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Dalle primarie alle elezioni

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Dalle primarie alle elezioni
Dalle primarie
alle elezioni
Redazione di Washington
Le regole del gioco
Le regole della campagna elettorale americana non sono semplici. Non è un caso che
ogni quattro anni quotidiani e televisioni debbano spiegare da capo a 300 milioni di persone l’iter per eleggere il presidente e le ragioni storiche e pratiche per le quali, per esempio,
i cittadini non votano direttamente il loro leader, ma eleggono un Collegio elettorale cui formalmente tocca la scelta.
Come sempre nelle questioni americane, un grande pragmatismo è alla base anche
delle ragioni di questa procedura elettorale. L’obbligo di essere nati sul suolo americano per
potersi candidare alla presidenza, per esempio, è un residuo delle preoccupazioni dei Padri
fondatori che, dopo aver combattuto per anni per liberarsi dalla Corona britannica, non volevano correre il rischio che un ricco nobile europeo potesse sbarcare negli Usa, candidarsi
alla presidenza e usare soldi e influenza per instaurare di nuovo la monarchia.
Il pragmatismo caratterizza anche molte regole istituite in tempi recenti. I requisiti
per presentare una candidatura formale alla nomination di un partito, per esempio, sono
legati a questioni pratiche come la quantità di soldi raccolta e l’esistenza di un sito internet
indipendente e attivo. Ancora, per stabilire quando è giunto il momento di affidare un candidato alla protezione del Secret Service (servizio di sicurezza dei presidenti e vicepresidenti americani), si valutano indicatori come la posizione nei sondaggi delle maggiori reti televisive, il numero di stati in cui fa campagna elettorale e, di nuovo, la quantità di soldi raccolta (il vero fattore che indica se una campagna sta funzionando o meno).
La prima fase
Secondo la Costituzione, puo’ essere eletto presidente qualunque cittadino degli Stati
Uniti che sia nato in uno dei 50 stati, nel Distretto di Columbia (dove si trova la capitale,
Washington) o in uno dei territori americani di Guam, Porto Rico e le Isole Vergini statunitensi. Per candidarsi, occorre essere stati residenti in territorio americano negli ultimi 14
anni e avere almeno 35 anni di età. In base al XXII emendamento alla Costituzione - deciso
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sulla scia dei quattro mandati consecutivi di Franklin Delano Roosevelt - il presidente non
può restare in carica per più di due mandati consecutivi.
Dei 24 presidenti che si sono succeduti alla guida del Paese dopo George Washington
prima del 1900, sette erano stati vicepresidenti, quattro provenivano dal Congresso, quattro
erano governatori e altri nove erano ministri o capi di organismi federali. Nel XX secolo e nel
primo scorcio del XXI, a essere scelti sono stati in gran parte ex vicepresidenti, governatori
o senatori.
Considerando i 18 presidenti dell’ultimo secolo, si trovano un generale dell’esercito
(Eisenhower), due ex ministri (Taft e Hoover), sei governatori (Wilson, F. D. Roosevelt, Carter,
Reagan, Clinton e Bush figlio), due senatori (Harding e Kennedy) e sette vicepresidenti (T.
Roosevelt, Coolidge, Truman, Johnson, Ford, Nixon e Bush padre; i primi cinque hanno preso
il posto di predecessori morti o dimissionari).
La prima tappa per i candidati è solitamente la formazione di un comitato esplorativo. Fino a quando un candidato “esplora”, non ha limiti nella raccolta di fondi e può muoversi liberamente; con la candidatura vera e propria, scattano i vincoli della legge elettorale. L’aspirante presidente deve registrarsi alla Federal Election Commission (FEC), l’organismo federale che vigila sul processo elettorale, nominando un comitato incaricato di gestire
i fondi della campagna. Il comitato a sua volta entro dieci giorni deve formalizzare la propria
posizione con la FEC, indicando il candidato che appoggia, scegliendo un tesoriere, fornendo le coordinate bancarie per i propri conti e tutte le informazioni per identificare i membri
con potere di raccogliere e spendere fondi elettorali. Ogni centesimo raccolto è di dominio
pubblico: chiunque, negli Usa, ha il diritto di sapere con esattezza da chi arrivano i soldi che
sostengono un candidato, che si tratti dei contributi da decine di migliaia di dollari delle
grandi corporations o dell’assegno da due dollari di un’anziana pensionata.
Primarie e Caucus, la via per la nomination
All’inizio, i candidati alla presidenza venivano sempre scelti all’interno di una élite
politica: erano le assemblee di partito a indicare chi avrebbe tentato la scalata alla Casa
Bianca e a sottoporlo poi agli elettori.
