cerebrali indica un cambiamento verso una maggiore ampiezza,
perché la corteccia è in stato di stress. Questo tracciato indica che il parasimpatico è molto esposto
a soffrire di stordimenti, di svenimenti e di vertigini, come anche di ipotiroidismo e di ipoglicemia.
Sarà incline alle emicranie. Grazie a queste tendenze, che economizzano l’energia, vivrà senza dubbio
più a lungo che l’individuo di tipo simpatico, tuttavia egli conserva nel più profondo del suo inconscio
un immenso fardello di sofferenza, ed un ricordo permanente di dolore fisico o di agonia.
Nei suoi sogni egli può vedersi morto, cosa che non accade mai all’individuo di tipo simpatico.
Il “parasimpatico” è più lento entrare in uno stato di collera: ma non, come pensava Freud,
perché la sua collera si ritorce contro di lui sotto forma di depressione, ma perché non è equipaggiato
fisicamente per organizzare la collera altrettanto facilmente che l’individuo dell’altro tipo.
Il suo squilibrio ormonale e neurotrasmettitore fa ostacolo agli accessi di collera così frequenti nell’altro
tipo. Non si tratta, tra i due tipi, di una differenza di attitudine, ma di stati biologici profondi.
Il parasimpatico non ha tendenza ad “avventarsi”: egli diventa più ambizioso e meno flemmatico
solo quando si appoggia ad una decisione.
Alle differenze biologiche si aggiungono quelle che concernono l’apparenza fisica.
L’individuo passivo avrà senza dubbio una costituzione delicata: la sua anatomia si adatta
alla sua psiche. Il suo organismo è in posizione “ritardo”. L’individuo “simpatico” invece
ha un contegno più aggressivo. È pronto a battersi alla minima provocazione, la sua andatura
è più determinata, e certo molto più rapida.
Se c’è una droga da scegliere, il “parasimpatico” prenderà degli stimolanti, ed ha bisogno
di molto caffè per mettersi in moto di mattino. Il “parasimpatico” è, con ogni evidenza,
molto incline alla depressione. Al suo risveglio egli si sente schiacciato dalle forze interiori.
L’esperienza soggettiva comprende un polso lento, una respirazione rallentata, la sensazione
799
che le membra sono pesanti ed intorpidite. E il flusso dei pensieri è confuso e poco attivo.
Vi sono già in questo quadro gli elementi della depressione. L’idea di morte o di suicidio,
in quanto essa offre almeno una uscita, è spesso un conforto per il “parasimpatico” depressivo.
Questo esprime molto bene il senso inesorabile di disfatta e l’imminenza di una catastrofe
che prova una personalità “parasimpatica”.
Nel corso della terapia si vede spesso il passaggio che il paziente fa da una attitudine disfattista
(“Tutto mi sopravanza, mi supera”) ad una attitudine ottimista (“Posso fare tutto quello
che ho voglia di fare”), passaggio reso possibile grazie alla connessione stabilita con un trauma
molto precoce. Altre volte si vede, in modo simile, come il tipo di nascita sperimentato
per opera della madre, prefigura il tipo di vita che si instaura poi tra madre e paziente
(per esempio il fatto che la nascita e tutto ciò che segue sono situazioni dominate dalla paura).
Abbiamo constatato che spesso è così: il trauma della nascita è in qualche modo una versione
condensata della vita che sarà, perché la nevrosi che produce questa versione traumatica
condensata nel corso delle ore attorno alla nascita prosegue infaustamente con una costanza
prevedibile e grondante una pesante sofferenza”. (Pagg. 73-75 edizione francese).
Tutto ciò è molto interessante. Ma la domanda che QUATTRO si pone è sempre la stessa:
“come possono questi spunti riferiti alla nascita e ad una caratterologia neurovegetativa
e personologica, aiutare un lettore del sito a fare più facilmente ed utilmente le sue sedute
di auto-aiuto da realizzare da solo?”.
A parere di QUATTRO questa domanda non ha risposta nel libro di Janov.
Né - pensa QUATTRO - può aiutare l’utente del sito la lettura dei numerosi resoconti personali
di pazienti i quali riferiscono le loro esperienze primordiali. Infatti:
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1. Non sono resoconti di sedute fatte in auto gestione, bensì sempre
sotto la guida del terapeuta primario.
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2. Non sono resoconti minuziosi e dettagliati di tutto ciò che è emerso in ore di sedute,
ma bellissimi ed affascinanti riassunti esposti in maniera intellettualizzata, con lucida chiarezza
e capoversi esplicativi di titolazione. Nulla di spontaneo in cui un utente - solo con un registratore
e con il suo dolore interno - possa ritrovarsi.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
3. Il trauma della nascita (ammesso che possa emergere in ogni caso) non è certo evocabile
dal soggetto a comando. Al contrario non può che esplodere spontaneamente da dentro,
incontrollabile ed imprevedibile, dopo una serie imprecisabile di sedute apparentemente casuali
ma in realtà mosse dalla misteriosa volontà dell’inconscio.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Quindi, con rincrescimento, QUATTRO deve mantenere anche a proposito
di “Imprints. The lifelong effects of the birth experience”, la dichiarazione di presa di distanza
dalla trama concettuale di Arthur Janov.
800
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SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO
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AUTORE:
Janov, Arthur
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TITOLO:
The New Primal Scream.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
EDITORE:
Enterprise Publishing Inc., 1991. In edizione riveduta e ampliata nel 1992
appositamente per la traduzione francese: ”Le nouveau cri primal”,
Presses de la Renaissance, Paris, 1992.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
PAGINE:

415
INQUADRAMENTO GENERALE:  vedi
INDICE:

vedi
COMMENTO:

no
TEST DA COMPILARE:

no
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INQUADRAMENTO GENERALE.
Subito all’inizio del libro, pubblicato nel 1992, venti anni anni dopo
“The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”, nell’introduzione stessa, intitolata:
La Terapia Primaria venti anni dopo Janov precisa:
“Lungi dal limitarsi a presentare un sistema di psicoterapia, questo libro tratta anzitutto
della condizione umana. Esso spiega come scoprire la nevrosi ed in base a che cosa riconoscere
la normalità. Parla delle lacrime e dell’effetto che esse hanno sulla nostra salute.
Parla dell’angoscia e della depressione e della loro vera natura; della speranza e della disperazione
e di quel grido silenzioso che si chiama “malattia”. Parla della natura maligna della mancanza
di speranza e dell’angoscia, altrettanto mortale quanto un tumore, dei sogni infranti e dei legami
spezzati. E dell’intelligenza, quella vera. Non del suo simulacro, costituito dalla cultura, dall’istruzione
e dall’erudizione. Si tratta della capacità di provare amore e del dono, dell’attitudine a sopravvivere
ed a condurre una vita intelligente, vale a dire senza nuocere né a sé né ad altri.
È necessario essere un’aquila per comprendere che un bambino piccolo che piange ha bisogno
che lo si prenda in braccio e che lo si consoli?”. (Pag. 12 edizione francese).
“Dopo più di venti anni di pratica, i principi della sofferenza primaria e della Terapia Primaria
sono rimasti gli stessi. In cambio, tutto il resto è cambiato. E credo che quello che sia cambiato di più
è la possibilità di anticipare i risultati del trattamento. All’inizio noi non avevamo ancora abbastanza
esperienza, o un ventaglio di pazienti abbastanza largo per prevedere - se non a grandi linee quello che sarebbe successo quando si fosse affrontata la sofferenza.
Attualmente, non soltanto noi sappiamo quello che succederà, ma conosciamo anche il livello
di coscienza al quale opera il paziente, e questo ci permette di anticipare lo svolgimento delle sedute
future. Già da qualche anno ho scoperto questi “livelli di coscienza” la cui esistenza è del resto stata
confermata in seguito dai lavori di parecchi ricercatori. È un fenomeno che costato regolarmente:
esistono tre livelli di coscienza ben distinti, che determinano il genere di sintomi ed il tipo
di comportamento che ci si può attendere da un dato individuo”. (Pag. 15 edizione francese).
“Sappiamo che la nevrosi non è dovuta ad una mancanza di prese di coscienza, e che non è
provocandole che si può guarirla. Noi non cerchiamo dunque di rinforzare le difese del soggetto,
né di incitarlo a costruirsi un “Io”. La Terapia Primaria consiste, al contrario nel cercare di perforare
queste difese. Troppo spesso si ha tendenza a prendere per normalità quello che non è
che un potente meccanismo di difesa, che è propriamente il segno di una forte nevrosi,
ben nascosta nondimeno ben presente”. (Pag. 18 edizione francese).
Vediamo, riportando completamente l’esteso indice, di comprendere l’esatto svilupparsi
della grandissima quantità di concetti che Janov propone, l’uno dopo l’altro.
801
INDICE.
Introduzione: la Terapia Primaria venti anni dopo.
Parte Prima. Perché si cade ammalati?
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Capitolo 1. I bisogni fondamentali dell’essere umano.
• I nostri bisogni e come soddisfarli.
• Il bisogno d’amore è alla base di tutti i bisogni.
• I bisogni affettivi del bambino durante il suo sviluppo.
• L’importanza della libertà.
• L’amore che sgorga a fiotti.
• Quando i bisogni restano inappagati.
• La realtà del bisogno.
• L’apparizione dei bisogni sostitutivi.
• I bisogni sostitutivi diventano nevrotici.
• La risoluzione dei bisogni nevrotici.
Capitolo 2. La sofferenza primaria: il gran segreto nascosto.
• La natura della sofferenza affettiva.
• La sofferenza primaria.
• Sofferenza, bisogno e sviluppo naturale.
• Il mistero della sofferenza primaria.
• Il serbatoio della sofferenza primaria.
• Misurare la sofferenza affettiva.
• La natura della memoria affettiva.
• Il neonato può essere stressato.
• La memoria affettiva non è un ricordo cosciente.
Capitolo 3. La rimozione: i catenacci del cervello e la perdita della sensibilità.
• Il blocco a catenaccio: il meccanismo della rimozione.
• I catenacci del cervello e la rimozione.
• Il ricordo della sofferenza sotto chiave e la Terapia Primaria.
• Il blocco a catenaccio e la rimozione della sofferenza: esempio clinico.
• Il blocco a catenaccio e la rottura della comunicazione.
• Il blocco a catenaccio: fondamento della nevrosi.
• L’evoluzione del blocco a catenaccio.
• Misurare la forza dei chiavistelli.
• La sofferenza e il cervello superiore.
• Le endorfine: analgesici naturali.
• Le endorfine: le chiavi e le serrature del sistema di blocco della sofferenza.
• Perché esistono le endorfine?
• La chiave della sofferenza si trova nel passato.
• La sofferenza, la rimozione, le endorfine e la malattia.
Capitolo 4. Livelli di coscienza e natura dello spirito.
• Lo spirito nel corpo.
• Lo spirito vegetativo, lo spirito emozionale e lo spirito pensante.
• La coscienza ed i tre principali spiriti.
• La sofferenza, principio d’organizzazione dello spirito.
• Lo spirito ed i tre livelli di coscienza.
• La malattia e la coscienza di prima linea.
• La sofferenza ed i livelli di coscienza.
• La coscienza ed il funzionamento del cervello.
• Corpo o spirito?
• La natura dello spirito.
• L’ipnosi ed i livelli di coscienza.
• Le droghe allucinogene e lo spirito.
• Lo spirito e i chiavistelli difettosi.
• Coscienza e “coscienza di” qualche cosa.
802
• Penetrare lo spirito inconscio.
• Il sonno paradosso ed i livelli di coscienza.
• Il sonno, i sogni, e gli incubi: come produrre nevrosi dormendo.
Capitolo 5. Alietta.
Capitolo 6. Come si forma l’impronta delle esperienze precoci.
• Che cosa sono le impronte.
• L’impatto di un’impronta sul sistema immunitario.
• Le impronte, ricordi dei traumi.
• Le impronte e i centri emozionali dello spirito.
• Un esempio d’impronta.
• Come l’impronta produce una risonanza nel presente.
• Impronte e frustrazione cronica dei bisogni.
• Le impronte e il nostro destino genetico.
• L’apparizione di un’impronta durante un periodo critico della vita.
• Gli armadi a muro dello spirito.
Capitolo 7. Il comportamento del nevrotico: lo scarico simbolico.
• Il mondo come sostituto genitoriale.
• La comparsa dello scarico.
• La lotta come mezzo per ricreare l’impronta.
• Il significato nascosto di un comportamento.
• Scaricare la propria nascita.
• Risoluzione dello scarico.
Capitolo 8. Il trauma della nascita: marcati a vita dalle conseguenze della nascita.
• La nevrosi comincia nell’utero.
• Com’essere nevrotizzati nell’utero.
• Come il trauma della nascita modifica il cervello.
• I prototipi.
• Il principio dell’origine del prototipo.
• Il treno traumatico: la sofferenza diventa una caratteristica permanente del sistema.
• Prototipi e sopravvivenza.
Capitolo 9. Il prototipo natale e la personalità futura.
• Il modo simpatico e parasimpatico.
• L’impronta dello sviluppo traumatico.
• La disperazione, radice della malattia.
• Via senza uscita per il nevrotizzato.
• Lo scarico del trauma della nascita.
• Il rafforzamento del prototipo.
• Il simpaticotonico: un esempio d’ottimismo.
• La psicosi maniaco depressiva: le origini della personalità ciclotimia.
• La depressione.
• La nevrosi indotta dei comportamenti prevedibili.
Parte Seconda. Le forme della nevrosi.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Capitolo 10. Lo stress, l’angoscia e la tensione: sintomi della malattia.
• Che cos’è lo stress.
• La reazione di lotta o di fuga.
• La sindrome dello stress.
• La natura dell’angoscia.
• L’angoscia, la rimozione e il sistema di difesa.
• Che cosa scatena l’angoscia?
• L’angoscia e la nevrosi ossessivo compulsiva.
• Droghe e narcodipendenza.
803
•
•
•
•
La natura della tensione.
La sofferenza, antidoto dell’angoscia.
L’angoscia come meccanismo di sopravvivenza.
Conclusione: l’era della rimozione.
Capitolo 11. La disperazione maligna: la rimozione e il sistema immunitario.
• La ricerca primaria: in che cosa la psicoterapia modifica il cervello e il corpo?
• La febbre della nevrosi.
• Misurare la nevrosi: l’indice di rimozione.
• La rimozione e il sistema immunitario.
• Ricerche sullo stress, la sofferenza e il sistema immunitario.
• La portata di queste ricerche.
• Ricerche recenti sul sistema immunitario.
• La disperazione maligna.
• L’impronta della disperazione maligna: mancanza di speranza e cancro.
• Lo “spirito” del sistema immunitario.
• Il sistema immunitario: una coscienza.
• La solitudine che uccide.
• La rimozione: una malattia mortale.
• Misurare l’importanza degli effetti dei traumi precoci.
Capitolo 12. La malattia è un grido silenzioso.
• Presentazione.
• L’unità della sofferenza e del sintomo.
• La pressione che esercita l’impronta.
• La cospirazione del silenzio attorno alla sofferenza.
• Il ruolo della Terapia Primaria.
• Il naturale e l’acquisito: il ruolo dell’ereditarietà nella malattia.
• Prestare orecchio al grido silenzioso.
• Conclusione.
• Il segreto mantiene la malattia.
Capitolo 13. Sesso, sensualità e sessualità.
• Due casi di frigidità.
• I problemi sessuali sono problemi umani.
• Sentimenti, simboli e perversioni.
• La scissione dell’Io e la sessualità.
• Trattare i problemi sessuali senza fare riferimento al sesso.
• L’amore, la nascita e il sesso.
Parte terza. Come guarire.
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Capitolo 14. La normalità.
• Il comportamento non è che un aspetto della normalità.
• Definire la normalità.
• Il contesto della normalità.
• Ciò che vale per l’uno non vale necessariamente per l’altro.
• Le origini dell’anormalità.
• La normalità vista sotto l’angolo psicologico.
• La nevrosi, fonte di corruzione e d’insoddisfazione.
• Criteri di normalità.
• Chi può dire che cosa è normale?
• Ci si può sentire normali?
Capitolo 15. Il ruolo delle lacrime in psicoterapia.
• I pianti e il bisogno.
• Le lacrime primarie e la sofferenza rimossa.
• Le lacrime sono la caratteristica distintiva dell’uomo.
804
•
•
•
•
•
•
•
La rimozione delle lacrime.
Le lacrime e il sentimento di una perdita.
L’abreazione.
I pianti e lo stress.
La necessità del pianto.
La funzione curativa del pianto.
Dialettica della sofferenza e facilità di guarire.
Capitolo 16. Perché si deve rivivere la propria infanzia per guarire?
• Rivivere antiche emozioni.
• Livelli di coscienza e rivissuto.
• Riproduzione artificiale dei livelli di coscienza.
• Il neonato esiste sempre.
• Il processo del rivivere.
• Il fattore tempo.
Capitolo 17. La Terapia Primaria oggi.
• La Terapia Primaria si fonda su una metodologia scientifica rigorosa.
• Lo stile primario.
• Tuffarsi nel sentimento.
• È necessario piangere tutte le proprie lacrime.
• Reinserire il sentimento nella vita quotidiana.
• La terapia è sistematica.
• Gli errori che si possono commettere in Terapia Primaria.
• Confondere abreazione e sentimento.
• Fughe e terapia.
• I terapeuti.
• Alcuni aspetti unici della Terapia Primaria.
• La sofferenza e la terapia.
• La Terapia Primaria oggi.
• Le difese: studio di un caso.
Capitolo 18. Maria Elena.
Capitolo 19. Conclusioni: la Terapia Primaria venti anni dopo.
• Prove empiriche.
• Resistenza al concetto di sofferenza nascosta.
• Ciò che la Terapia Primaria rivendica.
• I pazienti post primari.
• Il bisogno, fonte di tutto il resto.
EPILOGO.
• La Terapia Primaria non è una terapia “dell’urlo primordiale”.
Ma che cos’è questo libro, in sostanza? È un manuale (aggiornato dopo 20 anni d’esperienza)
di Terapia Primaria? Assolutamente NO.
Il libro ha 21 sezioni:
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 1
introduzione
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 1
epilogo
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 19 capitoli.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
805
Di questi 19 capitoli, due sono resoconti clinici.
a. Il capitolo 5 (Alietta) è un diario personale di una paziente: 26 pagine di resoconto descrittivo
soggettivo di ciò che ella ha provato nelle prime tre settimane di Terapia Primaria.
b. Il capitolo 18 (Maria Elena) è un altro lungo resoconto personale, d’impostazione analoga.
Simile è anche l’impianto degli altri 28 più brevi resoconti (che vanno da una pagina a 4-5 pagine):
rispettabili affermazioni personali, dichiarate ma non dimostrate nel meccanismo che ha fatto
emergere le scoperte emozionali che i soggetti riferiscono.
Negli altri 17 capitoli l’Autore dichiara fin dall’inizio che il suo libro tratta della condizione umana,
delle lacrime e del loro effetto benefico; dell’angoscia e della disperazione, della speranza
e della depressione. Parla di come riconoscere la normalità.
Parla dell’amore e della vera intelligenza, la qual è cosa diversa dai suoi simulacri, che sono la cultura,
l’istruzione e l’erudizione. Il capitolo 17 (La Terapia Primaria oggi) è costituito da 15 pagine
di generalità psicologiche che praticamente non dicono nulla se non ribadire concetti come il fatto
che bisogna piangere tutte le proprie lacrime e che bisogna tuffarsi nel sentimento,
concetti che l’Autore ha già espresso decine di volte a partire dal suo iniziale
“The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”.
Lo stesso vale per il capitolo 19 (la Terapia Primaria venti anni dopo) e l’Epilogo: in tutto sono 10
pagine, in cui ogni periodo dello scritto ha contorni concettuali alquanto mal definibili,
e che - nel complesso - non s’inseriscono mai in uno schema concettuale precisamente mirato
a dimostrare una qualche tesi tecnica.
Ma - al termine di 415 pagine - il lettore medio ha capito dal libro che cosa è la Terapia Primaria?
E soprattutto ha capito come si svolge in concreto (lasciando da parte il meccanismo psicologico
che la renda comprensibilmente applicabile ad un gruppo di problemi o disturbi emotivo/psicologico
con preferenza ed indicazione maggiore rispetto ad altri disturbi/problemi?)
Il lettore sa che non è la terapia dell’urlo primordiale, ma non si può essere certi che egli sappia
che cosa è. Nonostante che da “The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”,
siano trascorsi 20 anni, e che da quest’esperienza Janov dichiari (in “The New Primal Scream”)
che è stato enormemente arricchito e mutato, si può affermare che anche nel 1992
la sua posizione non è cambiata su due punti fondamentali:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
1. Egli non descrive, nel libro, la sua tecnica di Terapia Primaria.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
2. E continua ad affermare che la tecnica della Terapia Primaria può essere applicata
solo da terapeuti addestrati nei suoi centri.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Di conseguenza, ancora una volta e con rinnovato dispiacere, QUATTRO deve concludere
che nemmeno da “The New Primal Scream” possono derivare al lettore del sito www.auto-therapy.it
spunti tecnici utili perché egli possa realizzare le sue sedute d’auto-aiuto
con maggiore facilità o profitto.
806
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
AUTORE:
Janov, Arthur
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
TITOLO:
Il potere dell’amore. L’azione dell’affetto materno
sullo sviluppo psicofisico del bambino.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
EDITORE:
Armando Editore, Roma, 2002.
Titolo originale: “The biology of love”, Prometheus Books, 2000.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
PAGINE:

290
INDICE:

vedi
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
AGGIORNAMENTO BIBLIOGRAFICO.
La correttezza d’informazione impone di riferire al lettore italiano che nel novembre 2002
è stato pubblicato il primo testo di Arthur Janov tradotto in italiano
“Il potere dell’amore. L’azione dell’affetto materno sullo sviluppo psicofisico del bambino”.
L’impianto è ancora quello che sembra essere tipico dello stile di Janov: fluide esposizioni
nelle quali l’Autore collega con chiarezza illustrativa le basi biologiche ormonali e neurofisiologiche
con gli aspetti psicologici vissuti dal paziente, proponendo - in forme non molto dissimili le idee che ha già illustrato negli altri libri. Citiamo i titoli dei capitoli.
INDICE.
A.
1.
2.
3.
4.
5.
6.
LA STRUTTURA ENCEFALICA.
La struttura encefalica.
La corteccia frontale: la mente dell’uomo pensante
Scatta l’allarme: la formazione reticolare attivante.
Simpatico e parasimpatico: formazione della personalità.
I tre livelli di coscienza.
Il concetto di periodo critico.
B.
7.
8.
9.
10.
11.
12.
13.
VITA INTRAUTERINA, MEMORIA E IMPRINTING.
Come si registra un imprinting.
Decifrare il codice della memoria.
L’effetto innescante.
Vita intrauterina: preludio alla vita reale.
Il trauma natale: come dirige le nostre vite.
Il fattore stress: costruire un cervello diverso.
La teoria del controllo di sbarramento.
C.
14.
15.
16.
17.
18.
19.
IL POTERE DELL’AMORE.
I mille volti dell’amore.
La mancanza d’ossigeno corrisponde ad una privazione affettiva.
Ossitocina e vasopressina: gli ormoni dell’amore.
Sessualità e omosessualità.
Che c’entra l’amore?
Psicoterapia ed encefalo: curare il cervello.
Sempre per correttezza d’informazione, si deve riferire che - rispetto agli altri tre testi citati
in precedenza - in questo libro la ricchezza di bibliografia citata raggiunge livelli di piena soddisfazione
informativa e culturale anche per il lettore esigente essendo non solo copiosa, ma addirittura
807
fornita capitolo per capitolo, con gioia del lettore maniaco di citazioni dalla letteratura mondiale.
Tuttavia, neanche in questo libro Janov parla d’aspetti tecnici della metodica di Terapia Primaria.
Non è quindi possibile - per l’utente del sito - ricavarne spunti di confronto o d’appoggio
nell’esecuzione delle sedute d’auto-aiuto. Non ne sarà fatta quindi recensione.
INVISIBILI FERITE
Invisibili ferite
che sanguinano soltanto dentro,
dove nessuno vede,
dove nessuno è presente
ad ascoltare un dolore silenzioso
fatto d’antico abbandono,
d’antica violenza.
Invisibili ferite
incollate all’anima da quasi subito,
ad accorciarti il respiro
sulla strada della vita,
sottraendoti un qualsiasi orizzonte.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Poesia di 29.
29, Gabbia interiore. 1999
808
Perchè i bambini soffrono.
La quantità di articoli e libri specialistici scritti in tutto il mondo su questo argomento, è sterminata.
E molto spesso è caratterizzata da alto interesse ed elevato significato.
Si pone quindi il problema del criterio in base al quale fare la selezione delle fonti da citare,
se selezione si deve fare anche solo per problemi di spazio.
QUATTRO ha deciso di seguire - anche per questa sezione - i criteri che gli avevano fatto decidere
di presentare ampie recensioni, con ricche citazioni dirette, delle opere di Alice Miller.
I concetti base di questi criteri erano: le formulazioni che Alice Miller presenta sui problemi
di errori educativi e di franchi maltrattamenti nei confronti dei bambini sono espresse con
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
 lucidità,

chiarezza,
semplicità di linguaggio,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––