Nel 1832, per la prima volta fu introdotta l’idea di una convention nazionale che scegliesse il candidato. Da allora la convention è diventata il momento chiave per la scelta del
candidato di un partito. Ogni stato invia i delegati all’appuntamento nazionale e questi a loro
volta votano il personaggio che si presenterà agli elettori nel voto di novembre per la Casa
Bianca.
Questo nuovo sistema ha rappresentato un primo passo per coinvolgere maggiormente la base elettorale, ma si è dovuto attendere più di un secolo per svincolare definitivamente
la convention dal controllo delle élite di partito. Nei decenni successivi al primo esperimento del 1832, infatti, la procedura per la selezione dei delegati alla convention continuava a
essere dominata in gran parte dai leader di partito.
Una nuova svolta significativa arrivò nel 1904, quando la Florida introdusse per prima
un meccanismo di elezioni “primarie”. L’apparato partitico, però, continuò a mantenere il
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controllo della situazione e, per molti altri cicli elettorali, i candidati più forti ignorarono
spesso le primarie, che venivano disputate solo in pochi stati. La stragrande maggioranza dei
delegati continuava a venir selezionata attraverso complessi giochi di partito a livello locale.
Solo con le elezioni del 1952 le primarie cominciarono ad acquistare spessore e, otto anni
dopo, John F. Kennedy offrì una tale prova di forza nelle primarie da strappare la nomination. Da allora il voto popolare cominciò ad assumere pienamente il peso che ha oggi nella
scelta dei delegati e, quindi, nella selezione del candidato presidente di un partito.
Il voto per eleggere i rappresentanti alla convention è caratterizzato da un calendario
ormai divenuto tradizione, con un importante momento d’apertura dell’anno elettorale a gennaio in Iowa, seguito dal voto in New Hampshire (dal 2008, i democratici hanno inserito il
Nevada tra le due scadenze), poi da un “supermartedì” con il voto in una molteplicità di
stati. A marzo, se non già a febbraio, molto spesso i giochi sono fatti e, uno dopo l’altro, si
ritirano dalla competizione i candidati più deboli, lasciando spazio a chi emergerà come il
vincitore. Quando si arriva all’estate e alle convention, ogni partito si è già coalizzato da mesi
dietro un candidato unico e la mega-assemblea diviene più una kermesse e una prova di
forza, che non un momento elettorale vero e proprio.
I metodi per l’elezione dei candidati sono diversi tra i vari stati: in Iowa, in Nevada e
in altri si ricorre al caucus, una sorta di assemblea popolare che segue complessi riti da
democrazia “di villaggio”, mentre il New Hampshire e buona parte degli altri stati utilizzano elezioni vere e proprie, con voto segreto e seggi analoghi a quelli delle elezioni generali
di novembre. Le primarie, inoltre, possono essere “aperte” o “chiuse”. Nel primo caso, a
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votare per i candidati di un partito può essere solo chi è registrato per quel partito; nel secondo caso, ogni persona con diritto di voto può pronunciarsi sulla scelta dei candidati di qualsiasi schieramento. Non va peraltro dimenticato che negli Stati Uniti gli elettori esprimono
prima ancora del voto il loro orientamento politico, registrandosi come repubblicani, democratici o indipendenti.
I delegati e la convention
Primarie e caucus servono, quindi, per scegliere i delegati alla convention, che a loro
volta voteranno il candidato presidente di un partito. La ripartizione dei delegati per stati
segue modalità “da emicrania”, per cui ci limitiamo alle linee essenziali.
Innanzitutto, democratici e repubblicani usano metodi diversi. Il Partito democratico
distribuisce i delegati e gli alternates (le riserve) secondo una formula basata sulla popolazione degli stati, le dimensioni dei collegi elettorali, il numero di voti per candidati democratici alle precedenti elezioni presidenziali. Vengono poi aggiunti altri
delegati per cinque circoscrizioni che non partecipano al voto presidenQuando si arriva ziale: Samoa Americane, Democratici all’estero, Guam, Porto Rico e Isole
all’estate e alle Vergini. Inoltre, posti da delegato sono riservati a leader di partito, ex
convention, ogni esponenti di governo e a tutti i membri democratici di Camera e Senato.
partito si è già I delegati sono divisi in due grandi categorie: i pledged delegates, che
coalizzato da mesi sono vincolati a sostenere un particolare candidato, e gli unpledged deledietro un candidato gates, che invece non hanno vincoli; entrambi i gruppi sono poi divisi in
unico e la mega- ulteriori categorie. La stragrande maggioranza dei delegati è vincolata a
assemblea diviene scegliere il candidato emerso come il vincitore di primarie e caucus, menpiù una kermesse e tre i delegati svincolati sono in buona sostanza i membri del Congresso, i
una prova di forza, governatori e altri esponenti di primo piano del partito.
che non un
In casa repubblicana vengono assegnati tre delegati per ogni circomomento elettorale scrizione del Congresso, più sei delegati per ogni stato. Inoltre, vengono
vero e proprio. decisi delegati supplementari (bonus) in base ai voti repubblicani nello
stato alle precedenti elezioni per la scelta di Presidente, membri di
Camera e Senato e governatore, mentre altri delegati vengono indicati dal partito per le giurisdizioni minori.