quindi sono facilmente comprensibili da un pubblico di lettori qualsiasi.
Una realtà oggettiva e sociale come l’evento “un bambino è trattato male e fatto soffrire”
deve essere espressa in maniera così chiara, semplice e diretta da essere compresa
da ogni essere umano, per un fine pratico che lo riguarda:
• se è stato vittima, deve comprendere che può ribellarsi e divenire libero,
• se dispone (come adulto) di potere e di comando, deve comprendere che ha il dovere
di non abusarne nel male, ma deve agire correttamente per il bene del bambino.
Diverso è il caso dei problemi inconsci che un individuo adulto deve affrontare per sciogliere
i nodi morbosi che lo legano ad un altro adulto il quale lo fa soffrire nell’ambito di un rapporto
sentimentale o comunque interpersonale tra pari per età adulta.
La complessità dei meccanismi di funzionamento della mente inconscia e la sottigliezza delle forme
di violenza usate dal persecutore malvagio contro la sua vittima (per altro non impotente
come il bambino, bensì in sottile collusione non cosciente con il suo torturatore) giustificavano
almeno in parte, agli occhi di QUATTRO, la difficoltà dei concetti e dei termini usati per esprimerli,
laddove si è parlato più diffusamente ed in maniera specifica del meccanismo della sofferenza
nei rapporti interpersonali tra adulti (problemi di coppia).
Non così è quando si parla del meccanismo della sofferenza nel bambino, nel quale:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
a. i concetti devono essere illustrati in forma breve e sintetica,
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
b. ed espressi con linguaggio
• chiaro,
• semplice,
• di immediata comprensione.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Per ottenere questi risultati da parte sia di soggetti sofferenti fin dall’infanzia, sia di adulti
con responsabilità di genitori, QUATTRO ha scelto una formulazione del meccanismo della sofferenza
infantile che non si discostasse dallo spirito pratico che anima il sito.
Non si è quindi collegato a studi di taglio psicoanalitico in campo infantile, che avrebbero portato
probabilmente il discorso lontano da un terreno concreto e semplice, facendogli percorrere sentieri
affascinanti ma concettualmente non facili da trasferire ad un pubblico comune, a causa dell’elevato
grado di complessità concettuale ed ancora di più per un linguaggio spesso da iniziati.
Per illustrare i modi con i quali gli adulti agiscono contro i bambini schiacciandoli, reprimendoli,
soffocandoli, mortificandoli, aveva scelto di dare spazio alle formulazioni semplici, chiare,
lucide e dirette di Alice Miller.
809
Con lo stesso criterio, per illustrare il modo con cui il bambino soffre e subisce danni
nello sviluppo della sua personalità quando è represso, schernito, ricattato e violato,
ha scelto la formulazione che ne ha fatto Arthur Janov. Il fatto che QUATTRO non abbia mai voluto
adottare le forme tecniche della metodica terapeutica di Janov, non annulla il fatto che le spiegazioni
che Janov presenta sul meccanismo della sofferenza del bambino siano chiare, comprensibili
a qualsiasi lettore, espresse in forma semplice e con linguaggio comune.
Perciò, allo scopo specifico a cui questa sezione mira, sono utili ed adatte.
Saranno perciò riportate adeguate citazioni del pensiero di Janov sullo specifico modo
con cui il bambino viene ferito dalla sofferenza inflittagli, reagisce ad essa, ed alla fine è spezzato
ed alterato nella sua originaria natura autentica.
In parole semplici, plasmato e costruito come un infelice piccolo nevrotico, già ora, e per il futuro.
Poiché la prima lettura che QUATTRO ha fatto di Janov è stata sull’edizione francese “Le cris primal”,
nelle citazioni riportate in questa edizione italiana del sito le pagine sono riferite al suddetto testo
francese (non essendo ancora ad oggi disponibile una traduzione italiana del testo).
Nella versione inglese del sito le pagine sono riferite alla numerazione del testo inglese
“The Primal Scream. Primal Therapy: the cure for neurosis”.
GENITORI ED EDUCATORI ATTENZIONE!
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Vediamo quindi come Arthur Janov illustra il meccanismo causale della sofferenza nel bambino.
Le citazioni sono ricavate soprattutto dal capitolo secondo (“La nevrosi”) del libro “Le cris primal”.
“L’uomo è una creatura con dei bisogni. Nasciamo tutti con dei bisogni e la maggior parte di noi
muore dopo una vita di lotta senza aver avuto soddisfatto un buon numero di questi bisogni.
Tuttavia questi bisogni non hanno nulla di eccessivo - essere nutrito, stare al caldo e all’asciutto,
crescere e svilupparsi secondo il proprio ritmo, essere preso in braccio e carezzato,
ed essere stimolato -. Questi bisogni primari rappresentano il cuore della realtà del lattante.
Il processo nevrotico si scatena quando, per un certo tempo, essi non sono soddisfatti.
Il neonato non sa che sarebbe necessario che lo prendessero in braccio quando piange,
o che non dovrebbe essere svezzato troppo presto; ma se i suoi bisogni restano insoddisfatti,
egli soffre. All’inizio il neonato fa tutto quello che può per ottenere il soddisfacimento dei suoi bisogni.
Tende le braccia perché lo si prenda, piange quando ha fame e sgambetta in ogni senso
per far riconoscere i suoi bisogni. Se essi restano insoddisfatti per un certo tempo, se non lo si prende
in braccio, se non lo si cambia, e se non gli si dà da mangiare, soffrirà in continuazione fino a quando
riuscirà a fare qualcosa in modo che i suoi genitori soddisfino il suo bisogno, o fino al momento
in cui egli stesso spegne la sua sofferenza spegnendo il bisogno.
Se la sofferenza è troppo forte, il neonato può morire: è quello che hanno mostrato diversi studi
fatti sui neonati ospedalizzati. Dal momento che il lattante non può da solo porre rimedio
alla sua fame (non può andare a cercare qualcosa da mangiare nel frigorifero), esattamente
come non può trovare dei sostituti al suo bisogno d’affetto, come conseguenza egli deve separare
le sue sensazioni (fame, bisogno di essere preso in braccio) dalla sua coscienza.
Questa separazione tra l’Io ed i propri bisogni e sentimenti è una manovra istintiva per troncare
una sofferenza insopportabile. È ciò che noi chiamiamo scissione.
L’organismo si scinde (in due) allo scopo di proteggere la propria continuità.
Questo non significa tuttavia che i bisogni insoddisfatti spariscano.
Anzi, al contrario, essi si mantengono lungo il corso di tutta la vita: è la loro forza che orienta
gli interessi del soggetto e crea le motivazioni necessarie al loro soddisfacimento.
Ma, per quanto riguarda la sofferenza, i bisogni sono stati soppressi a livello della coscienza,
cosicché l’individuo deve cercare delle soddisfazioni sostitutive. In altre parole, egli deve ricercare
la soddisfazione dei suoi bisogni in maniera simbolica. Il soggetto a cui non è stato permesso
di esprimersi nella sua infanzia rischia più tardi di volersi sempre fare ascoltare e comprendere
ad ogni costo. Non solamente i bisogni insoddisfatti (che persistono fino a divenire intollerabili)
sono separati dalla coscienza, ma anche le sensazioni corrispondenti vengono posizionate
nei settori dove è più facile dominarle o dar loro sollievo.
Così alcuni sentimenti, alcuni modi di sentire, possono ricevere sollievo dall’urinare, e più tardi
dall’attività sessuale, oppure controllati dal blocco della respirazione profonda.
810
Il bambino frustrato impara a sviare i suoi bisogni ed a trasformarli in bisogni simbolici.
Da adulto, egli non sentirà più il bisogno di succhiare il seno di sua madre, bisogno che gli è rimasto
da uno svezzamento troppo brusco e precoce, ma fumerà in continuazione.
Il suo bisogno di fumare sarà un bisogno simbolico ed il raggiungimento di soddisfazioni simboliche
è l’essenza stessa della nevrosi. La nevrosi è un comportamento simbolico di difesa contro
una sofferenza psico biologica eccessiva, e si perpetua perché soddisfazioni simboliche
non possono soddisfare bisogni reali. Affinchè i bisogni reali siano soddisfatti, essi debbono
essere ri-sentiti e ri-provati. Sfortunatamente, a causa della sofferenza, essi sono stati sepolti
profondamente. Quando i bisogni sono così sepolti, l’organismo è in stato di allerta permanente.
Questo stato di allerta è la tensione. È la tensione che spinge il bambino piccolo, e più tardi l’adulto,
a soddisfare i suoi bisogni con tutti i mezzi possibili. Questo stato di allerta è necessario per assicurare
la sopravvivenza del lattante: se egli dovesse rinunciare alla speranza di vedere i suoi bisogni
soddisfatti, potrebbe morire. L’organismo vuole vivere ad ogni costo, ed il prezzo della sopravvivenza
è in generale la nevrosi, la quale spegne i bisogni fisici ed i sentimenti insoddisfatti, in quanto essi
causano una sofferenza troppo profonda perché il soggetto possa resistervi.
Tutto ciò che è naturale è un bisogno reale, per esempio crescere e svilupparsi secondo
il proprio ritmo. Per il neonato, questo vuol dire non essere svezzato troppo precocemente,
non essere forzato a camminare ed a parlare troppo presto, non essere obbligato ad afferrare
una palla prima che egli abbia un sistema nervoso abbastanza sviluppato per poterlo fare senza
uno sforzo particolare. I bisogni nevrotici non sono naturali, perché provengono dalla mancata
soddisfazione di bisogni reali. Non si viene al mondo con il bisogno di sentirsi lodare, ma un bambino
che vede i suoi sforzi reali costantemente denigrati - praticamente fin dalla sua nascita - ed a cui si è
fatto sentire che nulla di quello che farà sarà mai abbastanza ben fatto per ottenere l’amore
dei suoi genitori, svilupperà un bisogno insaziabile di lodi.
Nello stesso modo, un bambino può reprimere il suo bisogno di esprimersi se non vi è nessuno
che lo ascolti, ma può risultarne più tardi un bisogno di parlare in maniera inarrestabile.
Un bambino che sia amato è un bambino i cui bisogni naturali sono soddisfatti.
L’amore elimina la sua sofferenza. Il bambino che non è amato soffre perché è frustrato.
Il bambino amato non prova mai il bisogno di essere lodato, perché non è denigrato.
Egli è stimato per quello che è e non per ciò che può fare per soddisfare i bisogni dei suoi genitori.
Il bambino amato non diventerà un adulto dai bisogni sessuali insaziabili.
È stato abbracciato, accarezzato dai suoi genitori e non prova la necessità di ricorrere alla sessualità
per soddisfare questo bisogno della sua prima età. I bisogni reali vanno dall’interno all’esterno
e non all’inverso. Il bisogno di essere tenuto tra le braccia ed essere accarezzato fa parte del bisogno
di essere stimolato. La pelle è il nostro organo sensoriale più esteso e richiede almeno altrettante
stimolazioni quanto gli altri organi di senso. La mancanza di stimolazione nel corso della prima età
può avere conseguenze disastrose. Senza stimolazione, certi organi possono cominciare ad atrofizzarsi.
Viceversa (come è stato dimostrato) una stimolazione adeguata permette loro di aumentare di volume
e di svilupparsi. Una stimolazione fisica e mentale costante è indispensabile.
Nella misura in cui alcuni bisogni restano inappagati, essi soppiantano qualsiasi altra attività umana.
Non è che nella misura in cui i suoi bisogni sono soddisfatti che il bambino piccolo è in grado
di sentire nuovamente. Egli fa allora l’esperienza del suo corpo e del mondo che lo circonda.
Quando i suoi bisogni non sono soddisfatti, il neonato non sente che tensione, il quale è il sentimento,
la modalità si sentire, scollegata dalla coscienza. Senza questa connessione indispensabile,
il nevrotico non è in grado di sentire nuovamente. La nevrosi è la malattia del sentimento,
della capacità di sentire. La nevrosi non comincia nell’istante in cui il bambino piccolo reprime
i suoi sentimenti per la prima volta, ma si può dire che è in quel momento che incomincia il processo
nevrotico. Il bambino si forma per tappe. Ad ogni bisogno rimosso, ad ogni frustrazione, il bambino
si chiude un poco di più in se stesso. Ma viene un giorno in cui è raggiunta una soglia critica:
in essa il bambino è essenzialmente chiuso in se stesso, è più irreale che reale.
In questo momento si può dire che egli è caduto nella nevrosi. A partire da questo giorno, il bambino
vive secondo un sistema di doppio Io: l’Io reale e l’Io irreale. L’Io reale rappresenta i sentimenti
ed i bisogni reali dell’organismo. L’Io irreale è la copertura di questi sentimenti, è la “facciata”
che esigono i genitori nevrotici per soddisfare i loro propri bisogni.
Un padre o una madre che ha bisogno di sentirsi rispettato perché è sempre stato umiliato
dai propri genitori, esigerà dai suoi bambini che siano rispettosi fino all’ossequiosità,
che non gli “rispondano” mai, e che non gli oppongano mai un rifiuto.
Un padre o una madre infantile esigerà dal suo bambino che sia adulto molto tempo prima che egli
sia pronto a questo, affinché essi possano continuare ad essere il bébé di cui ci si occupa.
811
Le esigenze che rendono il bambino irreale sono raramente esplicite.
Questo non impedisce che per il bambino il soddisfacimento dei bisogni dei genitori diventi un obbligo
implicito. Il bambino nasce nel contesto dei bisogni dei suoi genitori ed incomincia a lottare
per soddisfarli quasi fin dalla sua nascita. Lo si spingerà a sorridere (per apparire felice), a dire “Papà”
e “Mamma”, a fare “Ciao” con la mano, più tardi a sedersi e a camminare, infine a fare degli sforzi
incessanti perché i suoi genitori possano avere un bambino “precoce”.
Più il bambino cresce, più ciò che gli si chiede diventa complicato. Bisogna che abbia dei buoni risultati
a scuola, che sia servizievole, che faccia la sua parte di lavori in casa, che sia saggio e poco esigente,
che non parli troppo, che dica soltanto delle cose educate e pertinenti all’argomento, che sia sportivo.
Ed egli farà tutto, tranne che essere se stesso.
Questa moltitudine di rapporti che si stabiliscono tra i genitori ed il bambino e dove sono deviati
i suoi bisogni naturali, i suoi bisogni primari, significa che il bambino soffre.
Significa che egli non può allo stesso tempo essere ciò che egli è ed essere amato.
Sono queste sofferenze profonde che io chiamo sofferenze primarie.
Le sofferenze primarie sono i bisogni ed i sentimenti repressi o negati dalla coscienza.
Essi sono dolorosi perché non è stato loro permesso di esprimersi o di essere soddisfatti.
Queste sofferenze si riassumono tutte nello stesso modo: “Io non sono amato, e non ho nessuna
speranza di esserlo essendo me stesso”. Ogni volta che un bambino non è preso in braccio
quando ne ha bisogno, ogni volta che lo si fa tacere, ogni volta che è ridicolizzato, ignorato
o spinto oltre il limite delle sue capacità, si aggiunge un pezzo al serbatoio delle sue sofferenze
primarie. Ed ogni volta che si aggiunge qualcosa a questo serbatoio, si rende il bambino più irreale
e più nevrotico. Nella misura in cui gli assalti contro il sistema reale si moltiplicano, essi incominciano
a schiacciare la personalità reale. Viene un giorno in cui un avvenimento che non è necessariamente
traumatizzante in se stesso - per esempio il fatto di affidarlo per la centesima volta ad una baby-sitter fa pendere la bilancia dal lato dell’irrealtà, ed il bambino diventa nevrotico.
Io chiamo questo avvenimento la scena primaria maggiore. È il momento della vita del bambino
piccolo in cui tutte le umiliazioni, tutte le privazioni e tutti i rifiuti che egli ha dovuto sopportare,
si sommano a produrre un inizio di presa di coscienza che si riassume in questo pensiero:
“Io non ho alcuna speranza di essere amato per quello che sono”.
È in questo momento che il bambino, per difendersi contro questa conoscenza catastrofica,
si mutila dei suoi sentimenti e scivola dolcemente nella nevrosi. Questa conoscenza non è cosciente.
Il bambino incomincia semplicemente a comportarsi verso i suoi genitori e più tardi verso gli altri,
come essi si aspettano da lui. Dice ciò che essi dicono e fa ciò che essi fanno.
Adotta un comportamento irreale, cioè un comportamento che è in disaccordo con la realtà
dei suoi bisogni personali e dei suoi desideri. Molto rapidamente questo comportamento nevrotico
diventa automatico. La nevrosi implica una scissione, una spaccatura tra l’individuo
ed i suoi sentimenti. Più il bambino subisce degli attacchi da parte dei suoi genitori,
più si approfondisce l’abisso tra il reale e l’irreale. Il bambino incomincia a parlare ed a muoversi
come gli viene prescritto, smette di toccare il suo corpo nei posti proibiti (cessa letteralmente
di sentirsi), impara a non essere più esuberante o triste,ecc. La fragilità del bambino rende
la scissione necessaria. È il riflesso (cioè la reazione automatica) che ha l’organismo per impedirgli
di impazzire. La nevrosi è dunque la difesa contro una realtà catastrofica, mirante a proteggere
lo sviluppo e l’integrità psicofisica dell’organismo. La nevrosi implica che l’individuo è quello
che non è allo scopo di ottenere una cosa che non esiste. Se l’amore dei genitori esistesse,
il bambino sarebbe quello che egli è, giacchè amare è lasciare l’altro essere quello che egli è.
Di conseguenza la nevrosi può essere generata da avvenimenti che non hanno nulla di particolarmente
traumatizzante in se stessi. Essa può nascere dal semplice obbligo fatto al bambino di punteggiare
ogni suo frase con “per piacere” e “grazie”, cosa che deve dimostrare la buona educazione
dei suoi genitori. Oppure può nascere dalla proibizione, che gli viene fatta, di piangere o di lamentarsi
quando è infelice. A causa della loro ansia personale, i genitori possono precipitarsi a placare il minimo
singhiozzo. Per provare che essi sono rispettati, è invece la collera che essi vieteranno:
“Una bambina assennata non ha crisi di rabbia, un bambino bene educato non risponde
male”. Si può produrre una nevrosi anche forzando il bambino ad “esibirsi”, per esempio a recitare
poesie davanti ad invitati, o a risolvere problemi astratti. Qualunque sia ciò che ci si aspetta da lui,
il bambino se ne fa subito un’idea precisa: bisogna recitare un ruolo, altrimenti... essere ciò che essi
vogliono, altrimenti niente amore, o quello che viene passato per amore, un’approvazione, un sorriso,
una strizzatine d’occhi. Poco a poco, il ruolo che egli recita domina la vita del bambino: egli passa
ad eseguire dei riti, ed a formulare degli incantesimi al servizio dei suoi genitori e delle loro esigenze.
812
È dalla terribile disperazione di non essere mai amato, che nasce la scissione. Il bambino deve negare
la constatazione che, qualunque cosa egli faccia, i suoi bisogni non saranno mai soddisfatti.
Egli non può vivere sapendo che nessuno si interessa a lui, o che lo si disprezza.
È per lui intollerabile sapere che non vi è alcun mezzo per rendere suo padre meno critico,
o sua madre più gentile. Non vi è che un modo per difendersi: crearsi dei bisogni sostitutivi,
dei bisogni nevrotici. Prendiamo l’esempio del bambino che è perpetuamente denigrato dai genitori.
In classe, chiacchiererà continuamente (cosa che gli causerà i rimproveri dei maestri);
nell’ora di ricreazione in cortile si vanterà senza sosta (e si alienerà anche gli altri bambini).
Adulto, rischia di avere un bisogno incoercibile di cercare una soddisfazione così scopertamente
simbolica (per l’osservatore) come il tavolo migliore in un ristorante di lusso!
Il fatto di ottenere questo tavolo non elimina però il suo bisogno di sentirsi importante; se no,
perché mai reciterebbe sempre la stessa commedia ogni volta che va al ristorante?
Mutilato di un bisogno autentico, che è inconscio (quello di essere riconosciuto in quanto essere
umano che ha un valore) il soggetto dà un “senso” alla sua vita facendosi salutare per nome
dai maîtres di sala dei ristoranti alla moda. Il bambino nasce dunque con dei bisogni biologici reali che,
per una ragione o per l’altra, i suoi genitori non soddisfano.
(Nota a fondo pagina: Molti genitori fanno l’errore di non prendere abbastanza sovente
il loro bambino in braccio, per paura di “rovinarlo”. Ma è esattamente quello che fanno ignorandolo,
perché più tardi essi saranno sommersi dalle esigenze insaziabili del bambino, che ricerca dei sostituti
simbolici, fino al giorno in cui la loro collera esploderà, cosa che avrà conseguenze tanto inevitabili
quanto terribili). Può essere che i genitori molto semplicemente non vedano le esigenze
del loro bambino, oppure che - per paura di sbagliare - seguano i consigli di qualche venerabile
specialista dell’educazione e non prendano il bambino in braccio se non ad ora fissa, lo nutrano
secondo un orario la cui precisione sarebbe l’orgoglio di una compagnia aerea, gli impongano
uno svezzamento strettamente programmato e gli insegnino il più presto possibile a tenersi pulito.
Tuttavia io non credo che l’ignoranza o lo zelo metodico bastino a spiegare la prodigiosa raccolta
di nevrosi che l’umanità produce dall’inizio della sua storia. La ragione principale per la quale
i bambini diventano nevrotici è - a mio parere - il fatto che i loro genitori sono troppo assorbiti
dalla lotta che essi conducono contro i loro personali bisogni infantili insoddisfatti.
È per questo che una donna può concepire un bambino per potersi fare coccolare come un bébé,
cosa della quale ella prova il bisogno da tutta la sua vita. Per tutto il tempo in cui è al centro
dell’attenzione, ella è relativamente felice. Ma, dopo il parto, la madre rischia di cadere
in una depressione profonda. La gravidanza era al servizio di un suo bisogno, e non aveva nulla
a che vedere con la venuta al mondo di un nuovo essere umano. Il bambino rischia persino
di patire per avere - nascendo - privato sua madre del solo momento della sua vita in cui lei aveva
ottenuto che altri si occupassero di lei. Dal momento che non è pronta per la maternità, la madre
non avrà forse latte e farà soffrire il suo bambino per le stesse privazioni per le quali lei stessa
ha forse sofferto. Ecco come la malvagità dei padri è scaricata sui bambini in un ciclo apparentemente
senza fine. Io indico con il termine “lotta” i tentativi che il bambino fa per piacere ai suoi genitori.
La lotta incomincia con i genitori, e si allarga poi al mondo intero.
Essa si estende al di là dei limiti della famiglia perché l’individuo porta con sé - dovunque vada i suoi bisogni frustrati, e questi bisogni devono essere soddisfatti. Egli cercherà dei sostituti
ai suoi genitori, con i quali “reciterà” il suo dramma nevrotico, nel quale trasformerà praticamente
tutto il mondo (compresi i suoi bambini) in immagini parentali che soddisferanno i suoi bisogni.
Un padre che è sempre stato impedito di parlare, farà dei suoi bambini degli uditori attenti.
Questi ultimi, a loro volta costretti ad ascoltare sempre, avranno il bisogno rimosso di essere ascoltati
da qualcuno, e potrà ben essere che siano i loro stessi figli a doverlo fare. Il luogo della lotta
passa dal bisogno reale al bisogno nevrotico, dal corpo allo spirito, perché i bisogni psicologici
sopraggiungono quando i bisogni fondamentali sono negati. Ma i bisogni psicologici non sono
bisogni reali. In realtà, non vi sono bisogni puramente psicologici. I bisogni psicologici sono bisogni
nevrotici perché essi non sono al servizio dei bisogni reali dell’organismo.
Per esempio, l’uomo che deve avere il migliore tavolo al ristorante per sentirsi importante, lo fa sotto
la pressione di un bisogno che si è sviluppato perché non era amato, e perché gli sforzi che egli faceva
erano sia ignorati sia repressi. Forse ha bisogno di essere chiamato per nome dal maitre di sala
perché per tutta la sua infanzia non ha sentito parlare di sé che in termini generali: mio figlio.
In altre parole, ha subito una sorta di disumanizzazione da parte dei suoi genitori, ed ora egli cerca
in maniera simbolica di ottenere una reazione umana da parte degli altri.
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Se fosse stato trattato dai genitori come un essere umano unico, questo preteso bisogno di sentirsi
importante non sarebbe apparso. Il nevrotico mette semplicemente nuove etichette (bisogno di sentirsi
importante) su antichi bisogni inconsci (bisogno di essere amato ed apprezzato).
Con il tempo, egli arriva a credere che queste nuove etichette corrispondono a sentimenti reali
e che occorre ottenere ciò che esse ricoprono. Il fascino che esercita su di noi la vista del nostro nome
su una insegna luminosa o su una pagina stampata, non è che un segno tra altri che rivela quanto
la maggior parte di noi ha sofferto per il non essere stato riconosciuto in quanto individui singoli.
Questi successi, anche se sono reali, rappresentano la ricerca simbolica dell’amore dei genitori.
La lotta consiste nel piacere ad un pubblico. La lotta impedisce al bambino di sentire la sua
disperazione. Essa consiste nel sovraffaticarsi, nello studiare come un somaro per ottenere buoni voti,
nel recitare la commedia. La lotta è la speranza del nevrotico di farsi amare. Invece di essere se stesso,
egli lotta per diventare un’altra versione di se stesso. Presto o tardi, il bambino finisce per credere
che questa nuova versione è realmente lui. La “commedia” non è più recitata coscientemente
e deliberatamente, essa diventa un comportamento automatico ed inconscio. Essa è ormai nevrotica”.
LE SCENE PRIMARIE.
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“Vi sono due tipi di scene primarie: le maggiori e le minori. La scena primaria maggiore
è l’avvenimento più sconvolgente della vita del bambino. È un momento di solitudine glaciale,
cosmico, la più amara di tutte le rivelazioni. È il momento in cui egli incomincia a scoprire
che non è amato per quello che è, e che non lo sarà mai.
Prima di questa scena primaria maggiore, il bambino ha fatto innumerevoli esperienze minori
(le scene primarie minori), nel corso delle quali è stato ridicolizzato, rifiutato, trascurato, umiliato,
spinto ad “esibirsi”. Arriva un giorno in cui tutti questi avvenimenti nefasti incominciano a prendere
un senso agli occhi del bambino. Un avvenimento decisivo sembra allora riassumere il senso
di tutte queste esperienze passate, in un’unica constatazione: “Essi non mi amano per quello
che sono”. Questa presa di coscienza è catastrofica. Il bambino la nega, e la seppellisce
nel più profondo di se stesso. È la lotta dell’Io irreale che prende il suo posto.
A partire da questo momento, tutte le esperienze del bambino sono attutite da questa facciata,
di modo che il bambino spesso non sa più che egli soffre. La sua lotta copre la sua sofferenza...
È evidente che nel cuore della lotta del nevrotico vi è la speranza, la speranza di vedere
il suo comportamento ridargli il conforto e l’amore. Tuttavia questa speranza è inevitabilmente irreale
perché lo spinge ad ottenere con la lotta qualcosa che non esiste affatto: dei genitori che provano
dei sentimenti. Il nevrotico tenta di fare, di ogni essere umano che incontra nel mondo,
dei genitori affettuosi, caldi, interessati a lui. Ma se i suoi genitori fossero stati realmente buoni
e sensibili, la sua lotta non sarebbe stata necessaria. Dopo la crisi della scena primaria maggiore,
si producono nel corso della vita familiare, migliaia di altri incidenti nefasti.
Ciascuno di essi approfondisce l’abisso ed aggrava la nevrosi. Ciascuno di essi rende il bambino
più irreale. Certi malati arrivano a ricordarsi di una scena decisiva che è stata la somma di tutte
le scene minori precedenti. Per gli altri non vi è stato che un lento e monotono accumularsi di leggeri
traumi, ciascuno insignificante in sé, ma che hanno finito per provocare una lacerazione maggiore.
Che questa si sia prodotta in una maniera drammatica nel corso di una scena primaria maggiore,
o che sia semplicemente il risultato di un accumularsi di scene minori, arriva comunque un giorno
in cui il bambino è più irreale che reale. La scissione che si produce nel corso della scena primaria
maggiore segna la fine dell’esistenza del bambino in quanto essere integro ed in accordo
con se stesso. In genere la scena primaria maggiore avviene tra i cinque e i sette anni.
È l’età in cui il bambino impara a generalizzare a partire dalla sua esperienza concreta.
È l’epoca in cui incomincia a comprendere il significato di tutti gli avvenimenti differenti che ha vissuto
fino ad allora. Da un punto di vista oggettivo, la scena primaria maggiore non è forzatamente
traumatizzante. Non è necessariamente un incidente stradale o una catastrofe aerea.
È piuttosto una brusca comprensione, una visione fuggevole e terrificante della verità
che colpisce il bambino nel corso di un avvenimento che può essere banale in sé.
Per esempio, un paziente si ricorda di aver chiamato sua madre, un giorno, quando era piccolo;
ma invece di sua madre fu suo padre - del quale lui aveva paura - che venne. In quel momento
egli “seppe”: “Mia madre non verrà mai quando io la chiamo”.
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La ragione era che le numerose volte in cui - dopo essere andato a letto - lui chiamava sua madre
perché gli portasse un bicchiere d’acqua, lei non veniva mai. Era sempre suo padre che veniva.
Un giorno egli comprese che sua madre non sarebbe mai venuta quando lui aveva bisogno di lei.
Era lacerato da un conflitto, perché il desiderio di vedere sua madre faceva venire suo padre
che lui temeva e che lo rimproverava per averlo chiamato. Così, desiderare era ottenere quello
che lui non desiderava. Non chiamò mai più sua madre, sostenendo che non aveva bisogno di lei,
fino al giorno in cui nello studio dell’Autore, chiamò sua madre gridando di dolore.
Le scene minori sono semplicemente i piccoli avvenimenti che colpiscono l’Io reale (critiche,
umiliazioni) fino a quando un giorno, nel corso della scena maggiore, quest’Io reale crolla
e si schianta sotto il carico. È possibile che la scena primaria maggiore accada nei primi mesi di vita.
È quello che accade quando il bambino piccolo vive un’esperienza in se stessa così devastante
che egli non può difendersene, e deve amputarsi di questa realtà. In questo caso, si produce
una rottura irreparabile che perdura fino a quando l’esperienza non sia rivissuta in tutta
la sua intensità. Un esempio può essere il fatto di essere strappato dai propri genitori e messo
in orfanotrofio fin dai primi mesi di vita. Le scene primarie chiave sono di un’importanza capitale
perché esse rappresentano centinaia di altre esperienze ognuna delle quali ha causato sofferenza.
È per questo motivo (quando i pazienti rivivono queste scene in Terapia Primaria) che un fiotto
di ricordi associati a queste scene risale a galla nello stesso tempo. Tutti questi avvenimenti
sono legati da uno stesso sentimento (per esempio: “Non c’è nessuno che mi ami”).”
(Janov, Arthur: “Le cri primal”, pagg. 25-34).
L’IO REALE E L’IO IRREALE.
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“Sebbene io parli sempre di Io reale e di Io irreale, non bisogna dimenticare che questi sono
i due aspetti di uno stesso Io. L’Io reale è Il vero Io, che noi eravamo prima di scoprire che questo
Io non era accettabile per i nostri genitori. Noi nasciamo reali. Essere reali non è qualcosa che noi
cerchiamo di diventare. Il guscio che noi costruiamo attorno all’Io reale è quello che i Freudiani
chiamerebbero il sistema di difese... Per parte mia io penso che l’individuo normale è totalmente
sprovvisto di difese, e non ha un Io irreale. Più il suo sistema di difese è forte, più l’individuo è malato,
vale a dire irreale”. (Janov, Arthur: “Le cri primal”, pag. 39).
“In occasione della scena primaria, l’organismo del bambino si chiude ad una presa di coscienza
completa e la respinge nell’inconscio, nello stesso modo in cui - sotto l’effetto di una sofferenza
fisica eccessiva - anche il più forte tra di noi perde conoscenza.
La sofferenza primaria è una sofferenza non sentita, non provata. Vista da questo punto di vista,
la nevrosi può essere considerata come un riflesso: la reazione istantaneo dell’organismo intero
alla sofferenza... Poiché l’organismo si chiude ad un dolore intollerabile, esso ha bisogno di qualche
cosa per nascondere e reprimere le sofferenze primarie. È la nevrosi che assume questa funzione.
Essa distrae il soggetto dalla sofferenza e lo indirizza verso la speranza, vale a dire verso quello che
egli può fare per soddisfare i suoi bisogni. Dal momento che il nevrotico ha una quantità di bisogni
di volta in volta pressanti ed insoddisfatti, le sue facoltà percettive e cognitive devono essere stornate
dalla realtà”. (Janov, Arthur: “Le cri primal”, pag. 46, passim).
“Le sofferenze primarie sono scollegate dalla coscienza, perché esserne cosciente significa
una sofferenza intollerabile. Il bambino fa l’esperienza della sofferenza primaria quando
non può essere se stesso. Quando le sofferenze sono scollegate dalla coscienza, nasce la tensione.
Essa rappresenta la sofferenza diffusa, la pressione delle emozioni negate e scollegate, le quali
chiedono di essere liberate. È la tensione che produce l’uomo d’affari incallito, il tossicomane,
il malato psicosomatico. Ciascuno di essi soffre alla sua maniera, ma sceglie uno stile di vita in altre parole “una personalità” - per tentare di ridurre e, se possibile, di spegnere la sua sofferenza...
Le sofferenze primarie sono i bisogni primari non risolti. La tensione è il modo di sentire questi bisogni
tagliati fuori dalla coscienza. A livello psichico, la tensione si manifesta con incoerenza, confusione,
mancanza di memoria. A livello fisico con tensione muscolare e turbe viscerali.
La tensione è il segno caratteristico della nevrosi. È la tensione che spinge il soggetto a risolvere
la nevrosi. Ma non può esservi risoluzione della nevrosi fino a quando il soggetto non ha ri-sentito
(vale a dire ri-vissuto coscientemente) la sua sofferenza primaria. La lotta nevrotica è senza fine perché
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i bisogni dell’infanzia restano insoddisfatti. La lotta è un tentativo perpetuo di impedire all’organismo
di avere dei bisogni. È tuttavia proprio questa lotta che impedisce al soggetto di risentire
la grande sofferenza del bisogno reale insoddisfatto, e di giungere attraverso ciò a risolverlo.
Una donna potrà passare tra le braccia di decine di amanti senza mai risolvere il bisogno dell’amore
dei suoi genitori. Un professore potrà tenere corsi a migliaia di studenti e tuttavia provare un bisogno
disperato di essere ascoltato e compreso dai suoi genitori, bisogno inconscio che lo spingerà
a fare sempre più corsi. La lotta nevrotica non porta mai soddisfazione, proprio perché essa
è simbolica e non reale. Ogni bisogno reale ed ogni sentimento represso che deriva dalla relazione
che il soggetto ha avuto nella sua infanzia con suo padre e con sua madre deve essere scaricato
simbolicamente, dato che non si rivolge verso i genitori. La Terapia Primaria ha per obiettivo l’aiutare
il soggetto a diventare reale, arrivando a provare - al di là del comportamento simbolico - i suoi
sentimenti reali. Questo contribuisce ad aiutare il soggetto a desiderare ciò di cui ha bisogno.
Il neonato, e poi bambino, che si sviluppa normalmente, desidera ciò di cui ha bisogno
perché percepisce i suoi bisogni. Quando diventa nevrotico, i suoi desideri ed i suoi bisogni si separano
(dato che egli non può avere ciò di cui ha bisogno), cosicché egli incomincia a desiderare cose
di cui non ha bisogno. Nell’adulto, questo può manifestarsi con un bisogno eccessivo di alcool,
di droghe, di vestiti o di denaro. Il soggetto persegue questi obiettivi per dare sollievo alla tensione
creata dai bisogni reali non riconosciuti e non soddisfatti. Ma non ci sarà mai abbastanza alcool,
droghe, vestiti o denaro per colmare Il vuoto”. (Janov, Arthur: “Le cri primal”, pagg. 42-43).
“Di tanto in tanto può darsi che Il nevrotico intraveda fuggevolmente il suo Io reale.
Una malattia, o vacanze che gli lasciano poche occasioni di combattere la sua lotta, ed ecco
che egli si trova ricondotto a se stesso. Questo può provocare dei sintomi psicologici: il soggetto
si sente molte volte “depersonalizzato”, estraneo a se stesso, come se finora avesse semplicemente
fatto finta di vivere. Questa depersonalizzazione segna spesso l’inizio della realtà, del suo vivere reale.
Ma poiché il nevrotico prende il suo essere irreale per realtà, egli finisce per sentire il suo Io reale
con una forza estranea. In generale egli si ritira nella sua irrealtà abituale, e si rimette ben presto
“nella sua pelle”, per cui si sente di nuovo se stesso. Se egli potesse fare un passo in più e proseguire
il suo cammino fino in fondo, percepirebbe la realtà della sua irrealtà (in altre parole, si renderebbe
veramente conto di quanto egli fosse irreale), e io credo che egli potrebbe ritornare ad essere reale.
Nel nevrotico, l’Io reale che sente, che percepisce, è dunque nascosto insieme alla sofferenza
originaria: è per questo che egli deve riprovare questa sofferenza allo scopo di liberarsi.
Il fatto di riprovare questa sofferenza distrugge l’Io irreale, nello stesso modo in cui il fatto di averla
negata, ha creato questo Io irreale. Dal momento che l’Io irreale è un sistema sovrapposto, il corpo
sembra rifiutarlo come rifiuterebbe qualsiasi elemento estraneo.
La tendenza va sempre verso l’ Io reale.
Quando genitori nevrotici impediscono ad un bambino di essere reale,
egli sceglie strade tortuose, vale a dire nevrotiche, per raggiungere la normalità.
La nevrosi non è altro che il mezzo irreale attraverso il quale noi cerchiamo di essere reali.
È il sistema irreale che deforma il corpo ed impedisce il suo sviluppo e la sua crescita.
Esso reprime l’attività del sistema endocrino - che è un sistema reale - , oppure al contrario lo stimola
all’eccesso. Esso provoca una fatica eccessiva di svariati organi vulnerabili, cosa che dà luogo
a dei “blocchi” periodici. In una parola, il sistema irreale è un sistema totale, non è semplicemente
un comportamento che si manifesta qui o là. Essere nevrotici vuol dire che non si è interamente reali:
come conseguenza niente in noi funziona normalmente e senza strappi.
Le manifestazioni della nevrosi sono altrettanto innumerevoli quanto quelle della normalità.
Le nevrosi è in tutto quello che noi facciamo. Il nevrotico ha un mezzo per incrinare la superficie
delle sue lotte simboliche, allo scopo di tuffarsi nelle sofferenze che motivano la nevrosi:
è la Terapia Primaria. È l’attacco sistematico contro l’Io irreale che finisce per produrre una nuova
maniera di essere - la normalità - esattamente come gli attacchi portati all’origine contro l’Io reale
avevano prodotto una nuova maniera di essere, la nevrosi. È la sofferenza che conduce alla nevrosi,
ed è attraverso alla sofferenza che se ne esce”. (Janov, Arthur: “Le cri primal”, pagg. 40-41).
A completamento dell’estesa esposizione sopra riportata, verrà ora presentata una citazione
del pensiero di Alice Miller, desunta dal suo libro ”L’Infanzia Rimossa. Dal bambino maltrattato
all’adulto distruttivo nel silenzio della società”, e concernente l’utilità iniziale della rimozione
nel bambino piccolo, a garantirne la sopravvivenza.
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INVISIBILI LACRIME
Stare immobili ad ascoltare un antico dolore
aprirsi un varco fra le mura della mente erette per proteggere
il proprio cuore dalla morte senza più fuggire ovunque
come un uomo impazzito in cerca di sfogo.
E raccogliersi dentro scaldandosi per quanto possibile
attendendo la fine della tempesta,
soltanto versando invisibili lacrime.
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Poesia di 29.
UTILITA’ INIZIALE DELLA RIMOZIONE.
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“Proviamo a figurarci di essere stati abbandonati da nostra madre, da bambini, di essere stati appesi
ad un muro per tre ore, in camicia da notte, esposti all’arbitrio di un padre infuriato, e cerchiamo poi
anche di immaginare quali sentimenti questa situazione possa suscitare in noi.
Ci rifiutiamo persino di pensarlo, perché un tentativo simile ci rimanderebbe oscuramente a situazioni
analoghe di cui non vogliamo ricordarci a nessun costo. Cosa può fare un bambino lasciato
completamente solo in preda ad una paura panica, alla rabbia impotente, alla disperazione
e al dolore? Non può nemmeno piangere, per non parlare di gridare, se non vuole essere ucciso.
L’unico modo di liberarsi di queste sensazioni è di rimuoverle.
Ma la rimozione è una illusione ingannevole. È d’aiuto sul momento, ma il prezzo di questo aiuto
dovrà essere pagato in seguito. La rabbia impotente torna a rivivere nel momento in cui viene
al mondo un figlio proprio, e allora può sfogarsi, di nuovo a spese di una creatura indifesa.
Se un bambino deve impiegare tutte le sue facoltà ed energie nel lavoro di rimozione che gli è
sul momento assolutamente necessario, e se - in aggiunta - non ha mai avuto modo di sperimentare
l’amore e la protezione di qualcuno, non sarà capace in futuro di proteggere se stesso,
e di organizzare la propria esistenza in modo assennato e produttivo.
Si tormenterà in altre relazioni devastatrici, si unirà a partner irresponsabili e soffrirà per causa loro,
senza però riuscire a rendersi conto o quasi che all’origine di tutte le sue sofferenze vi sono
i suoi genitori e gli altri educatori che ha avuto. Il lavoro di rimozione compiuto in passato in funzione
della sopravvivenza rende questa constatazione impossibile, e stavolta contro gli interessi della persona
ormai adulta. Ciò che ha dovuto “non vedere” da bambino, per sopravvivere, continuerà in determinate circostanze - a “non poter vedere” per tutta la vita.
La funzione salvifica della rimozione, nell’ infanzia, si trasforma poi, nell’adulto, in un potere
distruttivo. Perché se quella madre divenuta infine un’infanticida avesse potuto vivere
consapevolmente l’odio per il padre, se non avesse dovuto rimuovere i sentimenti dell’infanzia,
non sarebbe diventata un’assassina. Avrebbe saputo contro chi dirigere il suo odio nel momento
in cui, al telefono, era stata presa dalla disperazione, e non ne avrebbe fatto pagare il prezzo
a sua figlia. È stata la sua cecità - in passato indispensabile - a farne un’omicida, e la cecità
della società nel suo complesso contribuisce a far sì che questa donna non trovi l’aiuto che le occorre.
Perché nemmeno dopo molti anni di prigione o dopo molti anni di una terapia dai vaghi intenti
pedagogici potrà liberarsi dell’odio latente per il padre e della paura di essere una bambina che strilla
e che va punita. Finché la società - terapeuti compresi - sarà dominata dalla paura di mettere
in discussione il ruolo e le colpe dei genitori, quella donna correrà il pericolo di ripetere il suo delitto,
di dover continuare a eliminare la bambina urlante che non è potuta essere.
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Molte delle cose che abbiamo apprese da bambini e che continuiamo poi a sentir ripetere nella vita,
sono sorrette da questa paura. Ne fa parte anche l’opinione secondo cui il bambino sarebbe di per sé
cattivo, un selvaggio innato che noi possiamo rendere migliore con la nostra cultura.
Si potrebbe enumerare una serie intera di concezioni simili, continuamente irrise dalla realtà dei fatti,
e che pure non sono facili da scalzare perché giustificano il complesso del nostro sistema educativo.
Spesso su queste concezioni si costruiscono delle teorie assai complicate che gli studenti apprendono
in tutte le università e che poi, decenni dopo, insegnano a loro volta come professori,
benchè siano palesemente non vere...”. (Miller, Alice: pagg. 39-40).
NOTA DI QUATTRO.
Nello spirito che lo ha costretto a scrivere la sezione di spiegazione del suo distacco
concettuale e metodologico da Arthur Janov (vedi sezione Dichiarazione di indipendenza
in forma di Premessa) QUATTRO sente ora nuovamente il bisogno di prendere con chiarezza
le distanze dalle idee di Janov che ha riportato nell’ultima citazione fatta:
a parere di QUATTRO, in base alla sua esperienza professionale la nevrosi non è causata
semplicemente dalla sofferenza, ma da un insieme di fattori assai più complesso,
esteso e nocivo per il neonato o bambino piccolo:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
SOFFERENZA:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Stato di incoscienza infantile,
• Stato di impotenza infantile ad impedire il danno proveniente dall’esterno.
Di conseguenza QUATTRO ritiene (e lo sviluppo concettuale di questo sito,
e la voluta abbondanza di strumenti tecnici messi a disposizione del lettore lo dimostra
chiaramente) che la scomparsa della sofferenza nevrotica avvenga grazie a:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
COMPRENSIONE COSCIENTE:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
• Sviluppo di mezzi di difesa nel soggetto adulto,
• Scarico catartico del dolore,
con un ventaglio di strumenti di azione certamente molto più faticoso da apprendere,
ma certamente molto più razionalmente coerente all’antico meccanismo
che ha causato la nevrosi, e più dotato di ragionevoli possibilità di risoluzione definitiva
degli antichi nodi di sofferenza infantile.
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A questo punto, ti invitiamo a cliccare sull’icona AUTO RILASSAMENTO presente alla fine
del Percorso del sito dove potrai stampare i testi della TERZA SEDUTA dal titolo:
“DITE ‘AMICI’ ED ENTRATE”. (LA PORTA VERSO I REGNI DEL BASSO).
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 Segui le istruzioni per la registrazione e l’utilizzo di questo strumento per il tuo relax!
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818
Perchè la sofferenza abbia un senso.
(J. K. Stettbacher).
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SCHEDA TECNICA - A CURA DI QUATTRO
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AUTORE:
Stettbacher, J. Konrad
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TITOLO:
Perchè la sofferenza.
Il salutare incontro con la propria storia personale.
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EDITORE:
Garzanti, Milano, 1991.
Titolo originale: “Wenn Leiden einen Sinn haben soll”,
Hoffmann und Campe Verlag, 1990.
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PAGINE:

144
INQUADRAMENTO GENERALE:  vedi
INDICE:

vedi
COMMENTO:

no
TEST DA COMPILARE:

no
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INQUADRAMENTO GENERALE.
Questo libro contiene l’esposizione della tecnica che costituisce l’essenza più profonda del metodo
di auto-aiuto. Esso è quindi - sostanzialmente - la punta di diamante di tutto il lungo cammino
di preparazione che il sito (con tanta cura e tanta fatica) ha costruito per dotare gli utenti
di un efficace strumento di auto-aiuto utilizzabile per risolvere i propri problemi emotivi.
Tuttavia, proprio del manuale pratico fondamentale QUATTRO ha deciso di fare una relazione
squisitamente tecnica, essenziale, asciutta, con apparente paradosso.
Il grande merito di J. K. Stettbacher, rispetto alla formulazione di Arthur Janov, è quello di avere
standardizzato nei quattro passi lo schema della sequenza della seduta di Terapia Primaria,
mettendone in luce il meccanismo di azione. E con ciò di averla resa:
• Verificabile.
• Auto applicabile.
• Affrancata dalla necessità della presenza del terapeuta.
• Affrancata anche dall’obbligo del particolare ambiente creato dai primi terapeuti primari
(la dark room, la stanza nera ed al buio, è una impostazione che a QUATTRO ha, da subito,
suscitato un misto di sentimenti (tutti negativi) oscillanti tra la diffidenza professionale medica
verso ciò che non è chiaro, il disagio personale e un impulso beffardo dissacrante verso ciò
che pretende il creare un’atmosfera misteriosa).
Al citato merito di J. K. Stettbacher, QUATTRO intende tributare onore di ricordo, centrando l’analisi
del libro quasi solo su tale aspetto di schematizzazione della metodica.
Sostanzialmente è per evidenziare questa invenzione semplificativa e chiaramente descritta nel libro
di J. K. Stettbacher, che QUATTRO ne farà un’analisi solo tecnica, secca, asciutta.
In realtà il paradosso è solo apparente: di una lunga serie di riflessioni (ideologicamente significative)
di J. K. Stettbacher sul problema “Perdonare o non perdonare i genitori responsabili?”,
tema che ogni utente deve avere esaminato e risolto per potere utilizzare da solo il metodo
di auto-aiuto, è già stata fatta una lunga esposizione nella sezione “Una esplorazione ancora
più antica”. (Vedi Punto 5 - La mia storia).
Un’altra dettagliata citazione delle basi teoriche del metodo di Terapia Primaria è stata inserita
nella sezione “I passi possono avere un significato psicologico o simbolico?”.
Questa estesa esposizione è stata fatta perché il lettore potesse comprendere a fondo
il collegamento tra l’apparente irrilevanza del non soddisfare i bisogni fisici basali di un neonato
819
e la nascita di sofferenza emotive in lui quando sarà un bambino di pochi anni.
Nella presente recensione del libro QUATTRO lascerà quindi ad ogni lettore il piacere e la libertà
di cercare spunti che inneschino sue personali riflessioni a partire dalle osservazioni
che (nel corso del libro) J. K. Stettbacher fa su una serie di argomenti:

Quanto siano importanti i bisogni naturali e come il loro mancato appagamento faccia nascere
disturbi della capacità di relazione.