Bonus sono inoltre assegnati a quegli stati che hanno disputato le loro primarie dopo
la metà di marzo, cioè quando i giochi sono di solito già fatti, con i bonus maggiori per le
primarie celebrate a maggio o giugno dell’anno elettorale.
I numeri che emergono da questi meccanismi di scelta fanno delle convention un
evento di dimensioni gigantesche. Alla convention dei repubblicani nel 2004, al Madison
Square Garden di New York, erano presenti 2.509 delegati e 2.344 alternates. I democratici selezionano in genere oltre 4.300 delegati e circa 600 alternates. Piccoli eserciti chiamati, però, almeno negli ultimi decenni, a poco più che gridare, incitare i candidati e ratificare una scelta già decisa.
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La Storia si decide di martedì
Le convention per tradizione si esauriscono tra agosto e i primi giorni di settembre.
Subito dopo iniziano i due mesi frenetici della volata finale. I candidati dei due schieramenti
si lanciano in un tour de force elettorale, visitando più volte soprattutto gli stati indecisi, che
possono fare la differenza nel voto. È anche il periodo in cui si svolgono i dibattiti televisivi
tra i due sfidanti, diventati una tradizione e una tappa di grande importanza fin da quando,
nel 1960, Kennedy diede una svolta decisiva alla propria campagna elettorale, uscendo da
trionfatore da un dibattito contro Richard Nixon.
Il traguardo finale è il martedì successivo al primo lunedì di novembre: l’Election Day.
La scelta di votare di novembre e di martedì ha sue ragioni storiche e pratiche. Fin dai tempi
del Continental Congress, la prima assemblea dei nascenti Stati Uniti, il periodo di attività
politica era l’inverno, per non costringere i rappresentanti a lasciare l’attività nei campi. Nel
1792, venne deciso che le elezioni presidenziali dovevano tenersi a novembre, così da avere
abbastanza tempo per contare i voti prima dell’inaugurazione del nuovo Congresso a gennaio. Dal 1845, divenne legge il voto il primo martedì di novembre, con l’eccezione del 1°
novembre per rispettare la festività cattolica di Ognissanti. Il motivo della scelta del martedì
come Election Day è legato all’epoca pre-rivoluzione industriale, in cui a una larga parte
degli elettori occorreva un giorno di viaggio per recarsi al luogo del voto nei grandi spazi
dell’America. Essendo la domenica destinata al riposo, si pensò di utilizzare il lunedì per gli
spostamenti, così che tutti potessero raggiungere i seggi per il martedì.
Il voto avviene su ballots, schede elettorali utilizzate con meccanismi diversi da stato
a stato, ma anche da contea a contea. In alcuni luoghi si vota tirando leve su un’apposita
macchina elettorale, in altri si deve toccare uno schermo elettronico. Le famigerate “schede a farfalla” della contea di West Palm Beach, in Florida, sono passate alla storia per aver
provocato uno stallo nelle elezioni del 2000: la punzonatura delle schede risultò difettosa e
fu la Corte Suprema di Washington, dopo settimane, ad assegnare la vittoria a George W.
Bush contro Al Gore.
In realtà, gli elettori non scelgono direttamente il presidente, ma eleggono i membri
di un Collegio elettorale: le elezioni americane sono, infatti, indirette e, formalmente, il leader non è scelto direttamente. Sulla scheda, però, compaiono i nomi dei candidati, con l’indicazione dei delegati che li sostengono e, in pratica, l’elettore può così scegliere il proprio
candidato. Dal 1964, il Collegio elettorale si compone di 538 membri ed è necessaria una
maggioranza di 270 voti per eleggere il presidente. I membri del Collegio si riuniscono a
Washington 41 giorni dopo il martedì elettorale con regole, anche questa volta, complesse.
Nel caso mancasse per qualche motivo la maggioranza, spetta alla Camera votare il presidente (è accaduto solo nel 1800 e nel 1824) e ha tempo per farlo fino a mezzogiorno del
20 gennaio, giorno e ora in cui è fissato il giuramento del nuovo presidente degli Stati Uniti.
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