Come viene traumatizzato un bambino.

Come lesioni psichiche (che in futuro creeranno disturbi) possano nascere
dalla deformazione della verità personale.

Come le lesioni possano essere:
• Sul piano dei sensi (il corpo).
• Sul piano delle emozioni (i sentimenti).
• Sul piano della capacità di capire (la ragione).

Perché dinanzi ad una minaccia costituita da fattori interni o esterni, scattano meccanismi
di reazione inconscia tenaci e difficili da sradicare giacché sono causati da una permanente
disposizione a reagire scatenata da ricordi inconsci, i quali allarmano il sistema
di conservazione e producono tali reazioni, eccessive probabilmente ma comunque
in funzione della preservazione della vita. E soprattutto come funzioni il circuito
Normale/Sano - Lesione - Sofferenza/Reazione alla lesione, che ogni lettore può avere
interesse ad applicare a se stesso.
La tendenza iper descrittiva e ripetitiva del modo di scrivere di QUATTRO (talora logorroica,
diciamo pure) deve assolutamente cessare a questo preciso punto. L’elemento fondamentale di questa
sezione è infatti la descrizione tecnica del metodo. L’esposizione chiara ed esclusiva della procedura
è l’atto che fornisce all’utente lo strumento con il quale egli dovrà lavorare da solo a scavare dentro
se stesso. Quest’ultima consegna deve essere chiara, semplice, essenziale. Eccola, quindi.
NOTA BENE.
Le caratteristiche delle sedute di Terapia Primaria secondo la tecnica di Arthur Janov e le modifiche
proposte da J. K. Stettbacher sono già state descritte (vedi punto Cos’è Auto-Therapy nella sezione
“Aspetti personali dell’utente da chiarire prima di iniziare il percorso del sito: ILLUSIONI”)
e quindi non saranno più ripetute. Si farà soltanto riferimento ad una serie di variazioni di alcuni
concetti sulla Terapia Primaria applicati in termini di auto-aiuto. Soprattutto, si ricorda ancora
una volta che una cosa è la Terapia Primaria (la quale è effettuata necessariamente
da uno psicoterapeuta che segue, nel proprio studio, il paziente applicando la tecnica originale
della Terapia Primaria), e una cosa del tutto diversa è il metodo di auto-aiuto descritto in questa
sezione, ed in tutto il sito (metodo eseguito in proprio e da solo dal soggetto, pur essendo ispirato
a concetti che sono alla base della tecnica della Terapia Primaria).
Le citazioni si riferiscono essenzialmente alla PARTE II - LA TERAPIA, del libro di J. K. Stettbacher.
Vediamo anzitutto la concezione ideologica della Terapia Primaria, la quale può - con certe variazioni essere assunta alla base del metodo di auto-aiuto.
DI CHE COSA SI TRATTA.
“La definizione “Terapia Primaria” vuole indicare ciò che avviene nella terapia, e cioè
una rielaborazione curativa dei rapporti primari e delle difficoltà che ne sono insorte.
Obiettivo della Terapia Primaria è il dissolvimento di paure, sofferenze e disorientamenti primari
attraverso la scoperta delle cause riposte. Tutto questo necessita del “solitario” confronto
con i genitori e con tutte le altre “persone primarie”.
La Terapia Primaria è una forma di auto-assistenza che può essere appresa.
Richiede molta disciplina e costanza. La terapia esplora gli eventi del passato che devono ora
essere rivissuti consapevolmente e attivamente”. (Pag. 47).
820
“La Terapia Primaria è un’esperienza personale e, nello stesso tempo, un metodo d’apprendimento
che dovrebbe permettere al singolo di analizzare e dissolvere i suoi disturbi di relazione
e i suoi disorientamenti. Ciò che è stato sinora “vissuto passivamente” viene ora
“rivissuto coscientemente”: i ricordi approdano al livello di consapevolezza”. (Pag. 47).
“Nasce una consapevolezza che consente all’individuo l’accesso ai propri pensieri, alle sensazioni
e alle emozioni. Il paziente acquisisce nel corso della terapia possibilità che gli erano finora precluse.
Con il tempo potrà disporre - per gli incontri presenti e futuri - di un sereno, concreto atteggiamento
di aspettativa che lo renderà capace di reazioni sane e costruttive.
Il processo di guarigione richiede tempi assai differenti e non dipende esclusivamente dalla terapia.
Persone gravemente sofferenti debbono forse lavorare su se stesse, mediante la terapia, per anni,
per poter continuare almeno a vivere in un certo qual modo”. (Pag. 48).
IL TERAPEUTA.
Nel metodo di auto-aiuto non esiste un terapeuta
con il quale si possa avere un rapporto terapeutico diretto.
PREMESSE PER LA TERAPIA.
“Terapia Primaria significa confronto totale con il passato; è quindi molto faticosa. La decisione
di affrontare “costi quel che costi” i conflitti che insorgeranno è una condizione essenziale, poiché
è molto alta la probabilità di doversi occupare di eventi terribili. Ciononostante la terapia è costruttiva.
Iniziare la terapia con una assistenza adatta, ha un’importanza paragonabile a una buona assistenza
al parto. E di questa assistenza è capace solo chi voglia davvero “il bambino”. Se però non si trova
questo “qualcuno”, allora è necessario costruire il terapeuta in se stessi. Persone che hanno
intrapreso con coraggio e con successo questo tentativo hanno dimostrato che questa forma
di autoassistenza è possibile. La terapia può essere appresa dalle descrizioni che seguiranno.
La tragedia del bambino non amato è spaventosa. Ed è tanto angosciante e traumatizzante
perché il bambino non è assolutamente in grado di capire che cosa sia successo.
La trascuratezza nei confronti del bambino è un comportamento che contraddice le finalità biologiche.
Per il bambino è quasi insopportabile la constatazione di non essere stato amato, e si essere invece
stato usato, sfruttato, minacciato, spaventato, picchiato, maltrattato, scacciato, e questo sempre
quando voleva essere amato. Alla fin fine è costretto a sospettare che ogni sincera inclinazione
che gli si manifesti altro non sia che una finzione, e a “rifiutarsi” a essa perché comporta pericolo.
Il bambino non può accettare di non essere stato amato, bensì odiato dalle persone
dalle quali dipendeva completamente.
Tuttavia l’inconscio pilota il suo sistema in modo da fargli evitare i pericoli: e in questo modo
gli impedisce di vivere. La gioia di vivere sprofonda in un amaro oceano di silenzio”. (Pag. 50).
“Ma è proprio indispensabile che questo bambino sia per tutta la vita assoggettato a dei fantasmi
sino a ridursi a un morto vivente anche lui? No, per sua fortuna esiste una terapia:
però ciascuno deve elaborare da sé il metodo per sottrarsi all’incantesimo dell’immobilità”. (Pag. 51).
IL COLLOQUIO DI PRESENTAZIONE.
Non esiste nella metodica di auto-aiuto.
IL LAVORO TERAPEUTICO.
“Il lavoro di terapia comincia con la rievocazione della storia della propria vita: possibilmente scritta
nel modo più esauriente. Cominciate la descrizione con le situazioni in cui vivevano i vostri genitori
prima che si sposassero. Un sintetico elenco degli ascendenti (albero genealogico)
fino alla generazione dei nonni offre una prima visione complessiva.
I dati personali della vostra vita vanno annotati, per sommi capi, su una tabella e integrati
con gli schizzi relativi alle varie situazioni.disegni schematici che ritraggano l’ambiente
e l’appartamento in cui siete vissuti durante l’infanzia stimolano il ricordo. Gli esempi nelle pagine
che seguono (“schizzi di vita”) - albero genealogico, tabelle degli avvenimenti,
821
piantine di appartamenti - sono dati a titolo orientativo. Se è necessario seguire la terapia da soli,
senza un aiuto, allora ci si comporta come se ci fosse un terapeuta. In questo caso si può attribuire,
almeno in parte, alla presente esposizione la funzione di “avvocato”. Il paziente cerchi, almeno
per il momento, di interiorizzare come terapeuta un terapeuta immaginario, per esempio l’autore
di questo libro. Con il tempo diverrà egli stesso il proprio terapeuta, sempre disponibile.
Potrà continuamente verificare l’aiuto che dà a se stesso sulla base dell’esposizione qui fornita.
Il procedere della terapia, che il terapeuta ci sia o meno, è fondamentalmente sempre lo stesso”.
(Pag. 52).
INDICAZIONI PER LA TERAPIA DI BASE.
Non hanno applicazione nella metodica di auto-aiuto, tranne 2 punti.
1. “Analizzando e rielaborando la terapia (le cui registrazioni potrete riascoltare), interrompete
il riascolto non appena vi sentite stanchi. In seguito, dopo una pausa di ristoro, riprendete l’ascolto
dal punto in cui l’avevate interrotto, un riascolto ripetuto e protratto è importante, prendete
degli appunti sulla terapia e integrate continuamente la vostra biografia”. (Pagg. 53-54).
2. “L’ambiente per la terapia.
Occorre che questo locale sia adeguatamente isolato dai rumori e imbottito, di modo
che l’espressività fisica non sia causa d’inconvenienti. L’ambiente deve essere mantenuto
a una temperatura gradevole, tappezzato di scuro e dotato di un impianto d’illuminazione
regolabile. Dell’arredo fa parte anche un registratore su nastro, azionabile a distanza (vedi capitolo
“La terapia di gruppo”). La terapia, nei limiti del possibile, va svolta in un ambiente silenzioso
e perfettamente oscurato: le percezioni sono più intense e le immagini della memoria risultano
più evidenti, le dimensioni del giaciglio non devono limitare il paziente nei movimenti”. (Pag. 54).
SCHIZZI DI VITA.
L’esperienza di più di 10 anni di applicazione del metodo ai suoi clienti (nella variante di sedute
auto-gestite eseguite dal paziente a casa propria e poi riascoltate con il terapeuta nello studio
di questi) ha portato QUATTRO a ritenere poco utile - nella grande maggioranza dei casi - la pratica
di stendere un dettagliato albero genealogico e quella di disegnare una o più piantine degli alloggi
abitati dal soggetto nella sua infanzia. Senza escludere del tutto la possibilità (in singoli casi)
di un qualche vantaggio, in generale non si è riscontrata una proporzione interessante tra la fatica
di compilare albero genealogico e piantine di unità abitative, e il beneficio riscontrato.
QUATTRO ha quindi smesso di proporre le due ricerche ai suoi clienti in studio.
L’avvocato del bambino.
Nella metodica di auto aiuto, non esistendo un terapeuta, non può esistere un ruolo esterno
di avvocato del bambino. Tocca al soggetto stesso imparare a diventare l’avvocato difensore
del bambino che è stato. Tuttavia le osservazioni che J. K. Stettbacher fa in questo paragrafo
sono state concettualmente molto importanti per QUATTRO. L’hanno infatti convinto (fin dalla prima
lettura del libro, nel 1991) che il metodo poteva essere applicato in forma personale, con modalità
di auto-aiuto. E che le sedute (eseguite dal paziente da solo, a casa propria) potevano essere discusse
dopo, nello studio del terapeuta. L’esperienza di più di 10 anni di applicazione di questa variante
del metodo ha confermato l’osservazione di J. K. Stettbacher che in tale forma di auto-aiuto assistito,
i fenomeni del transfert paziente/terapeuta hanno una rilevanza molto scarsa.
Non si manifestano mai durante l’esecuzione della seduta stessa (durante la quale il soggetto
è così calato nel suo mondo emotivo passato da non ricordare nemmeno l’esistenza del terapeuta).
Per quanto riguarda i segni del transfert verso il terapeuta nel corso delle sedute di commento
delle registrazioni fatte a casa, tali segni sono minimi, gestibilissimi, e sostanzialmente ininfluenti
sull’andamento della terapia.
“Durante la terapia occorre tenere gli occhi chiusi, anche se l’ambiente è oscurato, bastano vaghe
ombre per creare effetti di disturbo. Ipersensibilità o stati di paura possono impedire di tenere
gli occhi chiusi. In tal caso è indispensabile soffermarcisi e parlarne”. (Pag. 66).
822
“Tenere gli occhi chiusi serve a migliorare la capacità di concentrazione e consente di “vedere”
più chiaramente le immagini della memoria. Le possibilità di ricordare variano da soggetto a soggetto.
In certi casi è possibile “vedere” intere sequenze, come in un film. D’altra parte ci sono molte persone
che, temendo l’insorgere di paure o di sofferenze, non sono mai state in grado di guardare
direttamente e chiaramente in faccia i genitori o le persone alle cui cure erano affidate
di conseguenza, in una prima fase, molti pazienti devono ricorrere a delle descrizioni per far riaffiorare
certe situazioni nella memoria. Il ricordo può essere “richiamo in vita” ricorrendo a ricordi parziali.
Quando vogliamo richiamare alla memoria persone e vicende del passato, possiamo eventualmente
ricorrere allo stimolo costruito da fotografie risalenti a quell’epoca. Capita talvolta che parenti
e conoscenti vengano visti e capiti per la prima volta consapevolmente e criticamente solo sulla base
delle fotografie. Per procedere nella terapia è essenziale che si instauri il più presto possibile
un dialogo con le persone con cui si è o si è stati in rapporto: deve trattarsi proprio di un dialogo
che svolgerete - pronunciandolo ad alta voce - con le persone che ricordate. Perché si instauri
un dialogo, occorre che voi poniate delle domande e che il vostro “interlocutore” risponda.
Desumerete queste risposte dagli atteggiamenti e dai comportamenti che avete conservato
nella memoria, dalla mimica, dai gesti, dalle espressioni e dai modi di dire di questi interlocutori,
e inoltre da molti dettagli che avete un tempo percepito e immagazzinato automaticamente,
senza poter tuttavia coscientemente elaborare, allora, questo “materiale”. Non appena vi sarà
possibile, chiarirete in questa forma dialogata eventi attuali e - con lo stesso metodo - scoprirete
e analizzerete le interazioni avvenute nella situazione dell’infanzia. In questo modo noi possiamo
diventare effettivamente gli avvocati del bambino. Con l’inserimento nel dialogo del nostro punto
di vista di adulti, correggendo mediante confronti critici le opinioni errate e i punti di vista espressi
a suo tempo dagli adulti, liberiamo il bambino che è in noi da sensi di colpa ingiustificati e inconsci.
Ora, senza esporci a pericolo, è possibile osare il confronto con le persone con cui eravamo allora
in relazione. Finalmente è permesso sviscerare il contrasto fino in fondo e dare sfogo concreto
a reazioni vitali che allora non sono state possibili o che ci sono state negate. In tal modo, e con
il tempo, trasformerete molte opinioni sul conto di altri o su voi stessi in cognizioni reali”. (Pag. 67).
“Partendo da eventi, situazioni ed emozioni attuali, ci inoltriamo nel passato mediante la terapia.
Così facendo, rivivremo sempre più coscientemente le sensazioni fisiche ed emotive in connessione
con gli avvenimenti accaduti. Inizialmente il rifiuto del passato autentico è ancora grande:
e il rifiuto permane fino al momento in cui si è in grado di comprendere meglio certi eventi dolorosi.
In questo modo, e con il tempo, si arriva a dare espressione a reazioni finora proibite, a imparare
a capire se stessi e a dissolvere difficoltà angosciose. Ogni interazione terapeutica svolta secondo
questo metodo, seguendo le quattro fasi indicate, chiarisce gli eventi e dissolve passo dopo passo
le tensioni e i problemi radicati nei conflitti di relazione. Avvenimenti e momenti vissuti divengono
in tal modo esperienze, da cui trarremo crescenti nuovi orientamenti e autonomia.
Da bambini non abbiamo mai potuto o non si è mai stato permesso d’imparare a dialogare,
ed è perfino possibile che abbiamo dovuto disimparare; per questo dobbiamo reimpararlo ora
ed esercitarci al dialogo. Con il tempo si instaura poi, di nuovo, una libertà d’azione e di reazione in sé
coerente. Dopodichè disporremo liberamente delle nostre capacità e funzioni autoconservative,
e tutto quanto intraprenderemo non soggiacerà più alla legge della paura.
Saremo capaci di reagire sempre più consapevolmente al dolore e alle apprensioni.
Nel corso della terapia è possibile ristabilire le connessioni su tutti e tre i livelli di relazione
(sensazione, emozione, pensiero), cogliendo l’energia che si libera per effetto dell’interazione
terapeutica e dandole modo d’esprimersi. Talvolta questo avviene in modo veemente, con parole,
grida o colpi dati in aria o contro l’imbottitura della stanza dove si svolge la terapia.
È in questo modo che si libera l’energia compressa. Di tanto in tanto occorre gridare e sfogarsi
perché si metta in moto il flusso psicosomatico e si possa di nuovo regolarne la circolazione.
Azioni apparenti o finte, ovvero esercitazioni artificiali non servono a niente.
Solo una reazione fondata e rivissuta su fatti e sentimenti reali produrrà duratura
distensione psicofisica. L’esercizio dei quattro passi terapeutici, il comportamento autocurante,
devono svolgersi parlando ad alta voce, in maniera tale da metterci nella condizione di riverificare
continuamente l’interazione con il nostro sistema.
Il contenuto così espresso è sottoposto alla verifica del proprio meccanismo di autocontrollo;
in tal modo modifica la nostra esperienza psichica. Questo comportamento autoterapeutico s’inserisce
poi col tempo anche nel corso dei pensieri. Si formano così nuove connessioni fra le nostre aree
di relazione psichica o - se vogliamo - fra il corpo e il sistema nervoso centrale.
L’emisfero sinistro del nostro cervello, che è responsabile della “consequenzialità” e “amministra”
823
i relativi schemi di reazione, e l’emisfero destro del cervello, che si è specializzato nella “totalità”,
possono approdare attraverso la terapia a un’armonica concordanza. Il progressivo chiarimento
porta sollievo in tutti gli ambiti funzionali. Possiamo vivere più oggettivamente e conformemente
alla realtà e i nostri organi possono funzionare con minori difficoltà”. (Pagg. 68-69).
TERAPIA SCRITTA.
“Il ricorso alla terapia serve quando, a causa di condizionamenti ambientali o simili, non è possibile
esprimersi ad alta voce. La terapia scritta è un mezzo valido e sperimentato per sviluppare la capacità
di aiutare se stessi. Per iscritto si possono formulare con molta precisione la situazione,
le circostanze, le emozioni e le loro conseguenze, le domande e i bisogni.
Scrivete come se svolgeste una conversazione franca, senza attenervi ad alcuna forma di censura.
Poi, durante la rilettura, si possono controllare e completare molto bene i quattro passi.
Lo svolgimento d’una terapia scritta, oppure anche solo pensata, non esime tuttavia - o quanto meno
non in modo affidabile - dal completamento emotivo - parlato dell’interazione terapeutica”. (Pag. 79).
LA TABELLA DEI QUATTRO PASSI.
“Nella tabella che segue, i quattro passi sono formulati in segmenti parziali che non hanno tuttavia
la pretesa di essere esaurienti; sono soltanto indicazioni. Ogni persona affronterà il dialogo
con le sue parole. È indispensabile tuttavia compiere i quattro passi in ogni interazione”. (Pag. 70).
1° PASSO. Percezione (attuale o ricordata).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nel corso del primo passo terapeutico dico come mi sento:

ciò che avverto,
•
•
•
•
•
noto,
vedo,
sento,
odoro,
e ciò che mi assilla...
Nel primo passo terapeutico siete sollecitati ad esprimervi sul vostro stato attuale, a spiegare
che cosa avviene ora. Siete inoltre sollecitati ad esprimere ad alta voce la percezione più urgente,
e cioè il problema che vi assilla. A tale scopo, distendetevi il più comodamente possibile sul divano,
nell’ambiente oscurato, e cercate di “essere con voi” a occhi chiusi.
Abbandonatevi al vostro sistema globale. Di tutto ciò che è immagazzinato in voi emerge
a livello percettivo solo quanto siete in grado di sopportare. Non appena questo limite è varcato,
i meccanismi funzionali del vostro stesso organismo intervengono (fermandovi, a scopo protettivo).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
2° PASSO. Emozioni.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nel corso del secondo passo terapeutico esprimo i sentimenti ed emozioni,
oltre che i loro significati ed effetti:

ciò che un qualcosa,
•
•
•
•
•
comporta per me,
suscita in me,
provoca,
lascia tracce,
significa...
Nel secondo passo terapeutico riferite spontaneamente sensazioni ed emozioni
che sono scaturite da questa percezione. Ne descrivete gli effetti e il significato.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
824
3° PASSO. Comprensione/Coinvolgimento.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nel corso del terzo passo terapeutico metto in discussione la situazione, lo scenario
e le persone che vi partecipano (me compreso). Pretendo spiegazioni (e mi spiego io)
e motivazioni. Chiedo:

perché fai questo,
•
•
•
•
•
in vista di che cosa,
a che scopo,
per quale ragione,
come mai,
in funzione di che cosa...
e in che cosa ho,
•
•
•
•
sbagliato,
non capito.
omesso,
commesso...
Nel terzo passo terapeutico cercate le cause del vostro problema, mettete in discussione
la situazione e le persone coinvolte, voi stesso compreso.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
4° PASSO. Esigenza (l’autentico bisogno).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Nel corso del quarto passo terapeutico formulo le mie esigenze:

Non ho bisogno di questo...
Ho bisogno di questo... per vivere.
Nel quarto passo terapeutico formulerete, sempre nel quadro della stessa situazione,
i bisogni e le esigenze: una fondata e legittima pretesa di ciò che sarebbe occorso per evitare
il danno e aiutare la vita”. (Pagg. 70-72 e segg.).
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
“OSSERVAZIONI SUL TERZO PASSO TERAPEUTICO.
Mettere qualcuno in discussione significa mettere in discussione le sue azioni e il suo operato
nei miei confronti. L’operato e le conseguenze che scaturiscono dal comportamento
delle persone di riferimento devono essere giudicati.
Le domande che pongo devono anche esplorare i motivi delle azioni di lui/lei e il loro modo
di comportarsi; e questo sempre con riferimento a me stesso.
Esempio:
• “Perché fai questo?”.
• “Ti ho dato motivo per farlo?”.
Chiarimenti relativi ai retroscena biografici del comportamento della persona di riferimento
(quali motivi - che non hanno nulla a che fare con me - la inducono a comportarsi nei miei confronti
in maniera non adeguata) possono essere forse necessari per tranquillizzare colui che pone
le domande. Il tal modo egli può comprendere i problemi della persona di riferimento.
Spiegazioni dell’altrui comportamento sbagliato sono tuttavia di scarso aiuto per la ricerca
della propria verità. La propria verità o è un dono di natura - nel senso che l’integrità primaria
è protetta dai genitori - oppure occorre scavare faticosamente per trovarla”. (Pag. 73).
825
“Si potrebbe supporre, fatto il terzo passo, di avere raggiunto un sufficiente incremento
di consapevolezza, e quindi il compimento delle terapia. Questo non è esatto, poiché soltanto
il quarto passo (di cui i precedenti tre costituiscono la premessa), può dissolvere quanto
vi è di inconscio in un evento. A che serve, per esempio, accontentarsi della constatazione
“i miei genitori erano così e così”, se poi questo “così e così” non può mai essere chiaramente
compreso in tutte le sue conseguenze, perché nel terzo passo i genitori non sono o sono solo
insufficientemente messi in discussione, e non si dice mai chiaramente ai genitori - nella terapia come questi genitori avrebbero dovuto essere rispetto a come sono effettivamente stati.
Con la semplice constatazione “erano così e così” non si può comprendere l’intera verità,
e nemmeno ciò di cui il bambino avrebbe avuto bisogno: per arrivarci bisogna fare il quarto passo.
La causa profonda della inconsapevolezza, delle rimozione, è questa: i propri moti vitali, i bisogni
e le sollecitazioni che sono essenziali per organizzare la propria esistenza, sono stati limitati, puniti,
stravolti. E queste sono state intromissioni minacciose per la vita.
La conseguenza che questa persona relega i suoi bisogni in uno stato più o meno inconscio.
E vive in modo corrispondentemente inconscio. Anche il dovere frenare emozioni reattive verso coloro
che causano il suo disagio, i quali continuerebbero altrimenti a minacciarli o punirlo, è a sua volta
causa di inconsapevolezza. Al bambino, a suo tempo, è stato impedito di capire chi erano coloro
che causavano il suo disagio. Non doveva accorgersi di quello che accadeva; gli risulta ancora oggi
doloroso, ed è per questo che elementi essenziali della sua storia rimangono inconsci.
Terapia Primaria, secondo la mia concezione, significa dissolvere l’inconsapevolezza che è insorta
attraverso la lesione dell’integrità primaria:
• Con il passo quattro, perché è stato leso il bisogno;
• Con il passo tre, perché questo è avvenuto contro natura, ignorando il fatto
che il bambino aveva ancora necessità di un utero sociale;
• Con il passo due, perché la lesione ha causato rabbia, ira ed altro ancora; la lesione
e le sue conseguenze ci tengono prigionieri, perché non riusciamo a comprendere che cosa
è avveduto allora;
• Con il passo uno, perché nella posizione finale (vedi lo schema del circuito di regolazione)
dominano confusione, disagio e mancanza di chiarezza, i quali impediscono all’interessato
di orientarsi in una nuova situazione o in un nuovo incontro e di comportarsi in modo coerente
alle esigenze di vita. Il successo può dirsi conseguito non appena scompaiono i sintomi.
La fase principale della terapia comincia con l’esposizione descrittiva dello stato
in cui si trova l’individuo”. (Pagg. 70-71).
Ed ora, dopo questo elenco che in apparenza è così schematico e arido, vediamone l’applicazione
attraverso i due esempi di sedute che J. K. Stettbacher presenta.
Gli esempi sono riportati esattamente come indicati nel testo. Semplicemente eliminando l’indicazione
“1° passo”, 2° passo”, 3° passo”, “4° passo”, essi si trasformano in due fluidi racconti,
esattamente come sono le sedute fatte da chi è già pratico del metodo. Nella forma riportata,
il passaggio da un passo all’altro è indicata da un semplice trattino all’inizio del passo successivo.
PRIMO CASO.
Per esempio:
“... Ho dormito molto male. Mi sveglio sempre alle tre, anche quando mi sono addormentato solo
poco prima. E sto li disteso, sveglio, per una o due ore, benché la sera prima fossi molto stanco...”.
“Le articolazioni mi facevano male come se fossi finito sotto un rullo compressore. Ero furioso e avevo
paura che “quella cosa” ricominciasse. È un problema che ho avuto spesso. Nessuno è stato finora
in grado di aiutarmi, e nemmeno con i sonniferi va meglio...”. “E dire che non ho praticato dello sport
né ieri, né l’altro ieri, né mi sono affaticato in altro modo. Non ho bevuto caffè, eppure...”.
A questo punto è possibile che il terapeuta faccia osservare che certi eventi passati di notevole
importanza possono fungere duraturamente da “sveglia” in certe precise ore del giorno o della notte.
“... Un paio danni fa, tornando a casa in macchina, ho superato un passo di montagna mentre
nevicava. È accaduto dopo le nozze di mio fratello. In albergo non c’era abbastanza posto, e così
alcuni degli invitati alla festa hanno dovuto trascorrere la notte altrove. Poiché conoscevo bene
la strada, ho deciso di rientrare a casa superando il passo. Era notte fonda.
826
Era giugno, eppure all’altezza valico c’era un po’ di neve. Durante la discesa verso valle sono finito
in una tormenta. I fiocchi bianchi mi ostacolavano parecchio la visuale. Poiché avevo anche
dei passeggeri a bordo, ero preoccupato, ma non ho trovato il coraggio di fermarmi, né di ammettere
di avere paura. Inoltre dovevo fare un grande sforzo per restare sveglio. Ricorrendo a tutte le mie
forze, alle tra di notte, ho dovuto riportare a valle sani e salvi quelli che si erano affidati a me.
È possibile che sia questo episodio a fungere da sveglia?”.
“Ora mi viene in mente: io sono nato alle 3 di notte. Non ci avevo ancora pensato”.
“... A sentire mia madre, alla quale l’ho chiesto di recente, è stato un parto del tutto normale.
Le sono venute le prime doglie e poi, alle 3 del mattino sono venuto al mondo, in modo del tutto
naturale. Mia madre si è recata in taxi all’ospedale, di pomeriggio, verso le 15. Lei sostiene che
le hanno somministrato del gas esilarante, e che io ero un po’ congestionato, ma dopo un paio
di robusti sculaccioni mi sono messo a strillare a gran voce. Mia madre mi ha tenuto in braccio
la prima volta già alle 7 di quello stesso mattino, ma purtroppo non ha potuto allattarmi perché avevo
un violento singhiozzo. Mi hanno dato delle medicine che, dopo qualche tempo, mi hanno reso
più tranquillo e così lei ha potuto allattarmi. Però purtroppo l’ha potuto fare per una settimana
soltanto, perché poi ha avuto una infiammazione al seno. Dopo quel momento sono stato allattato
artificialmente e l’ho tollerato bene”. “... Ma è orribile, io non mi rendevo conto di quanto fosse stata
complicata la mia nascita e che continui anche ora, quotidianamente, ad agire sul mio subconscio.
Mamma, com’è potuto succedere? Tu come hai vissuto quel momento? Non c’era nessuno
ad assisterti e a dirti quel che contava davvero? Perché ti sei sottomessa così supinamente,
abbandonandoti alla volontà degli ostetrici, ignara di quello che si dovrebbe sapere, del momento
giusto per tagliare il cordone ombelicale? Come mai non sapevi nulla di tutto questo?
La donna è tenuta ad avere le idee chiare sulla gravidanza e sul parto. Papà era medico,
era sicuramente in grado di spiegarti tutto: o non l’ha fatto? Dove era lui mentre io nascevo?
Stava svolgendo il servizio militare, ha avuto una licenza solo il giorno dopo: e come mai?
Avrebbe sicuramente potuto ottenere una licenza prima se si fosse dato da fare.
Probabilmente il parto gli risultava sgradevole, esattamente come io stesso gli sono poi quasi sempre
stato sgradito. Papà ti ha lasciata sola perché, contrariamente a te, non voleva avere un figlio?
È incredibile, mio padre è medico e io sono stato quasi sul punto di morire durante il parto perché
lui si è rifiutato di assisterti. Non riesco a concepirlo, mi è quasi insopportabile...”. (Pagg. 75-76)
“... Sarebbe stato indispensabile parlare chiaramente prima di arrivare alla gravidanza.
Non è giusto, mamma, che tu voglia avere un figlio contro la volontà di papà. A quel tempo
eri certamente in grado anche di capire quanto è ostinato nelle sue scelte. Tu invece hai voluto avere
un figlio: per te, ma a spese mie. Papà non ti è stato d’aiuto nemmeno in seguito, quando
ti sei ammalata. E tu, quando stavi male, non eri nella condizione di poter soddisfare le mie esigenze.
Avevo bisogno di una madre capace di dedizione totale, sana, serena e raggiante. E invece ricordo
ancora bene la tua espressione intrisa. Ho sempre provato una pena profonda per te senza sapere
che cosa avevo fatto di sbagliato e come potevo rimediare, e dire che avresti dovuto essere
a mia completa disposizione, perché senza il tuo aiuto non posso vivere...”. (Pag. 77).
SECONDO CASO.
Ruth descrive la situazione come segue:
“Ieri mi sono sentita incredibilmente sconvolta dalla presenza d’un collega nel mio ufficio.
Robert ha occhi grigio-azzurri, ciglia e sopracciglia nere, non so che cosa c’è nel tuo modo d’essere
che mi disorienta tanto. Ma è un disorientamento che avviene sicuramente per causa tua.
Quando tu ci sei, tutto il resto non conta più niente. Compio ogni movimento come sotto esame,
mi sento osservata e confusa”. “Mi sento continuamente costretta a piacerti.
E questo non riuscir più a pensare e ad agire liberamente mi rende così insicura. Sono costantemente
presa dall’ansia di capire che cosa pensi di me. Questo bisogno - tu mi devi “approvare”,
devi riservare a me le tue attenzioni, volermi bene - blocca in me ogni altra cosa. Aspetto
ininterrottamente un tuo segno che mi mostri quant’è grande l’interesse che hai per me.
Quanto più devo attendere, tanto più divento insicura. Non ho più la mente serena e mi comporto
in modo innaturale. Quando mi sei accanto, vorrei potermi stringere a te, guardare i tuoi begli occhi,
così scuri, profondi e tranquilli, per provar pace presso di te”. (Pag. 79).
“Che cosa mi impedisce di esternare la simpatia che provo per te? Non c’è niente di male in questo
bisogno di vicinanza e tenerezza. Come mai la tua presenza mi rende tanto insicura?
827
Non so più come comportarmi e ci perdo quasi la testa. Credo che dipenda dall’esistenza
della tua ragazza. Tu hai già qualcuno che ti appartiene. Non riesco quasi a sopportare la paura
di espormi al ridicolo e di essere respinta. Tu stai bene, hai qualcuno a cui appartieni,
non hai quest’assoluta esigenza che ho io, di essere abbracciata, tenuta in considerazione, amata.
Per me sarebbe molto doloroso se dovessi constatare che ti diverti alle mie spalle, che mi deridi
perché cerco la tua vicinanza. Mi sento sempre di più come una bambina di fronte a te, e mi
comporto anche come una bambina. Dico cose senza rifletterci, di cui dopo devo vergognarmi.
Scuoti la testa. Che cosa ti succede? Sei tu papa? È possibile che la piccola bambina che è in me
continui a sentire la tua mancanza? È possibile che sussista tutt’ora il mio desiderio inappagato d’un
padre al quale potermi stringere? Che io sia ancora la bambina che desidera ansiosamente la tua
vicinanza, la sicurezza, la serenità e la tranquillità; tutte cose che non mi hai dato? È possibile che io
abbia perso la mia sicurezza perché ho avuto sempre la sensazione di non poterti stare vicina, perché
tu non lo volevi? Perché tu non volevi me? Mi sono sempre sforzata di piacerti, ma senza successo,
proprio come avviene ora con Robert. Ho sempre avuto l’impressione che tutti i miei sforzi ti fossero
fastidiosi. Non hai mai incoraggiato, per dire corrisposto, l’interesse che avevo per te. È questa
mancanza d’una conferma da parte tua, di volermi bene per quella che sono, che mi rende insicura”.
“Ho bisogno che tu me lo dica, che tu me lo faccia sentire, che tu mi trovi intelligente,spigliata e
carina, che sia fiero di questa tua figlia viva, un insegnante, papà, mi ha detto un giorno: “Le ragazze
con sui si è gentili diventano carine”, sento moltissimo la mancanza di un papà al quale voler
bene, cui mi possa avvicinare, che mi accarezzi, al quale possa stringermi, con cui scherzare.
(E a questo punto comincio addirittura a star male, sento una strana tensione alle spalle)”. (Pag. 80).
L’interazione, dal primo al quarto passo, ricomincia da capo:
“Papà, mi sei mancato, ma non mi era nemmeno consentito di sentire quanto avevo bisogno di te.
Più tardi ho avvertito l’abisso che c’era fra di noi, una specie d’imbarazzo da parte tua quando
capitava eccezionalmente che parlassimo insieme. Ma non sono mai riuscita a capire il perché.
Dopo una conversazione che abbiamo avuto, un giorno che eravamo in montagna,
ho avuto la sensazione d’esserti più vicina. Tu ti sei però subito ritratto, come spaurito o intimidito.
Allora avevo circa dodici anni ed ero letteralmente travolta dalla smania di volerti conoscere, di poterti
mostrare quanto apparteniamo intimamente l’uno all’altra. Ma, per tutta la vita, non mi hai mai dato
l’occasione di esserti autenticamente vicina. Non sono mai stata messa nella condizione d’imparare
a dialogare apertamente con te, di essere sincera nei tuoi confronti, di poterti confidare
i miei sentimenti, le paure e le preoccupazioni. Se per caso m’accingevo a farlo, in te sorgeva sempre
uno strano stato d’animo. Diventavi impacciato, imbarazzato e ti sei sempre ritratto: mai che io abbia
potuto mostrarti i miei sentimenti. Vuoi che mi ammali per farti vedere e capire quanto ho bisogno
di te, quanto è disperata e senza vie d’uscita la mia situazione?
Perché reagisci in questo modo con me? Se ti considero ora, in svariate situazioni, l’immagine che di te
mi si prospetta è sempre la stessa. Sei stranamente imbarazzato, come se tu avessi paura di me.
Eppure non ti ho mai aggredito, anzi. Aspetto sempre un tuo segno l’interesse per poterti mostrare
la mia simpatia devono essere state difficoltà emotive tue quelle che t’hanno impedito di essermi
vicino. Papà, io non ti faccio nulla di male, non sto cercando di sedurti sessualmente.
È di questo che hai paura? Questa potrebbe essere una spiegazione: è possibile che sia
la tua sessualità a renderti insicuro, e che tu ti ritragga proprio per questo. Ma io che c’entro
in tutto questo, papà? Le tue difficoltà rendono insicura me: perché ti senti fisicamente attratto
da me? È davvero questa bambina che vorrebbe volerti bene che ti sconvolge così profondamente,
al punto da doverla allontanare da te per proteggere te stesso? Questo è terribile.
Io, tua figlia, non riesco capirlo. Accanto a te devo pur potermi sentire perfettamente a mio agio.
Mi si deve poter far capire che sono buona, retta, degna d’affetto, e che non intimorisco l’uomo
che mi sta accanto. Da un certo preciso momento in poi, a tavola, mi sono sentita sempre
più a disagio: è cominciato allora, quando il seno mi si è fatto più pronunciato.
Tu, papà, mi guardavi sempre imbarazzato, e volevi prescrivermi come vestire perché, a sentir te,
si poteva vedere “tutto”. Recentemente, ogni tanto, qualcuno mi ha detto che ho dei begli occhi;
ma ho sempre pensato che fossero frasi fatte. Ieri soltanto, dopo essermelo sentito ripetere ancora
una volta, mi sono guardata allo specchio e mi son detta che i miei occhi, dopo tutto, non sono male.
Lorenzo, il parrucchiere, dice sempre che c’è qualcosa di profondo nei miei occhi, che vien voglia
di tuffarcisi dentro, solo da poco riesco ad ammettere con me stessa di non essere del tutto
inguaribile. Oggi che avverto anch’io delle esigenze sessuali, mi turba la sensazione di non essere
desiderabile, di non irradiare desiderio. Questa, papà, è certo anche una conseguenza del fatto
828
di non avertelo mai sentito dire, di non averne mai avuta la sensazione da parte tua: non mi hai mai
detto che sono amabile. L’approvazione che mi hai negato, che mi si può desiderare e voler bene
per come sono, mi ostacola oggi ancora. Ho bisogno di una conferma da parte tua, papà.
Voglio e devo sentirlo dire da te papà, perché ti voglio bene. Solo allora sarò sicura e serena
nella considerazione di me stessa. Non mi bastano i tuoi soddisfatti cenni d’approvazione di fronte
a una bella pagella. Ho bisogno di sentirmelo dire, di provarlo: mi si vuol bene.
Deciditi ad aprire la bocca, papà. Dimmi qualcosa di gentile, di carino, perché io possa acquistare
un po’ di sicurezza, perché non disperi più di me stessa. A ben considerare dovrei disperare di te,
di quel modo ritroso che hai di comportarti in me. Ma sono una bambina e non sono in grado di farlo.
Come bambina sono invece convinta che ci siano molte cose che non vanno in me, anzi quasi tutto.
E mamma, con quel suo continuo brontolare, rafforza la mia insicurezza: non sa far altro
che criticarmi. Per questo, papà, ho un assoluto bisogno di riconoscimento da parte tua”.
Passo dopo passo, avanti e indietro.
L’importante è compiere sempre tutti e quattro i passi. Il resoconto potrebbe proseguite così:
“Perché non siete stati capaci di darmi fin dall’inizio l’indispensabile sicurezza? È proprio necessario
che io passi tutta la vita dubitando di me? Che io sia sempre turbata senza riuscire a capire il perché,
costretta a correr dietro al prossimo, a sforzarmi in mille maniere, a “recitare” per piacergli?
E poi, nonostante questo, non riuscire ugualmente a capacitarmi che qualcuno mi trovi piacevole
solo perché voi i miei genitori, non me lo avete mai detto, non me lo avete mai fatto provare?
Nessuno, eccetto voi, ha l’obbligo di aiutarmi. Siete voi che dovete incoraggiarmi perché io possa
trar piacere da me stessa e dal mondo. Voi avete voluto mettermi al mondo, io son dovuta venirci.
Io sono la prosecuzione della vostra vita. Ma questo lo posso fare solo dopo che voi mi avrete
dimostrato di esistere per me. Se avessi avuto una sola volta delle conferme da voi, ora non sarei
così insicura e nello stesso tempo così vincolata al giudizio degli estranei.
Date queste premesse, non solo mi risulta difficile vivere, ma spendo tutte le forze di cui dispongo
alla ricerca di inutili riconoscimenti anziché per l’ulteriore evoluzione della mia personalità.
Voi non sapevate assolutamente che cosa significa mettere al mondo un figlio. Sembra quasi che fosse
un evento che non vi riguardava. Per quel poco che vi conosco, direste semmai che esisto perché così
ha voluto Dio. Mezzo mondo si nasconde dietro simili scuse. Ogni responsabile, eppure per me
è pressoché inevitabile affermarlo: in realtà voi non avete mai voluto avere autenticamente a che fare
con me. Certo, vi ero utile come serva o per essere esibita. Sembra che voi non abbiate mai avuto
la benché minima idea di ciò di cui avevo bisogno, di cui io - lattante, bambina, adolescente ho bisogno per crescere e diventare una donna forte, con i piedi ben piantati per terra, in grado
di difendermi, di sapere che e che cosa sono. Sono tutt’ora più usata che amata e rispettata da tanta
gente; perfino il mio compagno si comporta così con me, senza che me ne renda ben conto perché
sono abituata a questa condizione. Nella mia ingenuità scambio l’abuso che si fa di me per interesse
nei miei confronti. Il mio stato di dipendenza s’accentua addirittura, e perfino quando quest’abuso
cessa ho la sensazione che ci sia qualcosa che non va in me”. “Anche ora che constato tutto questo
per la prima volta, mi rimane inconcepibile; e mi incute paura il potere che esercitate sulla mia vita
senza che io possa sottrarmici. A volte mi stupisco io stessa di riuscire, nonostante tutto, ad avere
dei rapporti con degli uomini. E questo lo debbo sicuramente a te, Hansli, fratellino mio.
Ecco, lì posso dire di essere stata davvero a “casa mia”: a letto con Hansli. Fino all’età di 9 anni
abbiano dormito nella stessa stanza. Potevo infilarmi nel letto di Hansli, lui di accarezzava le spalle,
mi consolava. Non sono più stata sicura e felice come con lui. Se ci ripenso mi viene da piangere.
Hansli non sono mai stata così bene come con te, tranquilla e serena. Con voi, mamma e papà,
non ho mai avvertito questa sensazione. Per questo ero sempre così gelosa di tutte le ragazze
che ti sorridevano, Hansli. Dopo che sei morto, tutti quanti hanno parlato di te con rispetto.
Eri migliore degli altri, saresti dovuto diventare sacerdote, purtroppo sei stato travolto e ucciso
da una macchina mentre andavi in chiesa, a servir messa”. “Chissà quale angoscia ti tormentava,
tanto da impedirti di stare più attento? Ai miei occhi sei rimasto il ribelle con cui intraprendevo
dei viaggi: in sogno. Avrei potuto rifugiarmi da te in ogni momento, confidarmi con te.
Ma non ci sei più. È possibile che la paura di perderti continui a svolgere un ruolo nei rapporti
che ho con gli uomini? Ma certo: ora che ci penso, molte cose mi appaiono più chiare.
Eri di tre anni più anziano di me. Con ogni uomo mi sento come fossi una sorella. Quando un uomo
mi piace, sono presa da malinconia, una malinconia che finora non avevo capito. Dentro di me
continuo a essere la tua sorellina, Hansli, la sorellina che ti cerca ovunque senza trovarti, ho dovuto
scappare letteralmente di casa per andare a cercarti, eppure non sono ancora riuscita a trovarti.
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Ho subito continue delusioni, perché non sono riuscita a trovare il sostegno che tu mi davi da
bambina”. “Quante umiliazioni, quanti dolori e quante sofferenze avrei evitato se voi, genitori idioti,
mi aveste trasmesso qual che mi occorre assolutamente per vivere: il senso di valere qualcosa che mi
avrebbe consentito di essere buona con me, buona come lo è stato Hansli...”. (Pagg. 81-82-83-84).
NOTA DI QUATTRO.
Questa breve annotazione, è un avviso che ogni utente non deve mai dimenticare, durante tutto
il suo lavoro di auto-aiuto, nell’impostazione dei contatti, soprattutto con i familiari ma anche
con amici e conoscenti. Ripetiamo: non se ne dimentichi mai, durante tutto il periodo
in cui applica la metodica di auto-aiuto. In più di 10 anni di lavoro con questo metodo,
QUATTRO si è sentito dai suoi clienti raccontare troppo volte delusioni, amarezze e talora vere
e proprie tragedie come conseguenze dell’imprudenza di avere chiesto notizie sulla propria infanzia
ai genitori, o addirittura essersi illusi di potere discutere democraticamente su fatti del passato
con il proprio padre o la propria madre. L’avere, con estrema cura, raccomandato ai cliente fin dall’inizio - di non cadere in questa illusione, non ha diminuito il dispiacere di QUATTRO
nell’udire tali tristi racconti. Per questo motivo ora presenterà anche agli utenti del sito
le raccomandazioni di J. K. Stettbacher con particolare cura.
NOTA BENE.
“Quando “fate terapia” isolatevi in un ambiente appartato, da soli se è possibile,
muniti di un registratore. Non organizzate mai “giochi terapeutici” con amici o congiunti.
La supposta disponibilità a comprendere raggiunge, dopo poco, inaspettatamente
i suoi limiti. Un confronto diretto, non mediato, con genitori e congiunti, a proposito
del vostro passato, risulta infruttuoso, a meno che le persone interessate non lo desiderino
espressamente. Considerate tuttavia, prima e attentamente, fino a che punto un simile
confronto possa avere senso. Questo può avvenire solo con persone che sappiano che cosa
significa il confronto e a che cosa mira, e cioè a un personale, positivo cambiamento.
La vostra terapia è un affare esclusivamente privato, non è il caso di sciorinarla in pubblico.
Rivolgere rimproveri a genitori ed educatori implica dei pericoli. Fatelo soltanto in ambienti
riservati e protetti. I confronti improvvisati difettano d’intenzioni costruttive e hanno
conseguenze spiacevoli. Se tuttavia non riuscite ugualmente a sottrarvi a una lite, sappiate
che la responsabilità è vostra e che vi esponete a dei danni che sarebbero evitabili”. (Pag. 78).
LA TERAPIA DI GRUPPO.
Non è applicabile al metodo di auto-aiuto.
E, per finire, alcune osservazioni psicologiche importanti, anche se la loro forma è semplice.
Esse esprimono due punti di vista diversi sul processo della trasformazione terapeutica,
visto dal punto di vista di chi lo riceve e di chi lo induce.
UN PAZIENTE SCRIVE.
“La terapia aiuta a comprendere le privazioni e le sovrasollecitazioni patite, inducendomi a esprimere
il disagio e a chiedere spiegazioni a coloro che lo hanno provocato: perché certe cose mi sono state
sottratte o imposte? Sono libero di manifestare paura e dolore, rabbia e indignazione, di constatare
i maltrattamenti subiti e di analizzarli: tutte cose che da bambino, per paura dei genitori,
non ho mai potuto fare, al punto da dimenticarmene. Infatti in seguito no ho più potuto chiedere
per capire perché sono quello che sono. I miei genitori mi rifiutavano e mi ignoravano, e questa
condizione si è talmente insinuata in me da non consentirmi più di capire e da essere tormentato
da quotidiane, insopportabili sensazioni, a dar retta a queste sensazioni, ero sempre di ostacolo
a qualcuno: superfluo, inutile, insufficiente e soprattutto malvagio e colpevole. Gli sforzi che facevo
per reprimere o per evitare queste sensazioni erano debilitanti. A volte avvertivo l’impulso irrefrenabile
a uccidermi, ad “abortirmi” finalmente: a compiere ciò che i miei genitori non avevano osato fare
benché intimamente lo volessero. La sensazione continua di essere “superfluo” e di essere
“colpevole” ha tolto qualsiasi significato alla mia esistenza. Dovevo sforzarmi, giorno dopo giorno,
per dimostrare a me stesso di esistere per “qualcosa”. Ho continuato a rifare sempre la stessa
830
esperienza: non valevo abbastanza da poter essere veramente amato. Ogni disponibilità da parte mia,
ogni implorazione, preghiere, ogni sforzo, ogni impegno erano insufficienti per pervenire
alla sensazione di valere qualcosa e di essere amato. Nel corso della terapia posso gradualmente
comprendere le conseguenze del potere esercitato dai miei genitori sulla mia infanzia e sulla mia
adolescenza. E mi accorgo che, a questo punto, soltanto io posso aiutare me stesso, devo poter
cogliere e ripercorrere emotivamente, senza omettere nulla, tutte le circostanze ostili alla vita che
hanno connotato la mia infanzia. Nulla mi è risparmiato, devo sentire come mi faceva male allora
e come mi fa male adesso quando qualcuno o qualcosa me lo rammenta. Attraverso la terapia mi
libero, con il tempo, della costrizione a identificare emotivamente i miei genitori in altre persone.
Ho dovuto continuamente cercare in altre persone i miei genitori, perché essi mi sono mancati.
E dovevo rimuovere la relativa sofferenza per non doverla provare. Il terapeuta m’insegna come posso
diventare l’“avvocato del bambino” che è in me, e continua ad assistermi in questo impegno.
Ora so esprimere sempre meglio i miei sentimenti, gridare la mia protesta se è necessario, sciogliere
la tristezza in lacrime, tradurre in parole la rabbia che mi assilla. Oggi riesco a stabilire sempre meglio
una connessione fra i disagi e le difficoltà che mi tormentano e le cause che li provocano.
Passo dopo passo mi sottraggo ai condizionamenti e alle costrizioni negative e infine saprò - ora
l’intuisco inequivocabilmente - liberarmi da irreali incrostazioni. Colgo già i primi segni
di un rasserenante cambiamento nella mia esistenza. Da qualche tempo riesco a guardare in faccia
la gente e a parlare con loro senza paura. Astenermi dal fumo e dall’alcool non mi costa più fatica
e ho di nuovo imparato a sorridere”. (Pag. 91).
IL TERAPEUTA SCRIVE.
“Caro paziente primario,
mi consenta di formulare ancora alcune considerazioni sulla terapia, che forse possono aiutarla
a raggiungere l’obiettivo. Quest’obiettivo terapeutico si può riassumere - semplificando molto - in una
frase: vogliamo diventare come siamo per vivere come ci piace. Ma è più semplice dirlo che
farlo. Diventare come siamo? Ma siamo già quel che siamo. Si, certo, però non riusciamo più a sapere
e a sentire molto di noi. Abbiamo da tempo “dimenticato” il bambino infuriato, stizzito, disperato
e sofferente che è in noi, completamente esposto - nel bene e nel male - all’arbitrio degli adulti.
Rifiutiamo tutto ciò che del passato ci opprime e ci angoscia, non ne vogliamo più sapere
e opponiamo ogni possibile resistenza. Il presente ci dà già abbastanza da fare e dobbiamo adeguarci
alla vita d’ogni giorno. Siamo costretti a sottovalutare il potere del passato e ci arrabattiamo
come meglio possiamo. Ora lei si è deciso a scoprire, passo dopo passo, il suo passato. Vuole sapere e saprà - quali eventi e quali persone hanno causato le sue sofferenze fisiche e psichiche.
E può riuscire a liberarsi da “quelle cose”. Ciò che l’ostacola è una convinzione assai diffusa,
che afferma: “I miei genitori, la generazione dei miei genitori, era fatta di brava gente, onesta
e animata da buone intenzioni. Non è possibile che le mie sofferenze siano state causate da
loro”. Può darsi che questa convinzione sia esatta, almeno in parte. Ma questo non modifica
minimamente il dato di fatto oggettivo costituito dalle sofferenze e dalle limitazioni che
le impediscono di vivere come vorrebbe. Secondo il mio concetto, una completa potenzialità di vita
è raggiungibile solo se l’individuo primariamente integro è trattato in modo tale da non travolgere
in lui la consapevolezza di ciò di cui ha realmente bisogno. Con una capacità sensoriale ed emotiva
integra, egli saprà sempre ciò di cui una persona ha bisogno poter essere e rimanere sana. Questo
significa anche: la generazione più anziana non aveva ancora capito, nel suo complesso, ciò di cui
l’individuo necessita per essere sano. I genitori non sapevano quello di cui un bambino ha bisogno,
e quindi i suoi bisogni non potevano essere sufficientemente soddisfatti. E questo difetto ha causato
le sue sofferenze. Ora lei si accinge a scoprire e a dissolvere le lesioni e la sensazione d’impotenza
patiti dal bambino. Consideri che si tratta di un’impresa complessa che richiederà molto tempo.
Non dovrà più mirare a reprimere le sofferenze, bensì ad affrontare e a dissolvere le cause delle
sofferenze. L’obiettivo non è quello di rendere paure e sofferenze tollerabili e sopportabili. Imparerà
invece, nel corso della terapia, come occorre comportarsi in presenza di paure e di sofferenze, al fine
di dissolverle col tempo. Quali cambiamenti può aspettarsi? I suoi bisogni naturali diverranno di nuovo
percettibili. Cercherà di soddisfarli senza dover più ricorrere a surrogati di bisogno. Gli inadeguati
atteggiamenti di difesa cadranno, non soffrirà più in quanto schiavo di un qualche fantasma.
Organizzerà la sua vita in modo corrispondente alle sue possibilità e in funzione del suo benessere.
Le auguro tanta fortuna e costanza per arrivare al successo, ma anche tempo per tirare il fiato.
Il processo di risanamento a bisogno - come ogni evoluzione naturale - del suo tempo.
J. Konrad Stettbacher”. (Pagg. 92-93).
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I GUARDIANI DELLA VITA.
“Sensazioni ed emozioni non sono poi così importanti, vanno e vengono, la miglior cosa
da fare è dimenticarle subito.” Chi la pensi così è un uomo del nostro tempo: di un’epoca
cioè che esprime massimo rispetto quando si trova di fronte a una mente brillante e all’intelligenza
viva, onorandole in molti modi. Intanto però ci si dimentica che sono le sensazioni e le emozioni
che orientano e guidano da milioni di anni l’essere umano, mentre la ragione - dal punto di vista
dell’evoluzione, della storia della terra cioè - ha assunto solo da poco tempo tanta importanza.
Noi non possiamo vivere, oggi come in passato, senza sensazioni ed emozioni.
Esse rimangono a tutt’oggi le sentinelle del nostro essere, del nostro vivere.
Quindi sono il patrimonio più prezioso di cui l’uomo dispone.
Queste due “istanze” ci sorvegliano e ci influenzano ininterrottamente, anche nel sonno,
se diamo loro retta, ci orientano su tutto quello che conta nella vita: sul passato, sul presente
e sul futuro, su ciò che ci è utile e su ciò che ci danneggia. È importante dare retta a questi
“guardiani della vita”, conservare e coltivare per loro la nostra attenzione, la nostra aperta
sensibilità. Agli inizi della nostra esistenza i “guardiani della vita”, le sensazione e le emozioni,
sono ancora forti e vigili. Dobbiamo quindi preoccuparci di mantenerli così come ci servono.
Dobbiamo quindi badare affinché i “guardiani” non siano sminuiti e anestetizzati, resi ottusi, sordi,
ubriachi e svigoriti. Non dobbiamo fuorviare i bambini a non dar più retta ai “loro guardiano”,
che la natura ha plasmato nell’arco di milioni di anni.
Divenire consapevoli e restare consapevoli significa dar retta, rispettare e farsi guidare dalle sensazioni
e dalle emozioni ricuperare modestia nei confronti della natura, rispettarla e imparare a preservare
l’aiuto che ci offre. Ogni bambino alberga originariamente in sé i “guardiani che hanno
competenza” sulla sua vita. Occorre che i genitori e la società li mantengano sani, affinché possano
sostenere premurosamente l’individuo per tutta l’esistenza. In altre parole: il bambino ha bisogno
di amore. Amore non è una cosa. Amore è vivere, è essere fisicamente.
Amore è attiva sollecitudine per la vita. L’amore è appagato mediante il soddisfacimento
dei bisogni vitali. La vita crea bisogni. Appagare i bisogni altrui e vedere appagati i propri è amore
che preserva la vita. Il bambino vuole soltanto essere amato”. (Pagg. 115-116).
COME SEI NATO.
In queste pagine J. K. Stettbacher fa alcune considerazioni generali che sicuramente interessano
l’utente del sito. QUATTRO ritiene che due punti meritino di essere particolarmente sottolineati.
Li giudica importanti perché essi pongono, per così dire, in equilibrio la bilancia della valutazione
morale dei dolorosi fatti intercorsi tra genitori e i figli.
1. “... Sono debiti che non si possono scontare e ripagare. Sono debiti che ci annienteranno
se non impareremo ad evitare di indebitarci. Sono debiti che nemmeno il creditore potrà riscuotere.
Però il debitore ha una possibilità di liberarsi dei suoi debiti: essa consiste nel riconoscerli,
nell’ammettere la propria ignoranza e nel mostrarsi pentito nei confronti di chi soffre”. (Pag. 97).
2. “... Essere colpevoli non significa necessariamente aver compiuto misfatti criminali.
Colpa è anche e soprattutto un debito non pagato. Il non aver saputo offrire, esaudire, provvedere.
Oggettivamente, nei confronti di un bambino, si può essere soltanto debitori, perché è lui
che è in uno stato di bisogno. Pretendere di imporre aprioristicamente un debito a favore
di qualcuno che è più grande, più forte, più ricco, più esperto, più informato o addirittura
“onnipotente” contraddice ogni logica. Rendersi colpevole può, per principio, solo il potente
nei confronti dell’impotente. Che male può mai fare a suo padre un bambino piccolo,
per adirato che sia? E i genitori non hanno affatto bisogno di una supina ubbidienza da parte
dei loro figli. I bambini imparano in fretta e imiteranno rapidamente a fare le cose giuste,
a patto che gli adulti siano capaci di mostrare loro, con il proprio modo di vivere,
che cosa è giusto”. (Pag. 99).
Il secondo punto definisce con impietoso senso della giustizia in che cosa consista la colpa
dei genitori. Dinanzi alla terribile facilità di non aver saputo svolgere il proprio dovere
(liberamente scelto) di essere padri e madri: “Colpa è anche e soprattutto un debito non pagato:
il non aver saputo offrire, esaudire, provvedere”.
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Ma il primo è ancora più sconvolgente da accettare, per chi è stato vittima innocente e indifesa.
E tuttavia QUATTRO pensa che - per la vittima - proprio nell’accettare questo concetto consista
la liberazione della tragedia di un passato irredimibile (il danno è stato causato, la ferita è stata inferta
- è storia reale - e il dolore che ne è nato ha segnato la vita del soggetto, non potrà essere cancellato
e non vi sarà alcun indennizzo). QUATTRO pensa anche che accettarlo possa affrancare il soggetto,
spezzando il suo legame con la catena dell’odio verso i genitori, altrimenti inevitabile ma per ciò stesso
fonte di una nuova schiavitù, questa volta all’odio. E si tratterebbe di una schiavitù ben più tragica
ed ormai senza speranza di fine, giacché questa volta il soggetto sceglierebbe deliberatamente di
lasciarsi invadere da questo sentimento schiavizzante, l’odio. Questo momento di scelta, di liberazione,
è definito da J. K. Stettbacher come obiettivo di pentimento e di redenzione di chi ha commesso
la colpa. Ma QUATTRO è profondamente convinto che lo stesso principio può indicare alla vittima
la strada per la sua liberazione più profonda e definitiva. Anche la vittima ha una possibilità di liberarsi
dal peso del proprio credito che non potrà mai riscuotere: essa consiste nel riconoscere la propria
antica debolezza, e nell’ammettere la propria trascorsa ignoranza all’epoca della sua infanzia.
Debolezza ed ignoranza inevitabili - certo - allora, ma non per questo meno reali.
Oggi - invece - può (imparare a) non lasciarsi più accusare ingiustamente, né rendere responsabile
di esigenze altrui. E dinanzi ad eventuali esseri umani malvagi e duri di cuore, incapaci di pentimento,
può distanziarsene e lasciarli soli affinché riflettano. E continuare a cercare da solo la verità.
“Come sei nato, così vivrai, se sei stato davvero voluto da padre e madre, allora potrai volere anche tu.
Se sei stato davvero amato da padre e madre, allora potrai amare. Vorrai vivere e trarre soddisfazione
dalla vita. Se sei stato davvero rispettato da padre e madre, rispetterai la vita. Altrettanto insensata
e pericolosa è l’affermazione: “La colpa dell’asma, della tossicodipendenza, e dell’impotenza
è delle madri”. Anche ammesso che la situazione sia davvero questa, simili addebiti sono inutili
finché manca la comprensione. Limitarsi a indicare le madri come le uniche responsabili non sarebbe
altro che un ridar vita al mito di Eva. Nessuna e nessuno si addossa consapevolmente un simile debito.
Sono debiti che non si possono scontare e ripagare. Sono debiti che ci annienteranno se non
impareremo a evitare di indebitarci. Sono debiti che nemmeno il creditore potrà riscuotere.
Però il debitore ha una possibilità di liberarsi dei suoi debiti. Essa consiste nel riconoscerli,
nell’ammettere la propria ignoranza e nel mostrarsi pentito nei confronti di chi ne soffre. Purtroppo
molti genitori insistono nell’affermare la loro infallibilità e respingono ogni loro corresponsabilità
nell’infelicità o nelle malattie dei loro figli, quest’atteggiamento spesso blocca, ostacola o rende
impossibile la terapia, e quindi la rapida, auspicabile guarigione. A ben considerare, il diniego d’un
comportamento colpevole da parte dei genitori e quindi l’inganno in cui permangono i bambini
a proposito degli autentici retroscena del loro comportamento, sono spesso la causa prima della
sofferenza. Con il loro comportamento di rifiuto, i genitori ingenerano nel bambino disorientamento
e senso di colpa. L’ipocrita assicurazione dei genitori, secondo cui il bambino sarebbe stato desiderato
(quando questo invece non è vero), costituisce già di per sé un onere grave che imprigiona il bambino
nella sua supposta condizione di colpa. Ogni padre e ogni madre che abbiano prodotto un danno
a un bambino o si siano comunque resi colpevoli nei suoi confronti, non possono rendere al figlio
un servizio migliore di quello di mostrare di comprendere gli errori commessi, per liberare così il figlio
dai dubbi che lo disorientano. Va però anche detto che ingiustificate ammissioni di colpa non hanno
alcun senso per nessuno. Brutali “confessioni” fatte al bambino - che è stato messo al mondo
per sbaglio, che è nato per un “incidente” o cose simili - sono solo espressioni tipiche del brutale
atteggiamento di base di questo genitore. I genitori non devono essere ingiusti e seccati, nemmeno
quando ritengono che sia il bambino a provocarli. Se lo sono, questo avviene a causa dei loro
condizionamenti interiori o esteriori, ai quali il bambino è estraneo. Genitori che sbagliano hanno
il dovere di scusarsi con il bambino. “Non posso vivere se voi non mi volete e non potete
amarmi”. Questa è l’inevitabile conclusione cui perviene ogni bambino che sia stato generato
controvoglia e che quindi non è stato amato. Per fortuna, di tanto in tanto, capita che un bambino
trovi fuori dallo stretto ambito familiare una persona che gli vuol bene. Non succede spesso: e lo
dimostrano fin troppo chiaramente le condizioni e il disagio di tante persone. Non esistono motivi che non siano dettati da egoismo, da esigenze di sfruttamento e da disprezzo della vita umana - per
mettere consapevolmente al mondo degli esseri umani senza amarli. Tuttavia accade proprio questo,
giorno dopo giorno, migliaia e migliaia di volte, con quotidiano aumento di potenziale distruttivo.
È un quotidiano incremento di esseri umani inclini allo sfacelo, ciecamente e irresponsabilmente messi
al/nel mondo per distruggere se stessi o l’ambiente. L’uomo, che nei tempi primordiali era solo
un timido animale, ha nel frattempo preso il potere sul mondo, ed è quindi diventato l’essere vivente
responsabile di questo pianeta. E ogni singolo individuo deve diventare il più sollecitamente possibile
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cosciente della propria responsabilità, se vogliamo che sia posta fine alla distruzione della vita ancor
prima dell’esaurirsi delle risorse. Per questo la responsabilità nei confronti del mondo comincia
dal singolo individuo. E questi può acquisire il senso della responsabilità solo se è consapevole di se
stesso e del suo ambiente. È un compito che spetta ai genitori. Essi sono nella condizione di potersi
mettere in discussione. Il bambino può arrivarci solo con il tempo, e anche allora solo se è stata
preservata la sua integrità. Individui che non siano stati nessi in grado di acquisire questa
consapevolezza e che quindi abbiano angariato o traumatizzato i loro figli, vivono male con la loro
colpa. Senza un aiuto esterno, faranno di tutto per non doversi accorgere delle tristi conseguenze del
loro comportamento. In una cultura propensa a scaricare in ultima istanza ogni responsabilità su livelli
“superiori”, il diniego della colpa è una regola. Essere colpevoli non significa necessariamente aver
compiuto misfatti criminali. Colpa è anche e soprattutto un debito non pagato: il non aver saputo
offrire, esaudire, procedere. Oggettivamente, nei confronti di un bambino, si può essere solo debitori,
perché è lui che è in uno stato di bisogno. Pretendere di imporre aprioristicamente un debito a favore
di qualcuno che è più grande, più forte, più ricco, più esperto, più informato o addirittura
“onnipotente” contraddice ogni logica. Rendersi colpevole può, per principio, solo il potente nei
confronti dell’impotente. Che male può fare a suo padre un bambino piccolo, per adirato che sia?
E i genitori non hanno affatto bisogno di una supina ubbidienza da parte dei loro figli.
I bambini imparano in fretta e imiteranno rapidamente a fare le cose giuste, a patto che gli adulti
siano capaci di mostrare loro, con il proprio modo di vivere, cosa è giusto”. (Pag. 99).
A queste osservazioni segue un lungo commento di J. K. Stettbacher “sull’evento più eccitante,
quello che lascia le impressioni più profonde nella vita dell’essere umano, la nascita”.
L’Autore afferma che “non esiste altro momento, nell’arco dell’esistenza, che possa provocare
una eccitazione così completa e sconvolgente: è un evento il quale, nella sua funzione
significante, si comparerà ogni evento eccitante del resto della vita”.
Sono più di cinque pagine dense di pathos psicologico, alle quali si possono aggiungere le quasi
due pagine successive, che riguardano il parto cesareo. L’atmosfera che creano attorno al concetto
di importanza fondamentale del momento della nascita, fa inevitabilmente venire in mente
le stupende pagine di Frédérick Leboyer: “Per una nascita senza violenza”.
Tuttavia QUATTRO, sulla base di 40 anni di esperienza psicoterapeutica, si permette umilmente
di dissentire su questa visione nella quale la nascita sembra avere una importanza così fondamentale,
così esclusiva nel generare (ovviamente qualora essa sia stata in qualche modo turbata) problemi
e disturbi al paziente, da rendere quasi irrilevante ogni evento negativo successivo.
L’esperienza clinica ha dimostrato a QUATTRO che non è assolutamente da dimenticare la triste realtà
di una gran parte dei pazienti, nella cui storia il fattore patogeno più grave non è stato assolutamente
il momento della nascita, bensì il presente quotidiano. Per lungo tempo dopo la loro nascita
(spesso per 20, 30 e più anni, talora fino al giorno prima della seduta nella quale raccontano l’ultimo
psicotrauma inferto loro) essi hanno continuato a subire dai loro genitori, divieti, critiche, ricatti, rifiuti.
Lungo gli anni della sua attività professionale QUATTRO è venuto a conoscenza del peso di situazioni
nelle quali, per esempio, un soggetto nato da parto spontaneo ed eutocico, e allattato al seno
dalla madre fino quasi all’anno, è stato traumatizzato dalle ripercussioni di uno spostamento della
famiglia dall’ambiente di una grande città a quello di un paesino di campagna, trasferimento avvenuto
quando il bambino aveva 4 mesi di età e durato quasi un anno intero.
Oppure delle ripercussioni lungo tutto l’arco di una vita di situazioni nelle quali un bambino è stato
fortemente segnato dalle tragiche vicende che durante l’ultimo conflitto mondiale colpirono ampi
gruppi della popolazione civile (fame, bombardamenti, rastrellamenti da parte delle forze militari
occupanti il paese). O infine del dramma di storie di più ordinaria tragedia familiare nelle quali
un soggetto non fu mai accettato per se stesso dai genitori (nonostante il suo ottimo comportamento
e le sue più che buone doti) ma costantemente sottoposto a blocchi e inibizioni, sottili negazioni
esistenziali, pressioni ricattatorie da parte di entrambi i genitori (per altro oneste persone,
problematiche ma non certo malvagie), per tutta l’esistenza dei genitori stessi, fino ad un ultimo atto
di rifiuto, sul letto di morte di entrambi, verso il soggetto ormai ampiamente adulto. In condizioni
simili (secondo l’esperienza di QUATTRO, molto frequenti) il trauma della nascita - se vi è stato è solo l’inizio di un tunnel di incubi, di frustrazioni e di dolori. Tutta la vita è un calvario senza fine,
nel quale il primo dolore non potrà mai essere sanato perché costantemente, quotidianamente,
rinnovato dai gesti di genitori spietati nel non tenere conto della sensibilità e dei bisogni dei figli.
È una ferita che non potrà mai rimarginarsi perché continuamente riaperta da gesti crudeli.
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BISOGNI E PERVERSIONI.
Questa sezione è estremamente importante e densa di spunti significativi, certamente vitali
per chiunque sia stato vittima di abusi sessuali nell’infanzia.
Tuttavia, poiché il fenomeno (sebbene molto frequente) non è generale, costante in ogni caso
di sofferenza psicologica nata nell’infanzia, QUATTRO ha deciso di non farne, nel sito,
una recensione nella presente scheda di commento al libro.
Sceglie invece di offrire a coloro che purtroppo fossero stati toccati da questa terribile esperienza,
la sua testimonianza di solidarietà mettendo a disposizione una serie di spunti per ricercare mezzi
concreti sia per studiare, sia per risolvere tale tragico problema.
La letteratura mondiale sull’argomento è sterminata e QUATTRO si scusa con i lettori
se farà riferimento a testi prevalentemente italiani. Ecco alcuni titoli:
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Malacrea, Marinella:
“Trauma e riparazione. La cura nell’abuso sessuale all’infanzia”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Carini, Angelo - Pedrocco Biancardi, Maria Teresa - Soavi, Gloria:
“L’abuso sessuale intrafamiliare: manuale di intervento”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Malacrea, Marinella - Vassalli, Alessandro:
“Segreti di famiglia. L’intervento nei casi d’incesto”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Cirillo, Stefano - Di Blasio, Paola:
“La famiglia maltrattante. Diagnosi e terapia”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Monteleone, James A.:
“Gli indicatori dell’abuso infantile. Gli effetti devastanti della violenza fisica e psicologica”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
AA. VV.:
“La violenza nascosta. Gli abusi sessuali sui bambini”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Terr, Lenore:
“Il pozzo della memoria”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Andrews, John:
“Non come papà. L’incesto rivelato da una vittima”.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
CONCLUSIONE.
Dopo questa lunga e minuziosa analisi del testo di J. K. Stettbacher, anche nella sua funzione
di manuale basilare per la tecnica di auto-aiuto, lasciamo al lettore almeno il piacere di scoprirvi
ancora qualcosa di nuovo e - QUATTRO si augura - di utile per la sua ricerca di serenità, studiando
per conto proprio i paragrafi che sopra sono stati citati ma non illustrati, ed alcuni pochi
che non sono stati indicati.
–––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––––
Buona ricerca a tutti! E, tra poco, buona fortuna nel lavoro personale di auto-aiuto!
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INDICE.
Prefazione di Alice Miller.
Introduzione.
1. LE BASI TEORICHE DELLA TERAPIA.
• Che cosa significa “psichicamente malato?”.
• Memoria.
• La malattia si traspone.
• Primariamente sano/leso/sofferente.
- Debolezza primaria.
- Schema del circuito di regolazione.
- Dissoluzione di specifici quadri di sofferenza.
- La (auto) condanna.
- Cosa cova nella paura.
2. LA TERAPIA.
• Di che cosa si tratta.
• Il terapeuta.
• Premesse per la terapia.
- Il colloquio di presentazione.
• Il lavoro terapeutico.
- Indicazioni per la terapia di base.
- L’ambiente per la terapia.
- “Schizzi di vita”.
• L’avvocato del bambino.
• I quattro passi.
• La tabella dei quattro passi.
- Osservazioni sul terzo passo terapeutico.
- Avvio di un cambiamento.
- Nota bene.
• Terapia scritta.
• La terapia di gruppo.
- Nel gruppo.
• Un paziente scrive.
• Il terapeuta scrive.
3. PERCHE’ LA TERAPIA E’ INEVITABILE.
• Come sei nato.
• Bisogni e perversioni.
• Criminalità.
• Ostilità verso la vita.
• I “guardiani della vita”.
4. INFORMAZIONI PER CHI CERCA AIUTO.
• Malattia e terapia.
• Perché gli uomini sono diventati così cattivi?
• Un’ultima lettera.
• Parto cesareo.
Postfazione alla terza edizione di Alice Miller.
Bene, hai completato la sezione “Terapia Primaria”.
Se non ti senti stanco, puoi proseguire con il punto 9 del percorso del sito,
relativo a “Altri metodi di auto-analisi”.
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